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Ora il disastro è proprio dietro l’angolo

COP ◆ La situazione della Terra peggiora di giorno in giorno; intervista al professor Luca Mercalli, che da 30 anni è in prima linea per sensibilizzare e informare sul riscaldamento globale

Matilde Casasopra

Vi siete mai chiesti perché nel 2022 ci sono state due COP: la COP 27 in Egitto (Sharm el-Sheikh, dal 6 al 18 novembre, ma chiusasi il giorno 20) e la COP 15 in Canada (Montreal, dal 7 al 19 dicembre)? Che cos’hanno in comune queste COP e, soprattutto, perché hanno il medesimo acronimo, ma un numero differente? Partiamo dal numero più basso, il 15. Verrebbe da dire che la COP 15 sia più giovane della COP 27 e invece… invece no. La COP 15 – più precisamente la CBD, dall’inglese Convention on Biological Diversity – nasce un mese prima della COP più famosa, quella che riunisce i Paesi che hanno ratificato la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (United Nations Framework Convention on Climate Change, UNFCCC). Entrambe le COP (acronimo di Conference of Parties) nascono nel 1992, ma quella che si occupa della biodiversità è stata adottata a Nairobi, in Kenya, il 22 maggio, mentre la COP più famosa nasce a Rio de Janeiro tra il 3 e il 14 giugno. È infatti proprio a Rio che si svolge la prima conferenza mondiale dei capi di Stato sull’ambiente che passerà alla storia come «Summit della terra». La Convenzione sulla diversità biologica è stata ratificata ad oggi da 196 Paesi; 197, invece, quelli che hanno sottoscritto la Convenzione relativa ai cambiamenti climatici.

Ne abbiamo parlato con il professor Luca Mercalli, climatologo, meteorologo e divulgatore scientifico che già nel 2009 proponeva al grande pubblico il saggio Che tempo che farà. Breve storia del clima con uno sguardo al futuro fornendo esempi inequivocabili su come e quanto il nostro pianeta si stava sgretolando.

Sono passati, da quelle prime Convenzioni, 30 anni…

Trent’anni nei quali abbiamo sentito proclami, promesse, si sono fissati obiettivi e stilati protocolli. Tutto bene. Il problema però resta. Anzi, si è acuito. Un dato su tutti – lo zero termico a oltre 5000 metri proprio sulle Alpi svizzere il 25 luglio del 2022 – ci dice che la situazione, sul pianeta terra è addirittura peggiorata.

Il suo precedente saggio, nel 2019 è stato riveduto e reso ancor più esplicito: Il clima che cambia – Perché il riscaldamento globale è un problema vero e come fare per fermarlo (BUR), segno che la situazione è in continua evoluzione.

Certo, e dovrei aggiornare ulteriormente i dati (ndr, sorride) ma la sostanza non cambia. Siamo sull’orlo di un precipizio e sembriamo ignorarlo. Sì, a Montreal, i Paesi membri hanno raggiunto un accordo in 23 punti per salvaguardare la biodiversità del pianeta – biodiversità che, non dimentichiamolo, è in pericolo anche a causa dei cambiamenti climatici –, ma finché non vedrò un planisfero nel quale viene evidenziato quel 30 per cento di zone nelle quali si è deciso di proteggere la bio- diversità, resterò scettico e, soprattutto, preoccupato.

Preoccupato per il pianeta o perché gli accordi raggiunti non sono vincolanti?

Guardi, anche gli accordi raggiunti a Rio nel 1992 non erano vincolanti e si è dovuta attendere la 21esima COP, quella di Parigi del 2015, per giungere a un accordo giuridicamente vincolante che impegnasse i Paesi firmatari a limitare ben al di sotto dei 2 gradi Celsius il riscaldamento medio globale rispetto al periodo preindustriale, puntando a un aumento massimo della temperatura pari a 1,5 gradi Celsius. Il risultato lo conosciamo tutti: siamo nel 2023 e l’obiettivo, fissato per il dopo 2020, non è stato raggiunto. C’è chi è soddisfatto dei risultati raggiunti a Montreal sotto la presidenza della Cina. Ho sentito che oggi siamo tutti consapevoli dell’importante ruolo della biodiversità. Bene. Mi chiedo però dove vada a finire questa consapevolezza se poi nella maggior parte dei casi gli umani continuano a comportarsi come se nulla fosse.

Si percepisce una certa disillusione nelle sue parole. Disillusione non è il termine corretto. Personalmente non mi sono mai illuso. Il mio approccio ai fatti si fonda sul principio «causa-effetto». Ora, sono 30 anni che i climatologi di tutto il mondo – e io con loro – sostengono che le attività umane svolte in modo bulimico e incontrollato hanno prodotto quei cambiamenti climatici che ci stanno portando al disastro planetario. E non solo i climatologi. A Montreal, in occasione della COP 15, il segretario generale delle Nazioni Unite – Antonio Guterres – ha chiesto un «patto di pace con la natura», indispensabile in quanto l’umanità è diventata un’«arma di estinzione di massa». Risultato? Un accordo in 23 punti non vincolanti. Insomma, un buon proposito che vedrà alcuni Paesi impegnarsi e altri rimandare a tempi migliori l’impegno con le conseguenze che possiamo immaginare. Poi, senza immaginare, basterebbe ricordare quanto accaduto a Casamicciola, sull’isola di Ischia, il 26 novembre dell’anno scorso o il Capodanno più caldo della storia sull’Europa settentrionale o, ancora, lo studio della statunitense Carnegie Mellon University, pubblicato su «Science» a inizio 2023, che ci dice che due ghiacciai su tre potrebbero scomparire entro il 2100.

Capisco, ma… siamo sempre in zona analisi. Soluzioni possibili e praticabili?

Due, sostanzialmente, gli attori della possibile – seppur tardiva – inversione di marcia: gli Stati e i cittadini. Gli Stati, ad esempio, dovrebbero iniziare ad adottare politiche chiare in materia di protezione ambientale. Un esempio? Definire la capacità di carico dei territori, ovvero la loro sostenibilità ecologica che mette insieme le risorse naturali disponibili, la popolazione e la produzione di scarti che il territorio può sopportare, che sono quantità non infinite, ma limitate. Un atto che penso di poter riassumere in una semplice regola riguardante per esempio il suolo: si ricostruisce e si ristruttura solo quello che già c’è ed è attualmente abbandonato o trascurato. Non si fa del nuovo cemento, nemmeno un metro quadro in più. I cittadini dovrebbero invece individuare metodi per ridurre il proprio personale carico ambientale. Un gesto semplice potrebbe essere quello di mangiare meno carne e tornare a consumare prodotti stagionali delle proprie aree geografiche. Se abito in Lombardia in autunno acquisto uva, mele e pere e non mango, papaya o ananas. E poi risparmio energetico e pannelli solari.

Lo dice perché lei, a Vazon, in Alta Val di Susa, come racconta nel libro Salire in montagna oltre ad aver ristrutturato in modo ecocompatibile un’antica grangia ha anche iniziato a occuparsi dell’orto? Lo dico perché penso che i principi dell’agroecologia – che è un’importante presa di coscienza della limitatezza delle risorse naturali e della necessità di ridurre sempre di più la dipendenza del nostro modello economico-sociale dall’apporto dei combustibili fossili – siano praticabili da molti cittadini e costituiscono una palestra fondamentale verso la preparazione all’autosufficienza alimentare locale. Le posso assicurare che patate, piselli e cavoli che crescono nell’orto di Vazon sono buonissimi e quest’anno, con le temperature tropicali che abbiamo avuto sulle Alpi, sono maturati perfino i pomodori (il che potrebbe non essere una buona notizia).

Quindi agroecologia e non altre forme di sussistenza fai da te.

Agroecologia perché è interdisciplinare e si fonda sullo studio del rapporto fra coltivazioni agricole e ambiente utilizzando il metodo scientifico e non strane pratiche esoteriche che spesso inquinano altri metodi che vanno di moda. Perché produttività, stabilità, sostenibilità ed equità sono le linee guida di questa disciplina (insegnata anche in diverse università) che considera i processi agricoli in un dato ambiente e con caratteristiche specifiche. Torno, per esemplificare, all’orto di Vazon. È ben chiaro che la coltivazione delle patate lì, a 1650 metri sul livello del mare, ha processi differenti rispetto a quelli adottati per coltivare le patate in pianura. L’agroecologia ne tiene conto ed evita dunque di imporre sistemi univoci per situazioni differenti. È anche per questo che penso che ogni cittadino possa contribuire, nel suo piccolo, a modificare questa folle corsa verso il disastro, ma bisogna pretendere meno dalla natura, non possiamo sfruttarla fino all’osso.

Riusciremo a evitarlo (il disastro)?

Lo spero. Io mi sono dato ancora dieci anni di tempo. Li spenderò per ricordare a tutti che sì, ce la possiamo fare. Basta volerlo. Si smette di indignarsi e preoccuparsi e ci si rimbocca le maniche: mettendo pannelli solari sul tetto, coltivando un orto, certo, ma anche, più semplicemente, insegnando ai propri figli che, a scuola, ci si può andare anche a piedi. L’ho fatto anche raccontando la crisi climatica in un fumetto per i giovani: Il tuo clima (edizioni TataiLab). Se alla scadenza del decennio non vedrò risultati nella politica e nella società, mi concentrerò soltanto sulla mia salvezza personale… Si salvi chi sa!

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