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Quell’intenso dialogo tra Ratzinger e Habermas

Idee ◆ A più di un mese dalla scomparsa del papa teologo, ricordiamo il confronto del 2004 col filosofo sulla società moderna

Enrico Morresi

Negli articoli di giornale pubblicati sul Papa emerito scomparso, Joseph Ratzinger, raramente citato risulta il «dialogo» di Monaco di Baviera del 19 gennaio 2004 tra il cardinale e il filosofo tedesco Jürgen Habermas. A suo tempo, invece, anche «Dialoghi» (per non dire di riviste di filosofia importanti) ne rese abbondantemente conto. La recentissima uscita (ottobre 2022) del primo volume di Una storia della filosofia, del filosofo tedesco facilita però le cose e colma i vuoti di memoria. Proprio questo primo volume, difatti, porta il sottotitolo: «Per una genealogia del pensiero postmetafisico».

I cristiani, soprattutto i cattolici, hanno sempre sostenuto che sulla base della Rivelazione fosse possibile trovare un terreno d’intesa tra gli uomini. Chi lo negava, rivendicando come confine i limiti della ragione, subì interdetti e persecuzioni. La storia, si potrebbe dire, ha dato loro ragione. Perciò il mondo laico è apparso teso a realizzare una società liberale e possibilmente democratica, ma che, come tale, basta a sé stessa. La scoperta che nel vasto mondo valessero altre convinzioni per un po’ è stata considerata una variante, al massimo esteticamente apprezzabile, forse anche degna di rispetto. Così nell’arte, per esempio. Il problema si è fatto più acuto quando individui fuori del nostro circolo presero a rivendicare pari dignità di pensiero e diritti di azione politica, fino a contrapporsi alla civilizzazione «occidentale» con le armi in pugno. È il caso del musulmanesimo aggressivo di cui è segno e strumento la violenza, privata e pubblica.

A Jürgen Habermas (1929), erede di una grande tradizione «liberale», i dubbi sono venuti dopo l’attentato alle Torri gemelle dell’11 settembre 2001. In un discorso tenuto a Francoforte appena poche settimane dopo (il 14 ottobre), disse: «Gli assassini votati al suicidio, che hanno trasformato degli aerei di linea in proiettili viventi per dirigerli contro le cittadelle del capitalismo e della civilizzazione occidentale, erano motivati da convinzioni religiose, come sappiamo ora dal testamento di Atta e dalla bocca di Osama bin Laden. Per loro gli emblemi della modernità globalizzata sono l’incarnazione del Grande Satana. Ma anche da noi, universali testimoni dell’avvenimento “apocalittico”, si sono affacciate con forza alla mente immagini bibliche (…) E il linguaggio della vendetta, con cui non soltanto il presidente degli Stati Uniti ha reagito all’inconcepibile, ha assunto toni veterotestamentari. Ovunque si sono riempite le chiese, le sinagoghe, le moschee, come se questo attentato che lascia interdetti avesse fatto risuonare, nel profondo della nostra società secolarizzata, una corda religiosa».

È dunque tutt’altro che definitivamente acquisito, come sostiene il filosofo Emanuele Severino, che «la tecnica guida il mondo: ha emarginato quelle utopie e si muove nel clima di un pensiero filosofico che ha mostrato la loro impossibilità». Al contrario, sostiene Habermas, il concetto di funzionalità (Zweckmässigkeit) che noi aggiungiamo al darwiniano processo di mutazione, adattamento, selezione, si rivela troppo povero per riuscire a marcare la differenza tra “essere” e “dover essere” cui ci riferiamo quando violiamo una legge (…)». Dov’era – si chiede Habermas – la radice della convinzione del presidente Lincoln che tutti gli uomini nascano liberi e uguali malgrado il diverso colore della loro pelle?

I fondamenti morali prepolitici era dunque il titolo che la Katholische Akademie di Monaco di Baviera aveva dato, il 19 gennaio 2004, al confronto fra Habermas e Ratzinger, allora prefetto della Congregazione vaticana per la dottrina della fede.

Nel pensiero del filosofo, la storia dimostra che, lasciata fuori dalla porta, la religione rientra dalla finestra: non bisogna dunque più estremizzare il quesito ma piuttosto trattarlo in modo non drammatico, come una questione empirica aperta. L’atteggiamento del «laico» non è dunque più un atteggiamento di superiorità, la filosofia ha motivi per relazionarsi alle tradizioni religiose con una «disponibilità ad apprendere». «La società che si apre a questo tipo di rapporto può essere definita postsecolare». Ratzinger risponde anzitutto sul piano politico. La società moderna ha riunito gli elementi normativi nelle diverse dichiarazioni dei diritti umani e li ha così sottratti al gioco delle maggioranze. Le società religiose hanno cercato la fonte delle loro convinzioni nella natura, ma il modello

La riforma mancata di Benedetto XVI

risulta spuntato dalla teoria dell’evoluzionismo. Come ultimo elemento sono rimasti i diritti umani: comprensibili presupponendo che il suo stesso essere dell’uomo comporti valori e norme che devono essere individuati, ma non inventati. Forse oggi la teoria dei diritti umani dovrebbe essere integrata da una dottrina dei doveri umani e dei limiti umani, e ciò potrebbe aiutare a ritrovare la questione, se non ci possa essere una ragione naturale, e dunque un diritto razionale, per l’uomo e la sua esistenza nel mondo.

Ratzinger si dichiara perciò in ampio accordo con quanto esposto da Habermas «sulla disponibilità ad apprendere e sull’autolimitazione di entrambi i lati». Ammette che vi sono nella religione patologie estremamente pericolose, che rendono necessario considerare la luce divina della ragione, per così dire, come organo di controllo, movendosi dal quale la religione deve necessariamente farsi purificare e ordinare. Ma vi sono pure patologie della ragione non meno pericolose: perciò la ragione deve essere ammonita sui suoi limiti ed esortata a imparare: una disponibilità all’ascolto verso le grandi tradizioni religiose dell’umanità. Religione e ragione sono chiamate alla reciproca chiarificazione, devono far uso l’una dell’altra e riconoscersi reciprocamente».

Il 19 aprile 2005, appena un anno dopo l’incontro di Monaco, Joseph Ratzinger veniva eletto papa e prendeva il nome di Benedetto XVI. Sul tema entrambi gli attori del dialogo sono tornati: occasionalmente Ratzinger, sistematicamente Habermas. Questo, oggi, alla morte di uno dei due attori, meminisse juvabit.

Bibliografia E. Morresi, Idee per una società «postsecolare». Il dialogo tra Jürgen Habermas e Joseph Ratzinger, Dialoghi, di riflessione cristiana, anno 37, no. 189, dicembre 2005, Locarno, pp. 3-8. A questo articolo si rimanda per una ricognizione più particolareggiata di quel dialogo.

«Pro multis» ◆ La sua battaglia sulla traduzione dal latino delle parole della consacrazione del vino durante la messa

Gino Driussi

C’è un aspetto del pontificato di papa Benedetto XVI del quale non si è parlato in occasione del suo decesso – lo scorso 31 dicembre – perché poco conosciuto, se non dagli specialisti, ma che riguarda però tutti i fedeli ogni qualvolta assistono alla messa. Con l’entrata in vigore della riforma liturgica dopo il Concilio Vaticano II (1962-1965), il rito della messa non solo è stato modificato, sotto il pontificato di Paolo VI, ma anche tradotto nelle varie lingue nazionali, sebbene il latino continui a essere la lingua di riferimento (tanto da chiamare quella latina l’«edizione tipica» del messale perché funge da base e da modello per le varie traduzioni). Da allora, nella messa in italiano, le parole della consacrazione del vino suonano così: «Prendete, e bevetene tutti: questo è il calice del mio Sangue per la nuova ed eterna alleanza, versato per voi e per tutti in remissione dei peccati. Fa- te questo in memoria di me». Ma non è così in tutte le lingue.

Per mettere un po’ di ordine, per rispettare il «pro multis» sempre utilizzato in latino (anche nell’attuale messa, detta di Paolo VI, quando viene celebrata in questa lingua) e anche – immaginiamo – per fedeltà alla Sacra Scrittura (in Matteo 26:28, nella Bibbia della Conferenza episcopale italiana del 2008 si legge: «Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti per il perdono dei peccati»), tre mesi dopo la sua elezione, papa Benedetto XVI fece compiere dalla Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, allora presieduta dal cardinale Francis Arinze, un sondaggio tra le Conferenze episcopali, per conoscere il loro parere circa la sua intenzione di tornare a tradurre fedelmente il «pro multis» con «per molti». Ricevuti questi pareri, il 17 ottobre del

2006, su indicazione del Papa, il cardinale Arinze inviò una lettera circolare a tutte le Conferenze episcopali del mondo elencando sei ragioni a favore del ripristino del «per molti» ed esortandole – laddove la formula «per tutti» fosse in uso – a «intraprendere la necessaria catechesi dei fedeli» in vista del cambiamento. Ma questa richiesta si urtò a molte resistenze e fu accolta solo in parte, in particolare dagli episcopati di lingua ungherese, inglese e spagnola, che si adeguarono nelle successive traduzioni del messale romano. (Da notare che per i francofoni il problema non si poneva, perché sin dalla primissima traduzione si era adottata la formula «pour la multitude »).

Tra le opposizioni più tenaci alla modifica vi fu quella della Conferenza episcopale tedesca. Visto che sei anni dopo non se n’era fatto ancora niente, nel 2012 Benedetto XVI indi- rizzò una lunga e severa lettera all’allora presidente dei vescovi tedeschi

Robert Zollitsch per sollecitare l’applicazione di quanto già disposto («la Santa Sede – si legge in particolare –ha deciso che nella nuova traduzione del messale l’espressione “pro multis” debba essere tradotta come tale, senza essere già interpretata. La traduzione interpretativa “per tutti” deve essere sostituita dalla semplice traduzione “per molti”»). Ma non ci fu nulla da fare, tanto che nei Paesi tedescofoni (Svizzera tedesca compresa) nella formula di consacrazione durante la liturgia della messa si continua a dire «für alle ».

Emblematico anche il caso della traduzione in italiano, che ci riguarda da vicino. Sebbene uno degli scopi delle terza traduzione italiana del messale romano – durata ben 16 anni ed entrata in vigore, anche nella diocesi di Lugano e nella parte italofona della diocesi di Coira, nell’Avvento 2020 – fosse di adeguare più fedelmente il libro liturgico all’editio tertia latina del messale romano e malgrado le direttive del Vaticano già ricordate, non se ne fece niente ed è così rimasto il «per tutti» a causa dell’opposizione al cambiamento di buona parte dell’episcopato italiano, che venne consultato.

Quindi si può dire che la ferma intenzione di Benedetto XVI di ripristinare, nella messa, le parole della consacrazione del calice riprese testualmente dai Vangeli e in uso per secoli (anche nelle Chiese orientali), ma nei decenni scorsi sostituite quasi ovunque da una diversa traduzione è stata un mezzo fallimento. Diverse nuove versioni postconciliari della messa hanno trasformato il «pro multis» in un immaginario «pro omnibus». E così invece di «per molti» hanno tradotto «per tutti».

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