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Approdi e derive Di coltelli, griglie orarie e risposte educative

Recentemente, in una scuola del luganese, è comparso un coltello. Solo un accenno a uno degli episodi brutti che di tanto in tanto si annunciano nelle aule. Episodi brutti, preoccupanti, che confliggono con quella bellezza che sempre abita e alimenta autentiche atmosfere educative. Mi riferisco alla bellezza di esperienze che ci toccano nel profondo, che ci fanno crescere, ci aprono alla vita e sono l’essenza dell’educazione. Edgar Morin a ragione ha sostenuto, nel corso della sua lunga presenza culturale, che educare è insegnare a vivere. Ma, aggiungo, l’educazione è sempre un educarsi; è un’esperienza intima di apertura all’invito di un Maestro che sa accogliere e accompagnare il nostro sguardo. Quando accade, percepiamo un’emozione, un sentimento di bellezza che può trasformarci.

L’archetipo della potenza e del valore della bellezza sta nei dialoghi di Platone: questo sentimento, questa emozione che nasce nel corpo, è la sor-

Terre Rare

Sarei stato tentato di far scrivere questo articolo a ChatGPT (la piattaforma online che permette concretamente di chattare con l’intelligenza artificiale e di sperimentare le sue abilità nella redazione di testi). Più che altro per vedere se qualcuno se ne sarebbe accorto. In questi giorni i giornalisti (categoria professionale tra le più preoccupate dalla nuova invenzione) stanno sviscerando il meccanismo alla ricerca delle sue pericolose potenzialità. Dopo aver letto una decina di esperienze altrui in vari campi dello scibile specialistico l’impressione è che le potenzialità dello strumento siano piuttosto limitate. Se è vero che i suoi programmatori gli hanno fatto ingollare l’intero contenuto di Wikipedia in inglese (e perché solo in inglese? Un bell’esempio di sciovinismo culturale, specialmente se gli si chie- gente del desiderio di trascendenza, ovvero è la spinta verso la conoscenza di una bellezza più grande. Il desiderio di trascendenza è tensione ideale che ci ricorda che noi non siamo mai solo quello che siamo: un bel modo per raccontare il viaggio educativo, il viaggio verso sé stessi. Fin da questo antico messaggio inaugurale, si capisce come la bellezza non abiti tanto dentro le cose, quanto dentro di noi: è un’esperienza intima, che ha a che fare con il nostro sentimento di interiorità, qualcosa che ci chiama. Certo esistono tante cose belle che hanno un gran successo sul mercato. Per essere attrattivo ogni oggetto sembra dover esibire una propria indiscutibile bellezza. Sono forme di estetizzazione generalizzata, e di godimento estetico, che segnalano, credo, un gran bisogno di gratuità per cercare in qualche modo di dimenticare le molte bruttezze in cui il mondo racconta la sua storia.

C’è però una grande differenza tra le tante belle cose esibite, tra l’esibizione di sé e di ogni realtà nelle vetrine del mondo, e l’esporsi intimo a sé stessi nel riconoscere e nell’accogliere la bellezza che si manifesta in noi. Quella che per Platone, al di là delle molte cose visibili, è idea luminosa, nascosta nella nostra anima; o quella che Kant considera un sentimento umano universale, pura gratuità, pura finalità, che non ha nulla a che vedere con i piaceri e con gusti personali. O ancora, quella bellezza che ci smuove in un incontro imprevisto. Di questa intima esperienza di bellezza la conoscenza è senz’altro un luogo privilegiato. Lo sappiamo bene, non impariamo nulla senza una bella emozione. È proprio la percezione della bellezza della conoscenza ad illuminare il nostro cammino, la nostra domanda di verità.

Educarsi significa allora imparare a sentire la bellezza ovunque risuoni: nell’eleganza di una formula matematica, in una legge della natura che ci

di Lina Bertola

invita a contemplarla nelle sue espressioni, ma pure in una domanda grande, forse senza risposta. Comprendere e contemplare, non solo apprendere nozioni utili immediatamente spendibili. Mi torna spesso alla mente l’esternazione attribuita a Watson e Crick davanti alla prima immagine della doppia elica del DNA: «è troppo bella», pare abbiano esclamato, «dev’essere vera!».

Il riconoscimento della bellezza ha un suo linguaggio e questo linguaggio si offre a noi anche nella letteratura, nella poesia, nella musica. Qui avvengono incontri fondamentali che, come sostiene Morin, ci mettono in contatto «con il mondo dell’umanità interiore, cioè delle nostre soggettività, e anche con il mondo dell’umanità esteriore, quella delle altre mentalità e delle altre culture che ci vengono rivelate da un romanzo, da una poesia». Perché imparare a vivere significa riconoscere l’unità mentale e affettiva di tutti gli esseri umani. Imparare a star bene al mondo con sé stessi e con gli altri. derà qualcosa a proposito della gastronomia…) ci si può aspettare che il livello della conversazione non si riveli particolarmente entusiasmante. Chi chiacchiererebbe con la Treccani? ChatGPT oltretutto è calibrato su parametri di political correctness molto alti. Il che lo rende uno strumento del tutto inutile nel campo della comunicazione contemporanea. In epoca di fake news a oltranza, i testi prodotti dal meccanismo potrebbero rivelarsi poco più che educatissimi esercizi di stile, volti a non offendere nessuna suscettibilità. Non si riesce a capire infatti la preoccupazione espressa da molti commentatori, i quali vedono nell’algoritmo intelligente una possibilità di automatismo della bugia meccanizzata. Che ciò sia peggiore di quanto succede già oggi, è difficile immaginarlo. Ma lasciando

Quel coltello comparso in classe è davvero solo la punta di un iceberg che rivela però un malessere profondo, quasi sempre, e per fortuna, più sottile e silenzioso; un malessere che i ragazzi non riescono a lasciare fuori dall’aula. Di fronte a queste difficoltà, la scommessa educativa sta proprio nel coraggio di credere che educare sia ancora possibile.

Possiamo anche continuare a pensare al bene della scuola ragionando sulla griglia oraria, su quali insegnamenti proporre, e quando, secondo le richieste della società. È una preoccupazione plausibile, certo, ma se ci dimentichiamo di dare innanzitutto una risposta educativa al valore intrinseco, e gratuito, di ogni esperienza conoscitiva, allora restiamo complici di quello sguardo utilitaristico che tiene a bada il mondo. E questo significa rinunciare alla nostra responsabilità etica nei confronti delle future generazioni.

Le parole dei figli

«POV: Prof: “Come definiresti la tua vita?”. Io: “Fa un po’ schifo”». È la scritta che appare sopra uno dei 100 mila video che Clotilde sta guardando su TikTok, in cui una sua coetanea maneggia un topo, lì a rappresentare il concetto che sta esprimendo. E, uno dopo l’altro, la maggior parte dei video che la mia 14enne scorre vedono stampate sopra le tre lettere malefiche: P-O-V. Una dicitura che nelle Parole dei figli, ossia nel loro modo di comunicare sui social, va per la maggiore. I più informati di noi sanno che POV è l’acronimo di Point of View, ovvero «Punto di Vista». Convinta da sempre che per capire i Gen Z sia fondamentale anche capire come comunicano (motivo di origine di questa rubrica), la domanda che mi faccio è: che cosa rappresenta esattamente il POV e perché spopola tra i giovanissimi come forma privilegiata di espressione? Confesso subito che, dopo avere guardato per ore video di TikTok e googlato l’impossibile, sono riuscita a darmi una risposta solo con l’aiuto della sociolinguista Vera Gheno. Non ho resistito a disturbarla, perché mi sembrava di essere finita all’improvviso nella canzone di Vasco Rossi quando canta «Voglio trovare un senso a questa situazione, anche se questa situazione un senso non ce l’ha».

Dimentichiamoci gli emoji che ormai sono considerati dai Gen Z cringe che vuol dire imbarazzanti, come raccontato in un altro Parole dei figli (metterne tre di fila viene considerata addirittura un’eresia). L’acronimo in questione, invece, è così diffuso che è pure diventato il titolo di una serie tv di Rai Gulp che racconta di adolescenti: POV – I Primi Anni. A scuola noi boomer abbiamo studiato la grammatica, la sintassi, l’analisi logica, le coniugazioni: qui, invece, da parte certo catastrofismo paranoico, da quel che si legge ChatGPT dà l’impressione di esprimersi attraverso la voce del secchione da primo banco. Anche quando vuol fare dell’umorismo, risulta un po’ ingessato e saccentello. Quando vuol essere gentile e affabile, pare legnoso e poco simpatico.

Un po’ una Signorina Rottermeier ingentilita. Anzi, appunto: abituati come siamo dalle consuetudini linguistiche di umani biologici, siamo messi in difficoltà da un fattore in più. ChatGPT ci parla da uomo, da donna o da cos’altro? Questo è un fattore di curiosità che ci rende attenti su come il nostro modo di ascoltare il mondo sia influenzato tanto da attenderci un punto di vista orientato sul genere. Da un uomo ci attendiamo, senza volerlo ma per abitudine invalsa, una comunicazione più asciutta e misurata; da una donna una maggiore attenzione alle sfumature di umanità e di collaborazione. Ma da un algoritmo?

Fa sorridere l’esperienza riportata su un quotidiano statunitense in cui un giornalista malizioso ha provato a gestire le interazioni con le sue conoscenze su Tinder utilizzando i suggerimenti ricevuti da ChatGPT.

L’esperimento si è rivelato come fallimentare nella maggior parte dei casi: troppo scialbe, prevedibili, equilibrate e insipide le interazioni del meccanismo. Eppure… in qualche caso sono funzionate. Ciò dimostra che, anche in termini sentimentali, qualcosa di ChatGPT è in ognuno di noi. E questo è l’aspetto preoccupante della faccenda, dunque. Non quanto ChatGPT somigli a noi, ma il contrario, quanto noi somigliamo a lui. Se sarà usato dagli studenti per fare i compi- ti, come paventano gli educatori, scriverà probabilmente come molti di loro fanno già oggi, copiando Wikipedia. E lo stesso si potrà dire a proposito del lavoro dei giornalisti. Resta da vedere se in altri campi (medicina, diritto, finanza) la «mediocrità informativa» dello strumento potrà trovare applicazioni reali. entriamo nel linguaggio post-grammaticale dettato dai social. Motivo per cui bisogna fare un passo alla volta e, per comprendere esattamente il significato di POV, è necessario prima sapere che cos’è un MEME. Ispirandoci a quel che spiega Vera Gheno per l’Accademia della Crusca, possiamo definirlo come un’immagine, un video, una parte di testo, ecc., tipicamente di natura umoristica, che viene copiata e diffusa rapidamente dagli utenti di Internet, spesso con lievi variazioni. L’ha coniato il biologo Richard Dawkins negli anni Settanta assimilandolo al gene. Quest’ultimo è un «replicatore di informazioni» che saltando di corpo in corpo permette l’evoluzione della specie. Il MEME, invece, è un «replicatore di un’unità di informazione», che si diffonde con velocità pressoché incontrollabile soprattutto nel web, a denotarne il grande successo di pubblico. Una delle sue caratteristiche principali è proprio la viralità.

Il problema sarà senz’altro quello della responsabilità. Quando un professionista di qualsiasi settore utilizzerà ChatGPT per prendere una decisione, su chi ricadrà la colpa in caso di errore? Perché la «macchina pensante» non sarà mai in grado di risolvere in modo positivo tutti i problemi e, soprattutto, sollevarci dalle nostre responsabilità. Perché forse a ChatGPT non chiederemo soluzioni intelligenti, ma soprattutto alibi alle nostre manchevolezze.

Ebbene, il POV è un tipo di MEME. E il Point of View è il punto di vista dal quale si deve guardare la cosa. Espressione di uno stato d’animo o di un pensiero riguardo a un dato argomento o a una certa situazione.

«POV: Ti sto consolando perché il tuo ragazzo ti ha lasciato» e sotto scorrono le parole di una canzone e una scena in cui un adolescente consola un amico. Oppure: «POV: La tua amica ti sta chiedendo di mangiare il sushi che le è rimasto», altra canzone, altra scena in cui la tiktoker scuote la testa. I video sono girati in prima persona, il sottofondo è musicale, sullo schermo viene mostrato il punto di vista che il creator condivide con chi andrà a visualizzare il contenuto.

Ma che cosa rappresenta questa nuova modalità espressiva? È il bisogno di esprimere sé stessi nel modo che meglio riesce agli adolescenti, ossia con un video sui social? Ecco cosa mi spiega Vera Gheno: «Il POV richiama il mondo dei videogiochi in cui tu sei in 3D e guardi attraverso il personaggio. Nei POV gli adolescenti si immedesimano nei panni di una persona e raccontano quel che sta vivendo, pensa, prova. È una forma intermediata per parlare di sé, ma senza usare la prima persona. Una sorta di proiezione del mio punto di vista facendolo passare per quello di una persona X». Il POV, dunque, è il modo prediletto dai Gen Z per parlare di sé ma in modo mediato. Conoscendo le difficoltà degli adolescenti ad esporsi in prima persona, ora tutto è chiaro.

«Poi il POV si memizza (ossia diventa un meme e dunque virale) – conclude Vera Gheno – e di qui l’invasione di riproduzioni».

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