Azione 03 del 15 gennaio 2024

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Anno LXXXVII 15 gennaio 2024

Cooperativa Migros Ticino

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura

edizione

03 MONDO MIGROS

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SOCIETÀ

TEMPO LIBERO

ATTUALITÀ

CULTURA

I «Vivai diffusi» ora a Chiasso nascono dalla visione architettonica e urbanistica di Licia Lamanuzzi

Quei «gabbiani» che distolgono l’attenzione, rompono la tensione narrativa e possono anche annoiare

«Bilaterali 3»: si andrà verso la liberalizzazione del traffico ferroviario elvetico?

Intervista al regista Villi Hermann che alle giornate del cinema di Soletta omaggia Flavio Paolucci

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Johan Persson

Un musical che non tramonta mai

Natascha Fioretti

Il consumo interno, motore di ogni economia Mattia Keller

Le ultime settimane sono state contraddistinte da un vero e proprio walzer di cifre e numeri rimbalzati sulla stampa: raggiunta la soglia di 80’000 frontalieri, salario minimo mensile di un importante attore internazionale del commercio al dettaglio a 4700 franchi, tasso di cambio sotto alla soglia dei 0,93 franchi per euro, riduzione della franchigia doganale a 150 franchi per gli acquisti degli svizzeri all’estero e imminente riduzione a 70 euro della soglia per richiedere l’esenzione dall’IVA in Italia (tax free). Come non aggiungere al quadro le vendite natalizie in calo rispetto al 2022 e la forte inflazione percepita, ma in continuo calo negli ultimi mesi? Il commercio al dettaglio non si è fatto proprio mancare nulla sul volgere del nuovo anno. In tutto ciò non va perso di vista quanto veramente serve all’economia di una nazione e di una regione, in particolar modo se di frontiera come il Ticino: il consumo interno. Il consumo

indigeno è il sangue che fa funzionare l’organismo oppure il motore che fa girare l’economia. Ogni volta che i salari versati a chi lavora in Ticino vengono spesi principalmente altrove, il sistema, dunque la nostra economia, ha un calo di pressione; il medico direbbe un problema cardio-vascolare serio. Quando si parla di cuore, tutti sanno istintivamente che la questione è seria e lo è ancor più quando la miriade di numeri e valori sopraccitati rischia di disorientarci. In qualità di direttore di Migros Ticino mi sento di dover informare le lettrici e i lettori e soprattutto di mettere in luce quanto di buono la nostra Cooperativa fa per il nostro territorio. Migros Ticino è d’esempio per più aspetti. Solamente il 9% delle nostre collaboratrici e dei nostri collaboratori sono frontalieri, a fronte di una quota globale di frontalieri attivi nel commercio al dettaglio ticinese che si attestava nel 2021 al 40,7% (fonte: USTAT, ultimo dato

disponibile): 41 collaboratori nel commercio al dettaglio su 100 in Ticino sono domiciliati in Italia. Visto il numero di frontalieri in continua crescita ci si può ragionevolmente aspettare che il dato reale a fine 2023 superi ampiamente il 40,7% del 2021. La ricerca di nuovo personale si svolge tramite gli enti cantonali preposti e l’assunzione di personale residente è assolutamente prioritaria. A ciò va sommata la nostra volontà ferrea di investire in Ticino, coinvolgendo produttori, aziende, maestranze e artigiani locali. Gli esempi più tangibili di questo attaccamento al territorio sono principalmente due. Da un lato, la costruzione e la ristrutturazione delle nostre filiali e infrastrutture, un’attività di grande importanza per Migros Ticino, che genera forti ricadute per l’economia ticinese, visto che tutto quanto possibile viene sistematicamente acquistato in Ticino. Dall’altro, la nostra gamma di prodotti Nostrani del Ticino, che annovera più

di 50 fornitori locali e 687 prodotti del territorio. Per essere più concreti e sommando anche i salari versati, la ricaduta economica annuale della presenza di Migros Ticino in Ticino ammonta a ca. 177 milioni di franchi all’anno. Se qualcuno mi chiedesse «perché lo fate?» risponderei: perché siamo l’unico attore della grande distribuzione ticinese domiciliato e che paga le tasse qui. Il nostro credo è che l’economia ticinese vada difesa con scelte lungimiranti, responsabili e consapevoli al momento delle assunzioni, ma anche quando facciamo la spesa come consumatori, altrimenti il sistema va in crisi. In questo contesto mi preme sottolineare di nuovo l’importanza del consumo interno. Per finire mi permetto di porre una domanda provocatoria, alla quale ognuno può dare istintivamente la propria risposta: chi fa sistematicamente la spesa in Italia dovrebbe ricevere uno stipendio svizzero o italiano?


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azione – Cooperativa Migros Ticino

MONDO MIGROS

Idee per stringere amicizia

Impegno Migros ◆ Fra i molti progetti presentati nell’ambito dell’iniziativa dell’Amicizia del Percento culturale Migros, 15 sono giunti in finale; scegliete i migliori votando su engagement.migros.ch/voting Votate il vostro progetto preferito su engagement.migros.ch/voting. Le dieci idee con più voti riceveranno dal Percento culturale Migros un sostegno dai 10’000 ai 50’000 CHF ciascuno. Non dimenticate di votare i progetti ticinesi: 7 e 14!

incontrano al Nona a Basilea, dove cucinano e mangiano insieme. «Mangiare insieme crea dei legami che vanno oltre le generazioni e permette di stringere nuove amicizie» (Michel Harr, Pro Senectute)

1. Tra rifugiati L’associazione Hello Welcome gestisce un punto di incontro per i rifugiati nel cuore di Lucerna. Il nome del progetto è Together. «Vogliamo favorire gli incontri e facilitare l’arrivo dei rifugiati» (Barbara Müller, coordinatrice)

12. Tra i sentieri Nella regione di Winterthur (ZH) residenti e rifugiati si conoscono facendo delle escursioni insieme grazie al progetto Wanderbrücken. «Quando si cammina insieme verso un traguardo si creano dei legami» (Büsra Ilgün, co-ideatrice progetto)

2. Tra queer Grazie all’iniziativa Agenda Queer VS le persone LGBTIQ+ del Vallese praticano sport o frequentano eventi culturali insieme. «In quanto queer ho potuto farmi amiche e amici nuove/i» (Aurora Grange, copresidente)

13. Tra giovani in difficoltà Traguardo del progetto vallesano L’Amitié d’Enfer è l’organizzazione di concerti e altri eventi per giovani in difficoltà. «Vogliamo creare un luogo di scambio che favorisca le amicizie» (Grégory Carron, co-responsabile progetto)

3. Tra genitori L’associazione genitori di Kulm (AG) organizza conferenze e tornei di calcetto per madri e padri. «Lo scopo di queste serate è passare del tempo tra adulti senza figli» (Anika Heumann, vice presidente) 4. Tra passi di danza A Losanna Let’s dance! vuole promuovere l’amicizia attraverso l’organizzazione di serate danzanti per giovani e meno giovani. «Ballate, ballate, altrimenti siamo perduti» (Isabelle Carceles, creatrice dell’iniziativa, cita Pina Bausch) 5. Tra bambini Il collettivo La Déchet organizza passeggiate, concerti, atelier e pro-

grammi per bambini in un’ex discarica a Nyon (VD). «Il Déchet è un luogo in cui si creano e si coltivano le amicizie» (Isabelle Fluck, cofondatrice) 6. Tra i fornelli A Lenzburg (AG), grazie al progetto Nani&Nenis Gloria Kantine, pensionate e pensionati cucinano una volta alla settimana per chi lavora. «L’estrazione a sorte dei posti a tavola incoraggia a fare amicizia» (Sara Jantzen, direttrice)

7. Su una panchina

Grazie al progetto PancAmica in Ticino sconosciute e sconosciuti possono dialogare su una panchina artistica. «Sulla nostra panca il quotidiano fa una pausa e lascia spazio agli incontri». (Renato Gagliano, capo progetto) 8. Tra giovani A Berna i giovani organizzano eventi e atelier per altre/i giovani, con il pro-

getto PeerHelfer*innen im toj. «Le amicizie sono molto importanti per i giovani e noi le vogliamo favorire». (Lisa Pfaffen, animatrice giovani) 9. Tra richiedenti l’asilo rifiutati A Zurigo, attraverso il progetto Kombi, richiedenti asilo che hanno ricevuto una decisione negativa e volontari si incontrano per discutere di temi diversi. «Grazie a Kombi ho incontrato delle persone che comprendono la mia situazione». (Partecipante anonima) 10. Tra (dis)abili Con il progetto enjoy Treffpunkt für alle (BL), volontari/e si impegnano a favore delle persone portatrici di andicap, consentendo loro di incontrarsi e di praticare degli hobby. «I contatti sociali e gli hobby sono essenziali per tutti» (Karin Plattner, ideatrice iniziativa) 11. Tra giovani e anziani Persone di generazioni differenti si

14. Tra gli alberi del parco

Il progetto Panchina dell’amicizia prevede l’installazione di panchine in alcuni parchi ticinesi. Le persone che vi si siedono sono invitate a entrare in contatto le une con le altre grazie all’aiuto di un animatore. «Un sorriso e una conversazione possono essere l’inizio di un’amicizia e la fine della solitudine» (Cristina Milani, ideatrice) 15. Intorno a un tavolo Grazie a Wanderznacht residenti e rifugiati cenano insieme in luoghi diversi (Zurigo e Basilea). «Grazie al progetto ho incontrato molte persone e ho perfino trovato una stanza in una co-locazione» (partecipante anonima)

Una cena al Bellavista

Concorso ◆ Sabato 27 gennaio una serata dedicata al bollito misto Nel corso di tutto l’inverno il Buffet Bellavista, situato a 1200 metri lungo la linea che porta in vetta al Monte Generoso, offrirà una serie di serate all’insegna della buona cucina regionale. Il ristorante, da poco ristrutturato, grazie a un’atmosfera intima e curata, saprà incantare gli ospiti. «Azione» estrarrà a sorte settimanalmente due ticket che permetteranno di scoprire la bellezza del Monte Generoso, anche di notte e in inverno. Dove e quando Serata bollito misto sabato 27 gennaio 2024, Buffet Bellavista. Orari: Partenza da Capolago ore 19.00, discesa da Bellavista ore 21.30. Prezzi: Trenino e menù a 3 portate, bevande escluse: adulti CHF 60.–; ragazzi 6-15 anni CHF 40.–; bambini 0-5 anni treno gratuito. Info e prenotazioni www.montegeneroso.ch

Concorso «Azione» mette in palio due ticket per il 17 gennaio 2024 che includono ciascuno un biglietto andata e ritorno a bordo del trenino a cremagliera e la cena di tre portate. Per partecipare al concorso mandare una e-mail a giochi@azione.ch (oggetto «Bollito»), indicando i propri dati, entro lunedì 22 gennaio 2024. Buona fortuna! Per info: www.montegeneroso.ch

Competizioni, giochi e divertimento

Sponsoring ◆ Durante questa stagione invernale, gli eventi del Grand Prix Migros si terranno in undici comprensori sciistici Non mancate alla tappa ticinese di Airolo, il week-end del 24 e 25 febbraio, dove si terrà anche il Migros Ski Day La nuova stagione del Grand Prix Migros è stata inaugurata a Saas-Fee il 7 gennaio. Seguiranno altre dieci gare di qualificazione fino a metà marzo che si svolgeranno in diversi comprensori sciistici della Svizzera. L’evento si concluderà in grande stile con la finale della stagione (Hoch-Ybrig, tra il 21 e il 24 marzo), in cui i bambini e i ragazzi più veloci delle rispettive gare di qualificazione si sfideranno in due giornate di gara.

Doppio divertimento sulla neve grazie al Migros Ski Day Durante cinque weekend sarà possibile non solo gareggiare con i propri coetanei, ma anche godersi una giornata divertente sulle piste insieme alla famiglia. Sulla Klewenalp, ad Airolo, Wildhaus, Stoos e Lenk saranno organizzati fine settimana doppi, durante i quali la più grande gara di sci del mondo per bambini e ragazzi si svolgerà parallelamente al Migros Ski Day, la giornata per tutta la famiglia. Un’occasione unica per condensare l’adrenalina della gara e un’esperienza divertente sulla neve con tutta la famiglia.

Un ricordo digitale Per ogni partecipante verrà realizzato un video individuale che comprenderà un intervento di Jann Billeter (presentatore TV svizzera) e la gara individuale del partecipante. Questo

video, offerto e finanziato da Migros e Sunrise, sarà disponibile gratuita-

mente per i partecipanti alla gara subito dopo il rispettivo evento.

Redazione Carlo Silini (redattore responsabile) Simona Sala Barbara Manzoni Manuela Mazzi Romina Borla Natascha Fioretti Ivan Leoni

Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI)

Calendario eventi Grand Prix Migros 2024 GARE DI QUALIFICAZIONE • Domenica 21 gennaio, Schönried • Sabato 27 gennaio, Nendaz • Sabato 3 febbraio, Les Crosets • Sabato 17 febbraio, Klewenalp • Sabato 24 febbraio, Airolo • Sabato 2 marzo, Wildhaus • Domenica 3 marzo, Savognin • Sabato 9 marzo, Stoos • Sabato 16 marzo, Lenk FINALE DI STAGIONE • Giovedì-domenica 21-23 marzo, Hoch-Ybrig

Informazioni e iscrizioni gp-migros.ch / migros-ski-day.ch

azione

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Abbonamenti e cambio indirizzi tel +41 91 850 82 31 lu–ve 9.00–11.00 / 14.00–16.00 registro.soci@migrosticino.ch

Telefono tel + 41 91 922 77 40 fax + 41 91 923 18 89 Indirizzo postale Redazione Azione CP 1055 CH-6901 Lugano

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Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino tel +41 91 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria – 6933 Muzzano Tiratura 101’177 copie


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SOCIETÀ ●

Svizzera: sono circa 500mila i diabetici Obesità, fattori di famigliarità e uso di cortisonici per curare altre malattie possono provocare il diabete di tipo 2, o mellito

Gli adolescenti e l’influenza del gruppo A volte i ragazzi adottano condotte irragionevoli e sembrano subire troppo la pressione dei coetanei: i genitori come devono comportarsi?

Se hai il fieno nella testa La nuova pubblicazione della collana «le Voci» del Vocabolario dei dialetti della Svizzera italiana è dedicata al fieno

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In città con il verde, per il verde

Intervista ◆ Esperimenti di sostenibilità nell’ambito dell’architettura urbana, ce ne parla Felicia Lamanuzzi Benedicta Froelich

Una delle sfide maggiori con cui la realtà post-pandemica ci ha confrontati riguarda senz’altro il nostro rapporto con lo spazio urbano, nei riguardi del quale gli equilibri di un tempo si sono irrimediabilmente alterati; al punto che appare evidente come sia oggi più che mai necessario, per un architetto, occuparsi di aree pubbliche. Questa è anche la convinzione di Felicia (Licia) Lamanuzzi, professionista attiva nel settore da oltre vent’anni attraverso il suo atelier d’architettura a San Pietro di Stabio: dal 2015, Licia organizza iniziative tese a promuovere l’importanza dello spazio urbano nella trasformazione della città tramite esperimenti di cosiddetto «urbanismo tattico» – svolti tramite workshop aperti al pubblico, ma anche attraverso il recente progetto «Vivai diffusi», volto a trasmettere l’importanza dello spazio verde come patrimonio di tutti, al fine di migliorare la qualità di vita negli agglomerati. Proprio oggi, 15 gennaio, le installazioni di «Vivai diffusi» saranno presentate a Chiasso nell’ambito della serata pubblica indetta per illustrare alla cittadinanza i progetti urbanistici promossi sul territorio comunale; cogliamo quindi l’occasione per parlare con Licia Lamanuzzi della sua visione architettonica e urbanistica. Licia Lamanuzzi, come mai quest’interesse per ciò che molti definiscono «arredo urbano»? Credo sia importante costruire una coscienza civica intorno a un’esigenza che non riguarda soltanto i grandi centri, ma anche le piccole realtà, le «cellule» in cui si espleta il quotidiano della vita di tutti noi. L’emergenza Covid ha enfatizzato l’importanza di disporre di spazi pubblici in cui sia possibile convivere anche secondo logiche di distanziamento, dimostrandoci che provvedere a ogni cosa dal «recinto» delle nostre abitazioni non è possibile. Anche per questo, i miei workshop di progettazione urbana sono basati sull’idea che siano gli abitanti stessi a richiedere una crescente funzionalità degli spazi pubblici: essendo aperti a chiunque sia interessato a una riflessione sulla città, sono divenuti occasione per interrogare la cittadinanza e sviluppare una maggiore coscienza e conoscenza architettonica tramite il confronto e lo scambio. Credo che a tutt’oggi, siano gli unici workshop del Ticino animati dalla volontà di restituire alla cittadinanza un senso di partecipazione all’evoluzione della condizione urbana. Come si colloca, in tutto ciò, il progetto «Vivai diffusi»? Nasce dalla stessa matrice dei workshop, e dalla volontà di offrire (sen-

cole cose per vivere in maniera più serena la nostra relazione con la natura, dalla quale non possiamo prescindere. Certo, questo comporta qualche sacrificio, ma porta benefici a lungo termine… Città quali Zurigo, dove ogni quadrato urbano è popolato da alberi, dimostrano come gli spazi pubblici completamente cementificati siano poco vivibili non solo dal punto di vista pratico, ma anche psicologico; la continua immersione nel verde — un verde vivo, non patinato come quello delle aiuole ornamentali — dona benessere al cittadino, senza contare che, tra le altre cose, la permeabilità del suolo permette alla pioggia di infiltrarsi senza sovraccaricare le canalizzazioni. Occorre promuovere fattori come la biodiversità (risorsa fondamentale, non solo a livello estetico), e l’equilibrio biologico negli spazi antropizzati, apprezzando i costi di mantenimento più contenuti di un verde «naturale», in grado di sostentarsi quasi da solo. Qual è stata la risposta al progetto «Vivai diffusi»? Ha ricevuto ampi riscontri a livello nazionale. Al momento, è attivo sul territorio di Chiasso: è stato accolto molto bene dalla città, che vi ha visto la possibilità di allenare lo sguardo degli abitanti a un’idea di spazio urbano più attrattiva e inclusiva, promuovendo nel contempo attività che, oltre a portare afflusso di pubblico, favoriscano la socialità e l’installazione di servizi di prossimità — ad esempio, immaginando una relazione tra le diverse isole verdi, così da rendere più semplice e piacevole attraversare la città da una zona all’altra, anche per gli anziani.

Alcuni alberi dell’istallazione «Vivai diffusi» a Chiasso. (Foto di Matteo Spazzi)

za l’obbligo di investire grandi cifre) una proposta concreta a favore del clima, nell’ottica del passaggio a una «transizione ecologica» che permetta di mitigare gli effetti del surriscaldamento globale – il tutto concentrandosi sulla qualità dello spazio pubblico come risorsa per la città. È un progetto che si compone d’installazioni costituite da alberi in vaso, i quali, però, hanno già una futura collocazione stabile, essendo

destinati a venire piantati in modo permanente. Non si promuove quindi il nomadismo, che a lungo andare nuocerebbe agli alberi stessi, ma si cerca di spingere a una nuova confidenza con le piante all’interno dello spazio urbano, generando abitudine nel cittadino; la speranza è che, nel momento in cui gli alberi vengono spostati nella loro collocazione definitiva, l’utenza ne avverta un senso di mancanza, e sia quindi spinta a

richiedere di vederli dove ne aveva in origine sperimentato la presenza – stavolta piantati a terra, dove il loro percorso diviene più naturale. C’è quindi alla base una motivazione etica, che tiene conto del cambiamento climatico, ma anche del benessere sia degli utenti sia delle piante… Esatto: ritengo sia necessario cambiare mentalità, partendo dalle pic-

Cosa si prospetta per il futuro dell’iniziativa? La speranza è che la sensibilità verso una maggiore presenza di verde nelle città giunga a coinvolgere sempre più campi dell’operato umano — come avviene con il nostro collegio scientifico, i cui membri provengono da molteplici background (dall’artistico allo scientifico, fino alle discipline umanistiche); mi piacerebbe, in futuro, coinvolgere anche l’ambito psicologico e antropologico/sociologico, lavorando in modo interdisciplinare e stabilendo nuove sinergie. «Vivai diffusi» è un progetto costantemente in divenire: siamo quindi sempre a disposizione per chiunque sia interessato a sperimentarne l’applicazione pratica nel quotidiano. Informazioni www.vivaidiffusi.com Sul sito www.azione.ch si trova una galleria fotografica più ampia.


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azione – Cooperativa Migros azione Ticino – Cooperativa Migros Ticino

MONDO MIGROS

Da Toro Seduto a Cavallo Pazzo, Risparmio a tutto campo con M-Budget

Attualità ◆ La mitica marca Migros dai caratteristici colori verde e bianco offre oltre 750 articoli di qualità aReportage prezzi particolarmente vantaggiosi ◆ Ancora oggi il popolo perseguitato dall’Uomo Bianco continua a rivendicare la propria terra, ai piedi della catena montuosa Manuela Cavalieri e Donatella Mulvoni, testo e foto

I dieci prodotti M-Budget più venduti in Ticino sono, nell’ordine: • banane • lattuga iceberg • pane semibianco 500 g • pane bigio 500 g • burro • cioccolato noir • cioccolato al latte • mozzarella 400 g • latte intero 2 L • pane bigio 250 g

La marca di culto M-Budget della Migros offre alla clientela un assortimento di oltre 750 articoli a prezzo basso in ogni categoria merceologica e la gamma viene ampliata costantemente. Oltre agli articoli convenzionali dei settori food, non food e near food, M-Budget propone anche offerte molto attrattive nella telefonia mobile, TV digitale, Internet e rete fissa. L’offerta include pure delle camere d’albergo e delle vacanze.

A livello svizzero, l’articolo più venduto in assoluto è invece l’Energy Drink.

L’articolo M-Budget più conveniente è il cibo per gatti Adult Terrine, che costa soltanto 25 centesimi. I clienti che hanno un abbonamento M-Budget Mobile sono oltre 800’000. Il Säntispark di Abtwil dal 2018 propone due camere d’albergo griffate con i caratteristici colori di M-Budget. I prezzi molto allettanti di M-Budget sono dovuti principalmente al design semplice e standardizzato, alle confezioni grandi e alla rinuncia di particolari promozioni.

M-Budget nasce nel 1996 per offrire alla clientela particolarmente sensibile ai prezzi dei prodotti a prezzo basso ma che comunque rispecchino gli stessi standard di qualità dei prodotti Migros convenzionali. Gli articoli sono sottoposti regolarmente a severi controlli relativi alla qualità e alle condizioni di produzione. Molti dei prodotti provengono dalle industrie del gruppo Migros.

«Le Black Hills mi appartengono. Se i bianchi tentano di rubarle, combatterò». Era questo il patto che aveva impresso sul cuore l’intrepido Tatanka Iyotake, passato alla storia come Toro Seduto. Per il condottiero dalle lunghe trecce nere, la resistenza del popolo Lakota contro il Governo degli Stati Uniti passava da questi clivi tinti di verde scuro. I nativi le chiamano He Sapa, sono «il cuore di tutto ciò che esiste». Quello che si dischiude davanti agli occhi dei viaggiatori è un maestoso ecosistema di alture ricoperte di pini, conifere e immense praterie. La catena montuosa si innalza dalle Grandi Pianure del Sud Dakota e si estende fino in Wyoming, nel nord-ovest degli Stati Uniti. È lunga oltre duecento chilometri, con vette che arrivano a duemila metri. Il nome – le Colline Nere – deriva da una vegetazione così fitta da apparire assai tenebrosa in lontananza. Le Black Hills appartenevano agli Oceti Sakowin, la confederazione di tribù alleate di lingua Lakota, Dakota e Nakota, che i rivali avevano soprannominato Sioux, i serpentelli. Un popolo in lotta per la propria esistenza sin da quando gli europei «scoprirono» questa terra e decisero di impossessarsi di ogni suo metro. Un assoggettamento progressivo, spietato, culminato nella seconda metà dell’Ottocento con la famigerata Gold Rush, la corsa all’oro nelle Colline. A lanciarla, nel 1874, fu la spedizione perlustrativa di un migliaio di uomini guidati dal tenente colonnello George Armstrong Custer e la maledetta scoperta di pepite. Fu la fine di

Le Badlands dove furono ambientati le avventure del tenente John Dunbar e il suo incontro con i Lakota nel più celebre dei western, Balla coi lupi, diretto e interpretato da Kevin Costner (1989).

tutte le garanzie concesse agli indiani Sioux dal Governo Usa con il Trattato di Fort Laramie, stipulato sei anni prima, che assicurava la proprietà delle Black Hills alle tribù. I minatori sciamarono nelle colline, facendo razzia di oro, ma anche di altre preziose risorse. Il Governo americano provò a mettere una toppa solo nel 1980, quando la Corte Suprema stabilì come compenso dell’espropriazione, un risarcimento di centocinque milioni di dollari. Il fondo, mai accettato dai Sioux, è lievitato oltre il miliardo. Le colline non sono in vendita, appartengono ai nativi e ai nativi devono essere restituite. Oggi a deturpare l’area sono i siti

minerari abbandonati, che avvelenano acque e suolo con materiale radioattivo, come denunciano gli attivisti. A questi temi, tra l’altro, è dedicato il bellissimo documentario dello scorso anno Lakota Nation vs. United States coprodotto dall’attore Mark Ruffalo sulla lotta degli indiani della nazione Lakota Dakota Nakota contro il furto della terra, il martirio degli indigeni e il razzismo endemico. Il viaggio in questa regione dal fascino ancestrale inizia con le Badlands che delle Colline Nere sono considerate la porta di accesso. I calanchi – le «terre cattive» – schiudono un paesaggio spettacolare, fatto di canyon, pinnacoli e guglie naturali striate di

viola e giallo, marrone e grigio, rosso i nativi «l’American buffalo» rappree arancione, che si estende per qua- sentava il centro dell’economia di sosi centomila ettari. Mozzafiato la Ba- stentamento: una miniera preziosa di dlands Loop State Scenic Byway, un cibo, pelli, utensili, grasso. Un tempercorso che regala chilometri di pu- po le mandrie dominavano le Colline, ra bellezza. Impossibile non restare a adesso nei parchi ne restano in libertà bocca aperta dinanzi alla magnificen- meno di duemila esemplari. Gli alleza silenziosa di questi panorami mar- vamenti sono per lo più ricettacolo di ziani. Proprio qui furono ambientate turisti che cercano di rivivere le emoAttualità Le John dueDunbar polentezioni pronte Nostrani le avventure del ◆tenente del Fardei West. Gli stessi esploe il suo incontro con i Lakota nel più ratori che fanno la fila per vedere il del Ticino promettono un gustoso pastoRushmore in menNatiocelebre dei western, Balla coi lupi, dipatriottico Mount retto enon interpretato da Kevin Costner nal Memorial. che si dica tra giugno e novembre del 1989. La più nota delle attrazioni delle Man mano che ci si avvicina al- Black Hills, attira ogni anno fiumi di le Black Hills, la vegetazione diven- gitanti pronti a immortalare con macta sempre più rigogliosa. Questa fetta chine fotografiche e telefonini i volti d’America è territorio del bisonte. Per giganteschi – alti diciotto metri – in-

Come fatte in casa

I Powwow della Oglala Lakota Nation

Polenta e spezzatino: un grande classico del nostro territorio Una replica in miniatura del progetto finale del monumento a Cavallo Pazzo. Non è ancora chiaro quando l’opera verrà ultimata. I lavori sono finanziati da fondi privati.

Il momento migliore per visitare le Black Hills in South Dakota è il mese di agosto, quando nella riserva di Pine Ridge si tiene il tradizionale Oglala Lakota Nation Powwow, dei più Preparate con cura dalla uno Rapelli di importanti d’America. Stabio utilizzando ingredienti locali, gli indiani d’America, leTra polente fresche nostranei Powwow classica e sono cerimonie molto genuino sentite. semQuetaragna sono un piatto stiafestival, amatissimi dai turipre disposizione, pronteanche in pochi misti, semplicemente celebrano la cultura e la nel storia dei nuti scaldate forno nativi americani con musiche tradizionale oppure neldanze, microonde. Se figuranticlassica vestiti incontiene abito tradizionale. laevariante solo faritribù indigene, la danza è semnaTra dile granoturco e burro, nella polenta pre stata unaalpotentissima forma di taragna, oltre mais, viene aggiunta narrazione Essa tramandaanche della collettiva. farina di grano saraceno, va regala non solo gesta diiluna che al le prodotto suobattaglia caratteri-o di una battuta ma anche la stico colore scurodiecaccia, gusto pronunciato. quotidianità. La preparazione viene ulteriormente Il Powwow svolge solitamente all’aarricchita consil’aggiunta di formaggio

Canaria, prodotto in alta Leventina,

perto, dove viene allestita una sorta di arena al cui interno avvengono le danze rituali in una esplosione di suoni, percussioni, canti e colori. Gli abiti e i copricapi dai come pureelaboratissimi, burro e latte indossati intero ticinedanzatori e dai cantanti vengono chiasi. I cereali utilizzati vengono coltivati mati «regalia» e sono da alcuni agricoltori sulrealizzati Piano di con MatecnicheLa perpetuate da generazioni. gadino. trasformazione viene effetPer i nativi questiBassetti eventi rappresentatuata da Paolo di Pianezzo. no fondamentalmente unpiù moConsiglio: per un piattoanche ancora inmento diperché condivisione e riflessione. vitante, non provare le polente Sonoalcuni però tipici soprattutto un modo con abbinamenti delper noeducare i più giovani e tramandare le stro territorio, come brasato, spezzatilorofunghi preziose tradizioni alle nuove leno, porcini o latte? ve. In queste manifestazioni popolari non mancano che ser*Azione 10% ledalbancarelle 16.1 al 22.1.2024 vono i tipici «Indian tacos», ovvero il Polenta Nostrana gustoso fritto solitamente 300 g Fr.pane 2.90* invece di 3.25 farcito con carne, fagioli e verdure. Polenta Taragna Nostrana 300 g Fr. 5.80* invece di 6.45


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MONDO MIGROS

Un piatto unico nutriente e riscaldante

Attualità ◆ Durante la stagione fredda un saporito minestrone non può mancare sulle nostre tavole. I reparti verdura Migros questa settimana propongono le miscele per minestrone fresche ad un prezzo vantaggioso

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Impossibile resistere ad un fumante piatto di minestrone che riscalda e soddisfa anima e palato. Senza naturalmente dimenticare il suo aspetto salutare, grazie al prezioso contenuto di importanti sostanze nutritive e al ridotto tenore calorico. Come suggerisce il nome, questa preparazione tipica della cucina italiana - ma anche ticinese – è sinonimo di ricchezza e varietà di ingredienti, nella fattispecie verdure cotte nel brodo; pertanto, è ideale da consumare come piatto unico completo e corroborante. Praticamente ogni regione ha la sua variante di minestrone, a dipendenza della disponibilità di ingredienti locali. Molte ricette prevedono anche l’aggiunta di riso o pasta per arricchire ulteriormente la pietanza. Le verdure più comuni utilizzate per la preparazione

del piatto includono per esempio cipolla, verze, carote, porro, coste, zucchine, sedano, patate, zucca, pomodori, fagiolini, peperoni, come pure legumi quali fagioli borlotti o piselli. Per conferire un gustoso tocco supplementare, prima di portarlo in tavola il minestrone può essere anche condito con qualche erbetta aromatica fresca quale prezzemolo, originano, timo o rosmarino, come pure di un filo di olio di oliva e qualche spolverata di formaggio grattugiato. La preparazione è semplice e non richiede troppo tempo: in un po’ d’olio fate appassire le verdure tagliate e lavate finché risultano morbide. Aggiungete del brodo di verdura fino a coprire il tutto e cuocete a fuoco medio per 30-45 minuti. Buon appetito! Annuncio pubblicitario

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SOCIETÀ

Controllo e complicazioni del diabete mellito

Medicina ◆ Uno stile di vita sano aiuta a limitare i fattori di rischio e favorisce la cura di questa complessa patologia

Secondo i dati dell’Associazione svizzera per il diabete, in tutto il mondo i pazienti che soffrono di questa patologia sono più di 425 milioni. In Svizzera, si stima che i diabetici siano circa 500mila, 40mila dei quali interessati dal diabete di tipo 1, una patologia completamente diversa dal diabete di tipo 2, o mellito, di cui parleremo insieme al dottor Gianluigi Marini, specialista in medicina interna generale a Sorengo, che ci spiega anzitutto quali siano i principali aspetti legati all’insorgenza della malattia: «Fra i fattori di rischio troviamo l’obesità, per contrastare la quale si può e si deve assumere un comportamento adeguato e di prevenzione: vita e alimentazione sane, insieme al movimento. Poi, vi sono fattori di famigliarità sui quali non è possibile agire direttamente se non con una sorveglianza del paziente: a partire dai 50 anni bisogna tenere controllati glicemia e urina». Anche chi deve fare uso di cortisonici per curare altre patologie aumenta il rischio di ammalarsi di diabete: «Ma in questo caso, è già seguito dal reumatologo o dall’internista che monitorizzano il suo stato di salute». Infine, abbiamo la sindrome di Cushing: «Un tumore delle ghiandole surrenali che produce cortisolo e può provocare il diabete. Anche in questi casi, la persona è seguita attentamente dall’endocrinologo». Prima di entrare nel merito della malattia, lo specialista puntualizza la sostanziale differenza fra complicazioni e comorbidità che accompagnano la persona che soffre di diabete di tipo 2: «Le complicazioni del diabete mellito sono problematiche patologiche inerenti alla patologia stessa. Vale a dire: sono strettamente legate alla sua natura. Per contro, quando parliamo di comorbidità in senso stretto intendiamo la presenza simultanea di due o più condizioni mediche o disturbi dell’individuo, siano essi malattie fisiche o mentali. Per quanto attiene al monitoraggio e alla cura di quelle che sono state definite complicazioni dovute al diabete mellito, il dottor Marini specifica il loro comun denominatore di origine vascolare: «Le complicazioni inerenti puramente il diabete sono conseguenza di danni macro vascolari e sofferenza di grandi vasi (arteriosclerosi), come pure sofferenza dei piccoli vasi (secondo la regione colpita: retinopatia, nefropatia, neuropatia)».

Tom Knudsen

Maria Grazia Buletti

Egli sottolinea che le complicazioni possono essere presenti al momento della diagnosi del diabete mellito, e aumentare con la sua evoluzione: «È possibile ritardarne l’insorgenza o rallentarne l’evoluzione trattando l’iperglicemia, la dislipidemia, l’ipertensione, ed esistono farmaci specifici che potrebbero rallentare l’evoluzione della nefropatia. Mentre terapie moderne con l’uso del laser e iniezioni intraoculari migliorano la retinopatia e la visione, nell’ambito della prevenzione il buon controllo delle glicemie e dell’ipertensione riduce il rischio di problemi oculari». Sta di fatto che la sorveglianza attenta del diabetico ha generato un calo mondiale dell’insorgenza di infarto, ictus e amputazioni degli arti inferiori. Per tutte queste ragioni e per la complessità della presa a carico: «Il paziente deve recarsi dal medico dalle due alle quattro volte all’anno per controllare lo stato di nutrizione, il livello di attività fisica, la gestione stessa del diabete, il bilancio cardiovascolare, con particolare attenzione allo sviluppo di complicanze classiche». Quindi, a ogni visita, il medico avrà scrupolo di prestare attenzione ai seguenti fattori: «Misurazione della pressione arteriosa, esame dei piedi (ndr: vedi piede

diabetico nel numero 47 di «Azione», del 20 novembre 2023), esame del diario glicemico del paziente, misurazione dell’emoglobina glicata che dà una stima dell’esposizione media del sangue alla glicemia nell’arco degli ultimi due o tre mesi». E ancora: «Controllo del profilo di lipidi, colesterolo e trigliceridi, esami metabolici generali, esame delle urine per valutare la presenza di proteine, tutto questo almeno due volte all’anno, secondo la gravità del caso». Tra complicanze e malattie concomitanti, il diabete si conferma una patologia che esige una presa a carico sanitaria interdisciplinare, concomitante alla responsabile autodeterminazione del paziente lungo tutto il suo percorso di cura: «Un paziente che va seguito anche psicologicamente, in quanto proprio l’attenzione e i controlli, come la glicemia, che egli stesso è chiamato a monitorare, possono talvolta indurlo a percepire una certa frustrazione dovuta alla grande medicalizzazione». Nel quadro della prevenzione delle complicazioni, gioca un grande ruolo lo screening per la cardiopatia vascolare che comprende angina, infarto e insufficienza cardiaca: «Anche su questo punto, la banca UpToDate è chiara guida per il curante nel consigliare

l’esame cardiovascolare e il controllo della pressione arteriosa, senza dimenticare la raccolta dei sintomi cardiaci o respiratori, l’anamnesi del fumo, il controllo della gestione del peso, l’attività fisica, il profilo dei lipidi e un approfondimento cardiologico con prove da sforzo ed ecografia, secondo il bilancio di rischio nella misura degli eventuali sintomi presenti. Anche la funzionalità sessuale è un elemento importante, segnale dell’eventuale problematica della micro circolazione delle arteriole». Oltre alle complicazioni micro vascolari e neuropatiche, e delle coincidenti ipertensione, obesità, dislipidemia, cardiopatia aterosclerotica, vi sono comorbidità «in senso proprio», presenti alla diagnosi o che si sviluppano nel decorso del diabete mellito: «Parliamo ad esempio di sordità, apnee del sonno, fegato grasso (con rischio di evoluzione in cirrosi o tumore epatico), anemia (anche correlata a deficit di vitamina B12), parodontite (piorrea) che è una patologia degenerativa delle gengive da curare, pena la perdita dei denti, malnutrizione e via dicendo». I disturbi cognitivi possono anch’essi essere stranamente correlati al diabete mellito: «Fino ad arrivare al-

la demenza». Ansia e depressione, distress diabetico («stress e frustrazione») completano il quadro con «un senso di oppressione dovuto, per l’appunto, alle responsabilità del paziente di attenzione alla malattia e autocura». Marini conclude con un altro elenco di complicazioni che possono accompagnare questa complessa malattia, anche se non si è ancora ben compreso il motivo: «Possono coesistere anche i disturbi alimentari come anoressia e bulimia, possono sopraggiungere fratture a causa dell’osteoporosi più incipiente, mentre alcuni studi segnalano un aumento del rischio per tumore epatico, pancreatico, e a utero, colon, retto, mammella e vescica». Va sottolineato che questo rischio è piuttosto legato all’obesità. «Il diabetico di tipo 2 ha un aumento del rischio di mortalità per cancro. Pare però che migliorando il profilo glicemico e quello dell’emoglobina glicata, questo diminuisca». Riassumendo, tanti sono i fattori di rischio che si possono contenere con una buona igiene di vita: «Attività fisica, alimentazione sana e peso corporeo nella norma, niente fumo: sono tutti elementi che possiamo influenzare per evitare di dover poi curare, un giorno, il diabete mellito e le sue complicazioni». Annuncio pubblicitario

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Anno LXXXVII 15 gennaio 2024

SOCIETÀ

«Ma mamma, lo fanno tutti!»

Adolescenti ◆ Comportamenti irragionevoli e a volte pericolosi sono tipici dell’età, ma i ragazzi quanto subiscono la pressione e l’influenza dei coetanei? E come devono comportarsi i genitori? Ne parliamo con la psicoterapeuta Elisa Tommasin Alessandra Ostini Sutto

L’adolescenza è una fondamentale quanto delicata e turbolenta fase dello sviluppo psico-fisico della persona. «È il periodo della pubertà, dell’acquisizione della sessualità, dell’ultimo sviluppo della corteccia prefrontale, ma anche della scoperta e della costruzione della propria identità, come singolo, come membro della comunità e della specie. Gli adolescenti, inoltre, si confrontano con tematiche filosofiche profonde: il senso della vita, la morte, i limiti e la sfida a questi ultimi, il senso dell’essere, l’etica e la morale» spiega la psicologa e psicoterapeuta Elisa Tommasin. In questo percorso, lungo il quale un bambino diventa un individuo autonomo e indipendente, è fisiologica una separazione dalla famiglia di origine a favore del gruppo dei pari, all’interno del quale sperimentare, inventare e imitare nuovi ruoli e nuove forme identitarie. Se sentirsi parte di un gruppo in adolescenza è fondamentale, è pur vero che ciò può al contempo portare a comportamenti potenzialmente rischiosi. Le condotte irragionevoli e pericolose che – a volte – gli adolescenti adottano, oltre a essere manifestazione di un pensiero a corto raggio, possono essere influenzate dalla pressione esercitata dai coetanei o dalla volontà di non essere diversi da loro. Elementi che il ragazzo può non essere in grado di contrastare, anche perché la corteccia prefrontale – la parte del cervello che ci permette di controllare istinti ed emozioni per evitare di metterci nei guai – conclude la propria maturazione solo verso i 20 anni. Di compagnie, influenze, propensione al rischio e ricerca di sensazioni forti in adolescenza e dell’importanza, da un punto di vista genitoriale, di mantenere aperto il dialogo, abbiamo parlato con Elisa Tommasin, specializzata in psicoterapia psicodinamica individuale. «Lo fanno tutti» è un’affermazione con cui i genitori di figli adolescenti si trovano spesso confrontati. Qual è l’importanza del gruppo in adolescenza e perché per i ragazzi è importante uniformarsi a esso? Il gruppo è l’elemento chiave in questa età. Per potersi svincolare e smarcare dal gruppo familiare, l’adolescente necessita di trovare un altro gruppo di riferimento, all’interno del quale poter ricercare nuovi parametri, modelli e stimoli che lo aiutino a crescere e a trovare la sua strada fisica e identitaria. Il gruppo offre sia protezione e riparo sia spazio di innovazione e sperimentazione: si può essere unici e diversi tutti assieme nello stesso modo, in quel costante coacervo di paradossi in cui l’adolescente è immerso. Quanto dura, in genere, e come evolve questa fase? Più passano gli anni, più il ragazzo si forma come giovane adulto e può, così, dipendere meno dall’appartenenza a un gruppo: la sua identità è più solida, i punti nodali sono stati strutturati, l’infanzia è finalmente alle spalle, il suo ruolo e il suo essere gli sono finalmente più chiari. Tornando alla fase del gruppo, quali sono gli aspetti positivi dell’appartenenza a esso? In una fase in cui la famiglia va messa un po’ in disparte, in quanto sono

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Il gruppo ha una grande importanza durante l’adolescenza, è lo spazio di sperimentazione e innovazione dove i ragazzi possono confrontarsi con i loro pari, uniformarsi o distanziarsi. (Freepik)

troppi i richiami al ruolo di figlio e bambino presenti in essa, il gruppo dei pari offre un nuovo ambito di confronto e quotidianità all’interno del quale i ragazzi trovano persone che si stanno confrontando con le medesime questioni (filosofiche e ordinarie) e che stanno affrontando le stesse sfide a tutti i livelli (emotivo, fisico, sessuale, ideativo). Ciò offre sia la possibilità di imitare, uniformarsi, usare l’altro a modello, sia quella di compararsi, distanziarsi e differenziarsi: il gruppo dei pari offre i punti di riferimento, positivi e negativi, indispensabili in questa nuova fase della vita. Quali sono, invece, gli effetti sui ragazzi che non riescono a sentirsi parte di un gruppo? Non riuscire ad avere il proprio gruppo di appartenenza può portare a profondi sentimenti di solitudine, può far sentire diversi e sbagliati, si vive l’esclusione e l’emarginazione. Nei casi più gravi, tale situazione può portare a sviluppare sintomatologie ansiose, fobiche o depressive: l’accettazione e il confronto con l’altro è parte integrante e fondante della crescita e della persona, a tutte le età, ma soprattutto in adolescenza, momento nel quale condividere e sperimentare sentimenti di comunione è ancora più pregnante. D’altra parte, quali possono essere i rischi connessi alle dinamiche di gruppo, in particolare in materia di influenze, consumi e comportamenti? Ovviamente, non in tutti i gruppi si instaurano le medesime dinamiche virtuose. L’adolescenza è, come detto, anche la fase della sperimentazione, delle pulsioni incontrollate, di un’emotività esplosiva che non trova una riflessività capace di contenerla (la corteccia prefrontale cui si accennava è proprio la sede cerebrale deputata al pensiero riflessivo, all’elaborazione del giudizio in termini di costi e benefici, quindi alla capacità di sospendere l’azione in favore della ponderazione). Risulta perciò molto più facile imitare comportamenti e dinamiche magari disfunzionali, adottare condotte pericolose, devianti o semplicemente controproducenti per il proprio sviluppo: la capacità di riflettere sulle

conseguenze a lungo termine è davvero scarsa in tale fase di vita. Inoltre, il bisogno di appartenere a un contesto gruppale e la paura dell’esclusione possono sopravanzare il timore e le preoccupazioni riguardanti comportamenti o consumi. In tema di comportamenti e dinamiche disfunzionali, in alcuni fatti di cronaca si parla non di gruppo ma di branco; quando un gruppo diventa branco? Nel racconto dei fatti di cronaca il termine branco viene usato per sottolineare una deriva che possono prendere le dinamiche gruppali, soprattutto quando si ha a che fare con pulsioni ed emozioni particolarmente intense e profonde. Il branco è un gruppo che agisce come fosse un unico grande individuo, con un solo pensiero e una sola spinta emotiva: con tale termine si vuole sottolineare la perdita di individualità e la potenza della mente gruppale. Ci sono degli strumenti dei quali dovrebbero disporre i ragazzi per non incorrere in rischi eccessivi in tema di consumi e comportamenti? Difficile trovare una regola che valga per tutti. Ovviamente, vi sono contesti socio-economici e ambientali che risultano più a rischio di altri; così come fragilità e insicurezze caratteriali, personali e familiari che non offrono gli stessi parametri di stabilità, protezione e rassicurazione. Un punto fondamentale, a mio parere, sarebbe quello di curare, educare e sostenere i gruppi in quanto tali, oltre che i singoli individui, sviluppando momenti di scambio e apprendimento nelle scuole e negli ambienti di lavoro. Gli adolescenti devono trovare adulti in grado di limitarli e capirli: è fondamentale permettere loro anche di sbagliare e deragliare, restando sempre pronti ad afferrarli con risolutezza quando diventa necessario. Abbiamo detto che in adolescenza i ragazzi devono potersi separare dai genitori per diventare persone autonome e indipendenti; come cambia il rapporto figlio-genitore? La conflittualità sarà spesso profonda e anche brutale: i genitori vanno

demonizzati e denigrati perché altrimenti sarebbe difficile separarsi da qualcuno che si ama profondamente e incondizionatamente. Il rapporto con i genitori sarà, dunque, caratterizzato dall’ambivalenza: momenti di grande tenerezza e vicinanza infantile, saranno circondanti da momenti di lotta e presa di distanza, moti di ribellione e differenziazione. Quali consigli si sente di dare ai genitori per interagire con i propri figli e aiutarli a crescere in questa fase della loro vita? Innanzitutto, è sempre importante ricordare che è solo una fase: il compito dei genitori durante l’adolescenza dei figli è quello di resistere. Resistere agli attacchi, alle provocazioni, alle sfide, al dolore della separazione, ai cambiamenti radicali, all’estraneità che si prova spesso rispetto ai figli. L’adolescenza mette tutto in discussione, cambiano le persone, i legami e le dinamiche. I genitori devono continuare a essere un polo di accudimento e autorevolezza: i ragazzi vanno ascoltati, accolti e sostenuti, ma anche limitati, sgridati, regolati e contenuti. Ma ancora più importante è ciò che è stato seminato prima: essere riusciti ad avere una relazione votata alla comprensione e al dialogo, alla ferma autorevolezza e alla stabilità (emotiva, affettiva, quotidiana), permetterà di sopravvivere alla fase della resistenza e di raccogliere i frutti di tale semina non appena le fasi più burrascose si placheranno. Come si devono infine comportare i genitori se scoprono o dubitano che i propri figli hanno dei comportamenti che non approvano e/o che possono essere rischiosi per la loro salute? Fondamentale parlarne con i diretti interessati: manifestare dubbi e preoccupazioni è il primo passo per agire in modo chiaro, diminuendo il rischio di essere vissuti come persecutori. Importante è poi segnalare le proprie inquietudini a professori, docenti mediatori e di sostegno, figure terapeutiche: la resistenza è da sempre un lavoro di rete e in rete; serve un gruppo per rispondere a un gruppo.

Imprenditrici si diventa

Equi-Lab ◆ Un atelier per stimolare e sostenere progetti al femminile

In un contesto internazionale sempre più orientato all’innovazione e all’empowerment femminile, EquiLab – centro ticinese di competenze per la conciliabilità vita-lavoro e la valorizzazione delle differenze di genere – presenta un Atelier di formazione pensato per aspiranti imprenditrici, neo-imprenditrici e, più in generale, donne alla ricerca di un reindirizzamento professionale, in situazione di sottoccupazione o senza attività lavorativa. L’obiettivo principale del progetto «Imprenditrici si diventa» è stimolare e rafforzare il potenziale imprenditoriale femminile ancora latente o non completamente espresso in Ticino. Attraverso l’offerta di un percorso di formazione orientato ai bisogni specifici delle donne, Equi-Lab punta a fornire competenze e strumenti capaci di trasformare le idee in azione, così da alimentare la crescita imprenditoriale femminile anche nel nostro Cantone. Dal 30 gennaio al 9 aprile 2024, le partecipanti avranno, dunque, l’opportunità di immergersi in un percorso articolato su otto settimane. L’approccio didattico, curato da Ajlin Dizdarevic, che vanta oltre 20 anni di esperienza nel campo dell’imprenditorialità, della consulenza alle start-up e dell’innovazione, è pensato per essere interattivo, creativo e favorire la condivisione delle esperienze. Dalle basi dell’imprenditorialità alla presentazione finale dei progetti, ogni settimana si approfondiranno tematiche cruciali per il successo imprenditoriale. Il focus è interdisciplinare ed è prevista l’esplorazione dell’ecosistema di supporto alle start-up presente sul territorio, oltre alla possibilità di far capo ai servizi di consulenza di Equi-Lab. Chi può partecipare? Tutte le donne con una buona conoscenza della lingua italiana e il desiderio di avviare un nuovo progetto di vita e professionale, anche se non ancora ben definito. La quota di partecipazione è di CHF 395.–, con la possibilità di richiedere una delle 5 borse di studio disponibili. Il corso avrà luogo in presenza, per garantire un’esperienza immersiva e coinvolgente. Per questa prima edizione, è previsto un numero massimo di 20 partecipanti. Informazioni Chi volesse partecipare all’atelier può inviare il proprio CV, completo di lettera motivazionale, entro il 21 gennaio a: info@equi-lab.ch. www.equi-lab.ch/formazione/ imprenditrici-si-diventa

Il percorso di formazione di otto settimane è orientato ai bisogni specifici delle donne.


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Fieno benedetto

Pubblicazioni ◆ La nuova uscita nella collana «le Voci» del Vocabolario dei dialetti della Svizzera italiana è dedicata al fieno Stefano Vassere

Talune voci tratte dal benemerito «Vocabolario dei dialetti della Svizzera italiana», veri e propri saggi di cultura del passato collettivo locale, assumono da qualche anno la forma di un volume autonomo, componendo per stazioni tematiche una sorta di puntuale enciclopedia del tempo che fu, senz’altro utile per farsi un’idea di come si vivesse da queste parti fin verso la metà del secolo scorso. Ora viene pubblicato Fieno, curato da Dafne Genasci e con un’appendice Falce e falciola scritta da Michele Moretti. Certo fieno è parola, come altre della collana, che si potrebbe dire pregna della sua storia, piena di connotazioni anche simboliche. E scriverne è come aprire un mondo pieno di cose, di pratiche e di attribuzioni simboliche. E di curiosità: a partire da un esordio di stranezza suprema, dove il lettore apprende che il fieno si chiama nei vari dialetti della regione perlopiù fén o fégn, ma che a Isone l’esito è il sorprendente fía, «un mucchio di fía» in pratica.

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Fén, fégn, fía: nel nostro territorio è stato l’elemento centrale dell’economia tradizionale al quale si legano modi di dire, proverbi e usanze Certo una materia del genere, che riguarda l’alimentazione del bestiame e quindi anche, indirettamente e giù giù per la filiera, la produzione di formaggio e latticini, conviene prenderla molto alla larga. Per dare un’idea, converrà dire che non bastava portare le mucche sui prati perché mangiassero l’erba («man mano che la neve si scioglieva e l’erba cresceva, si portava il bestiame a pascolare dapprima sui monti maggenghi, poi sugli alpeggi»): bisognava assicurare sussistenza di riserva, tagliando, raggruppando, trasportando, immagazzinando il prodotto, secondo consuetudini che ne assicurassero il consumo anche nei periodi meno favorevoli. La «fabbrica» ha manifestazioni di varia na-

tura e interesse: la frequenza dei tagli, due, tre, quattro volte a stagione (c’è chi si azzarda a contarne cinque, in talune masserie del Luganese); i mezzi di trasporto (una delle attività più spettacolari della pastorizia dell’epoca, ne sono testimoni parecchie fotografie nel volumetto); gli usi alternativi, come giaciglio, come imbottitura, puntando sul carattere assorbente dell’insieme. La pratica ha anche sue implicazioni sociali: a tagliare il fieno sono chiamati anche fienaioli d’oltre confine, bergamaschi, bresciani, valtellinesi. E una divisione del lavoro era basata sui generi: «La falciatura era generalmente compito degli uomini, mentre donne e bambini si occupavano delle operazioni successive di spargimento e rastrellatura». Curiosa, tra l’altro, la pratica dell’accesso al fieno fuori giurisdizione, il fieno selvatico falciato «sui terreni patriziali, poco fertili» ma soprattutto appartenenti alla comunità nel suo insieme, collettivi: accaparrarseli prevedeva raggiungerli di buon mattino, e, nel caso altri avessero avuto la stessa idea, sottoporsi al rito del sorteggio e affidarsi alla fortuna. Infine, l’attività della fienagione è anche colma di valori, di credenze e di simboli. L’immagine dell’accumulare il fieno è metafora per l’arricchimento e il successo negli affari; avere il fieno nella testa vuol dire avere poco senno; capitava che i giovani del villaggio facessero i bulli con le ragazze caricandosi al loro cospetto di trasporti sempre più gravosi. E poi c’è una leggenda molto bella che narra di tre donne che cercando di rubare del fieno cadono nel fiume e «da allora, di notte, in quel punto del fiume si vedono tre lumicini che si rincorrono». E ancora, al fieno sono legate storie di spiriti, folletti, donne senza testa che vagano per le contrade. Simbologia non certo secondaria sarà quella legata al credo religioso: i divieti della falciatura nei giorni festivi, le benedizioni del fieno, il fieno tagliato per i frati e addirittura per i cammelli dei re Magi.

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Manuela Mazzi

Il gabbiano nel mirino e in punta di penna

Un visibile narrare ◆ Focalizzazione e punti di vista: che si scriva con le parole o con la luce, gli avvisi di pericolo sono identici Manuela Mazzi

«Un gabbiano spesso può fare alzare lo sguardo al cielo, o farlo abbassare a terra, o volteggiare sopra la foresta di un’isola vergine o tra i grattacieli di New York distogliendo la nostra attenzione da ciò che gli sta attorno; vale a dire che, ovunque, tutto il mondo potrebbe rischiare di diventare il gabbiano». Non solo di albe e tramonti, scrivevamo nel primo pezzo di questa serie («Azione», 17 gennaio 2022), ma anche di gabbiani, indicandoli, tra mille e mille altre immagini, quali topos letterari molto diffusi, soprattutto nella poesia. Chi scrive in queste pagine li adora, s’intende. D’appassionati di Corto Maltese e di Hugo Pratt, in generale, non si potrebbe farne a meno, soprattutto quando si passeggia lungo le fondamenta di Venezia. Ovviamente, di gabbiani, ne abbiamo molti anche qui, sulle rive del Verbano e del Ceresio, ma i nostri sono piccini, lacustri (Larus canus), e per quanto siano belli, quelli di mare lasciano chi li ama con più facilità senza fiato, e con lo sguardo inchiodato al volo fermo di un Larinae Rafinesque gigantesco. Punti di vista, o… focalizzazioni diverse. Il punto focale è di fatto uno dei fattori determinanti per far parlare

una fotografia, una narrazione, una storia, un’opera, con la nostra «voce» (il nostro «sguardo»; ricordiamo ai lettori che questa rubrica cerca di valorizzare una commistione tra fotografia e scrittura, mostrando come l’aspetto formale dell’una possa riverberarsi nell’aspetto formale dell’altra). Dal dizionario, focalizzare significa: «Individuare e definire con chiarezza e precisione i vari aspetti di una questione, di una situazione». Secondo noi possono essere due gli approcci da adottare a confronto di un’opera letteraria: quello più classico (di cui si parla spesso) sottolinea lo sguardo del narratore (cioè proprio il punto di vista; focalizzazione interna, o esterna, eccetera), ma in realtà vi è anche da tenere in considerazione il più generico focus, o anche detto punto focale (gergo fotografico) che riguarda la cosiddetta fabula. Quest’altro approccio si divide a sua volta in due aspetti: uno macro, e molti micro. La storia (conflitto; nucleo drammatico), e le scene. Resta tuttavia e prevalentemente una caratteristica formale più che contenutistica, per restare nell’analogia con la tecnica fotografica che non mira solo al soggetto da inqua-

drare ma alle parti dell’inquadratura da mettere in risalto «mostrando» in modo più nitido o più sfocato questo o quel dettaglio. Tornando al gabbiano, lo sguardo di chiunque tenderà a seguire la distrazione si lascerà catturare da ciò che si muove, attirerà l’obiettivo di chi cerca il «disturbo che attrae», come capita quando in un locale casca una padella per terra e tutti si girano da quella parte: bisogna stare molto attenti ai gabbiani! Che non sono necessariamente gli «uccelli bianchi» ma tutte quelle informazioni attraenti che vorremmo usare perché magari le abbiamo appena scoperte e ci sembra che potrebbero interessare a tutti, ma che di fatto non hanno nulla che vedere con la storia che stiamo raccontando. Questi «gabbiani» distolgono l’attenzione, rompono la tensione, e infine potrebbero anche annoiare il lettore, perché se uno va a Londra possiamo ben immaginare che voglia vedere altro che non i piccioni sui gradini della cattedrale di San Paolo (eh, sì: occorre stare attenti non solo ai gabbiani ma anche ai piccioni, che sono capaci di riempire le fotografie di frotte di turisti che non si accorge-

ranno mai della Madonnina in cima al Duomo di Milano). Nei romanzi di aspiranti autori si trovano molto spesso paragrafi interi di informazioni locali (detti didascalici) circa la costruzione di quel tal immobile, la pianta più antica del talaltro giardinetto, la storiella folcloristica del tombino sulla tal strada, il colore perfetto delle mutande del prete degli anni Cinquanta,… e questo perché mentre si fanno ricerche si tende ad accumulare un sacco di informazioni che scopriamo in quel momento e che – restandone affascinati – ci sembra importantissimo far conoscere anche ad altri, e alle quali ci pare di non poter proprio rinunciare, dimenticandoci il punto focale della storia che stiamo scrivendo: e così il nostro gabbiano ci distoglie dalla storia, dal personaggio, dal dialogo. Ah!, no, non sempre ci distoglie dal dialogo, anzi, a volte lo usiamo proprio come nido perfetto. A tal proposito: attenzione a non far entrare gabbiani e piccioni nei dialoghi dei vostri personaggi, perché a quel punto il disastro stilistico è certo. Queste considerazioni sono solo tali e non regole, si intende, più che altro segnali di attenzione, avvisi di

pericolo. Tutto dipende sempre dagli obiettivi, dal genere, dalla struttura, dalla voce, dalla luce. Noi, ad esempio, abbiamo amato molto sia I miserabili di Victor Hugo, sia Moby Dick di Herman Melville, dove il primo infarcisce la storia come un panino a multistrati infilandoci schede appassionanti sulle fogne di Parigi, sull’architettura dei conventi, sulla battaglia di Waterloo, eccetera, mentre il secondo pare talvolta un saggio enciclopedico sulla balena, che comprende peraltro uno strepitoso capitolo dedicato al «bianco»: erano però anche romanzi ottocenteschi; oggi si usa meno, ma non per questo non potrebbero essere altrettanto belli. Tocca avere però quella forza lì. Oppure si potrebbe scegliere di scrivere un libro paesaggistico dove la storia diventa secondaria. Per cui il «gabbiano» sarà altro. L’importante è non perdere il punto focale, che soprattutto nella cinematografia viene chiamato tecnicamente: idea di controllo. Ovviamente anche il punto focale sottostà o, per meglio dire, interagisce con tutti gli altri aspetti (luce, soggetto, storia, movimento, narratore, montaggio…) ma come si suol dire, un saltello per volta.


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Da Toro Seduto a Cavallo Pazzo,

Reportage ◆ Ancora oggi il popolo perseguitato dall’Uomo Bianco continua a rivendicare la propria terra, ai piedi della catena montuosa B Manuela Cavalieri e Donatella Mulvoni, testo e foto

Le Badlands dove furono ambientati le avventure del tenente John Dunbar e il suo incontro con i Lakota nel più celebre dei western, Balla coi lupi, diretto e interpretato da Kevin Costner (1989).

«Le Black Hills mi appartengono. Se i bianchi tentano di rubarle, combatterò». Era questo il patto che aveva impresso sul cuore l’intrepido Tatanka Iyotake, passato alla storia come Toro Seduto. Per il condottiero dalle lunghe trecce nere, la resistenza del popolo Lakota contro il Governo degli Stati Uniti passava da questi clivi tinti di verde scuro. I nativi le chiamano He Sapa, sono «il cuore di tutto ciò che esiste». Quello che si dischiude davanti agli occhi dei viaggiatori è un maestoso ecosistema di alture ricoperte di pini, conifere e immense praterie. La catena montuosa si innalza dalle Grandi Pianure del Sud Dakota e si estende fino in Wyoming, nel nord-ovest degli Stati Uniti. È lunga oltre duecento chilometri, con vette che arrivano a duemila metri. Il nome – le Colline Nere – deriva da una vegetazione così fitta da apparire assai tenebrosa in lontananza. Le Black Hills appartenevano agli Oceti Sakowin, la confederazione di tribù alleate di lingua Lakota, Dakota e Nakota, che i rivali avevano soprannominato Sioux, i serpentelli. Un popolo in lotta per la propria esistenza sin da quando gli europei «scoprirono» questa terra e decisero di impossessarsi di ogni suo metro. Un assoggettamento progressivo, spietato, culminato nella seconda metà dell’Ottocento con la famigerata Gold Rush, la corsa all’oro nelle Colline. A lanciarla, nel 1874, fu la spedizione perlustrativa di un migliaio di uomini guidati dal tenente colonnello George Armstrong Custer e la maledetta scoperta di pepite. Fu la fine di

tutte le garanzie concesse agli indiani Sioux dal Governo Usa con il Trattato di Fort Laramie, stipulato sei anni prima, che assicurava la proprietà delle Black Hills alle tribù. I minatori sciamarono nelle colline, facendo razzia di oro, ma anche di altre preziose risorse. Il Governo americano provò a mettere una toppa solo nel 1980, quando la Corte Suprema stabilì come compenso dell’espropriazione, un risarcimento di centocinque milioni di dollari. Il fondo, mai accettato dai Sioux, è lievitato oltre il miliardo. Le colline non sono in vendita, appartengono ai nativi e ai nativi devono essere restituite. Oggi a deturpare l’area sono i siti

minerari abbandonati, che avvelenano acque e suolo con materiale radioattivo, come denunciano gli attivisti. A questi temi, tra l’altro, è dedicato il bellissimo documentario dello scorso anno Lakota Nation vs. United States coprodotto dall’attore Mark Ruffalo sulla lotta degli indiani della nazione Lakota Dakota Nakota contro il furto della terra, il martirio degli indigeni e il razzismo endemico. Il viaggio in questa regione dal fascino ancestrale inizia con le Badlands che delle Colline Nere sono considerate la porta di accesso. I calanchi – le «terre cattive» – schiudono un paesaggio spettacolare, fatto di canyon, pinnacoli e guglie naturali striate di

viola e giallo, marrone e grigio, rosso e arancione, che si estende per quasi centomila ettari. Mozzafiato la Badlands Loop State Scenic Byway, un percorso che regala chilometri di pura bellezza. Impossibile non restare a bocca aperta dinanzi alla magnificenza silenziosa di questi panorami marziani. Proprio qui furono ambientate le avventure del tenente John Dunbar e il suo incontro con i Lakota nel più celebre dei western, Balla coi lupi, diretto e interpretato da Kevin Costner tra giugno e novembre del 1989. Man mano che ci si avvicina alle Black Hills, la vegetazione diventa sempre più rigogliosa. Questa fetta d’America è territorio del bisonte. Per

i nativi «l’American buffalo» rappresentava il centro dell’economia di sostentamento: una miniera preziosa di cibo, pelli, utensili, grasso. Un tempo le mandrie dominavano le Colline, adesso nei parchi ne restano in libertà meno di duemila esemplari. Gli allevamenti sono per lo più ricettacolo di turisti che cercano di rivivere le emozioni del Far West. Gli stessi esploratori che fanno la fila per vedere il patriottico Mount Rushmore National Memorial. La più nota delle attrazioni delle Black Hills, attira ogni anno fiumi di gitanti pronti a immortalare con macchine fotografiche e telefonini i volti giganteschi – alti diciotto metri – in-

I Powwow della Oglala Lakota Nation

Una replica in miniatura del progetto finale del monumento a Cavallo Pazzo. Non è ancora chiaro quando l’opera verrà ultimata. I lavori sono finanziati da fondi privati.

Il momento migliore per visitare le Black Hills in South Dakota è il mese di agosto, quando nella riserva di Pine Ridge si tiene il tradizionale Oglala Lakota Nation Powwow, uno dei più importanti d’America. Tra gli indiani d’America, i Powwow sono cerimonie molto sentite. Questi festival, amatissimi anche dai turisti, celebrano la cultura e la storia dei nativi americani con danze, musiche e figuranti vestiti in abito tradizionale. Tra le tribù indigene, la danza è sempre stata una potentissima forma di narrazione collettiva. Essa tramandava non solo le gesta di una battaglia o di una battuta di caccia, ma anche la quotidianità. Il Powwow si svolge solitamente all’a-

perto, dove viene allestita una sorta di arena al cui interno avvengono le danze rituali in una esplosione di suoni, percussioni, canti e colori. Gli abiti e i copricapi elaboratissimi, indossati dai danzatori e dai cantanti vengono chiamati «regalia» e sono realizzati con tecniche perpetuate da generazioni. Per i nativi questi eventi rappresentano fondamentalmente anche un momento di condivisione e riflessione. Sono però soprattutto un modo per educare i più giovani e tramandare le loro preziose tradizioni alle nuove leve. In queste manifestazioni popolari non mancano le bancarelle che servono i tipici «Indian tacos», ovvero il gustoso pane fritto solitamente farcito con carne, fagioli e verdure.


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TEMPO LIBERO

nella terra dei Sioux

Black Hills che si innalza dalle Grandi Pianure del Sud Dakota e si estende fino in Wyoming, nel nord-ovest degli Stati Uniti

cisi nella roccia dei presidenti George Washington, Thomas Jefferson, Theodore Roosevelt, e Abraham Lincoln. Il cosiddetto sentiero presidenziale, adornato con le bandiere di ogni Stato, accompagna gli avventori al punto perfetto da cui ammirare i quattro faccioni diventati oramai familiari nell’immaginario collettivo. L’opera, completata nel 1941, prese forma dopo quattordici anni di fatica e sudore di quattrocento operai. A firmarla, lo scultore Gutzon Borglum, un suprematista bianco che aveva lavorato anche con il Ku Klux Klan. Per il mondo conservatore si tratta di un santuario della democrazia, un simbolo dell’ingegno dell’uomo che domina la natura; per i nativi, null’altro che una profanazione dei monti sacri e una beffa visto che ognuno dei presidenti a suo modo è stato coinvolto nell’oppressione perpetrata dall’Uomo Bianco. Impossibile per i nativi dimenticare l’affronto che l’ex presidente Donald Trump osò nel 2020 quando la sua amministrazione organizzò in pompa magna una celebrazione della Festa dell’indipendenza proprio qui, ai piedi del Monte Rushmore. Decine di Lakota protestarono e furono arrestati dalle forze dell’ordine.

Il cruccio più doloroso è per gli indiani d’America l’inesorabile scomparsa dell’antico idioma. Tentare di salvarlo è vitale L’attuale inquilino della Casa Bianca, Joe Biden, sembra avere invertito la rotta con la nomina agli Interni della prima ministra nativa americana della storia, Deb Haaland. Un messaggio forte per i nativi americani, accompagnato dallo stanziamento di miliardi di dollari destinati ad alleviare la povertà radicata nelle riserve. Sono tanti i villaggi a punteggiare l’area che circonda il Mount Rushmore National Memorial. A pochi minuti, Keystone offre boutique di souvenir e piccoli caffè. Le atmosfere sono piacevoli e allegre, ma di sicuro artefatte. I negozi si rivelano spesso trappole per turisti, cui vengono offerte merci ammiccanti: dai cappelli da cowboy alle magliette di Cavallo Pazzo, Toro Seduto, Geronimo e Nuvola Rossa. Sulla stessa linea d’onda è il «parco tematico» di Deadwood, la storica cittadina un tempo ricettacolo di giocatori d’azzardo, fuorilegge e pistoleri di frontiera come Calamity Jane e Wild Bill Hickok. Quel che non manca in queste cittadine, però, sono i ristoranti in cui assaggiare il tipico pane fritto che accompagna la saporita carne di bisonte. La replica morale al paradosso storico e sociale del Monte Rushmore, svetta non lontano. Si tratta di un monumento ancora più titanico: il Crazy Horse Memorial, iniziato nel 1948. A progettarlo fu lo scultore Korczak Ziolkowski su invito del capo indiano Henry Standing Bear. La maestosità di questa scultura scalpitante nella roccia emoziona anche i più scettici. Il volto fiero e severo è quello di Tasunke Witko, guerriero della banda Oglala Lakota conosciuto come Cavallo Pazzo. Il nume tutelare delle Black Hills, passato alla storia per aver contribuito a sconfiggere Custer

Nelle vene di Mike Littleboy Sr. scorre il sangue di Cavallo Pazzo, a cui è imparentato per via materna.

e il Settimo Cavalleggeri nella sanguinosa battaglia di Little Bighorn in Montana del 1876, quando Sioux, Cheyenne e Arapaho massacrarono l’intero reggimento. Nato nel 1840, da ragazzo era conosciuto come Capelli Ricci. Secondo gli antichi racconti, a plasmarne l’esistenza fu una visione spirituale improntata all’umiltà. L’indomito Cavallo Pazzo non volle mai sottomettersi al dominio dell’uomo bianco e neppure si piegò al piano del governo americano di relegare i nativi nelle riserve. Morì a trentasette anni, pugnalato a morte alla schiena da un soldato. «Un guerriero il cui nome avrebbe fatto tremare la Prateria per trent’anni e la coscienza di tutta l’America bianca per sempre», così lo raccontava l’indimenticato giornalista Vittorio Zucconi, nel suo magnifico Gli spiriti non dimenticano (Mondadori, 1999).

Il Crazy Horse Memorial è in fieri e i tempi di realizzazione dipendono interamente dalla costante raccolta di fondi privati. Una volta completata, l’opera sarà alta 171 metri e lunga 195: quattro volte più grande della Statua della Libertà di New York. Per capire la portata del colosso, basti pensare che le orecchie del cavallo su cui monta il guerriero sono grosse quanto uno scuolabus. Oltre un milione di persone ogni anno paga il biglietto per arrampicarsi in autobus fino al sito per fotografare il volto altero di Crazy Horse e del suo destriero. Il complesso monumentale include sale espositive e un paio di teatri. Ma anche qui, il cortocircuito turistico è assicurato. Non mancano i negozi – carissimi – di souvenir in cui acquistare prodotti artigianali ma anche tepee e gli immancabili dreamcatcher, le reti acchiappasogni decorate

I quattro presidenti scolpiti nel Mount Rushmore National Memorial.

con piume e perline. Tra gli oggetti più venduti ci sono i gioielli d’argento con pietre turchesi, gemme sacre per i nativi, utilizzate sia come ornamenti sia come manufatti cerimoniali. In questa parte delle Black Hills non sorprendono le esplosioni dinamitarde necessarie per incidere la roccia. Specialmente a giugno e settembre, quando i turisti si godono le Night Blast, le deflagrazioni celebrative. Nonostante il volto scolpito sia di quelli cari alle popolazioni tribali, sono tanti a mal sopportare la violenza dell’uomo perpetrata ai danni della natura. E c’è chi denuncia la più grande delle contraddizioni: Cavallo Pazzo esecrò sempre la gloria, tant’è che aveva limitato l’ornamento del capo a una sola piuma. Addirittura, chiese di essere seppellito senza lapide. Tanta grandiosità, per gli attivisti, sarebbe insomma un insulto alla sua memoria. Crazy Horse non è l’unico «santino» a proteggere idealmente le Black Hills. Chiunque ami la storia nativa, si spingerà a rendere omaggio a un altro indimenticato condottiero, Red Cloud, ovvero Nuvola Rossa. Le sue spoglie mortali riposano in un cimitero adagiato su un piccolo promontorio nella riserva Lakota. Un luogo molto suggestivo, dominato da un silenzio infinito, interrotto solo dalle folate di vento che accarezzano l’erba. Sulla tomba gli avventori lasciano, come d’uso, piccole offerte votive: bocconi di cibo, perline, monete, pietruzze. Il camposanto fa parte della missione gesuita Holy Rosary a cui era annesso anche un collegio. Uno tra gli oltre quattrocento istituti religiosi nati nell’Ottocento con l’obiettivo dichiarato di annientare la cultura indigena e sradicarla dai piccoli nativi spesso strappati via con la forza dalle loro famiglie. In queste scuole i bam-

bini erano costretti a tagliare i capelli, a buttare gli abiti tradizionali e a rinunciare non solo alla lingua degli avi, ma anche al proprio nome, assumendone uno inglese. A rendere ancora più tragica questa vicenda, sono state le scoperte recenti di fosse comuni in cui venivano seppelliti i ragazzini indiani spesso morti di stenti e abusi nei convitti. A testimoniare anni di razzismo sistemico e sopraffazioni, resta la riserva di Pine Ridge, stretta tra le Praterie, le Badlands e le Black Hills. È una delle aree più povere d’America. Qui vivono ancora circa ventimila indiani Lakota della banda Oglala. Come Mike Littleboy Sr., un anziano dalla voce gutturale e gli occhi rimpiccioliti dalle rughe. La sua abitazione, sul ciglio della strada che attraversa l’enclave, è modesta come tutte le altre. Le chiamano «mobile home», costruzioni fragili di legno e lamiera, senza fondamenta. Molte sono abbandonate all’incuria. Nei dintorni il cibo è provveduto solo in piccoli «deli», botteghe di sopravvivenza che raccontano il deserto alimentare di queste terre: scatolame, dolciumi, piccoli attrezzi, ma niente frutta e verdura. Littleboy testimonia con la scritta sul cappello da baseball il suo «Indian pride». Il nome in lingua Lakota è Wakinyan Sna Mani. È un medicine man, uno sciamano. Nel cofano della sua auto c’è una vecchia scatola di legno, contiene la sua Čha nú pa, la tradizionale pipa usata nelle cerimonie sacre. Per i Lakota rappresenta il radicamento spirituale e identitario nella fede degli avi. «È importante praticare le nostre usanze, tramandare alle nuove generazioni il modo in cui preghiamo, la nostra percezione del sacro», dice Littleboy, che è spesso chiamato a officiare i riti ancestrali non solo tra i fratelli Lakota ma anche presso altre tribù. Prima di diventare sciamano è dovuto andare nel cuore delle Colline, da solo, ad aspettare la sua «visione», come fece Cavallo Pazzo. Per i nativi è un rito di passaggio esistenziale. «La ricerca è durata quattro giorni e mezzo. Quando sono tornato, la mia vita era completamente diversa». Oggi racconta di vivere seguendo le istruzioni che gli ha impartito la voce del Grande Spirito. Il cruccio più doloroso è per lui l’inesorabile scomparsa dell’antico idioma. Tentare di salvarlo è vitale. «È per questo che insegno ai giovani a pregare nella nostra lingua». Littleboy è un instancabile combattente per la causa. «In questi anni ne ho viste di tutti i colori. Ho parlato ovunque a nome del popolo Lakota: scuole, università, tribunali federali». Il governo, denuncia, continua a voltare le spalle. «Viviamo in condizioni terribili. I nostri figli, i nostri anziani vengono esclusi. È vergognoso perché la nostra gente verrà lasciata indietro». Ancora una volta. «È per questo che la lotta non è finita, dobbiamo continuare a combattere per proteggere la terra sacra e la sua gente». Nelle vene di Mike Littleboy scorre il sangue di Cavallo Pazzo, a cui è imparentato per via materna. «L’anima di Tasunke Witko è ancora qui, a custodire le Black Hills e i Lakota». Informazioni Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica.


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Un taccuino per accogliere liste e pensieri

Crea con noi ◆ Riutilizzando pagine di vecchi bloc notes si può realizzare una piccola agenda con una copertina personalizzata Giovanna Grimaldi Leoni

Oggi vi proponiamo un tutorial per dare vita, riutilizzando pagine di bloc notes e agende inutilizzate, a piccoli taccuini pensati per raccogliere liste, progetti e pensieri, con l’aggiunta di una copertina che li accolga e contenga tutti. Un oggetto molto decorativo per portare un tocco allegro nel quotidiano. Procedimento Prendete il cartoncino 34x17 cm con la parte bella rivolta verso il basso.

beige. Cucite l’etichetta su un pezzo di cartoncino e fissatela sulla patella del vostro porta taccuini con uno zig zag solo sui due lati corti. Rifinite a zig zag l’intero perimetro della vostra copertina. Per i taccuini formato A6, tagliate in due e piegate a metà i cartoncini preferiti per la copertina. Per le pagine interne utilizzate carta di vario tipo, tagliata nel formato A5, e piegata a metà. Inserite i fogli piegati nella copertina, se sporgono troppo, dipenderà dal quantitativo di fogli che userete, pareggiateli con un taglierino. Passate un filo di cotone al centro del vostro blocchetto per completare i vostri taccuini. Decorate a piacere. Segnate la metà del rettangolo (senza calcolare la patella) e praticate al centro due fori da cui farete passare i nastri da 60 cm che fungeranno da chiusura. Girate la copertina e incollate il cartoncino celeste al suo interno come in fotografia, in modo che sporga uniformemente da entrambi i lati. Piegate la sporgenza verso l’interno e decoratela a piacere. Inserite i taccuini preparati in precedenza e avvolgete la copertina con i nastri I vostri pensieri, liste e obiettivi hanno ora una casa accogliente in cui essere custoditi. Buon divertimento!

Applicate sul lato corto destro il cartoncino 10x17 cm sovrapponendolo di 3 cm. Incidete il cartoncino lungo la giuntura in modo da agevolare la piegatura. Stendete la colla vinilica sulla base, escludendo la sporgenza per la patella. Posizionate il tessuto a filo della giuntura, facendolo aderire bene. Lasciate asciugare la colla e tagliate la stoffa in eccesso. Ricamate la frase, il nome o la parola desiderata sul rettangolo di tessuto

Giochi e passatempi Cruciverba

Il granchio nella foto, è uno dei più grandi artropodi del mondo, quanto è lungo all’incirca? E dove vive? Scoprilo leggendo, a soluzione ultimata, le lettere nelle caselle evidenziate. (Frase: 7, 5, 2, 8)

ORIZZONTALI 1. Una consonante 3. Superiore di un monastero 8. Sono pari nello stile 10. Si «adopera» in America 12. Gravosi, pesanti 14. Prudente, avveduto 16. Operetta di Mascagni 17. Acido desossiribonucleico 18. Crostata in inglese 20. Fedeli, devote 21. Precetti 22. Una consonante 23. Le figlie di Temi 25. Uno strumento

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Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.

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27. Le iniziali del comico Siani 28. Homo... moderno 30. La matrigna di Elle 31. Macchietta civettuola VERTICALI 1. Pressappoco 2. Porte 4. La maggiore isola della Sonda 5. Un anagramma di «tana» 6. Il nome di Teocoli 7. Nel pomeriggio e nella sera 8. Le iniziali dell’attore Sperandeo

(I materiali li potete trovare presso la vostra filiale Migros con reparto Bricolage o Migros do-it)

Tutorial completo azione.ch/tempo-libero/passatempi

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• Blocco «Design paper set» A4 • Cartoncino spesso di recupero (per esempio dalla confezione di cereali) 34x17 cm • Tessuto jeans di recupero 36x19 cm • Cartoncino celeste 29,7x12 cm • Cartoncino con motivo a scelta 10x17 cm • Fogli di carta formato A5 • Colla vinilica • Forbice per stoffa e taglierino • Ago e filo da ricamo • Un pezzetto di tessuto beige 5x14 cm

Vinci una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una carta regalo da 50 franchi con il sudoku

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9 9. Felici, gioiose 11. Le iniziali della Clerici 13. Celebre moschea di Gerusalemme 15. Poesie classiche 18. In italiano e in tedesco 19. Le iniziali dello psicologo Morelli 20. L’amico di Topolino 21. Connessione 22. Il Paradiso... delle Alpi 24. Erano girini 25. Odino ne era il capo 26. Due vocali 29. Preposizione francese

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Soluzione della settimana precedente PICCOLE CURIOSITÀ – La parte più incavata della scarpa tra … Resto della frase: …TACCO E PUNTA SI CHIAMA FIOSSO

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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.


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Viaggiatori d’Occidente

di Claudio Visentin

Come diventare viaggiatori migliori ◆

È possibile diventare viaggiatori migliori? E come? Nei primi giorni dell’anno – un momento di bilanci e progetti – la domanda rimbalza su tutte le testate internazionali. Ma quando ho letto i diversi articoli, sperando di misurarmi con riflessioni filosofiche sul senso del nostro andare per il mondo, sono rimasto deluso; quel che ho trovato infatti è stata piuttosto una lista tignosa di consigli per spendere meno. Qualcosa s’impara sempre, si capisce, e qualche suggerimento verrà buono per viaggi futuri. Per esempio meglio evitare di volare a lungo raggio il venerdì: in quel giorno i danarosi manager cercano di tornare a casa per il fine settimana, di conseguenza la domanda cresce e i prezzi sono mediamente più elevati. Oppure si raccomanda di prenotare sempre l’auto a noleggio insieme al volo e non un paio di settimane prima della partenza, come

d’abitudine, quando i veicoli ormai scarseggiano, specie d’estate, e quindi costano di più. A volte però la ricerca del risparmio può diventare un’ossessione, tanto che qualcuno si spinge sino alle soglie dell’illegalità, come nel caso dello skiplagging (potremmo tradurlo come «viaggio nelle città nascoste»). Lo scorso anno (ma la voce circolava da tempo) alcuni viaggiatori hanno scoperto che a volte le tariffe aeree per una destinazione risultano più economiche, anche del 50 percento, se prenotate come scalo per un’altra; quindi sbarcano dopo la prima tratta del volo in quello che era sin dall’inizio il loro vero obiettivo, disertando l’imbarco successivo. Può sembrare una contraddizione, ma in realtà il prezzo del biglietto aereo dipende spesso dal mercato e dalla concorrenza, non necessariamente dalla distanza del volo; e quindi un viag-

Passeggiate svizzere

gio breve può essere più costoso di uno lungo. Due controversi siti web, Skyplagged e Kiwi, aiutano nella ricerca di queste possibilità. Ci sono ovviamente controindicazioni. Per cominciare si deve viaggiare con il solo bagaglio a mano, altrimenti questo sarà trasferito automaticamente sul secondo volo. Inoltre la pratica non è illegale in sé ma spesso è proibita da una clausola del contratto di trasporto che si firma acquistando il biglietto. Per questo alcune compagnie aeree, comprensibilmente irritate, hanno bandito per i prossimi anni dai loro voli alcuni viaggiatori per aver usato questo trucco. Non sempre l’ossessiva ricerca del prezzo migliore deriva da mancanza di mezzi; a volte è quasi un gioco, una sfida. Di certo non ha molto senso per chi ha già un buon stipendio e potrebbe impiegare meglio il

suo tempo libero. Oltretutto questo atteggiamento espone a parecchi rischi. Secondo Action Fraud, il centro di segnalazione della criminalità informatica nel Regno Unito, le frodi legate alle prenotazioni di vacanze online sono aumentate del 41 percento su base annua, con diverse tipologie: acquisto di prodotti inesistenti, falsi siti web di catene di alberghi o compagnie aeree e così via. Per questo, anche se il viaggio è per definizione un tempo speciale, apparentemente sottratto alle regole quotidiane, serve comunque buon senso. Per cominciare non aspettatevi la perfezione in un mondo imperfetto: meglio non dare niente per scontato (una coincidenza, una riunione eccetera), sottoscrivere una buona assicurazione di viaggio e prevedere ampi margini di tempo tra una tappa e l’altra. Soprattutto ricordate che le vacanze non sono beni prodotti in

serie, sostituibili e rimborsabili con facilità. Come ha scritto un ricercatore, Henry Harteveldt, il 2023 «ha portato il caos a un nuovo livello, mai visto prima», tra inondazioni, bufere di neve, incendi, ondate di calore, terremoti, guerre, scioperi (dei controllori di volo e di altre categorie). In questa situazione giocare all’agente di viaggio fai-da-te può essere divertente, ma rivolgersi a uno vero è senza dubbio più sicuro. Il vantaggio principale è avere un solo interlocutore se qualcosa va storto. Solo negli Stati Uniti quasi novantamila voli sono stati cancellati nei primi tre trimestri del 2023. E quando capita, l’albergo che vi attende vorrà comunque essere pagato, se non è parte di un pacchetto gestito da un’agenzia. Di regola, maggiore è il numero degli intermediari e degli interlocutori, maggiori saranno i problemi. Ne vale la pena?

di Oliver Scharpf

La ninfa Ancolie al bar del Kunsthaus di Zurigo ◆

I frequentatori del dancing Mascotte, nato il tredici gennaio del 1916 tra Bellevue e l’Opera e noto anche come Corso-Bar, ballando il mambo fino a tarda notte negli anni Quaranta, potevano incontrare con lo sguardo il murale surrealista di Max Ernst (1891-1976). O anche solo percepirne – tra un Mai Tai e l’altro, poltrone di Alvar Aalto in betulla e imbottiture zebrate – del murale situato in un separé-nicchia ben visibile dalla pista di ballo, le emanazioni erotico-floreali. «Il mago delle sottili palpitazioni» secondo il poeta René Crevel, nell’estate del 1934, a torso nudo su una scala a pioli, dipinge, con colori a olio, sull’intonaco, al primo piano di un palazzo affacciato sulla Sechseläutenplatz, la ninfa Ancolie. Staccata da quelle mura nel 1955, per decenni dimenticata nei depositi del Kunsthaus e riesumata solo dopo più di mezzo secolo per un restauro, ri-

trova, nell’ottobre 2021, un habitat simile al suo che dista, dal suo antro originario, nove minuti a piedi. Incastonato a meraviglia dentro il bar concepito – come tutto il museo sulla Heimplatz – da David Chipperfield, Pétales et jardin de la nymphe Ancolie (1934), 415, 5 x 531 cm, ne determina perfino la larghezza. E pone tutto il bar in asse a quest’opera salvata per un soffio dal gestore scimunito del dancing. Mi siedo il più vicino possibile, su un divanetto di pelle rosso mattone che contorna tutta la nicchia con sette tavolini in quercia, attorno ai quali, ci sono delle sedie verde ascot. Ordino un espresso e studio la ninfa Ancolie al bar del nuovo Kunsthaus di Zurigo (423) nel crepuscolo invernale. Orario prescelto per ritrovare magari la magia di Max Ernst del quale ho dei quadri-giungla in testa, depositati nel subconscio, fin da bambino.

Sport in Azione

Una figura fatata fatta di foglie si libra in aria, fiori tutti di pistilli rosso melograno galleggiano simili a meduse, dietro, una vasta macchia giallo maionese stimola l’immaginazione; lo sfondo è color carta da zucchero. Il caffè niente male e un sorso d’acqua aiutano ad aguzzare la vista. Al margine dei diciotto pannelli di legno, sui quali è stato catturato il murale con la tecnica a strappo, l’azzurro dello sfondo viene prolungato attraverso un contorno di azzurro più scuro. Incorniciato e sottovetro, questo murale-nettare, dopo un accurato restauro in riva al Reno – al museo Tinguely di Basilea, nel corso di una retrospettiva nell’autunno-inverno 2007-2008 – sembra aver ritrovato il suo ambiente. Tavolini accostati troppo, fumo, drink rovesciati, non lo hanno scalfito, se non in alcuni punti e non restaurati troppo per forza, lasciandoli,

con delicatezza, così, un po’ vissuti, come arcipelaghi topografici involontari per osservatori maniacali. Maestro del collage, Max Ernst prende i fiori e le foglie di Stenocarpus cunninghamii da una mirabile illustrazione botanica ottocentesca di Walter Hood Fitch (1817-1892): ingigantendola e capovolgendola. In questo modo, due delle foglie sinuose e ondulate di questo albero che cresce nelle foreste pluviali australiane, diventano gambe divaricate come quelle di una ballerina sospesa in un balzo. Movimento-similitudine potenziato dall’ombra-macchia gialla che in un angolo forma un piede. Mentre le altre due foglie sembrano le ali dell’uccello fantastico Loplop, alter ego ornitologico di Ernst. La quinta foglia, quella con la piega verso il picciolo, si tramuta nel becco e completa la figura di ninfa-volatile alla quale è stato dato il nome di un altro genere di pian-

te che richiama la melancolia. Questa parte superiore, dove è posta una minuscola sfera-seme come testolina, sconfinando nello sfondo, diventa verde pavone. Lo stesso colore si ritrova nelle pareti di velluto del bar. Degno habitat per il riemergere della ninfa Ancolie: eleganti lampade d’acciaio pendule, piatti vegetariani, bancone in marmo di Krastal. Le lesene-colonne in pietra calcare di Liesberg color ocra-crème brûlée, le ricordano forse le grate in bambù di un tempo. Come in filigrana, si notano le venature di altre foglie e su in alto, appena accennati, nuotano onirici molluschi cefalopodi. Assonanza netta con i pistilli erogeni a testa in giù simili a tentacoli filamentosi rosso melograno, della specie, scoperta nel 1828 sulle sponde del fiume Brisbane, dal botanico-esploratore Allan Cunningham (1791-1839).

di Giancarlo Dionisio

Quando la saliva fa notizia ◆

La storia del calcio non racconta solo di pedate, gomitate, simulazioni e testate. Queste, oggi, sui grandi palcoscenici, non sfuggono all’occhio implacabile delle numerose telecamere disseminate a bordo campo e sulle tribune. Chiedete a Zinédine Zidane. C’è tuttavia un altro metodo, più subdolo, vile e ripugnante, per manifestare rabbia e frustrazione nei confronti di un avversario: lo sputo. Nonostante la tecnologia, ogni tanto, qualche «lama» riesce a farla franca. È un gesto meno plateale. Non fa ruzzolare a terra il nemico. E se quest’ultimo reagisce, ci sono serie probabilità che sia lui a passare dalla parte del torto. Alla Coppa del Mondo del 1990, in Italia, l’olandese Frank Rijkaard annaffiò copiosamente Rudy Völler. Il tedesco reagì e ci fu un lungo battibecco. Il loro duello proseguì anche sulla via verso gli spogliatoi, sulla quale li aveva

istradati il direttore di gara. Tuttavia, in mancanza di una chiara prova tv, l’olandese non venne sanzionato. Sorte diversa, 14 anni dopo, per Francesco Totti. «Er Pupone» fu sorpreso da una telecamera mentre sputava sul volto del danese Yussuf Poulsen. Incassò tre partite di squalifica. La sanzione fu più pesante per Siniša Mihajlović. Per aver lavato la faccia al rumeno Adrian Mutu, in forza al Chelsea, il difensore della Lazio ricevette uno stop di otto partite. Negli scorsi giorni, questa vomitevole abitudine è tornata in prima pagina grazie ad Adrie van der Poel. Il campione mondiale della strada e del ciclocross ha inumidito uno spettatore con foga e rabbia. L’Unione Ciclistica Internazionale lo ha graziato, infliggendogli solo una piccola multa. Pare che sia stata comprovata la responsabilità da parte di un drappello di «tifosi» che, a ogni passag-

gio, lo ricoprivano di insulti, sputi e urina. Forse la commissione disciplinare ha tenuto conto della pesantissima provocazione. E la multa sta a significare: «Ragazzo, abbiamo capito il tuo stato d’animo, ma sappi che hai sbagliato. Sei un professionista e non devi cadere in questi tranelli». Il talentuoso corridore non è nuovo a situazioni sul filo della legalità. La notte precedente il Mondiale del 2022, in albergo, aveva maltrattato alcune ragazzine ree di avergli turbato il sonno a poche ore dal grande evento. Anche in quella circostanza fu assolto, poiché si ritenne che fosse stato «provocato in modo irritante e invasivo». Così recitava la sentenza del giudice emessa il 13 dicembre di quell’anno. Lasciamo il focoso e suscettibile fenomeno olandese alle prese con il suo self control, per spostarci su quello che, secondo noi, è il succo del pro-

blema. L’ambiente del ciclismo è a rischio. Per decenni lo si è considerato come una delle isole felici, in cui il tifo contro è bandito. In cui tutti i corridori, dai campioni ai più umili e modesti gregari, vengono osannati e sostenuti dall’intero popolo delle due ruote. L’ultima funambolica generazione di marziani, quella di Pogacar, Vingegaard, van der Poel, Van Aert, Evenepoel, eccetera, sta purtroppo alimentando un preoccupante crescendo di tifo da stadio. Il trattamento riservato a van der Poel in occasione del fatto incriminato, non è altro che la punta di un iceberg sommerso in un mare che ribolle di livori e di astio. Sui social media si moltiplicano i Fans Club, i gruppi di appassionati, di specialisti o pseudo tali. Spesso i toni del linguaggio trascendono i limiti del «bon ton» e giungono persino a fare appello alla violenza fisica, oltre che verbale.

L’avversario diventa un nemico. Il campo di battaglia, per ora, sono i vari blog, in cui i sostenitori di Pogacar «fanno a botte» con quelli di Vingegaard o di Evenepoel. A infilare elmo e corazza sono persone che si spacciano per ex corridori, per specialisti di vaglia, gente che dà del tu alla bicicletta. Basta scorrere gli albi d’oro e le classifiche delle corse, per capire che la stragrande maggioranza di costoro non si è piazzato neppure nel Gran Premio dell’Oratorio di Cerignola. Se la parte sana del ciclismo, a partire dall’UCI, alle Federazioni, alle Squadre, ai corridori stessi, non si dà una mossa, il rischio che la battaglia si sposti dai blog alla strada è elevatissimo. Diversamente dagli stadi, non ci sarà un sistema di sicurezza in grado di garantire protezione assoluta. Sarebbe la fine di un sogno, di un mito in cui era bello credere. Un potenziale dramma.


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ATTUALITÀ ●

Più occupati eppure più poveri In Italia non manca il lavoro bensì spesso una retribuzione adeguata e l’inflazione mette in ginocchio sempre più famiglie

America Latina in ebollizione Dalle violenze e dai disordini innescati dai narcotrafficanti in Ecuador alle elezioni previste in Messico, Venezuela ed El Salvador

Putin punisce le sue star «depravate» I vip del festino «quasi nudo» vengono mandati al fronte: schiacciati i nemici, il Cremlino non ha più pietà nemmeno per gli amici

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Verso la liberalizzazione del traffico ferroviario? Svizzera ◆ Nel nuovo pacchetto negoziale con l’Ue c’è un capitolo problematico relativo all’accordo sui trasporti terrestri Roberto Porta

Ritorno alla casella di partenza. È questa una delle beffe più temute per chi si diletta con il «gioco dell’oca», specie se si è ormai vicini al traguardo. Ed è il rischio da scongiurare anche nelle manovre di avvicinamento tra Svizzera ed Ue in corso da tempo, per la definizione di quelli che vengono chiamati i «Bilaterali tre». Finora c’è stata una lunga serie di incontri preliminari e ora, casella dopo casella, si è ormai vicini all’obiettivo, all’apertura di un nuovo negoziato ufficiale tra Berna e Bruxelles. Il Consiglio federale ha approvato un mandato negoziale ed è pronto a sedersi al tavolo delle trattative, ma prima di farlo ha aperto una consultazione per capire che aria tira nel Paese.

I sindacati sono stati tra i primi a scoprire le loro carte, con parole che non lasciano spazio a dubbi: l’aria che tira è di quelle pesanti. Ne sono una conferma i toni battaglieri usati dal presidente dell’Unione sindacale svizzera Pierre-Yves Maillard, in una recente intervista alla «NZZ am Sonntag». Per il neo-consigliere agli Stati socialista l’impostazione data finora agli accordi settoriali che compongono questi «Bilaterali tre» rischia di mettere a repentaglio salari e condizioni di lavoro, in particolare a causa dei lavoratori distaccati in arrivo dai Paesi dell’Unione europea. «Nessuno si deve fare delle illusioni», ha fatto notare Maillard, «se il testo rimane così come è, noi non lo sosterremo». L’opposizione sindacale su questo punto non è nuova, e ricalca quella formulata per contribuire ad affossare il cosiddetto «accordo quadro», intesa che il Consiglio federale ha abbandonato nella primavera del 2021. Tornando al presente, il fronte sindacale pare non tenere molto in considerazione il fatto che l’Unione europea sia disposta ad accordare alla Svizzera una «clausola di non regressione». In altri termini il nostro Paese non sarà obbligato a riprendere nuove regole europee, se queste ultime dovessero comportare un peggioramento delle condizioni di lavoro sul nostro territorio. I sindacati sono preoccupati in particolare per quanto riguarda la diffusione del lavoro interinale e la possibile ripresa della prassi europea sui rimborsi delle spese lavorative. E per questo chiedono di accrescere il numero di settori professionali coperti da un contratto collettivo di obbli-

Keystone

Per il presidente dell’Unione sindacale svizzera i «Bilaterali tre» rischiano di mettere a repentaglio salari e condizioni di lavoro

gatorietà generale. Aspetto, questo, che vede il padronato su posizioni diverse, e qui in parallelo ai possibili negoziati con l’Ue ci sarà bisogno anche di appianare queste divergenze tutte interne al nostro Paese. Ma al di là di questo tema, nel nuovo pacchetto negoziale c’è un altro capitolo che rischia di creare parecchi mal di testa dentro e fuori i nostri confini nazionali. Ed è il capitolo relativo all’accordo sui trasporti terrestri. Nei documenti che con grande trasparenza il Dipartimento federale degli affari esteri ha pubblicato sul proprio sito si legge: «La Svizzera dovrà liberalizzare il trasporto ferroviario internazionale dei passeggeri. Ciò significa che in futuro anche compagnie ferroviarie straniere potranno offrire collegamenti ferroviari in Svizzera». Fine della citazione e inizio dello sbigottimento. Aprire il mercato ferroviario elvetico significa toccare uno dei capisaldi del nostro Paese, la Svizzera si è costruita nella storia, dall’800 in poi, anche attorno ai propri binari. Su richiesta – e pressione – dell’Unione europea il negoziato con Bruxelles potrebbe condurre a questo cambio di marcia di portata epocale. È un argo-

mento di cui finora si è parlato relativamente poco, ma che rischia di essere esplosivo. Nel concreto, la compagnia tedesca Flixtrain o l’italiana Trenitalia, per fare solo due esempi, potranno offrire collegamenti all’interno del nostro Paese, in concorrenza con quelli delle compagnie elvetiche. Già oggi succede ma per farlo gli operatori stranieri devono trovare un accordo e collaborare con le Ferrovie ferroviarie svizzere. È il caso in Ticino per i collegamenti Tilo, che offrono trasporti transfrontalieri grazie ad un partenariato tra le FFS e l’italiana Trenord. Ora però la prospettiva è un’altra: l’apertura del nostro mercato alla concorrenza europea. E in campo è sceso un altro sindacato, quello del personale dei trasporti, il Sev. Per il suo presidente, Matthias Hartwich, «la liberalizzazione che è stata imposta in alcune regioni dell’Europa ha spesso portato a un calo dell’offerta, a un peggioramento delle condizioni di lavoro e a problemi nella puntualità dei treni». Per il Sev in pericolo c’è «il sistema dei trasporti ferroviari nel suo insieme». Né più, né meno. Va detto che questo sindacato è comunque

pronto a sedersi al tavolo delle trattative con il Consiglio federale, proprio per discutere di questa possibile liberalizzazione. Sta di fatto che l’accordo sui trasporti terrestri potrebbe presto tornare di prepotenza al centro dell’attenzione, come del resto avvenne già in passato quando si trattò di negoziare il primo pacchetto di accordi bilaterali, nella seconda metà degli anni ’90.

Il mandato negoziale è in consultazione ancora per qualche settimana. Detto dei sindacati, l’UDC ha già fatto sapere di essere contraria Allora l’Unione europea faceva pressione per poter permettere ai propri autotrasportatori di attraversare la Svizzera con camion da 40 tonnellate. La Svizzera insisteva nel difendere il limite delle 28 tonnellate, fino a quando fu costretta a cedere alle pressioni europee. Nell’accordo Berna ottenne di poter prelevare la tassa sul traffico pesante, ancora oggi in vigore, allo scopo in particolare

di finanziare i grandi progetti ferroviari del nostro Paese, Alptransit in primis. Ora dalla strada il braccio di ferro con Bruxelles rischia di passare ai binari e alla liberalizzazione del traffico ferroviario, un nodo da sciogliere che non andrà di certo sottovalutato. In conclusione, va ricordato che il mandato negoziale è in consultazione ancora per qualche settimana. Detto dei sindacati, l’UDC ha già fatto sapere di essere contraria, in particolare per quanto riguarda il capitolo della ripresa dinamica del diritto europeo e il ruolo della Corte europea di giustizia. Al di là del posizionamento degli altri partiti – che dovrebbero nel loro insieme appoggiare quanto propone il Consiglio federale – un ruolo centrale lo avranno anche i Cantoni, per capire se ci sarà davvero una maggioranza di Governi cantonali a sostegno della linea proposta da Ignazio Cassis. A detta del ministro degli Esteri ci sono comunque ancora «delle questioni da regolare», sia internamente, sia con Bruxelles. Lo scopo finale è quello di aprire i negoziati con l’Ue e di evitare di tornare ancora una volta alla casella di partenza.


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ATTUALITÀ

Più occupati eppure più poveri

Italia ◆ Nella Penisola non manca il lavoro bensì spesso una retribuzione adeguata e l’inflazione mette in ginocchio sempre più famiglie. Chi può espatria, in Svizzera e non solo. Il caso del settore sanitario Alfio Caruso

È avvenuta l’abolizione del «Reddito di cittadinanza» con la transizione verso nuove misure di supporto che però non bastano Non c’è contraddizione nell’aumento sia dell’occupazione sia della povertà. In Italia non manca il lavoro, bensì spesso una retribuzione adeguata. I 1200 euro (1120 franchi circa), che costituiscono ancora la paga media, non consentono di sopravvivere, in special modo nelle grandi città. Come sanno il milione e mezzo di lavoratori rientranti fra gl’indigenti costretti a ricorrere all’assistenza pubblica e privata, dal cibo agli indumenti. Paradossalmente le fasce più deboli hanno subito un rincaro dei prezzi, 17,9 per cento, superiore a quello riservato alle fasce più agiate, 9,9 per cento. Significa che oltre due milioni di famiglie – con 1,2 milioni di minori – non arrivano a fine mese, il più delle volte nemmeno alla terza settimana, che in passato veniva considerato il confine da non oltrepassare. Le cause sono molteplici: la principale è l’inflazione, mai così alta dal 1975 e il cui annunciato calo finora non si è riflettuto sul carrello della spesa. Le altre cause sono strutturali,

quindi di complicata soluzione: formazione professionale assai insufficiente; allargamento della forbice tra lavoro e stipendi; crescita delle diseguaglianze, che si traduce nella necessità per molti di accettare paghe molto ridotte. In più è avvenuta l’abolizione del «Reddito di cittadinanza» (RdC) con la transizione verso le nuove misure di «Supporto alla formazione e al lavoro» (Sfl) e dell’«Assegno di inclusione» (Adi). Sono così finite allo scoperto alcune specifiche tipologie di poveri: le stime disponibili indicano in circa il 33 per cento i nuclei già beneficiari di RdC che non avranno diritto all’Adi. Tradotto: 400 mila famiglie su 1,2 milioni. La conseguenza più vistosa è il calo delle nascite che così tanto preoccupa in proiezione futura. Una denatalità della quale a parole tutti si dolgono, nella pratica però si continua a far finta di niente. Lo si è visto anche nell’ultima rettifica del Piano nazionale di ripresa e resilienza, cioè i 224 miliardi forniti dall’Europa: la costruzione degli asili nidi, di conseguenza dei posti disponibili, si è dimezzata. L’ennesimo sgarbo in un Paese che non concede alcun sostegno alle donne desiderose di mettere al mondo un figlio. Nell’annuale rapporto Censis viene previsto che nel 2040 soltanto una coppia su quattro avrà un figlio con ulteriore calo demografico in un Paese che si vede in declino (8 italiani su 10), impaurito da clima, immigrati, povertà, guerra. Il quadro non risponde alla realtà quotidianamente sotto gli occhi di tutti, però spiega la continua fuga dei giovani: negli ultimi dieci anni è stato registrato un aumento del 36,7 per cento, quasi un milione 600mila. Nel 2022 sono espatriati 36’125 persone fra i 18 e i 34 anni. Negli ultimi mesi la procura di Milano ha costretto due conosciutissime società di vigilanza ad alzare il livello dei compensi: malgrado il nutritissimo carnet d’impegni pagavano i loro addetti 5 euro e mezzo lordi l’ora. Lontanissimi da quei 9 euro soglia del salario minimo richiesto dalla sinistra e avversato dal Governo. Le differenze dividono già uomini e donne – 26’227 euro lordi l’anno ai primi, 18’035 alle seconde – nord e sud – 26’993 euro lordi contro 16’959 – per una media di 22’839 euro, che colloca l’Italia all’ultimo posto

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Nel dicembre scorso, in Italia, il numero degli occupati raggiungeva la cifra record di 23,6 milioni, che non si toccava dal 1977, con una disoccupazione scesa al 7,4 per cento. Intanto però la Caritas annunciava che 5 milioni e 571 mila persone vivevano in stato di povertà assoluta; tre lustri fa erano 1,8 milioni. Rappresentano il 9,4 per cento della popolazione, oltre il triplo di quelli del 2008. Eppure nelle imprese si contano 316 mila posti vacanti: allargandosi al terzo settore e ai servizi il numero è destinato a crescere a dismisura. Una falla che comporta mancati introiti per 28 miliardi, l’1,5 di un Prodotto interno lordo (Pil) che soprattutto nel 2024 è all’affannata ricerca di ulteriori redditi. La ristorazione appare il distretto maggiormente colpito: tra camerieri, baristi e cuochi servirebbero altre 151’550 figure professionali e la crescita esponenziale del turismo rende questi numeri già superati. Una difficoltà di reclutamento forse figlia di orari troppo dilatati e di paghe troppo contenute più che di scarsa voglia dei ragazzi.

Infermiera dell’ospedale di Bergamo in prima linea durante la pandemia. Nonostante la dedizione e gli sforzi immani degli ultimi anni, con i suoi 1600 euro lordi mensili quella degli infermieri rimane una categoria sottopagata in Italia. (Keystone)

dell’Eurozona nella crescita dei salari medi reali dal 1990 al 2020. Prima, cioè, che il Covid accentuasse i problemi. In tale quadro colpiti specialmente gli stranieri: costituiscono l’8 per cento della popolazione, ma tra gli under 18 un povero su 5 è straniero e di origine straniera sono il 30 per cento dei poveri e l’81 per cento di quanti non hanno un impiego stabile.

e minacciano di trasferire la residenza in un comune entro i 20 chilometri dal confine per accedere alla più favorevole tassazione elvetica. A muoversi in un’altra dimensione sono i quaranta miliardari italiani più ricchi, da Ferrero ad Armani, dagli eredi Del Vecchio agli eredi Berlusconi, da Pessina (presidente di Walgreens Boots Alliance) ad Elkann, da

Massimiliana Landini Aleotti, proprietaria della Menarini, a Piero Ferrari (che detiene il 10% della casa di Maranello) da Garavoglia, patron di Campari, a Stevanato primo produttore mondiale di cartucce mediche. Nonostante Covid e inflazione posseggono l’equivalente della ricchezza del 30% degli italiani più poveri (18 milioni di persone).

Agli infermieri disposti a trasferirsi in Norvegia vengono garantiti 3700 euro, l’alloggio e un discreto numero di voli aerei per tornare a casa Il settore più in ebollizione è quello sanitario. Medici e infermieri lamentano paghe basse, inferiori di circa 3700 euro mensili alla media europea. Lo stipendio di un camice bianco è 2500 euro lordi, 4000 da primario, mentre gl’infermieri si attestano sui 1600. Ecco spiegata l’emigrazione in Svizzera di medici e soprattutto infermieri: i medici guadagnano sui 15 mila euro, gl’infermieri 4 mila, in taluni casi arrivano a 6 mila. Ma la concorrenza si è allargata: a Dubai garantiscono 20 mila euro per i medici, 8 mila per gl’infermieri. Ultimamente si è aggiunta anche la Norvegia: agli infermieri disposti a trasferirsi vengono garantiti 3700 euro, l’alloggio e un discreto numero di voli aerei per tornare a casa. La risposta del Governo Meloni è consistita nell’annunciare un taglio alle future pensioni dei medici. Le proteste inviperite dei diretti interessati, dei sindacati e dell’opposizione hanno prodotto una clamorosa marcia indietro. Di converso è cominciata pure la ricerca dei fondi per aumentare i guadagni delle due categorie. Finora l’unica proposta ha riguardato un contributo straordinario, fra i 30 e i 90 euro a seconda degli stipendi, da richiedere agli 80 mila frontalieri con la Svizzera. Che naturalmente non ne vogliono sapere

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ATTUALITÀ

L’Ecuador sotto attacco

Forze armate dispiegate a Quito, capitale dell’Ecuador. (Keystone)

America Latina ◆ Dal golpe innescato dai narcos nel Paese andino alle elezioni previste in Messico, Venezuela ed El Salvador Angela Nocioni

L’America Latina (e non solo) è incollata alle tv che trasmettono immagini di una serie di assalti e violenze in corso in Ecuador. Il piccolo Paese andino, ricco di petrolio, è teatro di una guerra innescata da narcotrafficanti con legami mai chiariti con alti politici locali. Roberto Saviano sul «Corriere della sera», settimana scorsa, parlava di «narcogolpe» che vuole terrorizzare il Paese e ristabilire la supremazia delle gang sul Governo. Al momento non è da escludere neppure l’ipotesi che finisca per essere una sorta di «autogolpe», ossia che le autorità colgano l’occasione per instaurare un regime di sorveglianza e leggi liberticide. Il presidente ecuadoriano, Daniel Noboa, in carica da due mesi, lo ha definito «conflitto armato interno». Ciò consente il dispiegamento delle forze armate contro chiunque venga sospettato di fare in qualche modo parte di bande; una ventina di gruppi di criminalità organizzata sono stati dichiarati «organizzazioni terroristiche» e alle forze armate è stato dato l’ordine di «neutralizzarli». Settimana scorsa durante un tg del canale «TC Televisión» un gruppo di ragazzi incappucciati ha fatto irruzione nello studio e ha preso in ostaggio i giornalisti. In diretta in quasi mezz’ora si sono visti giornalisti implorare di non essere uccisi. La polizia alla fine ha arrestato gli assaltanti,

non ci sono state vittime. I Governi dei Paesi vicini sono in allarme. Tutto ciò avviene mentre il Continente è in piena ondata elettorale. Argentina, Ecuador, Guatemala e Paraguay hanno tenuto elezioni presidenziali nel 2023. Messico, Venezuela ed El Salvador si apprestano a votare nel 2024. Il panorama è di grande trambusto politico e sociale. Dopo la grande sorpresa della sconfitta del peronismo in Argentina, il neo presidente Javier Milei, outsider di estrema destra che ha vinto con l’intenzione dichiarata di voler «dollarizzare» l’economia, tagliare i ministeri, licenziare i dipendenti pubblici assunti nell’ultimo anno e privatizzare molti settori, ha spalancato le braccia alla cooptazione di chi, dall’opposizione e dalla società civile, vorrà saltare sul suo carro: «Riceveremo a braccia aperte tutti quei leader politici, sindacali e imprenditoriali che vogliono unirsi alla nuova Argentina». La differenza politica dei prossimi mesi la farà proprio l’eventuale successo di questo suo invito. Chi sembra politicamente aver preso in mano la leadership dell’opposizione è il governatore della provincia di Buenos Aires, il cinquantenne Alex Kicillof, peronista di sinistra. Attorno a lui si sta coagulando l’enorme magma di disoccupati organizzati e di associa-

zioni varie, non solo sindacali e spesso in contrasto con i sindacati ufficiali, che minaccia di paralizzare la capitale se le misure economiche di Milei si tradurranno in realtà. In Guatemala, 6600 chilometri a nord di Buenos Aires, sono passati 5 mesi da quando Bernardo Arévalo ha incassato una vittoria elettorale schiacciante. E in questo periodo le istituzioni democratiche sono state messe a dura prova. Arévalo è stato lanciato politicamente da una piattaforma anti-corruzione e di recente ha avuto una serie di problemi giudiziari. Ci sono state molte proteste. Il Paese sembra sull’orlo di un’esplosione. Ciò che alcuni sostenitori di Arévalo dicono di temere è che i loro avversari stiano spingendo per acutizzare la crisi in modo di poter intervenire nella transizione e affermare il loro potere. La Procura ha annunciato che, a causa di presunte irregolarità, le elezioni presidenziali dovevano essere annullate. Il Tribunale supremo elettorale l’ha contraddetta e ha ribadito che Arévalo deve occupare la presidenza. Il clima politico è da tormenta elettrica. In Messico, l’elezione forse più attesa del 2024, saranno due donne a sfidarsi a giugno per le presidenziali. La conferma è arrivata dopo che il partito di sinistra al potere, il Movimento di rigenerazione nazionale (Morena),

ha annunciato di aver scelto come candidata Claudia Sheinbaum, ex sindaca di Città del Messico. Sheinbaum dovrà affrontare la rivale del partito conservatore Pan (Partito di azione nazionale, opposizione), Xochtil Galvez, già scelta come candidata della destra alle presidenziali.«Io sostengo Claudia Sheinbaum», ha detto il presidente in carica, Andrés Manuel López Obrador, noto come Amlo, che per legge non potrà candidarsi ancora. Nata da genitori ebrei a Città del Messico, Sheinbaum, fisica con un dottorato in ingegneria ambientale, dovrebbe effettivamente beneficiare in termini di voti del largo consenso di cui gode l’attuale presidente messicano, il cui partito controlla 23 Stati su 32. A sfidare Sheinbaum alle prossime elezioni sarà, come detto, la candidata del partito Pan, la senatrice di origini indigene, Xochtil Galvez. Anche lei è ingegnere ed è cresciuta in una piccola città a due ore dalla capitale. È in Parlamento dal 2018. Entrambe le candidate assicurano di voler mantenere in vigore le misure contro la povertà e

sono favorevoli alla depenalizzazione dell’aborto, tema di divisione politica in Messico. Una posizione che la conservatrice Galvez appoggia in contrasto con il suo partito. Infine nel Venezuela sprofondato nella decadenza del chavismo diventato ormai un regime autocratico senza spazi per il dissenso politico, il presidente Nicolas Maduro, al potere dal 2013, non ha ancora confermato se si ricandiderà. In un’intervista con il giornalista spagnolo Ignacio Ramonet, sostenitore del defunto presidente Hugo Chavez, Maduro ha detto che parlare della sua rielezione è prematuro. Ha fatto riferimento a Diosdado Cabello, figura di primo piano del potere chavista. Potrebbe essere lui il candidato del Partito socialista unito del Venezuela, il partito di regime. Dall’opposizione non è ancora chiaro chi sarà il candidato. María Corina Machado, che ha vinto le primarie della principale alleanza di opposizione, è interdetta dalle cariche pubbliche per 15 anni. Ma aspetta una risposta definitiva dalla Corte suprema di giustizia su questo provvedimento. Annuncio pubblicitario


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ATTUALITÀ

Putin punisce le sue star «depravate»

Russia ◆ I vip del festino «quasi nudo» mandati al fronte: schiacciati i nemici, il Cremlino non ha più pietà nemmeno per gli amici Anna Zafesova

Doveva essere il party più esclusivo di Mosca, il posto dove farsi fotografare, per apparire sui social e suscitare invidia e ammirazione. Ora però le star russe che il 20 dicembre avevano partecipato al festino «almost naked» (ovvero quasi nudo) nel club Mutabor adottano look completamente diversi: niente trucco e messa in piega, zero gioielli e abiti dimessi, occhi gonfi di lacrime mentre con voce rotta recitano davanti alla telecamera le loro scuse. Ma il pentimento pubblico non basta: fonti vicine al Cremlino dicono che i cantanti e gli attori presenti al festino dovranno tutti espiare la loro colpa con una tournée nella zona della «operazione militare speciale», in altre parole, andare a esibirsi al fronte ucraino. Per star del pop come la cantante Glukoza (abbandonata intanto dal suo producer) e il musicista rap T-Killah si sta già preparando un adeguato look da trincea. La cantante Lolita Miljavskaja e la giornalista Ksenia Sobchak stanno ospitando famiglie con bambini da Belgorod, città russa colpita negli ultimi giorni da contrattacchi delle forze di Kiev. Anche Filipp Kirkorov, il re della canzonetta, ha versato i suoi cospicui onorari per i concerti di Capodanno alle vittime di Belgorod, sperando così di tornare sui cartelloni, e fermare l’inchiesta per i mancati pagamenti dei diritti d’autore aperta nei suoi confronti. Il rapper Vacio invece rischia

di andare al fronte non per cantare ma per combattere: dopo essere apparso al party con indosso soltanto un calzino sul pene è stato arrestato, e si è visto arrivare la convocazione al commissariato militare direttamente in carcere. Ora Vacio dovrà scegliere se andare a combattere o rischiare la condanna per «propaganda dell’ideologia Lgbt», che dal 10 gennaio la Russia equipara a «estremismo», punibile con la reclusione fino a 10 anni. Il musicista ha già dichiarato di «non appoggiare l’ideologia Lgbt» e di aver intrapreso una svolta «verso la vita sana». L’organizzatrice della serata, l’influencer Anastasia Ivleeva, ha registrato un video in lacrime, in cui chiede «alla Russia che sa perdonare, una seconda possibilità». In attesa, la blogger – già scaricata da molti sponsor, indagata per evasione, e querelata da un gruppo di conservatori per «danni morali» valutati in un miliardo di rubli – è scappata a Dubai. Il club Mutabor è stato chiuso per 90 giorni, come punizione per aver versato della birra «avariata» a un cliente anonimo. Il proprietario del locale Mikhail Danilov ha cercato il perdono in sfere ancora più alte, regalando alla Chiesa ortodossa russa una reliquia di san Nicola. Nonostante le assicurazioni che fosse stata «acquistata in Vaticano», i giornalisti di «Radio Liberty» hanno scoperto che il «certificato di autenticità», emesso in

Immagine tratta dai social che mostra l’organizzatrice della serata Nastya Ivleeva e la star Kirkorov.

latino dalla Diocesi di Novara, è stato firmato da un ex dipendente che non ci lavora più da 9 anni. Una vicenda che potrebbe venire liquidata come gossip natalizio, con fotografie di star seminude che hanno fatto la gioia dei social. Ma per Mosca lo scandalo del party «almost naked» è stato un terremoto. Non soltanto perché c’erano tutti, davvero tutti, e pare che diversi top manager delle grandi società nazionali avessero fatto poi tutte le pressioni possibili per nascondere la loro presenza (e qualcuno è già andato con camion di aiuti umanitari nei territori occupati dell’Ucraina). Ma soprattutto perché la punizione

moralista, con tutta la potenza dello Stato, è stata scagliata contro le star più leali al regime. I cantanti, gli attori e gli scrittori contrari alla guerra sono fuggiti dalla Russia già due anni fa, e ora organizzano concerti per gli esuli russi a Londra, Berlino o Istanbul. Al Mutabor si erano dati appuntamento i volti dell’establishment, le superstar del putinismo, e il fatto che i canali televisivi siano stati costretti all’ultimo momento a tagliare le esibizioni di Kirkorov o di Anna Asti (cantante ucraina naturalizzata russa) dagli spettacoli di Capodanno ha mostrato chiaramente che, schiacciati i nemici, il Cremlino non avrà più pietà

nemmeno per gli amici. Secondo le fonti dell’agenzia Bloomberg, infatti, a ordinare la punizione esemplare delle star seminude sarebbe stato Vladimir Putin in persona. A scandalizzare il presidente russo sarebbe stata soprattutto la scena in cui i presenti fingono di leccare il calzino sul pene di Vacio: «La gente in provincia soffre per l’inflazione e manda figli in guerra e questi leccano membri», sarebbe stata la sua reazione. Le star «depravate» sono state dunque trasformate in un comodo parafulmine dello scontento, a due mesi dalle elezioni presidenziali. Il party al Mutabor è il simbolo della «Mosca ladrona»: i pizzi di Kirkorov erano firmati Dolce&Gabbana, il calzino di Vacio era di Balenciaga, e sulla «scollatura posteriore» di Ivleeva ondeggiava uno smeraldo da 60 mila euro. Ma molti commentatori notano anche come lo sdegno social per gli «Almost naked» sia stato in buona parte pilotato dalla propaganda del regime, in una clamorosa rottura del patto che per anni ha garantito la fedeltà dei ricchi e famosi russi. Fino al festino al Mutabor la lealtà politica e ideologica in pubblico dava la licenza per qualunque eccesso in privato. Non è più così: ora lo Stato e il suo capo ritengono di poter controllare e imporre i propri gusti, punendo a proprio piacimento performances che come unico crimine hanno quello di aver mostrato cattivo gusto. Annuncio pubblicitario

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ATTUALITÀ / RUBRICHE

Il Mercato e la Piazza

di Angelo Rossi

In Ticino la produttività delle aziende cala ◆

Di solito, quando si presentano indicatori sullo sviluppo dell’economia ticinese la scelta cade sul tasso di variazione del Prodotto interno lordo (Pil), sul tasso di disoccupazione, sulla variazione dell’effettivo dei frontalieri oppure su quella dell’occupazione complessiva. I commentatori economici citano raramente la statistica delle aziende che, a nostro avviso, è una di quelle che maggiormente possono spiegare la natura dell’evoluzione più recente della nostra economia. La crescita annuale di un’economia, misurata dal tasso di aumento del Pil, può essere definita come la somma del tasso di variazione annuale dell’effettivo delle aziende e del tasso di variazione annuale del valore aggiunto aziendale medio (una misura della produttività media delle aziende). Le statistiche disponibili ci consentono di seguire l’evoluzione di questi tre fattori tra il 2011 e il 2020.

In questo periodo il tasso annuale di crescita del Pil è stato in Svizzera pari all’1%. L’economia ticinese ha conosciuto un tasso di crescita annuale inferiore pari allo 0,6%. Contraria è stata invece l’evoluzione manifestatasi nell’effettivo delle aziende. Mentre in Svizzera, tra il 2011 e il 2020, questo effettivo è cresciuto annualmente dell’1%, cioè come il Pil, in Ticino il tasso di crescita annuale dell’effettivo delle aziende ha raggiunto il 2,5%. Se questi dati sono, non solo affidabili, ma anche compatibili, questo significherebbe che il tasso di variazione del valore annuale aggiunto medio delle aziende è stato nullo in Svizzera e negativo in Ticino. In altri termini tra il 2011 e il 2020 a livello nazionale la produttività media delle aziende è restata costante, mentre in Ticino è diminuita a un tasso annuale di quasi il 2%. Il confronto di queste percentuali dà

la misura di quanto inefficiente sia stata l’evoluzione recente del processo di produzione dell’economia ticinese. Con un tasso di aumento annuale dell’effettivo delle aziende pari a 2,5 volte quello nazionale, l’economia ticinese non è riuscita infatti a raggiungere neanche la metà del tasso di crescita annuale del Pil nazionale. Vedendo queste cifre ci viene in mente il confronto che Franscini, ai suoi tempi, faceva tra le piccole mucche ticinesi e le mucche di maggior statura (più del doppio rispetto alle prime) dei Cantoni d’oltre San Gottardo. Son passati quasi 200 anni, la struttura di produzione è mutata (oggi invece dell’agricoltura dominano le attività del settore dei servizi) ma le differenze di statura e di produttività continuano a esistere. Per spiegare il perché di questa diversità e del suo permanere nei secoli occorrerebbe non un breve articolo ma un trat-

tato di storia economica regionale. Comunque, per consentire ai lettori di «Azione» di continuare a riflettere su questa divergenza, possiamo indicare a titolo ipotetico qualche causa. In primo luogo, per l’appunto, la differenza di statura. Le mucche ticinesi di oggi – ossia le aziende operanti nell’economia del nostro Cantone – continuano a essere più piccole di quelle di oltre Gottardo. In effetti l’azienda media ticinese conta 6 posti di lavoro mentre quella svizzera ne conta 7,6, ossia un quarto di più. Una possibile causa della differenza di grandezza delle aziende è il grado maggiore di terziarizzazione dell’apparato produttivo ticinese rispetto a quello svizzero. Si sa che le aziende del terziario sono di piccola e piccolissima dimensione. In particolare lo sono quelle dei servizi alla popolazione (dall’estetista per le unghie alla parrucchiera, dai servizi di Spitex privati alla podologa).

Ora, mentre in Svizzera le aziende nelle attività del settore terziario rappresentavano nel 2020 il 78,8% del totale, nell’economia del nostro Cantone la quota delle aziende del terziario nel totale era pari al 97,3%. Anche questa differenza nella struttura di produzione pesa negativamente sull’evoluzione del valore aggiunto per azienda. Una terza possibile causa è rappresentata dal recente significativo ridimensionamento del settore finanziario, in particolare delle banche. Lo stesso non ha avuto significativi effetti negativi sull’evoluzione dell’effettivo delle aziende, ma ha portato alla sostituzione di aziende che avevano una produttività elevatissima (per l’appunto le banche) con aziende che appartengono a rami con bassa produttività. Ricordiamo infine che fintanto che il valore aggiunto delle aziende non aumenta anche i salari non possono aumentare.

Affari Esteri

di Paola Peduzzi

Chi è Gabriel Attal, il nuovo premier francese ◆

Il nuovo premier francese, Gabriel Attal, ha 34 anni, è popolare e forse è l’erede del presidente Emmanuel Macron. Le analisi sulla successione sono premature, non solo perché il voto in Francia è previsto per la primavera del 2027, ma anche perché la storia francese (e non solo) mostra che la scelta di un delfino è accidentata, piena di colpi di scena. Però la situazione di Macron è particolare: nel 2016 ha creato un modello politico che prima non c’era e che rischia di finire con lui, appunto perché non ha una tradizione cui affidarsi. Per questo il presidente deve fare calcoli anticipati e in questo caso audaci, perché è la prima volta che sceglie come primo ministro un politico attivo e ambizioso e non un esecutore. Attal è simile al Macron che sconvolse la Francia con la sua marcia né di destra né di sinistra 7 anni fa. Ex ministro dell’Istruzione e prima portavoce dell’Eliseo, Attal è

nato a Clamart, alle porte di Parigi, e ha trascorso buona parte della sua vita tra il sesto e il settimo arrondissement della capitale: dunque élite pura. I suoi genitori hanno divorziato, sua madre viene da una famiglia di Odessa e lo ha cresciuto cristiano ortodosso. Suo padre, ebreo tunisino, è forse la persona più importante nella formazione di Gabriel. Si chiamava Yves Attal, era un avvocato e produttore cinematografico, ha lavorato con Bernardo Bertolucci e Pedro Almodovar. È morto di un tumore fulminante nel 2015. Nel 2019, quando era stato nominato segretario di Stato nel Governo Macron – il più giovane della storia della Quinta Repubblica – Attal si era commosso durante una conversazione con il quotidiano francese «Libération» ricordando una cattiveria che era stata scritta sul suo rapporto con il padre: in un pamphlet politico c’era scritto che Attal era stato solle-

Il presente come storia

vato dalla morte del padre perché così avrebbe potuto vivere la sua omosessualità senza bugie. L’autore era Juan Branco, un suo coetaneo che ha fatto le sue stesse scuole, che è parte del mondo sovranista e anti-sistema dei gilet gialli e che di mestiere fa il distruttore del macronismo. Branco ha «un’ossessione» per Attal, tanto che in un’intervista dello scorso autunno il neopremier francese l’aveva denunciata, questa fissazione. Non aveva fatto il nome ma «il compagno» che lo bullizzava per il suo aspetto fisico, che mandava messaggi ai suoi amici fingendosi lui e facendolo litigare, che ha svelato la sua omosessualità quando Attal avrebbe voluto farlo a modo suo, era Branco. Metterli sullo stesso piano come fanno in molti è sbagliato: Attal lavora in incarichi ministeriali da quando aveva 23 anni (ha iniziato nel Partito socialista) mentre Branco è un polemista accalorato che fa la gio-

ia delle emittenti sovraniste con il suo misto di pettegolezzi, allusioni e politologia. Però l’intreccio di queste due vite è molto rappresentativo sia del salto generazionale in corso, sia delle due anime della Francia che dominano il dibattito politico di questo secolo. A proposito di intrecci e di due anime: il duello ideale, questo sì molto più concreto e diretto, che si avrà da qui alle elezioni europee del 9 giugno, è quello tra Attal e l’astro nascente del Rassemblement national (il nuovo nome del Front national di Marine Le Pen), Jordan Bardella. Bardella è ancora più giovane del neopremier, ha 28 anni ed è il capolista del Rassemblement per le europee, come già lo era nel 2019 quando ci fu il pareggio con una manciata di voti in più per i sovranisti. Il partito di Macron, Renaissance, non ha ancora indicato un capolista, e si è detto per un po’ che avrebbe potuto essere Attal, il quale però non pare-

va interessato. Ora da premier guiderà la campagna per le europee, è «un capolista per procura», come dicono gli analisti, che dovrà cercare di recuperare il grande distacco che ora c’è nei sondaggi: i lepenisti sono dati al 27%, i macroniani non arrivano al 20. Attal e Bardella rappresentano le due anime della Francia. Attal viene da una famiglia benestante della periferia ricca di Parigi, ha frequentato scuole elitarie, conosce più i palazzi che i francesi. Bardella è figlio di immigrati italiani, viene dalla banlieue e pure se suo padre è un dirigente di impresa e ha la casa di villeggiatura, è percepito molto più un politico da popolo che da palazzo. C’è già un elemento deformante in questi brevi cenni biografici, ma quel che si percepisce, nelle campagne elettorali, vale spesso più della realtà, e per questo il freddo Attal e il caldo Bardella saranno i personaggi della campagna elettorale francese per le europee.

di Orazio Martinetti

Passo deciso, destinazione incerta ◆

Le consuete «allocuzioni» di Capodanno dei presidenti della Confederazione non lasciano quasi mai traccia nella coscienza della cittadinanza. Sono compitini concisi, condensati in frasi d’immediata comprensione, basici ed equilibrati come vuole la formula governativa collegiale. La ministra della Difesa Viola Amherd, eletta presidente per il 2024, ha riconfermato lo schema, pesando accuratamente parole e accenti. Un «discorso solenne» il suo che sicuramente non entrerà negli annali, pienamente in linea con la sobrietà elvetica. Eppure Viola Amherd qualche spunto critico (non osiamo dire provocatorio) avrebbe potuto esprimerlo, dopo un anno punteggiato di piccoli e grandi traumi, interni ed esterni, dal collasso del Credit Suisse alle ripercussioni dei due maggiori scontri armati che tuttora divampano nell’est europeo e nel vicino Oriente.

D’accordo, sono guerre (relativamente) lontane, i cui orrori arrivano nelle nostre case attraverso il filtro degli schermi televisivi. Ma come si è visto nell’ultimo biennio le onde che sollevano (per esempio in campo energetico e umanitario) investono quasi tutto l’emisfero occidentale, con riflessi nel settore degli armamenti e delle relazioni finanziarie (sanzioni anti-russe). Finora l’Unione europea e soprattutto gli Stati Uniti hanno garantito un largo appoggio all’Ucraina. Tuttavia da qualche tempo l’opinione pubblica appare meno compatta e risoluta: si parla sempre più frequentemente di «stanchezza di guerra» unita alla volontà di por fine a conflitti tanto disastrosi quanto insensati. La Svizzera ha assicurato il suo appoggio all’Ucraina fin dall’inizio delle ostilità, adottando i provvedimenti disposti da Bruxelles e acco-

gliendo numerose famiglie in fuga dalle bombe. Ma poi questo slancio si è arenato, e la Svizzera è venuta meno alla sua missione di soccorrevole samaritana. La Conferenza per la ricostruzione (Lugano, luglio 2022) avrebbe dovuto identificare meglio gli obiettivi da conseguire nei settori in cui la Confederazione ha costruito nei secoli la sua reputazione nel mondo: l’intervento umanitario, il soccorso medico-chirurgico e l’opera di sminamento delle aree agricole. Anche in merito al conflitto israelo-palestinese, la politica non ha brillato: per dieci giorni le due camere federali hanno questionato sull’importo da destinare all’agenzia Onu per l’assistenza ai profughi palestinesi (venti milioni). Alla fine deputati e senatori si sono accordati per una decurtazione di dieci milioni. Non è stato un bello spettacolo per un Paese che, sulla carta, conti-

nua a ritenersi l’erede di Henry Dunant. Forse dopo tanti studi e convegni sulle origini dei conflitti non si è ancora capito che i progetti socio-assistenziali e la cooperazione allo sviluppo sono gli unici strumenti di prevenzione della violenza. Purtroppo molti regimi preferiscono acquistare carri armati piuttosto che scavare pozzi per l’acqua potabile. C’è poi il versante diplomatico, riassunto nella formula dei «buoni uffici». La Svizzera Paese neutrale che però non rimane con le mani in mano ma si offre ai belligeranti come mediatore («neutralité-solidarité», come amava dire Max Petitpierre). L’impressione è che negli ultimi decenni questa decantata funzione sia tramontata. E questo perché il baricentro delle attività diplomatiche si è spostato in altre aree, nella penisola arabica o nell’estremo Oriente, come conseguenza di una generale dislocazione

dei poteri politici, economici, tecnologici. Ora, a detta di analisti come Paul Kennedy, gli «animali» che si contendono la scena sono tre: il panda cinese, la tigre indiana e l’aquila americana. Russia e Unione europea sono presenti, ma in secondo piano, come potenze in declino, sfibrate da spese militari esorbitanti (Federazione russa) e da discordie interne (Europa). La buona notizia è che il Consiglio federale desidera rimettersi in moto (questo il messaggio che la fotografia ufficiale ha voluto trasmettere). Passo svelto, volti rassicuranti. Rimane l’interrogativo sulla direzione che il collegio governativo intende prendere, in una selva piena di insidie e di incognite. Chissà se le montagne che la fotografa ha voluto collocare come scenografia di sottofondo dispenseranno agli onorevoli in marcia buoni consigli.


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CULTURA ●

Fascino e dannazione della R4 Nel suo nuovo libro Piero Trellini racconta origine e significato della Renault 4, la vettura francese più venduta della storia

Letteratura e maternità Koch, Chollet, Nelson, Kawakami e Donath gettano un nuovo sguardo sul concetto di maternità e riflettono sulle scelte delle donne

Il bambino e l’airone di Miyazaki Vincitore ai Golden Globes, il lungometraggio animato di Hayao Miyazaki che piace anche al pubblico in questi giorni è nelle nostre sale

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West Side Story, il musical cult arriva al LAC

Intervista ◆ Il regista Lonny Price racconta la forza di un capolavoro sempre attuale e della sua magica connessione con il pubblico Natascha Fioretti

Il musical sta avendo grande successo in tutto il mondo, in Giappone, India, le date di Parigi sono state tutte sold out. Se dovesse descrivere il musical con cinque parole, quali sceglie? Direi elettrico, emozionante, emotivo, ritmico… che spezza il cuore. La sua regia è rimasta molto fedele al lavoro originale del 1957. Lei è nato qualche anno dopo, qual è stato il suo primo incontro con il musical? A casa sono cresciuto ascoltando le musiche di West Side Story. Poi nei primi anni Settanta ho visto il film al cinema e rimasi affascinato dalla storia e dalla danza straordinaria di Jerome Robbins.

ni come Richard Rodgers e Oscar Hammerstein o i fratelli Gershwin che sono stati influenzati dai più grandi maestri. E credo che non vi siano talenti di quel calibro nel panorama teatrale odierno.

Johan Persson

Pensandoci, vi ricorderete di averlo già visto da qualche parte sul grande schermo. In Dirty Dancing era Neil Kellermann lo scapolo perfetto per la giovane Baby interpretata da Jennifer Gray che però aveva occhi solo per Patrick Swayze. Classe 1959, Lonny Price calca le scene teatrali di Broadway e quelle cinematografiche di Hollywood da più di 40 anni. Ha curato la regia di Sweeney Todd con Emma Thompson, quella di Sunset Boulevard con Glenn Close e la serie TV Desperate Housewives. Soprattutto ha diretto molti musical da Class Act e Lady Day at Emerson’s Bar and Grill a Urban Cowboy e tanti altri. Regista, attore e scrittore statunitense, Lonny Price ha ora realizzato il suo sogno d’infanzia: dirigere West Side Story, il musical cult andato in scena per la prima volta a Broadway nel 1957 grazie allo splendido lavoro di Arthur Laurents (drammaturgo), Leonard Bernstein (compositore), Stephen Sondheim (paroliere) e Jerome Robbins (regista e coreografo). Da Broadway arrivò al cinema nel 1961, a dirigerlo furono Jerome Robbins e Robert Wise, il film fece incetta di statuette agli Oscar portandone a casa dieci, tra queste quella per il miglior film e per la migliore regia. Nel 2021 lo ripropone Steven Spielberg. Il musical che racconta la storia di due giovani amanti, Maria e Tony che vivono nella New York degli anni Cinquanta e appartengono a due gang rivali (lei alla gang portoricana degli Sharks, lui a quella dei Jets), dopo il grande debutto a Monaco nel dicembre del 2022 e il tour in giro per il mondo, approda ora al LAC il prossimo 23 gennaio. La produzione firmata Lonny Price porta con sé il brillante cast di 34 performer, le coreografie originali di Jerome Robbins e le musiche di Leonard Bernstein. Nell’attesa di vederlo dal vivo ne abbiamo parlato con Lonny Price.

Al musical la lega anche una relazione personale con Alexander Bernstein, il figlio del famoso compositore (interpretato al cinema da Bradley Cooper nel film Maestro, nelle sale in queste settimane) che alla prima a Monaco al Deutsches Theater ha speso parole di grande elogio in particolare per il canto e la danza che ha definito «enorme e toccante» e poi la scenografia «semplicemente magica». West Side Story per me ha un significato speciale. Non soltanto perché è il capolavoro della storia dei musical teatrali ma anche per la mia profonda amicizia con Alexander. Non ho avuto modo di conoscere bene Leonard Bernstein ma ho avuto la fortuna di passare alcuni momenti con lui. Era un uomo straordinario e sempre molto gentile. Custodisco nel cuore l’esperienza di averlo incontrato. A firmare la suggestiva coreografia è Julio Monge che è stato ex allievo di Jerome Robbins. È vero che Monge è tra le pochissime persone al mondo autorizzate a mettere in scena la coreografia originale? Sì, sì, è vero. La Fondazione Jerome Robbins è molto attenta nel selezionare chi può ricreare, riportare sul palcoscenico il lavoro di Jerome. Dicevamo prima che nella sua versione di West Side Story è rimasto molto vicino a quella originale. Da allora sono passati 67 anni, non temeva – nel dare il via a questo

progetto – che i tempi non fossero più propizi per ripetere il grande successo? Il mondo è cambiato ma stranamente molti dei problemi degli anni Cinquanta persistono ancora oggi. Penso alla xenofobia e alla tendenza a demonizzare il diverso, chiunque non sia come noi. In verità l’odio razziale e il possesso del campo da basket che portano le due gang giovanili – quella portoricana e quella degli americani bianchi – a rivaleggiarsi, sono questioni attuali ancora oggi. Mio dio, guardiamo soltanto cosa sta avvenendo in Medio Oriente per un pezzo di terra. La lotta per la pace sfortunatamente non passa mai di moda, la natura umana è quello che è. La sua conclusione ha un che di molto shakespeariano… Proprio come la tragedia d’amore di Romeo e Giulietta anche il musical – che a quest’opera si ispira – continua a parlare alle persone di oggi. Tra i famosi brani mi viene in mente America dove si dice «La vita può essere luminosa in America se sei bianco in America…» Questo continua ad essere vero. Ancora oggi le persone di colore non sono incluse equamente e mi piace pensare che le cose stiano migliorando, ma la macchia del razzismo nel nostro Paese è ancora molto diffusa e profonda. Un’altra delle questioni sociali sempre attuali di cui il musical

ci parla è la gentrificazione nei grandi centri urbani. Il quartiere dell’Upper West Side di New York dove la storia è ambientata è a pochi passi da casa mia. È una zona molto gentrificata in cui per fare posto a nuovi progetti edilizi sono state demolite molte piccole case e molte persone sono state costrette ad andar via. Oggi è un quartiere molto bello ma poco accessibile. Ha già menzionato alcuni degli elementi che rendono unico questo musical ma quali sono gli altri tratti che ne fanno un capolavoro assoluto? Intanto a renderlo eccezionale è l’altissimo di livello di scrittura dei testi. Poi non penso vi sia un altro musical con una combinazione e un equilibrio così perfetti tra storia, musiche e coreografia. Le singole parti che lo compongono sono di per sé eccezionali, ma è l’armonico insieme del tutto a rendere West Side Story un capolavoro senza tempo. La forza sta nella sua musica che non invecchia mai, sembra scritta oggi. Non ha l’impressione che in campo artistico, ma non solo, quando si tratta di capolavori abbiamo spesso la tendenza a guardare al passato? Oggi non siamo più in grado di raggiungere certi livelli? È una riflessione molto opportuna. Il librettista e sceneggiatore Arthur Laurents che ha scritto West Side Story proveniva da una tradizione teatrale di altissimo livello. Penso anche ad autori e scrittori di canzo-

È vero che sulla scena ci sono degli elementi nuovi di contesto per capire meglio la storia? Ho pensato che il sogno americano che si perpetua in realtà è soltanto un mito, non è veramente accessibile per le persone di colore o per le persone appartenenti alle fasce economiche più basse. Per questo sulla scena all’inizio presentiamo la statua della Libertà fatta a pezzi, proprio per simboleggiare la falsità della promessa dell’inclusione nella nostra società. In scena abbiamo aggiunto delle locandine pubblicitarie dell’America del dopoguerra in cui si pubblicizzano prodotti che promettono lusso e agio nella vita degli americani, una promessa che però vale solo per una parte di loro. Così il set è costellato di questi cartelloni che sono volutamente posizionati fuori dalla portata dei protagonisti, proprio per evidenziare come una certa fetta della popolazione sia in realtà esclusa dal sogno americano con tutta la rabbia che ne consegue. Ora che con West Side Story ha realizzato il suo grande sogno, nel cassetto ne ha uno nuovo? In questo momento mi trovo a Minneapolis e sto lavorando alla mia prossima opera. Si tratta di Peter Pan che curiosamente è un altro musical diretto da Jerome Robbins … Di recente, con il leggendario attore irlandese Gabriel Byrne ha lavorato al memoir Walking with Ghosts andato in scena a Broadway. Si tratta di un lavoro molto più intimista – tutt’altro genere dal musical e ci hanno molto sorpreso le parole di Byrne che in un’intervista ha sottolineato la connessione sprituale che a teatro si crea con il pubblico. Vale anche per un musical come questo? Gabriel Byrne è uno dei miei più cari amici, lavorare con lui è stata un’esperienza straordinaria. Sono profondamente d’accordo con quanto dice, creare una connessione intima con le persone in sala è l’anima del nostro lavoro. Spero che la tradizione dell’incontro fisico a teatro non svanisca mai perché la forza, la magia che si prova stando seduti insieme al buio ascoltando una storia è incomparabile a qualsiasi altra esperienza. Dove e quando West Side Story dal 23 al 28 gennaio al LAC. Per info e biglietti: www.luganolac.ch L’intervista completa sul sito di «Azione»: www.azione.ch


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CULTURA

Quella R4 color amaranto

Narrativa ◆ Un viaggio storico e sociale a bordo della Renault 4 Export

I libri di Piero Trellini, tutti molto corposi, articolati, costruiti come matrioske, hanno la forma complessa della moltitudine enciclopedica, e dell’enciclopedia la missione contenutistica di dare conto di ogni cosa dello scibile umano sia essa notizia storica, scientifica, sociale, nel caso di questo libro persino politica e industriale. R4, da Billancourt a via Caetani è una narrazione ancora una volta massimalista che copre un arco temporale di oltre un secolo, una moltiplicazione di storie e di voci, di personaggi rocamboleschi e bizzarri, maggiori e minori, blasonati e sconosciuti, che si succedono come in un grande romanzo d’appendice vertiginoso, un feuilleton contemporaneo fatto di tanti piccoli frammenti conchiusi, pieno di curiosità e aneddotica. Un tipo di narrare che dilata, allarga la prospettiva, avanza per moltitudine di eventi sensazionali come la nascita della Renault nel 1899 nelle officine (foto) «a un paio di strade di distanza dai neonati studi cinematografici dei fratelli Auguste e Louis Lumière», nel momento storico in cui «l’auto e il cinema rispecchiavano i sogni e le suggestioni di onnipotenza del positivismo», quando tutto comincia. Il libro ha anche il pregio del saggio, della ricostruzione storica, della dissertazione scientifica, mischia innovazione tecnologica e contesto sociale, quando analizza le fasi della nascita dell’industria dell’automobile,

l’intuizione rivoluzionaria della catena di montaggio nel periodo del taylorismo, gli scioperi operai, poi l’arrivo della prima grande guerra. Sempre in una Renault, modello NN Cabriolet Torpedo nella primavera del 1925 viaggiarono da Lione a Parigi diventando amici inseparabili due tra i maggiori scrittori del secolo, Ernest Hemingway e Francis Scott Fitzgerald, così come si racconta della filosofa Simon Weil che proprio per comprendere la vita dei lavoratori e il loro «senso di schiavitù», era andata a fare l’operaia nella fabbrica francese scrivendo successivamente La condizione operaia, ma c’è anche Adolf Hitler in questo libro che parla di automobili, e di una utilitaria che pensa «per il popolo». La scrittura per frammenti di Trellini è un nastro trasportatore che conduce il lettore nelle storie della Storia in una tramatura complessa, stratificata come un palinsesto, una lingua piana senza sbalzi e svolazzi al servizio della narrazione che è anche una sorta di controstoria italiana: i cosiddetti «ragazzi con le magliette a strisce» di Genova del 1960, il governo Tambroni, la polizia di Scelba e i morti di Reggio Emilia, ma anche l’istituzione della prima cattedra di filosofia a Trento con un intellettuale grandissimo, Franco Ferrarotti. Intanto il 3 agosto 1961 «la prima Renault 4 destinata a un acquirente uscì dalle linee di montaggio dello stabilimento dell’Ile Seguin», subito

definita «l’auto in blue jeans», Marcello Mastroianni ne regala una a Catherine Deneuve battezzandola «Chérie», da un punto di vista industriale e automobilistico «fu il risultato di una riduzione di costi e di un aumento di salari». L’autore intreccia storie, insegue personaggi e destini tra di loro apparentemente distanti, tra i valori della Resistenza traditi e i primi vagiti di quella che sarà la contestazione studentesca e il ’68 italiano, la battaglia di Valle Giulia, il suo racconto coglie le contraddizioni e le trasformazioni, dà conto del clima sociale. Prima che nascessero le Brigate Rosse è forte e inedito il rapporto tra il giovane editore rivoluzionario Giangiacomo Feltrinelli, Curcio e Franceschini, ma anche con Andreas Baader che incontra a Parigi e i ragazzi della Gauche Prolétarienne, avviene anche «la madre di tutte le stragi», Piazza Fontana 12 dicembre 1969, la strategia della tensione, Enrico Berlinguer diventa segretario del Partito comunista, alla Sit Siemens di Milano arriva dalle Marche Mario Moretti, che ha potuto studiare grazie all’aiuto della marchesa Casati, un’altra storia bizzarra. Nell’ultima parte, La Renault 4 di Moro c’è un libro nel libro, il romanzo del terrorismo rosso e della lotta armata, e riaffiora la R4, iniziano i primi attentati dimostrativi, i sequestri, gli arruolamenti alla Fiat Mirafiori, entrano in campo gli infiltrati dei servizi segreti, così come lo stragismo fascista.

Keystone

Angelo Ferracuti

È persino riduttivo dire in poco spazio di un libro complesso e inclassificabile come questo, fatto di quella che Kapuściński chiamava «storia viva», narrata, che è fatto di mille rivoli, rimandi, associazioni, un romanzo corale che alla fine converge inesorabilmente verso il destino dell’oggetto principale del racconto, della sua protagonista assoluta, l’automobile rubata dove il 9 maggio 1978 nel bagagliaio fu rinvenuto il cadavere di Aldo Moro in via Caetani, simbolicamente abbandonata tra la sede della Dc in Piazza del Gesù e quella del Pci in via delle Botteghe Oscure. Come in un giallo d’azione l’autore ricostruisce l’agguato, gli spari, l’uccisione degli uomini della scorta e il rapi-

mento dello statista democristiano e i movimenti dei brigatisti. Il proprietario di quella R4 Export color amaranto, un certo Mario Bartoli di Serravalle del Chienti, non avrebbe mai immaginato che la sua utilitaria dove trasportava materiale edile «sarebbe stata toccata da un ministro dell’Interno, avrebbe avuto la benedizione di un prete, avrebbe raccolto il presidente del più grande partito italiano e sarebbe finita sulla prima pagina del “New York Times”». Bibliografia Piero Trellini, R4 Da Billancourt a via Caetani, Mondadori, Milano, 2023. Annuncio pubblicitario

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Voci letterarie gettano un nuovo sguardo sul concetto di maternità Feuilleton ◆ Koch, Chollet, Nelson, Kawakami e Donath nei loro testi riflettono sulle scelte delle donne e di come vengono accolte dalla società Giorgia Del Don

Qual è quella persona provvista di utero che almeno una volta nella vita non si è sentita porre la fatidica domanda «hai figli?». Una domanda apparentemente banale che nasconde però un numero cospicuo di impliciti e che, a dipendenza della risposta data, appiccica sull’indagata un’etichetta della quale è molto difficile disfarsi. Se avere figli dà accesso alle sfere più alte dell’eteronormatività permettendo di integrare un gruppo apparentemente rassicurante di persone responsabili e «adulte», non averne fa invece spesso cadere su di sé un velo di sospetto. La domanda che naturalmente completa la prima è allora «perché?», come se il fatto di non volere o potere avere figli dovesse per forza essere giustificato. Scostarsi dalla norma, non seguire quello che sembra il destino di ogni essere umano, donne in primis, è spesso percepito come un affronto, una volontà deliberata di intaccare un meccanismo millenario sapientemente oliato. Sin dall’infanzia, l’idea che la maternità sia il culmine dell’identità profonda di ogni persona identificata come donna si fa inesorabilmente strada. Uscire da questa logica, sognare un destino altro, rimescolare le carte in tavola richiede allora una buona dose di coraggio.

E se, come auspicato da Koch, la donna «sola» fosse semplicemente «libera», libera dall’obbligo di trovare l’amore a tutti costi e fondare una famiglia? E se la zitella, non fosse una fallita ma una visionaria?

Pixabay

Che si tratti di coppie omosessuali o eterosessuali, la maternità è al centro di una normatività che, in un certo senso, sembra mettere tutti d’accordo. Se nei Paesi anglosassoni i concetti di childfree, ossia la scelta deliberata di non avere figli che si contrappone a quello di childless, essere senza figli per motivi che travalicano la volontà, sono entrati a tutti gli effetti nel vocabolario dando vita a gruppi di parola che rivendicano una vita al di fuori del bozzolo famigliare, alle nostre latitudini la situazione è ben diversa. Sebbene il solo fatto di parlare di vite «alternative», ma anche degli

inevitabili alti e bassi, delle contraddizioni e angosce propri dell’essere genitori, basti per provocare disagio, numerose sono le voci letterarie che, negli ultimi anni si sono innalzate con lo scopo di rileggere la maternità in modo più complesso e giusto. In ambito francofono, Marie Koch ha sicuramente toccato un tasto dolente decostruendo il personaggio della zitella. Nel suo libro del 2020 intitolato appunto Vieille fille (zitella in francese), l’autrice ne evidenzia la funzione sociale, l’incarnazione di un contro esempio ripugnante che ha lo scopo di mantenere le donne sulla retta via della maternità. Senza figli né marito, sola con i suoi gatti spelacchiati, brutta e trasandata, la zitella è messa alla gogna dalla società perché non è riuscita a compiere la propria missione. Come sottolineato da Koch, nonostante la donna celibe senza figli abbia con il tempo guadagnato in attrattività, la sua ragione d’essere si è però spesso spostata dai figli alla carriera come se dovesse in un certo senso colmare un manco percepito come inevitabile. Per non parlare poi delle «eroine» stile Bridget Jones che, fatalmente, dopo una trasformazione fisica infine completata, riescono, in extremis, a salvarsi da un destino di solitudine conquistando l’ultimo scapolo ancora disponibile. Una lezione che ci ricorda come, facendo un piccolo sforzo, ci si può ancora salvare. E se invece, come auspicato da Koch (lei stessa celibe senza figli), la donna «sola» fosse semplicemente «libera», libera dall’obbligo di trovare l’amore a tutti costi (trascorrendo un tempo considerevole alla ricerca di quella dolce metà che dovrebbe infine completarla), mettersi in coppia e fondare una famiglia? E se la zitella, invece di essere una fallita, una folle, fosse invece una visionaria? Cosa ne sarebbe della nostra società se ognuno di noi fosse davvero libero di scegliere? Sempre in ambito francofono, Mona Chollet si interessa anche lei alle anti eroine che hanno costellato la nostra storia, che sono state stigmatizzate in nome di una «normalità» da difendere a ogni costo: le streghe. Nel suo Sorcières, la giornalista e saggista franco-svizzera esplora tre archetipi di donne accusate di stregoneria: quelle celibi, senza figli o vedove.

Avvalendosi di ritratti di donne che la storia ha incessantemente censurato e cancellato, Mona Chollet ci mostra quanto l’emarginazione e il maltrattamento scaturiscano dal bisogno di eliminare, mettendo in avanti la pericolosità di traiettorie vitali che si scostano dalla retta via. Malgrado oggigiorno parlare di streghe faccia quasi sorridere è innegabile che molti dei pregiudizi e delle rappresentazioni proprie a quante hanno sfidato le convenzioni, persistono. Ci sono poi coloro che, seppur scegliendo di procreare, rifiutano di piegarsi all’immagine della buona madre devota alla famiglia che la società promuove senza badare a spese. Maggie Nelson, autrice dell’indomabile autobiografia Gli argonauti è sicuramente una delle portavoce più interessanti di questo movimento emancipatore che decostruisce l’idea stessa di coppia e di nucleo famigliare a favore di relazioni basate esclusivamente su un sentimento profondo di comunione. Scrittrice e poetessa, Maggie Nelson sposa l’artista transgender Harry Dodge diventando madre grazie alla fecondazione assistita. Quello che descrive, in uno stile ibrido fra narrazione e memoir, è l’incomprensione che la società manifesta nei confronti di un conglomerato di esseri umani che sfidano un sistema binario operante in ogni ambito: il genere, la maternità (buona o cattiva), la famiglia (accettabile o inaccettabile). Di una bellezza difficilmente definibile, Gli argonauti colpisce nel segno. Nella stessa logica si situa anche Seni e uova di Mieko Kawakami che sfida le regole della società nipponica, profondamente patriarcale, immaginando un concepimento «mostruoso» perché indipendente dal concetto di famiglia tradizionale formata da una mamma, un papà, uno o più figli. Kawakami si spinge persino più in là proponendo una procreazione fine a sé stessa in cui l’atto sessuale non fa più parte dell’equazione. Audace e terribilmente onesto è indubbiamente anche Pentirsi di essere madri della sociologa israeliana Orna Donath. Nato da uno studio sulle donne ebree che, in Israele, decidono di non avere figli, il libro infrange uno dei tabù più forti ossia il pentimento di fronte a una maternità non scelta, ma indotta da un condizionamento sociale che passa pericolosamente inosservato. Ciò che colpisce nel libro è la devozione con la quale le numerose madri intervistate interpretano il proprio ruolo senza che nulla trapeli del loro disagio profondo. Questo perché la felicità, la completezza del ruolo di madre non possono in nessun caso essere rimesse in questione. Pentirsi di essere madri non vuole dissuadere nessuno dal procreare, la sua ambizione è piuttosto quella di far riflettere sulle pressioni esercitate dalla società per andare in una sola direzione. Coraggiose e ispiranti, queste autrici evidenziano quanto sia importante ridare ad ognuna la possibilità di scegliere coscientemente come vivere la propria vita riconnettendosi con i propri desideri profondi: con o senza figli, sole, in coppia o in comunità.

Immagine della locandina del podcast

Accendere storie

Podcast ◆ Dopo La città dei vivi Nicola Lagioia su «Lucy» si cimenta in un podcast letterario Daniele Bernardi

Come certo molti sapranno, questa è l’epoca dei podcast. Infatti, forse a dispetto delle immagini che sempre più proliferano attraverso la moltitudine di schermi da cui siamo avvolti, vi è una consistente produzione di contenuti audio a episodi che raccoglie attorno a sé un crescente pubblico. Alcuni esempi: il celebre Veleno («laRepubblica», 2017) – l’inchiesta in sette puntate di Pablo Trincia e Alessia Rafanelli sul caso dei «diavoli della bassa modenese» – o il ben più recente (e di tutt’altra tematica) Fare un fuoco. Perché le storie accendono la nostra immaginazione del narratore e saggista Nicola Lagioia.

Fare un fuoco è un podcast interamente ideato e condotto dallo scrittore barese, classe 1973 sulla rivista culturale «Lucy» Premio Strega del 2015 col romanzo La ferocia (Einaudi, 2014) Lagioia è, fra le altre cose, direttore editoriale della rivista indipendente «Lucy» – periodico multimediale di arti e attualità il cui nome omaggia il celebre australopiteco rinvenuto in Etiopia nel 1974 – ed è stato alla guida del Salone del libro di Torino dal 2017 al 2023. Fra i suoi titoli si ricordano anche Tre sistemi per sbarazzarsi di Tolstoj (senza risparmiare se stessi) (minimumfax, 2001), Occidente per principianti (Einaudi, 2004), Riportando tutto a casa (Einaudi, 2009), La città dei vivi (Einaudi, 2020) che è diventato anche un podcast di successo su Chora Media. Dal 2010, inoltre, è una delle voci di Rai – Radio 3 per la rassegna quotidiana delle pagine culturali. Fare un fuoco è un podcast interamente ideato e condotto dallo scrittore il cui intento sembra essere duplice: da un lato offrire la propria visione di libri e autori che hanno segnato la storia della letteratura, dall’altro avvalersi della letteratura stessa quale strumento di possibile scandaglio della realtà. Naturalmente il titolo del programma è un diretto riferimento all’omonimo racconto di Jack London, in cui il protagonista è vittima di continui «inciampi» che gli impediscono di accendere la legna con cui scaldarsi. In questo senso Fare un fuoco rispetta la sua fonte ispiratrice a causa del suo andamento di-

scontinuo, non sempre perfettamente azzeccato. Sì, perché se episodi come quelli dedicati a Roberto Bolaño, alle sorelle Brönte e Malcom Lowry risultano efficaci e ci fanno venire voglia di andare a cercare una copia dei Detective selvaggi, di Cime tempestose o di Sotto il vulcano, lo stesso non si può dire per altri, dove si narra di un’esperienza professionale come selezionatore per la Mostra del cinema di Venezia o di quali sono state le storie che hanno acceso l’immaginazione degli ascoltatori e dei collaboratori di «Lucy». Rispetto agli oggetti d’interesse precedenti, quest’ultimi risultano decisamente più deboli e il racconto a loro riservato si presenta con una ragione d’essere molto meno forte. Qualcosa di simile – non di uguale – si potrebbe anche dire per quegli episodi in cui Lagioia approccia questioni estremamente vaste attraverso l’accostamento di più autori (una sorta di registro comparatistico, dunque). Penso soprattutto a puntate come quella sulla guerra, che, benché ricca di spunti interessanti, perde in pregnanza a causa della vastità di un argomento che, oggi più che mai, ci assilla e sfugge al contempo. Infine, altro elemento non sempre convincente è la parte sonora di accompagnamento: per quel che concerne la pura sonorizzazione (non quindi l’aspetto prettamente musicale) questa cede a volte al didascalico, costringendo l’immaginazione a non sforzarsi più di tanto. E pure la mancanza di voci altre (salvo rare eccezioni) a variare il parlato con letture, inserti e interventi, in questo specifico caso non aiuta a dare un diversificato respiro al tutto. Con ciò non si vuole dire che un podcast debba per forza essere un’esplosione in cui si sfoggiano tutti i colori o le straordinarie conquiste della post-produzione, anzi. Per «fare un fuoco», teoricamente, basterebbe accatastare tre legni e, successivamente, aggiungere ciò che la sopravvivenza della fiamma esige. Intanto il podcast settimanale si può recuperare sul sito di «Lucy» ma anche sulle piattaforme Spotify, Spreaker, Apple Podcasts, Amazon Music e tutte le piattaforme gratuite. Informazioni www.lucysullacultura. com/podcast/ fare-un-fuoco-nicola-lagioia


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CULTURA

Flavio Paolucci, ritratto d’artista

Incontri ◆ A Soletta, dove questa settimana inizia il Festival del cinema, Villi Hermann con il suo film omaggia Paolucci Nicola Falcinella

Villi Hermann, in che modo conosceva Paolucci prima del film? Lo conoscevo soprattutto tramite le sue opere, specialmente le stampe. I quadri si vedono in una mostra, le stampe o le litografie sono più accessibili, si possono comprare e capitano spesso sotto gli occhi. Così avevo acquistato due piccole stampe 10-15 anni fa perché mi piacevano. Di persona ci incontravamo a qualche vernissage di una sua mostra o di un pittore locale, scambiandoci sorrisi e parole di circostanza. Con il film ci siamo frequentati per un anno. L’idea del documentario da dove nasce? Un giorno ho notato che il cinema non se n’era mai occupato, a parte qualche breve servizio in tv. Ho pensato che fosse il momento giusto, considerata anche la sua età. Ho pre-

so contatto e sono andato a trovarlo. Gli ho fatto vedere i film che ho fatto su altri artisti ticinesi, Sam Gabai. Presenze e Walker. Renzo Ferrari. A Flavio è piaciuta l’idea, però ha detto subito che quando crea non vuole nessuno intorno. Sembrava un problema insormontabile, ma abbiamo risolto installando tre videocamere nell’atelier per due giorni: lui alla mattina arrivava e le accendeva e alla sera le spegneva. È stata un’idea stimolante, ma c’era pure il rischio che in quelle giornate non creasse niente. Dal film emergono molte cose in comune tra voi due. L’aveva già capito o l’ha scoperto facendolo? Me ne sono accorto con il film. Abbiamo davvero tante somiglianze: il ’68, l’essere stati a Parigi quasi nello stesso periodo, le esperienze in Magreb – lui in Marocco e io in Algeria –, l’essere tornati in Ticino, l’indipendenza, il fare tutto o quasi da soli. L’unica cosa molto diversa è il rapporto con la musica. Normalmente i pittori ascoltano musica mentre lavorano, lui sta nel silenzio totale dell’atelier. Il sonoro del bosco e il silenzio sono sufficienti per creare. Invece io ascolto molta musica e la seguo. Quale musica ascolta? Ascolto musica in macchina e in ufficio. Sono un vecchio fan dell’hard rock anni 60 e 70. Non saprei per quale ragione, forse per l’andare contro certi canoni. Anche la musica elettronica allora era contro l’establishment. Poi mi piace la musica moderna di Nono, Maderna o Bussoni. Anche nel cinema seguivo l’underground americano o inglese come Jonas Mekas o Derek Jarman: mi hanno aperto gli occhi sull’esistenza di

bn©imagofilm

Nel 2021 il ticinese Villi Hermann era stato omaggiato dalle Giornate del cinema di Soletta con una retrospettiva completa della sua attività di cineasta e produttore. Domenica vi fa ritorno con il suo più recente documentario, Flavio Paolucci – Da Guelmim a Biasca, un ritratto dell’artista della Val di Blenio (nella foto), selezionato per la sezione Panorama del 59esimo festival (www.journeesdesoleure.ch) in programma da mercoledì fino al 24 gennaio. Il film osserva Paolucci nel suo laboratorio e lo segue nelle camminate nel bosco intorno a Biasca che lo ispirano continuamente. C’è pure il deserto marocchino di Guelmim che fu fondamentale nella sua formazione artistica. Il documentario sarà proiettato a Blenio il 31 e il primo febbraio al Lux a Lugano e al Rialto a Locarno.

un altro cinema rispetto a quello che racconta soltanto una storia o deve far ridere. Però nel documentario c’è addirittura un concerto! Il concerto nel bosco è stata un’idea in contrapposizione al pittore che non ascolta musica. È una scena di finzione con lui che cammina e incontra un gruppo di musicisti che provano. Paolucci, che vive il mondo chiuso nell’atelier, va da solo nel bosco e incontra la musica composta da Zeno Gabaglio, che lavora con me da tanti anni. È un tentativo di non nascondere la musica del film, per far capire che la musica può essere anche visibile, non è solo da ascoltare. Ho filmato il concertino con quasi tutti primi piani sui musicisti, gli strumenti e i gesti: anche loro fanno parte del film come Paolucci che cammina nel bosco.

Si vede l’artista al lavoro ma sono presenti anche le sue opere del passato. Mi interessava molto il suo trascorso, i quadri realizzati negli anni 60 e 70. Conoscevo quello che ha fatto dopo il 1980 e volevo scoprire il resto. I suoi lavori del ’68 e dintorni sono poco noti in Ticino, perché Paolucci partecipava ai movimenti dell’arte pop oltre San Gottardo. A volte, mentre filmavo, tirava fuori i quadri e parlava. È sempre stato disponibile, anche se dovevamo coordinarci con Alberto Meroni, che ha fatto le immagini. Volevo filmare la fonderia nel Mendrisiotto, una cosa unica, ne conoscevo l’esistenza, ma non ero mai entrato. Mi piace sempre scoprire qualcosa nel mio vicinato mentre filmo: mi veniva in mente Andrei Rublev di Andrei Tarkovski.

Colpisce molto che faccia tutto da solo. È ancora l’artigiano che fa tutto e controlla tutto, dai materiali al trasporto dei pezzi. Da una parte è l’opposto di Alberto Giacometti, che diventò urbano stabilendosi a Parigi, ma un po’ lo ricorda. È molto stimato, ma possiede una modestia che mi piace. È cosciente del suo valore, ma non se la tira, resta defilato. Si ispira molto alla natura, usa il legno o il sasso, non per moda, ma ha sempre preso i materiali della sua valle: raccoglie la fuliggine dei vecchi camini per fare il colore nero! È un uomo taciturno, per questo ho fatto il film. Colpisce anche quanto la sua arte negli anni sia diventata essenziale. Sì, tende all’essenzialità, tenta di eliminare le cose che gli sembrano inutili. A una certa età non ha più bisogno di molto per esprimersi. Anziché meditare davanti alla tela, va a camminare e si ispira mentre cammina. È una cosa alla portata di tutti. È sufficiente guardare fuori. In più c’è l’aspetto politico. In lui – fin dagli anni 60 e nel ’68 – c’è sempre stato l’impegno politico. E poi la guerra in Vietnam che in quel periodo segnò un po’ tutti. Mi è piaciuto il suo omaggio a Pasolini, che non conoscevo. E c’è il monumento sul Monte Ceneri dedicato ai combattenti ticinesi nella guerra civile di Spagna. Circa 80 partirono dal Ticino e un piccolo gruppo di anarchici da Biasca a combattere per la repubblica. Quasi nessuno si ricorda del monumento ed è triste che l’abbiano distrutto e anche rubato l’ascia.

L’airone, il bambino e la difficile arte della vita

Cinema ◆ Vincitore ai Golden Globes, il lungometraggio animato di Hayao Miyazaki in questi giorni è nelle nostre sale

L’esordio in Italia il primo gennaio de Il ragazzo e l’airone, dodicesimo film di Hayao Miyazaki, somiglia alla progressione di cifre a sei zeri che ha caratterizzato gli incassi di C’è ancora domani di Paola Cortellesi: tre milioni di euro e 265.000 spettatori nei soli primi tre giorni di programmazione. Nel 2013 con Si alza il vento il regista aveva annunciato il suo congedo dal cinema, e invece dopo una lunga gestazione complicata dal biennio Covid è arrivato Il ragazzo e l’airone, che ha appena trionfato ai Golden Globes, un altro primato. La storia ci porta in un mondo poco accogliente dove l’adolescente Mahito dovrà confrontarsi con il dolore e la paura per trovare risposta alla domanda del titolo originale del film, E voi come vivrete? (che è anche il titolo del romanzo di formazione del 1937 di Genzaburō Yoshino, a cui Miyazaki si richiama, pur firmando soggetto e sceneggiatura). Siamo a Tokyo nel 1943: la guerra impazza con la sua scia di morte che si coagulerà due anni più tardi nella tragedia atomica. Per Mahito l’ingresso nell’età adulta coincide con una perdita importante: la morte della madre nell’incendio di un ospedale bombardato, raccontata in una scena epocale all’inizio del film.

E coincide con un cambio di vita: lasciata Tokyo, Mahito e il padre vanno a vivere in campagna nella casa avita della madre e della zia, che nel frattempo è diventata la nuova compagna del padre, e che aspetta un figlio. Una casa abitata da vecchiette eccentriche, sulla quale volteggia un dispettoso airone e dove l’unico elemento di attrazione è una torre lugubre costruita da un misterioso prozio. C’è quanto basta per provare sentimenti di astio e di rabbia che porteranno Mahito prima a rifugiarsi nel silenzio della convalescenza dopo una ferita autoinferta e poi a un viaggio nella torre proibita alla ricerca della zia e nella speranza di rincontrare la madre, in compagnia di un’anziana domestica e dell’airone che svelerà la sua vera identità. Un viaggio in un mondo altro, sommerso, abitato da parrocchetti che non volano, pellicani aggressivi, embrioni di anime umane: un mondo dove la natura ha perso il suo incanto per diventare minacciosa. E questo viaggio scandito da più piani temporali e con innumerevoli persone, che poi è anche e soprattutto un viaggio dentro di sé, darà al ragazzo l’occasione di conoscere il prozio-demiurgo che ha creato quel mondo, e che lo vorrebbe come successore per preservarne bellezza e armonia. Mahito si

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Alessandra Matti

chiederà se l’equilibrio impermanente delle cose sia la cifra della realtà, e alla fine farà una scelta. Il ragazzo e l’airone è la meravigliosa e struggente sintesi in cui Hayao Miyazaki ha riversato vita, citazioni, echi della sua filmografia e i vertici raggiunti dalla tecnica di animazione, che fa del film un’esperienza immersiva. Il rapporto tra Mahito e la zia ci parla dell’infanzia di Miyazaki: anche la madre del regista, Dola, era la seconda compagna del padre che, rimasto vedovo, sposò la sorella della moglie. Molteplici poi i richiami ad altri film: i relitti delle navi del mondo

sommerso rimandano agli aerei che volano alti nel cielo di Porco rosso, per fare solo un esempio tra i tanti. Struggenti sono i due messaggi che il regista consegna al film. Miyazaki risponde alla domanda «e voi come vivrete?» con la scelta di Mahito di lasciare il mondo sommerso per tornare in quello da cui è venuto con le sue imperfezioni e storture. È un invito a vivere il mondo nella sua complessità, per quanto deludente possa essere, pensando alle generazioni future alle quali lo consegneremo. A viverlo possibilmente in compagnia di amici, di una passione o di un

mentore, come per Miyazaki è stato Isao Takahata fino alla sua scomparsa nel 2018. Guarda al futuro anche l’altro messaggio del film. Miyazaki, come il prozio-demiurgo, si interroga su chi raccoglierà la sua eredità e affida la risposta a un’iscrizione su un cancello di una tomba nel mondo sommerso, una chiara citazione dell’Isola dei morti di Arnold Böcklin (non a caso un pittore simbolista): «Colui che farà come me morirà». È un vecchio adagio orientale che invita a imparare sì, ma per rielaborare e dare vita a qualcosa di originale che resti nel tempo. La risposta di Miyazaki è il film: la sintesi di sessant’anni di lavoro a disposizione di chiunque voglia attingere per imparare e ispirarsi, frutto di collaborazioni con altri importanti studi di animazione come lo Studio Ponoc e lo Studio Chizu. Siamo il prodotto delle nostre radici e del carattere: a nostra volta lasciamo qualcosa, piccolo o grande, dopo di noi: il nostro retaggio. La condivisione è forza: insieme si lavora meglio. Dovremmo farne il mantra delle nostre vite. Grazie, Maestro, per la bellezza elargita a piene mani nelle sue storie. Fosse anche l’ultimo film, non smetteremo di sognare rivedendoli tutti!


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