Cooperativa Migros Ticino
Società e Territorio Una nuova guida per la regione del San Bernardino, paradiso alpino unico in Svizzera
Ambiente e Benessere Il dottor Andrea Azzola, caposervizio di pneumologia dell’Ospedale Regionale di Lugano, ci parla dell’asma
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXII 7 gennaio 2019
Azione 02 Politica e Economia Guerra commerciale, Bolsonaro e clima sono i temi caldi del 2018 che ritroveremo anche in questo anno appena iniziato
Cultura e Spettacoli Al museo Jacquemart-André di Parigi in mostra due versioni della Maddalena del Caravaggio
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Keystone
Baikal: il lago che si rigenerava
Siria, un monito per l’avvenire di Peter Schiesser Terminerà infine la guerra in Siria, nel 2019, dopo otto anni di indicibili massacri fra le numerose forze in campo, siriane e straniere, esodi di massa, distruzione? Se pace ci sarà, sarà la pace dei cimiteri. Il paese è a pezzi, servirebbero almeno 200 miliardi di dollari per ricostruire il necessario. E al potere c’è ancora quel Bashar al Assad sulla cui sopravvivenza nessuno avrebbe scommesso, allo scoppio della Primavera araba in quel paese. Certo, senza l’appoggio dell’Iran e dei suoi alleati libanesi di Hezbollah, sciiti come Assad, come pure della Russia, non ce l’avrebbe mai fatta. Ora, per il resto del tempo in cui rimarrà al potere, dovrà pagare pegno ai due potenti alleati: la Siria resta un campo di battaglia di interessi geopolitici, non otterrà tanto presto una sua autonomia. Tuttavia, l’obiettivo di recuperare il controllo su tutta la Siria, che Assad ha perseguito in questi anni, è quasi raggiunto, solo nel nordovest resistono ancora delle forze di opposizione, lo Stato islamico non esiste più (ma molti combattenti sono entrati in clandestinità). E l’annuncio a sorpresa di Donald Trump prima di Natale, di voler ri-
tirare entro un mese i 2000 soldati americani dalla Siria, poi corretto in un ritiro da compiersi in quattro mesi, offre ad Assad un regalo inaspettato: sentendosi abbandonati dagli Stati Uniti, i curdi, preziosi alleati di Washington nella lotta contro lo Stato islamico, si sono già rivolti al presidente siriano affinché li difenda da un probabile attacco dell’esercito turco, che tollera male la presenza di guerriglieri curdi armati legati al PKK ai suoi confini. Ma il disimpegno americano significa anche lasciare via libera ai russi e agli iraniani nel controllo del paese e nella definizione dei suoi assetti futuri. Trump riconosce in questo modo che la Siria non rientra nella sfera di influenza degli Stati Uniti. In realtà, dovremmo dire che il presidente conferma a suo modo un indirizzo della politica estera americana valido anche in passato: la Siria non è strategicamente importante per Washington, inoltre è da decenni inserita nell’orbita russa. L’incerta politica dell’Amministrazione Obama era frutto dello stesso orientamento, pur con degli accenni umanitari che restano estranei a Trump. E con i curdi della Siria, Washington ha sempre avuto relazioni e interessi diversi rispetto a quelli con i curdi dell’Irak, ai quali fin dalla prima guerra contro
Saddam aveva riconosciuto il diritto a una maggiore autonomia rispetto allo Stato centrale a Baghdad. La Turchia resta pur sempre un paese membro della Nato, sebbene ultimamente si mostri alleato riottoso, per cui un sostegno ad una maggiore autonomia per i curdi siriani sarebbe uno schiaffo ad Ankara e un invito ai curdi turchi a perseguire il proprio sogno di uno Stato indipendente (e come, se non con le armi?). Tuttavia, oggi la situazione siriana è più complessa di un tempo: la crescente, forte presenza iraniana in Siria è una spina nel fianco di Israele, poiché ora Teheran dispone di un corridoio diretto che collega Iran Siria Libano fino al confine dello Stato ebraico; inoltre il paese resta popolato di estremisti islamici delle più svariate fazioni e lo Stato centrale non è abbastanza solido per controllarli. Che dire ancora? Quella in Siria verrà ricordata come una guerra atroce, assurda, in cui hanno vinto il cinismo, la violenza, il disprezzo assoluto dei diritti umani e della vita, da parte di Assad ma anche di tutte le forze in campo. Una guerra in cui hanno vinto dei «cattivi» su altri «cattivi», lasciando perdente la popolazione civile e i valori di giustizia, libertà, umanità. Una delle tante guerre perse dall’umanità: un monito per l’avvenire.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 gennaio 2019 • N. 02
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Attualità
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Il momento della posa degli alberi di Natale nel lago di Lugano lo scorso anno. (CdT-Fiorenzo Mafffi)
Nuova vita per gli alberi di Natale della Migros
Sostenibilità Migros Ticino ha donato gli alberi di Natale invenduti alla Sezione Pesca Golfo di Lugano per favorire
il ripopolamento ittico nei nostri laghi. Lorenzo Beretta Piccoli, presidente della Sezione Pesca Golfo di Lugano, ci spiega qual è lo scopo di questa iniziativa
Signor Beretta Piccoli, perché vengono posati gli abeti di Natale nel lago?
Gli alberelli vengono posati nel lago di Lugano per creare degli ambienti acquatici che favoriscano soprattutto la riproduzione del pesce persico. In sostanza, i persici depongono le loro uova sui rami degli abeti e questo permette una miglior riuscita rispetto alla posa sul fondo dove il limo rischia di comprometterne la schiusa. Quando si effettua la raccolta degli alberi e come avviene la posa nel lago?
Come da tradizione, gli alberi vengono raccolti il sabato dopo l’Epifania e vengono posati verso la fine di febbraio, in concomitanza con l’inizio della stagione riproduttiva del pesce persico. Gli abeti vengono agganciati ad apposite strutture subacquee e sono sostituiti ogni anno. La nostra sezione dispone di 4 strutture di questo tipo, ognuna delle quali contiene circa 65 piante. Nell’acqua le piante sono tenute in posizione verticale tramite una bottiglia PET agganciata alla punta. Queste vengono poi ovviamente recuperate e riciclate insieme all’abete. Per le operazioni sott’acqua collaboriamo ormai da anni con gli amici della Lugano Sub. Inoltre, vorrei ricordare agli interessati che volessero consegnarci il proprio alberello che quest’anno la raccolta avverrà sabato 12 gennaio dalle 09.00 alle
I pesci depongono le loro uova sui rami degli abeti.
12.00, presso il lido di Lugano, all’entrata sul lato foce. Com’è oggigiorno la situazione dei nostri laghi per quanto riguarda la presenza di pesci?
La situazione generale è abbastanza buona, ovviamente vi sono specie più abbondanti e altre che invece fanno più fatica a ripopolarsi. Per quanto concerne il persico direi che è presente in buon numero, questo anche grazie al lavoro delle società come la nostra
Lorenzo Beretta Piccoli, presidente della Sezione Pesca Golfo di Lugano.
che ne sostengono la riproduzione naturale. Direi che le specie più diffuse nel Lago Ceresio sono il gardon, il pesce persico ed il coregone. Vi sono inoltre anche trote lacustri, lucci e lucioperca.
to miglioramento della qualità dell’acqua. Oggi possiamo quindi dire che globalmente la situazione è soddisfacente anche che se purtroppo persistono ancora delle situazioni puntuali in cui la depurazione non funziona come dovrebbe.
Dagli anni ‘80 ad oggi sono stati fatti dei passi da gigante nella depurazione acquifera e questo ha portato a un net-
Mio padre era pescatore e fin da piccolo l’ho sempre accompagnato sul lago e lungo i fiumi. Poi crescendo ho comin-
Quali sono le specie più diffuse?
Allo stato attuale, le acque dei nostri laghi sono relativamente pulite?
Perché è diventato pescatore e cosa l’appassiona di questa attività?
ciato ad andare da solo specializzandomi nella pesca di lago. Di questa attività mi appassiona il contatto con la natura, perché in ogni stagione il lago regala paesaggi fantastici, inoltre, ovviamente, adoro il pesce di lago nel piatto. Quale pesce apprezza maggiormente e quale preparazione preferisce?
Direi il lucioperca al forno, che ha veramente delle carni prelibate. Non disdegno però la tartare o il sashimi di trota lacustre.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 gennaio 2019 • N. 02
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Società e Territorio L’ultima scelta Eutanasia e suicidio assistito sono temi delicati; ne parlerà Chris Gastmans alla SUPSI
La demenza e i suoi risvolti L’Associazione Alzheimer Ticino, in collaborazione con Pro Senectute, ha creato un nuovo centro per garantire consulenza a tempo pieno
Un passo e i suoi tesori Pubblicata una guida storico-naturalistica della regione del San Bernardino pagina 7
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Secondo Bargh dobbiamo imparare a conoscere la parte inconscia della nostra mente senza sottovalutarla. (Marka)
L’inconscio che ci aiuta
Psicologia I meccanismi mentali nascosti che governano segretamente ogni aspetto del nostro comportamento
non sono ostili, lo spiega John Bargh nel suo saggio intitolato A tua insaputa Stefania Prandi La parte inconscia della nostra mente ha possibilità che spesso sottovalutiamo. Contrariamente allo stereotipo, non è una sezione ostile e separata, con le sue regole e i suoi modi di operare. Non dobbiamo averne paura, ma imparare a conoscerla. Così sostiene John Bargh, psicologo, tra i più importanti studiosi al mondo dell’inconscio, e professore all’Università di Yale dove dirige il laboratorio Acme (Automaticità nella cognizione, motivazione e giudizio). Nel suo saggio di oltre quattrocento pagine, intitolato A tua insaputa (Bollati Boringhieri), da poco pubblicato in italiano e considerato dal «Financial Times» uno dei migliori libri dell’anno, raccoglie per la prima volta il risultato di ricerche trentennali, offrendo una nuova e rivoluzionaria comprensione dei meccanismi nascosti che governano segretamente ogni aspetto del nostro comportamento. In occasione di «Talks at Google», una serie di conferenze proposte dal colosso informatico americano con i più influenti pensatori del mondo, Bargh ha spiegato che «l’inconscio è sopravvissuto alla selezione naturale, all’evoluzione, alle influenze esterne.
Non è un gemello diabolico in agguato della mente conscia che va tenuto a distanza». Il suo grande pregio è continuare a pensare allo stesso problema mentre noi ci occupiamo di altro. Possiamo verificarlo nella vita di tutti i giorni: «Stiamo cercando di ricordarci qualcosa, ci sforziamo, ma proprio non riusciamo. Desistiamo e dopo tre o quattro ore la risposta arriva nella nostra testa, dal niente». È quello che succede anche a Sherlock Holmes (personaggio di finzione che per lo psicologo è utile per capire certi processi): quando si trova in una impasse nei suoi casi, cerca di distrarsi, suona il violino, ad esempio, e solo così trova le soluzioni. La momentanea distrazione non è che un modo per lasciare spazio di manovra all’inconscio. A questo proposito l’autore di A tua insaputa racconta la sua esperienza personale. «Ho cercato di scrivere il libro per anni, poi un giorno qualcosa è scattato all’improvviso, ho cominciato e in pochi mesi l’ho finito. Quando terminavo un capitolo, mi rilassavo, ma non prima di avere pensato a quello che avrei dovuto fare i giorni successivi. Staccavo, stavo con mia figlia, uscivo, sistemavo la casa, intanto la mia mente inconscia lavorava. E quando mi ri-
mettevo al lavoro, avevo già un percorso chiaro da seguire». Un metodo che può essere usato da tutti. Ci troviamo di fronte ad un compito difficile o che richiede molto tempo per essere portato a termine? Può essere utile occuparcene da subito, anche se ci sentiamo bloccati o impreparati. In questo modo i processi inconsci di perseguimento dell’obiettivo si attiveranno spontaneamente, cercando soluzioni creative e fuori dagli schemi, e indicheranno informazioni rilevanti e utili nei momenti di pausa. «La scienza ha svelato che il compito evolutivo della nostra mente inconscia è rispondere alla mente cosciente, a patto di sapere come comunicare questi messaggi efficacemente. Accordando la mente con le nostre intenzioni possiamo ottenere grandi miglioramenti in termini di salute, tranquillità mentale, carriera e vita relazionale. Possiamo esercitare e persino accrescere il nostro libero arbitrio», si legge nel libro di Bargh. Ci sono esperienze e idee che ci influenzano e che non ricordiamo nemmeno: arrivano dal passato, sia più lontano, che coincide con i secoli dell’evoluzione umana, sia dai nostri primi mesi e anni di vita. A condizionarci anche il presente e il futuro. «Bi-
sogna stare molto attenti a ciò che si progetta e si desidera», dice Bargh. Un monito che sembra quasi filosofico e che poggia su ricerche concrete. Al nostro inconscio orientato verso il futuro, infatti, non importa di farci sentire tranquilli o felici: quel che vuole è che i nostri obiettivi più importanti si realizzino anche se significa tormentarci con ansie e preoccupazioni (tra gli effetti collaterali ci possono essere un sonno disturbato oppure la vera e propria insonnia). Non è molto bravo a organizzare piani specifici: sa trovare soluzioni ai problemi e, in generale, a spingerci a proseguire, ma non ha la capacità di elaborare percorsi concreti con sequenze di azioni. E così scarica il problema alla mente cosciente, dicendo: «Tieni, occupatene tu». Eppure, nonostante i numerosi studi degli ultimi decenni, in molti ancora non credono al potere segreto del cervello e pensano di essere in grado di controllare tutto, senza essere influenzati: si sentono capitani indiscussi della propria nave. Invece, i veri grandi capitani prendono sempre in considerazione la corrente e il vento e non puntano verso il porto senza tenere conto del resto. Non significa che dobbiamo fidar-
ci sempre e ciecamente del pensiero nascosto, dipende dalle situazioni, ma certo dobbiamo ascoltarlo. Prendiamo in considerazione il gusto, ad esempio: per capire se ci piace o no qualcosa, la prima sensazione, che quasi non sappiamo spiegarci, è in genere la più giusta. Si può riflettere a lungo e arrivare ad una conclusione diversa, ma non si avrà mai la stessa soddisfazione. Anche per quanto riguarda le persone che si incontrano, ci si può fidare dell’inconscio, ma solo se le si vede in azione: la faccia, il colore della pelle, l’età, sono variabili che possono causare grossi abbagli. Bargh racconta un esperimento condotto dal suo gruppo di ricerca. Il suo team di studiosi ha distribuito ai partecipanti la stessa descrizione di una persona (un profilo fittizio), chiedendo che cosa ne pensassero, se piacesse loro o meno. In aggiunta, a un campione è stato dato per qualche secondo un caffè caldo da tenere in mano, ad altri una bevanda fredda. Chi è stato a contatto con la tazza calda ha avuto un’opinione migliore della persona da esaminare rispetto a chi ha avuto quella fredda. E questo perché persino il calore, senza che ce ne accorgiamo, condiziona profondamente i nostri pensieri.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 gennaio 2019 • N. 02
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Società e Territorio
Decidere prima del tempo
Etica Eutanasia e suicidio assistito sono temi delicati intorno a cui si sviluppano dibattiti accesi – il professore belga
Chris Gastmans parlerà alla SUPSI dei rischi legati alle direttive anticipate che contemplano l’eutanasia
Simona Sala Forse è il sintomo di un mondo che ci ha ormai abituati a pretendere di avere il controllo su tutto in nome dell’autodeterminazione, oppure, come giustamente sosteneva il sociologo Zygmunt Bauman, a dare per scontata la libertà di potere cambiare in qualsiasi momento il corso delle nostre vite. E con esso di conseguenza anche quello delle nostre morti. La gestione della fase terminale della vita da parte del detentore della stessa, ha un nome preciso, derivante dal greco, eutanasia, che significa «bella morte». Oggi per «eutanasia» intendiamo l’atto di porre fine – in modo attivo o passivo – da parte di terzi alla vita di una persona afflitta da sofferenze per lei insopportabili. Proprio per questa presenza di terzi, spesso si parla anche di suicidio assistito. Le cifre dell’Ufficio federale di statistica parlano chiaro riguardo all’eutanasia passiva (l’unica permessa in Svizzera): dal 2008 al 2014 l’aumento del numero delle persone che sono ricorse a questa modalità di decesso (morendo dunque per una causa diversa dalla sofferenza che impedisce di avere una prospettiva) sono aumentate costantemente; se nel 2008 erano poco più di 100, nel 2014 (rilevamento più recente) erano 742. Anche sul tipo di disagio registrato le statistiche sono eloquenti, se la parte del leone è rap-
presentata dalle persone colpite da cancro, malattie neurodegenerative o cardiocircolatorie, fra chi ricorre al suicidio assistito vi sono anche persone affette da depressione o perdita della vista. Nel codice penale svizzero un unico articolo è dedicato alla regolamentazione di una procedura senza dubbio estremamente delicata poiché coinvolge ambiti (emotivo-filosoficireligiosi): nell’Art. 115, dedicato all’Istigazione e all’aiuto al suicidio, si dichiara che «Chiunque per motivi egoistici istiga qualcuno al suicidio o gli presta aiuto è punito, se il suicidio è stato consumato o tentato, con una pena detentiva sino a cinque anni o con una pena pecuniaria». Probabilmente proprio l’assenza di una regolamentazione più circoscritta ha contribuito negli anni a spingere organizzazioni e privati a operare in un campo d’azione pieno di ambiguità e zone d’ombra che alcuni attori non hanno lesinato a sfruttare, basti pensare allo scandalo di qualche anno fa sorto attorno all’associazione svizzero tedesca Dignitas o, in tempi più recenti, all’apertura reiterata di centri di suicidio assistito alle nostre latitudini, soprattutto per fornire un servizio alla vicina Italia, che condanna fermamente la pratica. Sebbene si tratti di un fenomeno che in Ticino, come dimostrano sempre le statistiche, è ancora assai contenuto, non va sottovalutato, poiché per le cause citate all’inizio, ma anche in seguito
Chris Gatsmans è un esperto internazionale di bioetica.
L’importanza del contesto emotivo di ogni paziente In vista dell’incontro pubblico con Chris Gastmans alla SUPSI, gli abbiamo parlato in modo da riuscire a individuare i principali temi di cui si occuperà nel corso del suo importante intervento. Professor Gastmans, è possibile tracciare un identikit delle persone anziane che ricorrono alle direttive anticipate contemplando anche l’eutanasia attiva?
Sì, le ritroviamo soprattutto tra le persone anziane single, non aderenti a una fede specifica, che non si fidano del proprio medico, nel senso che non credono che questi terrà conto delle loro volontà riguardo al fine vita, ma anche persone anziane che soffrono di una condizione patologica cronica o che vivono limitazioni funzionali. Quali sono i timori principali che spingono una persona a stilare
delle direttive anticipate che contemplano l’eutanasia?
Vi sono la paura di dovere dipendere da qualcuno, la paura della perdita di dignità e la paura di diventare un fardello per gli altri.
Come si evince dalle sue Lezioni dal Belgio, lei nutre dei dubbi importanti riguardo all’adeguatezza delle direttive anticipate che considerano l’eutanasia, poiché vi individua tutta una serie di problemi. Ce li potrebbe elencare?
Il primo problema è legato all’interpretazione delle volontà della o del paziente. Le volontà di un paziente non possono essere considerate un dato assoluto i cui contenuti sono deducibili da una direttiva anticipata e in grado di chiarire a tutti gli attori coinvolti cosa si debba fare per il paziente durante tutte le fasi di assistenza. Vi è poi il problema di determinare il momento esatto in
cui praticare l’eutanasia. Prendiamo ad esempio una persona che di fronte a una diagnosi di demenza decide di volere l’eutanasia nel momento in cui non sarà più in grado di riconoscere il proprio figlio. Quali sono i criteri di riconoscimento? In fondo vi sono molti modi di riconoscere una persona, dove tracciare allora la linea di demarcazione? Da ultimo, ma non per importanza, vi è la questione delle previsioni future. Mi spiego, le preferenze e i valori di una persona possono cambiare nel corso del tempo. E le persone affette da demenza non hanno assolutamente modo di riconsiderare le decisioni prese nelle direttive anticipate. Se ad esempio nel momento dell’eutanasia la persona dovesse opporre resistenza cosa si deve fare?
Secondo lei quali sarebbero allora i fattori da tenere in considera-
zione se si desidera un approccio orientato alla cura?
La ricerca di ciò che è meglio per il paziente non dovrebbe tenere in considerazione unicamente le volontà del paziente come se si trattasse di un individuo isolato, ma si dovrebbe sempre cominciare con l’ascolto delle preoccupazioni espresse dal paziente, dai suoi parenti, dal personale di cura ecc, poiché tutti quanti costituiscono il ricco contesto emotivo all’interno del quale la cura della persona deve prendere forma. Dove e quando
Chris Gastmans terrà la sua lectio magistralis alla SUPSI (dipartimento DEASS, Stabile Piazzetta, Manno, Aula 122) il 14 gennaio 2019 alle ore 13.15. È possibile iscriversi alla conferenza all’indirizzo www.supsi. ch/go/gastmans
a un invecchiamento della popolazione che riguarda tutti i paesi occidentali, sarà sempre più presente e oggetto di discussione e dibattito. Diversa a questo riguardo è la situazione nel Benelux dove, senza entrare nei dettagli, poiché ci sono tra Belgio, Olanda e Lussenburgo alcune differenze fondamentali, è contemplata l’eutanasia attiva (che a differenza di quella passiva prevede una somministrazione di un cocktail letale da parte di terzi, preferibilmente identificabili nella figura del medico) perfino per i minori. Poiché, appunto, la popolazione diventa sempre più vecchia e lo spettro di malattie mentali degenerative come la demenza senile o l’Alzheimer è ormai entrato nella quotidianità, sempre più persone si appellano alla possibilità delle direttive anticipate che contemplano l’eutanasia attiva. Grazie ad esse è possibile stabilire formalmente le modalità del proprio decesso qualora dovesse subentrare una malattia di natura fisica o mentale. Come osservato da più parti, e soprattutto dalle voci più critiche, sono diversi i rischi e le incognite legati a questa modalità testamentaria: se una persona ha una malattia mentale degenerativa, chi decide quando intervenire? E davvero le volontà di una persona ammalata e non più in grado di intendere e di volere sono da considerarsi sovrapponibili a quelle di una persona sana e in completo possesso delle proprie facoltà mentali? Saranno questi i temi che affronterà il belga Chris Gastmans (Professore di etica medica e responsabile del centro di etica biomedica e diritto alla Facoltà di Medicina dell’Università Cattolica di Lovanio, Belgio), fra i massimi esperti mondiali in materia, nel corso di una lectio magistralis pubblica organizzata dal Dipartimento economia aziendale, sanità e sociale della SUPSI lunedì 14 gennaio. Gastmans da molti anni si occupa delle problematiche legate alla scelta di ricorrere all’eutanasia, poiché come si afferma in Euthanasia and Assisted Suicide: Lessons from Belgium (edit. David Albert Jones, Chris Gastmans e Calum MacKellar) «l’unico modo per evitare le conseguenze [negative dell’eutanasia] è di resistere alla tentazione della legalizzazione dell’eutanasia o del suicidio assistito, investendo piuttosto sia nelle cure palliative sia nella ricerca sulle pratiche del fine vita, mettendo così in evidenza la preziosità di ogni singola vita umana». Informazioni
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 gennaio 2019 • N. 02
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 gennaio 2019 • N. 02
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Società e Territorio
Affrontare insieme le demenze
Socialità L’Associazione Alzheimer Ticino, in collaborazione con Pro Senectute, ha creato un nuovo Centro
di competenza per garantire una consulenza a tempo pieno Stefania Hubmann Serenità e tranquillità rappresentano gli atteggiamenti più costruttivi per affrontare la malattia di Alzheimer e in generale tutte le forme di demenza. Malati, famigliari e curanti sono chiamati a lavorare assieme affinché ogni fase della malattia possa essere vissuta come continuità della vita. Considerata la crescente diffusione di queste patologie, deve però maturare anche una nuova sensibilità sociale per facilitare la convivenza quotidiana con le persone colpite da un deterioramento cognitivo. A queste importanti sfide l’Associazione Alzheimer Ticino risponde dal 1992 con un impegno al fronte aggiornato e sempre più intenso. Nel 2018 la stretta collaborazione con Pro Senectute Ticino e Moesano è sfociata nell’apertura del Centro di competenza Alzheimer e altre forme di demenza con sede a Lugano.
Sono quasi 8000 le persone affette da demenza che vivono in Ticino, 148mila in Svizzera Nei primi anni Novanta quando l’associazione presentava la propria attività negli spazi pubblici, molte persone non volevano nemmeno sentire parlare di demenza e si allontanavano. Ombretta Moccetti, responsabile del Centro di competenza ricorda bene queste reazioni di paura e rifiuto di accettare una realtà oggi divenuta una priorità a livello socio-sanitario. Si stima infatti che le persone affette da demenza che vivono in Ticino siano quasi 8000 (148mila in Svizzera); numeri destinati a crescere con l’invecchiamento della popolazione. La Strategia nazionale sulla demenza 2014-2017 è stata pertanto prolungata fino al 2019 e di riflesso quelle cantonali. Il Centro di competenza ti-
cinese è nato proprio in questo ambito. Superati i tempi del diniego, l’azione delle autorità e dei loro partner si concentra ancora sempre sulla diffusione di informazioni, ma pure sulla formazione e l’adeguamento delle strutture. «A livello di comunicazione l’impegno è immutato – spiega Ombretta Moccetti – perché siamo confrontati con un grande desiderio di conoscenza. Di fronte alla mancanza di sostanziali progressi sul piano delle cure medicamentose, diventa più che mai importante approfondire e capire in quali altri modi si può intervenire per sostenere la persona colpita da un deterioramento cognitivo ed i suoi famigliari». Nell’ultimo decennio, aggiunge la responsabile del Centro di competenza, sono stati compiuti progressi significativi nella formazione del personale curante e nell’allestimento di adeguate strutture d’accoglienza. Uno degli obiettivi è di facilitare le fasi di transizione nella presa a carico della persona affetta da demenza. Ombretta Moccetti segue l’attività di Alzheimer Ticino sin dalla sua fondazione, avvenuta su impulso del geriatra dottor Franco Tanzi. Le prestazioni di sostegno rivolte ai malati e ai loro famigliari si sono nel tempo intensificate e diversificate. Il primo centro diurno terapeutico aperto a Lugano è stato ripreso da Pro Senectute e affiancato da altri quattro sull’insieme del territorio cantonale. Essi permettono di sgravare i famigliari curanti i quali possono beneficiare anche di altri tipi di appoggio, come le vacanze Alzheimer, i gruppi di auto-aiuto e l’antenna telefonica. Il fiore all’occhiello dell’associazione è l’Alzheimer Café, un’iniziativa partita da Lugano ed ora presente anche a Mendrisio, Bellinzona e Locarno. Precisa la nostra interlocutrice: «Questa forma di incontro ha suscitato grande interesse e successo. Si svolge a cadenza mensile in un ambiente informale ed è aperta a tutti gli interessati: malati, famigliari, curanti, simpatizzanti. Ogni
Alzheimer Ticino ha costituito anche il gruppo Tincontro, dedicato a chi deve affrontare le fasi iniziali di una demenza. (Marka)
appuntamento è dedicato a un singolo argomento presentato da un operatore specializzato e per il quale mettiamo a disposizione materiale informativo. Il momento è nel contempo conviviale e ricreativo, arricchito da un intrattenimento musicale. Essendo alcune regioni un po’ discoste, in particolare l’Alto Ticino, abbiamo deciso di promuovere nel corso di quest’anno un Alzheimer Café a Biasca. La volontà di vicinanza alla popolazione, caratteristica di Alzheimer Ticino, è ora più efficace grazie all’apertura del Centro di competenza avvenuta lo scorso mese di marzo. Ombretta Moccetti: «Oltre a garantire una consulenza a tempo pieno, partecipo di regola ai Café ed effettuo, se necessario, visite a domicilio, in modo da riuscire a captare meglio i bisogni reali delle persone che si devono confrontare con una diagnosi di Alzheimer o di un’altra forma di demenza. Il nostro principio è quello di rispondere alle nuove esigenze unitamente a Pro Senectute e ai diversi servizi attivi sul territorio. La collaborazione è molto intensa anche con Alzheimer Svizzera
che dispone di un’ampia documentazione alla quale possiamo attingere. Documentazione molto apprezzata dalle persone che si rivolgono a noi, perché offre spiegazioni e consigli semplici per la vita di ogni giorno. Viene inoltre prodotto materiale mirato per il settore formativo e le varie categorie professionali». Proprio l’anno scorso l’associazione ticinese ha istituito un nuovo gruppo chiamato Tincontro. È destinato a coloro che si trovano ad affrontare una diagnosi di demenza in fase iniziale. Chi ha coscienza della malattia e desidera parlarne può partecipare a questo gruppo che al momento si ritrova ogni quindici giorni a Lugano. «Se osserveremo un interesse crescente in altre località – aggiunge la nostra interlocutrice – saremo come sempre pronti ad organizzare nuovi gruppi. In questo contesto viene favorita la condivisione di dubbi, paure ed esperienze con altre persone nella medesima situazione. Si impara così a relativizzare i propri problemi, a scambiare esperienze, a trovare nuove forze nel gruppo. Preziose sono pure le informazioni mirate che si ricevono sulle
possibilità di aiuto anche finanziario». La strategia volta a mantenere le persone affette da demenza il più a lungo possibile al proprio domicilio implica infatti l’esistenza di una rete di sostegno per le persone medesime e i famigliari sia dal punto di vista pratico sia da quello economico. Alzheimer Ticino conta molto sulla collaborazione dei medici di famiglia (sovente i primi a confrontarsi con il problema di un deterioramento cognitivo dei pazienti) per far conoscere le offerte a livello cantonale. Queste ultime contribuiscono ad assicurare sollievo ai famigliari curanti e a stimolare il malato per mantenere allenate le sue capacità residue. Focalizzare l’attenzione non su ciò che si è perso quanto piuttosto sulle risorse ancora presenti è il principio che Alzheimer Ticino e gli specialisti del settore hanno fatto proprio e che progressivamente dovrebbe tramutarsi nello sguardo della società verso queste persone sempre più numerose. Informazioni
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 gennaio 2019 • N. 02
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Società e Territorio
L’eredità del Ghiacciaio del Paradiso Pubblicazioni In occasione delle commemorazioni dei 200 anni della strada del Passo del San Bernardino
viene data alle stampe una guida storico-ambientalistica su questa regione, frequentata da 5000 anni
Elena Robert Senza nulla togliere all’importanza della storia millenaria del Passo del San Bernardino (2066 m) e alla sua funzione di asse transalpino sfruttata strategicamente sin dai tempi più remoti, va riconosciuto che il paesaggio, la ricchezza ambientale e le bellezze naturali sono i punti forti non solo del valico ma della regione a sud e a nord dello stesso. A questi e altri aspetti del comprensorio è dedicato un volume in forma di guida che coniuga il rigore scientifico e la passione di tre ricercatori. I contributi nelle scienze ambientali e geoscienze sono di Barbara Beer e, rispettivamente, di Marco Buchmann, quelli storico-culturali di Marco Marcacci, che è anche curatore. Interessanti l’ampio repertorio fotografico e l’approccio multidisciplinare e descrittivo dei quattordici percorsi a piedi proposti. Alla scoperta del San Bernardino. Storia, natura, paesaggio e itinerari escursionistici esce per le commemorazioni dei 200 anni della strada del passo. Sostenuta in primis dal Comune politico e patriziale di Mesocco (di cui sono parte valico e villaggio), l’opera è promossa dal Centro culturale di Circolo di Mesocco Soazza e Lostallo e uscirà anche in tedesco. Vi si riflettono non pochi studi e progetti di valorizzazione sul territorio, come quelli sviluppati nell’ambito dell’esperienza del Parc Adula, in particolare su vie, mulattiere e sentieri storici moesani: tra questi il Progetto di valorizzazione del paesaggio
nella zona del Passo del San Bernardino del 2015 (Marcacci-Beer-Buchmann), che ne costituisce la premessa documentaria, integrato nel 2016 da una perizia di Cornel Doswald sui tracciati storici del valico. La regione è un paradiso di importanza nazionale. Sarà un caso, ma il passo fu modellato dal Ghiacciaio del Paradiso. Il valico, con i suoi laghetti, stagni, paludi, torbiere e le sue rocce montonate è un unicum nelle Alpi, situato com’è in una zona palustre, la più estesa della Svizzera con i suoi 781 ettari tra Hinterrhein e il paese di San Bernardino: un ecosistema di spazi vitali di una ricchezza inestimabile e molto studiato. Impressiona il numero di altri «oggetti» straordinari concentrati nella piccola regione del San Bernardino e protetti a livello federale: cinque torbiere (Suossa presenta cumuli spessi oltre 9 metri e un prato fluttuante) e due paludi tutte accessibili solo a scopo scientifico, quattro superfici di prati e pascoli secchi accuratamente gestiti, la bandita di caccia Trescolmen (con un centinaio di stambecchi), l’area di migliaia di ettari della sorgente del Reno e del valico le cui diversità geologiche, geomorfologiche e floristiche rivestono un ingente valore, le paludi attorno a San Bernardino, un’area quest’ultima di poche centinaia di ettari con un elevatissimo il numero di specie. Un miracolo a dir poco vistoso della natura che resiste e si rinnova sotto i nostri occhi tutti i giorni, fintanto che ce ne pren-
meno 5000 anni. Lo valicarono dal 16. secolo, anche d’inverno, diretti a nord e a est, pure numerosi migranti della Mesolcina e Calanca. Nella regione l’economia alpestre e forestale furono fondamentali per secoli, in tempi più recenti lo sfruttamento delle acque e delle cave. La realizzazione della strada (1818-1824) e dell’Ospizio (1823-1825) fu finanziata dal Regno di Piemonte e Sardegna e consentì lo sviluppo turistico del villaggio (1608 m) inizialmente legato alla Fonte minerale ricca di ferro. L’edificazione della Cappella di San Bernardino (1450-1467) comportò il cambiamento di nome della località Gualdo di Gareida. Sono del 1467 la prima menzione dell’insediamento e la decisione di Mesocco di impegnare due sagrestani a tenere aperta la via del passo anche in inverno, a dare ospitalità ai viandanti e ad accudire la chiesetta. La denominazione si estese al valico, fino ad allora Culmen de Ouxello, dal celtico ouxello (altura). Il nome del Pizzo Uccello non è pertanto riconducibile alla morfologia della montagna. Una delle prime automobili postali sulla strada del Passo del San Bernardino. (Centro culturale di Circolo Soazza)
diamo cura (il più esposto al calpestio dei forestieri e del bestiame è il passo). Chi nella regione del San Bernardino abita e lavora, i villeggianti, i turisti e gli escursionisti ne saranno consapevoli? Cambiamenti climatici, scarsità di neve e acqua impongono sin d’ora
nuove strategie, mentre le risorse da valorizzare restano proprio l’ambiente, la natura, il paesaggio e il patrimonio storico-culturale. Frequentato sin dalla Preistoria, i reperti archeologici attestano scambi su vasta scala attraverso il passo da al-
Bibliografia
Alla scoperta del San Bernardino. Storia natura paesaggio e itinerari escursionistici di Marco Marcacci, Barbara Beer e Marco Buchmann, Centro culturale di Circolo di Mesocco Soazza Lostallo e Edizioni Salvioni, Bellinzona 2018, Collana Guide escursionistiche. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 gennaio 2019 • N. 02
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 gennaio 2019 • N. 02
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Ambiente e Benessere Anatomia del viaggiare Non tutti coloro che partono poi tornano: molti restano alimentando le città globali
Il lago più antico del pianeta Le popolazioni locali pensano abbia il potere di rigenerarsi, e invece… pagina 12
Strisce fiorite perenni Creata una guida tecnica sull’agrobiodiversità funzionale che spiega come la coltivazione di fiori tra i frutteti risulti essere molto utile contro i parassiti
AAA cercasi due fenomeni Il dualismo tra Cologna e Northug si è spento, ma chi ama il fondo aspetta le nuove stelle
Città globali
Viaggiatori d’Occidente L’attrazione per le metropoli cambia la geografia di chi parte
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Claudio Visentin
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Il respiro che manca
Salute Le nuove frontiere terapeutiche
permettono di vivere bene nonostante l’asma
Maria Grazia Buletti Un senso di costrizione a livello del torace, una tosse irritante accompagnata da espettorato, la netta sensazione di non riuscire a respirare e l’affaticamento nel fare sforzi: sono tutti sintomi più o meno variabili che lasciano pensare a un’asma bronchiale. «È una malattia infiammatoria cronica dei bronchi (ndr: ramificazioni della trachea che portano l’aria negli alveoli polmonari) che si restringono, tanto che il passaggio dell’aria, inspirando ed espirando, diventa difficile», così esordisce il dottor Andrea Azzola, caposervizio di pneumologia dell’Ospedale Regionale di Lugano. Egli indica l’asma bronchiale come una malattia piuttosto frequente e incline al rialzo, che non bisogna temere ma che è necessario imparare a gestire e a controllare. «In Svizzera, stimiamo che il 6-8 percento della popolazione soffra di asma bronchiale e in Ticino potenzialmente oltre 30mila persone; sono numeri che tendono ad aumentare a causa di una maggiore sensibilità della popolazione verso i problemi di salute e di diversi e crescenti fattori di rischio come inquinamento, allergie e fumo». Fattori di rischio che è indispensabile eliminare affinché chi soffre di questa patologia riesca poi a controllarla attraverso il corretto uso dei farmaci necessari e scelti secondo il grado di gravità dell’affezione. Tra i possibili fattori scatenanti troviamo in primis il fumo attivo e passivo (entrambi causano un peggioramento dei sintomi e della prognosi): «La sigaretta fumata o subita passivamente va assolutamente eliminata, così come bisogna ridurre il più possibile altri fattori come la presenza di allergie, accertate le quali si procede ad esempio con una riduzione dell’esposizione all’agente patogeno o a una desensibilizzazione». È altresì necessaria una valutazione di tutti i fattori ambientali. Per cominciare, la diagnosi di asma bronchiale è posta sulla base di un’approfondita anamnesi che valuta i sintomi e tutti i possibili fattori di rischio a cui la persona è sottoposta. Poi seguono alcune verifiche diagnostiche votate alla verifica della funzione polmonare: «Si esegue una spirometria che ci permette di valutare l’ostruzione bronchiale più o meno marcata, in genere rever-
sibile dopo la somministrazione di un farmaco broncodilatatore. Qualora la spirometria si dimostrasse normale, si può procedere con un test di broncoprovocazione per verificare la presenza di un’iperattività bronchiale». È una diagnosi che porta il medico e il pneumologo a considerare per ciascun paziente la terapia più indicata secondo il grado di gravità, con l’obiettivo dichiarato del controllo responsabile della malattia da parte del paziente stesso a cui viene insegnato l’utilizzo dei medicamenti di cui deve disporre. A cominciare dal cortisone inalatorio del quale bisogna subito sfatare i falsi timori: «Si utilizza un cortisonico inalatorio per le sue proprietà antinfiammatorie, dato che l’asma è una malattia infiammatoria dei bronchi», racconta il pneumologo indicandolo come un farmaco di base della terapia di un asmatico che, per questo, lo dovrà utilizzare in modo regolare e per un periodo di tempo prolungato a dipendenza dell’intensità della propria asma: «Anche a vita e senza timori perché, al contrario di quanto si pensi, gli effetti collaterali tanto temuti dello steroide inalatorio sono in realtà estremamente leggeri; imparando a inalarlo e a gestirlo correttamente non bisogna averne timore», raccomanda il dottor Azzola, sfatando il falso pregiudizio di nocività che ruota attorno al cortisone. «Anzi, ricordiamoci che non usare regolarmente il cortisone inalatorio farebbe emergere un’asma bronchiale male controllata che avrebbe effetti collaterali di gran lunga peggiori di quelli causati dal cortisone inalatorio. Pensiamo al rischio maggiore di un attacco asmatico con ricoveri ospedalieri, e al fatto che per riportare sotto controllo un’asma mal gestita si renderà necessaria l’assunzione di cortisone in forma di pastiglie (ndr: sistemico). Di quest’ultimo non bisogna abusare e non andrebbe somministrato in modo ripetuto, proprio a causa dei suoi effetti collaterali molto più intensi di quelli di uno steroide inalatorio». Il vivo consiglio del dottor Azzola è quello di affidarsi alle spiegazioni e alle proposte terapeutiche del pneumologo che spiegherà al paziente come gestire la propria asma per tenerla sotto controllo con farmaci adeguati e il più possibile privi di effetti collaterali indesiderati. Per quanto attiene al cortisone, quello in forma inalatoria non nuoce
Il dottor Andrea Azzola, caposervizio di pneumologia dell’Ospedale Regionale di Lugano. (Vincenzo Cammarata)
come quello sistemico (in pastiglie) che va invece assunto solo in casi di emergenza, in modo ripetuto solo in rari casi più severi. «L’uso superiore al paio di volte l’anno è sconsigliato e implica una rivalutazione dell’intensità della terapia, con l’obiettivo di migliorare il controllo dell’asma senza necessità di un cortisonico sistemico». L’educazione del paziente al riconoscimento dei sintomi e alla loro gestione terapeutica sono fondamentali: «L’efficacia dell’inalazione va di pari passo con il gesto eseguito correttamente». Il riconoscimento dei propri sintomi da parte del paziente stesso permette di controllare bene la sua asma: «Ciò assume importanza soprattutto nell’asma di grado medio, severo o persistente, che richiede una presa in carico specialistica da parte del pneumologo coadiuvato dal medico di famiglia». Questo perché, quando
l’asma non è ben controllata malgrado tutti i passi terapeutici intrapresi, lo specialista può valutare se vi sia l’indicazione ad assumere farmaci di nuova generazione disponibili da poco tempo: «Limitati alle forme più severe di asma bronchiale, essi si rivelano opzioni terapeutiche di grande efficacia in pazienti ben selezionati e si considerano solo in seguito a un’attenta anamnesi atta a verificare l’assenza di fattori confondenti che potrebbero aver peggiorato l’asma bronchiale». Quando la sua amata chiese come faceva a sapere che era innamorato, il mitico bracco Snoopy rispose: «Perché quando ti penso mi manca il respiro». «Quello non è amore, è asma!». E lui: «Allora ti asmo!». Un sorriso, a ricordarci che quando manca il respiro potrebbe trattarsi solo di un’emozione. Per contro, se davvero si trattasse di asma bronchiale, diagnosticata attra-
verso un’accurata anamnesi e le relative indagini diagnostiche, oggi è possibile controllarla e curarla attraverso farmaci adeguati e adattati alla severità del disturbo, ottimizzando la qualità della vita del paziente e diminuendo il rischio di esacerbazioni e complicazioni.
Video intervista Sul canale Youtube di «Azione» e su www.azione.ch la videointervista al dottor Andrea Azzola.
Ogni secondo nel nostro pianeta due persone si trasferiscono in città (quasi duecentomila al giorno). I primi a partire naturalmente sono i giovani. E da qualche tempo, per la prima volta nella storia del genere umano, gli abitanti delle città superano quelli delle campagne. Se continuerà così, nei prossimi vent’anni potremmo avere sette-otto miliardi di cittadini a fronte di due-tre miliardi di abitanti delle aree rurali. Per accogliere questa sfida, le città crescono e cambiano natura. Già negli anni Novanta del secolo scorso la sociologa Saskia Sassen parlava di «città globali»: New York, Londra, Seul, Pechino, Shanghai, Tokyo eccetera. Sono metropoli multiculturali, sempre più integrate nell’economia mondiale, sempre più simili tra loro e sempre meno rappresentate dagli Stati nazionali ai quali appartengono. Per esempio, in Inghilterra solo Londra ha votato contro la Brexit, ma ora deve comunque subirne le conseguenze; potrebbero essere pesanti per una piazza finanziaria internazionale. Naturalmente le «città globali» sono molto diverse tra loro: Città del Messico e Lagos per esempio hanno solo alcuni aspetti in comune con Londra o Francoforte. In alcuni casi la crescita è soprattutto demografica (Lagos è già la più popolosa città africana e la terza al mondo), in altri invece si deve al rapido sviluppo di economia, finanza, nuove tecnologie. Le «città globali» crescono rapidamente perché le diverse forme di intelligenza sono a stretto contatto e interagiscono più facilmente; al tempo stesso offrono maggiori opportunità di uscire dalla povertà a individui e nazioni, grazie a una nuova economia basata su servizi, innovazione, condivisione. Tra vent’anni l’ottanta per cento della ricchezza mondiale sarà prodotta qui, ma già ora le dieci città più attive hanno un prodotto interno lordo maggiore di quello di Giappone, Francia, Germania e Italia messi insieme. Naturalmente questi giganteschi centri urbani, congestionati e continuamente affamati di spazio edificabile, acqua ed energia, hanno cruciali problemi di sostenibilità ambientale. L’obiettivo ambizioso è vincere le diverse sfide – cambiamento climatico, mobilità, migrazioni, innovazione digitale, disuguaglianze sociali – per diventare delle Smart City, combinando
Le «città globali» sono tra le mete turistiche più popolari. (Pxhere.com)
sviluppo economico sostenibile e un’alta qualità della vita. Le «città globali» sono tra le mete turistiche più popolari. Il turismo nacque in Inghilterra nell’Ottocento per lasciarsi alle spalle centri industriali inquinati e degradati: Liverpool, Manchester, Birmingham. Era una vera fuga, sia pure limitata a poche settimane l’anno, verso mari, montagne e campagne. Tuttavia negli ultimi decenni la produzione materiale di beni si è trasferita in Cina e nelle periferie del mondo, invisibile alla maggior parte dei consumatori. Dopo la perdita delle loro produzioni industriali, le città più vivaci hanno saputo reagire e trasformarsi. Per esempio Milano, considerata irrimediabilmente in crisi negli anni Settanta, è rinata come centro di finanza, servizi, design e divertimento. Nelle maggiori città si concentra poi gran parte della vita culturale contemporanea – mostre d’arte, spettacoli, concerti eccetera – e un forte interesse per il turismo è stata la logica conseguenza di questa nuova prospettiva. Il mondo dei viaggi contemporaneo mostra così due volti completamente diversi. Da un lato gigantesche città, viaggi più frequenti e più brevi, treni ad alta velocità e compagnie aeree low cost, attrazioni sorprendenti e parchi a tema: una nuova forma di viaggio
sempre più spesso definita «Iperturismo». Dall’altro, vaste zone dimenticate dall’uomo e avviate verso una nuova condizione selvatica: così è per esempio l’Appennino italiano, tra boschi in espansione e case abbandonate, dove pochi camminatori seguono antiche vie. La preferenza per uno stile di viaggio o l’altro ha così anche un significato politico, rispettivamente di critica del progresso o di convinta accettazione della modernità. Intravediamo solo l’inizio di questo cambiamento profondo e alcuni aspetti possono essere sorprendenti. Per esempio nelle grandi città le relazioni affettive diventano «liquide» (come le ha definite il sociologo Zygmunt Bauman) e virtuali: meno matrimoni, meno figli, più single, frequente rottura di vecchi legami per tesserne di nuovi e più gratificanti. Per reazione spesso gli individui sentono un nuovo interesse per la propria storia famigliare: tracciano alberi genealogici, tornano nei luoghi d’origine di genitori e nonni (pochi abitanti di una grande città vi sono nati), visitano archivi e riscoprono case di famiglia. Altri si affidano invece a più moderni test del DNA, per andare ancora più indietro nel tempo. Tracciare il profilo dei propri antenati attraverso il DNA può riservare
sorprese e condurre ad angoli sconosciuti del pianeta. Diversi collaboratori della popolare guida turistica Lonely Planet si sono sottoposti al test, ecco alcune delle loro storie. Christina Webb (www.instagram.com/ christinamariawebb/?hl=en) aveva sempre desiderato visitare Tallin o San Pietroburgo; ha scoperto di avere radici proprio in quelle terre (il suo DNA è 57,8% Asia meridionale, 33,6% irlandese, gallese e scozzese, 4,4% inglese, 4,2% Europa orientale). La famiglia di Valerie Stimac (www. valisemag.com) è invece saldamente ancorata negli Stati Uniti e nessuno sino ad allora aveva avuto notizia di antenati nella Penisola iberica (il suo DNA è 33% Europa orientale, 29% Europa occidentale, 17% Penisola iberica, 16% Europa meridionale, 4% Gran Bretagna). Infine. Mike Nelson (https://twitter.com/mevlow?lang=en) si è posto in cerca di un remoto antenato francese e ha trovato sue tracce nella città di Colchester, da dove la sua famiglia era emigrata negli Stati Uniti intorno alla metà dell’Ottocento per unirsi ai pionieri diretti verso il Far West (il suo DNA è 32% Europa occidentale, 67% Gran Bretagna, 1% Scandinavia). Almeno in questi casi, modernità e tradizione hanno trovato un punto d’incontro.
Trilogia del viaggio Incontri Alla Rete
Due RSI e alla Scuola Club di Lugano «Il viaggio impossibile è quello che non faremo mai più, quello che avrebbe potuto farci scoprire paesaggi nuovi e altri uomini, che avrebbe potuto aprirci lo spazio degli incontri. È esistito un tempo… E noi, che cosa abbiamo fatto dei nostri viaggi e delle nostre scoperte?». Così il sociologo francese Marc Augé qualche anno fa s’interrogava malinconicamente sul significato del viaggio nel nostro tempo, per poi concludere con timide parole di speranza: «Il mondo esiste ancora nella sua diversità. …Forse uno dei nostri compiti più urgenti consiste nell’imparare di nuovo a viaggiare, eventualmente anche nelle nostre immediate vicinanze, per imparare di nuovo a vedere». Per sviluppare questa cruciale riflessione, Scuola Club Migros Ticino e la Rete Due RSI propongono tre incontri pubblici. Si comincia giovedì 17 gennaio 2019 alle ore 18 nello Studio 2 RSI (via Canevascini 5, Lugano-Besso) con un grande scrittore di viaggio, Paolo Rumiz, in dialogo con il pittore e orientalista Stefano Faravelli, nostro collaboratore; Claudio Visentin condurrà la serata. Si parlerà di «Il senso del viaggio nel mondo globale. Scoperte, incontri, malintesi». La Trilogia si completerà con due altri appuntamenti, nei mesi seguenti, questa volta presso Scuola Club Migros, Via Pretorio 15, Lugano. ■ Giovedì 21 febbraio 2019, ore 18, «Viaggio e cambiamento. Perdersi, ritrovarsi, crescere»; Andrea Bocconi dialoga con Sandra Sain. ■ Giovedì 21 marzo 2019, ore 18, «Io viaggio da sola. Storie di donne»; Alessandra Beltrame dialoga con Barbara Sangiovanni. Gli eventi sono gratuiti. Per esigenze organizzative vi chiediamo di confermare la vostra presenza: 091 821 71 50 oppure scuolaclub.lugano@ migrosticino.ch
Libri per giocare e giochi da leggere Letture Nuovi consigli biblio-ludici Ennio Peres Penultima spiaggia, Daniele Po, Erudita Edizioni, pp. 180, € 16,00 Un manuale di sopravvivenza, per riuscire a resistere nella realtà problematica di oggi, redatto da un giornalista e scrittore scomodo, noto per le proprie coraggiose inchieste, sulle mafie nel calcio, sul gioco d’azzardo e sui compro-oro. L’opera che si impone come specchio impietoso del disagio contemporaneo della nostra società, assume la forma di un vocabolario di 121 voci, che affronta con stranita meraviglia, temi di scottante attualità (come, in particolare: anziani, azzardo, badanti,
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scuola dell’infanzia a quella secondaria di primo grado), basato sulla stimolazione della scoperta, come esperienza gioiosa, occasione di mettersi alla prova con impegno, allenamento all’osservazione e all’indagine, addestramento alla concentrazione. Nel volume sono riportati numerosi efficaci esercizi sperimentati sul campo. Benvenuti a Cervellopoli, Matteo
Farinella, Editoriale Scienza, pp. 44, € 14,90 Un volume illustrato, di grande formato, che attraverso l’accativante forma espressiva dei fumetti si pone l’obiettivo di spiegare ai ragazzi (ma non solo
a loro...) i principali aspetti del nostro apparato cerebrale: il sistema nervoso, i neuroni, il talamo, la corteccia, il cervelletto, l’amigdala e l’ippocampo. L’autore, laureato in neuroscienze all’University College di Londra, ha redatto sia i testi che i disegni di quest’opera e, pur essendo alla prima esperienza nel settore dei libri per ragazzi, riesce a trattare un argomento oggettivamente complesso con immediatezza e vivacità. Tutto inizia da 0, AA.VV., Riflessi di Luce Lunare, pp. 196, € 10,00 Un’antologia di quindici racconti di genere fantastico, scritti da autori italiani e
stranieri. Oltre alle opere dei concorrenti premiati nel XXII Trofeo Rill (Maurizio Ferrero di Vercelli, Davide Jaccod di Aosta, Luigi Rinaldi di Roma, Francesca Cappelli di Firenze e Francesco Nucera di Pavia) e nel Trofeo Sfida 2016 (Massimiliano Malerba di Roma, Michele Piccolino di Frosinone, Rosalba Risaliti di Livorno, Alberto Tarroni di Varese e Alain Voudì di Genova), sono riportati anche cinque racconti fantastici, premiati in altrettanti concorsi letterari esteri: l’Aeon Award Contest (Irlanda), il James White Award (Regno Unito), il Premio Visiones (Spagna); il Nova Short-Story Competition (Sud Africa) e la Short-Story Competition (Australia).
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 gennaio 2019 • N. 02
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Ambiente e Benessere Anatomia del viaggiare Non tutti coloro che partono poi tornano: molti restano alimentando le città globali
Il lago più antico del pianeta Le popolazioni locali pensano abbia il potere di rigenerarsi, e invece… pagina 12
Strisce fiorite perenni Creata una guida tecnica sull’agrobiodiversità funzionale che spiega come la coltivazione di fiori tra i frutteti risulti essere molto utile contro i parassiti
AAA cercasi due fenomeni Il dualismo tra Cologna e Northug si è spento, ma chi ama il fondo aspetta le nuove stelle
Città globali
Viaggiatori d’Occidente L’attrazione per le metropoli cambia la geografia di chi parte
pagina 15
Claudio Visentin
pagina 17
pagina 11
Il respiro che manca
Salute Le nuove frontiere terapeutiche
permettono di vivere bene nonostante l’asma
Maria Grazia Buletti Un senso di costrizione a livello del torace, una tosse irritante accompagnata da espettorato, la netta sensazione di non riuscire a respirare e l’affaticamento nel fare sforzi: sono tutti sintomi più o meno variabili che lasciano pensare a un’asma bronchiale. «È una malattia infiammatoria cronica dei bronchi (ndr: ramificazioni della trachea che portano l’aria negli alveoli polmonari) che si restringono, tanto che il passaggio dell’aria, inspirando ed espirando, diventa difficile», così esordisce il dottor Andrea Azzola, caposervizio di pneumologia dell’Ospedale Regionale di Lugano. Egli indica l’asma bronchiale come una malattia piuttosto frequente e incline al rialzo, che non bisogna temere ma che è necessario imparare a gestire e a controllare. «In Svizzera, stimiamo che il 6-8 percento della popolazione soffra di asma bronchiale e in Ticino potenzialmente oltre 30mila persone; sono numeri che tendono ad aumentare a causa di una maggiore sensibilità della popolazione verso i problemi di salute e di diversi e crescenti fattori di rischio come inquinamento, allergie e fumo». Fattori di rischio che è indispensabile eliminare affinché chi soffre di questa patologia riesca poi a controllarla attraverso il corretto uso dei farmaci necessari e scelti secondo il grado di gravità dell’affezione. Tra i possibili fattori scatenanti troviamo in primis il fumo attivo e passivo (entrambi causano un peggioramento dei sintomi e della prognosi): «La sigaretta fumata o subita passivamente va assolutamente eliminata, così come bisogna ridurre il più possibile altri fattori come la presenza di allergie, accertate le quali si procede ad esempio con una riduzione dell’esposizione all’agente patogeno o a una desensibilizzazione». È altresì necessaria una valutazione di tutti i fattori ambientali. Per cominciare, la diagnosi di asma bronchiale è posta sulla base di un’approfondita anamnesi che valuta i sintomi e tutti i possibili fattori di rischio a cui la persona è sottoposta. Poi seguono alcune verifiche diagnostiche votate alla verifica della funzione polmonare: «Si esegue una spirometria che ci permette di valutare l’ostruzione bronchiale più o meno marcata, in genere rever-
sibile dopo la somministrazione di un farmaco broncodilatatore. Qualora la spirometria si dimostrasse normale, si può procedere con un test di broncoprovocazione per verificare la presenza di un’iperattività bronchiale». È una diagnosi che porta il medico e il pneumologo a considerare per ciascun paziente la terapia più indicata secondo il grado di gravità, con l’obiettivo dichiarato del controllo responsabile della malattia da parte del paziente stesso a cui viene insegnato l’utilizzo dei medicamenti di cui deve disporre. A cominciare dal cortisone inalatorio del quale bisogna subito sfatare i falsi timori: «Si utilizza un cortisonico inalatorio per le sue proprietà antinfiammatorie, dato che l’asma è una malattia infiammatoria dei bronchi», racconta il pneumologo indicandolo come un farmaco di base della terapia di un asmatico che, per questo, lo dovrà utilizzare in modo regolare e per un periodo di tempo prolungato a dipendenza dell’intensità della propria asma: «Anche a vita e senza timori perché, al contrario di quanto si pensi, gli effetti collaterali tanto temuti dello steroide inalatorio sono in realtà estremamente leggeri; imparando a inalarlo e a gestirlo correttamente non bisogna averne timore», raccomanda il dottor Azzola, sfatando il falso pregiudizio di nocività che ruota attorno al cortisone. «Anzi, ricordiamoci che non usare regolarmente il cortisone inalatorio farebbe emergere un’asma bronchiale male controllata che avrebbe effetti collaterali di gran lunga peggiori di quelli causati dal cortisone inalatorio. Pensiamo al rischio maggiore di un attacco asmatico con ricoveri ospedalieri, e al fatto che per riportare sotto controllo un’asma mal gestita si renderà necessaria l’assunzione di cortisone in forma di pastiglie (ndr: sistemico). Di quest’ultimo non bisogna abusare e non andrebbe somministrato in modo ripetuto, proprio a causa dei suoi effetti collaterali molto più intensi di quelli di uno steroide inalatorio». Il vivo consiglio del dottor Azzola è quello di affidarsi alle spiegazioni e alle proposte terapeutiche del pneumologo che spiegherà al paziente come gestire la propria asma per tenerla sotto controllo con farmaci adeguati e il più possibile privi di effetti collaterali indesiderati. Per quanto attiene al cortisone, quello in forma inalatoria non nuoce
Il dottor Andrea Azzola, caposervizio di pneumologia dell’Ospedale Regionale di Lugano. (Vincenzo Cammarata)
come quello sistemico (in pastiglie) che va invece assunto solo in casi di emergenza, in modo ripetuto solo in rari casi più severi. «L’uso superiore al paio di volte l’anno è sconsigliato e implica una rivalutazione dell’intensità della terapia, con l’obiettivo di migliorare il controllo dell’asma senza necessità di un cortisonico sistemico». L’educazione del paziente al riconoscimento dei sintomi e alla loro gestione terapeutica sono fondamentali: «L’efficacia dell’inalazione va di pari passo con il gesto eseguito correttamente». Il riconoscimento dei propri sintomi da parte del paziente stesso permette di controllare bene la sua asma: «Ciò assume importanza soprattutto nell’asma di grado medio, severo o persistente, che richiede una presa in carico specialistica da parte del pneumologo coadiuvato dal medico di famiglia». Questo perché, quando
l’asma non è ben controllata malgrado tutti i passi terapeutici intrapresi, lo specialista può valutare se vi sia l’indicazione ad assumere farmaci di nuova generazione disponibili da poco tempo: «Limitati alle forme più severe di asma bronchiale, essi si rivelano opzioni terapeutiche di grande efficacia in pazienti ben selezionati e si considerano solo in seguito a un’attenta anamnesi atta a verificare l’assenza di fattori confondenti che potrebbero aver peggiorato l’asma bronchiale». Quando la sua amata chiese come faceva a sapere che era innamorato, il mitico bracco Snoopy rispose: «Perché quando ti penso mi manca il respiro». «Quello non è amore, è asma!». E lui: «Allora ti asmo!». Un sorriso, a ricordarci che quando manca il respiro potrebbe trattarsi solo di un’emozione. Per contro, se davvero si trattasse di asma bronchiale, diagnosticata attra-
verso un’accurata anamnesi e le relative indagini diagnostiche, oggi è possibile controllarla e curarla attraverso farmaci adeguati e adattati alla severità del disturbo, ottimizzando la qualità della vita del paziente e diminuendo il rischio di esacerbazioni e complicazioni.
Video intervista Sul canale Youtube di «Azione» e su www.azione.ch la videointervista al dottor Andrea Azzola.
Ogni secondo nel nostro pianeta due persone si trasferiscono in città (quasi duecentomila al giorno). I primi a partire naturalmente sono i giovani. E da qualche tempo, per la prima volta nella storia del genere umano, gli abitanti delle città superano quelli delle campagne. Se continuerà così, nei prossimi vent’anni potremmo avere sette-otto miliardi di cittadini a fronte di due-tre miliardi di abitanti delle aree rurali. Per accogliere questa sfida, le città crescono e cambiano natura. Già negli anni Novanta del secolo scorso la sociologa Saskia Sassen parlava di «città globali»: New York, Londra, Seul, Pechino, Shanghai, Tokyo eccetera. Sono metropoli multiculturali, sempre più integrate nell’economia mondiale, sempre più simili tra loro e sempre meno rappresentate dagli Stati nazionali ai quali appartengono. Per esempio, in Inghilterra solo Londra ha votato contro la Brexit, ma ora deve comunque subirne le conseguenze; potrebbero essere pesanti per una piazza finanziaria internazionale. Naturalmente le «città globali» sono molto diverse tra loro: Città del Messico e Lagos per esempio hanno solo alcuni aspetti in comune con Londra o Francoforte. In alcuni casi la crescita è soprattutto demografica (Lagos è già la più popolosa città africana e la terza al mondo), in altri invece si deve al rapido sviluppo di economia, finanza, nuove tecnologie. Le «città globali» crescono rapidamente perché le diverse forme di intelligenza sono a stretto contatto e interagiscono più facilmente; al tempo stesso offrono maggiori opportunità di uscire dalla povertà a individui e nazioni, grazie a una nuova economia basata su servizi, innovazione, condivisione. Tra vent’anni l’ottanta per cento della ricchezza mondiale sarà prodotta qui, ma già ora le dieci città più attive hanno un prodotto interno lordo maggiore di quello di Giappone, Francia, Germania e Italia messi insieme. Naturalmente questi giganteschi centri urbani, congestionati e continuamente affamati di spazio edificabile, acqua ed energia, hanno cruciali problemi di sostenibilità ambientale. L’obiettivo ambizioso è vincere le diverse sfide – cambiamento climatico, mobilità, migrazioni, innovazione digitale, disuguaglianze sociali – per diventare delle Smart City, combinando
Le «città globali» sono tra le mete turistiche più popolari. (Pxhere.com)
sviluppo economico sostenibile e un’alta qualità della vita. Le «città globali» sono tra le mete turistiche più popolari. Il turismo nacque in Inghilterra nell’Ottocento per lasciarsi alle spalle centri industriali inquinati e degradati: Liverpool, Manchester, Birmingham. Era una vera fuga, sia pure limitata a poche settimane l’anno, verso mari, montagne e campagne. Tuttavia negli ultimi decenni la produzione materiale di beni si è trasferita in Cina e nelle periferie del mondo, invisibile alla maggior parte dei consumatori. Dopo la perdita delle loro produzioni industriali, le città più vivaci hanno saputo reagire e trasformarsi. Per esempio Milano, considerata irrimediabilmente in crisi negli anni Settanta, è rinata come centro di finanza, servizi, design e divertimento. Nelle maggiori città si concentra poi gran parte della vita culturale contemporanea – mostre d’arte, spettacoli, concerti eccetera – e un forte interesse per il turismo è stata la logica conseguenza di questa nuova prospettiva. Il mondo dei viaggi contemporaneo mostra così due volti completamente diversi. Da un lato gigantesche città, viaggi più frequenti e più brevi, treni ad alta velocità e compagnie aeree low cost, attrazioni sorprendenti e parchi a tema: una nuova forma di viaggio
sempre più spesso definita «Iperturismo». Dall’altro, vaste zone dimenticate dall’uomo e avviate verso una nuova condizione selvatica: così è per esempio l’Appennino italiano, tra boschi in espansione e case abbandonate, dove pochi camminatori seguono antiche vie. La preferenza per uno stile di viaggio o l’altro ha così anche un significato politico, rispettivamente di critica del progresso o di convinta accettazione della modernità. Intravediamo solo l’inizio di questo cambiamento profondo e alcuni aspetti possono essere sorprendenti. Per esempio nelle grandi città le relazioni affettive diventano «liquide» (come le ha definite il sociologo Zygmunt Bauman) e virtuali: meno matrimoni, meno figli, più single, frequente rottura di vecchi legami per tesserne di nuovi e più gratificanti. Per reazione spesso gli individui sentono un nuovo interesse per la propria storia famigliare: tracciano alberi genealogici, tornano nei luoghi d’origine di genitori e nonni (pochi abitanti di una grande città vi sono nati), visitano archivi e riscoprono case di famiglia. Altri si affidano invece a più moderni test del DNA, per andare ancora più indietro nel tempo. Tracciare il profilo dei propri antenati attraverso il DNA può riservare
sorprese e condurre ad angoli sconosciuti del pianeta. Diversi collaboratori della popolare guida turistica Lonely Planet si sono sottoposti al test, ecco alcune delle loro storie. Christina Webb (www.instagram.com/ christinamariawebb/?hl=en) aveva sempre desiderato visitare Tallin o San Pietroburgo; ha scoperto di avere radici proprio in quelle terre (il suo DNA è 57,8% Asia meridionale, 33,6% irlandese, gallese e scozzese, 4,4% inglese, 4,2% Europa orientale). La famiglia di Valerie Stimac (www. valisemag.com) è invece saldamente ancorata negli Stati Uniti e nessuno sino ad allora aveva avuto notizia di antenati nella Penisola iberica (il suo DNA è 33% Europa orientale, 29% Europa occidentale, 17% Penisola iberica, 16% Europa meridionale, 4% Gran Bretagna). Infine. Mike Nelson (https://twitter.com/mevlow?lang=en) si è posto in cerca di un remoto antenato francese e ha trovato sue tracce nella città di Colchester, da dove la sua famiglia era emigrata negli Stati Uniti intorno alla metà dell’Ottocento per unirsi ai pionieri diretti verso il Far West (il suo DNA è 32% Europa occidentale, 67% Gran Bretagna, 1% Scandinavia). Almeno in questi casi, modernità e tradizione hanno trovato un punto d’incontro.
Trilogia del viaggio Incontri Alla Rete
Due RSI e alla Scuola Club di Lugano «Il viaggio impossibile è quello che non faremo mai più, quello che avrebbe potuto farci scoprire paesaggi nuovi e altri uomini, che avrebbe potuto aprirci lo spazio degli incontri. È esistito un tempo… E noi, che cosa abbiamo fatto dei nostri viaggi e delle nostre scoperte?». Così il sociologo francese Marc Augé qualche anno fa s’interrogava malinconicamente sul significato del viaggio nel nostro tempo, per poi concludere con timide parole di speranza: «Il mondo esiste ancora nella sua diversità. …Forse uno dei nostri compiti più urgenti consiste nell’imparare di nuovo a viaggiare, eventualmente anche nelle nostre immediate vicinanze, per imparare di nuovo a vedere». Per sviluppare questa cruciale riflessione, Scuola Club Migros Ticino e la Rete Due RSI propongono tre incontri pubblici. Si comincia giovedì 17 gennaio 2019 alle ore 18 nello Studio 2 RSI (via Canevascini 5, Lugano-Besso) con un grande scrittore di viaggio, Paolo Rumiz, in dialogo con il pittore e orientalista Stefano Faravelli, nostro collaboratore; Claudio Visentin condurrà la serata. Si parlerà di «Il senso del viaggio nel mondo globale. Scoperte, incontri, malintesi». La Trilogia si completerà con due altri appuntamenti, nei mesi seguenti, questa volta presso Scuola Club Migros, Via Pretorio 15, Lugano. ■ Giovedì 21 febbraio 2019, ore 18, «Viaggio e cambiamento. Perdersi, ritrovarsi, crescere»; Andrea Bocconi dialoga con Sandra Sain. ■ Giovedì 21 marzo 2019, ore 18, «Io viaggio da sola. Storie di donne»; Alessandra Beltrame dialoga con Barbara Sangiovanni. Gli eventi sono gratuiti. Per esigenze organizzative vi chiediamo di confermare la vostra presenza: 091 821 71 50 oppure scuolaclub.lugano@ migrosticino.ch
Libri per giocare e giochi da leggere Letture Nuovi consigli biblio-ludici Ennio Peres Penultima spiaggia, Daniele Po, Erudita Edizioni, pp. 180, € 16,00 Un manuale di sopravvivenza, per riuscire a resistere nella realtà problematica di oggi, redatto da un giornalista e scrittore scomodo, noto per le proprie coraggiose inchieste, sulle mafie nel calcio, sul gioco d’azzardo e sui compro-oro. L’opera che si impone come specchio impietoso del disagio contemporaneo della nostra società, assume la forma di un vocabolario di 121 voci, che affronta con stranita meraviglia, temi di scottante attualità (come, in particolare: anziani, azzardo, badanti,
banche, Calcio, dipendenze, guerra, lobbies, malavita organizzata, morale, migranti, pentitismo, truffe, usura, e così via). Il libro può essere richiesto direttamente all’autore, all’indirizzo: da.poto@tiscali.it Numeri e forme, Ana Millán Gasca,
Zanichelli, pp. 368, € 30,40 Un saggio di didattica, che suggerisce alcune valide strategie per insegnare la Matematica ai bambini, fondate sul rapporto tra l’intuizione geometrica e il concetto di numero. L’autrice, docente di Matematiche complementari, presso l’Università di Roma Tre, delinea un valido percorso per i bambini (dalla
scuola dell’infanzia a quella secondaria di primo grado), basato sulla stimolazione della scoperta, come esperienza gioiosa, occasione di mettersi alla prova con impegno, allenamento all’osservazione e all’indagine, addestramento alla concentrazione. Nel volume sono riportati numerosi efficaci esercizi sperimentati sul campo. Benvenuti a Cervellopoli, Matteo
Farinella, Editoriale Scienza, pp. 44, € 14,90 Un volume illustrato, di grande formato, che attraverso l’accativante forma espressiva dei fumetti si pone l’obiettivo di spiegare ai ragazzi (ma non solo
a loro...) i principali aspetti del nostro apparato cerebrale: il sistema nervoso, i neuroni, il talamo, la corteccia, il cervelletto, l’amigdala e l’ippocampo. L’autore, laureato in neuroscienze all’University College di Londra, ha redatto sia i testi che i disegni di quest’opera e, pur essendo alla prima esperienza nel settore dei libri per ragazzi, riesce a trattare un argomento oggettivamente complesso con immediatezza e vivacità. Tutto inizia da 0, AA.VV., Riflessi di Luce Lunare, pp. 196, € 10,00 Un’antologia di quindici racconti di genere fantastico, scritti da autori italiani e
stranieri. Oltre alle opere dei concorrenti premiati nel XXII Trofeo Rill (Maurizio Ferrero di Vercelli, Davide Jaccod di Aosta, Luigi Rinaldi di Roma, Francesca Cappelli di Firenze e Francesco Nucera di Pavia) e nel Trofeo Sfida 2016 (Massimiliano Malerba di Roma, Michele Piccolino di Frosinone, Rosalba Risaliti di Livorno, Alberto Tarroni di Varese e Alain Voudì di Genova), sono riportati anche cinque racconti fantastici, premiati in altrettanti concorsi letterari esteri: l’Aeon Award Contest (Irlanda), il James White Award (Regno Unito), il Premio Visiones (Spagna); il Nova Short-Story Competition (Sud Africa) e la Short-Story Competition (Australia).
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Ambiente e Benessere
Che futuro per il mare sacro?
Reportage Luogo di rituali ancestrali, il Lago Baikal è venerato da secoli come una divinità dalle popolazioni locali.
Eppure, oggi, il suo fragile ecosistema è messo a dura prova
Amanda Ronzoni, testo e foto Russia, Siberia sudorientale. Pieno inverno. Il Baikal è un ruggito bianco di ghiaccio. Respira regolarmente, con rumori secchi e sinistri di crepe pronte a divorare chi si avventura sulla sua superficie. Per quanto insidioso, il ghiaccio che copre completamente quest’immenso bacino di acqua dolce (il più profondo del mondo con i suoi 1642 m) funziona come un’enorme calamita per chi transita sulle sue sponde. Spesso anche oltre il metro e mezzo, è in grado di sopportare il peso di auto e camion, che nella stagione invernale ne approfittano per risparmiare chilometri e ore di guida, e, invece di percorrere le strade tortuose che circondano il lago, si avventurano al largo, scivolando sulla superficie ghiacciata. È impossibile resistere alla tentazione di camminare sulle acque, seguire le crepe, le onde azzurre congelate, osservare le navi imprigionate in porto stando al largo, restare ipnotizzati dal ghiaccio nero (da qui l’appellativo di Black Baikal) che proietta su fondali remoti, perdersi tra i ricami di ossigeno intrappolato dal gelo che disegna fioriture immacolate sotto la superficie. «Blagopoluchnyi Baikal!» («Il lago Baikal è perfetto!»), è l’esclamazione di uno scienziato russo, Slava Maksimov, intervistato qualche anno fa da Peter Thompson, veterano del giornalismo ambientale, che nel 2008 ha scritto Sacred Sea: A Journey to Lake Baikal. Come dargli torto. Almeno in questa stagione tutto sembra immacolato e la natura incontaminata. Eppure anche il Baikal sta lottando per sopravvivere. La nomina a patrimonio dell’u-
Azione
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
manità UNESCO nel 1996 è solo uno degli ultimi riconoscimenti e tentativi di proteggerlo. Gengis Khan, già nel XIII secolo, proibì la costruzione di edifici nell’area adiacente al lago e per parecchi secoli la regione rimase isolata, abitata solo da piccoli gruppi di nomadi buriati e mongoli. Lo zar Nicola II istituì sulle sue sponde la prima riserva naturale dell’impero russo nel 1916. Il Dalai nor («mare sacro», per i buriati) ha un’aura mistica. È il lago più antico del pianeta (25 milioni di anni) e contiene un quinto delle riserve di acqua dolce della Terra, calcolate in circa 23mila chilometri cubi. Secondo i locali avrebbe il potere di rigenerarsi e ripulirsi persino dai tentativi di inquinamento dell’uomo, dimostrando una capacità di resilienza fuori dal comune. Ci sono punti dove l’acqua è così trasparente che si riesce a vedere il fondale a 40 metri e la sua formula è ancora purissima. Tuttavia, nonostante rappresenti un bacino di biodiversità incredibile (tanto da meritarsi il titolo di Galápagos della Russia), con circa 1400 specie animali, 60 di pesci e un
migliaio di piante, di cui buona parte endemiche, a partire dagli anni Sessanta il lago fu chiamato a fare la sua parte per accrescere la produttività della madrepatria dall’allora premier Nikita Khrushchev che, al grido di «Anche il Baikal deve lavorare», autorizzò la costruzione di impianti industriali sulle sue rive, tra le quali, particolarmente impattante in termini ambientali, una cartiera. Ovviamente questo, insieme all’incremento di attività turistiche, sta mettendo a dura prova la capacità autorigenerante del Baikal. Al di là di miti e leggende, fonte di questo misterioso potere pare sia un essere minuscolo, l’Epischura baikalensis, un gambero che da solo rappresenta circa l’80%-90% della biomassa del lago, creando un formidabile sistema filtrante. O così si credeva: in realtà secondo recenti studi, più che filtrare, trasferisce gli agenti contaminanti al resto della catena alimentare. Ad ogni anello di questa catena la concentrazione degli inquinanti peggiora. La moria delle foche del Baikal, le nerpa (Pusa sibirica), una specie endemica del lago, è sospetta e i ricercatori hanno scoperto nell’organismo di questi piccoli pinnipedi gli stessi livelli di inquinamento che si riscontrano nelle foche delle regioni più inquinate del Baltico. Se si considera che l’omul (Coregonus migratorius), pesce endemico del lago, da secoli una fonte di cibo primaria per gli abitanti della regione, è ancor oggi molto apprezzato come specialità locale e viene esportato in altre regioni, si intuisce la pericolosità della situazione anche per l’essere umano. Un paio di anni fa, l’Istituto Limnologico della divisione siberiana dell’Accademia delle Scienze russa ha
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lanciato un altro allarme. I liquami provenienti da hotel e campeggi lungo le rive del lago non vengono adeguatamente depurati, con il risultato che i campionamenti fatti mostrano altissimi livelli di contaminazione chimica e microbiologica, inclusi ovviamente materiale fecale. A beneficiarne È la Spirogyra, un’alga filamentosa non ramificata che sta soffocando e soppiantando le specie endemiche, tra cui la preziosa Lubomirskia baicalensis, una spugna, anch’essa ritenuta fondamentale per il processo di bio-purificazione delle acque. Se in estate ci sono pile di alghe marce maleodoranti che si accumulano sulle rive e offuscano la superficie del lago, turisti chiassosi e un gran via vai di auto, Uaz e barche, che vanno avanti e indietro per i luoghi culto di quello che si avvia ad essere turismo di massa, in inverno il Baikal sembra trovare di nuovo la pace e tornare al suo
antico, maestoso splendore. La morsa del gelo tiene a bada l’uomo, con temperature che di giorno vanno dai –15°C ai –25°C, e di notte scendono anche sotto i –30°C. Nei villaggi buriati che costellano il lago la vita segue ancora ritmi e rituali che a noi sembrano molto lontani. Gli sciamani sono ancora un punto di riferimento. E oggi sono convinti che la crisi del lago Baikal sia dovuta alla collera degli spiriti. Nel 2017, per scongiurare la siccità che affligge da qualche anno alcune regioni, si sono radunati per compiere sacrifici rituali e intercedere come fanno da generazioni tra il mondo del soprannaturale e quello degli uomini. Arrivano da luoghi diversi, ognuno ha i suoi spiriti guida e le sue credenze, ma tutti hanno la stessa visione: un mondo dove si respiri aria pulita e si beva acqua fresca, in ossequio alle tradizioni dei propri antenati e senza sovvertire le regole della natura.
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Ambiente e Benessere Un bel Codiaeum variegatum. (Louise Wolff)
Che forza, la scorza!
Colorate foglie del croton o elegante clorofito? Mondoverde Piante d’appartamento che
colorano l’inverno con sfumature autunnali Anita Negretti Se avete voglia di regalarvi o di regalare una nuova pianta d’appartamento, la scelta potrebbe cadere su due alberelli molto in voga negli anni Ottanta, ma che stanno riscoprendo una nuova giovinezza grazie ai loro colori e alla facilità di coltivazione. Nelle foreste di Malesia, Sri Lanka e in quelle vastissime dell’India meridionale, cresce spontaneo il Croton, una bella pianta, molto appariscente grazie alle sue foglie grandi e dalle tante sfumature arancio, gialle, rosse, verde brillante e porpora. Le foglie coriacee, pur mantenendo i bei colori tipici di queste piante che possono raggiungere il metro e cinquanta di altezza, si differenziano in base alle varietà, come nel caso di Croton «Pictum» (anche se il corretto nome botanico dei croton è Codiaeum), con foglie lunghe e larghe, dalle svariate forme lobate. C. «Grubell» presenta invece foglie strette, verdi e con disegni giallo intenso, mentre la varietà C. carrieri «Black Prince» ha foglie arancio ruggine con grandi macchie nere e gialle. Una volta trovata la posizione ideale all’interno dell’abitazione, ovvero un luogo dotato di buona esposizione alla luce per non far scolorire i pigmenti delle foglie, è bene bagnarlo con acqua non calcarea 1-2 volte alla settimana e concimarlo ogni 15 giorni con un buon prodotto liquido per piante verdi; anche perché i fiori prodotti dai Codiaeum sono molto piccoli e poco decorativi, quindi meglio stimolare l’emissione di nuove foglie, vero punto di forza di queste piante. In inverno, la temperatura ideale per la sua coltivazione deve esser compresa tra i 16-20 gradi. Per evitare di ritrovarvi la pian-
ta senza foglie per via della secchezza dell’aria in appartamento durante tutta la stagione dei termosifoni accesi, vi consiglio di spruzzare le foglie con un nebulizzatore (non utilizzate acqua calcarea oppure lasciate decantare per una notte quella del rubinetto, in maniera tale che il calcare possa depositarsi sul fondo e non vada a ostruire gli stomi delle foglie). Da metà maggio fino a fine settembre mettetela all’esterno, in terrazza o in giardino, in piena luce o a mezz’ombra, lasciando che la pioggia primaverile bagni e pulisca in maniera naturale le foglie. Dai colori più sobri, grazie alle lunghe foglie arcuate verde chiaro con al centro una striscia bianca, il Chlorophytum comosum o falangio si presenta come una pianta d’appartamento che ben si posiziona sopra a una mensola o a un vaso alto. Dal ciuffo di foglie principale si sviluppano dei fusti stoloniferi (come quelli che le fragole utilizzano per riprodursi), che portano ciuffetti di foglie più piccole e radici aeree bianche. La si può lasciar crescere indisturbata per alcuni anni, bagnando la pianta con regolarità due volte alla settimana, offrendo luce ma non sole diretto e concime ogni 1520 giorni, avendo sempre cura di portarla al riparo in casa quando la temperatura incomincia a scendere. Al momento del rinvaso, da effettuarsi ogni 2-3 anni, è possibile moltiplicare con molta facilità la pianta. Basterà tagliare dalla base qualcuno dei lunghi rami stoloniferi e una volta create delle nuove porzioni di piante portanti il ciuffo di foglie e le radici aeree, le si interreranno con del terriccio soffice e poroso – composto miscelando in parti uguali torba e sabbia – da tener sempre umido nei primi mesi per garantirne l’attecchimento.
Un esemplare di Codiaeum variegatum. (Krishna)
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 gennaio 2019 • N. 02
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Ambiente e Benessere
Metti dei fiori nel tuo frutteto
Ecosistema Diversi studi dimostrano come le strisce fiorite all’interno dei frutteti aiutano a mantenere
un equilibrio tra insetti utili e parassiti Elia Stampanoni Seminare e coltivare dei fiori in un frutteto potrebbe sembrare una mossa estetica o di marketing e, infatti, una delle conseguenze (ma solo collaterale) di questa pratica colturale è proprio l’abbellimento del paesaggio e quindi anche di fare un piacere ai turisti o ai passanti. Ma lo scopo primario è molto più pratico, come dimostrano diversi studi che sottolineano come la presenza di strisce fiorite all’interno di un frutteto rendano la coltivazione più facile, attirando diversi insetti e animali utili. Proprio sulle basi di queste ricerche è stata di recente pubblicata una guida tecnica (Strisce fiorite perenni, uno strumento per facilitare il controllo dei parassiti nei frutteti – https://bit. ly/2LELrPZ) dove si evidenzia in particolare l’efficienza delle fasce fiorite per regolare la presenza di parassiti e specie dannose agli alberi da frutta. L’istituto di ricerche dell’agricoltura biologica (Fibl), congiuntamente al Centro di sperimentazione di Laimburg in Italia, hanno potuto riassumere i propri risultati, ma anche quelli di altri e differenti centri di ricerca che concordano sull’effetto positivo delle strisce fiorite. Inserite nei filari di un frutteto, le fasce seminate con fiori annuali, pluriennali o perenni, aumentano la complessità dell’ecosistema che diventa così molto più attraente per molte specie d’insetti, tra cui insetti
utili quali predatori, parassitoidi e impollinatori. Si crea così un habitat naturale e complesso che in Svizzera, secondo uno degli studi del Fibl, possono ridurre in modo significativo i danni provocati dall’afide grigio del melo. Questo è quanto ha potuto rilevare l’istituto di ricerca argoviese nei meleti con almeno trenta specie di fiori disposte tra i filari. Anche dal Belgio arrivano risultati incoraggianti e in un esperimento simile, con strisce fiorite comprendenti almeno venti specie, si sono potuti ridurre i danni dell’afide al di sotto della soglia di tolleranza, rendendo superfluo qualsiasi tipo di intervento fitosanitario con insetticidi. In Francia, l’istituto delle mele da sidro IFPC in Normandia ha invece rilevato come l’inserimento di bande fiorite all’interno dei frutteti abbia avuto il pregio di aumentare il numero di coccinelle di almeno il 60 per cento. Le coccinelle sono dei formidabili antagonisti naturali, dove sia gli adulti sia le larve vivono grazie alle prede cacciate, prevalentemente afidi. Tra i predatori naturali, oltre alle coccinelle, rientrano molti insetti o piccoli animali, per esempio ragni, sirfidi, acari o anche forbicette che si nutrono principalmente di altri individui. I parassitoidi sono invece un’altra grossa famiglia di organismi utili caratterizzati da uno stadio larvale che si sviluppa sopra o all’interno di un insetto ospite, causandone la morte. Si intuisce
quindi che sia i predatori sia i parasssitoidi possono essere dei validi alleati naturali per l’agricoltore. Promuovere una varietà di piante all’interno dei frutteti con le strisce fiorite non è quindi solo un’azione estetica o di promozione della biodiversità, ma ha anche degli effetti pratici e diretti sull’ecosistema, a favore di un equilibrio tra organismi dannosi e utili.
La guida tecnica mostra quindi alcuni esempi su come allestire, curare e gestire le bande fiorite, una strategia semplice e naturale che può essere da spunto anche per i giardini o i piccoli frutteti famigliari. Per promuovere un’ampia varietà di insetti amici è innanzitutto indispensabile creare le condizioni necessarie perché essi siano attratti all’interno del frutteto, se-
minando delle strisce fiorite ricche di specie allettanti. Fiori colorati e carichi di polline sono senz’altro favorevoli per molti insetti, meglio ancora se con una fioritura abbastanza precoce in modo che la specie possa svilupparsi presto all’interno del frutteto e svilupparsi rapidamente prima dell’arrivo delle specie dannose, per poterne contrastare lo sviluppo. Un esempio sono i tiflodromi, dei piccoli acari utilissimi in frutticoltura, che avendo a disposizione polline a sufficienza riescono a moltiplicarsi rapidamente, creando una popolazione numerosa e consistente. Essendo presenti in massa nel frutteto, i tiflodromi risulteranno più efficienti nel contrastare l’arrivo di possibili insetti dannosi, come per esempio il ragnetto rosso. Le strisce fiorite, chiaramente, non dovrebbero tuttavia favorire anche la proliferazione delle specie indesiderate e neppure diventare un ostacolo ai lavori di coltivazione. Vanno pertanto privilegiate specie con una crescita ridotta e adatte allo sfalcio, che ben si adeguano al clima, al suolo e all’ecosistema. Bibliografia
Strisce fiorite perenni, uno strumento per facilitare il controllo dei parassiti nei frutteti, Guida tecnica 1126, Istituto di ricerche dell’agricoltura biologica (Fibl Svizzera) e Centro di sperimentazione Laimburg (Italia), 2018. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 gennaio 2019 • N. 02
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Ambiente e Benessere
Tu, tu che sei diverso
Sport Negli ultimi dieci anni lo sci di fondo mondiale ha potuto vivere della luce diffusa da due straordinari
campioni profondamente diversi fra di loro: Dario Cologna e Petter Northug Giancarlo Dionisio Giorno e notte. Bianco e nero. Sole e luna. Buono e cattivo. O, se preferite, cattivo e buono, dato che queste due ultime categorie soggiacciono a valutazioni soggettive. Dario Cologna e Petter Northug. Due campioni che hanno scritto dieci anni di storia dello sci di fondo. Dieci anni di storia dello sport. Entrambi nati nel 1986. L’11 marzo, il grigionese di Santa Maria Valle di Monastero; il 6 gennaio, il vichingo di Levanger. Ancora in attività il primo. In pensione, da poche settimane, il secondo. Due personalità molto diverse, due stili di vita agli antipodi, ma un solo comune destino: essere un fenomeno. Rivali da juniores, quando primeggiavano su tutti. Avversari da Under 23, quando Cologna sembrava in grado di prendere il sopravvento grazie ai suoi tre titoli mondiali in una sola edizione. Gomito a gomito sin dalle prime gare fra i grandi, come in quella 30 km di La Clusaz vinta da Northug per pochi centimetri. Petter e Dario, divisi però da percorsi agonistici differenziati. Il primo è l’uomo del carpe diem. È un distillato di talento, classe, immaginazione e spregiudicatezza. È l’atleta che si autoillumina anche nel più buio dei tunnel, capace di portare la sua luce fin sulla linea del traguardo, dopo aver fatto credere ai rivali di essere lì lì per morire. Petter è l’uomo dell’iride. Un’iride dipinta da una parabola a 180 gradi. Nel suo arcobaleno ci sono sette medaglie d’oro individuali, che spaziano dalla fucilata di uno sprint, allo stillicidio della 50 km. Dario è invece l’uomo delle imprese multiple e degli straordinari recuperi tra una gara e l’altra. È un distillato di serietà, dedizione, resistenza e razionalità. Ha un mentale d’acciaio e focalizza gli obiettivi come il più preciso dei missili terra-aria. Cologna è, per ora, l’uomo del poker: quattro ori olimpici contro l’unico, a titolo individuale, di Northug; quattro Coppe del Mondo, il
Dario Cologna in azione alle spalle del norvegese Petter Northug durante la classica gara di 50 km a inizio dei Mondiali di sci nordico 2015 a Falun, in Svezia. (Keystone)
doppio del rivale; quattro Tour de ski, a fronte del solo successo del norvegese in questa prestigiosa corsa a tappe che si disputa a cavallo di Capodanno. Il che può suonare strano, poiché il poker è piuttosto scolpito nel destino dello Scandinavo. Petter era, è, e probabilmente sarà, un gambler, un giocatore di azzardo che ha sottratto ore preziose di allenamento al fondista per dedicarle al tavolo verde fino al punto di partecipare ai Mondiali di poker. «Mi mancano almeno 250 ore di duro lavoro» diceva lo scorso ottobre quando quella del ritiro definitivo dalle competizioni era ancora solo un’ipotesi. Non ce l’ha fatta a recuperarle. Avrebbe dovuto allenarsi anche di notte. Ma, probabilmente, anche la notte
è luogo di confine fra i due campioni. Vita regolare, quella di Superdario, tutta casa e pista, con accanto Laura, la dolce fidanzata di sempre. Vita dissipata quella di Wonderpetter, al quale sono state attribuite alcune liaisons dangereuses. Nessun giudizio morale, credetemi, ognuno è padrone e responsabile delle proprie scelte. Quelle di Dario lo vedranno ancora protagonista ai prossimi Mondiali in programma a Seefeld, in Austria, da metà febbraio, dopo di che, il campione grigionese andrà a caccia del pokerissimo olimpico, nel 2022, sulle nevi atipiche di Pechino, quando avrà 36 anni. E sarà una missione tutt’altro che impossibile. Anche Petter, nonostante il suo
stop definitivo, potrebbe essere presente a Seefeld, Pechino e ancora più in là. Sono, infatti, moltissime le offerte di collaborazione che stanno giungendo nel suo mail-box affinché si cimenti come opinionista. Sono certo che potrebbe essere un eccellente commentatore: brillante, acuto, e soprattutto disposto a uscire dagli schemi. Northug è un campione che ha diviso il pubblico, come accade sovente ai tipi originali, tuttavia dopo che ha deciso di fare la riverenza sono emersi soprattutto la nostalgia e il rincrescimento, poiché è fuori di dubbio che il mondo dello sci nordico perde un personaggio capace di occupare la scena da protagonista. Anche Dario piace. Anzi piace di più e divide di meno. Il ragazzo della Val
Müstair incarna il modello dell’uomo serio, ponderato, attivo, disciplinato e diligente. Una sorta di figlio ideale che, per giunta, è pure carino, e dispone di un sorriso che spacca. Se Northug è stato il tipico Bad Boy, il monello pronto a tutte le trasgressioni, Cologna ha proposto invece dei comportamenti più in sintonia con la storia e la tradizione dello sci di fondo, sport di fatica, per gente di montagna, semplice, ma arguta, di poche parole, ma con grande capacità di ascolto. Il dualismo tra Petter e Dario si è spento, ma l’auspicio di chi ama il fondo è quello di veder nascere presto la stella di due nuovi fenomeni, così diversi, ma cosi efficaci nel loro ruolo di ambasciatori. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 gennaio 2019 • N. 02
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Politica e Economia Casa Bianca Il 2019 sarà un anno difficile per Donald Trump che attende la fine dell’inchiesta sul Russiagate
Un francese a Barcellona? L’ex premier francese Manuel Valls si candida per la carica di sindaco della capitale catalana, sua città natale. Una scelta che ha sollevato reazioni diverse da entrambi i paesi
La scala delle apprensioni Nell’annuale sondaggio del Credit Suisse in evidenza i timori per pensioni e sanità
È l’anno delle azioni value? In una fase di correzione dei valori di Borsa, spiccano in genere le azioni «difensive» pagina 24
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La sonda New Horizons in un rendering della NASA. (NASA)
Un anno vissuto pericolosamente
Bilancio 2018 Guerra commerciale fra Stati Uniti e Cina, Bolsonaro in Brasile, progressi troppo lenti in materia
di clima continueranno a tenere viva la cronaca dell’anno appena iniziato
Alfredo Venturi La guerra commerciale fra Stati Uniti e Cina, l’avvento di Jair Bolsonaro alla presidenza brasiliana, i progressi troppo lenti in materia di controllo del clima. Sono probabilmente questi gli elementi di maggiore rilievo dell’anno appena trascorso, quelli destinati ad avere le ripercussioni più significative sull’assetto fisico, politico, sociale ed economico del pianeta. Un pianeta male in arnese, un’umanità priva di rassicuranti certezze: è questo che il 2018 lascia in eredità all’anno nuovo. Sembra tramontata per sempre l’ottimistica euforia innescata dalla «fine della storia» e dai presunti benefici della globalizzazione. Sulla soglia del 2019 il liberismo globalista è in crisi mentre occupano la scena i particolarismi locali e gli egoismi nazionali. Ormai agli archivi la retorica della gestione condivisa, la comunità internazionale si mostra sempre più dispersa e litigiosa. Il protezionismo imposto da Donald Trump è l’aspetto più appariscente di questa tendenza. L’America ha riscoperto quella stessa vena isolazionista che un secolo fa la indusse a boicottare la Lega delle Nazioni. Eppure l’aveva
caldeggiata proprio il presidente Usa di allora, Woodrow Wilson: era l’ultimo ma non certo il meno importante dei Quattordici Punti destinati a rimettere in carreggiata il sistema sconvolto dal conflitto mondiale. Illusioni centenarie: era appena terminata la guerra che doveva mettere fine a tutte le guerre! Il protezionismo trumpiano ha rallentato la crescita dell’economia cinese, che tuttavia conserva ritmi incomparabilmente superiori a quelli occidentali. Lo si voglia o no alla Casa Bianca, il colosso asiatico ha raggiunto ormai da tempo una massa critica tale da alimentare in ogni caso uno sviluppo che l’ambizione politica e la dimensione demografica proiettano nel mondo intero. Nello stesso continente incalza l’India, che prima o poi prenderà il posto della Cina come paese più popoloso, insidiandone anche i primati economici. Di fronte alle spettacolari prospettive asiatiche non è facile immaginare quelle della nostra vecchia Europa. Nell’anno appena concluso un altro gigante geopolitico, il Brasile, è entrato a vele spiegate con l’elezione di Bolsonaro nella semplificatrice ideologia trumpista. Dunque le due massime potenze del continente americano con-
dividono la convinzione che il riscaldamento globale è una bufala inventata dai «rossi», che bisogna sfruttare le ricchezze dei territori, come i giacimenti di combustibili fossili negli Stati Uniti e le immense riserve di legname e altre risorse dell’Amazzonia brasiliana, per alimentare qualcosa di esattamente opposto alla «decrescita felice» invocata da chi ha a cuore la sopravvivenza di questo malandato pianeta. E qui veniamo alla Cop 24, la conferenza delle Nazioni Unite sul clima che si è svolta, guarda caso, nel cuore del bacino carbonifero di Katowice, Polonia, e pur evitando il fallimento si è conclusa con un accordo ancora ben distante dai requisiti minimi per fermare il surriscaldamento planetario. Da tempo il fenomeno provoca effetti a dir poco inquietanti: si sciolgono i ghiacci una volta perenni delle calotte polari, s’innalza progressivamente il livello dei mari, alcuni Stati insulari del Pacifico rischiano di essere inghiottiti dall’oceano. Secondo alcuni esperti anche gli incendi che da qualche tempo inceneriscono aree vastissime, particolarmente disastrosi nel 2018 quelli che hanno devastato l’Attica e la California, sono legati all’emergenza climatica.
L’asse Trump-Bolsonaro può contare su alcune stabili propaggini da questa parte dell’Atlantico. All’interno dell’Unione Europea, che sta per celebrare il divorzio dalla Gran Bretagna, c’è un blocco di paesi risolutamente contrari a ogni ipotesi di rafforzamento dell’integrazione. Al Gruppo di Visegrad (Ungheria, Polonia, Cechia, Slovacchia) si è affiancata l’Italia del governo giallo-verde nominalmente guidato da Giuseppe Conte. Forti minoranze euro-critiche e sovraniste si agitano all’interno di quasi tutti gli altri paesi membri. Incoraggiato dalla predicazione di Steve Bannon, l’uomo che fu capo stratega di Trump prima di essere sloggiato dalla Casa Bianca, il fronte nazional-populista si attende dal 2019 un regalo storico: il successo alle elezioni che a maggio rinnoveranno il Parlamento europeo. Una nuova maggioranza che spazzi via il tradizionale predominio di popolari e socialisti e rovesci le strategie di Bruxelles. Questo possibile esito elettorale ha fatto da sfondo al negoziato fra l’Unione e l’Italia, a proposito della legge di bilancio che nell’intento di adeguare i fatti alle promesse della Lega e del Movimento Cinque Stelle, le componenti della rissosa maggioranza che regge il
governo di Roma, eludeva gli impegni di contenimento del debito e del deficit assunti dai precedenti esecutivi. I negoziatori italiani hanno ceduto terreno, evitando una procedura d’infrazione dalle pesanti implicazioni economiche e politiche, ma lo hanno fatto con il retro-pensiero che a maggio tutto cambierà a Strasburgo e conseguentemente a Bruxelles, e allora sarà possibile rinegoziare gli impegni imponendo una maggiore flessibilità. Sono in ballo stabilità, pace sociale e prospettive di crescita, eppure queste sono davvero piccole cose, nel pianeta che sembra scivolare inarrestabilmente verso un degrado senza rimedio. Questo mondo in declino si guarda attorno e scruta l’universo che lo circonda, ma le straordinarie imprese dell’esplorazione spaziale non bastano a restituirgli fiducia nel futuro. Nel 2018 la sonda InSight si è posata su Marte e ha cominciato a studiarne il sottosuolo. Il primo giorno del 2019 un’altra sonda, non a caso chiamata New Horizons, dopo un viaggio di tredici anni che l’ha portata ai limiti estremi del sistema solare ha sorvolato l’asteroide Ultima Thule, che dista da noi e dai nostri incubi sei miliardi e mezzo di chilometri.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 gennaio 2019 • N. 02
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Politica e Economia
Quale sarà il destino di Trump? Casa Bianca I l risultato dell’inchiesta Mueller sui rapporti Putin-Trump in relazione alla sua battaglia elettorale
contro la Clinton, costituirà un punto di svolta dell’attuale presidenza Christian Rocca Se il buongiorno si vede dal mattino, il 2019 non sarà un anno lieve per Donald Trump. Sulla prima pagina del «New York Times» del 2 gennaio, una serie di articoli non lusinghieri descriveva lo stato agitato della presidenza Trump al giro di boa del nuovo anno: i Democratici, freschi vincitori delle elezioni di metà mandato, iniziano a guidare i lavori della Camera bassa di Washington e provano a far saltare l’agenda politica del presidente; l’inaspettato bilancio negativo della Borsa di Wall Street nel 2018, meno 6,2 per cento, secondo gli investitori è il presagio di un 2019 ancora più turbolento e di un’economia reale in difficoltà; il discorso di fine anno del presidente nordcoreano Kim Jong-un dimostra, come previsto, che le sceneggiate trumpiane non hanno portato nessun risultato sul fronte della denuclearizzazione del regime comunista; l’invito al Rappresentante americano del Commercio di cercare di siglare una pace commerciale con la Cina, dopo averle dichiarato guerra, è l’ennesima catastrofica immagine di una politica estera umorale che si aggiunge alla scelta di ritirarsi dalla Siria, regalando alla Russia, alla Turchia e al regime di Assad, per non parlare dell’Isis, il controllo di un territorio chiave per il Medio Oriente; e, infine, l’ex vice presidente Joe Biden è nella fase finale della decisione che tutti si aspettano, ovvero quella di candidarsi alle elezioni presidenziali del novembre 2020. Se possibile, la notizia peggiore per la Casa Bianca 2019 è comparsa quella stessa mattina del 2 gennaio sul «Washington Post»: il neo senatore dello Utah, Mitt Romney, già candidato alla presidenza del Partito Repubblicano e sconfitto da Barack Obama nel 2012, ha scritto un editoriale molto duro nei confronti di Trump, lasciando intendere che in questo 2019, per la prima volta da quando l’immobiliarista newyorchese è stato eletto, a Washington ci sarà anche un leader conservatore anti Trump, deciso a guidare la resistenza a un presidente sopra le righe e giudicato da molti unfit, inadatto, a occupare la Casa Bianca.
L’idea che il presidente possa dimettersi per evitare guai peggiori non è più soltanto una fantasia liberal Le parole scelte da Romney sono inequivocabili: «Non intendo commentare ogni suo tweet o ogni suo errore, ma sentirete la mia voce in caso di dichiarazioni o azioni divisive, razziste, sessiste, anti immigranti, disoneste o pericolose per le istituzioni democratiche». Romney non è amato nel Partito Repubblicano, peraltro un partito ormai saldamente nelle mani di Trump al punto che la nuova presidente nazionale, nominata da Trump, è una nipote
Per Donald Trump si potrebbe anche arrivare all’ipotesi di dimissioni in cambio d immunità se Mueller fornirà le prove del Russiagate. (AFP)
di Romney, Ronna Romney McDaniel, cui Trump ha imposto di non usare più il cognome da nubile e che è stata la prima a criticare formalmente il senatore, e zio, per l’articolo anti Trump sul «Washington Post». Romney, inoltre, ha una storia, anche rispetto a Trump, di posizioni ondivaghe e contraddittorie, ma aver scelto di aprire l’anno e la legislatura di Washington con una presa di posizione così perentoria segnala quello che ormai dicono tutti, e cioè che il 2019 sarà un anno terribile per il presidente e forse anche per il sistema politico americano se non fosse in grado di reggere l’impatto di uno scontro costituzionale senza precedenti. Entro febbraio, infatti, il procuratore speciale Robert Mueller, nominato dall’Amministrazione Trump, dovrebbe concludere l’inchiesta sui rapporti tra la Russia di Vladimir Putin e il team Trump in relazione all’ingerenza del Cremlino nel processo elettorale del 2016 che ha portato all’inaspettata vittoria dell’attuale presidente contro Hillary Clinton. Quella di Mueller è un’indagine che ha già portato all’ammissione di colpa, e alla collaborazione con la giustizia, di numerosi advisor di Trump, dall’avvocato personale al Consigliere per la Sicurezza Nazionale, passando anche
per il capo della campagna presidenziale e per vari consiglieri di politica estera, e che si è già diramata in una mezza dozzina di inchieste ordinarie a questo punto impossibili da insabbiare, nonostante Trump abbia licenziato l’Attorney General, oltre che il direttore dell’FBI, per sostituirlo con un fedele sostenitore noto per aver detto pubblicamente che Mueller andrebbe cacciato (il sostituto non si è ancora insediato, resta in attesa della conferma del Senato). Per la prima volta, Trump rischia moltissimo e l’idea che nel 2019 possa essere costretto a dimettersi per evitare guai peggiori non è più soltanto una fantasia liberal ma comincia a essere presa sul serio nei corridoi di Washington. A meno di un improbabile esonero di Trump e famiglia, il risultato dell’inchiesta Mueller costituirà un punto di svolta e segnerà il destino dell’attuale presidenza: con la Camera guidata dai Democratici, ogni tentativo di insabbiamento è da escludere, anche se le tensioni non mancheranno, anzi è probabile che le tre Commissioni della Camera, coordinate dalla Speaker Nancy Pelosi, decidano di aprire ulteriori fronti di inchiesta. Se le prove fornite da Mueller, e dagli ex collaboratori del presidente, dovessero riguardare i membri della famiglia Trump,
o gli affari dell’impero familiare, potrebbero essere proprio i figli, per evitare la possibilità concreta di finire in galera o di perdere tutto, a consigliare il padre di salvare il salvabile e cercare un accordo del tipo «dimissioni in cambio di immunità». È altrettanto possibile, anzi probabile, che Trump provi invece a far saltare il banco, a liquidare come caccia alle streghe l’inchiesta e a giudicare come fake news le prove di un coinvolgimento personale o familiare nelle operazioni di manipolazione elettorale da parte del Cremlino. Mentre è in carica, Trump non può essere messo sotto inchiesta, ma in caso di resistenza di fronte all’evidenza sarebbe davvero un azzardo – non solo per la famiglia e per il business, ma anche personalmente – affidarsi esclusivamente all’eventualità di essere rieletto nel 2020, anche perché, ammesso che ce la faccia, poi nel 2024 non potrà più ricandidarsi per il limite dei due mandati e non farebbe altro che posticipare l’appuntamento con la giustizia. L’ipotesi impeachment, o meglio della minaccia dell’impeachment, è credibile anche se molto difficile, ma resta pur sempre il paracadute previsto dal sistema istituzionale americano nei confronti di un presidente che commette tradimento o si rende
responsabile di crimini e infrazioni legati alla sua alta carica. Se Mueller fornirà le prove, la Camera bassa potrà agilmente mettere in stato di accusa il presidente, ma poi spetterà al Senato, oggi guidato dai repubblicani con 53 senatori su 100, decidere il destino di Trump. Per l’impeachment serve una maggioranza dei due terzi, 67 senatori, quindi a tutti i Democratici si dovrebbero aggiungere almeno venti Repubblicani, forse diciannove, considerando Romney già nel fronte degli anti Trump. È davvero improbabile che si arrivi a un esito del genere e molto dipenderà da che cosa avrà da dire Mueller e da che cosa avranno ammesso gli ex collaboratori di Trump, ma va ricordato che Richard Nixon si dimise nel 1973 proprio per evitare l’umiliazione del voto di impeachment, meno di un anno dopo la più grande vittoria elettorale di sempre, quando il presidente vinse in 49 Stati su 50 e l’ipotesi delle sue dimissioni rientravano nella categoria letteraria della fantascienza. Erano certamente altri tempi, e quelli erano altri leader, ma di fronte a prove inoppugnabili di un coinvolgimento del presidente o della sua famiglia non è impensabile che l’opinione pubblica americana possa essere capace, ancora una volta, di cambiare repentinamente opinione. Annuncio pubblicitario
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 gennaio 2019 • N. 02
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Politica e Economia
Un francese sindaco di Barcellona?
Notizie dal mondo
Spagna Manuel Valls è tornato alla ribalta politica candidandosi a diventare
il primo cittadino del capoluogo catalano. L’ex premier transalpino rappresenta la risposta unionista ai partiti secessionisti
Gabriele Lurati Opportunismo politico o vero europeismo? È quello che si chiedono gli analisti da quando nell’autunno scorso Manuel Valls ha reso pubblica la sua intenzione di partecipare alle elezioni comunali del prossimo maggio nella città catalana. Nato proprio a Barcellona 57 anni fa da padre catalano e mamma ticinese (Luisangela Galfetti, originaria della Valle di Blenio), si trasferì da piccolo con la famiglia in Francia, dove acquisì la cittadinanza francese a 20 anni e iniziò una folgorante carriera politica nelle fila del Partito socialista che lo portò ad essere dapprima ministro dell’interno e poi primo ministro dal 2014 al 2016. Tuttavia, da allora la sua parabola politica ha cominciato una fase discendente con la sconfitta alle primarie socialiste del 2017 e la successiva decisione di aderire al partito del presidente Macron, rifiutata però da quest’ultimo, ed eletto infine come indipendente nel Parlamento francese.
La candidatura di Valls è criticata dagli indipendentisti che lo accusano di essere un trasformista Dimessosi dall’Assemblea Nazionale francese nell’ottobre scorso, Valls si è buttato anima e corpo in un progetto politico che rappresenta un qualcosa di inedito a livello europeo. L’ex premier, sfruttando le leggi comunitarie che consentono a un cittadino Ue di candidarsi alle elezioni locali in uno degli Stati membri, è il primo caso di un personaggio politico di spicco che si lancia in un’avventura elettorale al di fuori del suo Stato nazionale. La sua scelta si inserisce in un progetto chiamato «Barcellona Capitale Europea», una piattaforma politica da lui creata e aperta alla società civile, che ha i suoi principi cardine nei valori europei, nel rispetto della Costituzione e nel mantenimento dell’unità della Spagna. Sebbene Valls abbia deciso di presentarsi come candidato indipendente, lui incarna soprattutto la risposta unionista al separatismo catalano. Infatti ha avuto sin dall’inizio l’appoggio di Ciudadanos, il partito liberale antisecessionista nato proprio a Barcellona nel 2006 e che fa della lotta all’indipendentismo la sua prima ragione d’essere. La candidatura di Valls viene perciò vista come fumo negli occhi dagli indipendentisti. I secessionisti lo accusano di volersi semplicemente riciclare politicamente in Catalogna e di non conoscere
Valls nasce a Barcellona 57 anni fa da padre catalano e madre originaria della Valle di Blenio. (Keystone)
le problematiche della città catalana, avendo vissuto lontano da Barcellona larga parte della sua vita. I pro-indipendenza sono arrivati anche a boicottare i suoi atti pubblici e mettono in discussione la sua reale integrazione nel contesto barcellonese. Lui ci mette anche del suo commettendo qualche gaffe, quando per esempio ammette di non essere a conoscenza del costo del biglietto della metropolitana di Barcellona. Valls però si dimostra anche molto deciso e tira dritto per la sua strada, dicendo che la sua scelta di presentarsi come sindaco rappresenta per lui un progetto di vita: un ritorno alle origini nella città che lo ha visto nascere e con la quale ha mantenuto una relazione affettiva (la sorella vive da anni nel quartiere barcellonese di Horta). Si vocifera però che, dietro a questa scelta, ci sarebbero altre ragioni personali che hanno spinto Valls a questo azzardo politico. Da qualche mese infatti è stata ufficializzata la sua relazione sentimentale con Susana Gallardo, una ricca imprenditrice ed erede di un colosso del settore
farmaceutico di Barcellona. Questo è avvenuto solo dopo che alcuni magazine scandalistici francesi ne avevano anticipato lo scoop, con tanto di foto della coppia lanciate in prima pagina l’estate scorsa. La questione però non è di solo gossip ma ha anche importanti risvolti politici. Gallardo è una catalana unionista, acerrima nemica dei separatisti e particolarmente attiva nella lotta per l’unità della Spagna, tanto da aver pubblicato un video in cui sfida e irride i secessionisti durante il referendum indipendentista dell’ottobre 2017. Inoltre Gallardo e la sua famiglia sono sempre stati molto vicini politicamente al Partito popolare, formazione storicamente avversa alle causa indipendentista e alla Catalogna in generale. Questo ha dato argomenti a coloro che accusano Valls di essere un trasformista della politica, passato dalle file del Partito socialista francese al macronismo, per poi sbarcare in Spagna appoggiato da fazioni di centro-destra come Ciudadanos e vicino adesso anche alla destra dei popolari. Valls sembra non curarsi di queste critiche e cerca soprattutto
di prendere politicamente le distanze da Vox, il nuovo partito dell’estrema destra spagnola. Nel frattempo però Vox ha stretto un accordo per governare la regione dell’Andalusia con i principali sostenitori della candidatura di Valls, quali Ciudadanos e Partito popolare, causandogli un certo imbarazzo politico. Anche il feeling con la città di Barcellona finora non è sbocciato del tutto, dato che i sondaggi lo danno al terzo posto dietro Ernest Maragall della Sinistra repubblicana e Ada Colau, la sindaca uscente vicina a Podemos. Valls ha però ancora parecchio tempo a disposizione, dato che mancano più di cinque mesi alle elezioni di fine maggio. Inoltre altri fattori esterni, legati alla politica nazionale spagnola come la possibile caduta del traballante esecutivo di Pedro Sánchez o l’imminente inizio del processo contro i leader indipendentisti tuttora reclusi in carcere, potrebbero cambiare il trend nelle intenzioni di voto. La partita è quindi ancora lunga e il sogno barcellonese di Valls può, per il momento, ancora continuare.
Guerra dei dazi: la Cina riconosce la rivendicazioni Usa Il 29 dicembre il capo di Stato cinese Xi Jinping ha avuto un colloquio telefonico con il presidente americano Donald Trump. I due leader si sono scambiati gli auguri per il nuovo anno e hanno espresso la speranza che i rapporti tra Cina e Stati Uniti possano continuare all’insegna del mutuo vantaggio e a beneficio di tutto il mondo. È opinione degli analisti cinesi che, in prossimità del 40esimo anniversario dell’allacciamento delle relazioni diplomatiche fra Cina e Stati Uniti, questo colloquio telefonico abbia mostrato chiaramente che i due Paesi si stanno impegnando ad appianare le divergenze con la cooperazione e a promuovere la stabilità attraverso il dialogo. Secondo quanto reso noto, attraverso l’organizzazione di una serie di incontri a livello di vice ministri su questioni di equilibrio commerciale e di protezione della proprietà intellettuale, da questo dicembre Cina e Stati Uniti hanno iniziato a promuovere la messa in atto dell’accordo raggiunto in Argentina dai due capi di Stato. La Cina ha offerto di dimezzare i dazi su alcune importazioni dagli Usa (auto) e di aumentare gli acquisti di derrate agroalimentari americane. Ha inoltre offerto un ridimensionamento del suo «piano 2025» che puntava alla supremazia tecnologica globale (robotica, intelligenza artificiale). Quel piano conteneva evidenti forzature protezioniste per favorire i campioni nazionali. Ora Pechino si offre di sostituire quella politica industriale sovranista con una serie di aperture alle aziende straniere. Al momento i due Paesi sono in fase di riavvio di negoziati diretti. Resta da vedere in che misura le promesse saranno mantenute, questione sempre cruciale soprattutto in Cina dove la mancanza di uno Stato di diritto, l’asservimento dei tribunali e della stampa al governo e al partito rendono più difficili le verifiche e più aleatorie le garanzie; e resta da vedere che cosa cambierà nella protezione della proprietà intellettuale. È già significativo però che Xi Jinping anziché procedere nella logica dell’escalation, rispondendo colpo su colpo, stia cambiando l’approccio. Di fatto questo significa riconoscere come legittime le rivendicazioni americane. Secondo quanto riportato dal «Wall Street Journal», un buon livello di comunicazione tra i due capi di Stato sulle questioni commerciali rappresenta un’iniezione di fiducia per il mercato azionario statunitense. Pechino rivuole Taiwan La Cina si riserva il diritto di usare la forza per portare Taiwan sotto il suo controllo, ma si adopererà per ottenere una «riunificazione» pacifica per assicurare all’isola democratica un brillante futuro sotto il dominio cinese. Lo ha dichiarato il presidente Xi Jinping nel suo discorso di inizio anno, insolitamente dedicato ai cugini di Taipei anziché al traballante stato di salute dell’economia nazionale, messa a dura prova dalle sanzioni americane. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 gennaio 2019 • N. 02
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Politica e Economia
Qualche novità nel barometro delle apprensioni Sondaggi Nell’annuale indagine del Credit Suisse, la disoccupazione non è più al primo posto. Avanzano invece
i timori per l’AVS e le pensioni, nonché per la forte crescita dei costi della salute
Ignazio Bonoli La resistenza alla prima crisi del nuovo millennio (2007-2008) e la successiva ripresa dell’economia svizzera ha probabilmente influito parecchio, con il cambio generazionale, sui risultati dell’annuale «Barometro delle apprensioni», pubblicato da oltre 40 anni dal Credit Suisse. Infatti, scrive Manuel Rybach nella presentazione: «Per due terzi delle rilevazioni condotte dal 1976, la più grande preoccupazione era la disoccupazione, che tuttavia quest’anno si assesta appena al sesto posto: solo il 22% (degli intervistati) la classifica ancora tra i principali problemi della Svizzera». Oggi la preoccupazione maggiore – ma anche altri sondaggi lo confermano – sembra essere la previdenza per la vecchiaia, in particolare l’AVS e la cassa pensione. Anzi, le preoccupazioni massime sono proprio rivolte alla sicurezza delle pensioni. Del resto questo è uno dei temi più presenti nei media, accentuato dalla caduta della riforma dell’AVS in votazione popolare e dai continui annunci delle minori rimunerazioni del capitale di vecchiaia nelle casse pensioni. Questa preoccupazione viene messa al primo posto della classifica dal 45% del campione statistico utilizzato, con un guadagno di un punto
percentuale rispetto all’anno precedente. In un capitolo speciale dedicato a questo tema, due sono i principi su cui una grande maggioranza è d’accordo: tutti devono contribuire e il sistema dei tre pilastri funziona e non deve cambiare. Scendono invece i consensi per un aumento dell’1% dell’IVA per finanziare l’AVS e anche per i due temi più discussi, cioè la flessibilità del pensionamento in base alla speranza di vita e l’aumento dell’età di pensionamento delle donne. Ancora minori sono i consensi su proposte di miglioramento, come quella di aumentare del 2% l’IVA, in 20 anni, di bloccare il trasferimento di fondi dai giovani agli anziani, di ridurre l’aliquota di conversione, di tagliare le rendite attuali o di aumentare per tutti a 67 anni l’età di pensionamento. Il problema dell’AVS è dato soprattutto da motivi demografici. L’età del pensionamento rimane invariata, ma la gente vive più a lungo. Però il periodo di attività lavorativa, durante il quale si pagano i contributi si accorcia. Da un lato a causa di pensionamenti anticipati, dall’altro a causa di un’entrata ritardata nel mondo del lavoro, dovuta ai tempi lunghi della formazione. In forte aumento, rispetto al 2013, risultano la sanità e le casse malati. AVS e sanità hanno avuto uno sviluppo parallelo negli ultimi 30 anni e le
percentuali di persone preoccupate sono ormai vicine (41% contro 45% per l’AVS). Nei vent’anni prima del 2000 la percentuale di persone preoccupate aveva perfino superato il 50%. Dopo l’11 settembre, lo scoppio della bolla tecnologica e l’aumento dell’immigrazione, il barometro delle apprensioni si è nuovamente spostato, riducendo il numero di persone preoccupate per AVS e cassa malati al di sotto del 30%. Oggi troviamo così, dopo le due grandi tematiche citate, quella degli stranieri e dei richiedenti l’asilo. Dopo tre anni, questa percentuale è nuovamente cresciuta e proprio in un anno in cui il saldo migratorio e il numero di rifugiati sono in leggera diminuzione. Al quinto posto delle preoccupazioni maggiori figura l’ambiente, che però non tocca più i vertici degli anni Settanta e Ottanta. La tematica è comunque in crescita fra le maggiori apprensioni, probabilmente a causa dell’estate molto secca, di alcuni disastri ambientali e del fatto che se ne parli molto a livello nazionale, ma anche mondiale. Sorprende invece gli autori dello studio il fatto che la disoccupazione abbia perso parecchie posizioni in classifica (22 punti su 44). Nelle 37 indagini condotte in 42 anni (nei primi anni i rilevamenti erano biennali) di pubblicazione del barometro, la disoccupazione è stata per ben 24 volte la fonte princi-
La bocciatura della riforma «Previdenza 2020» ha accresciuto i timori sul futuro delle pensioni. (Keystone)
pale di apprensione. Quest’anno invece è scesa al sesto posto. Il buon andamento dell’economia in questi ultimi anni e il costante calo del tasso di disoccupazione sono certamente all’origine del calo di questo tipo di preoccupazione. Anche gli studi pubblicati recentemente, che prevedono un aumento dei disoccupati (o meglio una diminuzione dei posti di lavoro), a causa della digitalizzazione dell’economia, non sembrano aver suscitato troppe apprensioni. E
proprio in considerazione degli effetti della digitalizzazione, il 75% degli intervistati pensa che nei prossimi 20 anni il lavoro che sta svolgendo ora verrà automatizzato. I pareri sugli effetti di questo progresso tecnologico si dividono circa a metà tra positivi e negativi. Sono però aumentati i timori per la nuova povertà e per i salari. È probabile che il rallentamento della crescita economica dia ragione nei prossimi anni a qualche pessimista in più. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 gennaio 2019 • N. 02
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Politica e Economia
Nel 2019 arriverà il momento delle azioni value? La consulenza della Banca Migros Thomas Pentsy
Azioni value in forte ritardo (indicizzato: 01.01.2013 = 100) 250
230
210
190
170
150
130
110
90 2013
2014
2015 S&P-500-Index
che un segno del fatto che l’azienda si trova in un momento di difficoltà. In passato i titoli di crescita hanno mostrato un andamento positivo in periodi di espansione economica modesta e tassi d’interesse bassi; mentre le azioni di valore hanno prosperato in fasi caratterizzate da una costante crescita congiunturale e tassi in salita.
2016 Russell 1000 Growth
2017
2018
Russell 1000 Value
Più in generale, nei periodi di rialzo delle borse i titoli growth registrano performance notevolmente superiori rispetto ai titoli value. Con l’aumento dei tassi d’interesse e il perdurare della controversia commerciale con la Cina, l’economia statunitense dovrebbe indebolirsi nel corso del 2019 e il mercato azionario USA
Fonte: Bloomberg
Thomas Pentsy è analista di mercato e dei prodotti presso la Banca Migros
Malgrado le borse abbiano recentemente vissuto tempi turbolenti, sul mercato azionario statunitense i cosiddetti titoli di crescita (growth) hanno di gran lunga battuto i titoli di valore (value). Un’ampia fetta degli utili di corso, già a partire dal 2008, è stata realizzata da azioni growth, come Amazon, Apple, Facebook, Alphabet e Netflix. Nel 2019 il vento cambierà direzione favorendo i titoli di valore? I due segmenti azionari si distinguono prima di tutto per la valutazione. I titoli di crescita vengono negoziati con un premio o un sovrapprezzo, perché gli investitori prevedono che queste aziende registreranno una forte crescita degli utili. Solitamente il rapporto prezzo/utile (P/U) di queste società, spesso attive nel settore tecnologico o biotecnologico, è nettamente superiore alla media di mercato. Al contrario, le azioni value vengono negoziate con uno sconto rispetto alla valutazione complessiva del mercato. Di norma questi titoli appartengono a settori difensivi, come l’approvvigionamento, i beni di consumo di base, le telecomunicazioni e gli immobili. Non di rado si tratta di imprese che versano dividendi più elevati, poiché hanno prospettive di crescita molto meno rosee rispetto alle azioni growth. A volte lo sconto di valutazione è an-
dovrebbe rimanere volatile. In linea generale, quando la borsa tende verso il basso, le azioni difensive ottengono risultati migliori rispetto a quelle di crescita. In questi casi la domanda si concentra su titoli di aziende che risultano meno dipendenti dalla congiuntura e offrono dividendi interessanti. Annuncio pubblicitario
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Idee e acquisti per la settimana
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Idee e acquisti per la settimana
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Cultura e Spettacoli Mellencamp e il folk John Mellencamp, che un tempo si faceva chiamare «puma», dopo una vita da rocker si dà al folk pagina 30
L’OSI e Jörg Widmann Il prossimo 17 gennaio all’Auditorio RSI Stelio Molo si esibirà il virtuoso tedesco del clarinetto pagina 32
Dimmi come parli Il linguista ticinese Ottavio Lurati ha dato alle stampe un libro in cui analizza il parlare della gente pagina 34
La creatività corre su quattro ruote Mostre A Chiasso un’esposizione sull’automobile tra grafica e design
Alessia Brughera Gli albori del Novecento sono stati un momento storico caratterizzato da importanti scoperte e da grandi rivoluzioni tecnologiche che hanno trasformato la società per l’intero secolo. Mai come in quegli anni la fiducia nel progresso ha sovvertito in maniera radicale l’ordine esistente, ponendo le basi per un mondo colmo di opportunità. Probabilmente non c’è niente che rappresenti la brama di modernità dell’epoca meglio dell’automobile, affascinante simbolo dell’evoluzione dell’umanità e interprete incontrastata degli scenari urbani creati dall’industrialismo borghese. Non è dunque un caso che poeti e artisti ne abbiano decantato senza remore le qualità di mezzo straordinario nato dall’interazione fra meccanica e umano: le vetture erano «bellezze nuove», per usare le parole dell’ideologo del movimento futurista Filippo Tommaso Marinetti, che offrivano all’uomo l’occasione di vivere con ritmi arditi, più consoni alle sue ambizioni. Nei primi anni del XX secolo il repentino sviluppo dell’automobile ha avuto impulsi differenti a seconda delle varie aree geografiche: dal più pragmatico obiettivo americano di soddisfare il bisogno di percorrere lunghe distanze al più voluttuario intento europeo di appagare i desideri di un pubblico benestante. Ciò nonostante la macchina si eleva ovunque a icona indiscussa della società. È però solo con la complicità della grafica e del design che la vettura acquista una valenza estetica: le carrozzerie concepite da abili progettisti oltrepassano il loro mero carattere funzionale catapultando il veicolo nell’olimpo degli oggetti di culto. Materiali, forme, linee e colori sempre più accattivanti si moltiplicano nel corso dei decenni in una continua ricerca del perfetto equilibrio tra creatività, comfort ed eleganza. Non può stupire allora il fatto che la macchina, già a partire dagli inizi del Novecento, divenga il tema pubblicitario per antonomasia e che le case auto-
Maddalena a confronto
Mostre Caravaggio al Musée Jacquemart-
André di Parigi
Gianluigi Bellei Ognuno di noi ha i propri luoghi del cuore: ambienti della memoria che custodiscono i ricordi, o gli odori, maggiormente significativi che danno calore nei momenti più bui. Una viuzza acciottolata percorsa da bambino, un giardino rotondo dove sedersi sull’erba con gli amici per parlare di anarchia, una cantina con il pavimento in terra battuta piena di botti di Lambrusco, una piega del corpo dell’amata, un museo silenzioso dove sostare in contemplazione e sognare, possono risultare come tante «madeleine» di Proust. Fra i musei del cuore personalmente annovero il Jacquemart-André di Parigi. Una villa ottocentesca abitata da due coniugi, amanti dell’arte, che è rimasta tale e quale ancor oggi col suo giardino d’inverno, le camere da letto, la biblioteca, il boudoir e il fumoir. Un piccolo gioiello con opere splendide, perfettamente godibili. Prima o dopo aver bevuto un thè nell’affrescato salone. Periodicamente si tengono delle mostre temporanee che, purtroppo, negli anni sono diventate sempre più affollate. In questi mesi ospita alcuni dipinti di Caravaggio a confronto con quelli di alcuni suoi contemporanei del periodo romano. L’afflusso dei visitatori è imponente e, nonostante le prevendite per fasce orarie, difficilmente si riesce a vedere qualcosa. Le sale sono piccole, i dipinti grandi, le persone tante. Un mix indigesto per chiunque. Un buon motivo per non andare, un incubo per l’ignaro visitatore. Perché, quindi, recarsi fino a Parigi per una piccola mostra dopo magari aver visto quella irripetibile realizzata da Rossella Vodret e Francesco Buranelli per i 400 anni dalla morte dell’artista alle Scuderie del Quirinale a Roma nel 2010 (vedi
«Azione» del 19 aprile 2010)? A Roma erano esposte 40 opere delle 65 autografe; a Parigi solamente 10, dichiarate tutte originali. Almeno ufficialmente. Nelle didascalie in mostra e nel catalogo non troverete infatti la dicitura attribuito a… o copia di… Perché allora andare a Parigi? Per vedere affiancate due versioni della Maddalena in estasi. L’ultima, detta Maddalena Gregori, sicuramente di Caravaggio secondo, appunto, Mina Gregori. Ma andiamo per ordine. Il 28 maggio 1606 Caravaggio uccide Ranuccio Tomassoni nel rione di Campo Marzio, vicino al Pantheon, a Roma. Il pittore fugge e dopo tre giorni è al sicuro nei feudi della famiglia Colonna. Fra i privilegi dei potenti del periodo vi era quello di garantire l’immunità ai delinquenti sotto la loro protezione. Il 23 settembre, scrive Giulio Mancini nel suo Considerazioni sulla pittura del 161721, dipinge una Maddalena. Una lettera del 29 luglio 1610, qualche giorno dopo la morte di Caravaggio, Donato Gentile scrive al cardinale Scipione Borghese che l’artista prima di lasciare Roma ha dipinto tre quadri. Due San Giovanni e appunto la Maddalena in questione, andata poi persa. Il quadro è di per sé rivoluzionario. La figura è dipinta a tre quarti lungo l’asse diagonale della tela senza attributi religiosi quali la croce, il teschio, il vaso pieno di unguento. Nel 1582 il cardinale Gabriele Paleotti nel suo Discorso sopra le immagini sacre e profane raccomanda di rappresentare i santi sempre con i loro attributi. E infatti nella ventina di copie del dipinto realizzate nei secoli seguenti nessun artista ha mai avuto il coraggio di omettere il teschio o la croce. Il quadro Colonna (l’originale) è stato copiato direttamente due volte da Louis Finson (uno si trova a Marsiglia). Al museo di
mobilistiche più rinomate si rivolgano ai grandi maestri della grafica per curare l’immagine dell’azienda e la propaganda delle loro vetture. A raccontarci il mondo dell’automobile proprio attraverso le opere di artisti di fama internazionale che hanno prestato il loro estro alla comunicazione commerciale di questo prodotto è la mostra allestita al m.a.x museo di Chiasso, dove sono raccolti oltre trecento lavori, tra manifesti, disegni, cartoline e oggetti di design, esposti in un percorso che illustra bene i mutamenti stilistici nella storia della macchina. La rassegna, organizzata anche con la collaborazione del Museo Nazionale dell’Automobile di Torino (al cui ideatore e fondatore, Carlo Biscaretti di Ruffia, la mostra chiassese dedica una specifica sezione), prende il via con il debutto del manifesto dell’automobile nei primi anni del Novecento, tra lavori che celebrano la maestosità del veicolo a quattro ruote, come la locandina per la Mostra del ciclo e dell’automobile del cartellonista Leopoldo Metlicovitz, datata 1905, e immagini in cui si respira l’euforia per la velocità, come quelle di Georges Gaudy, dove mezzi da corsa dalle linee aerodinamiche sfrecciano sui circuiti di gara pilotate da uomini amanti del rischio. Ancora un bene di lusso alla portata di pochi privilegiati, l’automobile in questo periodo assume una forma compiuta dall’estetica piacevole grazie al modello di carrozzeria metallica. La vettura diventa così la protagonista di grandi poster colorati che vengono affissi in tutte le città e che attirano l’attenzione della gente di ogni estrazione sociale. Emblematico è il manifesto Corse di Brescia realizzato nel 1907 da Marcello Dudovich, uno dei più apprezzati disegnatori pubblicitari italiani: qui due eleganti signore vestite di verde, una delle quali volge allo spettatore un divertito sguardo ammiccante, assistono a una gara di macchine, come si evince dal moderno bolide che sta per tagliare il traguardo. L’artista crea una composizione semplice ma raffina-
H.L. Roowy, Pneu Pirelli, 1914, manifesto, litografia. (Civica Raccolta delle stampe «Achille Bertarelli», Milano)
ta, dai colori accesi e dal sapiente connubio tra moda femminile e competizioni automobilistiche. Quando negli anni Venti e Trenta si assiste alla nascita delle vetture classiche caratterizzate da una maggiore fluidità delle forme, in pubblicità appaiono nuovi modelli di comunicazione. Ne è un esempio il manifesto di Achille Luciano Mauzan per Isotta Fraschini, dove un distinto signore in abito giallo siede addormentato su una comoda poltrona sognando di possedere il prestigioso veicolo. Innovativo è anche il lavoro che il disegnatore Giovanni Manca propone per il marchio Citroën, in cui ritorna il tema dell’auto come brama da soddisfare, questa volta ironicamente rappresentato da un uomo arrampicato su un lampione che, nel bel mezzo di una città invasa dal traffico, telefona per ordinare subito una macchina. Ancora Dudovich, poi, ci porta negli anni in cui la vettura smette di essere un miraggio: nel suo celeberrimo
manifesto del 1934 per la Fiat Balilla una signora con un vestito blu elettrico si dirige a passo sicuro verso il veicolo, sopra di lei campeggia la scritta «La nuova Balilla per tutti», a rimarcare come la macchina sia alla portata di chiunque. Nel secondo dopoguerra il passaggio dell’automobile alla produzione in serie a monoscocca si accompagna a importanti cambiamenti in campo pubblicitario, come l’introduzione della stampa Offset, che permette ritmi rapidi e costi contenuti. Con le nuove procedure vengono chiamati in causa grafici dediti più alla progettazione che all’esercizio pittorico. L’automobile, intanto, diventa un fenomeno di massa e le case produttrici esigono una comunicazione che incontri ampi consensi. Adesso sono le agenzie pubblicitarie gli interlocutori delle aziende e il loro compito è quello di soddisfare le esigenze del mercato. I lavori degli anni Sessanta e Settanta esposti in mostra testimoniamo bene il grande fermento
creativo che la vettura catalizza su di sé. Bella, ad esempio, la propaganda ideata nel 1975 per la Citroën Dyane, un veicolo pratico e anticonvenzionale reclamizzato con l’immagine di un gruppo di giovani scalzi che chiacchierano spensierati dentro e sopra la macchina. Interpreti dello spirito del tempo, queste opere sanno restituire la complessità di un prodotto la cui storia è sempre stata strettamente legata alle vicende tecnologiche, economiche e culturali dell’uomo, un prodotto di grande fascino che ha mutato lo stile di vita del secolo scorso e che ancora oggi si fa incarnazione dell’evoluzione della società. Dove e quando
Auto che passione! Interazione fra grafica e design. m.a.x. museo, Chiasso. Fino al 27 gennaio 2019. Orari: martedì-domenica 10.00-12.00/14.0018.00, lunedì chiuso. www.centroculturalechiasso.ch
Per Amos Oz, uno scrittore gentile Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio, Maddalena in estasi (chiamata «Maddalena Klain»), 1606. (Collezione particolare, Roma)
Bordeaux si trova un’altra copia dapprima attribuita a Renier (?) da Moir, mentre quello di Barcellona è stato eseguito dal cognato di Rembrandt, Wybrand de Geest. In tutti troviamo il teschio, la croce, il vaso e nell’ultimo pure un cartiglio con su scritto «imitando Michaelum Angelum». La versione accreditata come originale da alcuni critici è quella famosa appartenuta alla Collezione Klain provenente dall’eredità Carafa-Colonna e poi alla nipote, coniugata appunto Klain. L’unica in effetti senza alcun attributo. Poi la svolta. Nel 2014 Mina Gregori scopre una nuova Maddalena che, secondo lei, è l’originale. Ora il dipinto esce per la prima volta in Europa (è stato esposto solo nel 2016 a Tokyo) dal suo caveau svizzero per approdare al Jacquemart-André. Mina Gregori è sicura: è un’opera autografa. «È magnifica». Quello che è certo è che la Maddalena Gregori ha fra le mani una sorta di rosario e in basso a destra si intravvede una specie di teschio. Le due opere in mostra – la Maddalena Klain e quella Gregori – sono molto differenti fra loro sia nei colori del panneggio
e dei capelli, sia nella morbidezza delle mani. La Maddalena Klain è più dettagliata e precisa, mentre quella Gregori indefinita e scura. Certo, direte voi, un bravo copista può essere maggiormente efficace mentre il dipinto Gregori ha certamente bisogno di un buon restauro. Allora perché tanta sicurezza? Viene subito alla mente il caso del papiro di Artemidoro che dopo anni si è rivelato ultimamente un clamoroso falso ottocentesco con buona pace dell’esimio e stimato esperto Salvatore Settis il quale lo ha sempre ritenuto autentico. Per quel che riguarda Caravaggio l’unico fattore sicuro documentato dalle fonti è che pittori importanti hanno eseguito copie delle sue opere. Rossella Vodret cita Bartolomeo Manfredi o Angelo Caroselli. Giovanni Baglione nelle sue Vite del 1733 scrive a proposito di Manfredi: «si diede ad imitare la maniera di Michelangelo da Caravaggio, e arrivò a tal segno, che molte opere sue furono tenute di mano di Michelangelo». Aspettiamo, in ogni caso, a fine mostra il ventilato convegno di esperti per farci un’idea. Magari più precisa.
Anche perché i proprietari sicuramente fremono, dato che l’opera è sul mercato. E se è di Caravaggio o meno fa la differenza. Di prezzo, ovviamente. La mostra è divisa in otto sezioni e presenta alcuni accostamenti interessanti come per esempio La decapitazione di Oloferne del 1598 di Caravaggio e Davide e Golia del 1609-1610 di Orazio Borgianni; il San Giovanni Battista (in questo caso quello originale della Pinacoteca Capitolina di Roma e non la copia della Galleria Doria Pamphilj) del 1602 di Caravaggio accanto al San Giovanni Battista che tiene un montone, attribuito prima a Caravaggio e poi a Bartolomeo Manfredi, ubicato al Louvre e del quale ne esistono almeno altre cinque versioni. Dove e quando
Caravage à Rome. Amis et ennemis. A cura di Francesca Cappelletti e Pierre Curie. Musée Jacquemart-André, Parigi. Fino al 28 gennaio. Tutti i giorni 10.00-18.00. Catalogo Culturespaces, Fonds Mercator, euro 32. www.musee-jacquemart-andre.com
In memoriam I l grande scrittore israeliano Amos Oz, scomparso lo scorso 28 dicembre, non ha lasciato solamente
un vuoto letterario: mancheranno anche la sua verve, la sua sensibilità e il suo sguardo curioso Simona Sala Era lo scrittore della gentilezza, quello che anche quando alzava i toni (e non aveva paura di farlo) non perdeva mai di credibilità, colui che quando lo si accusava di essere un traditore, riusciva a girare tutto in proprio favore, trasformando l’insulto in un complimento. Lo scorso 28 dicembre se ne è andato a 79 anni Amos Oz, e di nuovo, come era accaduto per Philip Roth qualche mese fa, abbiamo constatato come i «saggi» di Stoccolma si siano lasciati scappare l’opportunità di premiare un uomo che è stato senza dubbio un grande scrittore, ma che, scrivendo, ha raccontato anche il tormento che affligge il suo Paese da oltre 80 anni. Amos Oz però, non si è «limitato» al suo ruolo di instancabile narratore, ma ha vissuto Israele fino in fondo, trasferendosi a un certo punto in un kibbutz, partecipando alle guerre dei Sei Giorni e del Kippur, fondando il movimento Peace Now e non smettendo insomma
mai di essere un cittadino impegnato fino in fondo, anche quando si trattava di prendere delle posizioni scomode. Ad affiancarlo nel percorso letterario, politico e, in qualche modo, anche personale, due altri grandi padri della letteratura israeliana contemporanea, entrambi vittime di una pace che negli anni è diventata più distante: Abraham B. Yehoshua e David Grossman. Ma torniamo a lui, a quell’Oz così lontano per una vita intera da scandali, frivolezze e mondanità, come testimoniava la scelta di vivere vicino alle pietre del deserto di Arad e forse anche quel suo look un po’ da pioniere, memore degli anni trascorsi in kibbutz, quando ancora si chiamava Klausner e veniva identificato con una famiglia all’interno della quale si era consumata quella che Oz stesso chiamava la «tragedia famigliare», ossia il suicidio della madre. Afflitta dal mal di vivere, la brillante Fania Klausner aveva abdicato alla vita, rinunciando così anche a tutto
l’amore che avrebbe potuto dare al figlio. Lo struggente dolore di Amos Oz, guardando oggi a un’opera letteraria che può dirsi conclusa, si costruisce in un percorso letterario fatto di romanzi densi, ma che più che mattoni, ricordano pietre miliari. A partire da quel Michael Mio, che ne decretò il successo
Amos Oz in un’immagine scattata al Lindenhof di Zurigo. (Sala)
alla fine degli anni Sessanta, passando per l’oblomoviano Fima e ancora Conoscere una donna o La scatola nera Oz aveva cominciato a costruire la più grande delle sue opere, quella capace di abbracciare la storia di un uomo (lui stesso), di una donna (la madre) e al contempo quella della sua nazione e della sua identità più profonda. Una storia di amore e di tenebre è senza dubbio il capolavoro di Amos Oz, una vicenda di lacrime e sangue la cui stesura, ci raccontò lo scrittore stesso una decina di anni or sono in occasione di una visita a Zurigo, fu possibile solamente quando egli ebbe raggiunto l’età che avevano i genitori all’epoca dei fatti. Solo allora egli riuscì infatti ad adottare quello sguardo indulgente necessario al perdono e dunque alla narrazione. Del piccolo e curioso semi-orfano Klausner (Amos cambiò il proprio cognome in Oz che in ebraico significa «forza», per distanziarsi dal padre, vedovo allo sbando con tendenze di destra), che sfiniva gli adulti con doman-
de spesso inopportune e fuori luogo per la sua età (Oz diceva: «darei molto per incontrarlo ora, per potere giocare con lui a quei giochi di immaginazione in cui sapeva immergersi per ore»), rimasero per tutta la vita gli occhi, quegli occhi verdi e luminosi, sempre pronti a infiammarsi di entusiasmo, ma anche di curiosità, desiderosi di conoscere il prossimo, e soprattutto le donne. Le donne sono sempre state protagoniste indiscusse dei romanzi di Oz (ed è anche molto bello il fatto che a realizzare Sognare è vivere, il film tratto da Una storia di amore e di tenebre sia stata una donna, la brava Natalie Portman), e sarà forse anche quel suo sguardo, speciale e attento, a mancare al suo pubblico e al mondo intero. Come ha ricordato la figlia Fania Oz-Salzberger durante la cerimonia commemorativa, «i giusti di solito muoiono di sabato, ma gli scrittori dovrebbero morire tutti di venerdì, così che tutti, nella quiete di Shabbath, abbiano modo di leggere le loro opere».
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 gennaio 2019 • N. 02
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 gennaio 2019 • N. 02
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Cultura e Spettacoli Mellencamp e il folk John Mellencamp, che un tempo si faceva chiamare «puma», dopo una vita da rocker si dà al folk pagina 30
L’OSI e Jörg Widmann Il prossimo 17 gennaio all’Auditorio RSI Stelio Molo si esibirà il virtuoso tedesco del clarinetto pagina 32
Dimmi come parli Il linguista ticinese Ottavio Lurati ha dato alle stampe un libro in cui analizza il parlare della gente pagina 34
La creatività corre su quattro ruote Mostre A Chiasso un’esposizione sull’automobile tra grafica e design
Alessia Brughera Gli albori del Novecento sono stati un momento storico caratterizzato da importanti scoperte e da grandi rivoluzioni tecnologiche che hanno trasformato la società per l’intero secolo. Mai come in quegli anni la fiducia nel progresso ha sovvertito in maniera radicale l’ordine esistente, ponendo le basi per un mondo colmo di opportunità. Probabilmente non c’è niente che rappresenti la brama di modernità dell’epoca meglio dell’automobile, affascinante simbolo dell’evoluzione dell’umanità e interprete incontrastata degli scenari urbani creati dall’industrialismo borghese. Non è dunque un caso che poeti e artisti ne abbiano decantato senza remore le qualità di mezzo straordinario nato dall’interazione fra meccanica e umano: le vetture erano «bellezze nuove», per usare le parole dell’ideologo del movimento futurista Filippo Tommaso Marinetti, che offrivano all’uomo l’occasione di vivere con ritmi arditi, più consoni alle sue ambizioni. Nei primi anni del XX secolo il repentino sviluppo dell’automobile ha avuto impulsi differenti a seconda delle varie aree geografiche: dal più pragmatico obiettivo americano di soddisfare il bisogno di percorrere lunghe distanze al più voluttuario intento europeo di appagare i desideri di un pubblico benestante. Ciò nonostante la macchina si eleva ovunque a icona indiscussa della società. È però solo con la complicità della grafica e del design che la vettura acquista una valenza estetica: le carrozzerie concepite da abili progettisti oltrepassano il loro mero carattere funzionale catapultando il veicolo nell’olimpo degli oggetti di culto. Materiali, forme, linee e colori sempre più accattivanti si moltiplicano nel corso dei decenni in una continua ricerca del perfetto equilibrio tra creatività, comfort ed eleganza. Non può stupire allora il fatto che la macchina, già a partire dagli inizi del Novecento, divenga il tema pubblicitario per antonomasia e che le case auto-
Maddalena a confronto
Mostre Caravaggio al Musée Jacquemart-
André di Parigi
Gianluigi Bellei Ognuno di noi ha i propri luoghi del cuore: ambienti della memoria che custodiscono i ricordi, o gli odori, maggiormente significativi che danno calore nei momenti più bui. Una viuzza acciottolata percorsa da bambino, un giardino rotondo dove sedersi sull’erba con gli amici per parlare di anarchia, una cantina con il pavimento in terra battuta piena di botti di Lambrusco, una piega del corpo dell’amata, un museo silenzioso dove sostare in contemplazione e sognare, possono risultare come tante «madeleine» di Proust. Fra i musei del cuore personalmente annovero il Jacquemart-André di Parigi. Una villa ottocentesca abitata da due coniugi, amanti dell’arte, che è rimasta tale e quale ancor oggi col suo giardino d’inverno, le camere da letto, la biblioteca, il boudoir e il fumoir. Un piccolo gioiello con opere splendide, perfettamente godibili. Prima o dopo aver bevuto un thè nell’affrescato salone. Periodicamente si tengono delle mostre temporanee che, purtroppo, negli anni sono diventate sempre più affollate. In questi mesi ospita alcuni dipinti di Caravaggio a confronto con quelli di alcuni suoi contemporanei del periodo romano. L’afflusso dei visitatori è imponente e, nonostante le prevendite per fasce orarie, difficilmente si riesce a vedere qualcosa. Le sale sono piccole, i dipinti grandi, le persone tante. Un mix indigesto per chiunque. Un buon motivo per non andare, un incubo per l’ignaro visitatore. Perché, quindi, recarsi fino a Parigi per una piccola mostra dopo magari aver visto quella irripetibile realizzata da Rossella Vodret e Francesco Buranelli per i 400 anni dalla morte dell’artista alle Scuderie del Quirinale a Roma nel 2010 (vedi
«Azione» del 19 aprile 2010)? A Roma erano esposte 40 opere delle 65 autografe; a Parigi solamente 10, dichiarate tutte originali. Almeno ufficialmente. Nelle didascalie in mostra e nel catalogo non troverete infatti la dicitura attribuito a… o copia di… Perché allora andare a Parigi? Per vedere affiancate due versioni della Maddalena in estasi. L’ultima, detta Maddalena Gregori, sicuramente di Caravaggio secondo, appunto, Mina Gregori. Ma andiamo per ordine. Il 28 maggio 1606 Caravaggio uccide Ranuccio Tomassoni nel rione di Campo Marzio, vicino al Pantheon, a Roma. Il pittore fugge e dopo tre giorni è al sicuro nei feudi della famiglia Colonna. Fra i privilegi dei potenti del periodo vi era quello di garantire l’immunità ai delinquenti sotto la loro protezione. Il 23 settembre, scrive Giulio Mancini nel suo Considerazioni sulla pittura del 161721, dipinge una Maddalena. Una lettera del 29 luglio 1610, qualche giorno dopo la morte di Caravaggio, Donato Gentile scrive al cardinale Scipione Borghese che l’artista prima di lasciare Roma ha dipinto tre quadri. Due San Giovanni e appunto la Maddalena in questione, andata poi persa. Il quadro è di per sé rivoluzionario. La figura è dipinta a tre quarti lungo l’asse diagonale della tela senza attributi religiosi quali la croce, il teschio, il vaso pieno di unguento. Nel 1582 il cardinale Gabriele Paleotti nel suo Discorso sopra le immagini sacre e profane raccomanda di rappresentare i santi sempre con i loro attributi. E infatti nella ventina di copie del dipinto realizzate nei secoli seguenti nessun artista ha mai avuto il coraggio di omettere il teschio o la croce. Il quadro Colonna (l’originale) è stato copiato direttamente due volte da Louis Finson (uno si trova a Marsiglia). Al museo di
mobilistiche più rinomate si rivolgano ai grandi maestri della grafica per curare l’immagine dell’azienda e la propaganda delle loro vetture. A raccontarci il mondo dell’automobile proprio attraverso le opere di artisti di fama internazionale che hanno prestato il loro estro alla comunicazione commerciale di questo prodotto è la mostra allestita al m.a.x museo di Chiasso, dove sono raccolti oltre trecento lavori, tra manifesti, disegni, cartoline e oggetti di design, esposti in un percorso che illustra bene i mutamenti stilistici nella storia della macchina. La rassegna, organizzata anche con la collaborazione del Museo Nazionale dell’Automobile di Torino (al cui ideatore e fondatore, Carlo Biscaretti di Ruffia, la mostra chiassese dedica una specifica sezione), prende il via con il debutto del manifesto dell’automobile nei primi anni del Novecento, tra lavori che celebrano la maestosità del veicolo a quattro ruote, come la locandina per la Mostra del ciclo e dell’automobile del cartellonista Leopoldo Metlicovitz, datata 1905, e immagini in cui si respira l’euforia per la velocità, come quelle di Georges Gaudy, dove mezzi da corsa dalle linee aerodinamiche sfrecciano sui circuiti di gara pilotate da uomini amanti del rischio. Ancora un bene di lusso alla portata di pochi privilegiati, l’automobile in questo periodo assume una forma compiuta dall’estetica piacevole grazie al modello di carrozzeria metallica. La vettura diventa così la protagonista di grandi poster colorati che vengono affissi in tutte le città e che attirano l’attenzione della gente di ogni estrazione sociale. Emblematico è il manifesto Corse di Brescia realizzato nel 1907 da Marcello Dudovich, uno dei più apprezzati disegnatori pubblicitari italiani: qui due eleganti signore vestite di verde, una delle quali volge allo spettatore un divertito sguardo ammiccante, assistono a una gara di macchine, come si evince dal moderno bolide che sta per tagliare il traguardo. L’artista crea una composizione semplice ma raffina-
H.L. Roowy, Pneu Pirelli, 1914, manifesto, litografia. (Civica Raccolta delle stampe «Achille Bertarelli», Milano)
ta, dai colori accesi e dal sapiente connubio tra moda femminile e competizioni automobilistiche. Quando negli anni Venti e Trenta si assiste alla nascita delle vetture classiche caratterizzate da una maggiore fluidità delle forme, in pubblicità appaiono nuovi modelli di comunicazione. Ne è un esempio il manifesto di Achille Luciano Mauzan per Isotta Fraschini, dove un distinto signore in abito giallo siede addormentato su una comoda poltrona sognando di possedere il prestigioso veicolo. Innovativo è anche il lavoro che il disegnatore Giovanni Manca propone per il marchio Citroën, in cui ritorna il tema dell’auto come brama da soddisfare, questa volta ironicamente rappresentato da un uomo arrampicato su un lampione che, nel bel mezzo di una città invasa dal traffico, telefona per ordinare subito una macchina. Ancora Dudovich, poi, ci porta negli anni in cui la vettura smette di essere un miraggio: nel suo celeberrimo
manifesto del 1934 per la Fiat Balilla una signora con un vestito blu elettrico si dirige a passo sicuro verso il veicolo, sopra di lei campeggia la scritta «La nuova Balilla per tutti», a rimarcare come la macchina sia alla portata di chiunque. Nel secondo dopoguerra il passaggio dell’automobile alla produzione in serie a monoscocca si accompagna a importanti cambiamenti in campo pubblicitario, come l’introduzione della stampa Offset, che permette ritmi rapidi e costi contenuti. Con le nuove procedure vengono chiamati in causa grafici dediti più alla progettazione che all’esercizio pittorico. L’automobile, intanto, diventa un fenomeno di massa e le case produttrici esigono una comunicazione che incontri ampi consensi. Adesso sono le agenzie pubblicitarie gli interlocutori delle aziende e il loro compito è quello di soddisfare le esigenze del mercato. I lavori degli anni Sessanta e Settanta esposti in mostra testimoniamo bene il grande fermento
creativo che la vettura catalizza su di sé. Bella, ad esempio, la propaganda ideata nel 1975 per la Citroën Dyane, un veicolo pratico e anticonvenzionale reclamizzato con l’immagine di un gruppo di giovani scalzi che chiacchierano spensierati dentro e sopra la macchina. Interpreti dello spirito del tempo, queste opere sanno restituire la complessità di un prodotto la cui storia è sempre stata strettamente legata alle vicende tecnologiche, economiche e culturali dell’uomo, un prodotto di grande fascino che ha mutato lo stile di vita del secolo scorso e che ancora oggi si fa incarnazione dell’evoluzione della società. Dove e quando
Auto che passione! Interazione fra grafica e design. m.a.x. museo, Chiasso. Fino al 27 gennaio 2019. Orari: martedì-domenica 10.00-12.00/14.0018.00, lunedì chiuso. www.centroculturalechiasso.ch
Per Amos Oz, uno scrittore gentile Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio, Maddalena in estasi (chiamata «Maddalena Klain»), 1606. (Collezione particolare, Roma)
Bordeaux si trova un’altra copia dapprima attribuita a Renier (?) da Moir, mentre quello di Barcellona è stato eseguito dal cognato di Rembrandt, Wybrand de Geest. In tutti troviamo il teschio, la croce, il vaso e nell’ultimo pure un cartiglio con su scritto «imitando Michaelum Angelum». La versione accreditata come originale da alcuni critici è quella famosa appartenuta alla Collezione Klain provenente dall’eredità Carafa-Colonna e poi alla nipote, coniugata appunto Klain. L’unica in effetti senza alcun attributo. Poi la svolta. Nel 2014 Mina Gregori scopre una nuova Maddalena che, secondo lei, è l’originale. Ora il dipinto esce per la prima volta in Europa (è stato esposto solo nel 2016 a Tokyo) dal suo caveau svizzero per approdare al Jacquemart-André. Mina Gregori è sicura: è un’opera autografa. «È magnifica». Quello che è certo è che la Maddalena Gregori ha fra le mani una sorta di rosario e in basso a destra si intravvede una specie di teschio. Le due opere in mostra – la Maddalena Klain e quella Gregori – sono molto differenti fra loro sia nei colori del panneggio
e dei capelli, sia nella morbidezza delle mani. La Maddalena Klain è più dettagliata e precisa, mentre quella Gregori indefinita e scura. Certo, direte voi, un bravo copista può essere maggiormente efficace mentre il dipinto Gregori ha certamente bisogno di un buon restauro. Allora perché tanta sicurezza? Viene subito alla mente il caso del papiro di Artemidoro che dopo anni si è rivelato ultimamente un clamoroso falso ottocentesco con buona pace dell’esimio e stimato esperto Salvatore Settis il quale lo ha sempre ritenuto autentico. Per quel che riguarda Caravaggio l’unico fattore sicuro documentato dalle fonti è che pittori importanti hanno eseguito copie delle sue opere. Rossella Vodret cita Bartolomeo Manfredi o Angelo Caroselli. Giovanni Baglione nelle sue Vite del 1733 scrive a proposito di Manfredi: «si diede ad imitare la maniera di Michelangelo da Caravaggio, e arrivò a tal segno, che molte opere sue furono tenute di mano di Michelangelo». Aspettiamo, in ogni caso, a fine mostra il ventilato convegno di esperti per farci un’idea. Magari più precisa.
Anche perché i proprietari sicuramente fremono, dato che l’opera è sul mercato. E se è di Caravaggio o meno fa la differenza. Di prezzo, ovviamente. La mostra è divisa in otto sezioni e presenta alcuni accostamenti interessanti come per esempio La decapitazione di Oloferne del 1598 di Caravaggio e Davide e Golia del 1609-1610 di Orazio Borgianni; il San Giovanni Battista (in questo caso quello originale della Pinacoteca Capitolina di Roma e non la copia della Galleria Doria Pamphilj) del 1602 di Caravaggio accanto al San Giovanni Battista che tiene un montone, attribuito prima a Caravaggio e poi a Bartolomeo Manfredi, ubicato al Louvre e del quale ne esistono almeno altre cinque versioni. Dove e quando
Caravage à Rome. Amis et ennemis. A cura di Francesca Cappelletti e Pierre Curie. Musée Jacquemart-André, Parigi. Fino al 28 gennaio. Tutti i giorni 10.00-18.00. Catalogo Culturespaces, Fonds Mercator, euro 32. www.musee-jacquemart-andre.com
In memoriam I l grande scrittore israeliano Amos Oz, scomparso lo scorso 28 dicembre, non ha lasciato solamente
un vuoto letterario: mancheranno anche la sua verve, la sua sensibilità e il suo sguardo curioso Simona Sala Era lo scrittore della gentilezza, quello che anche quando alzava i toni (e non aveva paura di farlo) non perdeva mai di credibilità, colui che quando lo si accusava di essere un traditore, riusciva a girare tutto in proprio favore, trasformando l’insulto in un complimento. Lo scorso 28 dicembre se ne è andato a 79 anni Amos Oz, e di nuovo, come era accaduto per Philip Roth qualche mese fa, abbiamo constatato come i «saggi» di Stoccolma si siano lasciati scappare l’opportunità di premiare un uomo che è stato senza dubbio un grande scrittore, ma che, scrivendo, ha raccontato anche il tormento che affligge il suo Paese da oltre 80 anni. Amos Oz però, non si è «limitato» al suo ruolo di instancabile narratore, ma ha vissuto Israele fino in fondo, trasferendosi a un certo punto in un kibbutz, partecipando alle guerre dei Sei Giorni e del Kippur, fondando il movimento Peace Now e non smettendo insomma
mai di essere un cittadino impegnato fino in fondo, anche quando si trattava di prendere delle posizioni scomode. Ad affiancarlo nel percorso letterario, politico e, in qualche modo, anche personale, due altri grandi padri della letteratura israeliana contemporanea, entrambi vittime di una pace che negli anni è diventata più distante: Abraham B. Yehoshua e David Grossman. Ma torniamo a lui, a quell’Oz così lontano per una vita intera da scandali, frivolezze e mondanità, come testimoniava la scelta di vivere vicino alle pietre del deserto di Arad e forse anche quel suo look un po’ da pioniere, memore degli anni trascorsi in kibbutz, quando ancora si chiamava Klausner e veniva identificato con una famiglia all’interno della quale si era consumata quella che Oz stesso chiamava la «tragedia famigliare», ossia il suicidio della madre. Afflitta dal mal di vivere, la brillante Fania Klausner aveva abdicato alla vita, rinunciando così anche a tutto
l’amore che avrebbe potuto dare al figlio. Lo struggente dolore di Amos Oz, guardando oggi a un’opera letteraria che può dirsi conclusa, si costruisce in un percorso letterario fatto di romanzi densi, ma che più che mattoni, ricordano pietre miliari. A partire da quel Michael Mio, che ne decretò il successo
Amos Oz in un’immagine scattata al Lindenhof di Zurigo. (Sala)
alla fine degli anni Sessanta, passando per l’oblomoviano Fima e ancora Conoscere una donna o La scatola nera Oz aveva cominciato a costruire la più grande delle sue opere, quella capace di abbracciare la storia di un uomo (lui stesso), di una donna (la madre) e al contempo quella della sua nazione e della sua identità più profonda. Una storia di amore e di tenebre è senza dubbio il capolavoro di Amos Oz, una vicenda di lacrime e sangue la cui stesura, ci raccontò lo scrittore stesso una decina di anni or sono in occasione di una visita a Zurigo, fu possibile solamente quando egli ebbe raggiunto l’età che avevano i genitori all’epoca dei fatti. Solo allora egli riuscì infatti ad adottare quello sguardo indulgente necessario al perdono e dunque alla narrazione. Del piccolo e curioso semi-orfano Klausner (Amos cambiò il proprio cognome in Oz che in ebraico significa «forza», per distanziarsi dal padre, vedovo allo sbando con tendenze di destra), che sfiniva gli adulti con doman-
de spesso inopportune e fuori luogo per la sua età (Oz diceva: «darei molto per incontrarlo ora, per potere giocare con lui a quei giochi di immaginazione in cui sapeva immergersi per ore»), rimasero per tutta la vita gli occhi, quegli occhi verdi e luminosi, sempre pronti a infiammarsi di entusiasmo, ma anche di curiosità, desiderosi di conoscere il prossimo, e soprattutto le donne. Le donne sono sempre state protagoniste indiscusse dei romanzi di Oz (ed è anche molto bello il fatto che a realizzare Sognare è vivere, il film tratto da Una storia di amore e di tenebre sia stata una donna, la brava Natalie Portman), e sarà forse anche quel suo sguardo, speciale e attento, a mancare al suo pubblico e al mondo intero. Come ha ricordato la figlia Fania Oz-Salzberger durante la cerimonia commemorativa, «i giusti di solito muoiono di sabato, ma gli scrittori dovrebbero morire tutti di venerdì, così che tutti, nella quiete di Shabbath, abbiano modo di leggere le loro opere».
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 gennaio 2019 • N. 02
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Cultura e Spettacoli
Mellencamp il puma è ritornato
Musica Ritorno alle radici: la conversione del rocker statunitense John Mellencamp al folk angloamericano
di matrice «impegnata» è ormai completa
Benedicta Froelich C’è stato un tempo, nel cuore dei surreali anni ’80, in cui, agli occhi del pubblico, il giovane John Mellencamp era giunto a incarnare il rock a stelle e strisce nella sua accezione più virile e, a voler essere sinceri, anche semplicistica – al punto da essere considerato una sorta di ingenuo emulo di Bruce Springsteen, con il quale condivideva l’enfasi artistica sulla propria identità di patriottico cittadino USA. Da allora, tuttavia, le cose sono cambiate: nel corso degli anni, l’ormai ultrasessantenne Mellencamp ha infatti abbandonato, oltre al ridicolo pseudonimo «Cougar» («puma»), anche l’antica aria da ruspante fusto americano, per concentrarsi piuttosto su quelli che sarebbero presto divenuti gli elementi più caratteristici del proprio songwriting – ovvero, quella stessa coscienza sociale e coinvolgimento politico già affiorati in brani di denuncia come Pink Houses e, soprattutto, lo straziante Jackie Brown. Vestiti così i panni di devoto discepolo del cantautorato più impegnato e della canzone di protesta d’altri tempi, John ha confermato la propria «conversione» con album come Cuttin’ Heads (2001) e Trouble No More (2003), nei quali – complice la voce oggi molto più ruvida e intensa – ha ripercorso l’antica tradizione folk americana tramite frequenti rivisitazioni ispirate e minimaliste di capisaldi del genere; una linea che continua a seguire ancora oggi, come dimostrato dal
recente Sad Clowns & Hillibillies (inciso insieme a Carlene Carter, discendente della leggendaria Carter Family), CD pervaso da un gusto folk-country direttamente riconducibile alla cosiddetta musica «delle radici». Non sorprende quindi che il nuovissimo disco di Mellencamp, Other People’s Stuff, si presenti, fin dal titolo («roba d’altri»), come una collezione di brani legati al songbook folk – in una tracklist che stavolta comprende non solo classici assoluti, ma anche pezzi più recenti, firmati da autori che possono considerarsi quasi contemporanei dell’artista. E difatti, nonostante le premesse apparentemente banali, il disco regala alcune vere e proprie gemme: lo dimostrano classici assoluti made in USA quali Wreck of the Old 97, esempio di pura drammaticità nella migliore tradizione della «railroading song» di stampo narrativo, qui reso da Mellencamp con evidente maestria grazie a un cantato intenso, eppure trattenuto e mai enfatico. E in effetti, è proprio nei brani dal forte spessore emozionale che John sembra dare del suo meglio, come accade con l’inquietante Gambling Bar Room Blues – classica «murder ballad» portata al successo negli anni ’30 dall’indimenticato Jimmie Rodgers – o, ancora, con In My Time of Dying, brano favorito da Mellencamp fin dai tempi di Cuttin’ Heads: un pezzo che, pur narrando (in modo peraltro molto pragmatico e scientifico) della preparazione alla morte, si presenta come inso-
La più recente fatica dell’ex rocker statunitense: Other People’s Stuff.
litamente gaio e accattivante dal punto di vista ritmico. Lo stesso si può dire del celeberrimo Stones in My Passway, uno dei molti capolavori del padre di tutti i bluesmen, il geniale Robert Johnson, e definibile come una riflessione esistenziale a ritmo di chitarra; senza, naturalmente, dimenticare Eyes on the Prize, storico canto di emancipazione assurto
a inno di ribellione per gli afroamericani di tutto il continente, prescelto da John come primo singolo estratto dall’album. Tuttavia, come già detto, Other People’s Stuff offre anche pezzi più recenti, tra cui brilla I Don’t Know Why I Love You (originariamente composto da Stevie Wonder), qui proposto sot-
to forma di blues sporco e rabbioso in puro stile da Louisiana Bayou; e non mancano neppure alcune autocitazioni dello stesso Mellencamp, il quale decide di rivisitare To The River, brano di ampio respiro da lui originariamente pubblicato nell’ottimo Human Wheels (1993), e qui interpretato con spirito quasi Springsteeniano. Scontata, inoltre, l’inclusione nella tracklist di pezzi tratti dai dischi più palesemente folk firmati da John (si vedano Trouble No More, da cui riascoltiamo la struggente ballata Teardrops Will Fall, e il già citato Sad Clowns & Hillibillies, dal quale proviene un blues démodé come Mobile Blue – un traditional del vecchio Sud in piena regola, firmato dal noto Mickey Newbury Jr.). Certo, parecchi tra i fan di Mellencamp sono apparentemente rimasti delusi da quella che hanno ritenuto essere semplicemente l’ennesima raccolta di cover e brani anche troppo noti, oltretutto priva della presenza di qualsiasi inedito a impreziosirne la pubblicazione; tuttavia, non si può negare come, negli ultimi anni, John abbia sviluppato un gusto e un talento di prim’ordine per la rielaborazione del traditional angloamericano (in fondo, l’antenato di ogni forma di rock che si rispetti). Anche per questo, la recente produzione di Mellencamp meriterebbe ben più di una passeggera forma di rispetto – specialmente in tempi in cui intraprendere la via del folk può definirsi, per una star, un atto senz’altro coraggioso, ma non certo foriero di successo commerciale. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 gennaio 2019 • N. 02
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Cultura e Spettacoli
Cose nuove e inaudite
Classica J örg Widmann non è solo un virtuoso del clarinetto, ma anche compositore e direttore d’orchestra Enrico Parola Uno e trino. Se non pochi sono ormai gli strumentisti che si dedicano con successo al podio (bastino gli esempi dei pianisti Levine e Barenboim) Jörg Widmann è un caso quasi unico: è un virtuoso del clarinetto, interprete di riferimento dei più grandi capolavori dedicati allo strumento da Mozart, Weber, Brahms; è un direttore d’orchestra che calca podi prestigiosi; è uno dei compositori più quotati e ricercati di oggi: gli hanno commissionato brani per orchestre mitiche come la Gewandhaus di Lipsia o la Boston Symphony, esattamente due anni fa (17 gennaio 2017) il suo «Arché» ha tenuto a battesimo la nuova e bellissima Elbphilharmonie di Amburgo. Il 45enne musicista bavarese ha presentato lo scorso anno a LuganoMusica due delle sue tre personalità artistiche, il compositore e il clarinettista, suonando con l’Hagen Quartet il Quintetto di Mozart e il suo; men-
Per partecipare «Azione», mette in palio alcuni biglietti per il concerto di Jörg Widmann con l’OSI che avrà luogo giovedì 17 gennaio 2019 all’Auditorio Stelio Molo RSI di Lugano. Per partecipare all’estrazione basta seguire le indicazioni sulla pagina web www.azione.ch/concorsi.
tre la sorella Carolyn ne ha suonato il Concerto per violino accompagnata da Daniel Harding e l’Orchestre de Paris. In una sola serata, la seconda del ciclo «Osi in Auditorio», Widmann le concentra tutte e tre: giovedì prossimo dirigerà l’Orchestra della Svizzera Italiana nella prima sinfonia di Mendelssohn, nel Concerto per clarinetto in fa minore di Weber dove sarà anche solista, e in due sue composizioni: l’ouverture Con Brio e il sestetto per archi 180 beats per minute. Un uomo totalmente conquistato dalla musica: «Io e mia sorella Carolyn eravamo ancora piccoli, avevamo forse 4 o 5 anni; i genitori ci portarono a vedere il Pipistrello di Johann Strauss e ne rimanemmo folgorati; lì la musica divenne un elemento magico e irrinunciabile nelle nostre vite. Iniziammo ad andare spesso a teatro; ci stregò il Flauto magico di Mozart; per settimane lo allestimmo anche nel nostro soggiorno: i pupazzi erano Pamino, Tamina, Sarastro, la Regina della Notte, noi cantavamo – in qualche modo credo… – tutte le parti; ci divertivamo come pazzi». Quanto al clarinetto «non so perché lo scelsi, i miei genitori mi raccontano che un giorno tornai a casa e dissi loro che volevo imparare a suonarlo; però sono perfettamente consapevole del perché oggi mi piace così tanto: è uno strumento magico, crea un suono che sembra nascere dal nulla e sembra tornare nel nulla; il pubblico vede fisicamente il clarinettista sul palco, lo vede muovere le dita e soffiare nello strumento,
Jörg Widmann sarà a Lugano con l’OSI il prossimo 17 gennaio.
ma è come se non fosse lì la sorgente del suono; la voce del clarinetto proviene da un punto non definibile e fugge in un altro punto inspiegabile». Una magia che per Widmann è la spinta a comporre per il suo strumento: «Penso che abbia delle possibilità ancora inesplorate; infatti quando i compositori che mi vogliono dedicare un’opera mi chiedono se sia possibile
o no eseguire certi passaggi, rispondo sempre: prima scrivili, poi vediamo se in qualche modo si riesce». Lo ha fatto con l’elvetico Holliger, con Rihm o Reimann. «Penso che cercare o superare il limite sia un motore essenziale nella storia della musica; il concerto per violino di Ciajkovskij era considerato ineseguibile, e come questo tanti altri; mi piace immaginare Mozart che
ascolta un soprano mentre fa i vocalizzi e pensa: vediamo fin dove può arrivare…e nasce così la celebre aria della Regina della notte; ma anche il duetto tra Papageno e Papagena, un’onomatopea incredibile, fu qualcosa di nuovo e inaudito nella storia dell’opera. Io spesso improvviso per vedere che cosa si riesce a fare, comporre non è altro che fissare e sistemare questi tentativi». Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 gennaio 2019 • N. 02
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Cultura e Spettacoli Ottavio Lurati è stato per molti anni professore di linguistica italiana all’Università di Basilea. (CdT Reguzzi)
I belli o gli impossibili Linguistica Un repertorio di parole
e locuzioni inglesi e le loro prospettive in un originale libro di Antonio Zoppetti
Stefano Vassere
Nel cuore delle parole
Pubblicazioni Nel suo libro più recente il linguista ticinese Ottavio
Lurati arricchisce le sue ricerche di riflessioni e proposte inedite Elena Robert Le esplorazioni linguistiche cui ci introduce Ottavio Lurati nel suo ultimo libro si arricchiscono di riflessioni e proposte nuove sull’origine di termini ed espressioni del nostro parlar corrente. Con spirito curioso, l’autore procede per sondaggi, distanziandosi dalla toponimia dei professori (l’antico studio dei nomi di luogo), per lasciare spazio alla toponimia vera, quella entrata nel dna della gente: l’orizzonte aperto sul vissuto della comunità affina la ricerca, lo studioso scarta vie intraprese e ne sceglie altre più convincenti. L’importante è rendersi conto che non c’è mai la verità su un nome ma diverse interpretazioni derivanti da ricerche spesso costruite su indizi. Le piste da seguire sono sempre tante, non si stanca di annotare Ottavio Lurati, e vanno percorse per capire dove si insidiano eventuali errori, fantasie, ipotesi pittoresche, mode. Le verifiche del linguista affonderanno le radici nel passato e nel presente. Nell’evoluzione dei nomi si potranno così via via cogliere tracce di storia longobarda, germanica, latina, denominazioni e contaminazioni regionali, legami con il territorio, derivazioni gergali, il peso dell’ufficialità o della tradizione orale. Per capire e scoprire, ci si deve guardare attorno. L’autore rivolge quest’invito soprattutto ai giovani. E pure ad alcuni modi dire del loro gergo Lurati rivolge la sua attenzione, per rivelarci ad esempio che l’espressione sei un povero gaggio cioè un pidocchioso, un buono a nulla, un impacciato, deriva da gaggia, l’italiano regionale che sta
per pidocchio, termine legato al mondo contadino. Mentre fare il bullo è lo sviluppo fonetico del germanico bald, impavido, pronto all’azione. Vi sono parole svizzere che hanno fatto fortuna in Italia. L’origine del termine mucca si lega a vicende connesse alla storia economica. Inizia a circolare nel Settecento tra mercanti svizzeri e acquirenti italiani alla Fiera di Lugano del bestiame, d’importanza europea; deriva dalla voce colloquiale svizzera tedesca Mugg, Muchi e da quella svittese Mucheli, Muggeli con cui il proprietario chiama affettuosamente la sua bestia. La parola indicherà per secoli la giovenca da latte svittese di importazione nell’Italia centrale. Nel contesto della lingua parlata Lurati si interessa anche agli echi biblici di parole correnti. Due esempi significativi: cronaca e carattere. San Gerolamo (347-419 d.C) ricorre al termine cronaca nel tradurre dall’ebraico le due storie del «Libro degli avvenimenti del giorno» (III secolo a. C.). Carattere designa il segno del battesimo nel latino dei primi cristiani. Nel Medioevo la parola è usata in modo estensivo. Dal Trecento, in certi manoscritti, indica il segno che l’inchiostro lascia sulla carta. Soprattutto nel Cinquecento e nel Seicento comincia anche a essere applicata all’uomo e al suo modo di essere. Non pochi i nomi di luogo ripresi, rifatti, reinterpretati. Serravalle e Giornico, indica l’autore, vanno insieme anche se l’involucro alfabetico e fonico diverso li allontana. In entrambi veniva resa giustizia. A Serravalle per secoli c’è lo stanziamento longobardo, la sala vallis. Diventata Sara vallis. Caso ana-
logo Giornico che significa luogo dove i giudici rendono giustizia. In un’altra regione, a Tegna, fa stato la denominazione di luogo assegnata dalla comunità: il nome allude alle terre brulle rovinate dalle piene, da tigna, malattia della pelle che lascia chiazze prive di capelli; zona con scarsa vegetazione. Indagando nell’universo dei cognomi, cui Ottavio Lurati dedica una parte importante del volume, si impara che non sempre c’è una spiegazione o certezza sull’origine. A volte, ci dice lo studioso, anche un indizio locale o un’indicazione dell’uomo comune possono essere utili per l’interpretazione. Botta, Bottini, Botticelli e Bottani hanno in comune l’origine longobarda (da bott, con cui dall’VIII secolo i longobardi indicano il rampollo che arricchisce una stirpe). Non mancano, ancora, i riferimenti alle specificità naturali del territorio. L’origine dei Balmelli è Comologno: il nome deriva dal celtico balm, roccia sporgente. I cognomi Scerpella e Piezzi si collegano ai terreni scoscesi, quelli dei Franscini e dei Regazzi alle rocce dirupate (dal participio passato latino fracta). Dalla storia dei cognomi alla storia delle famiglie ticinesi in patria e all’estero il passo è breve. Lo studioso ascolta la gente, ci rende partecipi di queste esperienze arricchenti e il racconto si illumina. Bibliografia
Ottavio Lurati, Tra la gente. Parole «giovani», fascino di luoghi e famiglie, echi biblici nel nostro parlar corrente Bellinzona, Salvioni Edizioni 2018.
Nell’affollata quanto qua e là un po’ leggera e scientificamente malsicura prospettiva degli studi dedicati alla prepotenza dell’inglese sull’italiano, Antonio Zoppetti si segnala da qualche tempo per approcci originali e improntati a una sacrosanta aria di novità. Giusto un anno fa, per esempio, il suo Diciamolo in italiano. Gli abusi dell’inglese nel lessico dell’Italia e incolla portava parecchi temi che sarebbe opportuno frequentare per rinfrescare un po’ il settore: la concezione dell’inglese come moderno latinorum, che svela una tentazione tutta italiana della ricerca di una lingua alternativa per la propria promozione socioculturale; l’indagine contrastiva sul costume e gli atteggiamenti verso l’inglese messi in pratica dalle altre grandi lingue di cultura e di tradizione; gli pseudoanglicismi intesi come semplici ibridazioni periferiche del sociolinguisticamente vastissimo mondo dell’anglofonia; la promozione militante dell’italiano sulla scorta dei suoi poteri morbidi, dolcezza, sex appeal, affetti, passioni.
Perché invece di dire «bad girl», non usiamo «ragazzaccia» o, meglio ancora, «malafemmina»? Per contro, questo nuovo L’etichettario. Dizionario di alternative italiane a 1800 parole inglesi ha certamente la forza e i vantaggi della rassegna, del repertorio alfabetico; e concede l’opportunità della categorizzazione e la derivante lettura chiara di tendenze. Definire scatoline dove inserire gli anglicismi in italiano è, nella massa, più facile, e aiuta anche a capire il fenomeno, dandogli ordine e poi descrivendolo in modo parlante.
Gli anglicismi possono essere prima di tutto belli: acquascooter, per esempio, è simpatico (oltre che inesistente in inglese), perché non è proprio una «moto d’acqua», è più uno scooter appunto, che non si guida a cavalcioni ma a gambe strette; e lo scooter è la più italianamente gentile delle moto. Poi, i termini inglesi possono essere anche impossibili (da tradurre): «cuscino salvavita» per airbag non va bene; così come baby-sitter difficilmente diventa «bambinaia» o «governante». L’essenza più o meno c’è, cambia il colore semantico-lessicale; o, se proprio la vogliamo dire come i tecnici, c’è la denotazione ma manca la connotazione: bambinaia dà l’idea di serialità (una che ne cura molti, che ne tiene in braccio uno di qua e uno di là con aria stanca), la governante è il più delle volte percepita come una befana. Non c’è una traduzione per tutto, però per alcuni anglicismi ci sarebbero soluzioni italianamente illuminanti e non si capisce perché la comunità dei parlanti ancora non ci abbia pensato. Zoppetti ne ha alcune geniali: bad girl, tra gli altri, potrebbe diventare «ragazzaccia», ma anche «malafemmina», bello e mediterraneo. Qui, all’essenza lessicale, al nucleo comune di significato, l’italiano aggiunge il proprio odore e torna ad azzardare una sua supremazia linguistica e socioculturale. Infine, questo libro ha la seduzione di una evidente fantasia, che si esprime in una grafica libera e ardita, piena di ironia e disegno. Frecce, rinvii, appunti tratteggiati a mano, riquadri: ogni pagina è come una tavola e andando a vedere nel colophon si scopre che questo mondo è parte di un progetto di creazione di libri che si chiama elinor marianne, come le due sorelle di Ragione e sentimento. «Elinor e marianne» è, ci dice il sito web, un laboratorio grafico femminile, «dedicato alle lettrici appassionate, alle accumulatrici seriali di libri». Scoperto questo, chiusa la serie dell’Etichettario, una specie di sospetto rimane un po’ lì e se ne va a fatica: non sarà un errore combattere l’inglese dilagante con i decreti e le prove di forza, contrapponendovi l’italiano e la sua spendibilità come se fosse una specie di merce di scambio? Non sarà forse una forza gentile, come le femmine di Jane Austen, parenti dell’intelligenza ma anche dell’emotività, a darci una mano, a farci «dire in italiano»? In fondo, nei secoli e per secoli, con la musica, le belle arti, le lettere, è stato così. No? Bibliografia
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6.40 invece di 8.– Formentino Anna’s Best in conf. da 2 2 x 120 g
25%
3.90 invece di 5.50 Carciofi cuore Italia, imballati, 400 g
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2.20 invece di 2.80 Mango Perù/Brasile, al pezzo
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19.90 invece di 33.20 Phalaenopsis, 2 steli in conf. da 2 disponibile in diversi colori, per es. rosa, vaso, Ø 12 cm
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11.45 invece di 13.50 Tulipani M-Classic disponibili in diversi colori, per es. rossi e gialli, mazzo, 20 pezzi
Migros Ticino OFFERTE VALIDE SOLO DALL’8.1 AL 14.1.2019, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK
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5.–
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7.20 invece di 9.–
Tutti i tipi di pane alle noci (panini esclusi), per es. Happy Bread con noci TerraSuisse, 350 g
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40%
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10.–
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. à it c li p m e s a tt tu in Risparmiare conf. da 6 conf. da 3
50%
Pizze Finizza in conf. da 3 al prosciutto, alla mozzarella e al tonno, surgelate, per es. al prosciutto, 3 x 300 g, 6.60 invece di 13.20
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5.90 invece di 9.– Fleischkäse Malbuner in conf. da 6 disponibile in diverse varietà, per es. Delikatess, 6 x 115 g
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Tutto l’assortimento You per es. pane proteico, 400 g, 2.80 invece di 3.50, offerta valida al 21.1.2019
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Berliner 6 pezzi, 420 g
OFFERTE VALIDE SOLO DALL’8.1 AL 14.1.2019, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK
8.80 invece di 13.20 Bastoncini di merluzzo dell'Alaska Pelican, in conf. da 3, MSC surgelati, 3 x 450 g
Ravioli Anna’s Best in conf. da 4 per es. ricotta e spinaci, 4 x 250 g
25% Menu Anna’s Best in conf. da 2 per es. chicken satay, 2 x 400 g, 11.70 invece di 15.60
Tutto l'assortimento di patate Delicious surgelate, a partire da 2 confezioni, 30% di riduzione
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Farina bianca da 1 kg TerraSuisse a partire da 3 pezzi, 33% di riduzione
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30% Verdure miste svizzere o piselli dell’orto Farmer’s Best in conf. speciale prodotti surgelati, per es. piselli dell’orto, 1 kg, 3.90 invece di 5.60
20% Maionese, Thomynaise, senape dolce e concentrato di pomodoro Thomy in conf. da 2 per es. maionese à la française, 2 x 265 g, 4.– invece di 5.–
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conf. da 10
conf. da 2
20% Barrette ai cereali Farmer in conf. da 2 disponibili in diverse varietà, per es. Soft Choc alla mela, UTZ, 2 x 290 g, 7.20 invece di 9.–
20% Tutte le bevande non refrigerate Biotta bio, 50 cl per es. mirtilli rossi Plus, 3.80 invece di 4.80
conf. da 8
25%
7.80 invece di 10.40 Coca-Cola in conf. da 8 x 50 cl per es. Classic
40%
conf. da 2
20% Noci Sun Queen Premium in conf. da 2 per es. noci miste, 2 x 170 g, 8.30 invece di 10.40
10%
20%
5.95 invece di 6.80
Tutto l'assortimento Kellogg’s per es. Special K, 500 g, 3.85 invece di 4.85
50%
Nutella in barattolo di vetro 1 kg
2.85 invece di 5.90 Vittel in conf. da 6 x 1,5 l
OFFERTE VALIDE SOLO DALL’8.1 AL 14.1.2019, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK
Tavolette di cioccolato Frey da 100 g in conf. da 10, UTZ Giandor o Noxana, 10 x 100 g, per es. Giandor, 13.80 invece di 23.–
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8.90
Miele di fiori cristallizzato 1 kg
conf. da 50
50%
Branches Classic, Eimalzin o Noir Frey in conf. da 50, UTZ per es. Classic, 50 x 27 g, 12.30 invece di 24.75
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40%
6.– invece di 10.– Petit Beurre con cioccolato al latte in conf. da 4 4 x 150 g
20% M&M’s o Maltesers in conf. speciale per es. Maltesers, 400 g, 6.45 invece di 8.10
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Olio d'oliva Don Pablo, 2 l
30% Tutto l’assortimento di alimenti per gatti Exelcat per es. Snackies al pollo, 60 g, 1.65 invece di 2.40
40% Carta per uso domestico Twist in confezioni multiple Recycling Deluxe, Magic o Classic, per es. Classic, FSC, 16 rotoli, 7.90 invece di 13.20, offerta valida fino al 21.1.2019
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Prodotti per l’igiene orale Candida in confezioni multiple per es. dentifricio Multicare in conf. da 3, 3 x 75 ml, 6.60 invece di 9.90, offerta valida fino al 21.1.2019
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33% Docciaschiuma Fanjo in conf. da 3 conf. da 3, per es. cocco, 3 x 300 ml, 5.20 invece di 7.80, offerta valida fino al 21.1.2019
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Boxer aderenti o slip da uomo John Adams in conf. da 7 neri, taglie S-XL, per es. boxer aderenti, tg. M, offerta valida fino al 21.1.2019
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Tutti i prodotti Axanova e Axamine a partire da 2 pezzi, 20% di riduzione, offerta valida fino al 21.1.2019
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Tutti i fazzoletti di carta e le salviettine cosmetiche Linsoft e Kleenex in confezioni multiple per es. fazzoletti di carta Linsoft Classic, FSC, 56 x 10 pezzi, 3.50 invece di 5.85, offerta valida fino al 21.1.2019
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Tutti i cestelli e detergenti per WC Hygo in conf. da 3 per es. Maximum Power Gel, 3 x 750 ml, 7.80 invece di 11.70, offerta valida fino al 21.1.2019
Detersivi per capi delicati Yvette in conf. da 2 per es. Care, 2 x 2 l, 18.40 invece di 23.–, offerta valida fino al 21.1.2019
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33% Prodotti per la pulizia
Potz in conf. multipla per es. Calc in conf. da 3, 3 x 1 l, 11.– invece di 16.50, offerta valida fino al 21.1.2019
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Tutto l'assortimento di prodotti per la cura del Slip da bambina in conf. da 7 bebè e i detersivi Milette disponibili in diversi colori e misure, per es. bianchi, (confezioni multiple escluse), a partire da 2 pezzi, tg. 98/104, offerta valida fino al 21.1.2019 20% di riduzione, offerta valida fino al 21.1.2019
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15% Salvaslip Molfina in conf. da 2 per es. Bodyform Air, 2 x 46 pezzi, 2.80 invece di 3.30, offerta valida fino al 21.1.2019
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iMpuls è l’iniziativa della Migros in favore della salute: ogni giorno nuovi consigli, ricette e prodotti ricchi di vitamine per un’alimentazione sana ed equilibrata. migros-impuls.ch/francovitaminico OFFERTE VALIDE SOLO DALL DALL’8.1 AL 14.1.2019, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK
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