Cooperativa Migros Ticino
Società e Territorio Nuovi studi e riflessioni mettono in luce l’importante ruolo sociale e affettivo delle sorelle e dei fratelli di persone con disabilità
Ambiente e Benessere Reportage inatteso a Parigi: un modo insolito per percorrere epoche e avvenimenti nella storia della città è attraversare le sue catacombe
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXII 28 gennaio 2019
Azione 05 Politica e Economia Congelare le aree edificabili per salvare il verde? Un’iniziativa popolare al voto il 10 febbraio
Cultura e Spettacoli Neri Pozza ridà alle stampe Jakob il bugiardo, piccolo capolavoro di Jurek Becker
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di Christian Rocca pagina 29
Marka
Non è solo un gioco (facciale)
Pensare, credere e credere di pensare di Peter Schiesser Siamo esseri razionali, noi umani? Basta guardarsi attorno per rispondere di sì: tutto ciò che le mani, gli attrezzi, le macchine hanno creato, la mente umana ha pensato. Un pensiero logico, che resiste alle analisi e alla prova dei fatti: un aereo resta in aria perché scienziati, ingegneri, manovalanza e macchine danno le risposte concrete alle esigenze poste dalla fisica. Penso, dunque sono. Ma siamo anche esseri irrazionali. In certi ambiti della vita sono gli istinti a dominare, è l’intuito che giunge da chissà dove a guidarci, nelle azioni e nei pensieri. Anche qui, basta guardarsi attorno: che ne sarebbe del puro pensiero astratto se nella mente umana non fosse scattata l’idea, la visione di una cosa, l’intuizione della creazione? Anche semplicemente guardando un moderno grattacielo delle metropoli mondiali, possiamo gettare uno sguardo nella fantasia che nasce, anch’essa, nella mente umana. Credo (nella fattibilità di una visione) quindi sono. E se parliamo di credere, non possiamo ignorare che accanto a visioni più materiali è presente con forza il credere – semplifichiamo – in un’ideologia o in una religione.
Naturalmente, questa coabitazione di razionalità a irrazionalità (che sono concetti a loro volta vasti) può complicare le cose nella percezione della realtà, nella definizione della realtà. Perché non sempre le due cose sono separate. A osservare bene, si scopre che l’io può utilizzare la logica della mente per confermare la validità della propria idea o posizione istintiva (e chi è più intelligente, più intelligentemente trova conferme). In questo caso, non stiamo pensando razionalmente, bensì crediamo di pensare. Crediamo, non pensiamo. E il credo per sua natura si difende, anche con l’ausilio della mente, dall’analisi critica, da ciò che può infrangere la sua integrità. Ora la domanda è: è più frequente il pensiero analitico o quello dominato dal proprio istinto? A giudicare il debole che il genere umano mostra verso le fake news, dovremmo concludere che c’è un’importante fetta dell’umanità che per un motivo o l’altro vuole istintivamente credere a qualcosa che la sua mente deve confermare essere vero, ma che un’analisi logica smentirebbe. Le teorie del complotto si iscrivono nello stesso filone: insinuano che la realtà non è come te la spiegano, c’è sicuramente dietro dell’altro, ti nascondono le cose; per cui i racconti più fantasiosi su fatti non del tutto inverosimili,
che ovviamente l’ufficialità non vuole divulgare, diventano narrazioni del lato oscuro del mondo. C’è un evidente bisogno umano di immaginare una realtà aumentata... Visto il consistente potere propagandistico che le fake news hanno in questi tempi, stanno riflettendo su questi meccanismi anche fior di psicologi ed esperti di scienze cognitive e della mente. Due di loro, i professori statunitensi Gordon Pennycook e David Rand hanno sintetizzato sul «New York Times» (22.1.2019) le due posizioni dominanti nel dibattito specialistico sui meccanismi mentali che portano ad accettare le fake news: c’è chi ritiene che la mente del singolo utilizzi il pensiero per confermare una propria opinione istintiva, o comunque irrazionale; c’è invece chi, come i due autori citati, sostiene che chi cede alla tentazione di credere alle fake news lo fa per una pigrizia mentale, in sostanza non fa sufficiente uso della capacità di analisi che il nostro cervello mette a disposizione. In realtà, per i due autori entrambe le teorie hanno una loro validità e tenere conto di ciò può aprire nuove vie ad una comprensione scientifica ancora più profonda dello strano amore dell’essere umano per le fake news attraverso i millenni – con la speranza di potervi porre rimedio.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 gennaio 2019 • N. 05
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Attualità Migros
Solido sviluppo del fatturato e forte incremento nell’e-commerce Comunità Migros Le cifre dell’attività 2018 mostrano un rafforzamento della posizione
di leader del mercato dell’azienda svizzera Nel 2018 Migros ha realizzato un fatturato di 28.437 miliardi di franchi, segnando una crescita dell’1,3 per cento. Il fatturato nel commercio al dettaglio ha registrato un incremento dell’1,9 per cento, attestandosi a 23,730 miliardi di franchi. Sul piano nazionale e straniero, le dieci cooperative regionali hanno realizzato assieme un fatturato di 15,921 miliardi di franchi (+2,3 per cento). Il fatturato del grande magazzino online Digitec Galaxus è cresciuto del 14,2 per cento, attestandosi a 953 milioni di franchi.
La popolarità dei prodotti regionali e di quelli ad alto valore aggiunto ecologico è stata confermata Per ciò che riguarda il fatturato nel commercio al dettaglio nazionale ed estero, esso viene presentato in modo consolidato dal 2018 e ha raggiunto 23,730 miliardi di franchi (esercizio precedente: 23,296 miliardi di franchi), segnando un incremento dell’1,9 per cento. Il fatturato consolidato del commercio al dettaglio delle cooperative è aumentato del 2,5 per cento, attestandosi a 16,858 miliardi di franchi. Nel 2018 i supermercati e gli ipermercati Migros hanno realizzato in Svizzera un fatturato di 11,765 miliardi di franchi. In questo modo, nonostante la difficile situazione di mercato, le dieci cooperative Migros sono riuscite a conseguire un aumento dell’1,5 per cento rispetto all’esercizio precedente. Il fattore determinate è stato l’incremento nell’affluenza dei clienti, che ha
raggiunto i 350 milioni di scontrini di cassa (+1,5 per cento). Nell’ambito dell’e-commerce Migros è riuscita ad ampliare la sua indiscussa posizione di leader di mercato in Svizzera. L’intero fatturato del commercio online, incluso quello di Digitec Galaxus, si è attestato a 2,139 miliardi di franchi (+9,9 per cento). Gli shop online dei negozi specializzati hanno continuato a evolversi in modo soddisfacente registrando una crescita del fatturato di +25,2 per cento. I prodotti regionali e sostenibili mantengono intatta la loro popolarità. I clienti hanno acquistato oltre il 3 per cento in più dei classici prodotti Migros dell’assortimento «Aus der Region. Für die Region» (nel nostro cantone «Nostrani del Ticino»). Anche per quanto concerne i prodotti con valore aggiunto ecologico o sociale, il fatturato è maggiore rispetto all’esercizio precedente e ammonta in totale a 3,103 miliardi di franchi, segnando un incremento del 4,7 per cento. Per quanto concerne l’ambito Salute, l’anno appena passato ha visto un ampliamento dell’offerta terapeutica e medica di Medbase/santémed. Il fatturato raggiunto in questo ambito ammonta a 150 milioni di franchi (+7,9 per cento). La rete di punti vendita Migros è cresciuta di 26 unità, raggiungendo così un totale di 727 filiali. La superficie di vendita dei supermercati/ipermercati e della Gastronomia si estende ora su 1’476’827 mq (+5,3 per cento). Considerando gli altri ambiti dell’attività aziendale, nel 2018 il settore di attività strategico del commercio ha realizzato un fatturato consolidato di 7,869 miliardi di franchi (+0,7 per cento). Con un incremento del 4,3 per
Più clienti nelle filiali svizzere di Migros, nel 2018. (MM)
cento, Denner ha conseguito una performance molto positiva, registrando un fatturato di 3,182 miliardi di franchi. Nell’attuale e difficile situazione di mercato, Globus ha continuato la trasformazione della sua rete di filiali e nel 2018 ha realizzato 808 milioni di franchi (–5,7 per cento) di fatturato. In rapporto alla superficie di vendita effettiva, è stato realizzato un incremento dello 0,4 per cento. Anche nel 2018 l’Industria Migros è riuscita a incrementare il commercio estero di oltre il 10 per cento. In totale
ha realizzato un fatturato consolidato di 5,835 miliardi di franchi (esercizio precedente: 5,905 miliardi di franchi). Il motivo di tale riduzione è da ricondurre ai mancati introiti dovuti alla vendita di CCA Angehrn. Non considerando la vendita di CCA Angehrn, il fatturato è aumentato del 2,8 per cento. Nonostante la grande competitività sul piano nazionale, il fallimento di alcune compagnie aeree, l’improvvisa debolezza delle prenotazioni durante la calda estate 2018 e l’incertezza dovuta alla Brexit in Inghilterra, il settore
di attività strategico Viaggi ha comunque realizzato un fatturato più elevato. Con un incremento del 3,9 per cento, il fatturato netto del Gruppo Hotelplan si attesta a 1,259 miliardi di franchi (esercizio precedente: 1,212 miliardi di franchi). Dal canto suo, Banca Migros ha conseguito un buono sviluppo nelle sue attività principali. Progressi degni di nota sono stati realizzati negli ambiti delle ipoteche e degli investimenti, che sono stati entrambi ulteriormente ampliati. L’utile netto è aumentato del 2,3% a 228 milioni di franchi.
Tante belle domeniche sulla neve Sport invernali Il Famigros Ski Day e il Grand Prix Migros invitano grandi e piccoli sciatori
a trascorrere giornate divertenti sulle piste Da diversi anni ormai Migros organizza per il pubblico manifestazioni all’aria aperta da trascorrere con gli sci ai piedi. Famigros Ski Day e Grand Prix Migros fanno infatti parte del calendario degli appuntamenti domenicali della stagione invernale svizzera e propongono ai partecipanti molti giochi e divertimenti stimolanti e coinvolgenti. Il Famigros Ski Day è programmato in 18 stazioni sciistiche elvetiche e propone alle famiglie di appassionati di partecipare insieme a una giornata diversa dalle altre. Il costo dell’iscrizione è particolarmente contenuto, proprio per permettere a tutti di prendere parte all’evento. La quota comprende infatti una carta giornaliera per tutti gli iscritti, il costo del pranzo di mezzogiorno e molti altri vantaggi. Momento clou della giornata è naturalmente la competizione di famiglia, a cui tutti i membri possono prendere parte inforcando i loro sci o gli snowboard. Si tratta di una discesa
Azione
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
Una giornata speciale...
di gruppo su un tracciato semplificato, in cui il cronometro viene fermato al momento dell’arrivo dell’ultimo dei membri della famiglia. La performance famigliare sarà tra l’altro filmata in esclusiva e i concorrenti potranno portare con sé al momento del ritorno a casa il video ricordo delle loro prestazioni. I migliori filmati, così come le migliori foto della giornata, saranno
poi pubblicati sul sito web della manifestazione. Oltre all’aspetto agonistico i Famigros Ski Day saranno naturalmente caratterizzati da giochi e da momenti di animazione. Lo sponsor principale Famigros, l’organizzatore Swiss-Ski e i co-sponsors SportXX, Rivella et BWT cureranno l’organizzazione di momenti divertenti e di giochi con super-
Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch
Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11
La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni
Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31
premi da vincere. I costi di iscrizione per famiglia ammontano a 110 franchi: i membri di Famigros, il club delle famiglie di Migros, ottengono una riduzione a 85 franchi. Le iscrizioni devono avvenire online all’indirizzo www.famigros-ski-day.ch. La tappa ticinese di quest’anno si terrà sulle piste di Airolo la domenica 3 marzo 2019. Altro appuntamento sciistico di grande richiamo è sicuramente il Grand Prix Migros. Si tratta della più importante gara per giovani tra gli 8 e i 16 anni. Lo scorso anno sono stati ben 6500 i concorrenti in lizza per le 13 gare di selezione di questa serie attesissima e prestigiosa. Il suo richiamo è dovuto certamente al fatto che sono stati molti i vincitori delle sue gare a cui si è aperta una carriera agonistica nelle file della Nazionale elvetica. Nonostante questo, il motto delle giornate del Grand Prix Migros rimane il decoubertiniano «L’importante è partecipare». Quest’anno toccherà ai giovani
sciatori nati negli anni dal 2003 al 2011: possono iscriversi già da ora a una delle eliminatorie regionali. La tappa del Grand prix Migros dedicata alla Svizzera italiana è prevista come sempre ad Airolo, sabato 2 marzo. La finale del campionato si terrà invece dal 28 al 31 marzo a Sörenberg. Per le iscrizioni: www.gp-migros.ch.
Tiratura 102’022 copie
Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch
Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch
Famigros Ski Day 2019
02 febbraio Marbachegg 03 febbraio Diemtigtal 10 febbraio Hoch-Ybrig 17 febbraio Stoos 23 febbraio Sörenberg 24 febbraio Sörenberg 03 marzo Airolo 10 marzo Lenk 17 marzo Braunwald 24 marzo Col Des Mosses
Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 gennaio 2019 • N. 05
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Moro Un’arancia sanguigna dal gusto pieno e ricco, molto succosa, ideale per le spremute, insalate di arance e marmellate.
climatiche ideali per la coltivazione degli agrumi, grazie alla vicinanza del vulcano Etna, alle forti escursioni termiche giornaliere e alla mineralità dei terreni. Le profumate arance Tarocco e Moro bio di questa azienda giungono anche sugli scaffali di Migros: «In Svizzera Migros è il nostro cliente più importante», afferma Francesco Ragazzi, titolare della cooperativa. «Sono oltre vent’anni che produciamo con tecniche di agricoltura biologica. Incremento della biodiversità di flora e fauna, protezione sostenibile del suolo, ritenzione idrica e aumento della fertilità del suolo sono i nostri punti prioritari. Vogliamo ottenere dei rendimenti stabili piuttosto che rese massime, come pure dei frutti dalle caratteristiche organolettiche migliori».
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conosciamo comunemente, inoltre non dovrete più preoccuparvi di avere l’alito cattivo. L’aglio nero può essere consumato da solo, assolutamente da provare, oppure tagliato finemente come ingrediente o condimento abbinato ai piatti più variegati, come insalate, carni, pesce, paste, verdure, salse, sughi o secondo la vostra fantasia culinaria. Infine, l’aglio in generale è un buon alleato della salute: è ricco di antiossidanti e possiede importanti proprietà antivirali, antibatteriche e antimicotiche.
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Idee e acquisti per la settimana
Passione per le cose buone Attualità Il Gorgonzola «Selezione Reale» DOP per i vostri piatti d’eccellenza
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È dal 1919 che il caseificio novarese Mario Costa produce un vero capolavoro di formaggio: il Gorgonzola «Selezione Reale» DOP (Denominazione di Origine Protetta). Tradizione, genuinità, qualità ed ecologia rappresentano i valori chiave su cui si basa la strategia di conduzione di questa azienda famigliare giunta alla quarta generazione. Nel 2014 a Casalino, in provincia di Novara, la Mario Costa inaugura un nuovo stabilimento dotato delle tecnologie produttive, igieniche ed ecologiche più all’avanguardia. La lavorazione del pregiato latte, proveniente da allevamenti selezionati e certificati DOP, è effettuata da mani sapienti con appassionato rispetto per la grande tradizione casearia locale. Il latte viene preriscaldato e pastorizzato, processo che permette di distruggere i germi patogeni ed ottenere un prodotto più omogeneo. Per una forma di 12 kg di formaggio, occorre quasi un quintale di latte. Il latte viene cagliato a 28-32°C con caglio di vitello. La preparazione avviene per stratificazione con cagliate raffreddate. Dopo alcuni giorni si effettua la salatura a secco che si protrae per alcuni
giorni a 18-20°C. Segue la delicata fase di stagionatura, che dura non meno di due mesi, in ambienti umidi a 2-4°C, dove le forme vengono forate più volte per favorire lo sviluppo della varietà di muffa commestibile Penicillium, processo che determina la caratteristica colorazione verde/blu della pasta, conosciuta come erborinatura.
Naturalmente privo di lattosio e privo di glutine
Il Gorgonzola è l’unico formaggio a pasta molle naturalmente privo di lattosio e glutine. Inoltre offre, con ogni porzione, un prezioso apporto proteico e un’alta digeribilità: sali minerali come calcio, ferro e fosforo lo rendono infatti un prodotto completo ed equilibrato,
Un vero classico
arricchire i piatti più classici della tradizione italiana. Migros Ticino propone il Gorgonzola «Selezione Reale» sia a libero servizio, sia al banco casaro, come pure il Gorgonzola Piccante e il Gorgonzola Mascarpone confezionati. Infine, dall’1 al 2 febbraio, il supermercato Migros di Pregassona ospita una degustazione di Gorgonzola «Selezione Reale».
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Società e Territorio Genitori nelle chat Come sopravvivere al gruppo WhatsApp dei genitori dei compagni di classe del proprio figlio?
Il femminismo oggi La lettura parallela dei due libri, uno di Jessa Crispin e uno di Giulia Blasi, aiuta a comprendere la condizione del femminismo odierno
La tavola periodica ha 150 anni Il 2019 è stato proclamato «Anno internazionale della tavola periodica degli elementi chimici» pagina 13
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La voce dei siblings
Famiglia Atgabbes coordina un ampio
gruppo di lavoro per approfondire i vissuti e i bisogni delle sorelle e dei fratelli di persone con disabilità
Stefania Hubmann Accompagnano la persona con disabilità lungo l’arco più lungo della vita eppure fino a tempi recenti hanno goduto di poca visibilità. Sono le sorelle e i fratelli, che nell’ambito psicologico, in quello pedagogico e sempre più anche nel linguaggio comune vengono riuniti nella parola inglese siblings. A loro la scorsa primavera è stata dedicata una conferenza organizzata a Lugano da Atgabbes (Associazione ticinese di genitori ed amici dei bambini bisognosi di educazione speciale) in collaborazione con altri enti attivi sul territorio. Il suo successo ha confermato l’interesse per la tematica. Ulteriori iniziative e in particolare un percorso fra pari sono in divenire per esplorare i diversi aspetti di questa realtà misconosciuta. Realtà più che mai attuale di fronte all’aumento della speranza di vita delle persone con disabilità con conseguente perdita dei genitori quali punto di riferimento umano e legale. L’assunzione di responsabilità da parte dei siblings – in numerosi casi già sempre condivisa con la famiglia – è solo uno degli aspetti di questo particolare rapporto. La sua specificità per alcuni è più marcata che per altri. Essenziale è sempre la relazione di fratellanza ribadita in fondo anche dalla neutralità del termine inglese. Anche per questo motivo Atgabbes funge da coordinatrice più che promotrice di un ampio gruppo di lavoro che comprende AFTOIM (Associazione dei Familiari e dei Tutori degli Ospiti Istituto Miralago), asi (autismo svizzera italiana), Fondazione ARES (Autismo Ricerca E Sviluppo) e Progetto Avventuno (associazione per la Trisomia 21). L’intento è quello di «Dare voce ai siblings», come indica il titolo del dossier apparso nell’ultimo numero del bollettino dell’associazione, senza partire da un punto di vista predefinito, ma offrendo la possibilità di approfondire e svelare più approcci. Per Donatella Oggier-Fusi, segretaria di organizzazione di Atgabbes, l’essenziale è promuovere il concetto di siblings a livello culturale. Precisa
al riguardo: «Si tratta di riconoscere i bisogni ma anche il ruolo sociale di fratelli e sorelle coinvolgendo in primo luogo i diretti interessati. Negli ultimi anni l’associazione si è posta a più riprese la questione, optando per una visione ampia. Quest’ultima si sta concretizzando con un progetto comune che mira a sviluppare cinque piste di approfondimento: i vissuti dei siblings, l’informazione al pubblico, i suggerimenti per i genitori, la sensibilizazzione dei docenti e l’eventuale costituzione di gruppi di mutuo aiuto». In questa fase iniziale – oltre alla serata pubblica incentrata sul sostegno ai siblings ci si è chinati sul loro vissuto. Il metodo scelto è quello del photovoice proposto ad Atgabbes da Fabio Lenzo, di formazione educatore sociale e fratello di una persona con disabilità. A titolo volontario il giovane ha offerto di lavorare al progetto incontrando in modo informale una decina di siblings. «Il primo approccio – spiega Fabio Lenzo – è stato un dialogo a due inteso quale scambio fra pari. Ora sto attuando la seconda fase utilizzando la fotografia quale mediatore di dialogo. Foto originali portate dai siblings o immagini evocative realizzate o scelte dopo il primo incontro permettono di dare corpo alla loro esperienza di vita. L’obiettivo non è tanto di raccogliere dati, bensì di privilegiare la via esplorativa di un sostegno fra pari. Nel corso di quest’anno desideriamo poter mostrare verso l’esterno il materiale emerso, verosimilmente realizzando una mostra fotografica». Il gruppo di lavoro coordinato da Atgabbes sta inoltre pensando di proporre un cineforum sul tema del rapporto tra fratelli, ancora una volta presentando film con svariate accezioni. La riflessione sul coinvolgimento di genitori e docenti è tuttora in corso e prende spunto dalle segnalazioni che l’associazione riceve da parte delle persone direttamente coinvolte. Quello che è certo, come conferma la segretaria di organizzazione, è un certo tipo di transizione da una realtà composta in prevalenza da professionisti e genitori a un coinvolgimento allargato della famiglia della persona con disabilità.
Le sorelle e i fratelli delle persone con disabilità rivestono un importante ruolo sociale oltre che affettivo. (Keystone)
Strettamente legata a questa impostazione è l’importanza delle relazioni ad ogni livello, ossia con tutte le figure significative per la persona disabile. Quella fra sorelle e fratelli acquisisce una valenza maggiore per la sua stessa natura, per l’apporto conoscitivo che i siblings possono portare e, come già rilevato, per la durata nel tempo. Lo dimostra anche il ricambio generazionale e di grado di parentela avvenuto all’interno del comitato dell’AFTOIM. Nata diversi anni or sono per esigenza di un gruppo di genitori, l’associazione che interagisce con la direzione dell’Istituto Miralago è oggi guidata da un gruppo di quattro fratelli e una sorella. Il presidente Roberto Di Bacco testimonia l’evoluzione del suo rapporto con il fratello vulnerabile: «Quando ero piccolo, fino all’adolescenza, non avevo molto probabilmente intuito cosa volesse dire avere un fratello con un handicap così grave. Con lui, disabile sia a livello
mentale che fisico e oggi 47enne, condividevo la camera da letto e a causa dei suoi disturbi mi svegliavo diverse volte per notte. I miei genitori inoltre gli dedicavano giustamente molto tempo. La situazione è parecchio cambiata qualche anno più tardi quando ha iniziato a trascorrere, oltre alla giornata, almeno qualche notte all’Istituto. In seguito il ritorno a casa è stato vissuto come una “piccola festa” per lui come per noi. Non posso sostenere di aver condiviso gioie d’infanzia con mio fratello, ma oggi questo rapporto è qualche cosa di speciale, qualche cosa che non si può toccare o spiegare facilmente, ma ben percettibile. A volte basta uno sguardo per capire e sorridere». Per l’AFTOIM, al momento forse l’unica realtà ticinese che vede riunito regolarmente un gruppo di siblings, il passaggio di responsabilità generazionale è avvenuto in modo naturale. Emerge comunque il forte ruolo dei genitori che, conoscendo a fondo tutte le
problematiche, finché possibile tengono ben saldo il timone familiare e sono sempre pronti ad offrire suggerimenti al comitato. Quest’ultimo ha proposto di recente un nuovo momento ricreativo all’interno dell’Istituto quale occasione per trascorrere tempo insieme. Gli ospiti sono quaranta per cui le rispettive famiglie si conoscono quasi tutte fra loro. L’iniziativa è stata apprezzata dal direttore Mattia Mengoni per il quale l’associazione è preziosa anche in quanto presenza interna critica. Si realizza così quel patto educativo che lo stesso Mengoni ha indicato quale obiettivo nel corso della prima serata pubblica dedicata ai siblings nel nostro cantone. Genitori, fratelli e sorelle e professionisti sono chiamati a lavorare insieme per coprogettare il percorso della persona disabile in tutte le sue fasi. Per i professionisti si tratta ora di capire attraverso quali strumenti favorire questo approccio più aperto e partecipativo.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 gennaio 2019 • N. 05
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Società e Territorio
Genitori nei gruppi WhatsApp Il caffè delle mamme Consigli pratici e strategie per sopravvivere serenamente alla chat della classe di nostro figlio
Simona Ravizza «Il vero amico lo riconosci subito, è quello che non ti aggiunge mai nei gruppi WhatsApp». La freddura di @ Totonno1980, uno dei comici di punta di Twitter autore di battute che hanno come filo conduttore le debolezze, le nevrosi e i tic della vita contemporanea, ben fotografa il problema: sopravvivere alle chat di classe, di pallavolo e calcio, di catechismo, più quelle che nascono in concomitanza di un evento come il «Compleanno Alessandro» e il «Pizzaparty da Pino». L’argomento è dibattuto quotidianamente a Il caffè delle mamme dove c’è chi già di prima mattina usa la chat della 5A per invitare le amiche a colazione con messaggi vocali e chi per la festa del bambino informa ogni quarto d’ora le sfortunate al lavoro sullo svolgimento del pomeriggio con foto e video. Quando il 30enne squattrinato Jan Koum, scappato da ragazzo al comunismo di Kiev e arrivato a 16 anni con la mamma baby sitter in un appartamento di Mountain View a Santa Clara (California), ha inventato la App di messaggistica insieme al collega di Yahoo! Brian Acton, non pensava di sicuro che il suo uso sarebbe diventato compulsivo. I papà se la cavano in fretta: «Ecco il numero di mia moglie, è soprattutto lei che segue le attività di nostro figlio». Chi cerca di resistere, poi, finisce come il collega del «Corriere della Sera» Lorenzo Salvia che, in un arti-
colo diventato virale con quasi 45mila condivisioni social, ha confessato: «Ho lasciato la chat su WhatsApp dei genitori della scuola di mio figlio. E sono tornato un uomo felice. Essere connessi H 24 e in tempo reale con gli altri genitori genera un incubatore di ansia da prestazione che rovinerebbe il papà più zen del mondo». Non sempre, però, la fuga è possibile. E, allora, bisogna trovare delle strategie per resistere. Uno. Silenziare la chat contro la sovraesposizione al flusso di informazioni. È il trucco più banale che permette di evitare di mandare in tilt il cervello a ogni bit bit. È il modo più sbrigativo per non avere istinti omicidi al quotidiano messaggio di «Buongiorno» che – come raccontato nel manuale Genitori online (ed. Reverdito) – arriva puntuale alle 6.45 dalla mamma più mattiniera ed entusiasta. Due. Non farsi prendere dall’ansia da prestazione da genitore perfetto. Dimostrarsi super mamme non è necessario, tanto meno su WhatsApp. Quando sulla chat «5A Supporto compiti» arrivano messaggi del tipo «Cosa dobbiamo fare oggi di storia?», quel maledetto dobbiamo, che implica un sodalizio con i figli nello svolgimento dei compiti, non deve farci sentire in colpa perché abbiamo insegnato all’11enne a fare da solo mentre noi siamo al lavoro oppure a farci la manicure dalle estetiste di fiducia. Non è obbligatorio imparare a memoria il diario e neppure improvvisarci prof per interi pomeriggi/serate. Il nostro
Tra i suggerimenti c’è anche quello di arrendersi all’utilità delle chat. (Pixabay)
ruolo – come già spiegato dagli esperti su «Azione» – non è fare calcoli di matematica e esercizi di tedesco insieme con il proprio bambino, ma aiutarlo ad acquisire il metodo per sbrigarsela da solo. All’emoticon con le manine che applaudono al «Vale complimenti
sei super informata» non bisogna farsi cogliere da una crisi di inadeguatezza. Tre. Evitare la «sindrome del leone da tastiera». Quando la chat di sport viene utilizzata per fare il tifo a distanza durante la partita di pallavolo, non è obbligatorio intervenire con
frasi del tipo «Grande team», «Forza ragazze», «Fantastiche allenatrici» e «Uauhhh » a ripetizione. Lo stesso vale anche per il gruppo di catechesi dove non è per forza necessario rispondere all’invito di massa a trovare nuove energie per riprendere il cammino verso il Signore. Quattro. Ridimensionare i problemi. Ogni refolo di vento nelle chat diventa una tempesta. Dai troppi compiti, alla frase di un’insegnante, fino alla temperatura in classe. L’unica cosa davvero importante da fare è parlare con il proprio figlio per capire qual è la situazione. Per il resto, astenersi dal drammatizzare. Cinque. Arrendersi all’utilità delle chat. In certi casi, risolvono i problemi meglio delle pagine gialle e degli sms all’amica troppo presa per rispondere in tempo reale. Su 25 partecipanti al gruppo, uno eternamente connesso c’è sempre per inviare l’indirizzo giusto del negozio di sport dove acquistare le scarpe di pallavolo a prezzo scontato piuttosto che per spedire la fotografia degli esercizi di inglese in caso di libro dimenticato in classe. Una sola richiesta, però. Anzi due, per aiutare tutti a sopravvivere al meglio alle chat di gruppo. Astenersi, per favore, dal rispondere «non lo so» alle domande, basta la risposta di chi è al corrente dell’informazione richiesta. Evitare di dire «so che è già stato chiesto» e riproporre l’interrogativo. Basta scorrere i messaggi precedenti alla ricerca dell’indicazione necessaria. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 gennaio 2019 • N. 05
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Società e Territorio
Femminismo al plurale Pubblicazioni La lettura dei saggi di Jessa Crispin e Giulia Blasi
per riflettere sulla condizione del femminismo oggi Laura Marzi Nell’anno appena finito il femminismo è stato alla ribalta della cronaca, a causa del #metoo contro le molestie sessuali sul luogo di lavoro, in particolare nel cinema. Si è parlato allora di una quarta ondata del movimento delle donne, si è detto però anche che la denuncia da parte di una sola categoria, quella delle attrici, non essendo inclusiva non intacca in alcun modo il dramma della discriminazione sessuale in ambito lavorativo e ancor meno la tragedia della violenza sulle donne. Quindi? Per cercare qualche punto di approdo da cui guardare alla condizione del femminismo oggi può essere utile la lettura parallela di due testi pubblicati nel 2018 e che, almeno a giudicare dal titolo, pur parlando di femminismo, non hanno nulla in comune: Perché non sono femminista di Jessa Crispin e Manuale per ragazze rivoluzionarie di Giulia Blasi. Intanto, Giulia Blasi, promotrice della campagna #quellavoltache, cita il testo di Jessa Crispin e in effetti i due libri muovono, almeno apparentemente, da un punto di vista condiviso: rinnegare il femminismo mainstream, tradotto nella versione italiana del testo di Crispin con l’espressione «femminismo universale» e definito da Blasi «femminismo pop». Le due autrici, infatti, si scagliano contro l’idea che essere femministe significhi «un generico richiamo alla forza delle ragazze» o «un sistema di auto-aiuto, un’altra voce che dice alle donne che dovrebbero avere orga-
smi migliori, fare più soldi, aumentare il loro quoziente di felicità…». Il modo, però, in cui Blasi e Crispin nei fatti si oppongono al femminismo patinato e offrono la loro visione alternativa del femminismo appare molto diverso. In primo luogo, l’autrice statunitense prende le distanze dall’uso dell’espressione mascolinità tossica: «nessuno parla di femminilità tossica, eppure esiste, a giudicare da certi atteggiamenti femminili nella cultura contemporanea. Ma preferiamo parlare della mascolinità tossica come una cosa innata, mentre tutti i problemi comportamentali femminili sarebbero generati dalla società. È comodo». L’autrice statunitense rifiuta l’idea che si possa fare riferimento ad atteggiamenti causati dal testosterone, quando nel caso in cui alcuni comportamenti vengano imputati agli estrogeni, reagiamo con sdegno e orrore. Blasi invece fa ricorso a questa espressione, ma non la attribuisce a questioni di ordine naturale: «mascolinità tossica, quel lato della cultura che incoraggia gli uomini a essere aggressivi, arroganti e prevaricanti». Di nuovo, quindi, una contrapposizione fra i due testi solo apparente, in quanto l’autrice italiana connota la mascolinità tossica come culturale e non dovuta a questioni ormonali. La cifra davvero diversa dei due approcci è forse la visione politica che sta alla base dei due testi: se entrambe le autrici, come detto, si definiscono fin da subito contrarie allo sdoganamento di un femminismo di facciata, di look
si potrebbe dire, Crispin lo fa inserendo questa versione del femminismo nello scenario del neo-liberismo: «un’amministratrice delegata può alzarsi fieramente in piedi e proclamare la sua fede al femminismo continuando a subappaltare le commesse a fabbriche in cui donne e bambini lavorano in condizione di schiavitù». Va subito precisato che anche Blasi definisce il femminismo radicale anticapitalista, però poi scrive: «dobbiamo invadere il mercato, un pezzo alla volta, con qualunque mezzo». Di fatto, seppur accuratamente eviti la parola, alcuni passaggi del testo di Blasi sono un invito al famoso o famigerato empowerment femminile, rifuggito come la peste proprio da Crispin. L’autrice statunitense appoggia tutta la sua riflessione sulla convinzione profonda che il femminismo come movimento radicale, piuttosto che diventare universale e perdere quindi la sua carica rivoluzionaria, debba riappropriarsene e immetterla nella società. Per questo, in primo luogo il femminismo nella visione di Crispin deve essere anticapitalista, contrapporsi proprio alla legge del mercato o meglio al fatto che quella del mercato sia l’unica legge universale, che governa, cioè, il mondo intero. Da qui deriva che il femminismo debba, per Crispin, combattere contro le strutture sociali che derivano e sostengono il neo-liberismo: l’individualismo e la sopravvalutazione della libertà personale intesa come puro egoismo e dall’altra parte l’esaltazione dell’amore di coppia come unica via alla felicità.
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«Ci siamo illuse […] che mentre il matrimonio nel suo insieme era ovviamente problematico, il singolo matrimonio poteva essere rinegoziato […] Ma non dovrebbe spettare a una singola donna cancellare secoli, millenni di oppressione e controllo. Il problema non è l’esistenza dell’amore, ma il suo primato». Va però precisato che il testo di Blasi se non ha questa stessa profondità di analisi, ha un altro obiettivo e un altro target: è un manuale, una guida, anche pratica, per ragazze. Al suo interno vi si trovano consigli molto utili, per esempio per la fruizione dei social media, sia in termini di difesa da attacchi misogini sia per lanciare e aumentare l’efficacia di una campagna femminista online e non solo: si
tratta di questioni cruciali e di grande attualità. La sezione, poi, delle risposte alle domande frequenti è efficace, chiara e andrebbe letta a scuola. Tirare le somme non è così semplice e soprattutto non serve. Infatti, c’è un’esigenza reale che la radicalità del femminismo contagi la politica perché essa viri verso pratiche antirazziste, di giustizia sociale e sostenibilità e ci sono urgenza e necessità di dare alle ragazze e alle donne gli strumenti quotidiani per contrapporsi ad abusi di potere, discriminazioni e violenze. Non si tratta di ecumenismo, ma della consapevolezza, propria alle femministe radicali che fortunatamente esistono, che femminismi è una parola e una pratica plurale. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 gennaio 2019 • N. 05
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Società e Territorio
Una tavola per la scienza
Anniversari L a tavola periodica degli elementi chimici pensata da Mendeleev
compie 150 anni, l’Unesco e le Nazioni Unite le dedicano un anno speciale
Marco Martucci Idrogeno, elio, litio, berillio, boro: sono i nomi di cinque elementi chimici, i primi cinque di una lista che ne comprende oggi oltre cento e che non è una sequenza alfabetica ma è un ordine che ne evidenzia le caratteristiche: è l’ordine della tavola periodica degli elementi, una delle grandi conquiste della scienza chimica che, quest’anno, compie centocinquant’anni. L’importanza di questo anniversario è stata riconosciuta dalle Nazioni Unite e dall’Unesco che hanno proclamato il 2019 «Anno internazionale della tavola periodica degli elementi chimici», «International Year of The Periodic Table of Chemical Elements, IYPT2019». La Tavola, che molti ricorderanno per averla almeno vista nelle aule di scienze o di chimica, è frutto dell’ingegno di non pochi ma, fra tutti, spicca un nome: Dmitri Ivanovich Mendeleev. Nato nel 1834 a Tobolsk nella Siberia dell’allora Impero russo, era il più giovane di una numerosissima famiglia. Suo padre perse la vista e la madre dovette riattivare una fabbrica di vetro di proprietà famigliare. Dopo il liceo, alla morte del padre nel 1849, il giovane Dmitri fu accompagnato dalla madre dapprima a Mosca, dove non gli fu consentito l’accesso all’università e, in seguito, a San Pietroburgo, nella cui università studiò chimica, laureandosi nel 1855. Si perfezionò in Francia e in Germania e qui, a Karlsruhe, partecipò al famoso Congresso del 1860, il primo grande convegno internazionale di chimica della storia, che riunì oltre cento scienziati, fra i quali il chimico italiano Stanislao Cannizzaro che presentò lo stato attuale della ricerca sui pesi atomici e gli importanti lavori del torinese Amedeo Avogadro, ideatore del concetto di molecola. I temi discussi al congresso si rivelarono di estrema importanza per i successivi lavori di Mendeleev che, dal 1866, iniziò la sua attività quale professore di chimica a San Pietroburgo. Non tardò a farsi un nome in tutta Europa e un suo libro di testo di chimica ebbe grande successo. La chimica di quei tempi conosceva una sessantina di elementi e ogni anno se ne scoprivano di nuovi. Il concetto di elemento si era perfezionato. Con la teoria atomica esposta da John Dalton nel 1808 gli elementi non erano più visti solo come sostanze pure non scomponibili ma come sostanze fatte da atomi uguali fra loro. Gli atomi dei diversi elementi, ritenuti allora le parti-
Dmitri Ivanovich Mendeleev. (Wikimedia)
celle più piccole in assoluto e indivisibili, si distinguevano fra l’altro per il loro volume e per il loro peso relativo, il peso atomico. Da tempo si sentiva l’esigenza di mettere ordine fra i diversi elementi. Già si era notato che alcuni elementi presentavano delle somiglianze, tanto da parlare di famiglie di elementi, come i metalli alcalini o gli alogeni. Il tedesco Johann Döbereiner aveva osservato nel 1829 che, nel caso di tre elementi simili, spesso il peso atomico di quello centrale risultava essere uguale alla media dei pesi degli altri due, come nel caso di cloro, bromo e iodio: era la «legge delle triadi». L’inglese John Newlands scoprì nel 1864 che, disponendo gli elementi secondo il loro peso atomico crescente, l’ottavo elemento aveva proprietà simili al primo, il nono al secondo. Questa «legge delle ottave» funzionava solo per gli elementi più leggeri, per cui non fu presa molto sul serio. Ma conteneva già un principio molto importante, quello della periodicità.
Il tedesco Lothar Meyer perfezionò maggiormente questo principio, scoprendo una periodicità delle caratteristiche degli elementi mettendo in relazione i volumi e i pesi atomici. Infine, Mendeleev, forse ispirato da un sogno, ordinò tutti gli elementi allora conosciuti, erano 63, in ordine di peso atomico crescente e scoprì che le loro proprietà, come la valenza, cioè la capacità degli elementi di combinarsi fra loro, si ripetevano ad intervalli regolari o periodi: le proprietà degli elementi erano dunque una funzione periodica del loro peso atomico. Era nata la tavola periodica degli elementi che Mendeleev pubblicò nel 1869, un anno prima di Lothar Meyer. Il merito di Mendeleev non fu solo quello di essere arrivato per primo ma risiede soprattutto nell’uso che fece della sua tavola. In essa, dove gli elementi simili si trovavano nella stessa colonna, egli lasciò delle caselle vuote ed ebbe il grande intuito e anche il coraggio di affermare che quegli spa-
zi vuoti sarebbero stati occupati da elementi ancora non scoperti. Mendeleev, in base alla posizione occupata da questi elementi, fu in grado di prevederne le proprietà. Due esempi impressionanti furono l’elemento a fianco dell’alluminio, che Mendeleev chiamò eka-alluminio e quello accanto al silicio, l’eka-silicio. Il primo fu scoperto nel 1875 dal chimico francese Paul Emile Lecoq de Boisbaudran, che lo chiamò gallio in onore della Francia. Il secondo lo scoprì il tedesco Winkler nel 1886 e lo battezzò, per la stessa ragione, germanio. La scoperta di questi due elementi fu una prova decisiva della validità della tavola di Mendeleev che, fra i tanti onori, vinse nel 1882 la Davy Medal, prestigioso riconoscimento della Royal Society, condiviso con Lothar Meyer, cui venne così riconosciuta almeno in parte la paternità della legge di periodicità. Impressiona il fatto che Mendeleev arrivò alla sua tavola senza nulla sapere della struttura dell’atomo che fu chiarita solo verso il 1910, dopo la sua morte avvenuta nel 1907. Gli atomi non erano più particelle indivisibili ma formate da un nucleo di protoni e neutroni, circondato da elettroni. Sulla base di questo nuovo modello atomico, il fisico inglese Henry Moseley scoprì che, invece di ordinare gli elementi secondo peso atomico crescente, era più corretto sistemarli secondo il numero atomico, cioè il numero di protoni. La tavola di Mendeleev non cambiò molto, solo le posizioni di alcuni elementi vennero meglio definite. Negli anni seguenti si scoprirono nuovi elementi: i gas nobili come elio e neon, le terre rare, gli elementi transuranici e tutti hanno trovato il loro posto dentro la tavola, che ha pure contribuito alla scoperta di nuovi elementi e al chiarimento della struttura atomica. E, grazie alla posizione di un elemento nella tavola, possiamo risalire alle sue caratteristiche chimiche e fisiche. Questo ne fa uno strumento potente, un caposaldo della storia della chimica. Che ispirò anche una raccolta di racconti, apparsa nel 1975, Il sistema periodico, storie di vita viste attraverso 21 elementi chimici, opera di Primo Levi (1919-1987), torinese, partigiano, ebreo, sopravvissuto ad Auschwitz, scrittore e, in questo contesto, soprattutto chimico.
Che cosa c’è in quella valigia? Minispettacoli
Il 10 febbraio al Teatro Don Bosco Enza Di Santo Questo fantastico viaggio nella clowneria inizia con ciò che si trova nella valigia di Miss Felicità, che passeggia per le strade soffermandosi ad osservare, si stupisce e trasforma i guai in risate. Un mondo in valigia è lo spettacolo che andrà in scena domenica 10 febbraio al Teatro Don Bosco di Minusio. Stefania Mariani, attrice e narratrice, trasporterà il pubblico nell’immaginazione avvalendosi delle arti teatrali, dalla narrazione a momenti circensi di giocoleria, dal mimo alle parole, lasciandosi andare anche a coinvolgenti attimi d’improvvisazione. Nella valigia di Miss Felicità, pesante e leggera, si trovano tante cose, anche il mare, il sole, un piumino «tuttofare», un fiore testone e il gatto che non c’è. Solleticando la parte infantile in ognuno di noi, Miss Felicità apre il suo libro di storie e racconta la favola di Biancaneve e i sette o otto nani, perché questo teatro non è fatto solo per i più piccoli (a partire dai 4 anni), ma per tutti in ogni occasione. Realizzato dalla stessa Mariani con Bernard Stöckli e Szilard Szekely, questo spettacolo versatile e di poche parole, prodotto dalla Stage Photography, raccoglie attraverso gli oggetti in scena, tanti piccoli universi e li narra con sorpresa e intelligente umorismo dall’inizio alla fine. Il Percento culturale di Migros Ticino sostiene l’evento e mette in palio alcune coppie di biglietti omaggio per Un mondo in valigia. Per partecipare all’estrazione basta seguire le indicazioni sul sito www.azione.ch/concorsi.
Informazioni
www.iypt2019.org
L’attrice Stafania Mariani. (www. accademiadimitri.ch)
Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Oliver Jeffers, Noi siamo qui. Dritte per vivere sul pianeta Terra, Zoolibri. Da 3 anni È una sorta di lettera al figlio appena nato, questo nuovo albo di Oliver Jeffers, noto e apprezzato artista irlandese che vive negli Stati Uniti. Una bellissima lettera molto illustrata e parcamente scritta, ma in quelle poche parole c’è davvero una profonda ricerca di senso: «questo libro è stato scritto nei primi due mesi della tua vita, mentre cercavo il senso di tutto questo per te. Ecco le cose che penso tu debba sapere» scrive Jeffers al piccolo Harland nella dedica. Sono istruzioni, in forma di poetico, scientifico e filosofico benvenuto, per iniziare il proprio viaggio appena sbarcati sul pianeta Terra, e come tali adatte non soltanto al figlioletto di Jeffers, ma a tutti i bambini. Sin dalle pagine iniziali, in cui si afferma, con sorridente umiltà, il nostro non essere al centro dell’universo: il nostro globo «galleggiante nello spazio, sul quale viviamo» viene
dapprima disegnato dall’esterno, nel sistema solare, e allora «è davvero bello che tu ci abbia trovati, visto quanto è grande lo spazio». Poi si entra nel pianeta Terra e comincia l’esplorazione: con semplicità, rigore e profondità, ponendosi in prospettiva bambina, Jeffers ci conduce, grazie alla tenera ironia delle sue immagini, attraverso la terraferma, il mare e il cielo, e poi, con uno zoom ulteriore, a scoprire le persone, in tutte le loro diversità. Naturalmente «ci sono anche gli animali», che anche se non parlano «non è una buona ragione per trattarli male», e poi si procede verso una dimensione più filosofica, che ci
porta verso le grandi domande che verranno, le parole per porle, l’uso del tempo: «qualche volta le cose vanno lentamente qui sulla Terra. Più spesso, però, le cose vanno velocemente, quindi devi usare bene il tuo tempo». Le due doppie pagine del tempo lento e del tempo veloce sono tra le più belle del libro, che comunque non perde mai la sua alta qualità, fino ad arrivare all’invito alla gentilezza («siamo in tantissimi qui sopra quindi sii gentile») e alla cura («bene, ecco il pianeta Terra. Devi prendertene cura, perché è l’unico che abbiamo») delle pagine finali. Guido Quarzo, Il fantastico minestrone, collana «Attacca Parole», Raffaello Ragazzi. Anna Vivarelli, La samba dello struzzo, collana «Attacca Parole», Raffaello Ragazzi. Da 5 anni Piccole storie allegre per primi lettori, utili anche per facilitare l’apprendimento della lettura. Sono scritte in
stampatello, a caratteri grandi e colorati di blu, con interlinea ampio, che li rende bene evidenti. In più, ed è l’idea che dà il nome alla collana (Attacca Parole), ogni libretto è corredato da una serie di stickers che riportano alcune parole del testo con l’aggiunta dell’immagine a cui si riferiscono. Quella stessa parola, nel testo della storia, non è blu ma grigia, perché è proprio lì che ogni volta andrà collocato il rispettivo adesivo. Così anche l’apprendista lettore potrà esercitarsi a «fotografare» con gli occhi la forma della parola grigia, per poi ritrovare, tra gli stickers, la sua gemella colorata da attaccarci sopra.
Al di là di questo gioco «della lettura», le storie sono godibili in sé, perché hanno il ritmo e la vivacità di professionisti della scrittura per l’infanzia. Anna Vivarelli, ad esempio, firma La samba dello struzzo, in cui uno struzzo troppo ansioso si priva di divertimenti come i giochi di movimento, finché supererà le paure e si cimenterà nelle danze, dimostrandosi un buon ballerino. Se qui le parole appartengono al campo semantico del gioco e della festa, è al linguaggio delle verdure e della cucina che ci invita invece Guido Quarzo con Il fantastico minestrone: il famoso cuoco Cecco Tortillo ha una ricetta segreta per preparare il minestrone, che comprende un ingrediente che nessuno sa cos’è, la «rapicchiola»: ma oltre a questo ingrediente fantastico dal nome buffo, ci sono tante altre buone verdure che ben conosciamo: patate, carote, sedano, zucchina, cipolle, cavolo, pomodoro…, ognuna da attaccare con il suo sticker al libro. Una storia da gustare.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 gennaio 2019 • N. 05
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Società e Territorio Rubriche
L’altropologo di Cesare Poppi Serendipity Il 28 gennaio 1754, Sir Horace Walpole, Earl of Orford sulla costa del Norfolk, scriveva al suo amico Horace Mann della sua «scoperta» di un ritratto di Bianca Cappello dipinto da Giorgio Vasari probabilmente fra il 1563 e il 1565, mentre il fiorentino lavorava all’allestimento dello Studiolo in Palazzo Vecchio, a Firenze. Lo Studiolo, oggi riaperto al pubblico, sarebbe diventato il rifugio della nobildonna veneziana andata in sposa al Granduca Francesco I de’ Medici (quello per intenderci che fondò gli Uffizi) e morta lo stesso giorno del consorte – chi dice per veleno, chi per febbri malariche e chi a causa di entrambe – nell’ottobre del 1587. Horace Walpole figura nella storia del Regno Unito come uno dei tanti personaggi poliedrici al limite (anzi: probabilmente oltre) dell’eccentricità che hanno caratterizzato quei decenni della cultura inglese. Erano i tempi del Grand Tour e della riscoperta delle culture classiche. Educato a Eton
ed al King’s College, Cambridge, per lui ed i suoi sodali occuparsi allo stesso tempo di letteratura, storia dell’arte, archeologia e non da ultimo, e con un certo successo, degli affari di famiglia era una questione di fatto. Horace era figlio del Primo Ministro Robert Walpole e al pari del padre intraprese la carriera politica diventando deputato per il partito Whig, sostenitore della grande aristocrazia ma di tendenze liberali aperte alla tolleranza religiosa ed alle idee repubblicane – simpatie delle quali il Nostro non fece mai mistero. A completare il quadro di una personalità complessa non potevano mancare gossip e sospetti sulle sue preferenze sessuali ai tempi in cui nei salotti libertini francesi si discettava sul vice anglais e la cosa non era proprio ben accetta. Sia come sia: Walpole jr sarà ricordato specialmente per tre ragioni. La prima è che col suo romanzo Il Castello d’Otranto (1764) inaugurò la stagione di quello che è noto nella
letteratura mondiale come «Romanzo Gotico». La seconda ragione è la sua prolificità come scrittore di lettere. La sua corrispondenza è contenuta in 46 poderosi volumi pubblicati dalla Yale University Press. Come facesse a trovare il tempo quando ancora non poteva disporre del «copia e incolla» è materia di speculazione fra i critici. Ma il terzo, e forse più noto contributo alla civiltà globale è stata l’introduzione nella lingua inglese del termine serendipity. Nella prima comparsa all’interno della lettera sopra citata il termine stava per «colpo fortunato», «circostanza inaspettata», ma in senso estremo ed inusuale. Insomma, quella che in italiano forbito si definirebbe una «botta di fortuna» e in italiano meno forbito in un altro modo. O giù di lì, perché nel 2004 una nota compagnia inglese di traduzioni ha inserito serendipity fra le 10 parole inglesi più difficili da tradurre. Nel senso che nessuno sa di preciso cosa voglia dire – in sostanza. Come si
sa, tradurre è tradire – e così per non correre rischi molti lessicografi hanno trasferito armi e bagagli il termine adattandone la grafia alla lingua nazionale e lasciando a ciascuno la libertà di spiegare cosa voglia dire. Così abbiamo serendipità in italiano, serendipiti in giapponese ed un bellissimo – a detta dell’Altropologo almeno – serendipiteetti in finlandese. Dicevamo che nessuno sa di preciso cosa voglia dire, ma proprio per questo il termine viene usato con sempre maggiore liberalità nell’epoca della sovrana confusione – e fosse solo quella delle lingue. Andiamo allora a cercare di capirne l’origine. Walpole spiegava al suo Mann di aver coniato il termine mentre leggeva una fiaba novella persiana che lui stesso definisce «sciocca» dal titolo I Tre Principi di Serendip ove si narra di tre principi «che continuavano a fare scoperte vuoi per accidente, vuoi per sagacità, di cose che non stavano affatto cercando». Serendip essendo un
nome arcaico per lo Sri Lanka mutuato a sua volta dal sanscrito Simhaladvipah – e vi risparmio accenti e diacritici. Meraviglia dell’inglese! Mentre il Mondo si impadronisce della lingua di Shakespeare e la avvilisce ad una questione di 4-500 vocaboli, l’autorevole Oxford Dictionary viaggia sui 615’000 vocaboli ai quali continuano serendipitosamente ad aggiungersene altri coniati per gli accidenti verbali più diversi, laddove l’Italiano si attesta fra i 215 e i 270’000 lemmi. E così il vostro Altropologo preferito, che non ha sciacquato come Manzoni i propri panni verbali in Arno bensì nel Cam(bridge), si trova a far lezione a classi di studenti internazionali che gli rimproverano di parlare un inglese che nessuno della generazione di wazzup e degli emoji ormai più capisce né oltremanica né altrove. Inutile argomentare che tanto forse non capirebbero comunque. A meno – naturalmente – di una botta di serendipità.
scaricare la ragazza quando, ottenuto quanto volevano, non intendono proseguire la relazione. Negli anni Cinquanta il trabocchetto era la «prova d’amore»: se lei non cedeva li aveva delusi, se lei acconsentiva era una poco di buono. Suppongo, visto il soggetto superficiale e irresponsabile che aveva trovato, sarebbe successo lo stesso anche se vi foste conosciuti in parrocchia o in biblioteca. Probabilmente è stato meglio perderlo che trovarlo. Certo non possiamo incriminare una persona perché non ci ama più. Può capitare a tutti di iniziare una storia con le migliori intenzioni e poi di non riuscire a portarla avanti. Ma la scusa invocata è vile e meschina e lei non deve certo condividerla. Purtroppo noi donne, dopo secoli di subordinazione, portiamo iscritta nel Dna la colpa di desiderare, di amare, di sperare, di…
osare. Una volta gli incontri erano combinati e controllati dai genitori, per cui la donna non aveva nessuna responsabilità sull’esito della relazione. Ora siamo libere di compiere delle scelte ma la libertà espone a dei rischi e costa cara. Non tutti quelli che entrano nei siti d’incontri hanno cattive intenzioni, ma chi varca lo schermo non sa chi trova dall’altra parte. Se si è timidi e sensibili come lei, meglio astenersi dall’affrontare l’ignoto. Purtroppo non sappiamo più attendere e l’impazienza ci rende vittime di un mondo complesso e intricato di cui non possediamo ancora le mappe. Forse sarebbe meglio entrare a far parte di un gruppo di cui condividiamo i valori, gli interessi, gli hobby, lo stile piuttosto che affidarci a un sito di incontri che attira persone per bene come lei ma anche individui cinici e sfrontati, incuranti del dolore che possono provocare nelle persone
di cui si prendono gioco. Ora le resta il compito di ritrovare l’autostima, di darsi fiducia, di volersi bene, anche offrendo ad altri, fragili e vulnerabili come lei, ciò che le manca. Ognuno conosce se stesso in un gioco di specchi e spero che il disprezzo che lei prova nei confronti del suo miserabile seduttore possa renderlo consapevole del nulla che è e del vuoto che lo circonda. Sono certa dell’incoraggiamento che vorrebbero esprimerle i nostri lettori e lo farò io per tutti: forza Margherita! Dopo l’autunno e l’inverno viene sempre primavera.
l’opinione pubblica locale non ci crede. Anzi, non manca di considerare quel titolo una forma di propaganda da parte di un’ufficialità, in perdita di consensi. Che, tuttavia, spera di recuperare, lanciando un sondaggio d’opinione su ampia scala: ben 15’000 abitanti, dai 16 anni in su, scelti attraverso sorteggio in tutti i quartieri, sono sollecitati a esprimersi sul tema sicurezza, che ha assunto i connotati politici che conosciamo. Si tratta, quindi, di scoprire dove, quando e come questi cittadini si sentono, o no, al sicuro , muovendosi nel contesto quotidiano. Risultati alla mano, verrà confermata o smentita la percezione d’insicurezza, oggi dominante? Forse, la riflessione, imposta da un questionario scritto, potrà correggere l’immagine che si ricava dai contatti diretti con i più diversi momenti di vita collettiva, fra colleghi di lavoro, fra sconosciuti alle casse dei supermercati o sugli autobus, fra conoscenti al bar, o con interlocutori casuali: insomma, sempre e dappertutto, l’insicurezza va alla grande. Sembra persino coltivata, con l’amaro piacere di andare contro,
veicolata appunto della percezione. Personalmente, e sempre più con il passare degli anni, ho avuto modo di registrare, in questa città in teoria accogliente e tranquilla, reazioni di disagio, di timore, non di rado al limite del grottesco. Anche qui bisogna distinguere. Un conto è quel momentaneo senso di vulnerabilità, che si prova istintivamente, la sera, all’autosilo deserto. È una forma primaria di paura, che induce all’autodifesa. Un conto, invece, la percezione di un grave incombente pericolo che va ben oltre, stravolgendo la visione di una realtà luganese e dando vita a fantasmi. Gli esempi, in proposito, si sprecano. Ecco, la signora che gestisce un ristorante, in pieno centro, che si sente minacciata dalle infiltrazioni mafiose, che hanno invaso la ristorazione cittadina. Cerco di chiederle se ha subito intimidazioni, ha dovuto pagare un pizzo, qualche vetrina infranta? Niente di tutto ciò, la mia interlocutrice rispetta la trama di pericoli che appartengono, ormai, a un immaginario collettivo, dalle conseguenze autolesioniste. C’è chi, dopo le
sei di sera, non esce più, rinunciando implicitamente a spettacoli e svaghi d’ogni genere. Ma, adesso, con certe facce che girano, è meglio non rischiare. Anche è logico domandare : è stata vittima di aggressioni o furti? No, niente. Ma conviene cautelarsi. Per dirla con Papa Francesco: «La paura può fare impazzire». Ed è una paura che si manifesta nei confronti di pericoli diversi, cibi, come carne rossa, medicinali, vaccini, persino ideologie e sistemi politici, e situazioni meteo (i famosi 35 gradi percepiti) e sempre veicolati attraverso l’inflazionata parola percezione, che però non figurava nell’elenco dei vocaboli più pronunciati, ascoltati e letti in Svizzera, lo scorso anno. Secondo le ricerche di un gruppo di addetti ai lavori, linguisti, scrittori, attori, i vocaboli del 2018 sono stati, «Doppeladler» (il gesto dell’aquila di Xhaka e Shaqiri) e, per il Ticino, «notte tropicale», alludendo ai +20 gradi notturni, registrati anche nelle valli. Non si cita percezione: e giustamente. Questa non è una parola dell’anno, ma dell’epoca.
La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi Dalla chat all’incontro Cara professoressa, sono stata sua allieva all’Università di Pavia e le scrivo ora con la stessa fiducia che provavo per lei allora. Ho 35 anni e in un momento di sconforto mi sono iscritta a una app di incontri. Non creda per questo che io sia da buttar via anzi, sono piuttosto carina ma da tempo non trovavo la persona giusta, uno che mi piacesse realmente. Così mi sono decisa a tentare su Internet. Non le dico la mia delusione! Molti chiedevano di uscire insieme al primo contatto, dopo un frettoloso: «ciao bella!» o una faccina ridente. Altri addirittura di andare a letto, come se mi fossi iscritta per questo. Pare che molte ragazze accettino subito, non io! Ho preferito sondare con chi avevo a che fare e solo dopo molte chat un coetaneo mi ha convinta a rischiare. E una sera ci siamo incontrati per un aperitivo. Mi è piaciuto subito e mi sono illusa di aver incontrato il grande
amore, un sentimento che lui sembrava ricambiare. In quel periodo ci siamo scritti teneri messaggi, ci incontravamo appena possibile, facevamo progetti per il futuro… Tutto questo è durato tre mesi durante i quali mi ha presentato i suoi amici e portato a casa sua. Ma, da un giorno all’altro, ha trovato mille pretesti per non vederci e mille modi per non sentirci finché è scomparso del tutto. Dato che non riuscivo a farmene una ragione, ho contattato un suo amico e lui mi ha rivelato ciò che non avrei mai voluto sentire: ero stata mollata perché considerata poco seria, una ragazza facile di cui non si può avere fiducia. A quel punto sono caduta in un profondo sconforto, dove ho sbagliato? È proprio così? / Margherita Cara Margherita, non si disperi. Da sempre gli uomini peggiori ricorrono a simili pretesti per
Informazioni
Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch
Mode e modi di Luciana Caglio Sotto il segno della percezione Sembra in declino la popolarità dei segni zodiacali, e ci sarebbe da rallegrarsi. Ma, intanto, acquista credito un altro mantra, più subdolo, persino camuffato da buon senso, qual è appunto la percezione. Rappresenta una forma di conoscenza approssimativa, basata su dati sensoriali occasionali, che però assumono un valore di verità, ampiamente condivisa. Gli psicologi parlano di un percorso cognitivo distorto che, in USA già negli anni 80, trovò la
calzante definizione «bias», cioè una visione obliqua delle cose. Che, spesso, fa opinione, in ogni ambito nella nostra quotidianità. Insomma, con gli effetti della percezione ci si trova a fare i conti, sia da protagonisti coinvolti che da spettatori allarmati. In proposito, l’attualità ci sta offrendo un caso, più che mai vicino e rivelatore. Recentemente, Lugano, sulla scorta di dati statistici accertati, è stata dichiarata città più sicura della Svizzera. Ora,
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Ambiente e Benessere Favoriti dal clima Tre esempi di insediamenti biologici che hanno sfruttato il riscaldamento dell’atmosfera: vikinghi, cavallette e Walser
I bei filari del Jura La regione tra Svizzera e Francia non è molto conosciuta ma possiede alcune specialità enologiche di grande valore
Germogli e fermenti Due tecniche antiche per la preparazione dei cibi riscoperte dai cuochi di tendenza
La star dell’anno brilla La lucciola eletta animale del 2019 da Pro Natura: impariamo a conoscerla
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Il cervello studiato nei suoi danni Ricerca Una storia delle neuroscienze
che parla di re, cannibali, nani ed esploratori Lorenzo De Carli Il nostro organo più complesso, il cervello, è affascinante quanto la storia del suo studio. Oggi paragonato ad un computer, «i Romani – scrive Sam Kean in Il duello dei neurochirurghi – vi vedevano una rete di acquedotti; Cartesio, l’organo di una cattedrale; i dotti della Rivoluzione industriale parlavano di mulini, telai e orologi; a inizio Novecento era in voga la metafora della centralina elettrica; e così via». Così come il cervello è sempre stato descritto con delle analogie, attraverso, cioè, ciò che cervello non è; il suo funzionamento normale ha potuto essere descritto solo attraverso lo studio del suo non funzionamento, causato per esempio da traumi, da malattie o da deficit congeniti. Il duello cui allude il titolo dell’opera di Kean fu quello tra il grande chirurgo militare Ambroise Paré e il non meno grande anatomista Andrea Vesalio, accorsi al capezzale del re di Francia Enrico II, colpito alla testa il 30 giugno 1559 dal conte di Montgomery nel corso di una giostra cavalleresca. Il re sarebbe morto una decina di giorni dopo e l’episodio segna anche l’avvio della moderna parabola neuroscientifica perché Paré e Vesalio avevano entrambi diagnosticato un trauma letale del cervello, nonostante l’integrità della calotta cranica, respingendo in tal modo la convinzione che dovesse esserci una relazione tra l’evidenza del danno cerebrale e la sua gravità. Se già Oliver Sacks ci aveva mostrato la vastità del ventaglio adattativo con cui il nostro cervello può ridisegnare – in risposta a una varietà di danni e traumi – la sua interazione con il mondo circostante, Sam Kean, intrecciando le odissee di pazienti «memorabili» con le arditezze sperimentali dei medici che li hanno studiati e curati, mostra i nessi profondi tra ogni «caso» della galleria e uno specifico aspetto neurocognitivo. Il risultato è una storia della neurochirurgia che prende avvio, appunto, nel Cinquecento, quando si cominciò davvero a studiare l’anatomia del cervello umano e non quello di altri animali, passando per la scoperta delle specifiche cellule di cui è fatto e del modo in cui esse comunicano tra di loro formando altrettanto specifici circuiti, per giungere poi al rapporto tra mente e corpo mediato dal cervello, nonché al nostro senso di avere una coscienza. Se l’anatomia del cervello riuscì a fare progressi dopo Vesalio grazie
all’osservazione diretta resa possibile dalla pratica della dissezione, occorre attendere la metà dell’Ottocento per comprendere, grazie all’uso del microscopio, che il cervello è composto di cellule filiformi e ramificate, i neuroni; prima di allora, esso appariva come una sostanza pressoché omogenea, tutt’al più di colore inquietante in corrispondenza di ipotetiche lesioni – come quelle che presentava il cervello di Charles Guiteau, l’assassino del presidente americano James A. Garfield. In quegli anni, le figure di neurologhi più eminenti furono Camillo Golgi e Santiago Ramon y Cajal: «Golgi fu forse il primo a scorgere la vera forma dei neuroni, ma Cajal fu il primo a capire come funzionavano quelle strutture filiformi». Alla fine dell’Ottocento, tuttavia, restava un grosso interrogativo: «se i neuroni sono fisicamente separati tra loro, come fanno i segnali a passare dall’uno all’altro?» Nei decenni successivi, si formarono quindi due fazioni: i neurologi che credevano ci fosse una «scintilla» al contatto tra i neuroni, e quelli che ritenevano essi fossero immersi in una sorta di «brodo chimico». Dovette passare mezzo secolo, prima di comprendere che il cervello aveva sostanze specifiche, adibite alla trasmissione dei segnali, i cosiddetti neurotrasmettitori. Nel frattempo, le neuroscienze continuavano a far progressi grazie allo studio dei danni al cervello, in particolare mettendo in rilievo come interagiscono le sue varie parti. Lo studio del kuru, per esempio, la malattia che a metà del Novecento stava decimando una tribù della Papua Nuova Guinea, i cui riti funerari prevedevano il consumo di tutte le parti delle persone defunte, aveva permesso – oltreché comprendere gli effetti dei prioni (gli agenti delle encefalopatie spongiformi trasmissibili) – di far luce su quel meccanismo di retroazione del cervelletto sulla corteccia motoria necessario per rendere coordinati e raffinati i nostri movimenti (incontrollati nei malati di kuru). Se per alcuni versi può essere utile paragonare il nostro cervello all’hardware e la mente al software dei computer (perché si possono formulare ipotesi di ricerca molto interessanti nel campo dell’intelligenza artificiale e della robotica dando inoltre nuovi stimoli alla riflessione sull’autocoscienza umana) dal punto di vista evolutivo più essere un paragone molto fuorviante perché non tiene conto del fatto che, come ogni soluzione escogitata dall’evoluzione,
Phineas Gage sopravvisse alla ferita di un’asta che gli trapassò il cranio. (Wikipedia)
anche il nostro cervello non è stato progettato così come possiamo osservarlo al nostro attuale stadio evolutivo, ma è il frutto di un’attività di bricolage. La parte più riposta del nostro cervello è il cosiddetto «cervello rettiliano», che comprende il tronco encefalico e il cervelletto; poi abbiamo il «cervello mammaliano»: i due, insieme, controllano i nostri processi automatici; le abilità più specifiche della nostra specie sono invece nella parte detta «neo-mammaliana». Il paragone software/mente non solo tende a trascurare la complessa relazione tra queste parti evolutivamente diverse del cervello, ma induce a pensare che vi sia un incremento di razionalità tra la parte più vecchia (ritenuta troppo soggetta all’azione delle emozioni), e quella evolutivamente più recente, giudicata più libera di applicare le regole della logica. Studiando, invece, pazienti per esempio operati all’amigdala (per alcuni «il centro della paura»), Sam Kean racconta storie di uomini e donne che, privati di una parte del cervello più «antico», anche se capaci di ragionamenti molto razionali nella vita di tutti i giorni facevano scelte completamente irrazionali. Sono stati neuroscienziati come Antonio Damasio a farci comprendere la funzione evolutiva delle
emozioni: vale a dire, spingerci verso scelte «buone» perché «sentite giuste» da una saggezza accumulata in tutto il nostro organismo. Al fenomeno della coscienza Sam Kean dedica l’ultimo capitolo del suo volume. Anche in questo caso l’autore parte da casi di pazienti, ai quali occorsero dei danni cerebrali, come per esempio il celebre caso di Phineas Gage, che sopravvisse al trauma causatogli dall’asta che gli trapassò il cervello; oppure a casi di pazienti, ai quali è stato reciso il corpo calloso che unisce i due emisferi. In generale, si tende a ritenere che la coscienza sia un fenomeno emergente di un cervello evolutivamente giunto ad un alto grado di complessità. Kean scrive che «la formazione reticolare, per quanto abbia un ruolo importante, non è in realtà la responsabile della formazione vera e propria della coscienza, che è maggiormente sulle spalle del talamo e della rete parietale prefrontale […] un danno di qualsiasi tipo a questa centralina telefonica del talamo può distruggere la coscienza». Nello stesso modo, un danno alla corteccia parietale può pregiudicare la nostra capacità di prestare attenzione a qualcosa. «Un altro prerequisito per la coscienza è la memoria a breve termine, necessaria per tenere
traccia di quel che accade di minuto in minuto»: danni al cervello che ne possono compromettere il funzionamento pregiudicano la possibilità di conservare integra la coscienza. Nella visione di Sam Kean, quindi, basata sull’evidenza delle neuroscienze, la coscienza è la consapevolezza di prestare deliberatamente attenzione a qualcosa e quest’attività è resa possibile da una specifica configurazione del nostro cervello e dal suo corretto funzionamento. Questo modello è coerente con la teoria dell’evoluzione e rende conto anche di quanto importante sia il più generale rapporto cervello/corpo. Tuttavia, è assai probabile che ci sia anche dell’altro: il ruolo del linguaggio. Il linguaggio è un sistema di simboli molto efficace sia per conservare memoria dell’esperienza, sia per condividerla e la coevoluzione cervello/linguaggio ha dato alla nostra specie un grande vantaggio evolutiva rispetto agli altri primati. Tale rilevanza del linguaggio autorizza a sostenere che la coscienza non è solo un’attenzione autoconsapevole ma anche l’autonarrazione di questa consapevolezza. Ma a questo punto, nel duello dei neurochirurghi, dovrebbero inserirsi anche altre figure, a cominciare dai filosofi della mente e dagli psicologi evolutivi.
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Ambiente e Benessere
Parigi tra amore e catacombe Reportage Visita alla più grande necropoli del mondo nel cuore della Ville Lumière
Simona Dalla Valle La chiamano Ville Lumière e città dell’amore, ma quanti sanno che Parigi ha anche un lato oscuro? Una rete di tunnel sotterranei, accessibile dalla piazza Denfert-Rochereau nella rive gauche della città, ospita i resti di oltre sei milioni di persone: sono le Catacombes de Paris, la più grande necropoli del mondo. Per raccontare la storia delle catacombe bisogna fare un passo indietro, a prima che Parigi diventasse la città moderna e affascinante che tutti conosciamo. Circa 45 milioni di anni fa, nel corso del periodo che venne in seguito chiamato Luteziano proprio in riferimento a Parigi, la città e la regione circostante furono gradualmente invase da acque marine provenienti dal nord Europa. La geografia della Francia era ai tempi molto diversa da quella attuale: i Pirenei si erano già formati ma le Alpi non esistevano, e la Corsica e la Sardegna non si trovavano nelle posizioni attuali. Il mare del bacino di Parigi era poco profondo e tiepido, caratterizzato da un clima tropicale e una ricca varietà di flora e fauna. Questo periodo geologico è fondamentale per capire ciò che avvenne dopo, perché sul fondale marino presente dove ora esiste la città, si accumularono decine di metri di sedimenti che nel tempo diventarono calcare, utilizzato in seguito dai gallo-romani per la costruzione di gran parte della città: un insediamento chiamato Lutetia Parisiorum, sviluppato intorno alla sommità della montagna SainteGeneviève. Dal XIII secolo, poi, le cave aperte sulle rive del fiume Bièvre furono rese sotterranee allo scopo di fornire la grande quantità di pietra necessaria per la costruzione della maggior parte delle chiese e dei monumenti più famo-
Monumento sotterraneo alla Rivoluzione Francese (una gallery di immagini più ampia è pubblicata su www.azione.ch). (S. Dalla Valle)
si, come la cattedrale di Notre-Dame, il Louvre e la basilica del Sacré-Cœur. Nel 1786 i cimiteri della città – primo tra tutti il Cimetière des Innocents nel quartiere di Les Halles – erano così saturi da causare sepolture improprie ed esalazioni maleodoranti, provocando diverse malattie. Nel periodo tra 1787 e 1814 si decise quindi di chiudere i cimiteri e ripristinare alcune gallerie, dove in seguito furono trasferiti i cadaveri e le ossa dei cimiteri. Alcuni francesi di spicco col-
Le ossa sono disposte in maniera rigorosa. (S. Dalla Valle)
locati nelle catacombe sono lo scrittore Charles Perrault (autore di Cappuccetto rosso, Il gatto con gli stivali e Cenerentola), Jean de La Fontaine (noto per le sue Favole), il pittore Simon Vouet, Salomon de Brosse (architetto che progettò il palazzo di Lussemburgo a Parigi) e lo scultore François Girardon. Dopo aver sceso i centotrenta gradini di una stretta e ripida scala a chiocciola si giunge a una profondità di circa venti metri e da qui, seguendo un chilometro e mezzo di cunicoli dalla superficie irregolare e talvolta scivolosa, si raggiunge l’ossario. La temperatura dei tunnel, la cui superficie complessiva è di 11mila metri quadrati, è mantenuta stabile a 14°C. All’ingresso, il cartello «Arrête! C’est ici l’empire de la mort» (Fermati! Qui si trova l’impero della morte), traduzione in francese di un verso dell’Eneide, è solo la prima di una serie di frasi, poesie e altri testi secolari o religiosi legati al sonno eterno, che amplificano la dimensione meditativa del percorso. Le ossa sono accuratamente impilate in un monumentale decoro funebre, adornato da colonne doriche, targhe incise, altari e fontane tra le quali vale la pena ricordare il bain de pieds des carriers (il pediluvio dei cavatori), le sculture cesellate della galleria di
Port Mahon, la cripta di Sacellum con l’altare dove le ossa venivano benedette prima di essere «archiviate», la lampada sepolcrale, che bruciava costantemente per mostrare la presenza di aria nei tunnel, e infine l’elusivo sarcophage du lacrymatoire, dedicato al poeta maledetto Nicolas Gilbert. Le catacombe sono un’attrazione turistica dal 1867, epoca in cui erano popolari tra i reali e le famiglie benestanti; tra i visitatori vi furono anche l’imperatore Francesco I d’Austria nel 1814 e Napoleone III nel 1860. A causa del loro cattivo stato di conservazione, le gallerie che non fanno parte delle catacombe ufficiali sono state ritenute non sicure dai funzionari parigini. Il sistema di tunnel è complesso, e sebbene certe gallerie abbiano targhe che indicano il nome della via che le sovrasta, è facile perdere la strada. Alcuni passaggi sono bassi, stretti o parzialmente allagati mentre altri sono bloccati da cavi telefonici, tubi e altri impedimenti. A causa di questi pericoli, l’accesso ai tunnel senza scorta ufficiale è illegale dal 1955, pena una multa di € 60 per le persone catturate dai cataflics – la polizia speciale che pattuglia le catacombe. In tutta la città esistono ingressi segreti, ed è talvolta possibile entrare
nelle miniere attraverso le fognature, la metropolitana e alcuni tombini. Alcuni di questi ingressi sono stati svelati dal regista Pierre Tchernia nel film Les Gaspards (Cari amici miei). Si dice che in diverse occasioni questi punti di accesso siano utilizzati per incontri clandestini, feste «insolite» o semplicemente per esplorazioni urbane. I cataphiles, così sono chiamati gli appassionati di catacombe, si avventurano spesso nei tunnel per fotografare, dipingere murales o creare mappe. Uno dei primi fu Philibert Aspairt, che si smarrì nel 1793 e morì a pochi metri dall’uscita più vicina. Il suo corpo, ritrovato soltanto undici anni dopo la scomparsa, fu sepolto nel luogo del ritrovamento. Nel settembre del 2004, la polizia francese scoprì un cinema sotterraneo gestito da Les UX, un movimento artistico francese, con tanto di poltrone, bar e connessione telefonica. Nel 2011 tre studenti in esplorazione persero l’orientamento e furono ritrovati dopo due giorni da una squadra di trenta poliziotti. E nel 2017 le catacombe furono utilizzate come punto di accesso alle cantine di un prestigioso appartamento del VI° Arrondissement, dal quale furono rubati vini pregiati per un valore di oltre 250mila euro. Da cataphile a vinophile, il passo è breve. Annuncio pubblicitario
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Ambiente e Benessere
Quando faceva più caldo
Clima I Vikinghi in Groenlandia, le Cavallette in Europa, e i Walser a Bosco Gurin hanno approfittato
di particolari condizioni ambientali di temperatura
Alessandro Focarile Correva l’anno 982 e, narrano le antiche saghe nordiche giunte fino a noi, grazie alle favorevoli condizioni climatiche, l’Islanda era sovrappopolata, con 30mila abitanti. Uno di loro, detto Erik il Rosso (Ereikr inn raudii), macchiatosi di vari omicidi, fu condannato dalla comunità e costretto a espatriare in esilio per non dovere subire sanzioni più gravi. Erik il Rosso, spirito avventuroso e ribelle, forte di numerose voci in merito all’esistenza di una vasta terra coperta di ghiacci a Nord-Ovest dell’Islanda, si mise in mare e dopo cinque giorni di navigazione e molte peripezie, vide spalancarsi ai suoi occhi un territorio le cui coste erano frastagliate da numerosi fiordi, bracci di mare che si sviluppavano verso l’interno. Erano luoghi verdeggianti di pascoli, di boschetti di betulle e dove durante le annate favorevoli maturavano persino le mele, ma lo apprese in seguito. Il nostro fu talmente entusiasta della sua scoperta da battezzare la nuova terra Groenland, da grün = verde. Dopo cinque anni, al termine del bando che gli impediva di vivere in Islanda, convinse un numeroso gruppo di suoi compaesani a emigrare nella Nuova Terra che tanto prometteva. In Islanda, a causa del notevole sviluppo demografico favorito dalle condizioni climatiche, non restava dunque più terra disponibile per nutrire tutti. Fu così che Erik il Rosso organizzò una spedizione con 24 navi (gli efficienti knarr), cariche con diverse centinaia di
Statua dedicata a Erik il Rosso a Tunulliarfik, in Groenlandia. (Marka)
islandesi, con animali e tutto l’occorrente per edificare una nuova comunità di pionieri. Durante 300 anni di più o meno favorevoli condizioni di esistenza, la comunità si estinse un poco alla volta fino a scomparire. Le avvisaglie di una prossima recrudescenza climatica creavano i presupposti per l’instaurazione della «piccola era glaciale» che doveva causare un drammatico sconvolgimento della vita umana. Un’epoca durata sino alla fine del 1800. Occorre ricordare che dal 750 al 1975, nell’Europa occidentale si sono susseguiti ben 825 anni con temperature mediamente superiori a quelle attuali, e 400 anni con temperature
mediamente inferiori. Entro questo periodo, il permanente pendolo climatico ha conosciuto anche il lungo lasso di tempo di 350 anni quando si è instaurata la «piccola era glaciale», che ha visto il drammatico svolgersi di innumerevoli episodi negativi per la vita umana. Tra l’altro, l’avanzata dei ghiacciai sulle Alpi, con forzato abbandono di molte terre coltivate da secoli, pestilenze, carestie, disordini sociali. Qualche storico del clima ha addirittura avanzato l’ipotesi che la Rivoluzione Francese di fine 1700 abbia avuto origine a seguito di pessimi raccolti, e conseguenti carestie causati da una serie di estati disastrose. L’insie-
me di eventi meteorologici tramandati dai documenti alto-medievali (cronache e annali) sembra testimoniare che nell’Europa occidentale il periodo climaticamente mite, decorso tra il 850 e il 1300, sia stato accompagnato da una notevole siccità, quale conseguenza da un lato della mancanza di piogge, dall’altro della notevole evaporazione delle stesse. A volte, il caldo era forte ed eccessivo e vaste regioni continentali conoscevano ambienti di tipo steppico. Questi eccessi climatici erano favorevoli allo sviluppo delle cavallette (la scheda dell’insetto, su www.azione.ch). Le anomalie di cui parliamo sembrano essere state una delle cause delle invasioni dei predatori della vegetazione, i quali, durante il periodo tra il IX e il XII secolo, dilagavano su vasti territori europei, spingendosi in taluni casi fino a settentrione. Nel 873, nove anni prima della partenza di Erik il Rosso per la Groenlandia, si creava un infausto periodo di carestie, durante il quale immensi sciami di cavallette vagavano dalla Spagna alla Germania. Nell’autunno del 1195, come narravano le cronache dell’epoca, questi sciami raggiungevano le attuali Austria e Ungheria. Il flagello delle cavallette si direbbe indomabile considerata l’entità numerica del fenomeno e la vastità dei territori interessati. In vaste aree dell’Asia e dell’Africa, è un problema ricorrente e causa gravi scompensi alimentari. Dopo l’ultima guerra, anche l’Italia meridionale, Sicilia e Sardegna conobbero le invasioni delle cavallette, che
giungevano dai Paesi mediterranei. I servizi fitosanitari preposti attuarono più o meno efficaci operazioni di lotta. Cifre impressionanti. 250-300 miliardi di uova su un area campione di 900 ettari in Puglia. In provincia di Foggia (Capitanata) si calcola siano stati distrutti circa 100 miliardi di individui corrispondenti a tremila tonnellate. In Sardegna, nel 1946, 1’500 ettari erano letteralmente ricoperti dalle orde di cavallette (Grandi, 1954). Ma certe condizioni climatiche non favorirono solo vikinghi e cavallette, bensì andarono a beneficio anche dei popoli Walser. Nel corso dell’alto Medioevo, e grazie alle favorevoli condizioni climatiche, i Walser (popoli di stirpe germanica), vedendo precluse le vallate alpine già occupate dall’uomo da vecchia data, e con il favore dei potentati dell’epoca – duchi, vescovi e monasteri interessati a colonizzare le alte terre alpine – occupano progressivamente il territorio deserto: località dell’Oberland bernese, nelle valli retiche, nel Tirolo austriaco, oltreché nell’alto Vallese attuale, negli alti bacini valdostani, in quelli Lalsesiani, con importanti stanziamenti in Valle Formazza. Tutti questi gruppi allògeni hanno saputo conservare, grazie all’isolamento degli insediamenti scelti, i caratteri etnici e linguistici originali attraverso i secoli. Vikinghi, cavallette e i popoli Walser: tutti attori che hanno beneficiato di un considerevole cambiamento climatico. Annuncio pubblicitario
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Ambiente e Benessere
Un pieno di corrente dove occorre Motori Volkswagen elabora un sistema che porta delle stazioni di ricarica per auto elettriche
nei luoghi in cui la rete di distribuzione energetica non arriva
all’interno del Gruppo Volkswagen. Forse proprio per questa ragione è pensata per poter funzionare con mezzi anche di altri costruttori. Può infatti ricaricare sino a quattro veicoli per volta: due a corrente continua e due a corrente alternata. Può inoltre essere utilizzata anche da motoveicoli e biciclette. Come le migliori power bank, anche la Stazione Mobile di Ricarica è destinata a scaricarsi una volta assolto il suo compito. A quel punto cosa accade? Semplice: viene rimossa e sostituita con un esemplare carico. Fa quindi la semplice funzione di accumulatore con conseguente rilascio di energia. Esiste un’altra modalità di funzionamento che la rende più autonoma. Collegando infatti la power bank direttamente a una fonte di energia, la stessa si può ricaricare a corrente alternata. Così facendo, il pacco batterie si alimenta continuamente. In questo caso il vantaggio è quello di non dover adeguare le infrastrutture per la ricarica dei veicoli. Va detto infine che la Stazione Mobile di Ricarica può essere alimentata da fonti di energia rinnovabili come il sole o il vento e quindi prodotta in modo sostenibile. In questo caso provvede a immagazzinare l’energia per poi rilasciarla ai mezzi in tempi successivi. Le prime installazioni sono previste in Germania a Wolfsburg entro la prima metà di quest’anno nell’ambito di un progetto pilota a supporto delle reti di ricarica urbane.
Mario Alberto Cucchi A volte la soluzione a problemi complessi è molto più semplice di quanto non si pensi inizialmente. Spesso e volentieri questo concetto vale nella quotidianità. Quante volte si sente la frase: «come mai nessuno ci aveva pensato prima?». Ecco, è la stessa sensazione avuta durante l’anticipazione Volkswagen della propria Stazione Mobile di Ricarica. Un’anteprima mondiale in cui il Gruppo tedesco spiega come si possono ricaricare le batterie di un veicolo elettrico in una zona dove attualmente non arriva corrente elettrica. Pensiamo a un cantiere, a una zona di montagna, al sito di una manifestazione… Insomma come soddisfare un bisogno temporaneo. Basta avere una grandissima power bank. Sì, esattamente come quella che molte donne hanno in borsette o molti uomini nella tasca della giacca per ricaricare il proprio telefono cellulare quando si scarica e non si ha una comoda presa di corrente a disposizione. Il concetto è lo stesso, ovviamente cambiano le caratteristiche. La capacità della Stazione Mobile di Ricarica è di 360 kWh e può ricaricare sino a quindici veicoli elettrici in modo indipendente. Thomas Schmall, Presidente del Consiglio di Amministrazione di Volkswagen Group Components, afferma: «Le stazioni mobili di ricarica costituiscono un passo de-
I «power bank» sono sostituiti quando necessario: possono servire per quattro auto contemporaneamente. (WV)
cisivo verso una rete efficiente di punti di ricarica. Possono essere installate ovunque siano richieste, con o senza un collegamento a fonti energetiche. Questa flessibilità rende possibile un approccio completamente nuovo alla
rapida espansione dell’infrastruttura di ricarica. Ad esempio le città possono capire quali siano i posti più adatti per una stazione permanente prima di fare investimenti ingenti nello sviluppo della rete. Inoltre sarà possibile predispor-
re un grande numero di stazioni temporanee, esattamente quando e dove ce ne è bisogno». La Stazione Mobile di Ricarica è sviluppata da Volkswagen Group Components, unità indipendente
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Idee e acquisti per la settimana
Suggerimento
Farm Fries
Finezze con la buccia Il loro aspetto rustico ne è il segno caratteristico: le Farm Fries vengono prodotte con patate svizzere non sbucciate e tagliate spesse. È da ciò che deriva il loro intenso aroma. Christoph Frei, di Aesch, ZH, coltiva patate e nell’intervista illustra le caratteristiche più importanti per un tubero destinato alla produzione di pommes frites rustiche.
Salsa di avocado
Schiacciare la polpa di un avocado e mischiare con yogurt o crème fraîche, succo di limetta, coriandolo tritato, erba cipollina tagliata finemente, speciali miscele di spezie (per esempio quella per il guacamole) così come sale e pepe. Al posto dello yogurt si può utilizzare purea di ceci, tahini, rispettivamente crema di anacardi. Christoph Frei
«Le migliori patate diventano Farm Fries» Da quanto tempo coltiva patate? Coltiviamo patate da tre generazioni. Ho rilevato l’azienda nel 2003 e da allora fornisco le mie patate alla Bischofszell Alimentari SA. Coltivo patate su una superficie totale di dieci ettari. Come devono essere le patate per poterne fare delle perfette Farm Fries? Considerato che le Farm Fries vengono tagliate particolarmente spesse, le patate devono essere il più possibile grandi, mentre la loro buccia bella liscia, poiché viene utilizzata nella preparazione. Per le Farm Fries le esigenze più elevate sono però da ricondurre alla loro qualità intrinseca, dal momento che deve essere raggiunto un contenuto minimo di amido.
Farm Fries al forno con una salsa piccante al pomodoro e guacamole di avocado.
Questa proprietà può essere influenzata? È determinata dalle condizioni meteorologiche. È quindi importante che l’agricoltore contrasti queste influenze meteorologiche attraverso adeguati interventi sulle colture. Cosa mangia volentieri con le Farm Fries? Un bel taglio di carne di manzo svizzero.
Suggerimento
Salsa al pomodoro
Tritare finemente aglio e cipolla. Tagliare a piccoli cubetti dei peperoni gialli e verdi. Arrostire brevemente nell’olio. Aggiungere della passata di pomodoro. Lasciar restringere aggiungendo pomodori pelati triturati (in scatola), zucchero di canna greggio e aceto balsamico, paprica e pepe di Caienna. Aggiustare di sale e pepe. Farm Fries Nature surgelate, 600 g* Fr. 4.20
Farm Fries Rosmarino surgelate, 600 g* Fr. 4.50 *Nelle maggiori filiali
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Idee e acquisti per la settimana
Suggerimento
Farm Fries
Finezze con la buccia Il loro aspetto rustico ne è il segno caratteristico: le Farm Fries vengono prodotte con patate svizzere non sbucciate e tagliate spesse. È da ciò che deriva il loro intenso aroma. Christoph Frei, di Aesch, ZH, coltiva patate e nell’intervista illustra le caratteristiche più importanti per un tubero destinato alla produzione di pommes frites rustiche.
Salsa di avocado
Schiacciare la polpa di un avocado e mischiare con yogurt o crème fraîche, succo di limetta, coriandolo tritato, erba cipollina tagliata finemente, speciali miscele di spezie (per esempio quella per il guacamole) così come sale e pepe. Al posto dello yogurt si può utilizzare purea di ceci, tahini, rispettivamente crema di anacardi. Christoph Frei
«Le migliori patate diventano Farm Fries» Da quanto tempo coltiva patate? Coltiviamo patate da tre generazioni. Ho rilevato l’azienda nel 2003 e da allora fornisco le mie patate alla Bischofszell Alimentari SA. Coltivo patate su una superficie totale di dieci ettari. Come devono essere le patate per poterne fare delle perfette Farm Fries? Considerato che le Farm Fries vengono tagliate particolarmente spesse, le patate devono essere il più possibile grandi, mentre la loro buccia bella liscia, poiché viene utilizzata nella preparazione. Per le Farm Fries le esigenze più elevate sono però da ricondurre alla loro qualità intrinseca, dal momento che deve essere raggiunto un contenuto minimo di amido.
Farm Fries al forno con una salsa piccante al pomodoro e guacamole di avocado.
Questa proprietà può essere influenzata? È determinata dalle condizioni meteorologiche. È quindi importante che l’agricoltore contrasti queste influenze meteorologiche attraverso adeguati interventi sulle colture. Cosa mangia volentieri con le Farm Fries? Un bel taglio di carne di manzo svizzero.
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Ambiente e Benessere
Il Jura e i suoi vini
Scelto per voi
Bacco Giramondo Anche questa regione francese può vantare specialità
di ottimo pregio, forse meno conosciute di quelle di altre zone vinicole Davide Comoli Il Jura è una regione situata tra la Svizzera e la Borgogna, caratterizzata da un rilievo formato da rocce calcaree. Le vigne occupano parcelle protette dai venti, a un’altezza che varia tra i 250-500 m s.m. Piccolo per essere grande, ma grande per la sua eccezionale diversità, il vigneto Jurassiano si estende per una lunghezza di 80 km, diviso in quattro zone: le alte montagne, la costa del Revermont, gli altipiani e la pianura. I vini del Jura, prodotti con vitigni autoctoni, vengono raramente citati tra i grandi vini di Francia, eccezion fatta per il leggendario Vin Jaune. I vignerons locali spesso lavorano parcelle discoste tra di loro, alcune rivolte ad ovest o a sud-ovest, a volte rivolte a sud. I suoli sono prevalentemente formati da marne blu, grigie e nere, quelli più a nord, a volte, da abbaglianti calcari e scisti. Il clima è ricco di contrasti: gli inverni sono freddi, le estati calde e gli autunni soleggiati. Nel 1936 i vini del Jura ottennero
le prime A.O.C. francesi (a Arbois, il nome di questo luogo è di chiare origini celtiche: le parole «AR» e «BOIS» significano infatti «terra fertile». Molto rinomati sono i vini rossi, eleganti e luminosi di questa A.O.C. Arbois è una bella piccola e vecchia città, dove tra l’altro, in una piccola vigna presso la città, Louis Pasteur compì i suoi esperimenti sui lieviti, scrivendo un trattato d’enologia sui vini del luogo. Il nome di questa zona vitivinicola situata nella Franche-Comté è A.O.C. l’Étoile, una denominazione legata al ritrovamento nel suo territorio di piccoli fossili (moltissimi) chiamati «penta crines», che sembrano stelle a cinque pentacoli e danno origine al terreno calcareo della zona. I vigneti che circondano la città di Lons-le Saunier, luogo natale di Rouget de Lisle, il compositore della «Marsigliese», danno origine all’A.O.C. Côtes de Jura, che conta 72 villaggi: vanno da nord a sud su terreni molto diversi. In alto troviamo del calcare con sedimenti organici, sui contrafforti marne pietrose e infine nelle terre basse dell’argilla quasi in purezza. L’A.O.C. Château-Chalon, questo pic-
Filari del Domaine Désiré Petit. (boottle.fr)
colo vigneto di rinomanza mondiale, conta quattro comuni ai piedi della falesia di Bajocien, all’interno di un perimetro ben delimitato. Château-Chalon è costruito sul granito e quindi impossibile avere delle cantine sotterranee (si scende al massimo di un paio di metri): sono quindi tutte alla mercé degli sbalzi di temperatura, che giocano un ruolo importante nell’apparizione del lievito «flor», tipico dei Vins Jaunes. Il Vin Jaune è uno dei vini più longevi al mondo. Il suo intenso colore giallo dorato gli ha fatto meritare il nome di «Oro del Jura». Prodotto esclusivamente con le uve del Savagnin, rivela le sue eccezionali qualità aromatiche dopo una lunga e misteriosa metamorfosi. Il Vin Jaune nasce da Château-Chalon, ma è ugualmente prodotto nelle A.O.C. che abbiamo citato sopra. Una volta finita la fermentazione, viene conservato per un minimo di sei anni e tre mesi in piccole botti, senza alcun intervento dell’uomo. Questo procedimento, che rispetta l’evaporazione naturale del vino, provoca la creazione di una sottile pellicola di lieviti in superficie. Sono questi lieviti che con pazienza nutrono il famoso Vin Jaune, gli danno aromi complessi di noci, nocciole e mandorle. Alla fine del suo invecchiamento, questo nettare è messo nelle «clavelin», bottiglie da 62 cl: è il volume che resta da un litro di Savagnin dopo l’invecchiamento. Questo vino possente migliora con il tempo: è l’ottimo compagno del celebre Poulet au Vin Jaune, ma non disdegna un vecchio Comtè stagionato. Altro nettare, dolce e voluttuoso, è il Vin de Paille. Vino dolce naturale è prodotto con antiche tecniche dai più bei grappoli di Chardonnay, Savagnin, Poulsand e Trousseau selezionati. I grappoli vengono in seguito messi su dei graticci di paglia d’avena per circa tre mesi. Dopo questa disidratazione, i chicchi ricchi di zucchero vengono pressati. Il mosto ottenuto fermenta sino ad arrivare ad un grado alcolico tra i 14,5° ed i 17°, dopodiché verrà messo in botte per almeno altri tre
anni. Si avrà così dopo l’invecchiamento un vino con profumi di miele, caramello, frutta candita, che viene usato anche come fortificante naturale per le sue virtù energetiche. Da provare sul foie gras o sulla torta di noci. Elaborati da cinque differenti vitigni, i vini del Jura posseggono una straordinaria diversità gustativa e olfattiva: lo Chardonnay, il Savagnin, il Poulsand, il Pinot Nero e il Trousseau, si esprimono in maniera molto differente a dipendenza del terreno e del microclima che li vede maturare. Lo Chardonnay è originario della Borgogna ma viene coltivato da lunghissimo tempo nel Jura, tanto da diventarne un po’ «l’enfant du pays». Grazie alle grandi caratteristiche d’adattamento è il vitigno più coltivato. Il Savagnin, ha un ruolo dominante: questo vitigno chiamato in loco Nature è imparentato con il Traminer e la sua coltivazione ricopre il 15% della superficie vitata. Il rendimento è molto flebile, circa 30-35 ettolitri a ettaro e la vendemmia viene prolungata sino alla fine di novembre/dicembre. È il vitigno principe per il Vin Jaune. Il Poulsand (rosso), antico vitigno autoctono (già citato da Plinio), ama i terreni marnosi e argillosi. È il secondo vitigno per produzione: ha un colore leggero che lo fa assomigliare ad un rosato (rosso pastello). È un vino da tutto pasto, da bere con piatti di salumeria locale, tra i quali figura la salsiccia di Morteau. Il Trousseau (rosso), di corpo e tannico, è un vino elegante, da abbinare ai piatti di selvaggina. Il Pinot Nero, viene spesso maritato con gli altri due, ma grazie al suo buon potenziale d’invecchiamento, viene spesso vinificato in purezza. Non possiamo lasciare il Jura senza citare il Macvin, che è l’equivalente delle nostre mistelle. È prodotto con due terzi di mosto (bianco o rosso) e un terzo di Marc (grappa). Deve restare 18 mesi in botte e contiene un alto residuo zuccherino. Ottimo come aperitivo, ma vi invito a provarlo anche su un dolce al cioccolato.
Bonarda Vivace Il Bosco
Il freddo invita a sedersi davanti ad una tavola imbandita, e la cucina d’inverno offre una ricca gamma di suggerimenti con una serie di piatti succulenti, i quali necessitano di vini in grado di sgrassare un po’ la nostra bocca. La Bonarda, antico vitigno piemontese, è ricco di sinonimie e false omonimie, delle quali la più frequente è quella della Croatina. Può essere vinificata in purezza, ma generalmente è utilizzata in mescolanza con delle altre uve, quali il Barbera, apportando vivacità e colore, attenuando l’eventuale asprezza e tannicità. Di un colore rosso rubino violaceo, di una piacevolezza non comune, al naso percepiamo sentori di marasca, portati quasi allo stato di confettura, lampone e fragola; in bocca grande freschezza grazie alla sua briosità che t’invoglia subito a bere un altro sorso. Perfetta con un tagliere di salumi, preparazioni in cui l’oca è l’ingrediente principe, ma soprattutto sulla famosissima «Cazzoeula». / DC Trovate questo vino nei negozi Vinarte al prezzo di Fr. 13.50. Annuncio pubblicitario
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Ambiente e Benessere
Nuove tecniche antiche
Gastronomia Fermentazione e germinazione stanno prendendo piede nelle cucine moderne
e diventano modi alla moda di preparazione del cibo Allan Bay La fermentazione e la germinazione sono oggi di gran moda: molti sono i cuochi di successo che ne utilizzano le tecniche ancestrali. Certo, alcuni le scelgono perché fa tendenza, come fa tendenza utilizzare «chilometro zero» o «cucina della nonna», concetti che inteneriscono i cuori più coriacei. Ma altri le praticano nella piena convinzione di arricchire gli ingredienti e di conseguenza ottimizzare le qualità di ciò che propongono ai loro clienti. Vediamo di conoscerle un po’ meglio, sia pur sommariamente.
Da un lato grazie a lieviti e batteri gli ingredienti si sanificano, dall’altro l’uso dei germogli aggiunge qualità nutritive a molti semi Fermentazione. Prima ancora della conservazione sotto grasso, prima ancora dell’essicazione al sole, esistevano già i cibi fermentati. In molte nazioni dove i frigoriferi e gli altri elettrodomestici refrigeranti sono oggetti (relativamente) rari o dove la tecnica della fermentazione è solida e molto legata a forti tradizioni culturali, come in Corea, la conservazione degli alimenti mediante la loro trasformazione biochimica per merito di lieviti e batteri specifici è cosa anche oggi attualissima. Del resto, la fermentazione è la madre della cucina e solo nel corso del tempo si è andata via via separando fin quasi a cadere nell’oblio. Una separazione però solo formale, sia chiaro, dato che, nella pratica quotidiana, proseguiamo a far fermentare cereali, carni, pesce, verdure (i mitici crauti), latte, ecc. per ottenere pane, formaggio, vino, aceto, yogurt, conserve in salamoia,
carni ben frollate. Attenzione: ai giorni nostri si continua a far fermentare non solo per scopi conservativi. Un cibo fermentato è un cibo arricchito nel gusto, pieno di sfumature di sapore, ma è anche un cibo vivo, trasformato, sanificato, sicuro e dunque pronto a essere consumato. Il cuoco di oggi fa bene a riappropriarsi di questa tecnica antica, imparando a dominarla alla luce delle nuove conoscenze tecnologiche e delle esigenze nutrizionali. Germinazione. È quel processo vitale attraverso cui una pianta passa dallo stadio embrionale (germe) a quello di crescita del germoglio e poi allo sviluppo della prima radice, per terminare con lo sviluppo della prima foglia. Il processo termina quando la giovane pianta, pur traendo ancora parte del suo nutrimento dal seme, nello specifico dall’endosperma ricco di amidi, inizia a creare sostanze nutritive attraverso la fotosintesi clorofilliana e il suolo. L’attivazione e la rivitalizzazione del germe del seme avvengono attraverso il contatto con l’acqua. Man mano che il seme inizia ad assorbirla intervengono diverse reazioni biochimiche, per opera di enzimi il cui scopo è di rendere disponibili le riserve di amido al giovane germoglio. È a questo punto che il germoglio diventa una fonte concentrata di sostanze nutritive e che può essere utilizzato in cucina. La germinazione è un processo irreversibile che trasforma gli amidi, le proteine e i grassi complessi in semplici, rendendoli di più facile digestione e assimilazione da parte dell’organismo. Una volta che il processo ha raggiunto il massimo in termini di crescita di sostanze bio disponibili, il germoglio può essere consumato: aggiunto a crudo, su qualsiasi piatto, oppure è possibile riportarlo in stasi, essiccandolo dolcemente, così da averlo a disposizione alla bisogna. Esempio massimo di germinazione è il bulgur, che è grano duro integrale germogliato, tipico della Mezzaluna Fertile (Libano, Siria, Iraq e vicini) ma oramai più che disponibile anche in Europa.
CSF (come si fa)
Nella nobile gara del «piattone più nutriente al mondo», nessuno batte la hareera detta anche harira o hereera, È una tipica zuppa del Mahgreb, ovvero della tradizione gastronomica algerina e marocchina, ma anche tunisina. Un piatto più completo e nutriente non c’è. Viene preparato soprattutto durante il periodo del Ramadan. Per 10 persone (per meno non ha senso farlo). Tenete a bagno 150 g di ceci
e 150 g di fagioli per 24 ore, poi cuoceteli in abbondante acqua salata fino a quando saranno morbidi, schiumando di tanto in tanto. Intanto rosolate 400 g di polpa di agnello in una casseruola con una noce di burro, 6 cucchiai di soffritto di cipolle e 200 g di passata di pomodoro; spolverizzate con una cucchiaiata di farina setacciata, mescolate, coprite a filo di brodo vegetale bollente e cuocete per 1 ora, unendo brodo bollente se necessario (il liquido deve essere a filo degli alimenti). Unitela ai legumi insieme con 150 g di lenticchie lessate a parte. Nel frattempo avrete cotto 150 g di riso in abbondante brodo vegetale: versatelo nella zuppa insieme con un cucchiaino di curcuma o una bustina di zafferano, il succo filtrato di un limone, una presa di foglie di coriandolo tri-
tate e una di prezzemolo. Regolate di sale. Mescolate e servite, profumando con un cucchiaino di harissa. L’harissa è una salsa tipica del Maghreb a base di peperoncino rosso e aglio. È piccantissima. Si trova anche già pronta, in tubo, come il concentrato di pomodoro, ma è meglio farsela in casa. Private 250 g di peperoncini secchi di piccioli e semi e lasciateli in acqua per 1 ora, quindi sgocciolateli e frullateli con un filo di olio, 4 spicchi di aglio mondati, 1 cucchiaio di coriandolo secco in polvere, 1 cucchiaio di semi di carvi, 1 cucchiaio di menta secca, 4 cucchiai di foglie di coriandolo fresco e 1 cucchiaio di sale. Tenetelo in un barattolo in frigorifero proteggendo la superficie con un nuovo velo d’olio ogni volta che ne preleverete un poco.
Ballando coi gusti Oggi due ricche e nutrienti torte salate. Al posto della carne tritata e del tonno, potete usare le proteine che volete, sminuzzate.
Torta di patate e carne
Torta al tonno
Ingredienti per 4 persone: patate g 700 · carne trita g 200 · pasta di pane g 400 · formaggio semi morbido g 100 · 1 cipolla · vino bianco · salsa di pomodoro · peperoncino · olio di oliva · sale.
Ingredienti per 4 persone: pancarré g 600 · tonno fresco g 200 · mozzarella g 200 · besciamella · grana grattugiato · sale e pepe.
Cuocete le patate a vapore per 20’, levatele, sbucciatele e spezzettatele. Rosolate la carne trita per 10’, mescolando, sfumate con 1 bicchierino di vino, aggiungete pomodoro e peperoncino e cuocete per 2’. Regolate di sale. Lavorate la pasta da pane e stendetela in modo da ottenere 2 dischi, uno del diametro della tortiera e uno più grande. Rivestite con il disco più grande il fondo e il bordo di una tortiera foderata con carta da forno; distribuite patate, carne e il formaggio tagliato a dadi, chiudete con il secondo disco di pasta e sigillate i bordi. Spennellatela sulla superficie di acqua e olio, bucherellatela con una forchetta e lasciatela riposare per 1 ora. Cuocetela in forno a 220° per 50’. Sfornatela e lasciatela intiepidire prima di servirla.
Togliete la crosta dalle fette di pancarré. Tagliate il tonno a pezzetti. Affettate la mozzarella e fatela scolare in un colino per 10’ o più. Foderate una tortiera con carta da forno e mettete uno strato di fette di pane, uno di tonno e uno di mozzarella; fate in tutto 3 strati, spolverizzando con sale e pepe. Nappate la superficie con più o meno abbondante a piacer vostro besciamella non troppo soda, arricchita con il formaggio. Cuocete in forno a 180° per 30’ poi servite.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 gennaio 2019 • N. 05
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Ambiente e Benessere
Un luminoso Dr. Giochi Jekyll & Mr. Hyde per “Azione” - Gennaio 2019 Mondoanimale Per Pro Natura la lucciola è l’animale che Stefania terrà bancoSargentini quest’anno
SUDOKU PE suolo coi suoi occhi grandi alla ricerca
Maria Grazia Buletti «Non è più una notizia, ormai» è l’obiezione con cui rispondiamo alla portavoce di Pro Natura, Martina Spinelli, quando ci chiede di parlare dell’animale dell’anno 2019 e di «accendere i riflettori» (mai come quest’anno è il caso di dire così) sulla lucciola. Questo è l’animale scelto dal sodalizio per sensibi1 3 4 mondo degli 5 lizzare la2popolazione sul insetti (mondo che «si sta rapidamente degradando») e, di riflesso, sulle loro10 9 condizioni in Svizzera. Infatti, dicevamo, tutti i media 13 14 hanno già parlato a inizio gennaio di quella piccola creaturina che ci affa16 nelle17 scina tanto perché notti di inizio estate ci regala uno spettacolo di luci. «Mai 19 come stavolta, l’animale prescelto per il 2019 sarà argomento di tutto l’anno: ora lo introduciamo e poi ne riparleremo ancora in estate», è la pron-21 ta risposta della nostra interlocutrice che, così, ci incuriosisce e ci convince 22 ad entrare, anche se qualche settimana più tardi del consueto, nel mondo della Lampyris noctiluca (questo 24 il nome scientifico dell’insetto). «L’argomento sarà dunque 27 ripreso verso giugno, quando saremo nuovamente rapiti dello spettacolo e dalla magia che le lucciole sanno regalarci nelle notti serene: tanto vale…», riflettiamo ad alta voce, mentre Spinelli subito ci incuriosisce con una prima «provocazione». «Tutti conoscono lo spettacolo e la magia che le lucciole ci regalano nelle notti di inizio estate, po2 3 è il loro 4 aspetto 5 alla chi1però sanno qual luce del giorno». Anche a chi scrive era sconosciuto, fino ad oggi: e pensare che 7 non stiamo parlando di «creature fa-
dell’agognato segnale. Scopriamo che N. 1 FACILE questa è una gara contro il tempo: «Le Schema lucciole adulte non sono più in grado di
(N. 1 - ... in Bulgaria si fa il contrario) 6
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I G L O O
I R I A N N P T O A R I metodi di caccia della larva» che contrastano violentemente con l’immagiRco- I ne romantica della creatura eterea, stituita di luce. Una sorta di Dr. Jekyll andS Mr. O N
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L’addome che si illumina è 20 un richiamo sessuale per il maschi. (pinegreenwoods. blogspot)
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tate», bensì di coleotteri della famiglia 25 26 dei Lampiridi: «In Svizzera ne vivono quattro specie e la Lampyris noctiluca è quella che Oltralpe viene osservata più frequentemente, mentre in Ticino dobbiamo prestare più attenzione per identificarla, perché a sud del Gottardo sono presenti tutte e quattro le specie». A Sud delle Alpi abbiamo dunque il privilegio di ospitare tutte le varietà di lucciole che, scopriamo ancora, illuminano le nostre notti solamente alla fine della loro vita. «Prima di raggiungere6 l’età adulta, la lucciola trascorre due anni allo stadio larvale e in questo periodo si nutre di ogni sorta di lumaca», spiega Martina, che parla di «rudi
N C U B A L E O I F M E I P A C O
Hyde, insomma, perché «essa, come un minuscolo coccodrillo di colore nero– marrone, si avvicina di soppiatto alle prede (spesso molto più grandi di lei) e le uccide con morsi velenosi divorandole nel giro di un giorno». Le lucciole sono perciò «il terrore delle lumache» perché durante il loro stadio larvale dimostrano di essere proprio di bocca buona e si nutrono di ogni sorta di questi Gasteropodi: «Grandi e piccole lumache, con o senza guscio, e dopo il
(N. 2 - ... vanta ben cinque premi Nobel)
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Cruciverba 17 18 19 Forse non tutti sanno che… Completa la frase risolvendo il cruciverba e leggendo le lettere 20 21 22 23 evidenziate. (Frase: 2, 5, 2, 8, 4) 24 25 26 27 28
U L N A U T O L O V U T I M O A S C H E A N T
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Giochi
assumere cibo, quindi gli individui che riescono ad accoppiarsi, muoio4 non no senza discendenza9dopo appena3un paio di settimane». 8 2 sgretoCerto, le informazioni che lano la nostra visione romantica di questo 3coleottero 1 sono 9 molte. 8 Non 7 ci resta che tornare con i piedi per terra per capire come collocarlo nell’ambito della 3 5 locale 4 che, 2 ci viene spieganostra fauna to, è dominata dagli insetti: «Delle circa936’000 specie di animali conosciute in Svizzera, ben 30’000 appartengono a questo3grande 2 7gruppo». Cosa certa è che dove gli insetti stanno bene, anche la natura sta bene. E qui casca l’asino, 4 8 5 6 7 perché Martina Spinelli ci rende attenti sul fatto che purtroppo il loro mondo 9 2 a una velocità 5 1 si sta degradando spaventosa, a causa della distruzione degli 1 5 habitat, 4 dell’uso3eccessivo di pesticidi, dell’inquinamento luminoso e di altri viscido pasto si ripuliscono accurata- fattori concomitanti. N.organo 2 MEDIO mente con uno speciale cauLe conseguenze per la natura e per dale». Dopodiché, nell’estate del terzo gli esseri umani sono ovviamente peanno di vita, la larva muta in «pupa» 8 e santi. 4 Perciò Pro Natura, quest’anno, 6 in seguito dal bozzolo esce finalmente si adopera per «dare luce» alle lucciole. la lucciola adulta, la cui femmina cerca «Per fortuna, sempre più persone, al9 larmate dai dati diffusi7dagli specialisti, subito un luogo idoneo 4 in cui attirare un maschio. E ci vien da dire che qui la stanno prendendo coscienza di questi natura ripete il suo infinito mantra. grandi problemi», conclude2la portaManco a dirlo: «La femmina sa che voce di Pro Natura, ricordando a tutti il maschio è desideroso di accoppiarsi che: «Nel 2019 la lucciola 3 illuminerà 2 e allora mette bene in vista il tratto ter- con la sua magica luce questi fatti per i minale del corpo, dove si trovano gli quali, non dimentichiamolo, esistono 6 3 4 organi in cui avviene la reazione chimi- soluzioni concrete». A noi non resta che ca che dà origine allo spettacolare luco- aspettare l’inizio dell’estate per tornare 3 non emette a 7 1 e rendere». Il maschio, per contro, cercare i lumini delle8lucciole luce e sorvola l’habitat scandagliando il re loro omaggio.
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imboccate mangiano (N.18. 1 - Vengono ... in Bulgaria sima fa non il contrario)
N. 1 FACILE 19. Una preposizione 6 5 4 1 2 3 4 5 6 7 8 Soluzione I N CSchema U B I U L N A 21. Simbolo del voltampere 9 10 11 12 22. Sono di famiglia G A L4 E R I2 1 7 4 2 87 5 9 6 3 9 A 3U S 13 23. Nel caso 14 15 in cui... L O 8 I F A N 2T O C 3 9 8 7 4 6 1 2 5 24. In con Ping 18 16 coppia 17 7 9 O M E I N L O V E 25. Uno strato del nucleo terrestre 5 2 6 3 1 9 8 7 4 3 1 9 8 7 19 20 O P A C O P U T I N 27. Manovale 8 3 7 1 5 4 2 9 6 3 5 4 2 21 9S 2 8 28. Segue il «così» liturgico T O M O 6 5 1 9 2 8 3 4 7 9 23 VERTICALI22 A R I A S O 1. Fanno il doppio gioco 25 26 2 3 7 24 6 E R 7 2 54 9 6 3 7 5 1 8 R I C H 2. Questa cosa 4 8 2 5 6 1 7 3 9 4 8 5 6 7 27 S O N A N T E 3. La domenica su Rai Uno 9 6 3 8 7 2 4 5 1 9 2 5 1 5. Capaci, esperti Soluzione della settimana N. 4precedente GENI 6. Lo cerca il lattante UNA1SINGOLARE FAMIGLIA – La famiglia Curie: 7 …VANTA 1 5 4 BEN 9 CINQUE 3 6 8 2 5 4 3 (N. 8. 2 Si - ... vanta ben cinque premi vive nell’accordo perfetto tra amoreNobel) PREMI NOBEL. N. 2 MEDIO e serenità 5 2 4 1 2 3 4 5 6 12. Ha tanti buchi ma non è rotta! 2 8 3 4 7 5 1 6 9 V A 8 N E 4 S S A 6 7 13. «Center» per chiamate telefoniche 4 1 9 3 6 2 7 5 8 B 4I T A 9 C A 7 9 8 14. Scontato, naturale 9 7 5 6 9 1 8 3 2 4 R E N O C I 2 15. Noto servizio segreto 10 11 9 52 86 6 5 1 4 3 77 U N M O T 3 16. L’attore Elizondo (iniz.) 2 O 12 14 15 16 17. Luoghi13per operazioni di voto 6 7 1 8 3 4 5 9 2 S C A Q U I 6 E 3 R 4 I 19. d’arte della cantante Zilli 17 Nome 18 19 2 9 8 1 3 4 5 7 2 9 8 1 6 3 O D O 7 R E 8 P 1 U E R 20. Tessuto senza rovescio 20 21 22 23 5 6 4 1 9 7 2 8 3 8 E 6 A M 9I A 2T A I A 22. Per… per gli inglesi 4 24 25 26 27 23. Pronome personale francese 1 3 7 2 8 6 9 4 5 8 N O R M A R I O T 28 24. Ripetute in una 29 spezia 6 7 1 8 9 2 5 4 3 3 9 E A 3 4 1 T O B E L A O S 26. Le iniziali dell’attrice Stone 1
(N. 3 - ... un piede ha ventisei ossa) 1
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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch
O V V I O
C H E I E A F P O P E R
S C I L P I N I I O D R E C I E S A L T N E L L E I G L I N G O S A I O S
I premi, cinque carte regalo Migros (N.Partecipazione online: inserire 3 - ... un piede ha ventisei ossa)la del valore di 50 franchi, saranno sor- soluzione del cruciverba o del sudoku 1 2 3 4 5 6 teggiati tra i partecipanti che avranno nell’apposito formulario pubblicato 9 fatto pervenire la soluzione corretta sulla pagina7del sito. 8 10 11 12 entro il venerdì seguente la pubblica- Partecipazione postale: la lettera o 5 6 7 8 9 zione del gioco. la cartolina postale13che riporti la so-
(N. 4 - ... parmigiana di melanzane era lungo) 1
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P A R M A
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S E N O
T S E O L I A
N. 3 DIFFICILE
luzione, corredata da 5 nome, cogno3 6 del 4 partecipanme, indirizzo, email S C 9 I a «Redazione L8 A S 3 1 4 te deve essere spedita Azione, Concorsi, C.P. 6315, P I8 N I 2 6901 B E 1 Lugano». I O3 2 D R I 1 N Non si intratterrà corrispondenza sui C I4 E1 L O 6 5 E
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 gennaio 2019 • N. 05
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Politica e Economia Il nodo dei confini Uno dei grandi problemi della Brexit riguarda la frontiera fra le due Irlande
Huawei e la rabbia di Pechino Il caso della direttrice finanziaria del colosso cinese Huawei, Meng Wanzhou, in arresto a Vancouver su mandato americano non è soltanto un episodio della guerra commerciale fra Stati Uniti e Cina ma è anche un fatto politico
Stop alle zone edificabili? L’iniziativa in votazione il 10 febbraio è in conflitto con gli sforzi di Confederazione e Cantoni in tema di pianificazione
Il peso dei premi I costi dell’assicurazione malattia continuano ad aumentare, entro il 2040 potrebbero raddoppiare pagina 33
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Ennesima ingerenza dei social nella privacy? (Marka)
Non mettiamoci la faccia
10-Year Challenge Sta spopolando sui social un gioco che invita a postare una foto di 10 anni fa al fianco
di una di oggi. Un modo (rischioso) per addestrare gli algoritmi di riconoscimento facciale Christian Rocca Qualcosa incomincia a muoversi: le grandi piattaforme digitali, Facebook e Google, non sono più libere di fare quello che vogliono, come lo vogliono e quando lo vogliono, prendendosi peraltro anche gli applausi di incoraggiamento delle vittime. O, meglio, continuano ad abusare della loro posizione dominante e nessuno ha ancora trovato il modo di limitare i danni causati alla società dalla dittatura dell’algoritmo, ma per la prima volta si nota una nuova consapevolezza pubblica o, perlomeno, se ne incomincia a parlare. Prima l’Unione europea ha chiesto conto delle palesi violazioni fiscali, di privacy e di copyright dei giganti di Internet, poi sulla base della nuova direttiva comunitaria la Francia ha imposto una multa di 50 milioni di euro a Google mentre l’America ancora discute sull’interferenza russa sulle elezioni presidenziali, ma adesso è finito sotto i riflettori anche il giochino dei «10-Year Challenge», diffusosi viralmente sui social media, grazie al quale centinaia di migliaia, probabilmente milioni, di persone hanno pubblicato le fotografie di propri primi piani di dieci anni fa accanto a quelle di oggi. Ma il «10-Year Challenge»
è soltanto un passatempo ingenuo e divertente, come si è affrettato a precisare Facebook, proprietario di Instagram, oppure nasconde qualcos’altro? La prima a porre il tema è stata Kate O’Neill, autrice del libro Tech Humanist: How can you make technology better for business e better for humans, naturalmente su Twitter: «Io dieci anni fa: probabilmente sarei stata al gioco dei meme fotografici sull’invecchiamento in corso su Instagram e Facebook. Io adesso: Mi chiedo se questi dati saranno utilizzati per addestrare gli algoritmi del riconoscimento facciale sull’avanzamento dell’età». Il tweet è diventato un articolo della rivista «Wired» e, nonostante le smentite di Facebook, si è diffusa l’idea che l’intera operazione della «10 year challenge» sia un’astuta manovra del gigante di Menlo Park per testare e migliorare i propri algoritmi. In realtà, tutte le foto e i dati biometrici che già forniamo ai social costituiscono una banca dati formidabile a disposizione di algoritmi e altre sperimentazioni, senza alcuna garanzia di trasparenza e di modalità d’uso futuro. Come ha scritto Kate O’Neil, «ci sono cose che non pensiamo siano pericolose, e poi tra cinque o dieci anni capiremo che invece sono una minaccia, ma a quel punto
avremo già consegnato i nostri dati». E li abbiamo consegnati gratuitamente, regalandoli, ecco perché in un recente paper pubblicato dalla «Harvard Business Review», uno dei pionieri di Internet e della realtà virtuale, Jaron Lanier, con la collaborazione del professor E. Glen Weyl, ha proposto di monetizzare i dati che quotidianamente forniamo alle piattaforme digitali, compresi quelli altrui di cui usufruiamo, creando una specie di mercato globale dei dati, con tanto di sindacati e mediatori in grado di difendere gli interessi di tutti, in modo da sfuggire al destino del reddito di cittadinanza fornito centralmente dallo Stato, un sogno realizzato di comunismo distopico, verso cui necessariamente ci stiamo dirigendo a causa della sparizione dei posti di lavoro colpiti dall’innovazione tecnologica. Il caso Facebook è quello più rilevante. Fa riflettere, a proposito di sfida dei dieci anni, il cambiamento di atteggiamento, in questi due lustri, nei confronti del colosso di Zuckerberg. È del 2010 il film di David Fincher e Aaron Sorkin, The Social Network, che per quanto non nascondesse le origini tumultuose dell’idea di Mark Zuckerberg, descriveva in modo epico la sua scalata al successo, tanto da diventare un irresi-
stibile strumento di ispirazione e di propaganda per chiunque volesse lanciare start up e idee dirompenti. Ora, invece, tra le inchieste inglesi sui dati ceduti a Cambridge Analytica, quelle americane sulle manipolazioni russe, quelle fiscali europee e una certa ossessione, secondo Zuckerberg stesso, del «New York Times» che sforna scoop su scoop sulle malefatte della sua creatura, probabilmente a causa del senso di colpa di aver fin qui sottovalutato l’impatto dei social sui processi democratici, trascorsi quindi dieci anni dal film, Facebook comincia a essere visto come un problema da risolvere, certamente da regolamentare per prevenire guai ulteriori. L’ultima bordata a Zuckerberg l’ha tirata uno dei suoi mentori e consiglieri, tuttora investitore di Facebook: Roger McNamee è una figura primaria della Silicon Valley americana, avendo investito negli ultimi 35 anni svariati milioni di dollari, e ha appena scritto un libro, il cui titolo dice già tutto: Zucked – Waking Up to the Facebook Catastrophe, nato nove giorni prima delle elezioni presidenziali del 2006 che hanno eletto, a sorpresa, Donald Trump, nel momento in cui ha inviato una email a Zuckerberg descrivendosi «infastidito, imbarazzato, vergognato» per il com-
portamento di Facebook, nonostante ancora non fossero pubbliche molte delle cose di cui siamo venuti a conoscenza successivamente: «Facebook ha fatto cose davvero orribili – ha scritto McNamee a Zuckerberg – e io non posso più scusare questo comportamento». La tesi del libro di McNamee è quella centrale di questa epoca: «Il business model dipende dalla pubblicità, che a sua volta dipende dal manipolare l’attenzione degli utenti in modo che vedano più pubblicità. Uno dei modi più efficaci di manipolare l’attenzione è appellarsi alla rabbia e alla paura, emozioni che fanno aumentare il coinvolgimento. L’algoritmo di Facebook dà agli utenti quello che vogliono, e così il flusso di notizie di ciascuno di loro diventa una realtà separata, una bolla che crea l’illusione che la maggioranza delle persone che l’utente conosce la pensa allo stesso modo». E, ancora, «informazione e disinformazione sembrano la stessa cosa, l’unica differenza è che la disinformazione genera maggiori ricavi, viene trattata meglio dall’algoritmo che quindi preferisce i messaggi estremi a quelli neutrali, cosa che contribuisce ad aumentare la disinformazione a danno dell’informazione, le teorie della cospirazione sui fatti».
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 gennaio 2019 • N. 05
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Politica e Economia
«Backstop» per l’Irlanda Brexit Si tratta di un accordo per garantire che non venga eretto un confine fisico («hard border») fra Irlanda
e Irlanda del Nord ed è uno dei nodi irrisolti della Brexit che ha affossato l’accordo siglato dalla May con i partner Ue Cristina Marconi L’Irlanda è il cubo di Rubik della Brexit: solo chi lo risolve può andare avanti. Però trattandosi di un gioco di pazienza e logica in molti, soprattutto sul fronte degli euroscettici tendenza no deal, pensano che sarebbe meglio spaccarlo, questo cubo, che non affrontare tutte le sottigliezze necessarie per raggiungere il risultato, ossia fare in modo che un paese dell’Unione europea e una nazione parte di un paese ormai fuori dall’Unione europea non ci sia un confine fisico. Trattandosi di un’isola che per decenni è stata bagnata dal sangue delle violenze settarie tra cattolici irlandesi repubblicani e protestanti unionisti e che ha raggiunto un equilibrio solo grazie agli accordi del Venerdì Santo del 1998, è facile capire perché un confine farebbe saltare una pace conquistata a fatica. Facendo rivenire a galla la spaccatura tra comunità che solo l’assenza di controlli ha permesso di ignorare o quasi per tanti anni e riaccendendo quelle fiammelle di violenza ormai quasi del tutto spente, minoritarie, schiacciate dal peso trionfale della pace. La Nuova Ira, erede di quell’esercito repubblicano che terrorizzò la Gran Bretagna, ha emesso qualche vagito proprio nei giorni scorsi, come a voler mostrare subito al mondo cosa succede quando si gioca con il fuoco. Una bomba in un sabato sera a Londonderry, meglio nota come Derry, seconda città dell’Ulster e teatro del Bloody Sunday nel 1972, è risuonata sinistra pur non avendo fortunatamente fatto vittime. In centro, nascosta dentro un furgoncino per le consegne della pizza rubato poche ore prima, è stata messa davanti a una corte di giustizia a pochi metri da un albergo e da un centro ricreativo in cui c’erano bambini. Soprattutto, non ha avuto lo stesso preavviso di altre bombe del passato, lasciando letteralmente un pugno di minuti alle autorità per sgomberare la zona. Sono stati arrestati due giovani e
secondo gli inquirenti sarebbero legati alla Nuova Ira, organizzazione che «come molti gruppi dissidenti repubblicani in Irlanda del Nord, è piccola, poco rappresentativa e determinata a riportare la gente dove non vuole più stare», ha rassicurato il commissario incaricato delle indagini. Da tutto l’arco politico sono giunte le condanne più ferme. «Derry è una città che sta andando avanti e nessuno vuole questo tipo di incidenti», ha spiegato la deputata dello Sinn Fein, partito che i più oltranzisti accusano di eccessiva morbidezza nell’aver accettato gli accordi del 1998. Oltre a questo «atto incredibilmente incosciente», sempre secondo le parole della polizia, ci sono stati altri due assalti a vetture private da parte di uomini mascherati. La presenza di forze di polizia in città è aumentata e questo ha riportato a galla vecchi ricordi. «Non capiscono niente degli anni Settanta e Ottanta, non ne sanno nulla», ha raccontato alla BBC il nonno di una delle ragazzine del gruppo di adolescenti di varie origini e religioni passati davanti alla vettura esplosiva poco prima che detonasse. L’aria in città è cambiata da tempo e nessuno vuole tornare indietro. Oltre alla questione geopolitica irlandese, il tema della clausola di salvaguardia per l’Irlanda del Nord, il cosiddetto «backstop» contenuto nel trattato di uscita del Regno Unito dall’Unione europea, ponderoso testo di 575 pagine siglato a Bruxelles alla fine dello scorso mese di novembre e ormai immutabile, secondo le autorità europee, ha una dimensione squisitamente indipendentista. Il rompicapo ruota intorno al fatto che Dublino è un membro convinto e entusiasta dell’Unione europea, parte della zona euro ma soprattutto, come tutti, del mercato interno, mentre l’Irlanda del Nord è una delle quattro nazioni che formano il Regno Unito insieme a Scozia, Inghilterra e Galles. Dopo la Brexit non sarà quindi più nel mercato interno e questo porterebbe a dover mettere una qualche forma di
Studenti nordirlandesi manifestano a Belfast contro la Brexit e l’«hard border». (AFP)
controllo delle merci in transito da una parte all’altra dell’isola, per evitare soprattutto che Belfast si trasformi in un punto di accesso per prodotti al di sotto degli standard europei sia per qualità che per prezzo. Un punto, questo, che si spera verrà risolto dal futuro accordo commerciale tra Regno Unito e Unione europea, ma che, viste le difficoltà a trovare un’intesa già solo sui termini del divorzio, non può essere certo dato per garantito. Per questo è stato previsto il famigerato «backstop», la clausola di salvaguardia che verrà applicata solo nel caso di emergenza entro il dicembre del 2020 e che prevede, dopo molte trattative, che l’Irlanda del Nord sia allineata ad alcune regole del mercato unico. Inoltre implicherebbe il mantenimento di un unico territorio doganale tra Ue e Regno Unito per evitare che l’Ulster restasse isolato con regole diverse da quelle applicate nel resto del Paese.
Quest’ultimo punto è inaccettabile per gli unionisti irlandesi del DUP, sui cui voti la premier Theresa May deve contare per avere una maggioranza in Parlamento: non vogliono trattamenti diversi dal resto del Paese, cosa che invece piacerebbe molto alla ben più europeista (e indipendentista) Scozia. Il fatto che regole diverse esistano già su altri temi come l’aborto, ad esempio, non è un argomento per la pugnace leader Arlene Foster, la quale è ben consapevole che una situazione del genere agevolerebbe la strada verso un altro referendum di faticosa gestione, ossia quello sulla riunificazione irlandese. Una prospettiva che potrebbe far simpatia a un primo sguardo ma che rischierebbe di somigliare, nel risultato e nelle controversie, al voto sulla Brexit: semplificare ciò che è complesso e ridurlo a misura di opinione da social network, come si è visto, è molto problematico.
Il nodo vero, però, è ancora un altro: l’uscita dalla soluzione temporanea, che potrebbe non dover mai essere applicata, è prevista solo in caso di accordo da parte di Bruxelles. Questo significa che in teoria il Regno Unito potrebbe ritrovarsi bloccato nell’unione doganale senza poter decidere unilateralmente di andarsene. Per questo il ministro degli Esteri polacco ha proposto, senza essersi consultato con gli altri partner europei, di mettere un limite di cinque anni al «backstop», sapendo di fare cosa gradita a Londra. Ma le decisioni si prendono tutti insieme, come dimostrato dall’accoglienza gelida ricevuta anche dall’idea del ministro per il Commercio Liam Fox di un accordo bilaterale tra Londra e Dublino. Soprattutto il negoziatore capo Ue Michel Barnier si è mostrato inamovibile, suggerendo che sarebbe meglio concentrarsi sul miglioramento delle relazioni future, delineate in un testo a parte rispetto a quello sulla Brexit vera e propria e ritenuto ormai blindato. E Bruxelles ha fatto anche presente come, in caso di no deal, la frontiera fisica ci sarebbe senz’altro. Ma è proprio in questa cessione di sovranità che la May ha deciso di cercare una soluzione. Fedele alle sue linee rosse e al suo rifiuto di escludere il no deal per non irritare gli euroscettici del suo partito e non portare a una scissione dei Tories ormai nelle carte da anni, la premier sempre più sotto assedio e a corto di idee ha individuato nel nodo irlandese la chiave per portare all’approvazione del suo testo, come se non avesse provato già a modificarlo nei mesi passati andando invariabilmente a sbattere contro un muro. La clausola è vessatoria e sicuramente difficile da accettare, ma se solo si guardasse al futuro, come sostiene Barnier, forse si riuscirebbe a discutere di qualcosa di più costruttivo. Ma la feticizzazione del «backstop» irlandese proprio a questo sta portando: a non parlare mai di futuro.
Alta tensione fra Roma e Parigi
Quai d’Orsay H anno suscitato polemiche le accuse di Di Maio a Parigi di trattare ancora molti paesi dell’Africa
alla stregua di colonie e quindi di contribuire al fenomeno migratorio
La vita si fa difficile per i diplomatici italiani: per esempio non dev’essere stato facile per Teresa Castaldo, ambasciatrice a Parigi, spiegare al Quai d’Orsay le parole del vicepresidente Luigi Di Maio (foto). Rappresentando il governo di Roma, ovviamente questa sperimentata diplomatica non poteva sottrarsi alla convocazione da parte di un irritatissimo esecutivo francese. Che cosa aveva combinato Di Maio, del resto spalleggiato da un altro rappresentante dei Cinquestelle, il loquace Alessandro Di Battista? Aveva sostenuto che la Francia è responsabile della crisi economica e sociale dell’Africa francofona, e dunque del contributo di quei paesi al fenomeno migratorio. Il vicepresidente aveva accusato Parigi di perdurante colonialismo citando il franco CFA, la moneta che circola in una quindicina di paesi. Il CFA è la moneta della comunità franco-africana, fu creata negli anni della decolonizzazione, a suo tempo era ancorata al franco francese, e permette ai paesi nei quali circola, ex colonie di Parigi, un minimo di stabilità finanziaria. In cambio della garanzia francese (il CFA è legato all’euro al cambio di 0,0015), quei paesi affidano in custodia alla Banca di Francia metà delle loro ri-
serve. Come non si manca di far notare a Parigi, e come certamente è stato ribadito all’ambasciatrice Castaldo, il tutto è su base volontaria. Se uno dei quattordici paesi che attualmente usano il CFA intende uscire dal sistema e stamparsi una moneta propria è liberissimo di farlo. Ma per Di Maio e Di Battista il CFA non è altro che una «moneta coloniale»: non sorprende affatto che il governo francese, a cominciare dal presidente Emmanuel Macron, l’abbia presa piuttosto male, fino a convocare «per spiegazioni» l’ambasciatrice italiana.
AFP
Alfredo Venturi
Del resto non è la prima volta che fra il governo giallo-verde di Roma e il vertice francese scoccano vistose scintille. Lo stesso Di Maio si è prodotto qualche giorno fa in un altro attacco alla Francia macroniana, schierandosi senza esitazione accanto ai gilets jaunes, vera spina nel fianco per l’inquilino dell’Eliseo. Un episodio come questo non poteva passare sotto silenzio: sono rari i precedenti di un politico con responsabilità governative che dichiara di sostenere un movimento di opposizione radicale, a tratti violenta, a un governo alleato e teoricamente amico. Ma così sono i Cinquestelle, e del resto non sono da meno gli alleati leghisti della coalizione. Non prendiamo lezioni da Macron, ha detto l’altro vicepresidente del governo di Roma, Matteo Salvini, che com’è noto è abituato a parlare fuori dai denti. Naturalmente c’è dell’altro in questo dissidio che induce alla ricerca dei più vari precedenti storici. Si risale facilmente al Misogallo di Vittorio Alfieri, alle insurrezioni sanfediste contro i giacobini, si riesuma addirittura il De Bello Gallico. Alle spalle di tutto questo ci sono i respingimenti verso la frontiera italiana dei clandestini che bene o male erano riusciti a raggiungere l’Esagono, ci sono i bisticci sulla chiu-
sura dei porti all’approdo dei migranti. Ogni tanto, quando una nave carica di disperati incrocia davanti alle coste italiane ormai inospitali per decreto governativo, qualcuno cerca il modo di spedirla a Marsiglia. Se la vedano loro, con questi africani che hanno contribuito, attraverso il neo-imperialismo della «moneta coloniale», a spingere verso l’Italia. Tocca una volta ancora a Giuseppe Conte, il presidente del consiglio costretto ad acrobatiche manovre dialettiche, il compito di tentare la ricomposizione della vertenza: ma no, quando mai, l’amicizia franco-italiana è salda, è ormai un dato acquisito... La sparata del garrulo Di Maio viene accolta con disagio anche a Bruxelles, dove il commissario Pierre Moscovici, un economista francese che fu ministro a Parigi e oggi manovra i fili del dibattito sull’osservanza della disciplina di bilancio, commenta in modo pacato ma fermo: parole inappropriate. Certo non servono ulteriori stimoli per appesantire il rapporto fra Roma e le istituzioni dell’Unione Europea, avvelenato dalla diatriba sul rispetto delle regole comuni in materia finanziaria. Ma l’attivismo verbale di Di Maio e Di Battista ha una spiegazione molto chiara: gli alleati della Lega continuano a guadagnare consensi a loro spese,
e dunque i grillini hanno bisogno di un bersaglio contro il quale scagliare i loro colpi polemici e recuperare popolarità. E quale miglior bersaglio del povero Macron, investito dalla bufera dei gilet gialli fermamente intenzionati, come si leggeva su uno dei loro manifesti, a démacroniser la France? Ma lui, l’uomo che deve la presidenza alla grande paura nazionale di vedere installata all’Eliseo Marine Le Pen (un’amica di elezione, fra l’altro, del vicepresidente italiano Salvini), mette in campo le sue contromisure. Mentre a Parigi si celebrava il rito burocratico dell’ambasciatrice convocata al Quai d’Orsay, eccolo al solenne rilancio, nella cornice di Aquisgrana cara al ricordo di Carlomagno, dell’amicizia fra Parigi e Berlino. Il trattato sottoscritto da Emmanuel Macron e Angela Merkel ridisegna l’Europa in chiave franco-tedesca e ripropone la svolta a suo tempo impressa alla storia da Charles De Gaulle e Konrad Adenauer, e più tardi ribadita da François Mitterrand e Helmut Kohl. In stretto contatto con una Germania amica e paladina, il presidente francese può guardare con qualche sollievo all’offensiva dei gilet gialli, e con glaciale sufficienza a un’Italia sempre più isolata e alle intemperanze verbali dei suoi incauti governanti.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 gennaio 2019 • N. 05
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Politica e Economia
Pechino ci ricorda che è un regime
Notizie dal mondo
Fra i due litiganti Ecco come la Cina reagisce alla guerra di Trump contro Huawei e Zte Giulia Pompili Le economie di America e Cina sono indispensabili l’una per l’altra, ha detto il vicepresidente cinese Wang Qishan al recente Forum economico di Davos. La frenata dell’economia del Dragone, che nel 2018 è cresciuto al ritmo più basso sin dagli anni Novanta, preoccupa la comunità internazionale per via delle conseguenze che potrebbe avere sul piano globale. È anche per questo che i colloqui per limitare i danni di una guerra commerciale tra Washington e Pechino si fanno sempre più serrati, mentre tra poche settimane è prevista la scadenza della tregua fissata dal presidente americano Donald Trump e dal presidente cinese Xi Jinping per dare tempo alle prime due potenze globali di trovare un accordo sul deficit commerciale. Il linguaggio in codice della politica, sulle soluzioni vantaggiose per entrambi i Paesi, servono a tranquillizzare i mercati e la diplomazia, ma tutto ciò che sta accadendo intorno a quegli interessi economici, tra prove di forza e provocazioni, rende la questione dello scontro tra Occidente e Oriente, tra America e Cina, ben più di una guerra commerciale.
Intanto il Canada accusa la Cina di detenzioni arbitrarie e 100 accademici firmano un appello dimostrando che di Pechino non ci si può fidare Al centro di tutto c’è ancora la questione Huawei. L’America infatti vuole andare avanti con la richiesta di estradizione di Meng Wanzhou, direttrice finanziaria del colosso cinese delle telecomunicazioni Huawei nonché figlia del fondatore Ren Zhengfei, arrestata in Canada su richiesta del Dipartimento di Giustizia di Washington il primo dicembre scorso mentre effettuava uno scalo tecnico a Vancouver. Pechino ha condannato il fermo di una delle donne più potenti dell’economia cinese accusando Washington, colpevole di usare la giustizia «per colpire politicamente» Huawei. Da anni infatti le due principali aziende cinesi per le comunicazioni, Huawei e Zte, sono sotto la lente d’ingrandimento dei funzionari americani per violazione delle sanzioni economiche contro i cosiddetti Stati canaglia – ed è infatti questa l’accusa principale contro Meng Wanzhou, che secondo il Dipartimento di Giustizia avrebbe venduto all’Iran gli stessi componenti che ha venduto anche all’America. L’altro filone d’indagine riguarda invece lo spionaggio: gli Stati che fanno parte del consorzio d’intelligence Five Eye (America, Canada, Australia, Nuova Zelanda, Gran Bretagna) già da molto tempo temono che le due aziende siano fin troppo legate al governo centrale di Pechino, e questa è una potenziale minaccia per tutti quei paesi che decidono di adottare sistemi Huawei e Zte. Parliamo dell’infrastruttura del futuro: il 5G. L’ultimo caso è avvenuto il mese scorso in Polonia: un funzionario di Huawei è stato arrestato dalle autorità polacche per spionaggio. Lui si è dichiarato innocente, ma mentre a Varsavia vanno avanti le indagini, in diversi paesi europei il suo fermo ha riportato l’attenzione sul problema dello spionaggio cinese, e l’opportunità di adottare misure per limitare l’accesso di Huawei nei rispettivi mercati.
La direttrice finanziaria di Huawei Meng Wanzhou è stata arrestata a Vancouver lo scorso primo dicembre su mandato statunitense. (AFP)
Questa settimana la richiesta di estradizione di Meng Wanzhou dovrebbe essere formalizzata. Fino a oggi il Canada, che ha eseguito l’arresto su richiesta degli Stati Uniti, è stato l’unico paese ad aver subìto la rappresaglia da parte della Cina. È una strategia usata spesso da Pechino: colpire l’alleato per non colpire direttamente l’America. Il mese scorso Michael Kovrig e Michael Spavor, due cittadini canadesi che si trovavano in Cina, sono stati arrestati perché considerati «un pericolo per la sicurezza nazionale». Kovrig è un accademico e diplomatico in aspettativa, mentre Spavor è un nome noto nell’ambiente degli analisti nordcoreani perché da sempre cura i rapporti ufficiali e di commercio tra Cina e Corea del nord. In un primo momento, il governo del primo ministro Justin Trudeau aveva scelto la linea della cautela, ma quando i rapporti con Pechino si sono ulteriormente deteriorati anche a Ottawa è montato il sentimento anticinese. Qualche giorno fa una lettera firmata da cento autorevoli accademici e diplomatici è finita sui media internazionali: la società civile, nell’appello, chiede la liberazione di Kovrig e Spavor, che nel frattempo sono diventati il simbolo di un metodo ormai consolidato a Pechino, e dimostrano che la comunità accademica e culturale internazionale ha sempre più difficoltà a fidarsi della Cina. Il Canada ha emesso un avviso per i canadesi che si trovino a viaggiare nel Paese parlando di «detenzioni arbitrarie». Il problema, ha spiegato qualche giorno fa John McCallum, ambasciatore canadese in Cina, è che sul caso Meng Wanzhou sia Pechino sia Washington hanno usato la giustizia per fare politica e dare prove di forza. A metà dicembre perfino Trump disse via Twitter che se fosse stato necessario sarebbe intervenuto con il Dipartimento di Giustizia per sistemare le cose con la Cina. Ciò nonostante, a Ottawa vari analisti hanno notato le dichiarazioni poco convinte degli Stati Uniti nel supportare le richieste di liberazione di Michael Kovrig e Michael Spavor. L’Australia, che già da anni si trova spesso al centro delle controversie tra Cina e America (per via della posizione geografica e degli interessi economici) è l’ultima ad aver subìto l’ennesima provocazione cinese: Yang Hengjun, ex diplomatico cinese e da anni cittadino australiano, accademico che vive a New York e scrittore
molto noto anche in Cina, è sparito dalla circolazione. Si stava recando per qualche giorno a Pechino per motivi familiari, e lì è stato arrestato, ha fatto sapere il ministero degli Esteri australiano. Secondo Pechino, il cinquantatreenne Yang Hengjun sarebbe
«coinvolto in attività criminali contro la sicurezza nazionale». Sempre più spesso si sente parlare di «diplomazia degli ostaggi» da parte della Cina: un modo per alzare la pressione e ottenere un risultato senza praticamente nemmeno dover negoziare.
Bolsonaro a Davos «Dobbiamo aprire l’economia del Brasile che è ancora relativamente chiusa», attrarre investimenti dall’estero, con un programma di governo basato sulla riforma della sicurezza sociale e del fisco, sulla «riduzione del peso del pesante settore pubblico», una riforma del sistema scolastico ed educativo. Lo ha detto il presidente brasiliano Jair Bolsonaro, lanciando al Forum economico mondiale di Davos la sua offensiva per attrarre capitali. «La sinistra non si imporrà» in America latina, «il che, dal mio punto di vista, è una buona cosa», ha affermato il presidente di estrema destra che affronta il suo primo viaggio internazionale dall’inizio del mandato. Bolsonaro ha tuttavia adottato un tono più conciliante per assicurare che le politiche «ambientali e di sviluppo devono avanzare mano nella mano». «Il Brasile non sarà mai più rifugio di criminali e di banditi sotto la copertura di rifugiati politici» ha inoltre detto a margine del Forum, rispondendo alla domanda se vi saranno altre estradizioni di latitanti italiani (in tutto 34) in Brasile. A Davos Bolsonaro è arrivato con i suoi due superministri dell’Economia Guedes e della Giustizia (e interni) Sergio Moro. Il debutto in quella sede del trio che promette di lavare il Brasile dalla corruzione è minacciato da un’ombra ben pesante: uno scandalo per corruzione di uno dei tre figli (potentissimi, gli curano tra l’altro tutti i social) di Bolsonaro, scandalo che il padre s’è guardato bene dal chiarire e che imbarazza molto l’ex giudice della Mani pulite brasiliana Sergio Moro. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 gennaio 2019 • N. 05
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Politica e Economia
È sensato congelare le zone edificabili?
Votazione federale 10 febbraio L’iniziativa dei Giovani Verdi contro la dispersione degli insediamenti
entra in conflitto con gli attuali sforzi di Cantoni e Confederazione in materia di pianificazione del territorio Alessandro Carli È vero! In passato non sempre in Svizzera si è proceduto a un’oculata gestione del territorio: i piani regolatori erano inesistenti o carenti, la pianificazione non sempre attenta. In molte regioni il risultato di tutto ciò balza agli occhi. Si è costruito senza sosta a scapito della natura e del paesaggio, che invece vanno preservati. Nel 2013, si è già corso ai ripari con l’approvazione popolare della revisione della legge sulla pianificazione del territorio (LPT), che ha varato severe disposizioni. Ciononostante, il 10 febbraio prossimo i cittadini dovranno decidere se imprimere un ulteriore giro di vite alla tutela del territorio e accogliere l’iniziativa popolare «Fermare la dispersione degli insediamenti – per uno sviluppo insediativo sostenibile», depositata dai Giovani Verdi nel 2016. Sebbene questi ultimi affermino di voler proteggere il paesaggio, per governo e parlamento il loro progetto è controproducente, lede il federalismo e introduce incertezza giuridica. Il testo, che ancora prima di Natale sembrava avere il vento in poppa, sta ora perdendo consensi.
L’iniziativa chiede che nuove zone edificabili siano ammesse solo se altre superfici equivalenti vengono tolte dalle zone edificabili Si parla di dispersione degli insediamenti quando villaggi e città crescono in modo disordinato, con conseguente occupazione spropositata di terreno. L’iniziativa intesa a fermare la dispersione, lanciata poco dopo la revisione della LPT, vuole impedire che la superficie complessiva delle zone edificabili continui ad aumentare. Si prefigge perciò di congelare in Svizzera la superficie complessiva delle zone edificabili al livello attuale e a tempo indeterminato. In sostanza, l’iniziativa chiede che la delimitazione di nuove zone edificabili (azzonamento) sia ammessa soltanto se altrove è tolta dalla zona edificabile (dezonamento) un’altra superficie di dimensioni almeno equivalenti e con un potenziale valore di reddito agricolo comparabile. Un vero e proprio meccanismo di compensazione sovracantonale! In futuro, si potrà costruire solo all’interno degli insediamenti esistenti: più le costruzioni saranno compatte e meno si dovranno sviluppare strade e altre infrastrutture, limitando lo sviluppo della motorizzazione e garantendo un’elevata qualità di vita. Per il Consiglio federale un rigido blocco delle zone edificabili non tiene conto dei bisogni della popolazione e dell’economia e nemmeno delle pecu-
liarità cantonali e regionali. La nuova ministra Simonetta Sommaruga, responsabile dello sviluppo territoriale, è convinta che il progetto non risolve il problema, ma lo acuisce. Inoltre, nelle zone in cui il terreno edificabile viene limitato, vi è il rischio che i prezzi dei terreni e delle abitazioni aumentino e con essi gli affitti. La ministra socialista, contraria alla posizione del suo partito che invece sostiene l’iniziativa, ha sottolineato che, proprio per ovviare agli errori del passato, «abbiamo reagito adottando in materia una revisione della LPT severa ed efficace, tanto che la superficie delle zone edificabili è stabile dal 2012». Attualmente è possibile costruire fuori dalle zone edificabili soltanto edifici e impianti a ubicazione vincolata strettamente necessari, come strade, linee elettriche, funivie o antenne, ed edifici a uso agricolo. Tuttavia, l’iniziativa vuole limitare ulteriormente tutto ciò e sancire nella Costituzione quali edifici e impianti potranno ancora essere costruiti. Così, gli edifici a uso agricolo potranno essere autorizzati soltanto se hanno un nesso diretto con lo sfruttamento del suolo. È il caso delle verdure coltivate in pieno campo o dell’allevamento di animali nutriti con foraggio di produzione propria. Gli edifici a uso non agricolo potranno essere autorizzati al di fuori delle zone edificabili solo se soddisfano un interesse pubblico. Una spina nel fianco per le regioni a vocazione turistica: i progetti che prevedono la costruzione di ristoranti di montagna sarebbero messi in forse. Invece, la revisione in vigore della LPT offre la possibilità di autorizzarli. I cantoni (per 15 di loro il piano è già stato approvato dal Consiglio federale) stanno attuando la prima fase della citata revisione e – come ha ricordato Simonetta Sommaruga – hanno tempo fino al 30 aprile prossimo per sottoporre il loro piano direttore a Berna. Anche il Cantone Ticino ha ottemperato alle direttive federali e il suo piano direttore è al vaglio della Confederazione. Si tratta di procedure complesse che richiedono tempo. Per la ministra Sommaruga è comunque importante che si possa ora proseguire sulla via tracciata. Perciò, Governo e Parlamento mettono l’accento sulla LPT, maggiormente incisiva e attenta a questa problematica. In caso di accettazione dell’iniziativa si dovrà invece varare una nuova legge. Spetterà poi al Parlamento chiarire vari aspetti non ancora definiti. Per esempio, non è chiaro come si dovrebbe procedere se in un cantone fosse necessario delimitare nuovo terreno edificabile: le zone edificabili andrebbero ridistribuite all’interno del cantone stesso o a livello federale? L’iniziativa dei Giovani Verdi è sostenuta da Verdi, Socialisti (anche se non in modo compatto), Gioventù socialista, Iniziativa delle Alpi, nonché da
In Svizzera ogni giorno viene cementificato l’equivalente di 8 campi di calcio. (Keystone)
un’alleanza di associazioni ecologiste come WWF, Greenpeace, BioSuisse, ATA e piccoli contadini. Il progetto è combattuto da Governo e Parlamento e da un comitato guidato dall’Unione svizzera delle arti e mestieri (USAM), cui hanno aderito deputati dell’UDC, del PLR, del PDC, del PBD e dei Verdi liberali, come pure da associazioni economiche e turistiche, dall’Unione Svizzera dei Contadini e dall’Associazione Svizzera Proprietari Fondiari (APF-HEV). In Svizzera, nel 2017 le zone edificabili totalizzavano 232’038 ettari, pari al 5% della superficie nazionale, di cui oltre l’80% è già edificato. Di questi ettari edificabili, quasi la metà era costituita da zone di abitazione (46%). Le altre tipologie significative sono: zone di lavoro (14%), zone miste (11%), zone centrali (11%) e le zone destinate a utilizzazioni pubbliche (11%). Secondo l’Ufficio federale dello sviluppo territoriale (ARE), quasi il 95% della popolazione svizzera (8 milioni di persone) vive all’interno di zone edificabili. Quelle non ancora edificate teoricamente possono offrire spazio per ulteriori 1-1,7 milioni di abitanti. L’ARE sottolinea che una delimitazione eccessiva di zone edificabili è in contraddizione con il principio dell’utilizzazione parsimoniosa del suolo. Al di fuori delle zone edificabili l’iniziativa avrebbe un’efficacia limitata e, all’interno delle stesse, non sarebbe attuabile in modo razionale, sostiene ancora. Il co-presidente dei Giovani Verdi Luzian Franzini, lanciando la campagna a favore dell’iniziativa, ha detto che ogni giorno in Svizzera viene cementificata una superficie equivalente
a 8 campi di calcio. Il suolo va gestito in modo parsimonioso. Nei decenni scorsi, centinaia di chilometri quadrati di terre agricole e di zone verdi sono stati sacrificati per le costruzioni. Per Franzini, la legge in vigore non basta per arginare la dispersione degli insediamenti urbani. Per questo occorre bloccarla, compensando – come vuole appunto l’iniziativa – ogni nuova parcella sottraendone una di valore equivalente da un’altra zona edificabile. Per gli avversari, queste disposizioni non fanno altro che introdurre insicurezza giuridica a livello di Confederazione, Cantoni e Comuni. È una minaccia per il federalismo se si dovesse stabilire in modo centralizzato quale regione può ancora svilupparsi e quale invece viene «sacrificata». Gli oppositori, pur ammettendo il problema della dispersione degli insediamenti, sostengono che un congelamento indifferenziato dei terreni edificabili penalizzerebbe gravemente i cantoni periferici e alpini e non terrebbe conto delle necessità della popolazione e dell’economia. Per il consigliere nazionale ticinese Fabio Regazzi (PDC), «non dobbiamo lasciarci mettere una camicia di forza», accettando una soluzione discriminatoria per tutti e che, con il suo divieto a tempo indeterminato, pregiudica la competitività della Svizzera. «L’iniziativa è troppo radicale, ingiusta e controproducente: non serve gli interessi del nostro Paese, impedisce uno sviluppo ragionevole e non comporta vantaggi», aveva dichiarato a fine novembre l’ex consigliera federale Doris Leuthard. «Il progetto limita il diritto fondiario, ma pretende di indicarci che cos’è la qualità di vita»,
aveva ironizzato. Meno intransigente, la revisione della LPT va senz’altro favorita perché propone alternative più mirate per una pianificazione territoriale sostenibile, con misure concrete per lottare contro la dispersione degli insediamenti (obbligo ai Cantoni di determinare le zone edificabili secondo un fabbisogno prevedibile per 15 anni, la riduzione di zone sovradimensionate e un miglior sfruttamento delle zone edificabili già esistenti). Per i fautori dell’iniziativa, la LPT non frena l’incessante crescita degli insediamenti. Il loro progetto vuole essere complementare e colmare le lacune della legge, con altre misure più restrittive ai fini di un’efficace protezione del paesaggio. Ma il progetto non è complementare: in caso di una sua accettazione affosserebbe infatti le disposizioni vigenti. Una perdita deplorevole, quando la seconda fase della revisione parziale della LPT, attualmente al vaglio delle Camere, fornisce misure migliori e più specifiche. Una curiosità per finire. L’iniziativa chiede di limitare ancora di più la costruzione di edifici fuori dalle zone edificabili. Ciò significa – come detto – rinunciare a nuovi ristoranti di montagna, all’edificazione di serre, stalle o di strutture agrituristiche. Non a caso il consigliere nazionale Rocco Cattaneo (PLR/TI) ha ricordato all’architetto Mario Botta, sostenitore del progetto in votazione sebbene professionalmente legato agli insediamenti, che l’iniziativa non gli avrebbe permesso di realizzare né la Cappella sul Monte Tamaro, né il Fiore di pietra sul Monte Generoso. È ora veramente il caso di buttare tutto all’aria? Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 gennaio 2019 • N. 05
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Politica e Economia
Il costo delle casse malati prima preoccupazione in Svizzera Assicurazioni sociali Gli aumenti colpiscono sempre più il ceto medio che non beneficia di sussidi. A questo ritmo
il premio di cassa malati raddoppierà nel 2040 e ai Cantoni costerà sempre di più
Ignazio Bonoli Il problema dei costi della salute – in particolare quello dei premi di cassa malati – è diventato una fonte di preoccupazione per molte famiglie svizzere. Anche il barometro delle apprensioni – pubblicato dal Credit Suisse alla fine dello scorso anno – lo colloca al secondo posto (dietro AVS e previdenza vecchiaia), tuttavia con la maggior percentuale di aumento (15 punti) in un anno. Se si pensa che tre anni fa il tema era soltanto al settimo posto delle maggiori preoccupazioni, si può capire l’effetto che l’aumento dei premi di cassa malati ha sui bilanci delle famiglie svizzere. In termini monetari, nel 1996, data dell’entrata in vigore dell’assicurazione obbligatoria contro le malattie, il costo per un adulto era di 2080 franchi all’anno per l’assicurazione di base. Nel frattempo lo stesso premio era salito a 5580 franchi, che corrispondono a un aumento di 3500 franchi, sempre con una franchigia di 300 franchi. Il calcolo è stato fatto dalla «NZZ am Sonntag» per il canton Zurigo. Il costo dell’assicurazione malattia grava soprattutto sulle famiglie. Sempre nel canton Zurigo, per una famiglia con due figli (di 16 e 20 anni), può superare i 18’000 franchi all’anno, o poco più di 14’000 franchi con figli più giovani (3½ e 5 anni). Questi premi be-
neficiano di un sussidio cantonale, che per un reddito lordo di 70’000 franchi, può raggiungere i 1500 franchi. In altri cantoni i premi possono essere più cari. Al punto che per le famiglie possono diventare insopportabili, senza i sussidi cantonali. Nella media svizzera il premio annuale è di 16’600 franchi per la seconda famiglia citata. In dieci anni questo premio è aumentato di 6000 franchi. Il cantone più caro in questo contesto è quello di Basilea-Città (21’600 franchi) seguito da Berna, Zurigo, Ginevra e Vaud, con circa 19’000 franchi. Secondo i calcoli dell’Ufficio federale della sanità, il reddito medio di una famiglia con due figli, dedotte le imposte, è di 86’000 franchi, per cui non ha più diritto a sussidi di cassa malati. Così il 25 per cento del reddito disponibile, ma senza necessità di cure, deve essere utilizzato per la cassa malati. Per i sussidi volti a ridurre l’onere dei premi di cassa malati sussistono grandi differenze fra i cantoni. Per esempio Appenzello Interno concede sussidi su redditi lordi inferiori a 71’000 franchi, ma i Grigioni giungono fino a 146’000 franchi. La maggior parte dei cantoni esige una cifra inferiore agli 80/90’000 franchi. Grandi differenze sussistono per gli stessi sussidi. Per riprendere il nostro esempio di quattro persone di cui due figli di 16 e 20 anni
Una manifestazione a Ginevra contro l’aumento dei premi della cassa malati, nel maggio del 2018. (Keystone)
in formazione, a Zugo, nei Grigioni e in Ticino il sussidio può superare i 9000 franchi. Lucerna, Basilea-Campagna e Turgovia sono più restrittivi (3000 franchi). Uno studio pubblicato in dicembre dall’UFS costata che in nove cantoni, nonostante i sussidi, il costo dei premi malattia supera il quinto del reddito disponibile, su un reddito lordo di 70’000 franchi. Così, per esempio, a Basilea-Campagna il premio da pagare
risulta ancora di 15’600 franchi, mentre a Zugo la stessa famiglia ne paga solo 5000. Del resto questi sussidi non seguono l’aumento dei premi. Attualmente, in Svizzera, 2,2 milioni di abitanti beneficiano della riduzione, meno di vent’anni fa, quando i premi erano inferiori. Nonostante i sussidi della Confederazione e dei cantoni, i premi di cassa malati sono diventati un problema per molte famiglie. In totale essi ammon-
tano a 4,5 miliardi di franchi, di cui 2,5 miliardi (55 per cento) vanno a persone beneficiarie di prestazioni complementari all’AVS / AI o aiuti sociali. C’è però un’indagine sindacale che dimostra che anche famiglie del ceto medio usano oltre un decimo del reddito lordo per la cassa malati e questo fino a redditi lordi di 160’000 franchi nella media svizzera. Come sempre, fra i più colpiti figurano i beneficiari di rendite AVS. L’UFS ha anche valutato l’aggravio per una donna sola con un reddito lordo di 45’000 franchi. In media i costi per queste persone sono pari al 13% del reddito disponibile. Anche in questo caso le differenze fra cantoni sono alte. Per esempio, a Basilea-Campagna, il premio è di 6000 franchi, ma il sussidio è previsto solo sotto i 28’000 franchi di reddito lordo. In altri cantoni la soglia è anche più bassa. Crescono quindi le preoccupazioni anche fra i politici. Così il partito socialista prevede il lancio in primavera di un’iniziativa che limita al 10 per cento del reddito il premio della cassa malati. Il costo stimato è di 4 miliardi, ma sarà solo un palliativo e non risolve il problema di fondo: in pratica un nuovo raddoppio dei premi tra una ventina d’anni. Non meraviglia quindi che il problema dei premi di cassa malati cresca costantemente fra le apprensioni degli Svizzeri. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 gennaio 2019 • N. 05
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Una montagna di rifiuti Uno dei problemi più assillanti della nostra società dei consumi è rappresentato dalla montagna di rifiuti di cui non si può purtroppo disporre che con costi crescenti. Il Ticino, dopo anni di paziente miglioramento, dispone ora, sui rifiuti, di un buon quadro statistico che espone i dati della filiera dalla raccolta allo smaltimento, distinguendo tra rifiuti urbani non riciclabili, raccolte separate, rifiuti edili, rifiuti speciali e altri rifiuti. Nella rivista «Dati» dell’ottobre di quest’anno, Samy Knapp e Fabio Gandolfi hanno presentato i risultati del rilevamento per l’anno 2017. Sono informazioni preziose perché come consumatori ancora non siamo abituati a considerare che ogni atto di consumo genera inevitabilmente una certa quantità di rifiuti. Il dato globale dapprima. Nel
2017 in Ticino sono stati prodotti 2,5 milioni di tonnellate di rifiuti, ossia qualche cosa come 7100 chili di rifiuti per abitante. Il dato ha dell’incredibile e quindi è necessario specificare che in questo quantitativo sono compresi anche i rifiuti dell’edilizia che rappresentavano, lo scorso anno, l’85% del totale. Se consideriamo solo il quantitativo dei rifiuti urbani, ossia dei rifiuti che genera la popolazione, il montante pro-capite scende a 890 chili, che resta comunque un effettivo importante. Questi 890 chili non li vorrei vedere depositati davanti alla porta di casa. Il quantitativo di rifiuti urbani raccolti varia anno per anno e, per fortuna, nel corso degli ultimi anni, sembra aumentare a un ritmo inferiore di quello con cui cresce la popolazione. Gli autori dell’articolo citato qui sopra
ricordano che la diminuzione in questione è da attribuire all’introduzione della tassa sul sacco. Di anno in anno, però, questo dato mostra continue fluttuazioni. È quindi difficile riconoscere una tendenza di sviluppo di lungo termine. Tutt’al più si può affermare che il volume dei rifiuti urbani per testa di abitante sembra sia restato costante, nel corso degli ultimi sei anni. Si tratta di una constatazione positiva che dovrà essere di nuovo verificata nel corso dei prossimi anni. I rifiuti urbani si dividono, praticamente per la metà, in rifiuti non riciclabili e rifiuti da raccolte separate. Nel corso degli ultimi dieci anni, purtroppo, la quota dei rifiuti non riciclabili ha però teso ad aumentare lentamente. Questo aumento non deve di necessità essere attribuito a cattiva volontà da parte
delle economie domestiche di procedere alla raccolta separata. Sul volume di rifiuti in raccolte separate influiscono anche i prezzi che i riciclatori sono disposti a pagare per i prodotti riciclabili. Se i prezzi del riciclabile scendono, scende anche la quantità di rifiuti raccolti separatamente. A questo proposito si può ricordare il caso della raccolta del vetro nel 2016. La morale della favola è che sia dal punto di vista del quantitativo di rifiuti pro capite, sia da quello della quota dei rifiuti riciclabili nella quantità totale di rifiuti raccolti, nel corso degli ultimi 10 anni non sembra si siano fatti passi significativi in avanti. Anche il quantitativo di rifiuti edili sembra restare costante. Nel 2017 i rifiuti edili erano formati per quasi quattro quinti da materiali di scavo e per l’ultimo quinto
da materiale di demolizione, calcestruzzo e asfalto. Per una quota più elevata dei rifiuti urbani, ossia per il 61%, questi rifiuti sono stati riciclati. Il resto è finito nelle discariche per inerti. In definitiva quindi dei 2,5 milioni di tonnellate di rifiuti che il Ticino ha prodotto nel 2017, un milione e mezzo ha potuto essere riciclato. Si tratta di un buon risultato o di un risultato modesto? Se confrontiamo con i dati a livello nazionale ci accorgiamo che il Ticino produce un quantitativo di rifiuti urbani pro-capite notevolmente superiore alla media nazionale. Per quel che riguarda invece la quota di rifiuti non riciclabili, il dato del Ticino è praticamente in media con il dato nazionale. Può darsi che l’introduzione della tassa sul sacco consenta però al Ticino di fare ulteriori passi in avanti.
autunno. La collaborazione di fatto funziona in termini pragmatici: ci si vede lì, quel tal giorno, portiamo in piazza più gente possibile. Sia i socialisti sia Jobbik raccontano che l’iniziativa è nata in Parlamento dalle parlamentari donne, che sono molto poche e che hanno deciso di unire le forze per una battaglia che è sì politica ma anche culturale: per questo ci tengono molto a mostrare le loro testimonial, la giovanissima Blanka Nagy che legge i discorsi sul palco dal suo smartphone e che usa il linguaggio della sua età, con le parolacce che hanno mandato su tutte le furie i commentatori dei talk show pro governo (che hanno reagito con parolacce pure, senza avere l’alibi di essere ragazzi). Ma anche la popolarità di Blanka solleva dubbi nell’opposizione: ce la si fa a resistere con questi strumenti? A spazzare via il pessimismo ci sono i giovani di Momentum, con le loro bandiere viola e l’urlo di richiamo «democrazia» che è l’unica parola ungherese che suona in modo
simile alle lingue mediterranee ed è comprensibile anche a noi stranieri. Momentum è un partito nato nel 2015, alle elezioni dell’aprile scorso non ha raggiunto la soglia per entrare in Parlamento, ma è molto vivace e si lascia coccolare dai media internazionali: la vicepresidente, Anna Donáth, parla un inglese perfetto (ha vissuto per molti anni in Olanda) ed è richiestissima, uno dei volti più visibili di questa piazza. Lei dice che l’importante ora è continuare a farsi sentire, superare l’inverno e le sessioni di esami all’università che impegnano i più giovani, perché queste manifestazioni, anche se a volte sono più piccole, infastidiscono molto il governo: ignorateci a vostro rischio e pericolo, insomma. Il fastidio del governo Orbán contribuisce a rendere rilevanti queste proteste, fa da carburante alle mobilitazioni. Una leadership permalosa è manna per i manifestanti, assieme alle crepe che si aprono nel modello apparentemente invincibile di Orbán.
La più importante ha a che fare con la ragione primaria delle proteste: la riforma del codice del lavoro che permette ai datori di lavoro di richiedere ai dipendenti 400 ore di straordinari (finora erano 250). Non è una misura obbligatoria, ma rivela un guaio più profondo: la disoccupazione è molto bassa, in Ungheria, è al 3,7 per cento e manca forza lavoro. La natalità è molto bassa, l’emigrazione è molto alta – perché ci sono i salari più bassi dell’est Europa, più bassi anche di quelli polacchi, e i giovani vanno a cercare fortuna all’estero, in particolare nel Regno Unito – e l’immigrazione è bloccata. Il governo non può che far lavorare di più chi già è impiegato, ma il punto di frattura non è lontano, dicono gli economisti. Se i lavoratori prendono consapevolezza di quanto sono preziosi, per il governo diventerà difficile ignorare la protesta. Fino ad allora, l’importante è resistere, farsi vedere, non dite che non ci avevate notati.
coraggio, oltre a capacità finanziarie e chiara progettualità, per ridare un futuro a un ex-ostello della gioventù. La determinazione di Figino suggerisce l’esistenza di un collegamento ancora più diretto anche con i problemi relativi agli spazi vuoti e alle strutture dismesse, tormentone che riaffiora periodicamente in tutto il cantone, ma che poi – anche di fronte a un degrado che si manifesta anche a livello sociale (casi limite riscontrati in appartamenti e abitazioni a Pregassona e a Bellinzona) – scivola sempre nel dimenticatoio. Tenendo conto anche di strutture private assurte a simbolo negativo o a scomodo scandalo (si pensi solo agli ex-Motel), ci si rende conto che «a bilancio», in tutto il cantone, sono molti gli spazi vuoti e le aree che attendono sempre più improbabili acquirenti, inquilini o concreti progetti. L’elenco parte dall’alta Leventina (ex-sanatori, ex-grandi alberghi, ex-Monteforno), passa per l’ex-Cima Norma bleniese, arriva a toccare l’ex-Caserma a Losone, sfiora l’ex-Grand Hotel a Locarno e si spinge sino a Chiasso
(Palazzo Ovale, Magazzini FFS, scalo merci). A Lugano, dove ci si meraviglia per il fatto che le grandi opere pubbliche della città più che adesioni e partecipazione registrano latitanze di partner privati, l’armata di strutture vuote presto potrebbe ricevere rinforzi da alcune sedi di ex-istituti bancari sulle quali aleggiano giustificati interrogativi dopo fusioni e relative dismissioni. Oltre al già citato ex-Macello (quest’ultimo... presente anche a Locarno), c’è solo l’imbarazzo della scelta fra i tira e molla per il palazzo Mizar, l’ex-fattoria di Cornaredo e l’ex-Garage Morel. A ribadire la necessità di un nuovo spirito imprenditoriale giungono le parole di un esercente luganese impegnatosi a «salvare» uno storico ritrovo cittadino (il ristorante Orologio). Dice che spera di ritrovare clientela facendolo ritornare popolare: perché se vogliamo «tenere vivo il centro», aggiunge, «non possiamo pretendere di continuare a guardare la gente dall’alto al basso». Altro segnale degno di attenzione che giunge dalla «cronaca minuta». Se ne terrà conto?
Affari Esteri di Paola Peduzzi L’opposizione che non c’è Le proteste in Ungheria sono una cosa allo stesso tempo piccina e rilevante. Piccina perché molti sostengono che lo slancio iniziale sia già evaporato e che non ci possa essere continuità in un progetto che è semplicemente «contro Orbán». Il problema è noto anche fuori dal regno del premierpadrone ungherese, Viktor Orbán: in Italia abbiamo a lungo sperimentato l’inefficacia del progetto «tutto tranne Berlusconi», in America ora i democratici faticano a trovare una formula omnicomprensiva contro Trump. In Ungheria ogni cosa è amplificata da elementi strutturali, perché Orbán ha un potere enorme, in Parlamento e fuori, nel mondo del business e dei media, e avendo anche rimesso in piedi l’economia dopo la fallimentare stagione di governo di sinistra, sembra davvero invincibile. Il consenso per il premier è alto, soprattutto fuori da Budapest, e gli animatori delle proteste sanno che ci vorranno anni per poter avere un seguito consisten-
te. L’importante ora è resistere ed è questo lo spirito che si respirava alle manifestazioni della settimana scorsa che per la prima volta sono state organizzate dai sindacati anche in molte città del Paese: a Budapest c’era meno gente rispetto alle mobilitazioni di dicembre, ma il pubblico era più vario, e gli organizzatori insistevano sul fatto che non bisogna fare riferimento a numeri assoluti, ma relativi: la base si sta diversificando. È la speranza che hanno tutti i partiti che stanno cercando di compattare un’opposizione invero variegata: le bandiere nere del partito di destra radicale Jobbik vicine a quelle rosse del partito socialista, che sta vivendo la stagione più triste della sua esistenza, facevano una certa impressione. Non c’è alcun collante ideologico tra i due partiti, se non appunto la lotta a Orbán che potrebbe non essere sufficiente per tenere vive queste mobilitazioni fino alle europee e poi oltre, fino alle elezioni amministrative del prossimo
Zig-Zag di Ovidio Biffi Urge «barometro degli spazi vuoti» L’idea iniziale era di proporre qualche considerazione su un argomento presentato dal «Bulletin» del Credito Svizzero del dicembre scorso, pubblicazione a mio avviso meritevole di lettura e discussione nelle scuole superiori cantonali. Ero rimasto colpito, e perciò volevo parlarne, dal «Barometro dei progressi», uno studio che si interroga «sull’atteggiamento della popolazione svizzera in relazione al progresso sociale ed economico». Mi sono però accorto che sulla stessa pubblicazione si era già soffermato il collega Ignazio Bonoli per riferire di un altro interessante tema trattato (Barometro delle apprensioni, vedi «Azione» del 7.1). Un argomento alternativo lo trovo allora nella «cronaca minuta», sovente sinonimo di monitoraggio del territorio. La notizia proviene da un discosto quartiere della grande Lugano e annuncia che l’ex-Ostello della gioventù di Figino, chiuso a fine 2017, ha riaperto le porte una delle prime sere di gennaio per presentare l’attività avviata dai nuovi proprietari. Sempre le cronache dicono che circa
duecento le persone sono intervenute per scoprire cosa avviene dentro le mura dell’ex-ostello e per conoscere il progetto che sostituirà l’attività di accoglienza di giovani generazioni, condotta per oltre un sessantennio e cessata di fronte all’impossibilità di procedere a una troppo costosa ristrutturazione dello stabile. Le cronache (Ticinonews) precisano anche che «i vicini di casa hanno partecipato donando delle sedie per il teatro di quartiere, mentre gli artisti ospiti hanno preparato torte dolci e salate per il buffet». Grazie alla Fondazione Claudia Lombardi per il teatro che coraggiosamente l’ha acquistato, l’ex-ostello di Figino continuerà dunque a vivere, cambiando formula, senza troppe e utopiche pretese. Il progetto della fondazione ruota attorno a un attivo inserimento nel quartiere: tornerà a essere un moderno punto di accoglienza (previsto un B&B), ma la struttura verrà proposta anche come luogo d’incontro, oltre che per artisti e attività teatrali, anche per la comunità (si prevede l’insedia-
mento di un’agenzia postale). Questi interventi, proposti a poco più di un anno dalla chiusura dell’ostello della gioventù, mi suggeriscono di passare dal «Barometro dei progressi» a un ipotetico «Barometro degli stabili vuoti», ovviamente inesistente (eppure bisognerebbe inventarlo e attivarlo, con urgenza, perlomeno in Ticino!). In effetti mi fanno capire che l’evento che riguarda l’ex-ostello di Figino non è poi così «minore» come si potrebbe desumere a prima vista. È un progetto che si propone di individuare e offrire ai giovani uno spazio da autogestire, quindi richiama una delle problematiche più dibattute nella città sul Ceresio, da decenni alle prese con la ristrutturazione dell’ormai decrepito (socialmente, oltre che architettonicamente) ex-Macello e, soprattutto, con il varo di un’attiva politica giovanile che ponga fine a ricatti e ripicche. Figino, sia pure indirettamente, ricorda che le soluzioni esistono e mette a confronto i fallimenti delle autorità luganesi e delle controparti con lo spirito di iniziativa di un’associazione privata che sfoggia
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 gennaio 2019 • N. 05
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Cultura e Spettacoli Il ritorno di Paddy Paddy McAloon dei Prefab Sprout in I Trawl the Megahertz dà il meglio di sé
Leggere e capire Porta Grazie alle recenti traduzioni di Patrizia Valduga, siamo in possesso di uno strumento supplementare per decodificare l’estro di Carlo Porta pagina 40
Donna Margherita A Milano e a Rovereto attraverso due mostre si celebra la controversa e straordinaria figura di Margherita Sarfatti pagina 41
pagina 39
Le bugie di Jakob
Narrativa È stato ridato alle stampe il piccolo
capolavoro sul nazismo di Jurek Becker
Luigi Forte Un buco nero inghiottì l’infanzia dello scrittore ebreo polacco Jurek Becker. Passò i primi anni di vita con i genitori nel ghetto di Lodz dov’era nato nel 1937. Poi fu deportato con la madre Anette nei lager di Ravenbruck e Sachsenhausen, mentre il padre finì ad Auschwitz. Un trauma spaventoso che il piccolo Jerzy confinò nell’oblio: l’amnesia totale fu la sua solida difesa di fronte all’orrore. Ci pensò il protagonista del suo primo fortunatissimo romanzo del 1969, Jakob il bugiardo, di cui esistono due versioni cinematografiche, a riattivare la memoria non senza una vena di umorismo intriso di disperazione. In Italia uscì nel 1976 presso gli Editori Riuniti nella bella versione di Mario Devena ora riproposta da Neri Pozza, che nulla ha perso del suo smalto e della sua efficacia. È la storia di un abitante del ghetto, obbligato a lavorare per i tedeschi, che finge di avere una radio e inventa notizie incoraggianti per i propri compagni. Immagina che i russi stiano arrivando a liberarli, così come era successo realmente a Jerzy e a sua madre nell’aprile del 1945. Anette morì di lì a poco e il ragazzo fu rintracciato dal padre Max riemerso dall’inferno della Shoah. Decise poi di trasferirsi nella Germania orientale, cambiò nome a sé e a suo figlio che solo allora iniziò a imparare il tedesco, la lingua degli aguzzini. Gli servì in qualche modo per non sentirsi diverso in quella nuova, difficile realtà, non certo per riesumare un passato sprofondato nel buio. «Non avere ricordi d’infanzia – annoterà ancora nel 1990 – è come essere condannati a trascinarsi sempre dietro una cassa della quale non conosci il contenuto». Una rimozione che nessuna scrittura avrebbe mai cancellato e tuttavia Becker, scomparso prematu-
ramente nel 1997, attorno a quel terribile vuoto costruì tutta la sua carriera di scrittore e sceneggiatore per dare un senso e un’identità almeno al proprio futuro. Non a caso nel romanzo Il pugile del 1976 il difficile rapporto fra un padre e un figlio rievoca drammaticamente i fantasmi dell’Olocausto in cui perirono la madre e altri due ragazzi. Dieci anni dopo Jurek diede alle stampe I figli di Bronstein, ambientato all’est ma scritto nella Repubblica federale tedesca dove si era trasferito. Un libro in cui si affacciano le nuove generazioni spesso insofferenti di fronte al pesante silenzio di quei padri perseguitati dal nazismo, che nascondeva traumi irrisolti. Come suo padre Max, assai reticente di fronte ai ricordi del lager. Il presente non riesce dunque a sottrarsi alla violenza di un tempo che allunga la propria ombra riesumando paradossalmente le vittime nel ruolo di persecutori. Il giovane protagonista Hans scoprirà infatti che il genitore ha segregato con alcuni amici in una piccola dacia un ex carceriere di lager sottoponendolo a pesanti interrogatori e malmenandolo. Così il passato entra nella vita del giovane in modo traumatico e lui stesso finirà per isolarsi e tacere a sé e agli altri il proprio dramma privato. Forse quel silenzio permette ora di guardare avanti, lasciandosi alle spalle l’abisso in cui si è eclissato un intero mondo. Così come la menzogna di Jakob vorrebbe risuscitare la speranza fra gli abitanti disorientati del ghetto. L’intenzione è buona ma le conseguenze disastrose. Come tenere a bada l’insistente curiosità di tanti disperati? E come evitare che le notizie passino di bocca in bocca e dilaghino dappertutto rischiando di finire alle orecchie della Gestapo? Jakob cerca inutilmente di correre ai ripari: si rallegra dapprima della mancanza temporanea di elettri-
Robin Williams e Hannah Taylor-Gordon in una scena di Jakob il bugiardo, film del 1999. (Keystone)
cità, poi dichiara che la radio si è rotta, sottrae frammenti di giornale a un guardiano e ogni tanto si lancia in nuove fantasie in attesa che alcuni grammi di notizie possano trasformarsi «in una tonnellata di speranze». A sentir lui i russi non sono molto lontani da Lodz e forse già marciano verso la cittadina di Tobolin, anche se la battaglia sul Rudna è stata dura perché i tedeschi hanno fatto saltare un ponte. Che attore quel povero Jakob assediato dai compagni e vittima della propria generosità! Arriverà al punto di imitare per la piccola Lina, i cui genitori sono stati deportati, voci e suoni della radio che anche lei vorrebbe vedere. È una scena di grande comicità in cui l’inquietudine e l’astuzia della bambina hanno il sopravvento sugli ineffabili conati vocali dello speaker: di nascosto lei scopre dietro il paravento della cantina che la radio non è altro che lo stesso Jakob. Utopie, speranze e sogni si con-
frontano nel ghetto di Lodz con il dolore quotidiano finendo per sgretolarsi poco a poco. Anche il barbiere Kowalski, grande amico del protagonista, corre verso un’impossibile libertà sull’onda delle notizie che Jakob ogni tanto gli snocciola per poi sentirsi dire, alla fine, che era tutta un’invenzione e, a quel punto, decidere di morire. Pensava che la capacità di sopportazione di un uomo fosse enorme, ma ha dovuto ricredersi perché le porte dell’inferno sono sbarrate. Attraverso la testimonianza di un sopravvissuto del ghetto amico di Jakob, Jurek Becker ricostruisce con delicata sensibilità l’atmosfera di uno shtetl in cui echeggiano voci lontane e pagine di narratori ebraici. Figure come i giovani Mischa e Rosa all’alba del loro amore, e il padre di lei, l’attore Felix Frankfurter, lui sì proprietario di una radio che distruggerà per timore di essere scoperto, o il medico Kirschbaum,
che si dà la morte pur di non dover curare il capo della Gestapo Hadtloff, e infine Herschel Schtamm ucciso da un guardiano perché si era avvicinato a un vagone ferroviario da cui provenivano voci umane, segnano con le loro tensioni e fobie, con la gioia per la vita e l’ansia per il futuro il confine fra la speranza e lo scoramento. E poi c’è Jakob, l’uomo che distribuisce come un folle e un disperato porzioni di temporanea felicità. Forse perché guardando il volto della piccola Lina la vita gli appare sconfinata e dolce. Come quel paesaggio di alberi là fuori, ontani betulle e pini, che addolciscono l’affanno, mentre nella notte il treno della morte trasporta tutti gli abitanti del ghetto verso il nulla. Bibliografia
Jurek Becker Jakob, il bugiardo, traduzione di Mario Devena, Neri Pozza, p. 269.
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Cultura e Spettacoli
Finezza e genialità
Musica P addy McAloon, genio misconosciuto del pop inglese,
offre la riedizione rimasterizzata del suo più trascurato capolavoro
Senza togliere o aggiungere nulla Opera Al Konzert Theater di Berna
una Bohème rivisitata dal regista sudafricano Matthew Wild
Benedicta Froelich Uno degli aspetti più frustranti della scena rock internazionale risiede senz’altro in quel triste fenomeno che, da parecchi anni a questa parte, vede molti dei nomi più artisticamente interessanti soccombere davanti alle regole del mercato e dello star system, e sparire così nell’ombra ben prima del tempo, senza aver ottenuto i legittimi riconoscimenti. Accade perciò che un genio indiscusso come l’angloirlandese Paddy McAloon – classe 1957, mente e voce della band dei Prefab Sprout – rimanga a tutt’oggi perlopiù sconosciuto al grande pubblico. Nonostante il suo gruppo abbia beneficiato di un discreto successo a cavallo tra gli anni 80 e 90 grazie a brani pop accattivanti quali The King of Rock’n’Roll e Hey Manhattan!, i maggiori capolavori di songwriting da lui firmati (come Jordan: The Comeback e Andromeda Heights) non sono mai stati compresi o apprezzati fino in fondo dalle masse; e il lungo silenzio discografico della band – infine interrotto dalla pubblicazione dell’ottimo Let’s Change the World with Music (2009) – ha fatto dello schivo e sfuggente Paddy una sorta di guru della scena rock, da molti salutato come la «primula rossa» del cantautorato anglosassone. Eppure, nonostante la sua assenza dai riflettori, McAloon è ancora in grado di riservare autentiche sorprese: lo dimostra la riedizione rimasterizzata di questo I Trawl the Megahertz, lavoro solista originariamente pubblicato nel 2003 – in un momento in cui l’artista aveva del tutto perduto la vista a causa di un distacco di ambo le retine e, costretto a casa dall’improvvisa invalidità, trovava conforto nell’ascoltare talk show radiofonici. Tanto che la cosa più affascinante dell’album, oggi riproposto a nome dell’intera band dei Prefab Sprout, sta proprio nella capacità dell’autore di staccarsi dall’incombenza della propria tragedia per concentrarsi sugli elementi salvifici che l’arte e l’umana emotività sono in grado di produrre – nello specifico, sul potere terapeutico della musica. Così, la totale noncuranza di Paddy verso il mondo del pop mainstream si evince da ogni particolare di I Trawl the Megahertz: a partire dalla title track, un suggestivo pezzo strumentale della durata di ben ventidue minuti e dalle atmosfere soffuse e quasi jazzate, animato dall’ipnotico recitativo di una disillusa voce femminile che enuncia scene di vita quotidiana stranamente struggenti e allusive. Momenti sospesi nel tempo, i
Marinella Polli
La più recente fatica di McAloon, I Trawl the Megahertz.
quali diventano quasi preghiere inconsapevoli, invocate a ritrarre la condizione umana come malinconicamente irrisolta e redimibile soltanto dall’empatia – da sempre l’unico elemento in grado di vincere sulla realtà delle perdite che, presto o tardi, attendono tutti noi: «ancora adesso, il mio sguardo si fissa sul luogo in cui ti ho visto per l’ultima volta / il tuo segnale insistente ma frammentato, prima che tu divenissi cotone nella tempesta, un aereo in caduta oltre le linee nemiche». Non sorprende quindi che, title track a parte, anche il resto dell’album mantenga il medesimo mood di intensa introspezione: ne sono un esempio Sleeping Rough e Ineffable, brani congiunti a formare una sorta di delicato intermezzo ad alto voltaggio emotivo. Altro tipo di suggestioni è invece quello proposto da Fall From Grace e Orchid 7 (la cui innegabile tensione emotiva prende la forma d’una sorta di toccante autoanalisi senza parole), e, soprattutto, I’m 49 – collage di frammenti tratti dalle trasmissioni radio a onde medie captate da Paddy, il cui effetto suona stranamente destabilizzante; ma il nostro si cimenta anche in esperimenti più ritmati e rigorosi quali Esprit de Corps, che a tratti ricorda le sortite più pop di Philip Glass. Ogni brano dimostra così, una vol-
ta di più, la finezza lirica e stilistica di un compositore quale McAloon, il cui sguardo allo stesso tempo poetico e disincantato sulle umane vicende è qui più acuto ed evocativo che mai; e il disco finisce per risultare strutturato come una vera e propria sinfonia, in cui le tracce prendono la forma di movimenti ispirati alla musica «colta» – in una transizione favorita dal fatto che, essendo il cantato perlopiù assente, I Trawl the Megahertz è definibile come un lavoro quasi interamente strumentale. Ed ecco che brani quali We Were Poor… e il suo seguito, … But We Were Happy, presentano un gusto a cavallo tra il cool jazz dal sapore più urbano e suggestioni cinematografiche quasi hollywoodiane. In tal senso, si potrebbe perfino dire che Paddy abbia anticipato la moda dell’orch-pop («orchestral pop»), peraltro portandone tecnica e intensità compositive a livelli ben più alti di quelli abituali del genere – e obbligando gli odierni ascoltatori a riconoscere come un album passato quasi inosservato all’epoca della sua pubblicazione risulti oggi più suggestivo e moderno che mai. Di fatto, sono proprio la continua freschezza e modernità di I Trawl the Megahertz a farne un piccolo, grande capolavoro – e a confermare lo status di McAloon come autentico genio misconosciuto del pop-rock inglese.
Il regista Matthew Wild, attualmente ospite del Konzert Theater Bern, ricostruisce una sua Bohème muovendo da sogni, ricordi e immaginario dell’ormai anziano Marcello (frattanto diventato un famoso artista), durante una festa organizzata in suo onore. In scena ci saranno dunque due Marcello che si alternano anche nel canto, uno giovane e aitante, l’altro vecchio e in sedia a rotelle, nonché una Musetta anziana solo come comparsa. La lettura proposta dal regista sudafricano non toglie, ma neppure aggiunge niente a quest’opera già perfetta di per sé che, secondo un non tanto lungimirante giudizio, non avrebbe dovuto lasciar traccia alcuna nella storia del teatro lirico. Assai malaccorto il critico che l’ha espresso, in quanto La Bohème di Giacomo Puccini (libretto di Luigi Illica e Giuseppe Giocosa su Scènes de la vie de Bohème di Henri Murger) venne poi e viene oggi considerata uno dei massimi capolavori operistici, ed è indubbiamente fra i titoli più amati del repertorio: vuoi per la dialettica fra sogno e realtà, fra arte e poesia e aspra vita quotidiana da un lato, fra ideali giovanili e perbenismo borghese dall’altro, ma, soprattutto, per l’arcinota triste storia d’amore raccontata da arie memorabili come Che gelida manina o Mi chiamano Mimì. Ma sono infinite le perle ora delicate ora appassionate di quest’opera, narranti in musica uno spaccato della vita di Rodolfo, Marcello, Colline e Schaunard, giovani artisti squattrinati, ma assai idealisti e sognatori, che vorrebbero cambiare il mondo. Una vita declinata in piccoli fatti quotidiani, ma anche in sentimenti importanti nel gelo di una povera mansarda nella grande città sorda e crudele. Mimì, già molto malata, si fa viva un giorno presso i quattro e fra lei e il
poeta Rodolfo inizia una tormentata storia d’amore che si svolge parallela a quella ancor più turbolenta tra il pittore Marcello e la frivola, ma buona e sensibile Musetta. A parte l’idea del doppio Marcello, non proprio facile da realizzare in scena in maniera plausibile, va riconosciuta a Matthew Wild (scene di Kathrin Frosch, costumi di Ingo Krügler, coreografia di Norbert Steinwarz e light design di Bernhard Bieri) l’accurata guida delle dramatis personae, cosicché la rappresentazione continua comunque con una certa coerenza. Sul podio, Ivo Hentschel è alla testa di un’attenta Berner Symphonieorchester che profonde impegno per rendere merito alla splendida partitura; il maestro tedesco non è purtroppo sempre perfettamente assecondato dal cast che, malgrado zelo e buona volontà, non sembra essere del tutto a proprio agio. Li citiamo tutti: un piuttosto discontinuo Peter Lodahl nel ruolo di Rodolfo, Evgenia Grekova in quello di Mimi, l’attraente Orsolya Nyakas nei panni di Musetta, Todd Boyce quale giovane Marcello forse il migliore in scena, John Uhlenhopp il Marcello anziano (ma anche in altri piccoli ruoli), Michal Marhold, scenicamente impagabile nei panni (trans, nella concezione di Wild) di Schaunard e Young Kwon in quelli di Colline. Resta ancora da dire di Chor Konzert Theater Bern, Kinderchor Singschule Köniz, Extrachor Theater Bern ben preparati da Zsolt Czentner, del teatro gremito e generoso d’applausi per tutti i partecipanti, salvo qualche sonoro buh all’indirizzo del regista, nonché delle numerose repliche previste ancora fino al prossimo 19 maggio. Dove e quando
La Bohème, Berna, Konzert Theater. konzerttheaterbern.ch
La Bohème è stata composta tra il 1893 e il 1895. (Annette Boutellier) Annuncio pubblicitario
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Cultura e Spettacoli
Un affresco femminile in bianco e nero
Incontri A colloquio con il regista Alfonso Cuarón, il cui film Roma,
dopo la vittoria a Venezia, ha ottenuto dieci Nomination agli Oscar
Blanche Greco «È un film di donne, perché sono cresciuto in una famiglia dove c’erano solo donne, ed erano magnifiche come quelle che le hanno interpretate. L’ho sognato, immaginato nei miei pensieri per anni, poi l’ho scritto e l’ho realizzato trattandolo come fosse un film hollywoodiano, dedicandogli tutto il tempo che potevo». Ci ha raccontato il regista Alfonso Cuarón qualche mese fa, a Venezia, dopo aver presentato al festival Roma, e aveva gli occhi lucidi mentre ci spiegava cosa si cela dietro le immagini e la storia di questo suo ultimo film che prende il nome dal quartiere dove ha vissuto la sua infanzia a Città del Messico.
«Sono contento che il mio film sia distribuito da Netflix, poiché avrà più pubblico di quanto Roma avrebbe mai potuto aspettarsi» Al momento del nostro incontro il cinquantasettenne regista messicano (Y tu Mamá También; Harry Potter e il prigioniero di Azkaban; Gravity) ancora non sapeva che questo suo «lessico famigliare» in bianco e nero, avrebbe conquistato il Leone d’Oro e, poi ben due Golden Globe come Miglior Regia e Migliore Film Straniero, e forse, tra non molto, lo farà anche trionfare agli Oscar. «L’infanzia è un mondo che ti porti dentro, un momento della vita in cui spesso ti ritrovi testimone di eventi che non capisci, ma che sentimentalmente ti lasciano tracce indelebili: sensazioni che non riuscirai mai a cancellare e ricordi che faranno parte di te per sempre. Libo era la mia tata indio e con mia madre e mia nonna, sono state i numi tutelari del mio mondo di bambino, è con loro che sono cresciuto, in un microcosmo senza uomini, circondato di affetto, mentre intorno a me esplodevano con violenza le contraddizioni della società e
della cultura messicana», ci spiegava Cuarón. Perciò Roma non è la rievocazione nostalgica della sua infanzia perduta, bensì «un anno nella vita di una famiglia (la sua) e di un paese», il Messico, in quel 1970-71 che fu un anno cruciale per entrambi. Il film è un affresco intelligente e delicato, dove l’ironia e un certo distacco mitigano il dramma e le passioni che si nascondono nei suoi ricordi di bambino e nella miriade di eventi sentimentali, politici e sociali, della storia al centro della quale c’è Libo, la Cleo del film, ragazza indio a servizio in questa famiglia della media borghesia, che si occupa della casa e dei bambini che incanta con le sue melodiose filastrocche in mixteco, la sua lingua. È Cleo la protagonista di Roma, la silenziosa testimone del dolore della signora Sofia, abbandonata dal marito, il dottor Antonio; dell’angoscia dell’austera nonna; dello spaesamento dei quattro bambini; ma anche dell’affetto di queste due donne nei suoi confronti quando il suo Firmin, fanatico amante di arti marziali, la lascia brutalmente per fuggire dalle responsabilità di un figlio. Seguendo Cleo scopriamo la desolazione della periferia intorno alla città, la povertà e l’emarginazione; la sanguinosa repressione della manifestazione studentesca del Corpus Christi; il disagio e le rivendicazioni dei lavoratori agrari delle grandi «hacienda». La vediamo piena di speranze nelle sue domeniche di libertà e poi, stremata dall’infelicità, trovare nell’amore dei «suoi» bambini l’unica ragione per vivere. «Quando cresci con qualcuno a cui vuoi bene, di fatto non ti chiedi chi sia e cosa desideri. Libo era la mia seconda mamma e io l’ho conosciuta come donna solo scrivendo questo film, attingendo dalla sua memoria, chiedendole fatti, spiegazioni e dettagli», ci ha raccontato Alfonso Cuarón, capelli bianchi e modi da ragazzo, «E ho scoperto una donna di classe bassa, quasi di un’altra cultura, lo sguardo della quale colora di mille sfumature gli anni della mia infanzia, dandomi un punto di vista completamente diverso su quell’epoca, molto più ricco e complesso del mio».
Gli ci è voluto quasi un anno di provini per trovare Yalitza Aparicio, una Cleo «che non è un’attrice, ma somiglia a Libo non solo fisicamente, ma anche nel modo di sentire» e altro tempo ancora per la ricerca di una casa che fosse la copia di quella originale, recuperando con pazienza, dalle varie famiglie sparse in tutto il paese, i mobili e i quadri che l’arredavano. Ma Roma non doveva essere la narrazione di un passato cristallizzato, bensì di una realtà vivace, intrisa di emozioni autentiche, tutta da scoprire anche per gli stessi interpreti e la troupe, perciò nessuno di loro ha mai potuto leggere l’intera sceneggiatura. Infatti per volere del regista ogni attore conosceva solo la parte che lo riguardava, in modo che i personaggi venissero colti di sorpresa dai risvolti inaspettati degli eventi, proprio come succede nella vita. Così nel film, girato in un luminoso bianco e nero, quello modernissimo del formato digitale in sessantacinque millimetri, il passato e il presente si fondono e rinascono perché, ci ha spiegato Alfonso Cuarón: «Era inevitabile che Roma fosse anche una ricostruzione del mio passato con personaggi quasi identici a quelli della realtà di cinquant’anni fa. Ma sapevo che ricreare quel vissuto avrebbe scombussolato le mie certezze. L’incontro del presente con la memoria, il contrasto tra le immagini del film e i miei ricordi, non è stato sempre piacevole per me, perché come regista non puoi giudicare i tuoi personaggi, ma sei obbligato a tener conto delle ragioni di ognuno di loro. E questo mi ha fatto capire molte cose, anche di me stesso». Poi con un sorriso teso ha concluso: «Ho scoperto anche che Roma è un film nel quale si riconoscono in molti, forse perché ciò che racconto – esperienze, sentimenti, emozioni – è parte della vita di tutti noi. Perciò sono contento che venga distribuito da Netflix, perché anche se circolerà poco nei cinema, avrà più schermi virtuali e più pubblico di quanto il mio Roma, film intimista e drammatico, parlato in spagnolo e mixteco, avrebbe mai potuto aspettarsi».
Quando il marito Antonio se ne va, si lascia alle spalle una famiglia governata da donne. (Keystone)
Carlo Porta, un poeta da gustare Recensioni Patrizia Valduga traduce l’autore
milanese rispettandone la metrica
Un ritratto di Carlo Porta (1775-1821). (Wikipedia)
Pietro Montorfani Per un singolare errore di prospettiva, dato dalla costante leggibilità della sua lingua poetica, la tradizione letteraria italiana si è spesso vantata di un fenomeno sconosciuto alla maggior parte delle lingue europee: gli inglesi di oggi non sono in grado di leggere Chaucer senza l’ausilio di traduzioni, i francesi non capiscono più la Chanson de Roland, mentre gli italofoni entrano quasi senza problemi, con qualche nota esplicativa, nell’universo linguistico di Petrarca, Ariosto, Tasso, per non dire degli autori dei secoli successivi. L’impressione di una lingua «viva», che evolve nel tempo pur restando sempre la stessa, una lingua che si parla come si scrive, è naturalmente un abbaglio, almeno fino al pieno Novecento. «Dimmi come parli e ti dirò come scrivi» è un motto che non funziona nemmeno per l’italiano, se è vero che Manzoni non usò mai, nella quotidianità, la lingua dei Promessi sposi, preferendogli il francese e, soprattutto, il dialetto lombardo. Per capire come parlava Manzoni, e con lui come avrebbero parlato realmente Renzo, Lucia e gli altri personaggi del romanzo, sarebbe utile semmai sfogliare i testi di Carlo Porta, quelli sì veri documenti linguistici del primo Ottocento, nonostante la grande perizia tecnica e la vasta cultura letteraria del suo autore: «El sarà vera fors quell ch’el dis lu / che Milan l’è on paes che mett ingossa…». Su questo funzionario meneghino dell’alta borghesia, nato nel 1775 e morto nel 1821, capace di produrre migliaia di endecasillabi distribuiti in ottave, terzine, sonetti, per una produzione quasi tutta postuma, disponiamo oggi di uno strumento di conoscenza al contempo innovativo e ambizioso. La nuova antologia curata da Patrizia Valduga, che traduce Porta rispettando le rime e le cadenze metriche, è infatti un pezzo imprescindibile nel kit del collezionista di cose portiane, da appoggiare sullo scaffale di fianco al Meridiano di Dante Isella e all’Oscar Mondadori di Massimo Migliorati e Pietro Gibellini. Con questa triade di titoli, la degustazione di questo raffinatissimo poeta altrimenti inaccessibile è garantita a priori. Patrizia Valduga aveva dalla sua non solo le capacità tecniche necessarie all’impresa (è tra le maggiori voci della cosiddetta metrica tradizionale) ma anche una sensibilità accesa per tutto
quanto riguardi corporeità ed erotismo, forse la principale chiave di lettura della sua stessa produzione in versi. Di più, si è accinta alla traduzione di Porta seguendo un consiglio implicito di Giovanni Raboni, di cui è stata compagna per molti anni, con l’obiettivo dichiarato di rispondere a un timore già espresso da Dossi nelle sue Note azzurre: «Vorrei evitare ai futuri milanesi la disgrazia di non poter più comprendere e gustare Carlo Porta». Attorno ai due poli del «comprendere» e del «gustare», forse meno il primo del secondo, ha ruotato il suo lavoro di selezione, in cui non mancano capolavori come i Desgrazzi de Giovannin Bongee, l’interminabile Lament del marchionn di gamb avert o La Ninetta del Verzee, voltati dall’autrice in un italiano di oggi fuso dentro il calco metrico dell’originale: «Poi pensandoci su / riprende… conviene che li perdoni: / si sa, dal più al meno, la servitù / è tutto un canagliume di imbroglioni» («Infin pensandegh sù / el repia… Conven che ghe perdona: / se sa che dal pù al men la servitù / già l’è tutta canaja bozzarona»). Inevitabilmente, nei passaggi da una lingua all’altra, qualcosa resta per strada e qualcosa a volte è di troppo (minime zeppe che garantiscono il rispetto dell’endecasillabo) ma sarebbe stato difficile fare di meglio. Ottimo ad esempio l’attacco di Sissignor, sur Marches: «Lei è marchese, sì, signor Marchese, / marchese, marchesotto, marchesone; / io sono il signor Carlo milanese, / e basta, senza briciola di Don», in cui era forse impossibile salvare il gioco paronomastico dell’ultimo verso («senza nanch on strasc d’on Don»). Meno convincente, qui e là, il ricorso a parole scurrili, anche per quell’atmosfera ironica e attutita del dialetto, in cui una «cojonada» non equivale del tutto a una «cazzata», fosse pure per una mera questione di suoni. Nel complesso si tratta comunque di un’operazione magistrale, da ascriversi pienamente sia alla fortuna critica di Porta che alla produzione letteraria della Valduga: qualcosa di simile al Musicante di Saint-Merry di Sereni o all’Hölderlin di Gianfranco Contini, non per nulla due titoli della medesima collana bianca di Einaudi. Bibliografia
Carlo Porta, Poesie, tradotte da Patrizia Valduga. Einaudi 2018. 167 pagg.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 gennaio 2019 • N. 05
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Cultura e Spettacoli
Sarfatti, critica e donna d’antan
Mostre/1 A Milano e a Rovereto si ricorda la complessa figura
della femminista, attivista e critica d’arte Margherita Sarfatti
Ada Cattaneo Capita che, per meglio capire grandi eventi della storia, sia necessario soffermarsi sulle vicende private dei protagonisti. Non è necessario indulgere nel pettegolezzo, nella storia romanzata. Ma perché non concedersi qualche incursione puntuale nella vita di personaggi esuberanti, che brillano più di altri per la loro vivacità? Scendendo nel dettaglio privato, affiorano le molte sfaccettature, spesso imprevedibili, di un periodo che non abbiamo vissuto: così, per un attimo, anche le cronologie e le classificazioni scolastiche diventano superflue. La vita di Margherita Sarfatti (1880-1961) sfugge ad ogni definizione: dai ricordi delle lezioni di Storia dell’arte, il suo nome riaffiora spesso, a proposito del primo Novecento in Italia. La curiosità si accende quando si scopre della sua importanza come storica dell’arte, in un mondo che non eccelleva proprio per le pari opportunità. Le anomalie e le continue (apparenti) contraddizioni si moltiplicano appena ci si addentri nella sua biografia. Margherita, nata Grassini, è un’ebrea veneziana, appartenente alla più influente élite lagunare. Nel 1898 sposa l’avvocato Cesare Sarfatti, con cui si trasferisce a Milano nel 1902 e dal quale avrà tre figli: la loro relazione viene impostata in maniera libertaria, senza vincoli di fedeltà reciproca. Giovanissima si avvicina al socialismo: a questa ideologia rimarrà sempre legata, pur venendo biasimata per l’incapacità di rinunciare ai privilegi che la sua posizione sociale le concede. È proprio nel solco del socialismo che, nel 1912, inizia la frequentazione con Mussolini: i due sono accomunati
da posizioni politicamente più radicali e interventiste rispetto ai compagni di partito e presto iniziano una relazione sentimentale che durerà – con fasi alterne – fino al finire degli anni Venti. Come è presumibile, il contributo di Margherita all’ascesa di Mussolini e, con esso, al fascismo, è molto più ampio di quanto la storia ufficiale riconosca. Egli si avvantaggia dei contatti internazionali di lei e dei molti articoli che la Sarfatti scrive sull’ascesa fascista per la stampa estera. I consigli di Margherita, i suoi spunti teorici sono determinanti per definire l’identità fascista e lo stesso vale per la propaganda che, come è noto, avrà un ruolo determinante nel successo del dittatore. È proprio la Sarfatti a scrivere la biografia di Mussolini – Dux (1925) – che riscuote grande successo sia in Italia, che in molti altri paesi. Ma l’intricata relazione fra i due si interrompe nei primi anni Trenta: la promulgazione delle Leggi razziali verrà di lì a poco e la presenza della Sarfatti non è più gradita. Peraltro, lei non aveva mai approvato l’alleanza con Hitler e vedeva piuttosto l’opportunità di legarsi agli americani, fronteggiando il pericolo tedesco grazie all’intervento della Società delle Nazioni. L’impegno fascista per l’ottenimento di colonie italiane in Africa, poi, era una scelta non condivisa dalla Sarfatti. Si aggiunge a tutto questo il debito nei confronti di una donna – ebrea – a cui Mussolini non voleva più riconoscere alcun merito e neppure concedere libertà d’iniziativa. Accanto alle vicende politiche, si dipana l’esperienza storico artistica di Margherita, attraverso la quale riesce a ragione a guadagnare un ruolo di primo piano. È una grande conoscitrice della storia dell’arte antica e moderna
e scrive con assiduità articoli di critica fin dal 1901. Ma anche qui, dai resoconti dei colleghi del mondo dell’arte, dalle lettere degli artisti, sembra emergere una figura ingombrante, che spesso riesce d’impaccio. D’altronde, desiderava essere più di una semplice spettatrice: come avrebbe potuto farsi largo in quel mondo se non con un po’ di aggressività? Fu lei a sostenere e rendere possibile la costituzione del gruppo «Novecento», che riuniva Anselmo Bucci, Leonardo Dudreville, Achille Funi, Emilio Malerba, Piero Marussig, Ubaldo Oppi e, il suo preferito, Mario Sironi. Dopo il successo del gruppo alla Biennale di Venezia del 1924, Margherita si fa teorica di questa estetica dettata da una «moderna classicità»: una definizione che porta ancora in sé la componente di contraddizione, di ossimoro. Al primo nucleo di artisti, si aggiungono nomi come Carrà, Casorati, De Chirico, Morandi e molti altri. La linea che congiunge ognuno di loro è l’estetica improntata alla conoscenza del canone classico, ma che non scade mai in una sterile imitazione. È la Sarfatti a porre i presupposti perché si possa parlare di un vero e proprio movimento artistico, anche con un’intensa attività per propagandare ed esportare questa tendenza dell’arte italiana in tutta Europa: tra le altre, ebbero grandissimo successo le mostre al Musée Rath di Ginevra, al Kunsthaus di Zurigo (con manifesto di Mario Sironi e catalogo di Ulrico Hoepli) e nelle Kunsthalle di Berna e Basilea. Ma il Regime mal sopporta le abilità diplomatiche della Sarfatti, la sua intraprendenza e a metà degli anni Trenta lo stesso Mussolini le impedirà di continuare con l’attività espositiva. La parabola di Margherita Sarfatti è ormai discendente: le leggi razziali le
Margherita Sarfatti a bordo dell’aeroplano Golden Ray, 1930.
imporranno la fuga e l’esilio. Morirà nel 1961, in una villa di famiglia a pochi chilometri dal Ticino. A una giusta distanza dal ventennio fascista, anche l’arte che fu prodotta in quell’epoca, sotto l’egida del regime, può trovare una sua collocazione ed essere apprezzata per i suoi meriti puramente estetici. Lo stesso percorso di storicizzazione vale per la vicenda di Margherita Sarfatti, narrata in una mostra a Milano, presso il Museo del Novecento di Piazza del Duomo. L’esposizione prende il via dall’attività giornalistica e politica, con documenti di grandissimo interesse dal fondo Sarfatti, conservato presso il MART di Rovereto: l’accredito stampa per l’esposizione universale di Milano del 1906, la tessera di iscrizione al partito socialista, le ultime foto del figlio Roberto, morto in guerra e celebrato dalla madre con un monumento commissionato a Giuseppe Terragni, e molto altro. Ma il grande merito del percorso espositivo è quello di restituire il valore della Sarfatti in quanto storica dell’ar-
te e attivista politica, sia nell’ambito del socialismo, che del femminismo. Nonostante l’allestimento non sia particolarmente riuscito, risulta interessante – accanto a dipinti e sculture – l’aggiunta di vestiti e di arredi d’epoca, che contribuiscono a dare un’impressione d’insieme dell’ambiente frequentato dalla protagonista. Donna capace e pensante, in quegli anni difficili da etichettare dal punto di vista intellettuale, Margherita Sarfatti viene riletta in maniera rigorosa, senza mai essere relegata al ruolo di «amante di Mussolini» e ritrovando una sua coerenza, pur nella contraddizione.
caso un’opera del 1970 realizzata per l’esposizione alla Gam di Torino) per terminare con il Doppio igloo di Porto del 1998 realizzato per la personale alla Fondação de Serralves di Porto del 1999. In cima un cervo impagliato domina la scena, mentre le fascine all’interno richiamano la natura. In mezzo alcuni capolavori come Chiaro oscuro / oscuro chiaro del 1983 dove due igloo si intersecano fra loro: uno coperto da fascine e l’altro da argilla. Il dentro e il fuori, il leggero e il pesante; le contraddizioni dell’esistenza e dell’uomo. Ne La pianta della vite nella sfera occidentale del 1991 (qui riproposto in una nuova ricostruzione di quest’anno) Merz addossa alla struttura metallica delle fascine di vite. Accanto un imbuto simile a quelli utilizzati per il vino. Spostamenti della terra e della luna su un asse del 2003, realizzato in occasione della personale alla Pinacoteca do Estado de São Paulo in Brasile, presenta un doppio igloo in vetro assieme a un igloo in pietra. Nel tempo la carica sovversiva dell’arte povera ha perso il suo significato che attraverso il rifiuto del prodotto finito voleva sottrarsi alla mercificazione dell’arte. Scrive infatti Angela Vettese che fu «costretta a fare propri i meccanismi di potere e denaro inventati dal neoespressionismo, occupando quasi militarmente il sistema di gallerie, opinion leader, collezionisti, alimentato proprio da quei prodotti vendibili che erano nati nel solco di una
reazione a essa e alle poetiche delle neoavanguardie». Rimane quel Che fare? del 1968 scritto col neon all’interno di una pentola che ricorda i dubbi del giovane Lenin. Senza risposta. Mario Merz inanella negli anni una serie impressionanti di esposizioni nei più prestigiosi musei di tutto il mondo continuando fino alla morte alla creazione dei suoi igloo fatti di argilla, rami, marmi, tavoli, foglie, ferro... Anche se dalla fine degli anni Settanta ritorna all’arte figurativa che in realtà non ha mai abbandonato. Bella mostra, un po’ piatta e monotona nell’allestimento. Prima di entrare nello spazio delle Navate si attraversa lo Shed con le opere di Leonor Antunes (fino al 13 gennaio) the last days in Galliate a cura di Roberta Tenconi. Qui la giovane artista (Lisbona, 1972) indaga sulle figure e i temi rimasti ai margini della storia dell’arte attraverso forme flessibili, elastiche e morbide. Suoi punti di riferimento sono personalità quali Anni Albers (1899-1994), Lina Bo Bardi (1914-1992) e Clara Porset (1895-1994) seguendo un percorso che tocca le questioni di genere e appunto la storia dimenticata.
Dove e quando
Margherita Sarfatti, Segni, colori e luci a Milano, Museo del Novecento, Milano. Fino al 24 febbraio 2019. www.museodelnovecento.org Margherita Sarfatti, Il Novecento Italiano nel mondo, Mart, Rovereto. Fino al 24 febbraio 2019. www.mart.trento.it
Un rifugio, quasi per sempre Mostre/2 Mario Merz all’Hangar Bicocca di Milano Gianluigi Bellei L’Arte povera nasce nel 1967 grazie a Germano Celant che riunisce alla Galleria la Bertesca di Genova una serie di artisti che utilizzano materiali di uso comune. L’anno seguente alla Galleria De’ Foscherari di Bologna lo stesso Celant spiega cosa intende per Arte povera. Scrive di evento mentale e comportamentistico, antropologico, con l’intenzione di «gettare alle ortiche ogni discorso univoco e coerente». Un’arte che «trova nell’anarchia linguistica e visuale» il suo massimo grado di libertà. Fra la pattuglia di artisti uniti dal critico troviamo Mario Merz (19252003). Di origine svizzera, Merz vive a Torino. Milita come partigiano nelle file di Giustizia e Libertà e alle Carceri Nuove, dove viene rinchiuso per un anno, conosce Luciano Pistoi che in seguito come critico de «L’Unità» gli
pubblica il primo disegno. Legge Marx, forse Bakunin, e nel suo secondo Igloo del 1968 scrive col neon la massima del generale vietcong Võ Nguyên Giáp, simbolo della lotta contro l’imperialismo: «Se il nemico si concentra perde terreno, se si disperde perde forza». Siamo nella Torino operaia che ribolle di contestazione e Merz cerca di abbandonare l’arte come metodo per fabbricare merci. Niente catena di montaggio, né aumento indiscriminato dei consumi ma la creazione di un nuovo mondo intellettuale che Angela Vettese definisce nel catalogo Arte povera 2011 «nuovo ascetismo». Merz parte dalla pittura informale ed espressionista per arrivare all’uso di nuovi materiali e ritornare negli anni Ottanta alla pittura. È famoso soprattutto per due tipologie di interventi: la serie legata alle teorie di Fibonacci, elaborate nel Duecento dall’abate Leonar-
Mario Merz, Igloos, veduta della mostra, Pirelli Hangar Bicocca, Milano, 2018. Courtesy Pirelli Hangar Bicocca, Milano. (Renato Ghiazza © Mario Merz, by SIAE 2018)
do da Pisa detto Fibonacci, per il quale una sequenza di ogni numero è generato dalla somma dei due precedenti (1,1,2,3,5,8,13,21…) e quella degli igloo che unisce la formula aritmetica dei numeri con la forma infinita della spirale. L’igloo è per lui una sorta di ventre ove tutto è dentro ma che può ugualmente uscire. Nel 1985 Harald Szeemann presenta al Kunsthaus di Zurigo tutti gli igloo di Merz realizzati fino a quel momento. Crea così una città degli igloo che nel loro proliferare si estendono all’infinito. «Tutti questi igloo, scrive Szeemann, sono entrati in conversazione o sono diventati musica». In questi mesi, fino al 24 febbraio, l’Hangar Bicocca di Milano presenta più di 30 igloo dei 140 creati dall’artista nei 5500 metri quadrati della navata e nel cubo partendo proprio dalla mostra organizzata da Szeemann e aggiungendovi altre strutture create posteriormente. L’esposizione è organizzata dal direttore artistico dell’Hangar Bicocca Vicente Todolí in collaborazione con la Fondazione Merz della quale Todolí è uno dei membri del comitato scientifico. Si apre con La goccia d’acqua, il più grande Igloo mai realizzato, del 1987. Dieci metri di diametro, una struttura semisferica in metallo ricoperta di vetri con un tavolo triangolare di 26 metri che lo interseca dal quale sgorga dell’acqua. Poi le strutture si susseguono in maniera cronologica iniziando dal famoso Igloo di Giap del 1968 (in questo
Dove e quando
Mario Merz. Igloos. A cura di Vicente Todolí. Hangar Bicocca, Milano. Fino al 24 febbraio, gio-do 10.00-22.00. Ingresso gratuito. www.hangarbicocca.org
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 gennaio 2019 • N. 05
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Cultura e Spettacoli Rubriche
In fin della fiera di Bruno Gambarotta Italiani grandi comici 3 gennaio 1954: nasce la televisione italiana, poche ore al giorno in bianco e nero. Regista di quella prima storica giornata è il giovane Vito Molinari che ora, alla soglia dei 90 anni, rievoca nel libro I miei grandi comici, Gremese editore, i suoi incontri ravvicinati con i massimi rappresentanti di una specie in via di estinzione, conosciuti e diretti fra rivista, operetta, cabaret, pubblicità e soprattutto televisione. Memorie preziose per conoscere i retroscena della comicità televisiva, in sessanta anni di lotte contro la censura. Scrive Molinari: «Il vero comico è cattivo, irride alla bontà, ai buoni sentimenti, sa che il pubblico riderà in modo liberatorio di una cattiva azione che avrebbe forse voluto compiere ma di cui non sarebbe stato capace. Il comico aggredisce, corrode, disgrega. Perciò è sempre stato temuto, sospettato, controllato, contrastato, perseguitato dai poteri forti, specie quello politico e quello religioso. Così è nata la censura». Un
episodio che fece molto rumore è legato al programma di varietà Un due tre con Ugo Tognazzi e Raimondo Vianello, che eccellevano nelle parodie degli altri programmi televisivi. Nel 1959 sono al sesto anno di vita quando va in onda al telegiornale una diretta dal teatro alla Scala, per le celebrazioni del centenario della seconda guerra d’indipendenza: i due presidenti della repubblica di Francia e Italia sono in piedi nel palco reale mentre l’orchestra suona i rispettivi inni nazionali. Al termine fanno l’atto di sedersi, mentre il presidente del senato italiano Cesare Merzagora, nel lodevole intento di agevolare la manovra dell’italiano, sposta all’indietro la sedia di Giovanni Gronchi che crolla a terra scomparendo dietro la balaustra vista la sua modesta altezza, mentre Charles De Gaulle, dall’alto osserva la scena. Nella puntata successiva di Un due tre, i due comici, per «L’angolo della posta» si fanno trovare in piedi dietro al tavolo e fanno l’atto di sedersi.
Vianello, alto come il francese, sposta indietro la sedia e Tognazzi capitombola a terra, scomparendo dietro il tavolo. Impassibile, si rivolge a Tognazzi: «Chi ti credi di essere?». E Ugo, da terra: «Può capitare a chiunque». La direzione non era stata informata, si scatenò l’inferno e al termine della stagione il programma non fu più confermato nonostante avesse raggiunto il vertice degli ascolti. Gli ostacoli maggiori Vito Molinari li ha avuti lavorando con Paolo Poli, un artista «raffinato, colto, dissacrante, sempre contro le mode correnti». Nel 1970 registrano negli studi di Torino della Rai Babau, testi di Paolo Poli e Ida Omboni, teso a smontare alcuni tabù, il mammismo, l’arrivismo, l’intellettualismo, il conformismo. Oltre che interpretarle, Poli presenta le puntate in vesti ogni volta diverse, vampiro, diavolo, angelo, alieno con fior di ospiti, fra cui Umberto Eco e Fabrizio De Andrè. Una volta montate, il direttore dei programmi visiona le quattro puntate e decide di
congelarle in magazzino. Ci rimarranno per sei anni, per essere programmate nel 1976, in piena estate. Paolo Poli diceva: «L’Italia abbonda di formidabili comici. Sappiamo vendere il niente, siamo sempre andati in giro a raccontare Arlecchino e Pulcinella. Siamo come i preti, viviamo sulle chiacchiere». A proposito di questo artista, ho anch’io un episodio da raccontare. Negli anni ’70 lavorando in viale Mazzini, con Vittorio Sermonti mettiamo a punto una proposta a basso costo che prevedeva la conduzione di Poli. Lo contattiamo, ci riceve a casa sua, si dimostra entusiasta del progetto e ci regala un sacco di idee. Era basato sui nomi che i genitori imponevano ai neonati dopo che era venuta meno la consuetudine di darli riferendosi a un famigliare o a una santa o a un santo protettore. Era esplosa la moda dei divi, dei calciatori, dei cantanti, dei personaggi dei telefilm. Elaborando i dati dei censimenti si poteva dimostrare che c’erano state ondate che si
ripetevano nel tempo. Nel dopoguerra c’era stata la moda di Rita, in seguito alla popolarità di Rita Hayworth e una di queste Rite era stata la cantante Rita Pavone, classe 1945. Diventata famosa la Pavone, grazie a lei era riesplosa la moda di quel nome. Ricordo di essermi trovato un giorno, con altri quattro Bruno miei coetanei. Per puro caso, era anche il nome di un figlio di Mussolini. Ottenuto l’assenso di Paolo Poli, con Sermonti siamo andati a esporre il progetto al direttore dei programmi di varietà. Non capiva: «Fatemi un esempio». Vittorio: «Quando Tyrone Power e Linda Christian si sono sposati a Roma nella chiesa di Santa Francesca Romana c’è stato il boom di bambine battezzate con quel nome». Il direttore, risentito e offeso: «Vi posso garantire che quando con mia moglie abbiamo deciso di chiamare nostra figlia Francesca Romana non l’abbiamo fatto per seguire una moda». In quel preciso momento il programma ha esalato l’ultimo respiro.
e invece nemico un altro composto prodotto dall’industria? L’imbroglio, credo, è altrove, è nei mille nomi diversi assunti da medicine uguali. Non può sfuggire come i principi primi delle medicine siano sempre gli stessi, per esempio per l’influenza il paracetamolo e l’ibuprofene, ma i nomi e la consistenza (pastiglie, spray, soluzione effervescente…) li rendono diversi – anche nei prezzi – l’uno dall’altro. Questo sì che è un problema, un danno al consumatore. Come capita nel caso della moda «green». Industria ed ecosostenibilità: non è un binomio facile, soprattutto quando si parla di moda, uno dei settori che sfrutta più risorse, dall’acqua all’anidride carbonica. Per questo i grandi marchi, già da qualche anno, da quando è aumentata la sensibilità degli acquirenti sui temi ambientali, hanno avviato progetti green. Ogni abito che indossiamo, anche se prodotto in maniera poco inquinante, per essere ben pulito e stirato viene trattato con prodotti
chimici che, con i successivi lavaggi, finiscono nelle falde acquifere. Gli stilisti hanno rinunciato alle pellicce vere e agli inquinanti processi di concia, in favore di ecopelle ed ecopellicce. Però molte pelli e pellicce sintetiche sono prodotte con fibre derivate dal petrolio, quindi non biodegradabili. Perché devi dirmi che è «ecopelliccia» una cosa pelosa di plastica, come mi è capitato recentemente provando un cappotto: l’interno è foderato di ecopelliccia blu, diceva la negoziante. Sottintendendo che avrei fatto un favore al pianeta, comprando quel cappotto invece di una pelliccia, che non è mai stata nei miei sogni. Per la cronaca, l’ho comprato, proprio adesso che le temperature si stanno alzando, quindi in ragione dei saldi mi aggiro per la città rivestita di strati su strati di plastica, ma dai colori raggianti, e ben mi sta. Spesso, poi, scegliamo capi in fibre naturali pensando sia meglio per l’ambiente, ma non è sempre vero, perché le coltivazioni di cotone sono re-
sponsabili da sole per almeno un quarto in assoluto dell’uso di insetticidi e pesticidi. Senza contare la chimica usata per lo sbiancamento o altre colorazioni di questo tessuto. È un po’ come quando un prodotto viene venduto in favore di: i tuoi soldi andranno alla tale associazione benefica. Certo, ma in quale percentuale? A volte il cinque, il dieci per cento, chi mai andrà a controllare. Banchetti natalizi, acquisto di calendari, vendita di maglioni fatti a mano e capispalla senza fodera ma equosolidali, nessuno garantisce l’effettivo raggiungimento del benefico fine. Una soluzione è comprare meno e meglio, riciclare e non buttare gli abiti smessi, soprattutto i capi che non tramontano mai e che non ha senso acquistare ogni anno, come un tubino nero o i jeans. Quindi, si consiglia l’acquisto di prodotti ecotutto, ma principalmente si consiglia di usare e di passare ad altri, o scambiare, i vestiti che spesso semplicemente non ci piacciono più.
le ragioni della decisione: la giustizia sportiva può assegnarti una sconfitta a tavolino, ma la vittoria morale vale di più: 100-0 contro mamme e papà. Bella lezione: voto 6+ all’allenatore Marco Giazzi, inclassificabili i genitori-ultras che lasciano la palestra mugugnando (in attesa del prossimo arbitro da insultare). Sarebbe utile sospenderli dall’accesso alle palestre dei figli, ma non sufficiente. Bisognerebbe rieducarli o educarli ex novo al mestiere di padri e madri, cioè di educatori. E di cittadini. Il timore (legittimo) è che si tratti di un’impresa titanica. Nel nuovo numero del mensile di psicologia e neuroscienze «Mind» (voto 5+), lo psicologo dell’Università di Bordeaux Grégory Michel racconta la storia di Lola, una tredicenne il cui obiettivo è fare una grande carriera da ginnasta, ma il cui sogno di gloria si infrange contro lo spettro dell’anoressia. Da atleta di livello nazionale, Lola diventa una persona malata (il suo disturbo, la dismorfofobia, le fa detestare il suo corpo,
che in alcune parti percepisce troppo grosso pur essendo di una magrezza spaventosa). Scavando nel malessere della ragazza, il professor Michel scopre che alle sue spalle c’è una famiglia che ha puntato tutto sul successo di Lola. La madre (2) dice: «Lola deve impegnarsi a dare sempre il meglio, perché è una grande sportiva», per questo è pronta a cambiarle allenatore e se non va bene neanche il secondo è lei stessa a farne le veci. La «sindrome di successo per procura» nasce dal desiderio estremo dei genitori di veder riuscire i propri figli: mamme e papà competitivi, assatanati, genitori ultras che ambiscono a ogni costo alla perfezione della loro prole, fino a offendere o a rimuovere chiunque venga avvertito come un ostacolo sulla via della gloria (per procura). Al di là dei casi clinici, la domanda è: se i modelli, quali dovrebbero essere i genitori, sono questi, cosa ne sarà degli educandi, cioè di tutte le Lole del mondo? Si può solo sperare che i figli tornino a ribellarsi ai padri, com’è avvenuto
mezzo secolo fa per ragioni politiche. Ma questa volta che sia una ribellione non contro la politica e le idee degli adulti, ma (più banalmente?) contro il loro comportamento. Più che ribellione, sarebbe un’autentica rivoluzione generazionale: la più auspicabile. Del resto i giovani si sono sempre giovati, da che mondo e mondo, di modelli degni di essere emulati nella sfera privata come nella sfera pubblica: ma come si fa a imitare, a titolo di esempio, un leader politico che ogni tre per due dichiara: «Io non prendo lezioni da nessuno!». Come può essere credibile un tipo che si vanta di non dover prendere lezioni da nessuno? C’è da temere che sia un megalomane o un mitomane che ha perso il controllo di sé e delle parole. E nel dubbio tra megalomania e mitomania, voto: 1. Le parole pesano. Sono pietre, diceva Carlo Levi. E se le parole sono pietre, chi le lancia a casaccio va considerato alla stregua di un ultras anche se non milita in «Blood & Honour».
Postille filosofiche di Maria Bettetini L’ecologia è anche fashion Non hai voluto farti pungere dalle api, per forza hai ancora dolore. Hai smesso di prendere i fiori di Bach, non ne vedi le conseguenze? Adesso, a posteriori, queste espressioni mi fanno sorridere. Qualche anno fa mi capitarono doloretti alle articolazioni. Niente di che. Invece molto di che fu la reazione di numerose amiche, che mi incolparono di non voler guarire, di cercare il dolore, perché non perseguivo i metodi cosiddetti naturali per cercare la guarigione. Il veleno delle api: questa sembrava a una di loro la miglior soluzione. In qualche luogo della Lombardia un gentile e costoso signore ti permetteva di infilare mano e braccio dentro una bottiglia di vetro piena di api, che – sempre gentilmente – avrebbero punto le tue estremità, inoculandoti prezioso veleno, che avrebbe guarito ogni dolore. Attività da ripetersi con l’altra estremità, forse anche con i piedi. Solo il pensiero di questa dolorosissima terapia mi ha fatto tremare le ginocchia, mi sono opposta
con tutta me stessa alla proposta della cara amica. Poi mi sono anche ricordata di una puntura d’ape, che incidentalmente sulla spiaggia dell’Argentario si era infilata tra il mio sandalo e il piede (con rispetto parlando, come ancora a volte si sente dire, soprattutto al Sud): si gonfiarono piede e gamba, al pronto soccorso tale dottor Sbrana, cognome tipico di quella zona della Toscana, ma che a me incuteva solo terrore, mi iniettò molto cortisone e mi disse che l’avevo scampata bella. Allora, ripensandoci, perché uno dovrebbe farsi pungere dalle api, invece di prendere un anti-infiammatorio qualunque? Ma la vera domanda è: perché considerare «naturale» il composto chimico del veleno di api, e invece non naturale un altro composto chimico, per esempio l’ibuprofene o il cortisone? Non sono favorevole all’uno piuttosto che all’altro, meno si usano medicine, di qualunque genere, meglio sarà. Ma perché considerare amico un composto chimico prodotto da animali
Voti d’aria di Paolo Di Stefano Parole e pietre Gli ultras delle curve, per esempio quelli coinvolti negli scontri di San Siro nel mese di dicembre, hanno vite quotidiane da brave persone. Poi, il sabato e la domenica, si armano di coltelli e di slogan neonazisti, pronti ad aggredire i tifosi avversari e persino a morire, com’è accaduto a Daniele Belardinelli, investito da un’auto durante la guerriglia urbana tra interisti e napoletani. Belardinelli aveva trentanove anni, faceva il piastrellista, aveva una moglie e due figli, era appassionato di arti marziali ed era leader di un gruppo che si chiama «Blood & Honour», sangue e onore. Dopo un conflitto con la polizia, nel 2007, gli fu impedito per cinque anni di accedere in uno stadio. Un suo zio l’ha definito un «ragazzo solare», molti lo ricordano come un tipo tranquillo. Ci sono altre brave persone, «solari» come tante, che non frequentano gruppi organizzati neonazisti ma si trasformano ugualmente in ultras nelle situazioni più impensate. È il caso di alcuni genitori quando vogliono
difendere il «sangue» e l’«onore» dei loro pargoli: la scorsa settimana, in una palestra di Carpenedolo, un paese della Bassa Bresciana, durante una partita di basket del campionato Under 13 maschile, accade che l’arbitro, coetaneo dei giocatori, cioè tredicenne alle prime armi, viene coperto di insulti per aver fischiato dei falli dubbi. Chi urla? Chi inveisce? Non i giocatori ma i loro genitori, madri e padri che seguono il match dalle tribune armati non di coltelli ma di parolacce e di improperi. L’allenatore della squadra di casa, che peraltro si trova in vantaggio, cerca di calmare gli adulti scalmanati, ma per tutta risposta si becca la sua dose di insulti con il gentile invito a vergognarsi. Ha venticinque anni, è arbitro a sua volta in una categoria superiore e conosce il galateo sportivo. Dunque cosa fa? Si rivolge al suo minicollega e annuncia che, stando così le cose, ritira la squadra ben sapendo che subirà una penalizzazione e che perderà 0-20 a tavolino. Poi spiega ai suoi ragazzi
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