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Babylon, un film esagerato

Cinema ◆ Il ritorno di un Brad Pitt in grande stile e una esplosiva

Margot Robbie in una pellicola che ci racconta di una magia (quasi) perduta

Un’esplosione. Damien Chazelle (il regista di La La Land, Whiplash, First Man) ha realizzato un film unico e irripetibile perché esagerato, volgare, divertente, drammatico, intimo, diseguale, sontuoso, goliardico e scatologico. Un’opera che per la sua ampiezza, per l’uso di migliaia di comparse e grandi spazi oltre che per la visione cinematografica a 360 gradi si avvicina ai grandi kolossal del passato come Cabiria, Quo Vadis e Ben Hur, un genere ormai passato di moda e che il regista americano ha riportato sul grande schermo con un entusiasmo che solo chi ama il cinema in modo viscerale può fare. Del resto, anche il nome Babylon, richiama un passato epico, tipico dei kolossal. Tuttavia, come un altro film appartenente a questo filone che fece scalpore (I cancelli del cielo di Cimino responsabile della bancarotta della United Artist ma che poi divenne un vero e proprio cult) anche Babylon può diventare un clamoroso flop al botteghino: il budget per produrlo è stato di 78 milioni di dollari e gli incassi, finora, negli Stati Uniti non hanno raggiunto i 20 milioni.

Siamo a metà degli anni Venti del secolo scorso a Los Angeles. Un momento cruciale per Hollywood e l’industria cinematografica con il passaggio del muto al sonoro: una vera e propria rivoluzione che segnerà l’ascesa di nuove stelle e la rovina di vecchie glorie che non sono riuscite a effettuare il passaggio. In questo contesto seguiamo le vicende di quattro personaggi: Nellie LaRoy interpretata da Margot Robbie, ritratta nella foto, che convince in un ruolo che chiede dolcezza ed esuberanza); Jack Conrad (interpretato da un Brad Pitt tornato in piena forma), attore di successo con oltre ottanta film muti all’attivo, dedito ad alcol, droga e donne; Manuel Torres (tuttofare messicano che impara il mestiere di regista da autodidatta lavorando per gli attori e gli Studios) e Sidney Palmer (Jovan Adepo), talentuoso jazzista nero che diventa una star cinematografica. Chazelle ha pensato bene di ricreare quello spirito pionieristico e naïf ma tanto affascinante per mostrare agli spettatori la potenza originaria del cinema

Già da queste poche parole si intuisce che Babylon è un atto d’amore verso la settima arte e tutto ciò che ha rappresentato in quell’importante momento storico (in una scena un personaggio afferma con forza che «il cinema non è un’arte minore, ma c’è bellezza e per molta gente significa qualcosa d’importante») e forse – qui si va con l’azzardo – è anche una sottile critica verso una magia che negli anni ha perso. Chazelle ha pensato bene di ricreare quello spirito pionieristico e naïf ma tanto affascinante per mostrare agli spettatori la potenza originaria del cinema. Ecco, il film va inteso come un regalo agli spettatori, i veri protagonisti di Babylon (impliciti ed espliciti come nella scena finale nella quale Manuel entra in un cinema quasi trent’anni più tardi e si emoziona per Singin’ in the Rain, che ricordiamo è ambientato nel 1927 e parla appunto del passaggio dal muto al sonoro). Se quindi da un lato la pellicola di Chazelle parla del «cinema che fu» e lo fa usando il cinema (divertente la scena nella quale Conrad telefona a una Gloria Swanson in declino per chiederle se conosce qualche giovane attore, lei protagonista di quel capolavoro che è Il viale del tramonto), dall’altro parla di una società, quella americana di quegli anni, in profondo cambiamento: l’industria cinematografica ha modellato Los Angeles e l’ha trasformata da cittadina in metropoli (basti pensare che nel 1920 contava mezzo milione di abitanti e nel 1930 ben 1,2 milioni). Un cambiamento che il regista ci mostra attraverso alcune scene dall’alto in cui vediamo la moltitudine di capannoni dedicati ai set: una nuova città nella città.

Che cosa aggiungere? Ah, la colonna sonora. Il regista da sempre dimostra di avere una spiccata sensibilità per l’accompagnamento musicale (ricordiamo la figura del batterista di Whiplash) e non poteva non mostrarla qui, dove si racconta il passaggio dal muto al sonoro. Tra i protagonisti c’è il jazzista Sidney Palmer, interpretato da Jovan Adepo, figura ispirata a Curtis Mosby, leader di una band jazz molto popolare e soprattutto la musica accompagna dal vivo le numerose feste in cui qualsiasi eccesso è lecito. Un gioco continuo tra apparenza e sostanza, finzione e realtà, come nella vita.

Klimt, Mahler, Gropius, Kokoschka… non si può certo dire che le siano mancate esperienze: la più bella di Vienna o vedova delle quattro arti, così veniva chiamata la compositrice Alma Mahler, femme fatale al tempo in cui Oskar Kokoschka si innamora di lei. Una passione fulminea, ossessiva, soffocante che porterà il pittore e drammaturgo espressionista austriaco quasi alla follia. Certamente gli causò una singolare reazione quando l’ardente vedova decise di lasciarlo: per fuggire da dolorosi fantasmi, chiese a una costruttrice di giocattoli di realizzare una bambola snodabile che replicasse esattamente le fattezze di Alma. Un feticcio che l’artista poi distrusse, come un atto creativo, per sublimare la perdita dell’amata.

Le minuziose istruzioni di Kokoschka per dar forma alla bambola sono parte della corrispondenza con l’artigiana che una voce legge sulla scena dell’omonimo spettacolo di Ledwina Costantini creato in collaborazione con Daniele Bernardi e al suo debutto al Teatro Sociale di Bellinzona. Ricalcando tipologie teatrali ricorrenti, con Kokoschka , la nascita e l’epilogo distruttivo del feticcio femminile per Costantini-Bernardi diventano elementi di un esplicito traslato sui drammi della violenza di genere. Avvolta in un abito dorato, la luce dell’arte, Ledwina ricostruisce sul palco la bambola con sacrale lentezza. Sulle parti intime rivediamo l’immagine de L’origine del mondo di Courbet ma prima di smembrarla trova posto anche un richiamo alla Pietà michelangiolesca.

La platea segue in un contesto ravvicinato grazie a una piccola telecamera che documenta il rito sa- crificale dove il possesso e la disgregazione del corpo accompagnano la dicotomia dell’anima fra amore e odio, fra Eros e Thanatos. Uno spettacolo rigoroso e dal sapore performativo, fra le note di un coro e orchestra e la voce di Milva che, sulla sorpresa finale, ci ricorda che gira il mondo gira

La persona stupida è il tipo di persona più pericoloso che esista

Quando uscì tradotto in italiano per le edizioni de Il Mulino, la fascetta del volume recitava entusiasta: Quattro edizioni in due mesi. Il libro più beffardo dell’anno. Con il titolo Allegro ma non troppo, nel 1988 l’autorevole economista pavese Carlo Cipolla si arrendeva così al pubblico della sua lingua madre abbandonando gli austeri panni dello studioso consegnando alle stampe un paio di brevi saggi originariamente scritti in inglese per fare un regalo agli amici: un divertissement, un guizzo anarchico dell’intelligenza. Il libricino, diventato rapidamente un best-seller, conteneva una parodia della storia socioeconomica del Medioevo e una scherzosa (ma non troppo, appunto) teoria sulla stupidità umana che conserva la sua sconcertante attualità.

Una particolarità che non è sfuggita a Emanuele Santoro, attore e regista salentino ormai trapiantato, da anni fra i protagonisti della scena indipendente ticinese oggi martoriata da una discutibile politica culturale. Mantenendone la sostanza, Santoro ha riproposto il saggio con una rilettura scenica a cui abbiamo assistito al Teatro Paravento di Locarno. Delle teorie di Cipolla, suddivise e argomentate in cinque leggi fondamentali, va certamente ricordata la quinta, la più importante: la persona stupida è il tipo di persona più pericoloso che esista. Facendo astrazione dal gioco intellettuale, per accorgerci quanto siamo in balìa della stupidità il passo è breve.

Opera retablo

Una realtà che, come identifica Santoro nella sua documentata premessa, sfocia in sciocchezze e situazioni involontarie in cui la stupidità si confonde con l’ingenuità. Un fenomeno che contagia spesso anche istituzioni che dovrebbero essere insospettabili. Succede con i paradossi dalla politica, dell’amministrazione e con situazioni che, viste con quella lente della stupidità, rivelano quanto esse siano immerse in una inquietante stupidità.

L’Orazione semiseria di Santoro riesce a unire le teorie di Cipolla a una personale traccia ironica grazie una piacevole riscrittura. ©

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