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Cooperativa Migros Ticino
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXII 31 dicembre 2018
Azione 01 pping o h s M 7 gina 2 a p a l l a
Società e Territorio Il nuovo saggio di Eleonora Benecchi: una riflessione sulle nuove forme di scrittura e di diffusione di contenuti digitali
Ambiente e Benessere Una stazione di ricerca sulle montagne della Furka studia la particolare ricchezza della sua biodiversità
Politica e Economia L’era di Angela Merkel è al tramonto ma c’è sempre un’alternativa per la Germania
Cultura e Spettacoli La nuova stagione dell’OSI si riapre nell’Auditorium RSI e con la viola di Yuri Bashmet
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Keystone
Felice anno nuovo!
Europa, anno spartiacque di Peter Schiesser Forse mai come oggi, negli ultimi decenni, si può affermare che il 2019 sarà un anno cruciale per l’Europa e per i paesi che la compongono, Svizzera compresa, proprio per i rapporti che ci legano all’Unione europea. Sarà un anno spartiacque. Guardiamoci attorno: con i gilets jaunes la Francia vive una crisi inaspettata, una rivolta popolare che neppure i (partiti) populisti hanno saputo prevedere e tantomeno cavalcare. La rivolta contro l’aumento dei prezzi dei carburanti voluto dal governo (e dopo le feroci proteste per ora congelato), come in passato il popolo si rivoltava contro l’aumento del prezzo del pane, ha colto di sorpresa e fatto paura al governo. È l’antico riflesso francese, la spinta anarchico-rivoltosa contro i propri regnanti? Non dobbiamo riandare alla presa della Bastiglia, oltre due secoli fa, per ritrovare delle tenaci proteste popolari che paralizzano il paese e il governo. Ma in questo 2018 va sottolineata una particolarità: un governo nato sull’onda di un movimento, quello di Macron, che ha sbaragliato i partiti tradizionali in perdita di credibilità come pure la destra populista del Front National di Marine Le
Pen, subisce la pressione di una protesta popolare senza strutture e capi rappresentativi. Un malcontento che investe una forza antisistema che non è riuscita a generare una politica credibile. E questo è un brutto segnale per le istituzioni francesi, foriero di instabilità politica anche nell’anno nuovo. Per contro, in Germania le istituzioni restano solide, ma, come scrive Caracciolo a pagina 16, torna ad aleggiare un certo spirito di Weimar: i due partiti storici, Spd e Cdu-Csu, sono in caduta libera di consensi, non riescono quasi più a creare maggioranze, inoltre il paese è scivolato nel crepuscolo del cancellierato Merkel senza che all’orizzonte si ergano figure o forze in grado di raccoglierne l’eredità, mentre un inquietante rigurgito di nazionalismo con echi che si vorrebbero dimenticati si riaffaccia alla quotidianità del paese più importante dell’Unione europea. Ad udirli, quegli echi assomigliano un po’ a quelli che in Italia si odono nei palazzi del governo e del parlamento: qui le istituzioni sono indebolite da tempo, il paese è abituato ad arrangiarsi da solo, a non contare su chi comanda; tuttavia la tendenza a governare per decreto, affidandosi all’uomo forte, con toni bellicosi (verso gli stranieri, verso l’Europa), le rende ancora
più fragili, passibili di sovvertimento. E l’attuale uomo forte italiano, Matteo Salvini, ha in mente proprio questo, ma anche qualcosa in più: il sovvertimento degli attuali equilibri politici nell’Ue. Vista la costellazione attuale in vari paesi europei, non è detto che il disegno di Salvini non riesca: lo sapremo in maggio, con le elezioni per il parlamento europeo. Sapremo se le attuali istituzioni e la coesione dell’Unione (oggi già messe alla prova da Polonia e Ungheria che di fatto non riconoscono più valori fondamentali come l’indipendenza della giustizia e la libertà d’espressione) resisteranno a questa nuova onda d’urto. Questo, mentre la Gran Bretagna si avvicina al baratro di una hard Brexit (v. Cazzullo, pag. 18), ciò che non mancherà di sollevare qualche onda anche all’interno dell’Ue. E poi ci siamo noi. Il nostro interrogativo cruciale è: sì o no all’accordo quadro istituzionale con l’Unione europea. ossìa: sì o no alla Via bilaterale. Non è poco. Ma attualmente non sembrano esserci una grande consapevolezza della posta in gioco. In questo assomigliamo ai cugini europei, molti dei quali non sembrano consci dei pericoli che stanno correndo i singoli paesi e le istituzioni europee. Questa la base di partenza, tuttavia la partita non è persa in partenza.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 31 dicembre 2018 • N. 01
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 31 dicembre 2018 • N. 01
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Società e Territorio Ridere per vivere L’associazione dei Clown Dottori che opera in aiuto di persone malate o con difficoltà sociali ha ricevuto quest’anno un sostegno dalla Commissione culturale del Consiglio di Cooperativa di Migros Ticino
Il Ticino dei cineamatori Il portale di storia partecipativa lanostrastoria.ch ha pubblicato tutte le antologie di filmati amatoriali e video privati custodite nelle Teche della RSI
La terapia del sorriso
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Associazioni «Ridere per vivere» aiuta persone di tutte le età a curarsi con le emozioni positive
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Sara Rossi Guidicelli Bolle di sapone in una corsia d’ospedale. Balli in casa anziani. Gare di smorfie. Clown mano nella mano di pazienti, che raccontano la propria vita. Sorrisi delicati, allegria contro malattia. «Ridere per vivere» è il nome dell’associazione ticinese, parte della Federazione Internazionale Ridere per Vivere. I Clown Dottori sono operatori professionali che agiscono attraverso le arti della clowneria (comicità, umorismo, prestidigitazione, improvvisazione teatrale, musica, burattini, e altre meraviglie) per mutare segno alle emozioni negative delle persone che si trovano in difficoltà di tipo sanitario e sociale. Si chiama comicoterapia, e più precisamente gelotologia, cioè la relazione tra il ridere, le emozioni positive e la salute delle persone. I Clown Dottori vestono camici colorati, si aggirano per le corsie di un ospedale, per le case anziani, nelle carceri, nei centri diurni, nelle scuole, nelle strutture che glielo chiedono, con strumenti musicali, finte siringhe gigantesche, nasi rossi e tanta voglia di ascoltare. Si chiamano Dottor Imprevisto, Paciugo, Salsa, Contino, La Si Fa, Dottoresse Mentina, Carolina, Caramella, Arcobaleno, Pashmina, Giramondo, Pasticcino, Mirtilla, Molletta, Marachella. «Ai clown si può dire tutto», mi confidano con orgoglio le presidenti dell’Associazione Antonella Ficari e Vanna Maffeis. «Si lavora a stretto contatto con l’équipe sanitaria e ogni nostro intervento è preceduto da momenti informativi con il personale del reparto, in modo da poter scegliere il tipo di intervento più adeguato per i singoli bambini o adulti: l’intervento del Clown Dottore non si può mai ripetere, perché ogni persona e ogni momento sono diversi». La formazione che ricevono gli operatori è molto specifica perché si tratta di un lavoro estremamente delicato, con forti rischi di burn out se non si è adeguatamente preparati. È fondamentale, quindi, che chi lavora come Clown Dottore faccia un percorso completo. «Prima di tutto ci si occupa di andare a ripescare la parte giocosa che sta in noi fin dalla nascita ma che dopo l’infanzia a volte tendiamo a nascondere... e poi segue
Le storie nel mondo digitale
Pubblicazioni Dalla fanfiction al copyright,
come ci cambia il passaggio al digitale, nelle riflessioni di Eleonora Benecchi
Natascha Fioretti Per il libro di Eleonora Benecchi edito da Bompiani, Di chi è questa storia? avrei scelto un titolo diverso. Più lo rileggo, più mi rendo conto che il suo saggio va molto al di là di una pura riflessione sulle nuove forme di scrittura, rielaborazione e diffusione di contenuti digitali con tutte le dinamiche partecipative e interattive del caso. Il suo in realtà è un lavoro profondamente attuale che ci rende attenti al passaggio tra mondo tradizionale e mondo digitale nel quale non solo la cultura come l’abbiamo sempre conosciuta, fino a qualche anno fa, non è più la stessa. Anche noi utenti, consumatori e fruitori siamo profondamente diversi nella nostra comprensione della realtà e nel nostro rapporto con essa che sia culturale, digitale o altro. Arrivo subito al dunque e cioè al primo capitolo in cui si racconta la storia di Juliana Restrepo, una giovane donna di Medellin, Colombia, protagonista di un video. Juliana prende l’autobus, gira per la città, va a fare la spesa e tutto questo indossando una versione molto avanzata dei Google Glass attuali che le consentono di vivere totalmente immersa in una realtà aumentata. Nel corto Hyper-Reality di Keiichi Matsuda, film maker che da tempo indaga le potenzialità della Realtà Aumentata come tecnologia che integra luoghi fisici e virtuali a partire dalla percezione e dall’interazione umana, il bus e la città sembrano dei giganteschi videogiochi con continui suoni, colori, sollecitazioni visive che stordirebbero chiunque. Il film maker britannico di origini giapponesi si immagina un mondo futuro dove tutti viaggiano con una sorta di supporto ottico per cui non si vede più il mondo nella sua veste reale ma aumentato dalla tecnologia. Ci dice di più la docente di Culture digitali e Social media management all’Istituto di media e giornalismo dell’USI: «questa immaginaria Jiuliana mentre è sul bus riceve tutta una serie di informazioni negative su delle offerte di lavoro alle quali aveva risposto. A questo punto controlla il suo status nel-
la realtà aumentata, uno status determinato da una serie di numeri acquisiti facendo la spesa, comprando certi tipi di prodotti, ecc. Nel mondo aumentato l’essere umano viene catalogato in base alla sua produttività e simpatia digitale, il resto non conta. A questo punto Juliana ha una crisi di identità perché si accorge di occupare un posto molto basso nel ranking digitale. Rivolge allora a Google domande del tipo: chi sono? Dove vado? E il motore di ricerca risponde “Sei Juliana Restrepo, hai tot anni e stai percorrendo un tragitto che ti porta da qui a qui”. Dunque se da un lato la tecnologia aumenta infinitamente le potenzialità della realtà, dall’altro non è in grado di rispondere alle domande identitarie ed esistenziali dei suoi utenti». Per fortuna. Ma i problemi per Juliana Restrepo non finiscono qui: la giovane subisce un attacco hacker e la sua identità fluida le viene rubata, tutti i suoi punti azzerati in un batter d’occhio. Juliana in preda ad un attacco d’ansia, deve resettare tutto e costruirsi una nuova identità digitale. In questa fase del corto, che poi è la parte finale, per un attimo svaniscono tutti gli effetti digitali e la realtà vera si presenta nuda e cruda senza orpelli di sorta. «Quella di Keiichi Matsuda naturalmente è una critica sociale ma il suo intento non è quello di dire che la tecnologia sia un male, piuttosto vuole evidenziare quanto sia importante discutere del nostro futuro, chiederci se questa è la realtà ipertecnologizzata che vogliamo». Tra le varie questioni che nel saggio emergono a proposito del passaggio tra mondo tradizionale e mondo digitale, con i cambiamenti e le conseguenze del caso, parlando in particolare del genere fanfiction e di piattaforme di pubblicazione come Wattpad, Eleonora Benecchi solleva la questione della proprietà intellettuale. Innanzitutto, perché porre l’accento sulla fanfiction, in che modo è rilevante in questo discorso? «La fanfiction non è nata con Internet, esisteva già da prima, ma con la Rete e le sue dinamiche ha vissuto una vera e propria esplosione. Per fare un esempio sulle sue origini mi
una formazione professionale mirata a operare in quei contesti». L’associazione «Ridere per vivere» quest’anno ha ricevuto un sostegno dalla Commissione culturale del Consiglio di Cooperativa di Migros Ticino, per contribuire alla realizzazione di un nuovo sito web, dove si possono seguire le sue attività e appunto la formazione, alla quale tengono in modo particolare. I progetti che vi si leggono sono molti; uno dei più belli propone una serie di incontri dei Clown Dottori nelle scuole e si chiama «Ridere senza solletico». «Il clown ha il permesso di vivere tutte le sue emozioni e di esternarle, anche esagerandole. Ecco perché è una figura ideale per parlare, affrontare, sperimentare le emozioni che tutti noi proviamo». Un altro progetto è stato avviato a Casvegno, nella Casa Edera. «Siamo entrati in punta di piedi e con timore», raccontano i tre «dottori», di cui uno musicista, che si sono recati in questa ala del centro sociopsichiatrico di Mendrisio. «Ancora una volta, pur se in un contesto nuovo, abbiamo potuto assistere al cambiamento che avviene quando entriamo in luoghi di dolore e disagio dove l’amore e l’ascolto, il sorriso e il buonumore fanno scaturire quella scintilla vitale che allontana la sofferenza, lavorando sulla parte sana della persona. Abbiamo visto riaffiorare ricordi e sono emerse nuove consapevolezze, ridando potere e dignità». Dottor Scricciolo, al secolo Stefano Scricciolo, ha seguito i corsi per poter agire prima come Volontario del sorriso, poi Clown Dottore. «Lavoro nel settore della vendita, ho 48 anni, una moglie, due figlie piccole. Mi occupo di marketing, soldi, merci, ma fin da giovane ho una “vena sociale” che sentivo sempre più il bisogno di sviluppare, andando verso il mondo del volontariato. Mie situazioni personali difficili mi hanno portato a vivere da vicino il grigiore della malattia, della preoccupazione e dei corridoi di un ospedale. Ho capito ancora meglio quanto ogni nota di colore può essere d’aiuto in quei momenti e appena ho sentito parlare della possibilità di formarsi per fare il Volontario del Sorriso, mi si è accesa una scintilla e mi sono iscritto». Ha studiato materie come psicologia nella relazione d’aiuto, geloto-
I Clown Dottori lavorano a stretto contatto con l’équipe sanitaria. (Ridere per vivere)
logia, improvvisazione teatrale, arte del clown e del volontariato, trucco e costume. «Questa formazione organizzata da “Ridere per Vivere” insegna che bisogna sdrammatizzare le pratiche sanitarie in modo rispettoso, perché fa bene: è provato che la risata e la gioia aiutano nel processo di guarigione e anche nel vivere meglio le cure palliative». Si ride di fronte a una realtà distorta, a qualcosa che non ci si aspetta: qualcuno che inciampa, prende una sedia dal verso sbagliato e cade mentre cerca di sedersi, se non si fa male fa ridere; anche sbagliare qualcosa, esagerare, parodiare, possono provocare il riso. Lo stupore, la sorpresa, il cambio di prospettiva: tutto questo, insieme alle terapie e a tanto amore, sono gli ingredienti per una vita migliore. Diventato Volontario, Scricciolo ha iniziato ad affiancare i Clown Dottori già formati: sono partiti con il loro camice e la loro valigia, hanno discusso con gli operatori del luogo in cui andavano a intervenire e hanno bussato. «Bisogna sempre chiedere il permesso, la cosa più importante è il rispetto. C’è chi non ha voglia di essere disturbato e può dirci di no, anche i bambini. Dobbiamo trattare le persone come persone e non come malati, dobbiamo occuparci della loro parte sana, la più viva che hanno». Giusy dottoressa APina dice così:
«Le emozioni che provo quando metto il naso rosso sono tante, non è facile descriverle: la voglia di dare un attimo di serenità a chi ne ha bisogno; sentirsi felice quando una persona che ha perso la vista ti riconosce dall’odore dei tuoi capelli; o quella signora che ti aspetta segnando sul calendario il giorno che ritornerai dopo le vacanze di Natale; e quelle che ti abbracciano quando ti vedono ogni venerdì e ti chiedono se sarai con loro la sera dedicata ai parenti perché vogliono condividere con te quel momento di felicità e di amore considerandoti parte della famiglia». A volte si agisce anche sulla cerchia di parenti, sul personale curante. Da loro anche arrivano molti messaggi ai Clown Dottori, per quel sorriso rispuntato che al paziente mancava da un pezzo, per la speranza che ha trovato una strada più corta per tornare, o semplicemente per quel momento di gioia trascorsa. «Si entra in stanza col naso rosso ma con occhi e orecchie spalancate», aggiunge ancora Vanna Maffeis, Dottoressa Svampita. «Mi piace perché si prende spunto da qualsiasi cosa, una parola, un fiore, una canzone. Anche dal mal di pancia. Mi piace perché si chiacchiera e a volte il male passa mentre ci facciamo raccontare un episodio della loro vita, tenendo la mano sulla pancia dolorante; poi distribuiamo fi-
lastrocche buffe per far passare i mali, facciamo una carezza sulla schiena indolenzita, una visita con l’imbuto al posto dello stetoscopio per aspirare i pensieri negativi, distribuiamo infusioni di coraggio e felicità e il tempo vola e tu vorresti stare ancora un po’». Dottor Scricciolo sorride, mentre descrive cosa sia per lui il volontariato: «Credo che si facciano queste cose innanzitutto per se stessi. Quando fai un intervento così, è bello e arricchente per te. Ti rendi conto che in quel momento sei tu quello dei due che ha più energia e che puoi sfruttarla strappando un sorriso a qualcuno, facendogli un complimento, tendendogli la mano. Su questa terra non siamo qui solo per guadagnare e spendere; abbiamo altri bisogni oltre a quelli primari. E uno di questi è l’empatia, che ti fa sentire meno solo al mondo. È come una persona che deve cantare la sua canzone: è così e basta. I bambini lo fanno sempre: quando hanno bisogno di cantare, cantano, stonati o non stonati, a squarciagola o sottovoce. Lo fanno gratis, senza sentirsi bravi. Ecco, secondo me il volontariato è così: è quella canzone che hai dentro e che canti». Informazioni
www.riderepervivere.ch
Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Le piattaforme di pubblicazione come Wattpad hanno aperto nuove possibilità di commercializzare la propria storia. (Marka)
piace citare il racconto dei Janeites di Rudyard Kipling che racconta di questi soldati al fronte, fan di Jane Austen, ai quali, come forma di terapia psicologica per sopravvivere, viene suggerito di riscrivere le storie e reinterpretare i personaggi dell’autrice inglese. Jane Austen all’epoca era il fenomeno letterario per eccellenza, altro che Twilight». Per darvi un’idea, nel racconto di Kipling, uno dei personaggi dice «Credetemi, fratelli, non c’è nessuno pari a Jane quando ti trovi in una brutta situazione. Dio la benedica, chiunque sia stata». Ecco dunque il mondo della fanfiction fatto di fan che adorano una determinata storia e i suoi personaggi e conoscono ogni dettaglio dell’opera e dell’autore in questione. Riponendo l’accento sulla questione del copyright, chiediamo a Eleonora Benecchi che cosa è cambiato nelle fanfiction e nei fandom una volta appro-
dati in Rete? «I fandom si sono aperti, sono diventati più numerosi e diffusi nel mondo e mentre prima c’era bisogno della compresenza fisica ora si può comunicare in differita stando all’altro capo del mondo. C’è una maggiore accessibilità, in un fandom non si entra più su invito, basta mettersi in contatto su Fb o sul sito. Parallelamente, se un tempo i fan acquisivano uno status all’interno della comunità in base alla loro conoscenza del prodotto culturale in questione, oggi i giovani hanno un approccio diverso, più orientato agli scambi e alla creazione di eventi. Mentre è diventato più facile, dinamico e veloce scrivere e condividere contenuti, trovare piattaforme e sorte di archivi digitali dove condividere e diffondere. Una di queste è Wattpad, che nel bene e nel male, ha veramente cambiato il formato, il senso e, forse, anche l’obiettivo di scrivere fanfiction. Possiamo subito
dire che su Wattpad non conta la capacità di scrittura o la qualità della storia ma solo la fama numerica. E mentre le fanfiction tradizionali erano intese come un dono alla propria comunità di riferimento, Wattpad offre la possibilità di commercializzare la propria storia e di trovare un editore con tutti i problemi che derivano dall’uso di ambienti e personaggi già usati da altri». E arriviamo al nodo della questione, il tema dei diritti che, ai tempi di internet, vede contrapposte due idee di proprietà intellettuale «una più libera dove la rielaborazione è incentivata e una più tradizionalista dove si intende mantenere un’idea di cultura circoscritta fatta di oggetti. E qui emerge tutto il carattere irriverente della fanfiction, per cui da alcuni è vista come un nuovo genere esploso in Rete, da altri come una sorta di sfruttamento della proprietà intellettuale».
Rachel Bright-Jim Field, Un giorno da Koala, Zoolibri. Da 4 anni Anno nuovo, vita nuova: questo albo illustrato è un invito a uscire dalla propria «comfort zone» e a percorrere strade nuove. L’incipit – grazie all’ottima traduzione di Zoolibri – suona scherzosamente epico: «In un luogo magnifico, allo spuntare dell’alba, quando la brezza è lieve e la luce del sole calda, un luogo dove le creature corrono selvagge e giocano libere... un koala di nome Cesare se ne sta attaccato a un albero.» Ed eccolo, voltando pagina, il morbido orsetto che ama la vita tranquilla in cima al suo albero, dove si sente al sicuro, masticando foglie e pisolando in pace. Giù a terra è tutto troppo veloce e rumoroso, tutti quei canguri, quei dingo, quegli altri animali che corrono e strillano gli fanno paura, anche se continuamente lo invitano a giocare. Lui rifiuta sempre: in fondo, forse, non gli dispiacerebbe unirsi a loro, almeno qualche volta, ma restare
aggrappato al suo albero è la scelta più facile e meno rischiosa. A Cesare sembra di non poter lasciarsi andare, e invece alla fine della storia scoprirà di poterlo fare, e anzi di poter fare tante cose che si precludeva perché pensava di non esserne capace. Le illustrazioni di questo libro sono fondamentali, in quanto alternano campi lunghi e primi piani, cambi di inquadratura che conferiscono molto ritmo, ben seguito dall’andamento della scrittura: nei campi lunghi vediamo da lontano l’albero con il koala aggrappato e ciò che succede sotto, in
continuo mutamento, nell’alternarsi delle stagioni. I primi piani ci portano invece vicinissimi al koala, sull’albero con lui, a condividere le sue paure. È come se noi lettori ci spostassimo continuamente dentro questa storia (a un certo punto dovremo addirittura girare in verticale il libro), che un po’ ci tiene con il fiato sospeso... come farà Cesare a staccarsi dal suo albero? Per tutti quei bambini che preferiscono starsene in disparte perché hanno un po’ paura di «buttarsi» in mezzo agli altri, ecco una piccola e coinvolgente storia degli autori del fortunatissimo Un leone dentro. Anche in questo caso, dedicata a tutti coloro che hanno bisogno di tirar fuori un proprio gioioso, gentile ma deciso, ruggito. Valentina Camerini, 365 fatti straordinari per sorprendere gli amici, De Agostini. Da 8 anni Una sorta di «forse non tutti sanno che» (storica rubrica della «Settimana Enigmistica») a misura di ragazzini
del terzo millennio, in un vivace volume illustrato che annovera 365 fatti straordinari, uno per ogni giorno del nuovo anno, per non restare neanche un giorno a corto di notizie con le quali, come recita il titolo, sorprendere gli amici. In realtà la cosa che più conta è sorprendere se stessi, leggendo questi 365 capitoletti divulgativi e interessanti, e farsi venire voglia di approfondire le informazioni, suscitando nuovi interessi e curiosità. Storia, zoologia, botanica, fisica, archeologia, sismologia, geografia, e altre scienze ancora ci raccontano questi «fatti straordinari»,
che ci portano per esempio a meravigliarci per il fatto che le piante comunicano tra loro, che sul fondo dell’oceano corrono chilometri e chilometri di cavi, che i primi giornali risalgono al 59 a.C. e si chiamavano Acta diurna, che il Sauroposeidon era un dinosauro che raggiungeva i 18 metri di altezza... Le notizie a volte sono leggere (come quella della nobile veneziana Teodora che nel 1070 fece la figura della maleducata perché osò mangiare con la forchetta invece che con le mani; o come quella del falco che scaccia i piccioni sopra i campi tennistici di Wimbledon), a volte invece più profonde (si parla anche di fatti come, ad esempio, l’assedio di Leningrado o la ribellione di Rosa Parks al razzismo), ma sempre vengono proposte con brevi e agili testi, a cura di Valentina Camerini. Un volume da spilluzzicare qua e là, o da leggere dall’inizio alla fine, per non perdere mai una delle più preziose attitudini dei bambini: l’attitudine alla meraviglia.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 31 dicembre 2018 • N. 01
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 31 dicembre 2018 • N. 01
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Società e Territorio Ridere per vivere L’associazione dei Clown Dottori che opera in aiuto di persone malate o con difficoltà sociali ha ricevuto quest’anno un sostegno dalla Commissione culturale del Consiglio di Cooperativa di Migros Ticino
Il Ticino dei cineamatori Il portale di storia partecipativa lanostrastoria.ch ha pubblicato tutte le antologie di filmati amatoriali e video privati custodite nelle Teche della RSI
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Associazioni «Ridere per vivere» aiuta persone di tutte le età a curarsi con le emozioni positive
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Sara Rossi Guidicelli Bolle di sapone in una corsia d’ospedale. Balli in casa anziani. Gare di smorfie. Clown mano nella mano di pazienti, che raccontano la propria vita. Sorrisi delicati, allegria contro malattia. «Ridere per vivere» è il nome dell’associazione ticinese, parte della Federazione Internazionale Ridere per Vivere. I Clown Dottori sono operatori professionali che agiscono attraverso le arti della clowneria (comicità, umorismo, prestidigitazione, improvvisazione teatrale, musica, burattini, e altre meraviglie) per mutare segno alle emozioni negative delle persone che si trovano in difficoltà di tipo sanitario e sociale. Si chiama comicoterapia, e più precisamente gelotologia, cioè la relazione tra il ridere, le emozioni positive e la salute delle persone. I Clown Dottori vestono camici colorati, si aggirano per le corsie di un ospedale, per le case anziani, nelle carceri, nei centri diurni, nelle scuole, nelle strutture che glielo chiedono, con strumenti musicali, finte siringhe gigantesche, nasi rossi e tanta voglia di ascoltare. Si chiamano Dottor Imprevisto, Paciugo, Salsa, Contino, La Si Fa, Dottoresse Mentina, Carolina, Caramella, Arcobaleno, Pashmina, Giramondo, Pasticcino, Mirtilla, Molletta, Marachella. «Ai clown si può dire tutto», mi confidano con orgoglio le presidenti dell’Associazione Antonella Ficari e Vanna Maffeis. «Si lavora a stretto contatto con l’équipe sanitaria e ogni nostro intervento è preceduto da momenti informativi con il personale del reparto, in modo da poter scegliere il tipo di intervento più adeguato per i singoli bambini o adulti: l’intervento del Clown Dottore non si può mai ripetere, perché ogni persona e ogni momento sono diversi». La formazione che ricevono gli operatori è molto specifica perché si tratta di un lavoro estremamente delicato, con forti rischi di burn out se non si è adeguatamente preparati. È fondamentale, quindi, che chi lavora come Clown Dottore faccia un percorso completo. «Prima di tutto ci si occupa di andare a ripescare la parte giocosa che sta in noi fin dalla nascita ma che dopo l’infanzia a volte tendiamo a nascondere... e poi segue
Le storie nel mondo digitale
Pubblicazioni Dalla fanfiction al copyright,
come ci cambia il passaggio al digitale, nelle riflessioni di Eleonora Benecchi
Natascha Fioretti Per il libro di Eleonora Benecchi edito da Bompiani, Di chi è questa storia? avrei scelto un titolo diverso. Più lo rileggo, più mi rendo conto che il suo saggio va molto al di là di una pura riflessione sulle nuove forme di scrittura, rielaborazione e diffusione di contenuti digitali con tutte le dinamiche partecipative e interattive del caso. Il suo in realtà è un lavoro profondamente attuale che ci rende attenti al passaggio tra mondo tradizionale e mondo digitale nel quale non solo la cultura come l’abbiamo sempre conosciuta, fino a qualche anno fa, non è più la stessa. Anche noi utenti, consumatori e fruitori siamo profondamente diversi nella nostra comprensione della realtà e nel nostro rapporto con essa che sia culturale, digitale o altro. Arrivo subito al dunque e cioè al primo capitolo in cui si racconta la storia di Juliana Restrepo, una giovane donna di Medellin, Colombia, protagonista di un video. Juliana prende l’autobus, gira per la città, va a fare la spesa e tutto questo indossando una versione molto avanzata dei Google Glass attuali che le consentono di vivere totalmente immersa in una realtà aumentata. Nel corto Hyper-Reality di Keiichi Matsuda, film maker che da tempo indaga le potenzialità della Realtà Aumentata come tecnologia che integra luoghi fisici e virtuali a partire dalla percezione e dall’interazione umana, il bus e la città sembrano dei giganteschi videogiochi con continui suoni, colori, sollecitazioni visive che stordirebbero chiunque. Il film maker britannico di origini giapponesi si immagina un mondo futuro dove tutti viaggiano con una sorta di supporto ottico per cui non si vede più il mondo nella sua veste reale ma aumentato dalla tecnologia. Ci dice di più la docente di Culture digitali e Social media management all’Istituto di media e giornalismo dell’USI: «questa immaginaria Jiuliana mentre è sul bus riceve tutta una serie di informazioni negative su delle offerte di lavoro alle quali aveva risposto. A questo punto controlla il suo status nel-
la realtà aumentata, uno status determinato da una serie di numeri acquisiti facendo la spesa, comprando certi tipi di prodotti, ecc. Nel mondo aumentato l’essere umano viene catalogato in base alla sua produttività e simpatia digitale, il resto non conta. A questo punto Juliana ha una crisi di identità perché si accorge di occupare un posto molto basso nel ranking digitale. Rivolge allora a Google domande del tipo: chi sono? Dove vado? E il motore di ricerca risponde “Sei Juliana Restrepo, hai tot anni e stai percorrendo un tragitto che ti porta da qui a qui”. Dunque se da un lato la tecnologia aumenta infinitamente le potenzialità della realtà, dall’altro non è in grado di rispondere alle domande identitarie ed esistenziali dei suoi utenti». Per fortuna. Ma i problemi per Juliana Restrepo non finiscono qui: la giovane subisce un attacco hacker e la sua identità fluida le viene rubata, tutti i suoi punti azzerati in un batter d’occhio. Juliana in preda ad un attacco d’ansia, deve resettare tutto e costruirsi una nuova identità digitale. In questa fase del corto, che poi è la parte finale, per un attimo svaniscono tutti gli effetti digitali e la realtà vera si presenta nuda e cruda senza orpelli di sorta. «Quella di Keiichi Matsuda naturalmente è una critica sociale ma il suo intento non è quello di dire che la tecnologia sia un male, piuttosto vuole evidenziare quanto sia importante discutere del nostro futuro, chiederci se questa è la realtà ipertecnologizzata che vogliamo». Tra le varie questioni che nel saggio emergono a proposito del passaggio tra mondo tradizionale e mondo digitale, con i cambiamenti e le conseguenze del caso, parlando in particolare del genere fanfiction e di piattaforme di pubblicazione come Wattpad, Eleonora Benecchi solleva la questione della proprietà intellettuale. Innanzitutto, perché porre l’accento sulla fanfiction, in che modo è rilevante in questo discorso? «La fanfiction non è nata con Internet, esisteva già da prima, ma con la Rete e le sue dinamiche ha vissuto una vera e propria esplosione. Per fare un esempio sulle sue origini mi
una formazione professionale mirata a operare in quei contesti». L’associazione «Ridere per vivere» quest’anno ha ricevuto un sostegno dalla Commissione culturale del Consiglio di Cooperativa di Migros Ticino, per contribuire alla realizzazione di un nuovo sito web, dove si possono seguire le sue attività e appunto la formazione, alla quale tengono in modo particolare. I progetti che vi si leggono sono molti; uno dei più belli propone una serie di incontri dei Clown Dottori nelle scuole e si chiama «Ridere senza solletico». «Il clown ha il permesso di vivere tutte le sue emozioni e di esternarle, anche esagerandole. Ecco perché è una figura ideale per parlare, affrontare, sperimentare le emozioni che tutti noi proviamo». Un altro progetto è stato avviato a Casvegno, nella Casa Edera. «Siamo entrati in punta di piedi e con timore», raccontano i tre «dottori», di cui uno musicista, che si sono recati in questa ala del centro sociopsichiatrico di Mendrisio. «Ancora una volta, pur se in un contesto nuovo, abbiamo potuto assistere al cambiamento che avviene quando entriamo in luoghi di dolore e disagio dove l’amore e l’ascolto, il sorriso e il buonumore fanno scaturire quella scintilla vitale che allontana la sofferenza, lavorando sulla parte sana della persona. Abbiamo visto riaffiorare ricordi e sono emerse nuove consapevolezze, ridando potere e dignità». Dottor Scricciolo, al secolo Stefano Scricciolo, ha seguito i corsi per poter agire prima come Volontario del sorriso, poi Clown Dottore. «Lavoro nel settore della vendita, ho 48 anni, una moglie, due figlie piccole. Mi occupo di marketing, soldi, merci, ma fin da giovane ho una “vena sociale” che sentivo sempre più il bisogno di sviluppare, andando verso il mondo del volontariato. Mie situazioni personali difficili mi hanno portato a vivere da vicino il grigiore della malattia, della preoccupazione e dei corridoi di un ospedale. Ho capito ancora meglio quanto ogni nota di colore può essere d’aiuto in quei momenti e appena ho sentito parlare della possibilità di formarsi per fare il Volontario del Sorriso, mi si è accesa una scintilla e mi sono iscritto». Ha studiato materie come psicologia nella relazione d’aiuto, geloto-
I Clown Dottori lavorano a stretto contatto con l’équipe sanitaria. (Ridere per vivere)
logia, improvvisazione teatrale, arte del clown e del volontariato, trucco e costume. «Questa formazione organizzata da “Ridere per Vivere” insegna che bisogna sdrammatizzare le pratiche sanitarie in modo rispettoso, perché fa bene: è provato che la risata e la gioia aiutano nel processo di guarigione e anche nel vivere meglio le cure palliative». Si ride di fronte a una realtà distorta, a qualcosa che non ci si aspetta: qualcuno che inciampa, prende una sedia dal verso sbagliato e cade mentre cerca di sedersi, se non si fa male fa ridere; anche sbagliare qualcosa, esagerare, parodiare, possono provocare il riso. Lo stupore, la sorpresa, il cambio di prospettiva: tutto questo, insieme alle terapie e a tanto amore, sono gli ingredienti per una vita migliore. Diventato Volontario, Scricciolo ha iniziato ad affiancare i Clown Dottori già formati: sono partiti con il loro camice e la loro valigia, hanno discusso con gli operatori del luogo in cui andavano a intervenire e hanno bussato. «Bisogna sempre chiedere il permesso, la cosa più importante è il rispetto. C’è chi non ha voglia di essere disturbato e può dirci di no, anche i bambini. Dobbiamo trattare le persone come persone e non come malati, dobbiamo occuparci della loro parte sana, la più viva che hanno». Giusy dottoressa APina dice così:
«Le emozioni che provo quando metto il naso rosso sono tante, non è facile descriverle: la voglia di dare un attimo di serenità a chi ne ha bisogno; sentirsi felice quando una persona che ha perso la vista ti riconosce dall’odore dei tuoi capelli; o quella signora che ti aspetta segnando sul calendario il giorno che ritornerai dopo le vacanze di Natale; e quelle che ti abbracciano quando ti vedono ogni venerdì e ti chiedono se sarai con loro la sera dedicata ai parenti perché vogliono condividere con te quel momento di felicità e di amore considerandoti parte della famiglia». A volte si agisce anche sulla cerchia di parenti, sul personale curante. Da loro anche arrivano molti messaggi ai Clown Dottori, per quel sorriso rispuntato che al paziente mancava da un pezzo, per la speranza che ha trovato una strada più corta per tornare, o semplicemente per quel momento di gioia trascorsa. «Si entra in stanza col naso rosso ma con occhi e orecchie spalancate», aggiunge ancora Vanna Maffeis, Dottoressa Svampita. «Mi piace perché si prende spunto da qualsiasi cosa, una parola, un fiore, una canzone. Anche dal mal di pancia. Mi piace perché si chiacchiera e a volte il male passa mentre ci facciamo raccontare un episodio della loro vita, tenendo la mano sulla pancia dolorante; poi distribuiamo fi-
lastrocche buffe per far passare i mali, facciamo una carezza sulla schiena indolenzita, una visita con l’imbuto al posto dello stetoscopio per aspirare i pensieri negativi, distribuiamo infusioni di coraggio e felicità e il tempo vola e tu vorresti stare ancora un po’». Dottor Scricciolo sorride, mentre descrive cosa sia per lui il volontariato: «Credo che si facciano queste cose innanzitutto per se stessi. Quando fai un intervento così, è bello e arricchente per te. Ti rendi conto che in quel momento sei tu quello dei due che ha più energia e che puoi sfruttarla strappando un sorriso a qualcuno, facendogli un complimento, tendendogli la mano. Su questa terra non siamo qui solo per guadagnare e spendere; abbiamo altri bisogni oltre a quelli primari. E uno di questi è l’empatia, che ti fa sentire meno solo al mondo. È come una persona che deve cantare la sua canzone: è così e basta. I bambini lo fanno sempre: quando hanno bisogno di cantare, cantano, stonati o non stonati, a squarciagola o sottovoce. Lo fanno gratis, senza sentirsi bravi. Ecco, secondo me il volontariato è così: è quella canzone che hai dentro e che canti». Informazioni
www.riderepervivere.ch
Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Le piattaforme di pubblicazione come Wattpad hanno aperto nuove possibilità di commercializzare la propria storia. (Marka)
piace citare il racconto dei Janeites di Rudyard Kipling che racconta di questi soldati al fronte, fan di Jane Austen, ai quali, come forma di terapia psicologica per sopravvivere, viene suggerito di riscrivere le storie e reinterpretare i personaggi dell’autrice inglese. Jane Austen all’epoca era il fenomeno letterario per eccellenza, altro che Twilight». Per darvi un’idea, nel racconto di Kipling, uno dei personaggi dice «Credetemi, fratelli, non c’è nessuno pari a Jane quando ti trovi in una brutta situazione. Dio la benedica, chiunque sia stata». Ecco dunque il mondo della fanfiction fatto di fan che adorano una determinata storia e i suoi personaggi e conoscono ogni dettaglio dell’opera e dell’autore in questione. Riponendo l’accento sulla questione del copyright, chiediamo a Eleonora Benecchi che cosa è cambiato nelle fanfiction e nei fandom una volta appro-
dati in Rete? «I fandom si sono aperti, sono diventati più numerosi e diffusi nel mondo e mentre prima c’era bisogno della compresenza fisica ora si può comunicare in differita stando all’altro capo del mondo. C’è una maggiore accessibilità, in un fandom non si entra più su invito, basta mettersi in contatto su Fb o sul sito. Parallelamente, se un tempo i fan acquisivano uno status all’interno della comunità in base alla loro conoscenza del prodotto culturale in questione, oggi i giovani hanno un approccio diverso, più orientato agli scambi e alla creazione di eventi. Mentre è diventato più facile, dinamico e veloce scrivere e condividere contenuti, trovare piattaforme e sorte di archivi digitali dove condividere e diffondere. Una di queste è Wattpad, che nel bene e nel male, ha veramente cambiato il formato, il senso e, forse, anche l’obiettivo di scrivere fanfiction. Possiamo subito
dire che su Wattpad non conta la capacità di scrittura o la qualità della storia ma solo la fama numerica. E mentre le fanfiction tradizionali erano intese come un dono alla propria comunità di riferimento, Wattpad offre la possibilità di commercializzare la propria storia e di trovare un editore con tutti i problemi che derivano dall’uso di ambienti e personaggi già usati da altri». E arriviamo al nodo della questione, il tema dei diritti che, ai tempi di internet, vede contrapposte due idee di proprietà intellettuale «una più libera dove la rielaborazione è incentivata e una più tradizionalista dove si intende mantenere un’idea di cultura circoscritta fatta di oggetti. E qui emerge tutto il carattere irriverente della fanfiction, per cui da alcuni è vista come un nuovo genere esploso in Rete, da altri come una sorta di sfruttamento della proprietà intellettuale».
Rachel Bright-Jim Field, Un giorno da Koala, Zoolibri. Da 4 anni Anno nuovo, vita nuova: questo albo illustrato è un invito a uscire dalla propria «comfort zone» e a percorrere strade nuove. L’incipit – grazie all’ottima traduzione di Zoolibri – suona scherzosamente epico: «In un luogo magnifico, allo spuntare dell’alba, quando la brezza è lieve e la luce del sole calda, un luogo dove le creature corrono selvagge e giocano libere... un koala di nome Cesare se ne sta attaccato a un albero.» Ed eccolo, voltando pagina, il morbido orsetto che ama la vita tranquilla in cima al suo albero, dove si sente al sicuro, masticando foglie e pisolando in pace. Giù a terra è tutto troppo veloce e rumoroso, tutti quei canguri, quei dingo, quegli altri animali che corrono e strillano gli fanno paura, anche se continuamente lo invitano a giocare. Lui rifiuta sempre: in fondo, forse, non gli dispiacerebbe unirsi a loro, almeno qualche volta, ma restare
aggrappato al suo albero è la scelta più facile e meno rischiosa. A Cesare sembra di non poter lasciarsi andare, e invece alla fine della storia scoprirà di poterlo fare, e anzi di poter fare tante cose che si precludeva perché pensava di non esserne capace. Le illustrazioni di questo libro sono fondamentali, in quanto alternano campi lunghi e primi piani, cambi di inquadratura che conferiscono molto ritmo, ben seguito dall’andamento della scrittura: nei campi lunghi vediamo da lontano l’albero con il koala aggrappato e ciò che succede sotto, in
continuo mutamento, nell’alternarsi delle stagioni. I primi piani ci portano invece vicinissimi al koala, sull’albero con lui, a condividere le sue paure. È come se noi lettori ci spostassimo continuamente dentro questa storia (a un certo punto dovremo addirittura girare in verticale il libro), che un po’ ci tiene con il fiato sospeso... come farà Cesare a staccarsi dal suo albero? Per tutti quei bambini che preferiscono starsene in disparte perché hanno un po’ paura di «buttarsi» in mezzo agli altri, ecco una piccola e coinvolgente storia degli autori del fortunatissimo Un leone dentro. Anche in questo caso, dedicata a tutti coloro che hanno bisogno di tirar fuori un proprio gioioso, gentile ma deciso, ruggito. Valentina Camerini, 365 fatti straordinari per sorprendere gli amici, De Agostini. Da 8 anni Una sorta di «forse non tutti sanno che» (storica rubrica della «Settimana Enigmistica») a misura di ragazzini
del terzo millennio, in un vivace volume illustrato che annovera 365 fatti straordinari, uno per ogni giorno del nuovo anno, per non restare neanche un giorno a corto di notizie con le quali, come recita il titolo, sorprendere gli amici. In realtà la cosa che più conta è sorprendere se stessi, leggendo questi 365 capitoletti divulgativi e interessanti, e farsi venire voglia di approfondire le informazioni, suscitando nuovi interessi e curiosità. Storia, zoologia, botanica, fisica, archeologia, sismologia, geografia, e altre scienze ancora ci raccontano questi «fatti straordinari»,
che ci portano per esempio a meravigliarci per il fatto che le piante comunicano tra loro, che sul fondo dell’oceano corrono chilometri e chilometri di cavi, che i primi giornali risalgono al 59 a.C. e si chiamavano Acta diurna, che il Sauroposeidon era un dinosauro che raggiungeva i 18 metri di altezza... Le notizie a volte sono leggere (come quella della nobile veneziana Teodora che nel 1070 fece la figura della maleducata perché osò mangiare con la forchetta invece che con le mani; o come quella del falco che scaccia i piccioni sopra i campi tennistici di Wimbledon), a volte invece più profonde (si parla anche di fatti come, ad esempio, l’assedio di Leningrado o la ribellione di Rosa Parks al razzismo), ma sempre vengono proposte con brevi e agili testi, a cura di Valentina Camerini. Un volume da spilluzzicare qua e là, o da leggere dall’inizio alla fine, per non perdere mai una delle più preziose attitudini dei bambini: l’attitudine alla meraviglia.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 31 dicembre 2018 • N. 01
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Società e Territorio
Il Ticino nei filmati amatoriali
lanostrastoria.ch Pubblicate tutte le antologie del ricco fondo di video privati custoditi nelle Teche RSI
Lorenzo De Carli Gli archivi della RSI custodiscono un fondo di filmati realizzati da cineamatori della Svizzera italiana tra l’inizio del Novecento e gli anni Sessanta del secolo scorso. Si tratta di un patrimonio audiovisivo prezioso per la memoria del nostro paese, costituito da riprese fatte con intenzioni private ma che, con il passare del tempo, hanno acquisito un valore di grande interesse pubblico. Gesti, abitudini e consuetudini che per gli autori erano espressione di una situazione d’intimità, a distanza di decenni danno conto di esperienze che furono anche di tanti altri, cosicché – a causa di quel fenomeno d’identificazione incoraggiato dal riconoscimento di luoghi comuni – accade che occasioni private, decantate nel corso degli anni, diventano memoria collettiva. I filmati amatoriali liberamente offerti alla RSI vengono digitalizzati, descritti e conservati nelle Teche affinché anche le prossime generazioni possano avere una conoscenza diretta del nostro territorio e di chi vi ha vissuto. Al termine del processo di copiatura, i documenti originali – i cui sopporti spesso hanno bisogno di restauro – vengono restituiti ai legittimi proprietari, assieme con la versione digitale. Nell’ultimo decennio, ci sono state occasioni pubbliche durante le quali la RSI ha mostrato antologie di questi filmati curati da Maria Grazia Bonazzetti Pelli. I più popolari di questi eventi sono stati quelli intitolati «Come eravamo», che hanno attirato in tante
località della Svizzera italiana un pubblico sempre numeroso, affascinato da filmati storici dei luoghi in cui sono vissuti personalmente oppure hanno vissuto genitori, parenti o amici. Un’altra occasione ricorrente per allestire antologie di filmati amatoriali furono le varie edizioni di «La Radio delle regioni». Nel corso di quegli eventi, oltreché assistere e partecipare alle trasmissioni di Rete Uno, il pubblico aveva anche l’opportunità di vedere in uno schermo televisivo i filmati dedicati alla loro località. L’accumulo di queste occasioni ha dato luogo ad una ventina di antologie che documentano il passato dell’intero territorio della Svizzera italiana. Finora note solo al pubblico che poté assistere a quegli eventi, tutte le antologie di questi filmati amatoriali sono ora disponibili nel portale di storia partecipativa «lanostraStoria. ch», dove possono essere viste e commentate. Gli ormai classici «Come eravamo» raccontano in video tutto il Ticino dagli anni Venti agli anni Sessanta. Il Grigioni italiano è rappresentato da una ricca raccolta che parte dal 1926 (Poschiavo) e arriva al 1972 (Bregaglia), passando da filmati girati in Val Calanca e in Val Mesocco. Non c’è una regione meglio rappresentata di altre. Emerge tuttavia evidente che, disporre di una cinepresa negli anni Venti, Trenta o Quaranta era un hobby consentito solo alle classi sociali elevate, ragion per cui, se questi vecchi filmati mostrano con un buon grado di fedeltà la vita urbana nella
Ascona nel 1967. (lanostrastoria.ch)
Svizzera italiana fino agli anni Sessanta, la vita rurale ci è raccontata attraverso la sua disponibilità ad essere sfondo per gite, oppure per vacanze estive, cosicché sappiamo poco di chi falciava l’erba per fare il fieno, si alzava la mattina per andare a mungere le mucche, puliva le gabbie dei conigli, dava da mangiare alle galline, sistemando oggi un muro a secco, domani i coppi rotti della stalla – pratiche comunissime nella vita quotidiana della Svizzera italiana sino alla fine degli anni Sessanta. I video delle isole di Brissago realizzati tra il 1930 e il 1960 alternano sequenze che mostrano i luoghi e i fa-
migliari degli entusiasti visitatori, ma la camera si sofferma spesso anche sulle figure incontrate nel corso delle gite: da Fritz Stärki (negli anni Trenta il giardiniere delle isole) ai pescatori ritratti nei molti filmati semplicemente intitolati Viaggio alle isole. Ci sono antologie estremamente ricche, come quella dedicata alla Valle di Blenio, che offre video realizzati tra il 1929 e il 1983. Si parte da Olivone e Dötra alla fine degli anni 30 per arrivare ad una Madonna Pellegrina della fine degli anni Settanta, passando da un matrimonio a Dongio all’inizio degli anni 40. Talvolta, i filmati amatoriali
sono accostati a quelli dell’Archivio delle Truppe Ticinesi o ai primi servizi della TSI. Oppure ci sono antologie con una tematica molto circoscritta, come quella dedicata alla linea ferroviaria Lugano-Cadro-Dino. Nelle pagine di «lanostraStoria.ch» ci sono altri documenti appartenenti a questo fondo di video privati (come per esempio quelli dedicati al Carnevale), tuttavia le antologie tematiche hanno la caratteristica di essere allestite con cura e competenza, e di poter essere fruite come una sorta di documentario senza parole di un Ticino oggi ricordato da pochi. Annuncio pubblicitario
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Società e Territorio
Burattini circensi
Minispettacoli Domenica 13 gennaio al Teatro Don Bosco di
Minusio in scena Il Circo matto: biglietti in palio per i nostri lettori
Monte Generoso Due giornate speciali
per festeggiare l’Epifania in modo originale Sabato 5 e domenica 6 gennaio 2019 dalle ore 11.00 alle ore 16.15 avrà luogo sulla Vetta del Monte Generoso una grande festa per salutare tutti, grandi e piccini, prima della pausa invernale (la riapertura è prevista per il 6 aprile 2019). «È stato un anno molto intenso, ricco di cambiamenti, di implementazione di idee e strategie innovative», spiega Lorenz Brügger, direttore della Ferrovia Monte Generoso SA. «Questa festa di fine anno l’abbiamo voluta fortemente per salutare la nostra clientela ed accogliere i nuovi arrivati che colgono l’occasione per visitare il Fiore di pietra e ammirare tutta la bellezza del
Enza Di Santo Da Firenze arriva un circo tutto matto, un teatro d’attore e burattini della Compagnia Fantulin, capace di ribaltare i ruoli di scena e platea coinvolgendo i piccoli spettatori in un appassionante spettacolo. Irriverenti e terribili burattini, attori strampalati di un circo, sono alle prese con il loro ambizioso e pretenzioso direttore, il quale ha come unico obiettivo di portare la sua impresa al grande successo. Le piccole pesti di cartapesta però non ci stanno! Via via che ci si addentra nello spettacolo, le marachelle dei burattini si faranno più esilaranti, tanto da condurre il pubblico presente, ormai coinvolto nelle vicende della bizzarra compagnia circense, a prendere posizione e a schierarsi dalla parte dei burattini. Le birbonate delle canaglie in scena, trasformeranno lo spettacolo del circo in un totale fallimento e faranno sì che il sogno d’illusione del loro padre-padrone naufraghi e si disgreghi, obbligandolo a ricominciare da qualcosa di più semplice e alla portata dei burattini. Il circo matto è uno spettacolo che ha tutto il fascino del mondo del circo, ma che aspira a una visione molto più immaginativa. Il pubblico è chiamato a fare la sua parte, e diventa complice della ribellione dei burattini. Alla fine il fiasco dello spettacolo dei burattini
Insieme ai Re Magi sulla Vetta Monte Generoso e il suo suggestivo panorama». Per tutto il giorno il ticket del trenino costerà eccezionalmente solo 27.– franchi per gli adulti e sarà completamente gratis per bambini e ragazzi sino a 15 anni (partenze da Capolago Stazione alle ore 10.25 e 13.25). In vetta verranno offerti mandarini, castagne e la Dolce Corona dei Re Magi a tutti. E la festa sarà ancora più festa con l’accompagnamento musicale della Bandella di Arogno. Informazioni
+41 91 630 51 11 www.montegeneroso.ch
Il pubblico sarà complice della ribellione dei burattini. (www.fantulin.it)
è il vero punto di forza e di successo di questa divertentissima storia, che si rivela adatta a bambini a partire dai quattro anni. Lo spettacolo di e con Eneas e Mauro Medeot, come altri della compagnia Fantulin, attiva dagli anni Ottanta, ha lo scopo di coinvolgere e far partecipare direttamente i bambini in platea. La struttura del racconto, anziché basarsi sul tradizionale rapporto frontale tra platea e messa in scena, verte su un triangolo interattivo in cui
i ruoli tra pubblico, burattini e narratore si sovvertono creando relazioni di complicità e tra bambini e pupazzi. L’evento dei Minispettacoli è come sempre sostenuto dal Percento culturale di Migros Ticino, il quale in collaborazione con «Azione» mette in palio alcune coppie di biglietti per questo spettacolo. Per partecipare all’estrazione a sorte delle entrate omaggio basta seguire le indicazioni sulla pagina www. azione.ch/concorsi.
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per la ricchezza di specie ospitate, tanto da essere stata scelta per insediare un centro di ricerca e formazione
Marco Martucci Varcando le Alpi per uno dei nostri tanti valichi, il paesaggio cambia molto in fretta: dai boschi di latifoglie a quelli di abete rosso e larice è questione di minuti. Più in alto, anche il bosco cede il passo a singoli alberi, dapprima maestosi, poi contorti e sempre più piccoli finché restano solo bassi cespugli, prati, roccia, neve e ghiaccio. Scena familiare per molti; sorprende però scoprire che una buona fetta della Svizzera, più o meno un terzo, si situa al di sopra del limite superiore degli alberi, una barriera definita dalla temperatura e che, alla nostra latitudine, è fissata a circa 2000 metri di quota. Si potrebbe pensare che, in quelle dure e difficili condizioni, freddo, vento, mesi e mesi di neve, la vita sia povera e poco variata. In realtà, da dove finiscono i boschi su fino ai ghiacci e alle vette più alte, vive un quarto di tutte le piante a fiori della Svizzera e anche la varietà di muschi, licheni, funghi e animali è notevole. La sorprendente ricchezza di specie in questo solo apparentemente desolato scenario è dovuta alla straordinaria concentrazione di svariati habitat spesso di dimensioni anche ridotte dentro un piccolo territorio. Per la ripidità dei versanti, si possono trovare a breve distanza condizioni climatiche affatto diverse, dovute alla differenza di altitudine. Sul fondovalle per esempio un clima di tipo insubrico e, lontano solo un paio di chilometri, ma verso l’alto, condizioni artiche. Per trovare simili contrasti, ma in pianura, dovremmo spostarci di migliaia di chilometri. Altre differenze nascono dalla diversa esposizione dei pendii: a solatío, verso sud, può fare molto caldo mentre poco più in là, alla stessa quota, ma sul versante opposto, la temperatura può essere inferiore di molti gradi. Ma anche la struttura stessa della superficie, la sua topografia, crea un mosaico di piccoli habitat fra conche e dossi, pianure e piccole valli con microclimi, durata dell’innevamento, disponibilità di acqua e nutrimento diversi. La varietà minerale del suolo, la presenza di sorgenti, ruscelli, laghetti, pietraie contribuiscono ancor più alla diversificazione degli habitat e, di conseguenza,
alla varietà di forme di vita che, nell’insieme, costituiscono la biodiversità. Al centro della nostra catena alpina, al Passo della Furka, fra Uri e Vallese, spartiacque fra i bacini di Reno e Rodano, si riuniscono tutte queste condizioni d’alta montagna per formare una zona ricca di biodiversità, un vero e proprio «hotspot» di biodiversità alpina. Proprio qui, a 2450 metri d’altitudine, si trova ALPFOR, «Alpine Forschungs – und Ausbildungsstation Furka», la stazione per la ricerca e la formazione alpina, nata per iniziativa dell’Istituto di botanica dell’Università di Basilea, in collaborazione con l’esercito svizzero e la corporazione Ursern di Andermatt. Durante quattro giorni di luglio si sono riuniti qui 47 specialisti provenienti dalla Svizzera e dall’estero, per compilare un inventario della biodiversità, il progetto «Hotspot Furka», sguinzagliati alla ricerca di ogni forma di vita, anche la più minuscola. Il risultato è davvero impressionante: 2098 specie rinvenute e determinate, dalle piante ai funghi, dagli insetti agli uccelli, fra cui 43 assolutamente nuove per la Svizzera. I ricercatori, ognuno secondo la sua specialità, hanno passato al setaccio undici habitat terrestri, diversi habitat acquatici e, per le specie più mobili, come uccelli e mammiferi, l’indagine si è estesa a una zona più ampia, indipendente da habitat specifici. Fra gli habitat terrestri, suddivisi in superfici da 400 a 600 metri quadrati e di cui sono state determinate anche caratteristiche fisiche come la temperatura, figuravano vallette nivali, margini proglaciali, diversi tipi di prato e torbiere. Sfogliando la bella e riccamente illustrata pubblicazione «Hotspot Furka» che presenta i risultati di questa «quattro giorni» di ricerca sul campo, ci si immerge in una stupenda varietà della quale non si può non rimanere affascinati. Dapprima le piante a fiori, con ben 304 specie, una diversità dovuta anche alla vicinanza fra due tipi di suolo diversi, calcareo e siliceo, e che, oltre ad essere importante per la vita animale, è determinante per frenare l’erosione. Sorprendentemente ricco di specie è il margine proglaciale, dove spicca il
La stazione di ricerca e formazione alpina ALPFOR. (E. Hiltbrunner)
ranuncolo glaciale, Ranunculus glacialis, pianta che detiene probabilmente il primato assoluto di altitudine con oltre 4000 metri e che cresce anche nelle regioni artiche. I muschi non fanno fiori ma, con i loro verdi cuscinetti sono particolarmente attraenti e molto importanti come riserve d’acqua, specie pioniere che preparano il suolo per altre piante e non da ultimo come habitat per numerosi piccoli animali. Con trecento specie ritrovate fra il Passo e la vetta del piccolo Furkahorn a 3026 metri, la Furka è stata definita un eldorado dei licheni. Questi strani esseri, connubio di fungo e alga, possono vivere per secoli, attaccati a una roccia ma se ne trovano anche in mezzo all’erba e sono cibo per molti animali, preparano il suolo, frenano l’erosione, ospitano una tipica fauna. Anche i funghi, con 313 specie di cui tre nuove per la Svizzera, sono ben
rappresentati. La ricerca non ha trascurato gli unicellulari, come le curiose amebe con guscio, visibili solo al microscopio, importanti per l’equilibrio del suolo e che trascorrono la loro esistenza soprattutto dentro i cuscinetti di muschio. Impressionante è la varietà degli animali. Nei laghetti sono state individuate fra l’altro minuscole chiocciole d’acqua e molluschi bivalvi. Rare e piccole lumachine terrestri costruiscono la loro conchiglia sfruttando le vene affioranti di roccia calcarea. Nei prati di festuca violacea, tipica graminacea alpina, edificano i loro piccoli nidi diverse specie di formiche. Proprio fra gli insetti si trova un’enorme abbondanza sia di individui che di specie. Solo di api sono state determinate 25 specie diverse, di vespe 42 specie, 150 specie di ditteri, oltre cento specie di farfalle, 111 specie di coleotteri. Dove ci sono insetti
non possono mancare i ragni, davvero abbondanti: 40 specie, in media 130 ragni al metro quadrato. Una rapida stima valuta a oltre un quintale all’ettaro di insetti divorati in una stagione! Fra gli animali di taglia maggiore, una bella varietà di anfibi, fra cui la salamandra nera, e di rettili. Di uccelli sono state avvistate ben 14 specie: nell’albergo Furkablick a 2440 metri di quota nidifica perfino il balestruccio. Il gruppo dei mammiferi è ben rappresentato: dai piccoli toporagno, alla marmotta fino ai grandi cervi, camosci e stambecchi. Raro spazio incontaminato d’Europa, la Furka con tutto l’ambiente alpino merita d’essere sempre meglio conosciuta, per poterla ancor più apprezzare e proteggere. Informazioni
www.alpfor.ch
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Ambiente e Benessere
I vini delle Côtes du Rhône
Scelto per voi
Bacco Giramondo Poche sono le regioni di Francia che possiedono una tradizione
vitivinicola così importante come quella della Valle del Rodano Davide Comoli Furono i Focesi, arrivati dalla Grecia, che dopo aver fondato la città di Marsiglia (nel 600 a.C.), a portare l’arte della potatura sui ceppi di vite selvatica che abbondavano nella regione. E nel I sec. a.C. le popolazioni di Celti Allobrogi, che vivevano nella parte nord del fiume Rodano, ottennero il permesso dai loro alleati Romani e il diritto di coltivare la vigna. Furono creati così i primi vigneti nei pressi di Vienne (71 a.C.) che presto divennero famosi anche a Roma. Durante il Medioevo, il vigneto della Valle del Rodano conobbe un periodo difficile, causa la potenza dei conti di Borgogna, che volevano essere gli unici fornitori dei ricchi mercati parigini e del nord Europa. Infatti dal XIV al XVI sec. i Borgognoni impedirono la libera circolazione dei vini del Rodano, instaurando diritti doganali molto alti e impedendo il diritto di navigazione sulla Saona, che era l’unica via di trasporto. È comunque nel 1316 che il secondo Papa di Avignone (Giovanni XXII), crea il famoso vigneto di Châteauneuf-du-Pape. Nei 200 km che separano Vienne da
Avignone, il fiume Rodano scorre modellando gole e vallate. Da Vienne a Valence, le vigne coprono il lato destro del fiume, toccando dipartimenti delle Côtes du Rhône, della Loira, dell’Ardèche. Sulla sponda sinistra le vigne occupano le scoscese rive intorno a Tain l’Hermitage, caratterizzate da un suolo granitico e da un clima continentale.
non è fatta a caso. Le condizioni climatiche e la composizione del suolo condizionano il loro impianto. Ogni vitigno apporta le sue qualità e associato agli altri si ottengono vini molto armonici. Grenache Noir, di origine spagnola, è il vitigno rosso principe dopo la distruzione del vigneto del Rodano da parte della filossera nel XIX sec.: resiste bene al vento (il famoso Mistral è un fattore da prendere in considerazione) e alla mancanza d’acqua; la Grenache è la base per i rossi delle Côtes meridionale e per certi vini rosati molto fruttati; il Syrah unico vitigno rosso nelle Appellations Locales (Crus) delle Côtes du Rhône settentrionali, grazie alla sua ricchezza aromatica e la sua intensa colorazione, viene usato sempre di più anche nelle Côtes meridionali. Ogni volta che viaggiamo in questi luoghi, cerchiamo sempre di trovare del tempo per sostare, magari verso sera, accanto alla piccola cappella che si trova in cima alla collina dell’Hermitage, alla fine di una strada sconnessa. Confessiamo che non è anelito religioso che ci spinge fin lassù, benché il luogo porti alla meditazione. Il vigneto della «Chapelle» non è solo uno dei più rinomati, ma anche uno dei meglio esposti che noi conosciamo. La vista sinuosa del fiume sottostante è spettacolare e il Syrah (Hermitage) è uno di quei vini da non perdere nella vita. Mourvèdre è un vitigno molto esigente di luce e calore, soprattutto nel periodo di maturazione, è coltivato nelle zone meridionali. Ha un regolare bisogno d’acqua ed è sensibile al vento. Possiede eccellenti tannini e un particolare potere antiossidante: vinificato in rosato prolunga la freschezza ed esalta i profumi. Tra i vitigni principali bianchi ricordiamo: Grenache Blanc che ci dà vini robusti con poca acidità; Clairette Blanc usata nello Châteauneuf-du-Pape vinificato in bianco, ama i suoli pietrosi, magri, secchi e caldi; Marsanne, coltivato a settentrione delle Côtes du Rhône, su
Tra tutte le varietà pregiate che provengono da questa regione spicca il conosciutissimo Châteauneuf-du-Pape Da Livron a Montélimar, le vigne cedono il posto ad altre coltivazioni, per poi allargarsi di nuovo nei dipartimenti dell’Ardèche e Gard, sulla sinistra nel basso Drôme e il sud della Vaucluse. Qui le vigne crescono su terreni di origine calcarea, ricoperti da materiale alluvionale, il clima è molto secco e caldo. La scelta dei vitigni (ben 21 possono entrare nella composizione, non tutti insieme, della A.O.C. Côtes du Rhône)
Il villaggio di Seguret, attorniato dalle vigne. (Wikimedia)
terreni poco fertili: i suoi aromi floreali e di nocciole si sviluppano con l’invecchiamento, molto usato negli assemblaggi; Roussane, vitigno delicato e di grande finezza, dona vini eleganti, fini e complessi che sviluppano profumi floreali di caprifoglio e iris; Bourboulenc, coltivato solo nel settore meridionale, dona dei vini da bersi giovani, leggeri di alcol; Viognier (da provare il Château Grillet) ci dà dei vini caldi di alcol, morbidi che da giovani hanno profumi di muschio, pesche, ma soprattutto albicocche. Sul fiume di Drôme che sfocia un po’ a sud di Valence, troviamo la città di Die. È il centro di una piccola regione viticola nella quale viene prodotto con i vitigni Clairette e Muscat à petits grains la Clairette de Die Tradition: è uno spumante gradevole, risultato da una trasformazione naturale che comporta una seconda rifermentazione in bottiglia (méthode Ancestrale). Le Côtes du Rhône meridionali producono anche due vini dolci naturali: il più celebre è senza dubbio il Muscat di Beaumes-de-Venise (21% di alcol). A Rasteau si produce invece un Vin Doux Naturel, a base di Grenache con uve provenienti da viti centenarie: anche questo molto caldo di alcol, da provare con il cioccolato fondente. Come detto, molti altri vitigni sono autorizzati nelle A.O.C. Côtes du Rhône. Essi possono essere utilizzati in proporzioni variabili al fine di arricchire di struttura, aromi, tannini, acidità e colore i vari assemblaggi. Citiamo tra gli altri i rossi: Carignan, Cinsault, Courtoise, Muscardin, Vaccarese, Tenret, Calitor, Gamay, Pinot Noir, tra i bianchi il Picpoul bianco e rosso, Ugni Blanc, Mouzac, la Grenache Gris e la Clairette Rose, riservati per l’elaborazione di vini rosati. Provate un Châteauneuf-du-Pape rosso: può infatti provenire dall’assemblaggio di ben 13 vitigni diversi, ognuno dei quali apporta al vino una delle sue peculiarità.
Casa Coste Piane
Anno nuovo, bere qualcosa di nuovo, questo è il consiglio che ci permettiamo di proporvi: il Casa Coste Piane è un Prosecco (vitigno Glera), prodotto in uno splendido lembo della Marca Trevigiana, in piena armonia con la natura che la circonda. Loris Follador, il produttore, sente un rapporto profondo con ciò che lo circonda e che lo porta a rifiutare totalmente l’utilizzo della chimica, addirittura rifiuta l’uso del trattore nel vigneto per non comprimere il terreno. Per lui non esistono concimazione e diserbi, i tagli dell’erba sono fatti con la falce e arricchisce il terreno con il rovescio, utilizzando preparati biodinamici, rendendo i ceppi più attivi nel ricevere dalla terra le sue sostanze e l’energia dal cielo. Non viene usato nessun lievito attivante o enzima, ma fermenta in modo naturale in bottiglia «Sur Lie». Questo Prosecco ci emoziona per la sottile ricchezza olfattiva, note floreali, trovano nella polpa della frutta il deciso richiamo degli acini dell’uva. È un vino da bere (e assolutamente da provare) a tutto pasto, ottimo aperitivo e per uno spuntino rustico. / DC Trovate questo vino nei negozi Vinarte al prezzo di Fr. 19.50 Annuncio pubblicitario
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Ambiente e Benessere
L’Elvezia a tavola
Gastronomia Una panoramica sulle specialità di casa nostra contemplate dall’osservatorio
Allan Bay Come vede un italiano, cioè il sottoscritto (che ha una lunga frequentazione dell’amata Engadina ma conosce molto meno il resto della Svizzera) la cucina elvetica? Ne avevo trattato in un articolo molti anni fa ma non ho mai avuto il coraggio di parlarne in queste pagine. Temevo di aver sbagliato troppo. Oggi mi lancio e ci provo. Ditemi se vi riconoscete.
Nei grandi piatti della tradizione il formaggio è sempre l’ingrediente principale ma non mancano le preparazioni di carne e quelle con le patate Materie prime di ottima qualità, locali e importate, culto della tradizione, accuratezza delle preparazioni e qualche interscambio con le confinanti cucine francese, italiana (in particolare lombarda) e tedesca: queste le caratteristiche della gastronomia svizzera, ingiustamente sottovalutata, capace di offrire piatti per lo più semplici ma molto saporiti. Dato il forte legame con le proprie radici, le pietanze tradizionali vengono preparate seguendo ancora le ricette originali; alcune sono diffuse in tutti i cantoni e anche oltre i confini nazionali, altre invece possono essere gustate soltanto in loco. A queste si affiancano nuove preparazioni, introdotte nei menu per sperimentare sapori differenti; tuttavia, a dominare sono i grandi piatti della tradizione. Ingredienti fondamentali di questa cucina sostanziosa sono i formaggi, per i quali gli svizzeri vanno giustamente famosi: dall’emmentaler al gruyère, dall’appenzeller allo sbrinz, c’è solo l’imbarazzo della scelta tra formaggi stagionati al punto giusto e altri grade-
volmente freschi. Insieme al latte (soprattutto vaccino, ma anche caprino) e alla panna, i formaggi sono impiegati nella preparazione di molti piatti, tra cui la raclette e la fondue. La prima, originaria del Vallese, va preparata con l’omonimo formaggio: la mezza forma viene posizionata di fronte a una fonte di calore e, non appena lo strato esterno inizia a fondersi, raschiata con un coltello in modo da far colare il formaggio fuso direttamente nel piatto, su patate intere lessate con la buccia e tenute al caldo. La seconda, tipica di tutta la Svizzera romanda, si prepara mettendo burro, fettine di gruyère e vino bianco in un caquelon (una casseruola di terracotta) sfregato con spicchi d’aglio: una volta che il formaggio è diventato una crema morbida, si completa con sale, pepe, noce moscata e kirsch e si posiziona la casseruola al centro del tavolo. Tutti i commensali si serviranno da soli, infilzando dei crostini di pane su apposite forchettine dal lungo manico e «rimestando» nel caquelon. I rösti, specialità tipica dell’area germanofona prevedono l’impiego di altri due ingredienti tipici, patate e pancetta: i tuberi, parzialmente lessati e lasciati raffreddare, vengono grossolanamente grattugiati e, una volta mescolati con pancetta rosolata ed eventualmente cipolla, si friggono, dopo averli foggiati a mo’ di frittata. I rösti si servono, tra l’altro, con il prelibato spezzatino zurighese, preparato con vitello, funghi (altro ingrediente tipico), vino bianco, panna e prezzemolo. Varia è l’offerta di insaccati della cucina svizzera: dalle molte salsicce, paragonabili ma spesso superiori a quelle tedesche per assortimento e qualità, servite spesso con crauti e senape, alla salumeria della «mazza casalinga», tra cui la mortadella ticinese, preparata con parti grasse della gola e della pancetta del suino, parti magre macinate finemente, fegato, vin brûlé aromatizzato con cannella, chiodo di garofano e noce moscata. Ma lo spazio è tiranno, si prosegue fra 2 settimane.
swiss-image.ch
di uno specialista del settore – Prima parte
CSF (come si fa)
Strozzapreti o strangolapreti è un termine con cui si indicano diversi formati di pasta o di gnocchetti, con farina e con o senza uova, che assumono forme differenti nelle varie regioni italiane. Secondo alcune ipotesi, gli strozzapreti si riferirebbero a particolari gnocchi, tipici del napoletano, che avrebbero potuto «strozzare» le delicate gole dei preti, mentre gli strangolapreti indicherebbero un for-
mato di pasta simile ai lacci da scarpe usati, si tramanda, dagli anarchici per strangolare i membri del clero. Nella cucina romagnola, umbra e lucana gli strozzapreti sono una pasta lavorata a mano a base di sola acqua e farina. In Alto Adige, invece, si identificano con gli spätzli. Nel Lazio sono a spaghettoni tirati a mano. In Trentino sono gnocchi preparati con pane raffermo, spinaci, uova e grana conditi con burro fuso e salvia, ai quali, a Milano, si aggiunge formaggio morbido. I più celebri sono comunque quelli trentini, vediamo come si fanno, in una mia versione. Per 4 persone. Private 400 g di pane raffermo della crosta, tagliatelo a dadini e copritelo a filo con latte. Lasciatelo ammorbidire, scolatelo, strizzatelo e passatelo al passaverdure. Mondate 500 g di spinaci (o
di erbette) e lessateli con la sola acqua del lavaggio e una presa di sale. Strizzateli bene, tritateli e saltateli in casseruola con una noce di burro per 3’, poi regolate di sale, di pepe e di noce moscata. Impastateli con il pane, 4 cucchiai di soffritto di cipolla, 1 cucchiaio di farina, 4 cucchiai di grana, 2 uova e regolate di sale e di pepe. Incorporate pangrattato sufficiente per ottenere un composto abbastanza sodo, ma ancora soffice. Con le mani infarinate formate delle palline della dimensione di una noce e tuffatele in abbondante acqua salata in leggera ebollizione. Lessate gli strangolapreti per circa 6’, scolandoli man mano che vengono a galla con una schiumarola. Condite con abbondante grana grattugiato e abbondante burro sciolto con 8 foglie di salvia.
Ballando coi gusti Oggi, due proposte di pesce al forno. È un tipo di cottura perfetta: sempre delicati, così restano ben interi e non si disfano.
Scorfano al forno
Rombo alle olive
Ingredienti per 2 persone: 1 scorfano da mezzo kg · brodo di pesce o vegetale · olio
Ingredienti per 4 persone: 4 filetti di rombo da circa 120 g l’uno · 20 olive nere
di oliva · sale e pepe.
Mondate lo scorfano, squamatelo, lavatelo e asciugatelo bene con carta assorbente da cucina. Pennellatelo di olio e spolveratelo con sale e pepe. Pennellate di olio una teglia, adagiate lo scorfano e cuocetelo in forno a 180° per 20’, spruzzandolo ogni tanto con il brodo. Servitelo nappato con il suo fondo di cottura.
denocciolate · 8 mandorle sgusciate · pinoli g 20 · aglio · prezzemolo · vino bianco · olio di oliva · sale e pepe.
Tritate le olive, le mandorle, aglio, prezzemolo, i pinoli, sale e pepe, mescolate e conditele con abbondante olio. Disponete i filetti di rombo in una pirofila unta di olio e ricopriteli con il composto di olive e pinoli; spruzzate con 1 bicchierino di vino caldo. Cuocete in forno a 210° per 10 minuti. Sfornate e servite. Se volete, accompagnando con patate al forno.
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Ambiente e Benessere
La strada panoramica Transfăgărăşan
Reportage Un road trip sulla strada più scenica del mondo, alla scoperta delle bellezze naturali della zona
tra montagne verdi e specchi d’acqua trasparenti
I tornanti visti da uno dei numerosi punti panoramici.
Simona Dalla Valle (testo e foto) Tornanti mozzafiato, montagne dai colori intensi ricoperte da foreste di pini, una ricca varietà di specie animali tra le quali spiccano orsi e cicogne: la Transilvania, al di là dei famosi castelli gotici e delle macabre leggende sui vampiri, è una meta turistica sempre più frequentata grazie ai suggestivi paesaggi naturali della regione. La strada di montagna Transfăgărăşan, ufficialmente conosciuta con il nome DN7C (Strada Nazionale 7C) e di recente definita una delle strade più spettacolari del mondo, è stata resa celebre dal programma televisivo Top Gear. Il conduttore britannico Jeremy Clarkson la visitò per la prima volta nel 2009 quando trascorse un giorno intero a effettuare riprese nella zona, definendola «la strada più bella del mondo». Lungo 90 km, il percorso corre attraverso le montagne di Făgărăş (trans+Făgărăş), collegando la Transilvania con la Valacchia, regione un tempo nota con il nome di Muntenia, che corrisponde alla parte meridionale della Romania. L’imbocco a nord della Transfăgărăşan si trova nella valle del fiume Olt, dalla quale risale le montagne fino al lago Bâlea, oltrepassa le montagne e ridiscende fino alla cittadina di Bascov seguendo il corso del fiume Argeş, nell’omonimo distretto. Il famoso dittatore rumeno Nicolae Ceauşescu, al potere tra la fine degli anni Sessanta e deposto nel 1989, si distinse per la megalomania dei suoi progetti legati alle infrastrutture rumene, molti dei quali iniziati e mai portati a compimento. Questa strada non fa eccezione, tanto che il suo soprannome è «follia di Ceauşescu». Costruita tra il 1970 e il 1974 dopo l’invasione della Cecoslovacchia da parte dell’Unione Sovietica, la Transfăgărăşan sarebbe servita per spostare truppe e carri armati in caso di invasione sovietica. Giovani soldati, contadini e persino intellettuali furono costretti a lavorare alla costruzione del-
la strada in condizioni di durezza estrema in un tempo record di soli quattro anni. Il lavoro forzato fu per alcuni una punizione per precedenti atti sovversivi. Il numero ufficiale delle morti causate dai lavori di costruzione fu 39, ma in realtà a perdere la vita furono centinaia di lavoratori, dei quali molti furono uccisi dall’esplosione di oltre seimila tonnellate di dinamite allo scopo di aprire un varco tra le montagne. Gli stretti tornanti della Transfăgărăşan sono una sfida per ogni conducente. La velocità massima consentita in alcuni tratti è di 40 km/h e la guida notturna, tra le ore 20.00 e le 7.00, è vietata. Imboccando la strada alla sua estremità settentrionale, a circa 50km a est della città di Sibiu, si attraversano una serie di villaggi tra i quali è da segnalare Cârțișoara, dove si può visitare un affascinante monastero cistercense. Proseguendo, il panorama si divide tra vedute di rocce e bordi frastagliati e prati verdissimi e, salendo di quota, fitte foreste di pini. Nei pressi della Cascada Bâlea la strada è costellata di pensioni, bancarelle di cibo e artigianato locale e a bordo della pittoresca funivia rossa è possibile salire fino al punto più alto della strada, il lago Bâlea. In inver-
La Funivia presso la Cascada Bâlea.
no, quando la strada è bloccata dalla neve, questo è il punto più alto raggiungibile in auto. Numerosi sono i punti di osservazione dove è possibile fermarsi a fare fotografie o respirare l’aria di montagna, che salendo diventa frizzante. Dopo una stretta serie di tornanti, tanto scenica quanto sconsigliata se si soffre di mal d’auto, si giunge al lago Bâlea, un lago glaciale dalle acque limpide circondato da cime montuose. Il primo hotel europeo interamente in ghiaccio
Il Lago Bâlea; sullo sfondo lo chalet di legno.
è stato costruito qui nel 2006. Da allora viene ricostruito ogni anno a dicembre con ghiaccio proveniente dal lago, e rimane aperto fino a quando non si scioglie in aprile. Quando in inverno la strada è completamente coperta di neve e quindi chiusa, è possibile accedere al lago e all’hotel di ghiaccio solo in funivia. Quello del lago Bâlea è il punto più alto della Transfăgărăşan, a 2042 metri, posizionato in una cresta tra le vette principali del paese: il Moldoveanu (2544 m) e il Negoiu (2535 m), così in alto che a volte le nuvole ostacolano la visuale. Grazie alle chiazze di neve sulla montagna sopra il lago e a un grazioso chalet di legno dove è possibile rifocillarsi e anche pernottare, i riflessi che si specchiano sul lago creano un’immagine suggestiva. Oltrepassato lo specchio d’acqua inizia un tunnel, il più lungo della Romania con i suoi 884 metri, nel quale si raccomanda di fare attenzione poiché il manto stradale al suo interno è spesso bagnato e potenzialmente scivoloso. Proseguendo oltre si giunge al lago Vidraru, un bacino artificiale trattenuto da una diga alta 165 m e lunga 305 m che contiene 465 milioni di metri cubi di acqua. Quando la diga fu completata, si classificò al quinto posto in Euro-
Panorama dalla Transfăgărăşan.
pa e al nono al mondo per portata d’acqua. In un anno idrologico medio può generare circa 400 GWh/anno. Pochi km oltre la diga si arriva alla base del Cetatea (castello) Poenari, raggiungibile salendo una scalinata di 1480 gradini. Il castello era di proprietà di Vlad III l’Impalatore, il quale ottenne una fama sinistra impalando, torturando, bruciando, scuoiando, arrostendo e bollendo le persone a lui sgradite. La scalinata è spesso chiusa al pubblico a causa della massiccia presenza di orsi (ciò è accaduto ad esempio a luglio 2018, quando un’orsa ha partorito nell’area del castello). Proseguendo in direzione sud si inizia la discesa verso la valle attraversando la gola del fiume Argeș, e la strada termina alle porte della città di Pitești. La strada Transfăgărăşan è un’esperienza di guida indimenticabile non solo per le auto, ma anche per ciclisti e motociclisti, ed è percorsa in diverse competizioni sportive nazionali e internazionali come il Sibiu Cycling Tour, il Transfier Triathlon e l’edizione 2017 della Transcontinental Race. Il sito ufficiale per aggiornamenti sulle date e gli orari di apertura della Transfăgărăşan è http://romaniatourism.com/travel-advisory.html
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Ambiente e Benessere L’Associazione Protezione Uccelli Selvatici offre consulenze ai comuni e ai privati. (APUS)
La prima Audi con la spina Motori e-tron è la nuova serie
di modelli che la casa tedesca ha dotato di una trazione completamente elettrica Mario Alberto Cucchi Abu-Dhabi, capitale degli Emirati Arabi Uniti. Il costruttore tedesco Audi ha scelto proprio questi luoghi, la regione del Golfo Persico, per la prova su strada del suo primo modello completamente elettrico: la e-tron. Fino a non molto tempo fa la Casa di Ingolstadt con il termine e-tron indicava una tecnologia propulsiva, mentre ora identifica la serie costruttiva come avviene con le sigle A4 o Q5. Quindi si tratta del primo modello di una nuova serie. Com’è fatta? Esteticamente è caratterizzata da linee simili a quelle dei suv che già percorrono le nostre strade, ma i dettagli lasciano intuire che abbiamo a che fare con un’automobile speciale. Ecco allora che le prese d’aria ai lati del muso hanno i canali regolabili per raffreddare meglio i freni. Mentre il sottoscocca è carenato per ottimizzare i flussi aerodinamici. I grandi cerchi dal design specifico ospitano pneumatici a bassa resistenza al rotolamento.
Un tetto e un po’ di cibo Mondoanimale Mangiatoie per l’inverno e nidi artificiali
per la primavera sono validi aiuti per i nostri uccelli selvatici
Maria Grazia Buletti «È il momento di ricordare alle persone il progetto lanciato questa primavera per la posa di nidi artificiali che possano aiutare concretamente la nidificazione delle specie urbane»: così esordisce Célia Diaz, presidente dell’associazione APUS (Associazione Protezione Uccelli Selvatici) per sottolineare uno dei tanti obiettivi che il sodalizio realizza a favore dei volatili. La promozione della posa di nidi artificiali non va unicamente a beneficio delle specie urbane: «Il periodo autunno–inverno è ideale per la loro collocazione perché, in questo modo, gli uccelli iniziano a prendere confidenza e sarà più facile che la cassetta venga utilizzata in primavera. Inoltre, quando i migratori arriveranno, troveranno nuovi spazi per la nidificazione a loro disposizione».
L’urbanizzazione e l’intolleranza verso i volatili rendono sempre più difficile il loro insediamento La posa dei nidi artificiali è molto cara alle associazioni che, come APUS, si occupano e sostengono le specie urbane e migratorie, che la ritengono essenziale alla sopravvivenza degli uccelli, il cui habitat è messo sempre più a dura prova dall’urbanizzazione e talvolta dall’intolleranza dell’essere umano: «È appurato che vi sia una carenza dei luoghi di nidificazione alla quale possiamo supplire proprio con la posa di questi nidi». In tal modo, si vengono a creare nuovi luoghi in cui gli uccelli possono nidificare, salvaguardando le specie urbane e accogliendo, come ci ha spiegato la nostra interlocutrice, quelle migratorie. Parecchi i vantaggi offerti da questa soluzione: «Questi nidi offrono
una migliore protezione dalle intemperie con conseguente maggiore successo riproduttivo; sono più duraturi e resistenti delle cavità naturali e questo ci permette di offrire un posto protetto per parecchi anni a venire». I vantaggi non riguardano unicamente i volatili: «Anche l’essere umano ne beneficia, perché con la posa ragionata in luoghi prescelti dall’uomo, si scongiurano le problematiche legate agli escrementi, evitandone la posa sopra finestre o cornicioni, ad esempio. Abbiamo differenti modelli che si adattano alle diverse specie; la loro posa viene studiata anche a beneficio della loro integrazione estetica sull’edificio: sono belli da vedere, le persone ne vanno fiere e gli uccelli ne traggono vero beneficio!». Aderire a questa nobile iniziativa è semplice: «Chiediamo alle persone di prendere contatto direttamente con noi (www.apusapus.ch) per ricevere una consulenza specifica al caso loro; dopo un sopralluogo valutiamo la fattibilità della posa e decidiamo insieme quando agire». L’unione fa la forza: «Il progetto resta aperto a tutti i richiedenti, ai Comuni e alle scuole; per la nostra consulenza, i sopralluoghi per verificare su quali specie dobbiamo intervenire e quali casette sono più adatte, e il nostro lavoro di volontariato, chiediamo solo un contributo per le spese di fissaggio delle casette, ma ogni offerta è benvenuta e ci permette di proseguire con i nostri intenti a favore degli uccelli». Intenti che, in questa stagione, si focalizzano anche sulle mangiatoie: «Anche in inverno gli uccelli selvatici sanno procacciarsi il cibo da soli, fino a quando nevica o gela. Solo allora dobbiamo aiutarli a nutrirsi offrendo loro il cibo piazzato in posti strategici». Dunque, anche se non è sempre strettamente necessario, rifornire gli uccelli di granaglie durante la stagione fredda può essere davvero di aiuto: «Soprattutto in città, dove spesso lo spazio verde è esiguo».
La signora Diaz rende però attenti sul fatto che non bisogna utilizzare scarti della nostra tavola o prodotti di panetteria perché l’alimentazione sbagliata può portare a conseguenze disastrose e a danni irreparabili: «Nelle apposite mangiatoie è sempre necessario offrire alimenti idonei ed è importantissimo che la struttura della mangiatoia sia adeguata al suo scopo, essendo un luogo di aggregazione per i volatili». Il rischio, di fatto, è dato dal via vai che potrebbe portare facilmente a un possibile accumulo di batteri e parassiti: «La posa delle mangiatoie implica un continuo controllo, costante rifornimento di cibo e pulizia». Per questo, la nostra interlocutrice sottolinea la necessità di dotarle di un dispensatore di cibo con attorno dei posatoi: «Questo impedisce che gli uccelli lascino escrementi sui posatoi o sui semini; inoltre, è davvero indispensabile pulire regolarmente la mangiatoia con acqua bollente». Tanti gli accorgimenti che bisogna avere qualora si decidesse di aiutare gli uccellini a sopravvivere con maggiore agio alla stagione fredda, compreso il fatto di non dare mai cibo per terra: «Non bisogna mai posare per terra o sui davanzali le apposite palline o le casette, perché i gatti le riconoscono perfettamente e tengono d’occhio gli uccellini che vengono a sfamarsi, con le conseguenze che possiamo facilmente immaginare». A questo proposito, qualche inverno addietro l’ornitologo Giorgio Vanossi aveva affermato che un uccellino che raccoglie le granaglie cadute per terra in effetti esiste: «È la passerina scopaiola, un passerotto con testa e petto grigi, l’unica che becca solo da terra. Ma è molto furba: attende che dalle casette gli altri uccellini facciano cadere le granaglie per terra e si nutre senza farsi acchiappare dal gatto». Ma anche a questo passeroide non bisogna mai offrire il mangime per terra, si raccomandano gli esperti.
Secondo i tecnici Audi, i 95 kW di batterie consentono un’autonomia di 400 chilometri Insomma, una serie di accorgimenti mirati ad ottenere un coefficiente aerodinamico, CX, di soli 0,27. Il motivo è chiaro: aumentare l’autonomia della etron. Un tasto che sulle auto elettriche è stato sino ad oggi dolente. Le autonomie spesso non erano sufficienti e per questo si preferivano le vetture ibride. Forse i tempi sono ormai maturi: i tecnici Audi dichiarano che i 95 kW di batterie consentirebbero un’autonomia di ben 400 chilometri calcolati secondo il ciclo Wltp. Tanti, considerando che non abbiamo certo a che fare con un peso piuma. L’Audi elettrica etron ha infatti una massa di ben 2490 chilogrammi. D’altronde le batterie, ospitate sotto il pianale per abbassare il baricentro, pesano da sole 700 kg. At-
tenzione però, le prestazioni restano di livello grazie ai due motori elettrici, da 224 cavalli al posteriore e 184 cv all’anteriore. La potenza massima è quindi di 408 cv, ma solo per un tempo massimo di 8 secondi, dopo si riduce a 360 cv, mentre la coppia massima è di 664 NewtonMetro. Schiacciando a fondo il pedale dell’acceleratore l’Audi scatta da ferma a cento orari in soli 5,7 secondi e raggiunge una velocità massima autolimitata elettronicamente di 200 km/h. Lunga quasi cinque metri (4,901 mm) larga quasi due (1,935 mm) e alta 1,616 mm, la e-tron offre spazio per cinque passeggeri che possono viaggiare nel silenzio. Proprio la mancanza di rumori è una delle caratteristiche più evidenti. Basti pensare che per evitare anche il fruscio degli specchietti retrovisori si può scegliere, dal lungo elenco di optional, di sostituirli con delle retrocamere. Certo, l’utilizzo dei display interni per guardare dietro non è intuitivo, ma ci si abitua in fretta. E la ricarica? Durante la guida avviene tramite la frenata rigenerativa, ma quando ci si ferma e-tron va collegata a una presa di corrente tramite la spina. Si ricarica quindi aprendo uno sportellino motorizzato sul parafango sinistro. Ma quanto ci vuole? Sfruttando le colonnine a 150 kW la Casa tedesca dichiara 30 minuti di carica per rigenerare la batteria all’80 per cento. Si tratta indubbiamente della più tecnologica delle Audi. Sotto una carrozzeria tradizionale nasconde oltre ai motori elettrici numerose soluzioni innovative. Ad esempio il calore recuperato dalle batterie può essere dirottato per riscaldare l’abitacolo. La plancia è molto simile a quella delle recenti Audi A6 e Q8. Non manca il virtual cockpit con doppio schermo di controllo a sfioramento da 8,6 e 10,1 pollici nella console centrale. E il comfort di bordo? È garantito dalle funzionali sospensioni ad aria. E-tron, grazie alla trazione integrale, se la cava bene anche sulla sabbia della regione del Golfo Persico, ma secondo gli uomini Audi, i futuri clienti la useranno quasi esclusivamente su strada.
L’estetica è quella di sempre, ma i dettagli fanno un’importante differenza. (Audi)
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 31 dicembre 2018 • N. 01
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 31 dicembre 2018 • N. 01
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Politica e Economia Remain or Leave? Tutti i fatti drammatici di queste settimane confermano che l’Europa è ineluttabile. La si può cambiare, riformare, rifondare, ma l’Europa è più che mai un destino comune. Pure per gli inglesi che non riescono a lasciarla e non lo faranno mai del tutto
Un’economia solida Intervista con l’economista capo della Banca Migros, Christoph Sax per lanciare uno sguardo al 2019
Usa, ex gendarme del mondo
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Politica estera Usa Donald Trump ordina il ritiro dei soldati rimasti in Siria, decisione
che anche sul piano interno rappresenta un risvolto traumatico: lo strappo con i suoi militari
pagina 18
AFP
Federico Rampini
Quale alternativa ad Angela?
Prospettive tedesche Il potere di Angela Merkel è al tramonto, in gran parte dovuto all’errore sull’apertura
delle frontiere ai profughi. Ma che quel che è veramente cambiato è il sistema politico
Lucio Caracciolo L’èra di Angela Merkel è al tramonto. Quanto lungo sarà il crepuscolo, nessuno può dire. Lei stessa ha fissato al 2021, scadenza naturale della legislatura, il suo limite. Non si ricandiderà alla cancelleria. Ma nessuno si sorprenderebbe se già il 2019 vedesse il suo ritiro, magari subito dopo le elezioni europee di maggio. Intanto, per tutelarsi, la CDU, interpretando in questo caso l’indicazione della cancelliera, ha eletto di stretta misura Annegret KrampKarrenbauer (nella foto), più nota come AKK o mini-Merkel, quale sua nuova presidente e quindi probabile erede della «Mutti» alla guida del più importante paese europeo. Perché il declino della cancelliera, e quali prospettive apre? Due ragioni su tutte: il logorio del potere e l’errore commesso da Angela Merkel nell’estate del 2015, aprendo le frontiere a un milione di profughi siriani, afghani e iracheni, salvo subito richiuderle di fronte
all’insofferenza popolare. Fin qui la cronaca. Ma la questione è molto più profonda. Riguarda anzitutto il sistema politico. Per la prima volta si sta tornando a criteri weimariani, quando la rappresentanza in parlamento era talmente pletorica e variopinta da rendere difficile la formazione di governi stabili e popolari. Il netto calo della CDU alle elezioni politiche del settembre 2017, la sconfitta della CSU in Baviera l’autunno successivo, il crollo della SPD, ormai al di sotto del 20% in ogni elezione, segnalano la crisi complessiva dei cosiddetti «partiti del popolo», o meglio partiti di massa. I gemelli diversi di matrice democristiana (la CDU sul piano nazionale, la CSU su scala bavarese), peraltro sempre più litigiosi specie sulla politica migratoria, hanno perso voti sia a vantaggio dei Verdi, in formidabile ascesa, sia del più nuovo e allarmante partito del panorama politico federale, l’Alternativa per la Germania (Alternative für Deutschland, AfD).
Vale la pena soffermarsi su questa nuova forza. Quando in Germania un partito apertamente nazionalista, con venature xenofobe e qualche infiltrazione neonazista, ottiene il 12,6% dei voti alle elezioni politiche e poi si installa in tutti i parlamenti dei 16 Länder, scatta l’allarme. Le ragioni di questa affermazione sono diverse, ma riassunte nel nome: Alternativa per la Germania. Alternativa perché non è vero, come la Merkel non s’è mai stancata di ripetere, che la sua politica, specie quanto alle immigrazioni e all’approccio agli stranieri (11 su 83 milioni di abitanti della Repubblica Federale, ormai uno degli Stati più multietnici del mondo), fosse e sia alternativlos. Senza alternative. L’AfD pone la questione identitaria: la preservazione della tradizione nazionale in termini di lingua, cultura, religione. Niente multiculturalismo. No ai ghetti e alle società parallele. Basta islamici (sottofondo: basta ebrei), con cui non abbiamo nulla da spartire.
Idee, ma anche fatti, come confermano le manifestazioni di piazza organizzate dall’AfD o da forze ad essa affini, quali PEGIDA, movimento autodeputato a proteggere la civiltà occidentale dalle infiltrazioni musulmane. Esibizioni di forza talvolta degenerate in violenza. Con gruppetti neonazi a cantare inni del Terzo Reich, disegnare svastiche e tendere il braccio nel saluto hitleriano. Sarebbe tuttavia sbagliato stabilire l’equivalenza fra AfD e nazisti. Non solo perché nel nuovo partito vi sono correnti relativamente moderate, attribuibili a influenze del conservatorismo classico, ma perché almeno nel discorso pubblico i suoi dirigenti restano nelle regole e nelle procedure della democrazia. Di più: squalificare un partito che nei sondaggi sembra ormai rappresentare un elettore su sei significherebbe fargli un’enorme propaganda. I 94 deputati – qualcuno nel frattempo sta lasciando il gruppo parlamentare – non possono essere demo-
nizzati, semmai socializzati alla democrazia. L’importante è evitare che di qui scocchi una scintilla antidemocratica e illiberale, che riproporrebbe scenari da anni Trenta. È inoltre fondamentale ricordare che la radice dell’AfD è piantata nell’ex Repubblica Democratica Tedesca. L’altra Germania, che secondo Kohl avrebbe presto raggiunto il benessere e la tranquillità della Bundesrepublik originaria. Così non è né sarà prossimamente. Soprattutto nelle teste, la diversità si vede, anzi cresce. Con qualche buona ragione, i tedeschi dell’Est si sentono emarginati, trattati da cittadini di «serie B», esposti a ondate di violenza che loro attribuiscono agli immigrati mentre spesso vengono proprio da chi ne denuncia il sovrannumero. Il primo compito della nuova cancelliera – o cancelliere – sarà quindi di portare a compimento quello che Kohl e Merkel hanno solo iniziato, e talvolta malamente: riunire davvero i tedeschi in un solo Stato.
A Natale Donald Trump ha finalmente reso visita alle sue truppe al fronte: era la prima volta da quando è presidente, un ritardo di due anni che aveva suscitato polemiche. Ha scelto l’Iraq, forse perché l’unico teatro dal quale non ha annunciato il ritiro. Ma anche in quell’occasione, parlando di fronte ai propri militari, ha ribadito con forza una delle sue certezze: «L’America non sarà più il gendarme del mondo». Solo dieci giorni prima, al termine di un duro scontro coi suoi militari, aveva annunciato un duplice disimpegno: totale dalla Siria, parziale dall’Afghanistan. «Cinque anni fa l’Isis era una forza potente e pericolosa, oggi gli Stati Uniti hanno sconfitto il Califfato». È con questo annuncio trionfalista del 19 dicembre che Trump rivela la prima delle sue mosse. Con uno stile che gli è congeniale, dichiara vittoria e lascia il terreno: ordina il ritiro rapido e totale degli ultimi duemila soldati americani rimasti in Siria. Si chiude un capitolo di storia, drammatico ma breve, di coinvolgimento americano su un teatro di guerra che non ha risparmiato le atrocità, le stragi di civili, l’uso di armi chimiche, l’esodo in massa di una parte consistente della popolazione, ondate di profughi diretti anche verso l’Italia e altri paesi europei. Torna a dettar legge in modo esclusivo chi ha sempre comandato in quell’area: il carnefice Assad, il suo protettore Vladimir Putin, affiancati dal regime degli ayatollah iraniani. Sconfitto l’Isis? Non del tutto; anche se certamente è ridotto ai minimi termini rispetto alla minaccia terrificante che rappresentava cinque anni fa. Il Pentagono ha tentato invano di dissuadere Trump dal ritirare tutte le truppe, le discussioni tra i militari e il capo dell’esecutivo sono state tempestose. I militari americani temono di abbandonare al loro destino i loro alleati curdi, che hanno avuto un ruolo decisivo nella lotta contro l’Isis, e contro i quali adesso può scatenarsi senza ritegno la furia di Erdogan che li considera «terroristi» (in quanto alleati dei curdi di casa sua, che nutrono sogni di autonomia sempre repressi da Ankara). La Turchia ha già annunciato un’imminente offensiva militare contro le milizie curde in Siria, gli americani tolgono il disturbo al momento giusto. Ci sono anche quei ribelli arabi non islamisti che hanno combattuto sia l’Isis sia Assad, e vengono abbandonati. Nessuno sembra curarsene. In realtà la Siria aveva smesso di «esistere» da tempo, per le opinioni pubbliche occidentali, vittima di una congiura del silenzio che ha tante cause. Trump è coerente con se stesso, aveva sempre detto di voler lasciare la Siria a Putin. Damasco è nell’area d’influenza di Mosca da quasi mezzo secolo; divenne un avamposto mediorientale dell’Unione sovietica con la costruzione della prima base militare all’inizio degli anni Settanta. Barack Obama fu protagonista di un tentativo – maldestro e contraddittorio – di porre fine alle stragi di Assad. La sua famigerata «linea rossa» da non varcare, contro l’uso di armi chimiche, venne violata impunemente dal regime siriano con la copertura della Russia. Obama ne uscì male, come in tutta la vicenda delle primavere arabe, alternò sprazzi di idealismo, d’inter-
Donald Trump con accanto l’ex segretario alla Difesa Jim Mattis durante una cerimonia sportiva. (AFP)
ventismo umanitario, e ripieghi tattici verso la realpolitik più tradizionale. Trump dileggiò le esitazioni di Obama, e disse apertamente in campagna elettorale che la lotta all’Isis voleva appaltarla ai russi. Trump ordinò una breve pioggia di missili per castigare Assad dopo un’altra strage chimica – una dimostrazione di potenza, spettacolare ma innocua: i russi erano stati avvisati in anticipo sulla traiettoria dei missili. Poi l’impegno americano è stato gradualmente ridimensionato, fino all’annuncio di questo 19 dicembre sul ritiro definitivo e totale. Intanto sulla Siria era calata una spessa coltre di silenzio già da tempo. Perché questo cessato allarme? I combattimenti certo si sono attenuati, ma non sono cessati del tutto. Gli abusi contro i diritti umani non fanno più notizia, se non c’è qualche filiera che li riconduca alle responsabilità dell’Occidente. È un antico riflesso pavloviano, un tempo prerogativa delle sinistre, quell’attenzione a senso unico. Oggi fa comodo anche ai sovranisti di tutto il mondo che le malefatte di Putin in quell’area siano così poco osservate, ancor meno denunciate. Se non ci sono le impronte digitali dell’America sugli orrori, ecco che smettono di fare notizia, o vengono minimizzati, semi-invisibili dietro una nebbia di distrazione e indifferenza. Si può anche aggiungere che per i reporter occidentali è più difficile l’accesso alle zone di guerra, se in quelle aree comandano «gli altri». E dunque c’è penuria d’informazione. Tutto ciò accade in un contesto di ritirata più generale dell’America. Il petrolio arabo non le serve più; ora esporta il suo, per la prima volta da 75 anni. È uno degli sconvolgimenti più sottovalutati del nostro tempo, questa rivoluzione energetica che ha portato gli Stati Uniti all’autosufficienza. Significa che le flotte militari Usa nel Mediterraneo, Golfo Persico e Oceano Indiano, presidiano rotte petrolifere vitali per l’Europa, l’India, la Cina, il Giappone; ma non più per gli Stati Uniti. Netanyahu e il principe saudita MbS da una parte; Putin, Khamenei e Erdogan dall’altra, possono spartirsi le spoglie di quel che rimane di un’area d’influenza americana. I primi due
sgomitano per il ruolo di proconsoli, con delega a rappresentare in Medio Oriente un’America in fase di isolazionismo. Russia Iran e Turchia, imperi tradizionali con pulsioni egemoniche antichissime, godono della ritirata americana che considerano una magnifica opportunità. I diritti umani finiscono nel cono d’ombra, più che mai. La ritirata di Trump ha un risvolto di politica interna importante e traumatico: lo strappo coi suoi militari. Il generale a quattro stellette Jim Mattis, da segretario alla Difesa fu definito «l’adulto di guardia alla Situation Room»; «l’ultima barriera tra l’America e il caos». Se ne va, ultimo di tre generali ad abbandonare il presidente americano in due anni. La sua partenza dal punto di vista di Trump è ordinaria amministrazione: fuori un altro, da una Casa Bianca dove tutti sembrano apprendisti con contratti a termine di brevissima durata. Trump è già concentrato su un’altra emergenza, il suo ultimatum al Congresso: «O mi finanziate il Muro col Messico, o rifiuto di firmare la legge di bilancio e andremo a una lunga serrata degli uffici pubblici per mancanza di fondi». Lo strappo senza precedenti è con i vertici militari al gran completo, solidali con Mattis nel condannare l’abbandono della Siria. Manda un segnale tremendo a tutti gli alleati, di cui Mattis difendeva l’importanza. Conferma che la sua visione di America First non è solo nazionalista, sovranista, protezionista. È anche il ritorno all’isolazionismo che precedette l’intervento nella seconda guerra mondiale; apre spazi enormi ai rivali dell’America, Cina Russia Iran. Trump fa quello che aveva promesso. Basta con l’America «gendarme del Medio Oriente, senza ricavarne alcunché». Così ha spiegato il ritiro degli ultimi duemila soldati dalla Siria, e poi l’altro annuncio che riguarda il ritorno di settemila militari dall’Afghanistan (significa dimezzare quel contingente). La linea isolazionista è coerente, lo si potrebbe perfino scambiare per un pacifista: non fosse per il vigoroso aumento delle spese in armamenti, o per la scelta del superfalco John Bolton come consigliere per la sicurezza nazionale.
Mattis nella lettera di addio si definisce «lucido nel vedere gli attori ostili», e convinto che si debba «trattare gli alleati con rispetto». La rottura col presidente è su due costanti della strategia americana: una forza costruita sulle alleanze, e la determinazione nel tener testa agli avversari strategici, Russia e Cina. Nell’analisi dei vertici militari Trump svende la leadership Usa, liquida un’egemonia, chiude frettolosamente un «secolo americano» fatto di investimenti in hard power e soft power. Apre varchi ai nemici di sempre, crea le condizioni di un indebolimento durevole. Non tutte le dimissioni sono eguali. Questa nasce da uno strappo tra il presidente e uno dei poteri forti più legati alla proiezione imperiale degli Stati Uniti. I generali americani non sono stati formati alla resa. I generali vedono un disegno di lungo periodo che li angoscia. In Estremo Oriente: col Giappone e la Corea del Sud a cui Trump ha detto che toglierà le truppe americane se non riducono gli avanzi commerciali; in Europa e in Canada con gli alleati Nato irrisi; infine in Medio Oriente; Trump smantella un pezzo alla volta un vasto impianto d’influenza mondiale. L’establishment militare non può tollerare una ritirata simile, che si svolge nel caos e nell’improvvisazione, senza contropartite e senza un disegno alternativo. Già altri due generali della squadra iniziale se n’erano andati, McMaster dal National Security Council e Kelly dal ruolo di chief of staff. Il Deep State, quel termine che la destra trumpiana usa per evocare complotti di una «cupola» dell’alta amministrazione pubblica contro un presidente-outsider, in questo caso esiste davvero. E non è un’amministrazione pubblica «obamiana» che sabota un presidente repubblicano. I tre generali che lui ha bruciato in un biennio erano tutti di destra, perfino trumpiani su certi temi. Un bel pezzo di establishment militare si starà anche interrogando sul Russiagate, si chiederà se l’idea di una collusione con Putin non sia diventata più verosimile alla luce del regalo siriano. Putin è l’unico ad avere applaudito il ritiro delle truppe Usa dalla Siria.
Parliamo europeo di Paola Peduzzi Una solitudine necessaria (lo dice Trump) L’alleanza tra l’Europa e gli Stati Uniti è una gara al ribasso, e se avessimo ascoltato la cancelliera tedesca Angela Merkel quando disse, visionaria, «rimbocchiamoci le maniche e impariamo a fare da soli» senza questa America trumpiana così ingestibile, forse oggi la gara l’avremmo vinta. O forse no, forse non è una gara che l’Occidente può vincere: l’Europa si trova a dover prendere le distanze dall’unica superpotenza di riferimento che ha, non ha sostituti, non ha un rimpiazzo facile, o l’America o niente. E intanto l’America – sarebbe meglio dire il suo presidente, Donald Trump, ma più passa il tempo più la distinzione è una carezza superflua – colpisce tutti i suoi alleati e principalmente l’Europa: c’è guerra commerciale, c’è guerra ideologica sul liberalismo e l’apertura all’immigrazione, c’è guerra sull’accordo nucleare con l’Iran e ora c’è anche il ritiro delle truppe americane dalla Siria, ultima doccia ghiacciata di un anno freddissimo. I trumpiani sostengono che soltanto così, con le maniere forti, si riuscirà a trovare un nuovo equilibrio internazionale e a smascherare le ipocrisie europee: il Vecchio continente ha la pessima abitudine di essere critico e schizzinoso nei confronti degli americani, salvo poi dipendere completamente da loro quando si parla di sicurezza e di commerci. Per questo, dicono i trumpiani, è necessaria un po’ di solitudine europea, in modo che poi la presenza americana abbia più valore, più peso. Trump ha l’ossessione della Francia, per dire: da quando ci sono i gilet jaunes e la loro protesta contro Emmanuel Macron, Trump tuitta e commenta «Parigi che brucia», come se fosse l’emblema degli errori e dell’arroganza francese e di tutta l’Europa. E quando si vedono quei gilet gialli comparire nella propaganda del regime iraniano che festeggia il ritiro delle truppe americane dalla Siria come se fosse una propria vittoria, si capisce in un istante come è cambiata la polarità del mondo. La superpotenza americana abdica al suo ruolo, porta a casa le truppe e dice agli alleati: cavatevela. Per chi è sul campo a combattere – come i curdi – è un tradimento, per gli europei è un pochino meno, non rischiano la vita ogni giorno, ma pur sempre un affronto. Al momento a Bruxelles non ci sono state reazioni decise: si sta ancora digerendo l’abbandono del deal nucleare con l’Iran, pensare anche alla Siria è complicato. La Francia ha detto che le truppe presenti – poche – resteranno, e continueranno a dare il loro appoggio alle forze siriane che combattono sia lo Stato islamico sia il regime di Bashar el Assad. Così anche Germania e Regno Unito, ma è chiaro che ora, oltre alla sicurezza, ci saranno decisioni importanti da prendere: che fare con il regime di Damasco, che fare con l’Iran partner commerciale ma sponsor del terrorismo, che fare con la Turchia, membro della Nato ma ingovernabile, che fare con la Russia soprattutto, che mordicchia sul confine est dell’Europa e intanto diventa l’arbitro unico del conflitto in Siria post americano. Gli ottimisti vedono questa fase burrascosa come un’occasione per ridare un baricentro europeo alla geopolitica, ma c’è anche la possibilità che il ritirismo americano lasci l’Europa più esposta, più fragile, più sola contro minacce che si combattono soltanto stando uniti.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 31 dicembre 2018 • N. 01
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Politica e Economia Remain or Leave? Tutti i fatti drammatici di queste settimane confermano che l’Europa è ineluttabile. La si può cambiare, riformare, rifondare, ma l’Europa è più che mai un destino comune. Pure per gli inglesi che non riescono a lasciarla e non lo faranno mai del tutto
Un’economia solida Intervista con l’economista capo della Banca Migros, Christoph Sax per lanciare uno sguardo al 2019
Usa, ex gendarme del mondo
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Politica estera Usa Donald Trump ordina il ritiro dei soldati rimasti in Siria, decisione
che anche sul piano interno rappresenta un risvolto traumatico: lo strappo con i suoi militari
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AFP
Federico Rampini
Quale alternativa ad Angela?
Prospettive tedesche Il potere di Angela Merkel è al tramonto, in gran parte dovuto all’errore sull’apertura
delle frontiere ai profughi. Ma che quel che è veramente cambiato è il sistema politico
Lucio Caracciolo L’èra di Angela Merkel è al tramonto. Quanto lungo sarà il crepuscolo, nessuno può dire. Lei stessa ha fissato al 2021, scadenza naturale della legislatura, il suo limite. Non si ricandiderà alla cancelleria. Ma nessuno si sorprenderebbe se già il 2019 vedesse il suo ritiro, magari subito dopo le elezioni europee di maggio. Intanto, per tutelarsi, la CDU, interpretando in questo caso l’indicazione della cancelliera, ha eletto di stretta misura Annegret KrampKarrenbauer (nella foto), più nota come AKK o mini-Merkel, quale sua nuova presidente e quindi probabile erede della «Mutti» alla guida del più importante paese europeo. Perché il declino della cancelliera, e quali prospettive apre? Due ragioni su tutte: il logorio del potere e l’errore commesso da Angela Merkel nell’estate del 2015, aprendo le frontiere a un milione di profughi siriani, afghani e iracheni, salvo subito richiuderle di fronte
all’insofferenza popolare. Fin qui la cronaca. Ma la questione è molto più profonda. Riguarda anzitutto il sistema politico. Per la prima volta si sta tornando a criteri weimariani, quando la rappresentanza in parlamento era talmente pletorica e variopinta da rendere difficile la formazione di governi stabili e popolari. Il netto calo della CDU alle elezioni politiche del settembre 2017, la sconfitta della CSU in Baviera l’autunno successivo, il crollo della SPD, ormai al di sotto del 20% in ogni elezione, segnalano la crisi complessiva dei cosiddetti «partiti del popolo», o meglio partiti di massa. I gemelli diversi di matrice democristiana (la CDU sul piano nazionale, la CSU su scala bavarese), peraltro sempre più litigiosi specie sulla politica migratoria, hanno perso voti sia a vantaggio dei Verdi, in formidabile ascesa, sia del più nuovo e allarmante partito del panorama politico federale, l’Alternativa per la Germania (Alternative für Deutschland, AfD).
Vale la pena soffermarsi su questa nuova forza. Quando in Germania un partito apertamente nazionalista, con venature xenofobe e qualche infiltrazione neonazista, ottiene il 12,6% dei voti alle elezioni politiche e poi si installa in tutti i parlamenti dei 16 Länder, scatta l’allarme. Le ragioni di questa affermazione sono diverse, ma riassunte nel nome: Alternativa per la Germania. Alternativa perché non è vero, come la Merkel non s’è mai stancata di ripetere, che la sua politica, specie quanto alle immigrazioni e all’approccio agli stranieri (11 su 83 milioni di abitanti della Repubblica Federale, ormai uno degli Stati più multietnici del mondo), fosse e sia alternativlos. Senza alternative. L’AfD pone la questione identitaria: la preservazione della tradizione nazionale in termini di lingua, cultura, religione. Niente multiculturalismo. No ai ghetti e alle società parallele. Basta islamici (sottofondo: basta ebrei), con cui non abbiamo nulla da spartire.
Idee, ma anche fatti, come confermano le manifestazioni di piazza organizzate dall’AfD o da forze ad essa affini, quali PEGIDA, movimento autodeputato a proteggere la civiltà occidentale dalle infiltrazioni musulmane. Esibizioni di forza talvolta degenerate in violenza. Con gruppetti neonazi a cantare inni del Terzo Reich, disegnare svastiche e tendere il braccio nel saluto hitleriano. Sarebbe tuttavia sbagliato stabilire l’equivalenza fra AfD e nazisti. Non solo perché nel nuovo partito vi sono correnti relativamente moderate, attribuibili a influenze del conservatorismo classico, ma perché almeno nel discorso pubblico i suoi dirigenti restano nelle regole e nelle procedure della democrazia. Di più: squalificare un partito che nei sondaggi sembra ormai rappresentare un elettore su sei significherebbe fargli un’enorme propaganda. I 94 deputati – qualcuno nel frattempo sta lasciando il gruppo parlamentare – non possono essere demo-
nizzati, semmai socializzati alla democrazia. L’importante è evitare che di qui scocchi una scintilla antidemocratica e illiberale, che riproporrebbe scenari da anni Trenta. È inoltre fondamentale ricordare che la radice dell’AfD è piantata nell’ex Repubblica Democratica Tedesca. L’altra Germania, che secondo Kohl avrebbe presto raggiunto il benessere e la tranquillità della Bundesrepublik originaria. Così non è né sarà prossimamente. Soprattutto nelle teste, la diversità si vede, anzi cresce. Con qualche buona ragione, i tedeschi dell’Est si sentono emarginati, trattati da cittadini di «serie B», esposti a ondate di violenza che loro attribuiscono agli immigrati mentre spesso vengono proprio da chi ne denuncia il sovrannumero. Il primo compito della nuova cancelliera – o cancelliere – sarà quindi di portare a compimento quello che Kohl e Merkel hanno solo iniziato, e talvolta malamente: riunire davvero i tedeschi in un solo Stato.
A Natale Donald Trump ha finalmente reso visita alle sue truppe al fronte: era la prima volta da quando è presidente, un ritardo di due anni che aveva suscitato polemiche. Ha scelto l’Iraq, forse perché l’unico teatro dal quale non ha annunciato il ritiro. Ma anche in quell’occasione, parlando di fronte ai propri militari, ha ribadito con forza una delle sue certezze: «L’America non sarà più il gendarme del mondo». Solo dieci giorni prima, al termine di un duro scontro coi suoi militari, aveva annunciato un duplice disimpegno: totale dalla Siria, parziale dall’Afghanistan. «Cinque anni fa l’Isis era una forza potente e pericolosa, oggi gli Stati Uniti hanno sconfitto il Califfato». È con questo annuncio trionfalista del 19 dicembre che Trump rivela la prima delle sue mosse. Con uno stile che gli è congeniale, dichiara vittoria e lascia il terreno: ordina il ritiro rapido e totale degli ultimi duemila soldati americani rimasti in Siria. Si chiude un capitolo di storia, drammatico ma breve, di coinvolgimento americano su un teatro di guerra che non ha risparmiato le atrocità, le stragi di civili, l’uso di armi chimiche, l’esodo in massa di una parte consistente della popolazione, ondate di profughi diretti anche verso l’Italia e altri paesi europei. Torna a dettar legge in modo esclusivo chi ha sempre comandato in quell’area: il carnefice Assad, il suo protettore Vladimir Putin, affiancati dal regime degli ayatollah iraniani. Sconfitto l’Isis? Non del tutto; anche se certamente è ridotto ai minimi termini rispetto alla minaccia terrificante che rappresentava cinque anni fa. Il Pentagono ha tentato invano di dissuadere Trump dal ritirare tutte le truppe, le discussioni tra i militari e il capo dell’esecutivo sono state tempestose. I militari americani temono di abbandonare al loro destino i loro alleati curdi, che hanno avuto un ruolo decisivo nella lotta contro l’Isis, e contro i quali adesso può scatenarsi senza ritegno la furia di Erdogan che li considera «terroristi» (in quanto alleati dei curdi di casa sua, che nutrono sogni di autonomia sempre repressi da Ankara). La Turchia ha già annunciato un’imminente offensiva militare contro le milizie curde in Siria, gli americani tolgono il disturbo al momento giusto. Ci sono anche quei ribelli arabi non islamisti che hanno combattuto sia l’Isis sia Assad, e vengono abbandonati. Nessuno sembra curarsene. In realtà la Siria aveva smesso di «esistere» da tempo, per le opinioni pubbliche occidentali, vittima di una congiura del silenzio che ha tante cause. Trump è coerente con se stesso, aveva sempre detto di voler lasciare la Siria a Putin. Damasco è nell’area d’influenza di Mosca da quasi mezzo secolo; divenne un avamposto mediorientale dell’Unione sovietica con la costruzione della prima base militare all’inizio degli anni Settanta. Barack Obama fu protagonista di un tentativo – maldestro e contraddittorio – di porre fine alle stragi di Assad. La sua famigerata «linea rossa» da non varcare, contro l’uso di armi chimiche, venne violata impunemente dal regime siriano con la copertura della Russia. Obama ne uscì male, come in tutta la vicenda delle primavere arabe, alternò sprazzi di idealismo, d’inter-
Donald Trump con accanto l’ex segretario alla Difesa Jim Mattis durante una cerimonia sportiva. (AFP)
ventismo umanitario, e ripieghi tattici verso la realpolitik più tradizionale. Trump dileggiò le esitazioni di Obama, e disse apertamente in campagna elettorale che la lotta all’Isis voleva appaltarla ai russi. Trump ordinò una breve pioggia di missili per castigare Assad dopo un’altra strage chimica – una dimostrazione di potenza, spettacolare ma innocua: i russi erano stati avvisati in anticipo sulla traiettoria dei missili. Poi l’impegno americano è stato gradualmente ridimensionato, fino all’annuncio di questo 19 dicembre sul ritiro definitivo e totale. Intanto sulla Siria era calata una spessa coltre di silenzio già da tempo. Perché questo cessato allarme? I combattimenti certo si sono attenuati, ma non sono cessati del tutto. Gli abusi contro i diritti umani non fanno più notizia, se non c’è qualche filiera che li riconduca alle responsabilità dell’Occidente. È un antico riflesso pavloviano, un tempo prerogativa delle sinistre, quell’attenzione a senso unico. Oggi fa comodo anche ai sovranisti di tutto il mondo che le malefatte di Putin in quell’area siano così poco osservate, ancor meno denunciate. Se non ci sono le impronte digitali dell’America sugli orrori, ecco che smettono di fare notizia, o vengono minimizzati, semi-invisibili dietro una nebbia di distrazione e indifferenza. Si può anche aggiungere che per i reporter occidentali è più difficile l’accesso alle zone di guerra, se in quelle aree comandano «gli altri». E dunque c’è penuria d’informazione. Tutto ciò accade in un contesto di ritirata più generale dell’America. Il petrolio arabo non le serve più; ora esporta il suo, per la prima volta da 75 anni. È uno degli sconvolgimenti più sottovalutati del nostro tempo, questa rivoluzione energetica che ha portato gli Stati Uniti all’autosufficienza. Significa che le flotte militari Usa nel Mediterraneo, Golfo Persico e Oceano Indiano, presidiano rotte petrolifere vitali per l’Europa, l’India, la Cina, il Giappone; ma non più per gli Stati Uniti. Netanyahu e il principe saudita MbS da una parte; Putin, Khamenei e Erdogan dall’altra, possono spartirsi le spoglie di quel che rimane di un’area d’influenza americana. I primi due
sgomitano per il ruolo di proconsoli, con delega a rappresentare in Medio Oriente un’America in fase di isolazionismo. Russia Iran e Turchia, imperi tradizionali con pulsioni egemoniche antichissime, godono della ritirata americana che considerano una magnifica opportunità. I diritti umani finiscono nel cono d’ombra, più che mai. La ritirata di Trump ha un risvolto di politica interna importante e traumatico: lo strappo coi suoi militari. Il generale a quattro stellette Jim Mattis, da segretario alla Difesa fu definito «l’adulto di guardia alla Situation Room»; «l’ultima barriera tra l’America e il caos». Se ne va, ultimo di tre generali ad abbandonare il presidente americano in due anni. La sua partenza dal punto di vista di Trump è ordinaria amministrazione: fuori un altro, da una Casa Bianca dove tutti sembrano apprendisti con contratti a termine di brevissima durata. Trump è già concentrato su un’altra emergenza, il suo ultimatum al Congresso: «O mi finanziate il Muro col Messico, o rifiuto di firmare la legge di bilancio e andremo a una lunga serrata degli uffici pubblici per mancanza di fondi». Lo strappo senza precedenti è con i vertici militari al gran completo, solidali con Mattis nel condannare l’abbandono della Siria. Manda un segnale tremendo a tutti gli alleati, di cui Mattis difendeva l’importanza. Conferma che la sua visione di America First non è solo nazionalista, sovranista, protezionista. È anche il ritorno all’isolazionismo che precedette l’intervento nella seconda guerra mondiale; apre spazi enormi ai rivali dell’America, Cina Russia Iran. Trump fa quello che aveva promesso. Basta con l’America «gendarme del Medio Oriente, senza ricavarne alcunché». Così ha spiegato il ritiro degli ultimi duemila soldati dalla Siria, e poi l’altro annuncio che riguarda il ritorno di settemila militari dall’Afghanistan (significa dimezzare quel contingente). La linea isolazionista è coerente, lo si potrebbe perfino scambiare per un pacifista: non fosse per il vigoroso aumento delle spese in armamenti, o per la scelta del superfalco John Bolton come consigliere per la sicurezza nazionale.
Mattis nella lettera di addio si definisce «lucido nel vedere gli attori ostili», e convinto che si debba «trattare gli alleati con rispetto». La rottura col presidente è su due costanti della strategia americana: una forza costruita sulle alleanze, e la determinazione nel tener testa agli avversari strategici, Russia e Cina. Nell’analisi dei vertici militari Trump svende la leadership Usa, liquida un’egemonia, chiude frettolosamente un «secolo americano» fatto di investimenti in hard power e soft power. Apre varchi ai nemici di sempre, crea le condizioni di un indebolimento durevole. Non tutte le dimissioni sono eguali. Questa nasce da uno strappo tra il presidente e uno dei poteri forti più legati alla proiezione imperiale degli Stati Uniti. I generali americani non sono stati formati alla resa. I generali vedono un disegno di lungo periodo che li angoscia. In Estremo Oriente: col Giappone e la Corea del Sud a cui Trump ha detto che toglierà le truppe americane se non riducono gli avanzi commerciali; in Europa e in Canada con gli alleati Nato irrisi; infine in Medio Oriente; Trump smantella un pezzo alla volta un vasto impianto d’influenza mondiale. L’establishment militare non può tollerare una ritirata simile, che si svolge nel caos e nell’improvvisazione, senza contropartite e senza un disegno alternativo. Già altri due generali della squadra iniziale se n’erano andati, McMaster dal National Security Council e Kelly dal ruolo di chief of staff. Il Deep State, quel termine che la destra trumpiana usa per evocare complotti di una «cupola» dell’alta amministrazione pubblica contro un presidente-outsider, in questo caso esiste davvero. E non è un’amministrazione pubblica «obamiana» che sabota un presidente repubblicano. I tre generali che lui ha bruciato in un biennio erano tutti di destra, perfino trumpiani su certi temi. Un bel pezzo di establishment militare si starà anche interrogando sul Russiagate, si chiederà se l’idea di una collusione con Putin non sia diventata più verosimile alla luce del regalo siriano. Putin è l’unico ad avere applaudito il ritiro delle truppe Usa dalla Siria.
Parliamo europeo di Paola Peduzzi Una solitudine necessaria (lo dice Trump) L’alleanza tra l’Europa e gli Stati Uniti è una gara al ribasso, e se avessimo ascoltato la cancelliera tedesca Angela Merkel quando disse, visionaria, «rimbocchiamoci le maniche e impariamo a fare da soli» senza questa America trumpiana così ingestibile, forse oggi la gara l’avremmo vinta. O forse no, forse non è una gara che l’Occidente può vincere: l’Europa si trova a dover prendere le distanze dall’unica superpotenza di riferimento che ha, non ha sostituti, non ha un rimpiazzo facile, o l’America o niente. E intanto l’America – sarebbe meglio dire il suo presidente, Donald Trump, ma più passa il tempo più la distinzione è una carezza superflua – colpisce tutti i suoi alleati e principalmente l’Europa: c’è guerra commerciale, c’è guerra ideologica sul liberalismo e l’apertura all’immigrazione, c’è guerra sull’accordo nucleare con l’Iran e ora c’è anche il ritiro delle truppe americane dalla Siria, ultima doccia ghiacciata di un anno freddissimo. I trumpiani sostengono che soltanto così, con le maniere forti, si riuscirà a trovare un nuovo equilibrio internazionale e a smascherare le ipocrisie europee: il Vecchio continente ha la pessima abitudine di essere critico e schizzinoso nei confronti degli americani, salvo poi dipendere completamente da loro quando si parla di sicurezza e di commerci. Per questo, dicono i trumpiani, è necessaria un po’ di solitudine europea, in modo che poi la presenza americana abbia più valore, più peso. Trump ha l’ossessione della Francia, per dire: da quando ci sono i gilet jaunes e la loro protesta contro Emmanuel Macron, Trump tuitta e commenta «Parigi che brucia», come se fosse l’emblema degli errori e dell’arroganza francese e di tutta l’Europa. E quando si vedono quei gilet gialli comparire nella propaganda del regime iraniano che festeggia il ritiro delle truppe americane dalla Siria come se fosse una propria vittoria, si capisce in un istante come è cambiata la polarità del mondo. La superpotenza americana abdica al suo ruolo, porta a casa le truppe e dice agli alleati: cavatevela. Per chi è sul campo a combattere – come i curdi – è un tradimento, per gli europei è un pochino meno, non rischiano la vita ogni giorno, ma pur sempre un affronto. Al momento a Bruxelles non ci sono state reazioni decise: si sta ancora digerendo l’abbandono del deal nucleare con l’Iran, pensare anche alla Siria è complicato. La Francia ha detto che le truppe presenti – poche – resteranno, e continueranno a dare il loro appoggio alle forze siriane che combattono sia lo Stato islamico sia il regime di Bashar el Assad. Così anche Germania e Regno Unito, ma è chiaro che ora, oltre alla sicurezza, ci saranno decisioni importanti da prendere: che fare con il regime di Damasco, che fare con l’Iran partner commerciale ma sponsor del terrorismo, che fare con la Turchia, membro della Nato ma ingovernabile, che fare con la Russia soprattutto, che mordicchia sul confine est dell’Europa e intanto diventa l’arbitro unico del conflitto in Siria post americano. Gli ottimisti vedono questa fase burrascosa come un’occasione per ridare un baricentro europeo alla geopolitica, ma c’è anche la possibilità che il ritirismo americano lasci l’Europa più esposta, più fragile, più sola contro minacce che si combattono soltanto stando uniti.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 31 dicembre 2018 • N. 01
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Politica e Economia
Europa anche nolenti
GB A l tempo di Trump e Putin, dell’impero cinese e dell’avanzata
Aldo Cazzullo C’è una sola ragione per cui il sistema politico inglese ancora regge, sia pure a fatica: il sistema elettorale, lo stesso da secoli. I due partiti-architrave del sistema, il conservatore e il laburista, si sarebbero divisi già da tempo tra europeisti e anti-europeisti, tra Remainers che vorrebbero restare nell’Unione e Leavers che vorrebbero andarsene, se gli eventuali scissionisti non fossero condannati a non rientrare in Parlamento con i collegi uninominali, pur prendendo un sacco di voti. Ma vediamo quel che sta accadendo, e quel che potrebbe accadere. L’accordo tra Londra e l’Europa non esiste più. Eppure proprio i fatti drammatici di queste settimane confermano che l’Europa è ineluttabile. La si può e la si deve cambiare, riformare, rifondare; ma l’Europa è più che mai un destino comune. Pure per gli inglesi, che non riescono a lasciarla, e non lo faranno mai del tutto. La settimana di dibattito a Westminster, ai primi di dicembre, è stata un esame di coscienza collettivo. L’autobiografia di una nazione, avrebbe detto Gobetti. Aperta da un voto storico, in cui molti conservatori si sono uniti all’opposizione per censurare il governo e accusarlo di aver mancato di rispetto al Parlamento. La colpa di Theresa May era di non aver pubblicato integralmente i documenti della trattativa con l’Europa. Subito dopo i Comu-
ni hanno approvato una mozione che consente loro di modificare il «deal», l’accordo con Bruxelles, vanificando la strategia della premier, basata sull’alternativa «o accordo o nulla». In due mosse il Parlamento britannico ha confermato la propria centralità; proprio nelle ore in cui a Parigi la polizia ricorreva a ogni durezza per reprimere la rivolta di piazza, in Germania gli assetti politici cambiavano non al Bundestag ma in un congresso di partito, e in Italia la Camera era chiamata a votare la fiducia a una manovra immaginaria, restando quella vera ancora da scrivere. In sostanza, il Paese che ha inventato il Parlamento ha ricordato al mondo che la democrazia rappresentativa rimane la peggior forma di governo, tranne tutte le altre. Esiste però anche la democrazia diretta. Che si è espressa con il referendum del 23 giugno 2016. Dal dibattito, cui hanno partecipato direttamente o indirettamente le principali istituzioni finanziarie e culturali del Paese, è emerso con chiarezza che la classe dirigente britannica considera la Brexit un pasticcio che può diventare un disastro. L’hanno capito anche molti che la Brexit l’avevano sostenuta, magari per cavalcare la tigre del malcontento popolare, da Boris Johnson allo stesso Jeremy Corbyn, sempre molto tiepido sull’Europa per non precludersi la chance di conquistare Downing Street. Però le ragioni che hanno indotto il 52% a votare per il Leave sono ancora lì, intatte. A cominciare dalla più impor-
tante: la tutela del lavoro, della specificità, dell’identità britannica. Londra non è più una città inglese ma la capitale del mondo multiculturale; infatti Londra è contro la Brexit; ma gran parte del Paese non riconosce più la propria capitale, così com’è diventata. Molti sono contrari alla libera circolazione dei lavoratori, arrivati a centinaia di migliaia dal Sud e dall’Est dell’Europa, in particolare da Italia e Polonia. Molti, ancora scossi dalle immagini della giungla di Calais abitata da africani in attesa di passare la Manica, temono che i flussi migratori arrivino fin qui. Più in generale, l’Europa è pensata come una gigantesca costruzione burocratica in mano ai tedeschi; e molti inglesi non vogliono saperne di obbedire al popolo che hanno sconfitto in due guerre mondiali. Eppure uscire dal mercato comune europeo non conviene neppure a loro. Ridurre l’interdipendenza finanziaria non è certo nell’interesse della più grande fabbrica di ricchezza, la City. Ostacolare l’arrivo di studenti dall’Europa penalizzerebbe la seconda industria di Londra, l’istruzione. Fermare i lavoratori d’oltremanica danneggerebbe le multinazionali della ristorazione e dei servizi. Infine, toccare la frontiera tra l’Ulster e la Repubblica d’Irlanda, che resterebbe in Europa a pieno titolo, significa evocare il fantasma di una guerra secolare; e proprio su questo scoglio si è arenata la May. A rendere ancora più interessante la questione è la parabola di Nigel Fa-
AFP
islamica, fare a meno dell’Europa è un errore. Anche per gli inglesi
rage. Il paladino della Brexit è uscito dal partito che lui stesso aveva fondato, in polemica con la deriva di estrema destra. Farage è un nazionalista britannico, ma è anche un sincero liberale. In ufficio ha la foto di Margareth Thatcher. Un movimento xenofobo e antislamico non gli interessa; il suo obiettivo resta dividere i conservatori e rifondarli su basi antieuropee. Non ci riuscirà; ma è consolante pensare che pure il populismo trova in Inghilterra un suo «modus», un metodo, un limite. A questo punto può succedere di tutto. Un nuovo accordo. O anche un nuovo referendum. Ma una cosa è chiara: se non sarà possibile un ripensamento, una qualche forma di legame con l’Europa è inevitabile. E questo dovrebbe far riflettere gli anti-europei italiani. All’uscita dall’euro i 5 Stelle sembrano aver rinunciato. La sovranità monetaria rimane il sogno proibito di qualche apprendista stregone della Lega. Ma Salvini non parla più di far saltare l’Europa, semmai di riorientarla sull’asse popolare-populista, sostituendo i socialisti come partner di un’alleanza meno ossessionata dall’austerity e più attenta alle identità nazionali e agli interessi
dei ceti produttivi. È un progetto che può rivelarsi una velleità, di fronte alla tenuta tedesca. Di sicuro, al tempo dei Trump e dei Putin, dell’impero cinese e dell’avanzata islamica, pensare di fare a meno dell’Europa è un errore che neanche gli inglesi possono permettersi. A meno di ulteriori e improbabili rinvii, il prossimo 21 gennaio il Parlamento voterà sul «deal» rinegoziato in extremis dalla May. La premier è sopravvissuta a una mozione di sfiducia interna al suo partito, che non potrà essere ripresentata per un altro anno. In questo modo ha guadagnato tempo, ma ha dovuto umiliarsi assicurando che non sarà lei a guidare il partito conservatore alle prossime elezioni. Una vittoria di Pirro, insomma. Difficilmente la May potrà restare a lungo a Downing Street se la sua linea fosse battuta nettamente. La possibilità di voto anticipato non va esclusa: Corbyn ci spera; ma il suo partito è diviso, l’ala blairiana non lo sopporta. È anche possibile, e forse auspicabile, che gli inglesi prima di eleggere il nuovo Parlamento siano chiamati a votare di nuovo sulla Brexit. Riparare al danno compiuto è difficilissimo, ma non impossibile. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 31 dicembre 2018 • N. 01
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Politica e Economia
«L’economia svizzera è solida»
Intervista I prezzi degli affitti sono stabili, i tassi d’interesse in lieve crescita, la previdenza per la vecchiaia,
per contro, un cantiere aperto: Christoph Sax, capo economista della Banca Migros, getta uno sguardo al futuro
Kian Ramezani* Come hanno reagito i suoi colleghi di Banca Migros all’abolizione dei bonus?
In modo abbastanza tranquillo, anche se la decisione è stata una sorpresa per i più. Poiché al contempo aumentano i salari fissi, non c’è stata una riduzione delle prestazioni. I bonus elevati creano degli incentivi sbagliati e possono essere dannosi per lo sviluppo aziendale sul lungo termine se i dipendenti si concentrano troppo sul raggiungimento dei propri obiettivi di performance personali. A proposito di tranquillità: la guerra dei dazi, la Brexit, i gilet gialli... nel 2018 non sono mancati né crisi né drammi. L’impressione inganna o i mercati internazionali sembrano reagire sempre più freddamente?
È stato così per molto tempo. Tuttavia, nelle ultime settimane l’umore è cambiato drasticamente, anche se l’economia globale continua a svilupparsi solidamente. Il conflitto commerciale tra USA e Cina pesa sempre di più sui mercati. Giungerà il tanto atteso crash delle borse l’anno prossimo?
Un po’ di «aria» è già uscita, per cui non crediamo in una grande crisi borsistica nel 2019. I rischi congiunturali però sono aumentati. Dovesse esserci un’ulteriore escalation del conflitto commerciale fra Stati Uniti e Cina, non sarebbero da escludere altre flessioni dei valori di borsa.
Negli ultimi anni un tema importante è stato la politica monetaria espansiva delle banche centrali. Ora ci si aspetta che le banche centrali comincino la stretta.
Questo è vero, anche se il Presidente della Banca centrale statunitense, Jerome Powell, ha fatto capire di non considerare più necessari molti altri aumenti. Il nostro ciclo dei tassi d’interesse è comunque molto indietro rispetto a quello degli Stati Uniti. Inoltre i tassi d’interesse di riferimento della Banca nazionale svizzera (BNS) devono essere inferiori a quelli dell’Eurozona, altrimenti il franco si apprezza troppo. La Banca nazionale dovrà pertanto
maggiore domanda di servizi sanitari. Il fatto è che stiamo spendendo sempre più dei nostri salari per la salute – una tendenza che continua da 20 anni. Ci sono diversi punti di partenza, ma non c’è una soluzione di consenso.
attendere che la Banca centrale europea (BCE) aumenti il tasso di riferimento, anche se questa ha chiaramente segnalato che non accadrà prima dell’autunno 2019.
Che risvolti ha tutto ciò per i locatari in Svizzera?
Cosa succede se non facciamo qualcosa?
Anche il tasso di riferimento rimarrà stabile per le ragioni sopra indicate, per cui l’anno prossimo gli affitti degli immobili esistenti non subiranno variazioni significative. Tuttavia scenderanno per gli immobili di nuova costruzione in località decentrate perché si è costruito troppo e le superfici sfitte continuano ad aumentare.
Le famiglie sarebbero colpite più duramente, ma anche la spesa pubblica, con contributi più elevati agli ospedali, riduzioni dei premi e finanziamento delle cure di lunga durata. Gli sviluppi demografici cominciano ad avere un forte impatto, soprattutto sull’ultimo punto.
E per i proprietari di casa?
Si intravedono anche prospettive ottimistiche nell’economia svizzera?
Le ipoteche fisse di lunga durata saranno leggermente più costose nel 2019, ma non di molto. Le ipoteche Libor rimangono molto interessanti. La domanda di proprietà abitativa rimarrà dunque stabile, così come il livello dei prezzi. Vedo meno rischi in questo segmento. Le banche sono ora molto prudenti nel concedere le ipoteche e si aspettano un tasso del 4,5 – 5%. Chi non può permettersi questo tasso d’interesse non ottiene il finanziamento.
Certamente. Ad esempio, abbiamo digerito bene lo shock del franco svizzero e abbiamo guadagnato competitività. L’economia svizzera è stabile, anche se il contesto si sta deteriorando. Il problema, tuttavia, è che siamo cresciuti perlopiù in «larghezza» dopo la crisi finanziaria. La performance economica è sì aumentata, ma soprattutto perché abbiamo più lavoratori, prevalentemente grazie all’immigrazione. La produttività Pro-capite non è poi cambiata così tanto.
Sono concepibili tassi di interesse fino all’8%, come alla fine degli anni ’80?
Questa è la grande domanda. I debiti mondiali sono a livelli record e non potranno mai essere rimborsati. La crescita del debito globale nell’ultimo decennio è stata esorbitante. Se un simile livello di tassi d’interesse dovesse tornare, diventerebbe davvero spiacevole e scatenerebbe una crisi finanziaria globale. Tuttavia, non ritengo che tassi d’interesse dell’8% siano uno scenario realistico, perché la globalizzazione tende a frenare l’inflazione. I tassi d’interesse aumenteranno, tuttavia, e dovranno andare un po’ oltre. Perché?
Per eliminare incentivi errati nell’ambito del sistema finanziario. I bassi tassi d’interesse favoriscono investimenti errati e la formazione di bolle azionarie e gravano sui fondi pensione, poiché i rendimenti degli investimenti saranno di conseguenza inferiori nei prossimi anni. Il secondo problema è demografico, la società invecchia, viviamo più
E da cosa dipende?
Christoph Sax, 42 anni, è dottore in economia e dal febbraio 2017 economista capo della Banca Migros. In precedenza è stato attivo come economista presso la Seco e nel settore finanziario. (Nik Hunger)
a lungo e le pensioni esistenti non sono finanziabili a lungo termine. Le generazioni future dovranno fare i conti con dei tagli. Ciò rende ancora più importante la previdenza privata attraverso il terzo pilastro.
Finora, la regola era: la previdenza statale e professionale insieme sono sufficienti.
Questo principio è in pericolo. All’AVS la riforma prevista ci darà ulteriori quattro anni di respiro, ma non di più. Occorre intervenire anche nella previdenza professionale. I contributi sono destinati ad aumentare, probabilmente sia da parte dei dipendenti che dei dato-
ri di lavoro. Oggi è necessario mettere da parte di più, non importa attraverso quali canali.
Parla di popolazione che invecchia, correlato a questo aspetto vi è anche il sistema sanitario, cronicamente sottofinanziato.
Un dossier estremamente difficile, con il quale alcuni consiglieri federali si sono scottati le dita. Le riforme sono bloccate da tempo. Il sistema non contiene quasi nessun incentivo al risparmio. Di conseguenza i costi aumentano più rapidamente dei salari. L’invecchiamento e la crescente prosperità determinano inoltre una
In Svizzera molti settori sono protetti indirettamente o direttamente dallo Stato. In questi settori eccessivamente regolamentati stiamo assistendo a una crescita della produttività molto limitata. Qui dovremmo fare di più, liberalizzare. L’industria, tra l’altro, rappresenta qui un’eccezione, è diventata più produttiva. Quanto è preparata la Svizzera per la digitalizzazione?
Ritengo che non siamo così moderni come crediamo di essere. Una collega di Shanghai, con la quale ho fatto diverse presentazioni, dice chiaramente che la Cina è molto più avanti. Un esempio? In quasi tutti i chioschi si può pagare contactless. In ogni caso, penso che dovremmo guardare con entusiasmo alle opportunità offerte dalla digitalizzazione. * Redattore di Migros Magazin
Il governo non intende frenare l’eccesso di regolamentazione Burocrazia Vari studi, pubblici e privati, valutano in decine di miliardi all’anno gli aggravi per le aziende -
Nonostante le spinte provenienti dalle Camere, il governo resta scettico sull’opportunità di intervenire Ignazio Bonoli Da tempo si discute anche in Svizzera su un eccesso di regolamentazioni che imbrigliano alcune attività e costano caro all’economia. In una presa di posizione di un paio di anni fa, l’Unione Svizzera Arti e Mestieri valutava in circa 60 miliardi di franchi, corrispondenti a circa il 10% del PIL, il costo della regolamentazione. Già nel 2003, il Consiglio federale aveva pubblicato uno studio, che però si limitava agli obblighi di informazione imposti alle aziende, il cui costo raggiungeva però già i 10 miliardi di franchi. Non contento, l’USAM faceva valutare, sulla base di studi fatti in Germania, quanto potesse essere l’aggravio per le aziende svizzere. Si giungeva così a valutare in circa 50 miliardi di franchi l’onere per le aziende. Prendendo in considerazione quanto fatto in altri paesi, anche «Avenir Suisse» giungeva a conclusioni analoghe e avanzava alcu-
ne proposte per risolvere il problema. L’USAM chiedeva quindi – attraverso vari atti parlamentari – al Consiglio federale di agire di conseguenza. Già nel 2013 il Consiglio federale stimava che i costi della regolamentazione, limitata a soli 15 settori, potevano raggiungere i 10 miliardi di franchi all’anno. I costi maggiori erano provocati dall’IVA, dal diritto edile, da quello ambientale, dalla sicurezza del lavoro e dalla pubblicazione dei bilanci. A livello parlamentare sono così nate parecchie proposte: circa un centinaio, secondo i calcoli della Segretaria di Stato dell’economia. Così, il 10 dicembre scorso, il Consiglio federale ha reso pubblico il rapporto sul freno alla regolamentazione chiestogli dal Parlamento. Un primo gruppo di freni potrebbe consistere in un intervento brutale che riduca di un tot per cento i costi globali della regolamentazione. Lo si potrebbe fare applicando il principio «per
ogni nuova legge se ne deve sopprimere una in vigore». Alcuni paesi, tra cui Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna e Germania applicano questo principio. Secondo un rapporto dell’OCSE, alcuni paesi hanno già annunciato buoni risultati, benché la pressione verso sempre nuove regolamentazioni non si sia allentata di molto. Il Consiglio federale pensa però che simili modelli non siano applicabili in Svizzera, dove non c’è un governo «di programma» e tanto il Parlamento, quanto il popolo sono talvolta all’opposizione e possono aggirare i provvedimenti del governo. Un secondo gruppo di interventi potrebbe consistere nell’erigere ostacoli contro l’eccesso di regolamentazione. Per esempio applicando il principio della maggioranza qualificata per ogni nuova regola, oppure limitandone l’applicazione nel tempo. Due metodi che la Svizzera già applica, per esempio in parte della politica finanziaria. Capita però anche spesso che il Parla-
mento decida di prolungare il termine di una legge che viene a scadere. Un esempio classico riguarda le imposte federali, che sono limitate nel tempo a livello di Costituzione. Il Consiglio federale vede di buon occhio misure che possano migliorare la trasparenza dei costi. Deve però precisare come: per esempio – e se ne parlava già anni fa – creando un’istanza indipendente incaricata di valutare i costi della regolamentazione. Lo si fa in Germania e in Olanda. Secondo voci circolate a Berna, si tratterebbe tra l’altro di un modello simile alla Commissione della concorrenza, oppure a quello del Delegato alla protezione dei dati. La nuova istanza dovrebbe esaminare le analisi interne o effettuare inchieste proprie. Nel primo caso c’è il pericolo di conflitti d’interesse, nel secondo si rischia proprio la creazione di nuove regole. Nonostante le pressioni del Parlamento e dell’economia, il Consiglio
federale non intende adottare misure particolari in questo campo. Il rapporto di una cinquantina di pagine conclude che meccanismi troppo rigidi non avrebbero senso. Il freno alla regolamentazione restringerebbe gli spazi di manovra dell’amministrazione e della politica e non favorirebbe la creazione di nuove regole utili, ma potrebbe perfino provocare un aumento di spese. In ogni caso il numero di leggi e regolamenti è in costante aumento: per il diritto interno il numero di pagine è passato da 18000 nel 1982 a 31’000 pagine e per quello internazionale da 16’000 a 37’000 pagine. Due sono essenzialmente i motivi di questa crescita: da un lato la vita diventa sempre più complessa, dall’altro tanto il governo quanto l’amministrazione e il Parlamento sono fatti per creare leggi e non per sopprimerne. Difficile trovare un mezzo efficace per frenare questo circolo vizioso.
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Cultura e Spettacoli Non chiamatelo archi-star La città di Londra dedica a Renzo Piano una mostra, consacrando così il suo lavoro
La fotografia in mostra Il museo di Vevey raccoglie la storia degli apparecchi, mentre alla Fondazione Rolla gli stabilimenti industriali sono oggetto di una collettiva
Un direttore esecutore Il violista Yuri Bashmet dirige l’OSI all’auditorio Stelio Molo, in un programma di musiche del 900 pagina 25
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Particolare dalla copertina del volume: R. Seewald, Der träumende Knabe, 1923.
Le peripezie di un inquieto
Libri Casagrande ripropone i racconti autobiografici dello svizzero Friedrich Glauser Luigi Forte Come l’uomo Friedrich Glauser sia diventato uno scrittore resta apparentemente un mistero. Le sue disavventure raccontano la storia di un picaro moderno incalzato dall’infelicità e proteso verso l’abisso che si scava con le proprie mani. Morfinomane tentò più volte il suicidio, conobbe il carcere e le cliniche psichiatriche, si arruolò per due anni, tra il 1921 e il 1923, nella Legione Straniera, esperienza da cui nacque il romanzo Gourrama, e fece lavori precari di ogni genere, compreso il minatore a Charleroi. Sullo sfondo si staglia la scrittura come forma di terapia: l’unico spazio di libertà, la distanza che gli permette di osservare con inesorabile franchezza la brutalità del mondo. La perdita della madre a soli quattro anni segnò profondamente la sua turbolenta esistenza. Frequentò la scuola fino al ginnasio a Vienna, dov’era nato nel 1896, poi il padre svizzero, oppressivo e autoritario, lo spedì nel collegio rurale di Glarissegg sul lago di Costanza di cui egli tracciò un vivace ritratto che ora si può leggere nel volume edito dall’editore Casagrande nella bella versione di Gabriella de’ Grandi, Dada, Ascona e altri ricordi, che raccoglie resoconti autobiografici pubblicati
su giornali e periodici svizzeri negli anni Trenta. In realtà Glauser è noto per essere una specie di «Simenon svizzero» che utilizza il romanzo poliziesco, con al centro l’investigatore Studer, per uno studio d’ambiente proiettato nella profonda provincia in cui dominano miseria e paura. È un mondo stralunato dove si aggirano singolari e curiose figure di outsider, un po’ come qui, nelle sue pagine autobiografiche, dove la vicenda personale si innalza a tragica dimensione esistenziale, senza smarrire il gusto per la realtà. Non diversamente dal connazionale Robert Walser i cui personaggi – annotò lo scrittore Peter Bichsel – sono «sempre a un passo dal pianto e sempre a un passo dal riso». Ma anche le figure che popolano i suoi ricordi si lasciano dietro una scia di curiosità e stravaganze: compagni disadattati come lui e docenti del collegio con una «piccola vena di pazzia», che vivevano in un «mondo apparente», in una specie di serra, dove per altro si recitavano Shakespeare e Grillparzer, e si leggeva un po’ di tutto, da Keller a Ibsen e Dostoevskij. Come già nelle prose del volume autobiografico Gli occhi di mia madre (Casagrande 2005) personaggi e atmosfere compongono piccole miniature d’epoca evocando la metafora
di una vita come perenne segregazione, spazio da cui solo la mente permette di evadere. Allora era il personaggio del giovane Frédéric nel racconto Nel buio a conoscere fallimenti e disillusioni: da lavapiatti all’Hôtel Suisse di Parigi (dove sembra di essere tra le pagine kafkiane di America) a minatore, sempre in bilico fra il proprio riscatto e la sconfitta definitiva. Esperienze che hanno lasciato un segno profondo e riemergono anche in questo libro attraverso lo sguardo di chi ha conosciuto l’inferno e non è riuscito a scacciare la paura. Ma poi lo scrittore prende il volo e la leggerezza avvolge miracolosamente le sue pagine: «Ci sono ricordi – egli dice – che sembrano bolle cangianti (…) non scoppiano per poi scomparire di nuovo nel nulla, ma abbagliano gli occhi chiusi». E allora il tono si fa tenue e ironico e mette al bando la disperazione. Come nei ritratti dei professori del collegio: Borstle, che insegnava storia e aveva la «bruttezza affascinante di un bulldog di razza» o Charly dal muso malinconico e il ciuffo alla Hitler. Per un attimo la vita pare sorridergli e gli spalanca le porte dell’avanguardia artistica. Conosce il pittore viennese Max Oppenheimer, detto Mopp, che gli parla dei fratelli Mann, di Wedekind e del suo amore per la Francia. Il giovane
Friedrich diventa amico del rumeno Tzara, entra al Cabaret Voltaire, fa amicizia con Hugo Ball e Emmy Hennings mentre il pittore Hans Arp lo istruisce sui mistici medievali tedeschi. Intense e folgoranti sono le pagine che descrivono la nascita del dadaismo a Zurigo nell’ormai storica Spiegelgasse, in cui quasi inavvertitamente si trova coinvolto anche il ventenne Glauser: serate folli e piene d’entusiasmo con Ball al pianoforte che accompagna danze negre e lui, seduto lì accanto, che batte su un tamburello e prepara «insalate linguistiche» in tedesco e francese. Poi ecco, la fuga in Ticino con la coppia Ball e le giornate passate in una cascina in Vallemaggia. Fughe senza fine che costellano la sua intera esistenza: ad Ascona, dove, scappato da una casa di cura, trova ad accoglierlo l’amico psichiatra Ludwig Binswanger e scopre gruppi e personaggi a dir poco originali: come gli Analitici che ogni mattina, tra caffè e pane imburrato, vagliano i sogni notturni alla ricerca di complessi, mentre sul Monte Verità sorge la roccaforte di Rudolf Steiner, l’antroposofo, e le sue discepole, le donne astrali, appassionate divulgatrici dell’euritmia. È un mondo magico in cui risplendono icone femminili, come la pittrice von Werefkin, che presenziò alla fondazione del Blauer
Reiter a Monaco, e la sublime danzatrice Mary Wigman che appare sulla scena come una vera e propria visione. Ma non basta quel mondo di immagini e di favolose promesse artistiche a ridare speranza alla vita: Glauser ha nostalgia della solitudine, proiettato verso il baratro e la propria distruzione. «Una parte di me aveva bisogno della sofferenza», ricorderà negli anni a venire, consapevole che proprio il dolore aveva affinato la sua conoscenza dell’animo umano proiettando nella scrittura un’intensità che non è mai disgiunta da un’incalzante euforia creativa. Così si leggono con rapimento anche le pagine sul suo soggiorno nella Legione straniera o le penose esperienze in miniera. Lo scrittore sembra non rinunciare a cogliere un briciolo di speranza anche nei momenti più bui, affidandosi alla letteratura. Ma la vita lo tradì sempre e comunque, fino al giorno della sua morte sulla Riviera ligure. Era la vigilia del matrimonio e forse l’inizio di un vero futuro. Bibliografia
Friedrich Glauser, Dada, Ascona e altri ricordi, traduzione di Gabriella de’ Grandi, postfazione di Christa Baumberger, Edizioni Casagrande, Bellinzona 2018, p. 133, € 18.–.
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Cultura e Spettacoli
Renzo Piano e Londra: una relazione privilegiata Personaggi Nella capitale inglese l’architetto italiano ha realizzato progetti di grande respiro
e complessità, ed ora la città riassume in una mostra la sua filosofia di costruttore
Luciana Caglio Nella «skyline» di Londra, metropoli che osa e sa cambiare senza tradirsi, dal 2012 svetta «The Shard», la scheggia firmata Renzo Piano: con i suoi 310 metri, il più alto edificio d’Europa. Questo primato, nel frattempo forse superato da altri grattacieli, non figurava neppure fra le priorità del progettista. Piano, insofferente agli eccessi di spettacolarità, paragona le costruzioni agli iceberg: «Ciò che sta sotto è più grande di ciò che si vede». In altre parole, il contenuto, e quindi lo spazio dove si abita, si lavora, si presta servizio conta più dell’involucro, la facciata esteticamente ambiziosa, che magari diventa un corpo estraneo all’edificio, mentre dovrebbe esserne parte integrante. Solo attraverso il dialogo «fra dentro e fuori» l’opera troverà un aspetto coerente, la sua reale bellezza. Com’è avvenuto nella «Shard», nuova frequentatissima meta negli itinerari turistici, e, in pari tempo oggetto di ammirazione, di perplessità, di polemiche. Ha dovuto, insomma, giustificarsi. L’architetto ha colto l’occasione per ribadire la necessità, inderogabile dal profilo economico, territoriale e ambientale, di «sfruttare la verticalità, imparare a costruire sul costruito, non espandersi ma diversificare». Anche la «Shard» nasce così. Partendo da una stazione sotterranea ristrutturata, si sviluppa su 74 piani, crea luoghi pubblici e privati, con destinazioni diverse: uffici, negozi, ristoranti, un albergo, una biblioteca, sale di spettacolo e uno spazio «dedicato alla meditazione». Nell’era del multiculturalismo e del laicismo, non si parla più di chiesa o cappella. E, di quest’era in divenire, la «scheggia» appare un simbolo persino inquietante.
Non ama la definizione di «archi-star» ma, anzi, vuole assumersi le responsabilità sociali legate al suo ruolo Non da ultimo, per via di quel suo profilo seghettato che lacera le nuvole. Dietro il quale ci sarebbe, invece, un’ispirazione prosaica e a noi familiare. «Ho pensato semplicemente a una scheggia di parmigiano», aveva detto Renzo Piano, a cena con Mario Botta, che mi ha riferito, più volte, l’aneddoto. Meno male: anche fra vip, a tavola si sa scherzare e relativizzare. Ma, al di là della «Shard», caso chiacchierato, sta di fatto che, da decenni, l’architetto genovese ha stabilito, con la capitale britannica, una relazione intensa, in un clima di affi-
È nato a Genova nel 1937. (floornature.it)
nità e reciprocità. Molto deve Piano a Londra, e viceversa. Lo riconferma, quest’anno, la «Royal Academy of Arts» (RA) che, in occasione del suo 250.mo, ha inaugurato un’ala, ristrutturata da David Chipperfield, con la mostra: «Renzo Piano The Art of Making Buildings». E non è facile, anzi, tradurre, in termini espositivi, l’architettura. Per forza di cose, ci si trova alle prese con opere non trasferibili: si deve ricorrere a modellini, schizzi, frammenti, fotografie, filmati. Si propone una visione a distanza della realtà, con il vantaggio, però, di riepilogare un itinerario professionale di oltre mezzo secolo, in cui Piano si è mosso nei contesti più disparati. Lavorando nel vuoto, dove tutto era da inventare. O, più spesso, costretto a mediare con ciò che esisteva in precedenza: «L’eccesso di tradizione può paralizzare e occorre trovare l’equilibrio fra riconoscenza per il passato e desiderio di creare». Sedici le opere, selezionate fra centinaia, che in questa retrospettiva illustrano le tappe più incisive di una carriera, in cui il talento coincide con il senso di responsabilità. Dichiaratamente, perché Piano si rende conto che «con l’atto di costruire si modifica un luogo per sempre, e quindi si deve anticipare il dopo». Si assume un impegno, magari osando, ma con un obiettivo
chiaro. Com’è avvenuto, a Parigi nel 1971, con il «Centre Pompidou», progettato con Richard Rogers, collega e grande amico. Si trattava di un intervento radicale, sotto tanti aspetti, estetico, tecnologico e sociale: «Una sfida all’elitismo della cultura, chiusa nella sua torre, che qui diventava accessibile». E così è stato: nel cuore di Parigi, un museo diverso e una nuova piazza, accettati dal pubblico. «È come se il Beaubourg ci fosse sempre stato»: si sentiva dire Piano. Era il miglior complimento per un architetto «al servizio del cittadino». Le persone e i luoghi rimangono, infatti, punti centrali nel suo lavoro. Ciò vuol dire flessibilità, in senso virtuoso: la capacità di adattarsi a territori, climi, materiali, tecnologie, sempre diversi, senza rinunciare alle proprie prerogative e origini. Una ricerca d’equilibrio, quindi, che associa leggerezza e dinamismo: è il contrassegno che si ritrova in edifici, sotto i cieli più lontani e destinati alle più svariate funzioni. Ecco l’«Auditorio Parco della musica» alla periferia di Roma, la «Menil Collection» a Houston, il «Kansai Airport» a Osaka, «Potsdamer Platz» a Berlino, il «Children Surgery Center» a Entebbe Uganda, la sede del «New York Times», lo straordinario «Centre culturel Tjibaou» a Numea, Nuova Caledonia, e, vicino a noi, il «Paul Klee Zentrum» a
Berna e la «Beyeler Stiftung» a Basilea. E via dicendo. In tutto questo girare per il mondo, Renzo Piano è riuscito a mantenersi al riparo dall’internazionalismo di tipo divistico. Guai a chiamarlo archi-star: «Significa aver cura più di se stessi che di quel che si fa». In pari tempo, ha tenuto viva l’appartenenza a Genova e al suo mare, cui lo unisce un legame spontaneo, insostituibile. Però non esclusivo. Parallelamente, è cresciuto anche il legame che lo unisce, da oltre mezzo secolo, a Londra. Era stata la «Swinging London» anni 60, di Mary Quant, dei Beatles, ma anche della pianificazione urbanistica e della sperimentazione tecnologica, ad attirare il giovane Piano, fresco di laurea e già autore di progetti originali. Bene accolti oltre Manica. Infatti, nel novembre 1967, furono esposti al centro «Advanced Study of Science in Art». Seguì, nel ’69, un’altra mostra, organizzata, questa volta, dall’«Architectural Association», che fiuta un nuovo talento tanto da offrigli la docenza presso la sua scuola, istituzione altamente prestigiosa. Piano avrà come colleghi Norman Foster, John Summerson, Charles Jencks. E si sviluppa così un rapporto di scambi culturali e umani: da un lato, l’architetto genovese respira i fermenti innovativi della metropoli. D’altro
canto, gli inglesi imparano ad apprezzare il design italiano, i colori del Mediterraneo e soprattutto il «senso della piazza». Che Renzo Piano ha cercato di proporre in versione londinese, nel «St. Giles Complex»: cinque edifici, dalle facciate di colori squillanti che racchiudono, appunto, una piazza. Un’opera recente e ancora da assimilare nella quotidianità londinese, con cui il progettista continua a mettersi, in gioco, anche rischiosamente. Il successo di portata mondiale, le consacrazioni ufficiali (dal 2007 membro onorario della Royal Academy e dal 2013 senatore a vita della Repubblica italiana) non ne hanno fatto un personaggio ufficiale, una sorta d’intoccabile. Al contrario, prende posizione sui fronti più ostici della realtà contemporanea: innanzi tutto, le periferie da rendere vivibili, gradevoli anche esteticamente, perché «la bellezza aiuta a vivere meglio e in pace». Per Renzo Piano non è un’utopia. Ci conta, ci spera. Al punto da credere che il progetto per il nuovo «Ponte Morandi», che ha regalato alla sua città, si traduca, quanto prima, in realtà. Dove e quando
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Cultura e Spettacoli Albert RengerPatzsch, The Chemical Factory Leunawerke in Merseburg, 1930 circa. (Fondazione Rolla)
Archeologia fotografica Mostre/2 AVevey un museo
per gli apparecchi che hanno fatto la storia dell’immagine Giovanni Medolago
Factory, la fabbrica come soggetto Mostre/1 La fotografia industriale alla Fondazione Rolla
Gian Franco Ragno Se, come è stato detto alla sua comparsa, la fotografia è l’occhio della modernità, le fabbriche – tema dell’attuale e quindicesima mostra alla Fondazione Rolla di Bruzella – non possono essere che il sancta-sanctorum di una certa epoca e idea dell’immagine, quella documentaria. Si tratta di edifici in cui si celebra la tecnica e in cui si delineano i contorni del futuro – di cui la fotografia vuole essere il linguaggio. Prendendo a prestito le parole che l’economista Christian Marazzi spende nello scritto che accompagna il catalogo, nell’Ottocento e Novecento la fabbrica è senza dubbio il luogo al centro di un processo capace di generare «valori sociali, politici, religiosi».
Gli stabilimenti sono parte dell’immaginario della modernità e come tali al centro dell’attenzione artistica Da qui la loro onnipresenza nell’era della tendenza artistica denominata la «nuova oggettività» tedesca, i cui risultati maggiori si situano tra il 1920 e il 1940, quando l’industria nazionale era protagonista di una prepotente ascesa economica. A due dei massimi campioni di questo gruppo è dedicato giustamente molto spazio: il primo
Azione
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
è il notissimo Albert Renger-Patzsch, mentre la seconda è colei alla quale la Fondazione ha contribuito alla riscoperta, Ruth Hallensleben. Altri autori tedeschi del periodo partecipano alla collettiva in Valle di Muggio: Werner Mantz, fotografo di Colonia al tempo di August Sander ma che dovette fuggire in Olanda a seguito delle leggi antiebraiche – qui con un’iconica immagine delle centrali elettriche presso il Limburgo – e Fritz Henle, fotogiornalista della rivista «Life» e chiamato il «mago della Rolleiflex», il quale nel secondo dopoguerra si naturalizzerà americano. Assai legati alla Fondazione e alle sue esposizioni ritroviamo i due contemporanei Christof Klute e Vincenzo Castella: in entrambe le prove dei quali gli interni si presentano come quasi metafisici, accomunati dalla volontà di contenere la massima quantità di luce possibile. Per le prove che riguardano gli esterni, invece, con la consueta indagine attenta alla declinazione delle forme del modernismo architettonico, il locarnese Giuseppe Chietera trova alcuni esempi significativi anche in territorio ticinese. Nella lista degli autori troviamo alcune nuove entrate, come il livornese Enrico Minasso, ma vi emerge il nome di un importante autore svizzero: il bernese Kurt Blum. Maestro – ben riconoscibile confrontando i risultati – di quel Balthasar Burkhard esposto recentemente al LAC, è presente con un’immagine tratta dal libro del 1959,
L’immagine di una fabbrica. C’è spazio anche per l’approccio estetizzante con Tom Baril, uno degli stampatori di Robert Mapplethorpe, che presenta due lavori dall’assoluta pulizia formale, presentando volumi puri. Concludono l’esposizione le generazioni più recenti che sembrano mettere in discussione la centralità della fabbrica nella società e nella cultura attuale, evitando di far trasparire un certo mito della stessa nella proposta: come il tedesco Oliver Boberg, già presente nelle importanti collezioni del MoMa di New York e al Guggenheim. Boberg riprende nei minimi dettagli quello che sembra essere un complesso industriale di oggi, isolato ed anonimo, ma che in realtà si rivela essere un modellino ritratto secondo attente modalità che lo fanno sembrare reale – una modalità di produzione dell’immagine simile a quella di un altro importante autore degli ultimi decenni, Thomas Demand. Al tempo stesso, sodale con il suo coetaneo, Fabio Tasca decostruisce idealmente proprio la fabbrica Rolla a Stabio in un trittico la cui sequenza non corrisponde alla reale struttura dell’edificio, richiamando il fatto che non sempre la fotografia riproduce fedelmente la realtà.
Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch
Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11
La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni
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Factory. Fondazione Rolla, Bruzella. Fino al 27 gennaio 2019. Per orari e date d’apertura: rolla.info.
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Vevey ama definirsi la ville de l’image poiché ha la fortuna di ospitare due autentici gioielli: il Chaplin’s world (v. «Azione» dello scorso 26 febbraio) e il «Museo svizzero dell’apparecchio fotografico». Situato in un antico palazzo sulla centralissima Grande Place, la sua collezione non è soltanto ricchissima, ma sarà fonte di parecchie scoperte anche per l’appassionato che ben conosce vite e opere di Daguerre, Fox Talbot o dei Fratelli Lumière. Sono questi i nomi che ci aspettano nella prima sezione del Museo, «Alle origini della Fotografia», e certo costoro si possono considerare i Padri della Fotografia; ma nella miriade di apparecchi anche curiosi (il prassicoscopio o il fucile cronofotografico, tante per dirne un paio), ecco inserirsi anche le scoperte di due inventori svizzeri misconosciuti: il ginevrino Albert Darier e l’inventore di casa nostra Carlo Ponti (nato a Sagno nel 1824 e morto a Venezia sul finire del secolo). Il primo, già nel 1888, brevettò «L’Escopette» (lo schioppo), che utilizzava la tecnica Eastmann Kodak («Voi fate clik, noi facciamo il resto»), era leggera e maneggevole tanto da potersi utilizzare con una mano sola, ma era anche munita di un bi-piede per gli scatti più impegnativi. Il Ponti nostrano invece se ne andò a Venezia dove dapprima presentò l’aletoscopio, poi il megalotoscopio, entrambi in grado di produrre immagini di grande formato. I due non ebbero molta fortuna, ma sorte ancor peggiore toccò al francese Hyppolite Bayard, che aveva realizzato dei dessins photogéniques ben prima del 1839 (data di nascita del dagherrotipo), ma su pressione del Primo Ministro dell’epoca, Francois Arago, fu
costretto a dare la precedenza a Monsieur Daguerre. L’Escopette è solo una delle tante rarità in mostra al Museo, che però ci fa anche sognare. È il caso della ricostruzione di un atelier fotografico di fine XIX secolo – in scala 1:20 – dove il cliente entrava nella sala di posa e dopo un po’ usciva col suo bel ritratto. Magari ritoccato come soleva farsi già quando la Fotografia muoveva i suoi primi passi: una stampa dell’epoca ci mostra come un artigiano (fotografo/ottico/ pittore) sapeva anticipare i «miracoli» del Photoshop. Sono parecchie le teche dinanzi alle quali al visitatore scapperà un nostalgico sorriso (il set con 5 lampadine per flash) oppure un’autentica risata. È il caso del Pigeon panoramic, un nonno degli attuali droni: concepito dal dr. Neubronner nel 1910, era un apparecchio sistemato sotto un piccione e munito di obiettivo in grado di realizzare foto a 180°. Accanto all’aspetto talvolta ludico, ecco che i pannelli didascalici del Museo non solo riassumono ogni tappa del progresso tecnico, giungendo sino alla grande rivoluzione digitale, ma offrono anche una lettura sociologica della Storia della Fotografia. La rivoluzione Leica di Oscar Barnack (suo il primo esempio di fotogiornalismo, quando nel 1920 documentò l’alluvione della sua città nell’Assia); l’apparecchio ha un prezzo inaccessibile in Giappone ed ecco dunque che tre ragazzi si mettono d’impegno per poterla offrire al pubblico nipponico: nasce così la Canon che nel 1936 presenta la sua prima apparecchiatura. Di ritocco in ritocco, questa sarà in grado di strabiliare, durante la Guerra di Corea, i fotografi occidentali, invidiosi del portento nelle mani dei loro colleghi del Sol Levante: sarà l’inizio della supremazia giapponese sul mercato mondiale.
Curiosa apparecchiatura per foto dall’alto legata a un piccione. (www.cameramuseum.ch) Tiratura 102’022 copie Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 31 dicembre 2018 • N. 01
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Cultura e Spettacoli
Uno strumento riscoperto
Classica Yuri Bashmet con l’OSI per rendere omaggio a uno strumento negletto ma con grandi possibilità espressive.
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Enrico Parola Per l’Orchestra della Svizzera Italiana il 2019 si apre nel segno della Viola. Un pianeta strano nel firmamento concertistico classico, riscoperto solo negli ultimi decenni; ad illuminarlo è stato l’astro di Yuri Bashmet, virtuoso russo che sarà protagonista del primo dei quattro concerti che la Osi terrà in gennaio nella sua sede storica, l’Auditorio Stelio Molo. Ognuno con un diverso strumento protagonista, e a parte l’ultimo che vedrà sul podio Markus Poschner e al pianoforte Andrea Bacchetti, sempre con l’interprete impegnato nella doppia veste di solista e direttore. Dopo Bashmet toccherà infatti al clarinettista Jörg Widmann, già applaudito anche come compositore a Lugano Musica, e al violinista Sergej Krylov, che alla Scala di Milano ha inaugurato l’ultima edizione del festival Mito. Ma il 10 la ribalta sarà tutta per il musicista nato a Rostov sul Don e prossimo ai 66 anni (li compirà il 24):
Per partecipare «Azione», mette in palio alcuni biglietti per il concerto di Yuri Bashmet con l’OSI, del 10 gennaio all’Auditorio Stelio Molo RSI di Lugano. Per partecipare all’estrazione basta seguire le indicazioni sulla pagina web www.azione.ch/concorsi.
incastonerà tra Metamorphosen, uno «studio» di Richard Strauss ispirato al racconto di Kafka, e la spumeggiante prima sinfonia Classica di Prokof’ev, due brani ad alta gradazione romantica, la Romanza per viola e il Concerto per clarinetto, viola e orchestra di Bruch. A differenza di quanto poteva capitare tra i violoncellisti, dove Rostropovich spiccava in un’agguerrita concorrenza, tra violinisti e pianisti, dove gli Stern e gli Oistrakh tra gli archetti o i Michelangeli e gli Horowitz per gli 88 tasti rientravano in un elenco non certo breve di grandissimi interpreti, per decenni la viola è stata identificata solo ed esclusivamente con Bashmet: una simbiosi che ha riportato in auge lo strumento e ha creato il mito del virtuoso russo. «Il mio recital al Conservatorio di Mosca è stato il primo recital per viola nella storia della Russia, e lo stesso è accaduto a Parigi, alla Scala, a Tokyo e al Concertgebouw di Amsterdam, a Helsinki, Copenaghen e in vari alti Paesi… Ma non mi attribuisco chissà quali meriti, penso sinceramente di essere stato solo l’uomo giusto nel momento giusto nel posto giusto». Di certo ha avuto il merito di ampliare il repertorio della viola, spingendo o ispirando tanti autori contemporanei che gli hanno dedicato concerti e sonate; arrivando addirittura ad argomentare una supremazia quasi ontologica. «La viola è lo strumento ad arco più carico di mistero, fascino e storia. A lungo è stata considerata lo strumento
Bashmet è violista e direttore d’orchestra. (www. orchestradella svizzeraitaliana.ch)
di mezzo tra violino e violoncello, ma dal punto di vista storico è il contrario: la viola è più antica e sono piuttosto il violino e il violoncello a orbitare attorno alla viola, il primo in un registro più acuto e il secondo in uno più grave. La viola può ascendere alle note più acute, ma creando suoni più tesi e profondi, e allo stesso modo può raggiungere quelle più gravi, che sono meno ampie ma sicuramente più potenti di quelle realizzate sul violoncello». Non è però solo un fatto di estensione: per Bashmet la magia della viola
sta nella sua stessa voce, «nel suo timbro, unico, misterioso, potrei dire diabolico, perché può essere lirico e drammatico come gli altri strumenti, ma solo quello della viola sa essere di una bellezza pericolosa: solo la viola riesce a dire cose tragiche con umorismo, e chi la ascolta non può dire “è solo tragico”, “è solo lirico”, ma vi percepisce contemporaneamente diverse sensazioni; un po’ come la musica di Schubert, che piange e sorride nello stesso momento». Ribadendo il concetto ma variando i termini, Bashmet prova a
sganciare il «rinascimento» della viola di questi ultimi decenni dai suoi personali meriti: «Mi piace definire il suono della viola “filosofico”. Non è solo lirico o tragico, ma anche freddo, filosofico, e non perché sia l’esecutore a ottenerlo: sono qualità insite nel timbro stesso dello strumento. E penso che in un mondo percepito da tanti come più problematico, dove tutto corre troppo veloce e caotico, come mosso da una irresistibile forza centripeta, un suono “filosofico” possa essere un rifugio per tanti compositori e ascoltatori». Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 31 dicembre 2018 • N. 01
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trovate tre articoli di frutta e verdura all’incredibile prezzo di 1 franco a confezione. La dietista Pamela Demenga spiega quali sono i benefici dei prodotti in offerta questa settimana Kiwi
«Si adatta a climi che lo proteggano dai geli tardivi della primavera e precoci d’autunno, come pure dalla grandine. Cresce anche alle nostre latitudini. Non è ormai più considerato un frutto prettamente “tropicale”. Le sue virtù sono numerose. Il kiwi è ricchissimo di vitamina C: ne contiene, infatti, quasi il doppio rispetto alle arance e mangiare ogni giorno un kiwi è sufficiente per coprire più dell’80% del nostro fabbisogno in vitamina C. È molto interessante anche notare che la quantità di vitamina C nel frutto rimane stabile per lungo tempo grazie alla protezione della spessa buccia e dalla presenza di acidi organici. Per approfittare al massimo della ricchezza in vitamina C, è preferibile consumare i kiwi crudi con un cucchiaino, sufficientemente maturi, ma non troppo. Il kiwi non tollera i latticini».
Bastocini d’ovatta in cartone
Dal mese di gennaio 2019 Migros introdurrà progressivamente solo bastoncini d’ovatta sostenibili, a base di cartone certificato FSC (Forest Stewardship Council). Questa misura permetterà di risparmiare 145’000’000 di bastoncini in plastica. Il marchio FSC garantisce una gestione delle foreste rispettosa dell’ambiente e socialmente sostenibile. Ciò rappresenta una garanzia per i boschi e per il genere umano. L’assortimento Migros annovera oltre mille articoli a base di legno o cartone certificati FSC.
Insalata iceberg
«La lattuga iceberg è una delle insalate preferite dagli Svizzeri. Originaria degli Stati Uniti, deve il suo nome al fatto che un tempo veniva trasportata nei mercati in casse riempite di ghiaccio. Nel profilo nutrizionale risalta il basso apporto calorico, 12 kcal per 100 g, che fa di questa croccante lattuga un apprezzato ingrediente per accompagnare i pasti. Contribuisce all’apporto giornaliero di potassio, fibre e acido folico (vitamina B9). Quando si acquista, è importante che la lattuga iceberg sia soda al tocco. Può conservarsi una o due settimane al fresco, il che rappresenta un vantaggio per averne una scorta durevole; infine si raccomanda di conservarla separatamente dalla frutta».
Patate
«La patata è ricca di fecola (amido, un carboidrato complesso), povera di grassi, e costituita per ¾ di acqua. Contiene vitamina C e rappresenta una interessante fonte di fibre (una patata fornisce il 10% dell’apporto di fibre quotidiano). Le patate a buccia rossa o blu contengono sostanze nutritive differenti rispetto alla patata a buccia bianca. Esse devono il loro colore agli antociani, pigmenti colorati che hanno la funzione di antiossidanti. Conservare le patate al riparo dalla luce e al fresco, ma evitare la conservazione in frigorifero. Contrariamente a quanto si sente, la patata non è nemica della linea. Grazie al suo apporto di carboidrati, rappresenta una fonte valida di energia, e trova regolarmente il suo spazio nella nostra alimentazione. Ha un apporto energetico minore rispetto ad altri cibi che contengono carboidrati. In Svizzera ogni anno si consumano ben 45 chili di patate a testa».
Spazzolino Eco in legno
L’apprezzata marca per l’igiene orale Candida della Migros propone una gamma completa di articoli sviluppati secondo gli ultimissimi requisiti scientifici e in grado di soddisfare qualsiasi esigenza. Di recente l’assortimento si è arricchito di una novità davvero interessante: lo spazzolino di legno Candida Eco. Questo prodotto naturale, semplice e soprattutto ecologico, possiede un manico in pregiato legno di faggio certificato FSC (Forest Stewardship Council). Dopo l’uso, la testina con setole in nylon di qualità può essere staccata, mentre il manico è 100% biodegradabile.
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