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Il dente del giudizio

Il dente del giudizio tutti sanno che è un dente in via di scomparsa, infatti spesso non cresce, o cresce male dando gravi problemi, come granulomi e carie con ascesso e secrezione di pus. Per scomparire del tutto occorre che la selezione naturale favorisca le persone che nascono senza denti del giudizio, ovvero che chi ha i denti del giudizio con i conseguenti problemi odontoiatrici non abbia prole, mentre chi è senza trasmetta alla prole questa mancanza, in modo che si crei una discendenza che ne sarà priva, con solo 28 denti. Quindi bisogna prevedere che la loro presenza o la loro mancanza sia in qualche modo legata al successo o all’insuccesso riproduttivo. Ciò significa che chi è dotato di dente del giudizio non troverà una femmina da fecondare, al contrario di chi ne è privo. Ma come può accadere ciò? Ebbene, si è visto e l’ho potuto constatare spe­

Xenia

pio amore. Te sull’onde e te sui venti seguiran mie furie ardenti», proprio sulle furie ardenti la voce della divina Niculina si era ingrippata come il pistone di un motore senz’olio. L’orchestra si spegne tra i mormorii degli spettatori, il direttore di scena esce sul proscenio a chiedere con voce allarmata: «C’è un medico in sala?». Facciamo un passo indietro. Quella domenica la signora Galinescu, circondata dalla consueta corte di ammiratori, a pranzo in un ristorante del centro storico aveva scoperto l’esistenza delle trote in carpione. Ingorda come solo le soprano sanno essere, ne aveva spazzolate dodici e aveva voluto conoscere lo chef per complimentarsi con lui e farsi dare la ricetta. Per giustificare la sua richiesta aveva spiegato: «Noi in Romania abbiamo le trote del lago Balaton ma non sono così gustose» ed era sembrata a tutti un’inutile pedanteria farle notare che il Balaton si trova in Ungheria.

di Bruno Gambarotta

Lo chef, commosso, le aveva portato un secondo vassoio di trote, chiedendole in cambio l’immancabile selfie. In quell’omaggio era presente la trota assassina: la sua polpa bianca celava un piccolo frammento di lisca che aveva manifestato la sua presenza nel momento peggiore. Torniamo in teatro. Felice ha un ricordo nebuloso e sfocato degli istanti successivi al suo alzarsi in piedi e gridare «Io!». Una maschera arrivò a prelevarlo e lo condusse prima nel foyer e poi dietro il palco. Qui, in un camerino colmo di fiori, abbandonata su una poltrona, la testa reclinata all’indietro, respirava affannosamente la divina Galinescu. Felice stava per spiegare che c’era stato un equivoco, credeva che cercassero un addetto agli approvvigionamenti, che lui non era un medico. Invece, constatato che nel camerino della diva c’era un’ottomana, Felice la fece sdraiare bocconi, con il torso in fuori e la testa reclinata fin quasi a terra. Poi, senza esitare, prese a dare possenti manate e qualche pugno sulla schiena della druidessa figlia di Oroveso, neanche fosse stato un Pollione di borgata. I presenti lo lasciarono fare e fu la salvezza per la cantante che sputò la lisca e fu pronta a riprendere la recita. Riconoscente, volle invitare a cena il suo salvatore. Si tennero lontani dalle portate di pesce; bevvero in abbondanza e, avendole Felice fatto i complimenti per il suo eccellente italiano il soprano gli confidò che lei era nata a Cuneo e il suo vero nome era Caterina Bongiovanni. Era stata costretta ad assumere un’altra identità poiché i sovrintendenti degli enti lirici stravedevano per le cantanti dell’Est europeo. Se avessero saputo che lei veniva da Cuneo non l’avrebbero neanche ammessa a sostenere il provino. Per Felice era arrivato il momento giusto: «Confidenza per confidenza», le disse, «neanch’io sono medico». rimentalmente su molti soggetti che le carie tipiche del dente del giudizio creano quel tipico fiato puteolente che allontana le femmine o il maschio, per cui a parità di sex appeal la femmina propenderà per maschi che mancano fin dalla nascita dei denti del giudizio e quindi presentano un alito entro i limiti dello standard di gradevolezza, e così tornando ad accoppiarsi con lo stesso più e più volte, aumenterà la probabilità della fecondazione. Altrettanto dicasi per le femmine che presentano carie, alitosi e in genere quel sapore repellente di marcio che anche il maschio preso da una smania sessuale assoluta, ne viene respinto. La femmina può essere bella e oltremodo attraente per i sensi della vista e del tatto; il maschio ancora in distanza ne è eccitato, lei con inequivocabili occhiate lo invita, mostrandosi predisposta genericamente alla riproduzio­ ne con lui. Seguono i riti della nostra specie: se sono in un locale con musica, ballano, se sono sulla spiaggia del mare si stendono parallelamente vicini; ma quando si passa alla seconda fase tipica della specie umana che è il bacio, emana dalla bocca di lei (ma si possono invertire i ruoli specularmente) una tale atmosfera malsana per via dei denti in suppurazione, che il maschio si affloscia e piuttosto vorrebbe morire. Il che impedisce ogni passo avanti, e mai si giungerà a una fecondazione.

È così che la legge evolutiva di Darwin si fa sentire. E le femmine coi denti del giudizio in bocca non potranno avere congiungimenti sporadici neppure con maschi raminghi appartenenti alla feccia disgraziata dei maschi, né quindi avere una prole che torni a presentare i caratteri materni ereditari, tra cui i già citati denti del giudizio cariati. Ciò a poco a poco eliminerebbe i portatori di carie, con una mutazione genetica stabile. A meno che i maschi dal fiato cattivo si accoppino sistematicamente solo con le femmine dal medesimo fiato, generando una razza coi denti del giudizio sempre cariati. In tal caso il dente del giudizio assumerà a poco a poco le funzioni del richiamo sessuale, sarà come una ghiandola nuova che rilascia testosterone, e il marcio farà parte dell’umanità e del suo odore attrattivo. Cioè per essere precisi: l’umanità si dividerà probabilmente in due sotto razze, con e senza il dente; le quali avranno vita e cultura distinte, e a poco a poco si diversificheranno anche fisiologicamente, aborrendosi l’una con l’altra; la mandibola cambierà dimensioni e di conseguenza tutta l’ossatura del cranio. Può darsi che una specie risulti prognata e l’altra col

Weiblinger, spirito libero e l’incontro con Hölderlin

Gli italiani lo chiamavano don Guglielmo, ma il suo nome era Wilhelm Friedrich Waiblinger. Aveva deciso di stabilirsi a Roma. Era malato e più la sua salute declinante lo strappava alla vita – che amava furiosamente –, più riaffiorava, potentissimo, il ricordo dell’incontro che aveva segnato – e cambiato – il corso della sua esistenza. Era accaduto a Tubinga, ma fu a Roma, in un appartamento dietro via Giulia, che scrisse Hölderlin. Vita poesia e follia. Rimasto inedito fino al 1947, è uno dei suoi pochi libri tradotti in italiano.

Nato ad Heilbronn, nel Württemberg, sulla riva del Neckar, nel 1804, Waiblinger andò a studiare teologia e filosofia in un austero seminario luterano di Tubinga. Era il 1822. Un giorno un conoscente gli chiese di accompagnarlo in visita da un singolare poeta – Hölderlin. Waiblinger, giovanissimo, aveva letto solo un suo com­ ponimento, e acconsentì – incuriosito. Hölderlin alloggiava nella casa del falegname Zimmer, in una stanza della torre. Dietro la porta chiusa, il ragazzo lo sentì blaterare a gran voce: ma non c’era nessuno, Hölderlin parlava da solo. Già da anni era scivolato nell’ottenebramento che lo inghiottì, come la nuvola una cima, a metà della vita. Li accolse con modi esageratamente cerimoniosi, inchinandosi. I suoi soliloqui sconnessi in una lingua inventata non avevano senso. La sua vuota cortesia serviva a tenere a distanza gli intrusi. Il mondo intero era per lui un intruso. Quando i suoi occhi spasmodici si posarono sul ragazzo, a Waiblinger si ghiacciò il sangue nelle vene. Terrorizzati, i due fuggirono.

Ma Waiblinger, emotivo e precoce (a diciott’anni, ancora studente del liceo, frequentava i maggiori scrittori svevi e aveva già composto una tra­ gedia e svariate liriche; a diciannove aveva scritto tre romanzi, di cui uno su un vampiro e un altro dato poi alle fiamme), non riuscì a dimenticare quell’uomo, anzi rimase sconvolto dalla grandezza della sua poesia e del suo destino. Annotò nel diario che «Hölderlin è l’uomo che cercavo», «l’eroe del mio romanzo, uno che diventa folle per ebbrezza divina, per amore e per aspirazione verso gli dèi».

Si fece coraggio e tornò a visitarlo. (Quasi cento anni dopo, quelle visite ispirarono a Herman Hesse un bel racconto, Nel chiosco di Pressel: la letteratura alimenta sé stessa). Hölderlin, smarrito nel caotico fluire dei suoi pensieri, non riconosceva nessuno, ma riconobbe lui, definendolo «un uomo gentile». Lo chiamava Vostra Santità, e voleva essere chiamato Killalusimeno. Il poeta divino seguiva docilmente il poeta adolescente in giardino, tra i vigneti e nella sua casa sul monte Osterberg. Più sensibile di uno psichiatra, il ragazzo intuì che ricordare il passato e la sua opera gli scatenava crisi di ansia, frenesia, violenza e delirio. Così non si parlavano quasi. Camminavano per ore. La visione della natura lo rasserenava. Hölderlin coglieva fiori e si riempiva le tasche di sassi e pezzi di ferro. Fumava la pipa. A volte scriveva versi di semplicità omerica, guardando una pecora che passava sul ponte. Li donava cortesemente al suo compagno. A volte cantava melodie incomprensibili, o suonava il pianoforte – una musica ossessiva, come uno spartito suonato da un bambino. Wilhelm sentì che quell’uomo spezzato era l’essere più simile a lui sulla terra. Anche Waiblinger, infatti, era uno spirito libero, eccentrico, autodistruttivo e ribelle, a disagio nel mondo. Fu punito dalle autorità perché si mento ritratto, si troveranno repellenti a vicenda e incompatibili per via del fiato, costruiranno villaggi distinti, forse due civiltà, come è già successo con l’homo sapiens e il contemporaneo Neanderthal. Non si può dire chi dei due prevarrà, se quello col giudizio o quello senza. vestiva a modo suo, perché usciva di notte, perché vagabondava. Camminare senza scopo era considerato sintomo di follia. Tentò perfino di uccidersi. Poi si innamorò della nipote di un professore: lo scandalo fu grande, tanto che nel 1826 fu espulso dal seminario per condotta immorale. Allora fece come tutti i giovani inquieti del suo tempo: prese in prestito un po’ di denaro (dal suo editore) e partì alla ricerca del sole e della luce dolce del sud. Weiblinger era già stato in viaggio a Milano e Venezia, vagabondando: nel Belpaese non si era puniti per questo. L’Italia – povera ma ricca di bellezza – gli aveva dato ciò che cercava: la libertà. Ma prima di lasciare la Germania per sempre andò un’ultima volta a trovare il suo malinconico amico e lo invitò a essere il suo compagno di viaggio. Hölderlin rise.

Si potranno tuttavia dare casi isolati di accoppiamento misto; si genererà, come tra asini e cavalli, un soggetto ibrido e infecondo, una specie di mulo, che rimarrà scapolo o nubile e malcontento, e che come il mulo sarà destinato ai lavori bassi di manovalanza, o guardiano di harem, nel caso gli harem siano destinati a risorgere. Quanto alla dentatura, probabile si alternino soggetti dalla dentatura sanissima con soggetti dai denti guasti, a seconda della razza di ciascun genitore. Saranno soggetti in ogni caso depressi e dalla gioventù senza futuro.

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