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Pechino in crisi cambia strategia

L’analisi ◆ La modesta crescita economica e la rigidità nella gestione della pandemia si riflettono sulla stabilità politica interna

Lucio Caracciolo

La Cina sta correggendo la rotta. Gli ultimi tre anni, segnati dal Covid, dalla tensione crescente con l’America e dalla guerra in Ucraina hanno messo in questione il senso di marcia impresso da Xi Jinping (nella foto) all’Impero del Centro. Le sue premesse si sono rivelate errate o almeno discutibili. A partire dal certificato di declassamento della superpotenza americana – la crisi profonda c’è, ma non è (ancora?) finale – dall’ascesa inarrestabile della potenza cinese e dalla disponibilità del resto del mondo ad accodarsi a Pechino in quanto inevitabile numero uno del secolo. Tutte analisi come minimo affrettate.

La Cina si trova infatti in crisi economica, politica e geopolitica. L’anno scorso, causa soprattutto le chiusure da Covid, la crescita del PIL è stata ufficialmente del 3%, molto al di sotto del minimo (5-6%) che il Governo della Repubblica Popolare considera accettabile non solo per lo sviluppo del Paese ma soprattutto per la tenuta del regime. Il consenso tuttora forte alla dinastia rossa al potere dal 1949 si basa sulla diffusione del benessere per un Paese che da due sole generazioni non soffre più la morte per fame. La modesta crescita economica, insieme alle difficoltà del sistema finanziario e del mercato immobiliare, alle ombre che si stagliano sulle Nuove vie della seta – progetto di controglobalizzazione in salsa sinica – si riflettono sulla stabilità politica interna. Il Congresso del Partito comunista, in ottobre, ha dato mandato a Xi Jinping di procedere a una revisione tattica per evitare che la crisi diventi pericolosa per il futuro del regime.

La Cina si è resa conto che inasprire lo scontro con l’America, fino alla guerra per Taiwan, non è per nulla saggio

La correzione di rotta è stata brusca. Da gennaio la politica «zero Covid», dogma di Xi, è stata abolita in favore della riapertura delle città alla vita normale e delle fabbriche alla produzione standard. A rischio di un numero elevato di vittime del virus, visto che il sistema sanitario e i vaccini a disposizione del popolo cinese non sono all’altezza dell’epidemia. Ma un Paese di un miliardo e quattrocento milioni di abitanti – per la prima volta in lieve decrescita da molti decenni – può sopportare il sacrificio ulteriore di qualche centinaio di migliaia o milioni di vittime (i numeri restano segreti) pur di evitare il collasso del regime. Contemporaneamente, Xi ha messo in riga i «lupi guerrieri». Ovvero i diplomatici e politici che negli ultimi anni hanno comunicato al mondo l’arroganza cinese, che evidentemente Pechino riteneva di potersi permettere proprio per l’illusione che gli altri Paesi fossero disposti ad allinearsi alla Cina in quanto prossimo numero uno del pianeta. Il tono della comunicazione è addolcito. Soprattutto la Cina ha riaperto un canale di serio dialogo con gli Stati Uniti, dopo che i duellanti per l’egemonia planetaria avevano passato il tempo a insultarsi platealmente.

La svolta non è solo retorica. Pechino si è resa conto che inasprire lo scontro con l’America, fino alla guerra per Taiwan, non è saggio. La Cina non può permettersi lo scontro militare con gli Stati Uniti. Lezione appresa grazie anche alla guerra in Ucraina. Xi è deluso e contrariato da Putin. Il presidente russo gli aveva mentito sul senso dell’operazione militare speciale – o forse aveva solo mentito a sé stesso – dipingendola come una trionfale marcia su Kiev.

L’amicizia «senza limiti» sancita a inizio febbraio scorso dai due leader è in questione. Non fino al punto da portare Mosca e Pechino verso il divorzio. La Cina ha un solo partner potente al mondo: la Russia. Nel caso la coppia scoppiasse, Xi sarebbe completamente isolato. Quindi deve ingoiare qualche boccone amaro pur di tenere agganciati i russi, naturalmente questo vale a maggior ragione per Putin.

Stiamo dunque avvicinando una nuova stagione nei rapporti fra Cina e America? Non proprio. Il piano inclinato su cui corrono le relazioni sino-americane continua a tendere verso lo scontro. A Washington si rafforza il partito della guerra preventiva contro Pechino. Alti ufficiali americani evocano la probabilità della scontro intorno al 2025. E i «fal- chi» cinesi, provvisoriamente invitati all’automoderazione, considerano anch’essi prossima la resa dei conti con gli americani. La correzione di rotta adottata da Xi non garantisce affatto un compromesso, meno ancora un condominio sino-americano sul pianeta. È un’ammissione implicita di debolezza. Un tentativo di scongiurare una crisi finale. Un modo per giungere all’eventuale guerra con il numero uno su una base più solida.

Chi ha salutato con particolare compiacimento la riapertura delle città e delle fabbriche, dunque la ripresa dell’economia cinese, sono i partner commerciali di Pechino. In particolare gli europei. Su tutti la Germania, che negli ultimi trent’anni ha strutturato le sue relazioni economiche con la Cina in modo assolutamente speciale, a scapito del mercato europeo e delle buone relazioni con l’America. Vedremo nei prossimi mesi e anni quanto la correzione di rotta permetterà alla Cina di riprendere un corso più tranquillo di sviluppo della sua economia e della sua potenza. Su cui spicca oggi un enorme punto interrogativo.

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