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Sostenere i giovani, prevenire la povertà
Fragilità sociale ◆ Nella fase di transizione dalla scuola dell’obbligo alla formazione professionale ci sono ragazzi che devono affrontare gravi problemi in diversi ambiti della loro vita: come aiutarli?
Valentina Grignoli
Sono ragazzi. In un momento decisivo per la loro vita, per la loro formazione e carriera, erano pieni di speranze, eppure ora non sanno più cosa vogliono, non sanno da che parte voltarsi, hanno paura che la società volterà loro le spalle, saranno invisibili, forse saranno poveri, non era questo il loro destino, non è colpa loro, vorrebbero migliorare la loro condizione, ma non ci riescono più. Sembra un incubo, e invece è la realtà di molti giovani. Si dice che fino all’età dei 25 anni la maggior parte dei ragazzi passi dalla scuola dell’obbligo a una formazione professionale e poi nel mondo del lavoro, gettando le basi per la propria vita lavorativa. C’è però una piccola parte che questa strada la fa in salita, senza arrivare da nessuna parte, perché deve far fronte a grosse preoccupazioni in più ambiti della propria esistenza. Si tratta di problematiche multiple, una combinazione di diversi fattori a rischio derivanti dall’estrazione sociale, problemi psicosociali, il proprio passato (migratorio o assistenziale, per esempio), e altro ancora. Questo fa sì, purtroppo, che i ragazzi in questione non riescano a conseguire nessun titolo di livello secondario fino ai 25 anni (sono quasi il 10% secondo l’Ufficio federale di statistica) e che quindi l’ingresso nel mercato del lavoro diventi difficoltoso, esponendoli così al rischio di povertà, anche per tutta la vita. Un altro dato statistico – sempre dell’UST – è sconcertante: il 6,2% dei giovani in età compresa tra i 15 e il 24 anni non è né in formazione e non lavora. Sono chiamati i Neet (Not engaged in Education, Employment or Training), e sono invisibili (di loro abbiamo già parlato anche sul numero di «Azione» del 7 novembre 2022). Come aiutarli?
Su incarico della Piattaforma nazionale contro la povertà, la Scuola universitaria professionale della Svizzera nord-occidentale (FHNW) ha ora elaborato una guida sulla base di uno studio del 2022 inerente al sostegno di adolescenti e giovani adulti
Viale dei ciliegi
Salva Rubio-Loreto Aroca
La bibliotecaria di Auschwitz
Il Castoro (Da 12 anni)
Apriamo il volume, ci imbattiamo nei risguardi e troviamo una ragazzina immersa nella lettura di un libro, in varie posizioni, sdraiata, seduta, ma sempre con lo sguardo incantato e assorto di chi è trascinato dentro una bella avventura. I risguardi ci mostrano solo la ragazzina, ma se ci addentriamo nella storia che questo graphic novel ci narra, ecco apparire anche l’ambientazione in cui Dita, la ragazzina, si trova, ed è un’ambientazione di orrore: siamo ad Auschwitz, nel 1942. La quattordicenne Edita (Dita) Adlerova, nata a Praga nel 1924, venne deportata con la famiglia nel ghetto di Terezin e da lì ad Auschwitz, dove, grazie al prigioniero ebreo tedesco Fredy Hirsch, che si era guadagnato il posto di supervisore del suo settore, poté occuparsi di gestire i pochi libri entrati clandestinamente nel campo e farli girare tra i detenuti, oltre naturalmente a leggerli lei. Quella della «bibliotecaria di Auschwitz» è una storia vera, raccontata in un ro- con problematiche multiple nelle fasi di transizione. La Guida sullo sviluppo di sistemi cantonali per le fasi di transizione scuola-formazione-mercato del lavoro è destinata a chi si occupa della gestione e dell’accompagnamento nei sistemi di transizione e di aiuto e agli attori specializzati dei settori dell’integrazione sociale e professionale. Ma è anche un interessante documento per tutti, che testimonia una problematica ben presente nella nostra società e si fa portavoce di una necessaria prevenzione per queste situazioni di grande disagio. Assodato che tutti i giovani dovrebbero avere la possibilità di svolgere una formazione postobbligatoria, si sa che nel tempo i requisiti richiesti sono aumentati. E se in Svizzera vige un buon sistema di transizione attraverso i semestri di motivazione o le prestazioni d’integrazione professionale, spesso il problema è più sfaccettato e coinvolge altri ambiti. Come la sfera personale, che include per esempio problemi di salute, disabilità, scelta inadeguata della professione; quella familiare o di riferimento, nella quale rientrano le condizioni finanziarie precarie, gli stili educativi poco stimolanti, malattie, dipendenze, rapporti conflittuali, violenze, separazioni, ma anche l’assenza di persone di riferimento al di fuori del nucleo familiare. O il tempo libero, dove sussi-
● ste a volte l’impossibilità di accesso alle diverse opportunità, la mancanza di reti sociali, l’influenza negativa di un gruppo di pari. Per quanto riguarda la formazione, lo spettro di problematiche è poi molto ampio: dai rapporti difficili tra insegnanti e allievi, alla mancanza di una scolarizzazione inclusiva, dal bullismo, alle discriminazioni razziali, sociali e di genere. Nelle aziende formatrici si parla per esempio di insufficienti competenze pedagogiche e sociali, rischi per la salute, discriminazioni. Le problematiche possono insorgere anche quando già è in atto una prestazione di sostegno e questo accade quando c’è un rapporto conflittuale, una discontinuità, o quando le famiglie non possono più accedervi. Le difficoltà derivano ovviamente anche dalla società e dall’economia: poca offerta di formazione e troppe esigenze, concorrenza, condizioni sociali che favoriscono la disparità.
Tutte situazioni che incontrate singolarmente possono essere più o meno «risolvibili», ma che insieme costringono i ragazzi in una gabbia dalla quale è difficile liberarsi. È importante, dunque, che sappiano che la situazione di forte disagio nella quale si trovano non dipende solo da loro, ma anche da problemi sociostrutturali. Questa consapevolezza, infatti, può aiutare ad alleviare la sensazione individuale di fallimento, e ridare motivazione.
In Ticino sono diverse le realtà (fondazioni, associazioni o progetti), pubbliche o private che si occupano di accompagnare i ragazzi che si trovano in questa situazione nel loro inserimento socio professionale. Tra queste la Fondazione Gabbiano, attiva in tutto il cantone attraverso diversi progetti di sostenibilità sociale. Edo Carrasco, direttore della fondazione dal 2005, mi ha raccontato come, a livello generale, il primo grande problema che riscontrano i ragazzi sia «la fine della scuola media, che si porta spesso appresso la difficoltà di trovare una propria identità. Con i livelli B poi si ha meno opportunità, un crite- rio di separazione non evidente da gestire. Più gravi sono i casi di “eredità” familiare: se un ragazzo è già in assistenza da piccolo, ha più del 50% di possibilità di esserlo anche a 18 anni».
La fondazione si occupa prevalentemente di ragazzi da questa età in poi, per i quali «mettiamo a disposizione un modello di presa a carico completo e ampio, ispirato anche ai progetti Forjad del Canton Vaud. Bisogna capire che il problema non è solo formativo o professionale, ci vuole un supporto completo, olistico. Un aiuto alla pratica lavorativa attraverso maestri socioprofessionali in piccoli atelier creati ad hoc per sviluppare e conoscere ambiti lavorativi, ma anche un supporto psicologico che permetta un lavoro in termini sistemici, che si concentri sulla famiglia e il contesto. L’obiettivo sarebbe quello per i ragazzi di trovare le indicazioni per reinserirsi nel mondo del lavoro entro un anno e mezzo e poi restarci».
Carrasco vede la situazione attuale preoccupante: «Assistiamo a una fragilizzazione dei giovani negli ultimi anni, anche prima della pandemia. I Neet per esempio, fanno estrema fatica nella gestione personale. Quando il disagio sociale è forte rischia di trasformarsi in disagio psichico. E più il giovane è fragile meno ha prospettive, perché il nostro mercato del lavoro è chiuso, complesso e sempre più esigente». Per Edo Carrasco una soluzione è nella prevenzione. E poi «uscendo dalla dinamica dell’aspetto lavorativo come risposta ai problemi esistenziali. Avere insomma in tutti i progetti di sostegno una presenza più strutturata, meno focalizzati sulla performance professionale e più sull’ascolto, in grado di accogliere il bisogno».
Informazioni https://www.contro-la-poverta. ch/studien/studien-nationalesprogramm/detail/leitfaden-zurweiterentwicklung-kantonalersysteme-im-uebergang-schuleausbildung-arbeitsmarkt di Letizia Bolzani manzo best seller da Antonio Iturbe, e ora trasposta in un graphic novel per ragazzi, di grande impatto, di due autori spagnoli: i testi sono dello scrittore e sceneggiatore Salva Rubio e le illustrazioni dell’artista Loreto Aroca.
Le giornate di Dita sono terribili, ma «leggere le faceva credere per un po’ di non essere ad Auschwitz», e questa «manciata di vecchi libri» compì «un miracolo» anche sugli altri prigionieri, trasportandoli per qualche momento nel ristoro di un Altrove.
Mi sia concesso a questo punto un ricordo personale, relativo a quando, anni fa, incontrai a Mantova per un’intervista il grande Uri Orlev (autore di romanzi come L’isola in via degli Uccelli, o Corri ragazzo corri), che mi disse, e ne ho un ricordo indelebile: «lo sa perché scrivo per l’infanzia? Perché quando ero nel campo di concentramento di Bergen-Belsen, solo al mondo, con mio fratello piccolo che deperiva di giorno in giorno e stava per arrendersi, sono riuscito a riaccendere in lui la fiammella della speranza raccontandogli delle storie, nelle quali creavo ambienti e avventure meravigliosi e fantastici, che lo portavano lontano da lì». Anche per Dita, che sin da bambina aveva capito che i libri possono essere «finestre sul mondo e su se stessi», è stato così. La lettura, come la musica, e tutta l’Arte, è anche resistenza.
Nikolai Popov Perché?
Terre di Mezzo (Da 4 anni)
Torna, dopo la prima edizione svizzera del 1995 (titolo originale Warum?), e dopo l’edizione italiana Nord-Sud del 2000, il grande classico pacifista dell’illustratore russo Nikolai Popov
(1938-2021), che ha realizzato questo libro perché ha conosciuto da vicino la guerra e perché «i bambini, che comprendono l’insensatezza della guerra e vedono quanto sia facile essere trascinati nel circolo vizioso della violenza, possano diventare in futuro una forza di pace». Popov ci racconta la storia di un devastante conflitto tra rane e topi, cominciato da un nonnulla, da un fiore raccolto da una rana e protervamente bramato da un topo. Il topo ruba il fiore alla rana, ed ecco allora insorgere tutte le altre rane a cercare di riprenderselo, subito contrastate da un esercito di topi. I car- ri armati sono vecchi stivali e scarpe abbandonate, ma la loro valenza metaforica è potente, così come lo è l’invenzione di armi e trappole per distruggere. E il bel paesaggio verde e luminoso delle prime pagine, nelle ultime s’incupisce di toni neri e marroni. I prati lussureggianti diventano terra deturpata e brulla. L’assurdità della guerra emerge con immediatezza potente. Il riferimento, nella scelta degli animali, è ovviamente alla Batracomiomachia («battaglia delle rane e dei topi») antica, ripresa in età moderna da molti autori, tra cui Leopardi. Ma non è importante che i bambini colgano quest’allusione, tanta è la forza di quella domanda, Perché?, sollecitata dall’intensità delle illustrazioni di Popov. Illustrazioni che bastano a loro stesse, a tal punto che questo libro nasce come un silent book, un albo senza parole. Il testo è stato aggiunto, forse per facilitare ulteriormente la comprensione della vicenda, nelle edizioni italiane. Sia in quella NordSud, sia in questa, rivista e arricchita da una prefazione dell’autore e da una postfazione dello storico della letteratura per ragazzi Leonard S. Marcus.