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«La tua pancia è adulta, il tuo cuore bambino»

Kenya ◆ Viaggio a Dadaab – immenso campo profughi che esiste dal 1991 – dove fame, violenza e stupri sono la normalità Francesca Mannocchi, testo e foto

Njamal ha 16 anni, è nata in Sud Sudan ed è arrivata nel campo profughi di Dadaab, in Kenya, quando ne aveva 11. Sua madre è fuggita portandola via dalla guerra e dalla fame. Quando pensa ai suoi primi ricordi di quelle settimane, Njamal cambia sguardo. Dice solo: «Mia mamma mi ha portato qui per salvarmi e sono stata macchiata per sempre».

Poche settimane dopo il suo arrivo, infatti, è stata stuprata. Era solo una bambina e per lei è stata dura capire cosa stesse accadendo e gestire la vergogna. Aveva paura di dire a sua madre cosa era accaduto, cioè che era andata a prendere la legna nella radura intorno al campo profughi per attrezzare una tenda di fortuna e lì è stata sorpresa da un uomo che l’ha violentata, uccidendo per sempre la sua infanzia. Njamal l’ha detto a sua madre quando non poteva più nasconderlo. Esprime i ricordi di quei mesi con questa frase: «Senti qualcosa nello stomaco, un dolore, una nausea. La tua pancia è adulta, ma il tuo cuore è ancora bambino».

Quel neonato, nato quando lei stessa era ancora molto piccola, non l’ha mai chiamato figlio. Se ne prende cura sua madre. Njamal da allora è stata sostenuta da un gruppo di supporto psicologico gestito dalla missione di Save the Children in Kenya; ma l’anno scorso l’ombra del suo passato è tornata, e lei ha subito di nuovo violenza. Il figlio nato da questo secondo stupro è nelle sue braccia, mentre prova ad allattarlo, seduta sotto la poca ombra delle strade polverose di Dadaab.

Quel neonato, nato quando Njamal era ancora una bambina, non l’ha mai chiamato figlio. Se ne prende cura sua madre

Alla domanda: cos’è per te l’infanzia?

Risponde: «Niente di buono, l’inferno». Alla domanda: cos’è per te il futuro? Dice: «Non riesco a pensare al futuro, penso solo sia arrivato il momento di abbandonare i miei sogni».

Il sogno che aveva da bambina, prima che la sua infanzia fosse inghiottita per sempre dalla violenza, era scrivere. Avrebbe voluto studiare, diventare una scrittrice, mettere su carta le storie degli altri o inventarne. Oggi ha dovuto smettere anche di frequentare le scuole informali che le organizzazioni umanitarie approntano per i bambini rifugiati nel campo, per insegnare loro a leggere e scrivere. Se studiasse non potrebbe prendersi cura di suo figlio, del figlio frutto della seconda violenza che ha subito.

«L’impossibilità di immaginare il futuro è comune agli adolescenti che vivono nel campo», dice Tukow Nuuh, operatore di Save the Children specializzato nella protezione dei bambini. «Noi chiamiamo questo luogo il Campo delle tre generazioni, perché esiste da 32 anni e ci sono i padri e le madri, i figli e ora i figli dei figli ad abitarlo. Ma la loro gestione della memoria è molto diversa, perché chi è arrivato qui negli anni Novanta ricorda una vita fuori di qui – la vita di prima – mentre chi è nato nel campo ha visto solo questo posto. Le sue baracche, le sue tende di stracci. Sono migliaia di vite che di fatto sono arrivate qui per scampare a dei pericoli e vivono in una prigione a cielo aperto, privati di ogni diritto. In situazioni come queste, purtroppo, è molto facile che i più giovani siano esposti a violenza, devianze e sfruttamento».

Il campo profughi di Dadaab è nato nel 1991 in seguito all’inizio della guerra civile in Somalia. Doveva essere una soluzione temporanea per centinaia di migliaia di persone in fuga dal conflitto, ma pian piano l’emergenza è diventata una crisi cronica. Nel picco di maggiore affluenza i rifugiati in questa parte del Kenya orientale sono arrivati a essere 600mila. Oggi ne restano più di 300mila. Dadaab è il terzo campo profughi più grande del mondo e la situazione sta di nuovo peggiorando, perché il Corno d’Africa vive da tempo gli effetti di una «tempesta perfet- ta»: la siccità, l’aumento dell’inflazione globale e le ostilità armate stanno minacciando la vita dei somali allontanandoli di nuovo, in massa, dalle loro case. Circa 70mila persone sono recentemente arrivate nelle vicinanze dei campi profughi, molti dopo aver affrontato un viaggio di diversi giorni a temperature altissime, senza acqua né cibo a sufficienza. L’impatto della siccità – tutta l’area affronta il fallimento della sesta stagione delle piogge consecutiva – è stato aggravato dall’aumento dei prezzi seguito all’invasione russa dell’Ucraina. In aeree periferiche come Dadaab, dove quasi tutte le merci devono essere importate, l’impennata dei prezzi è stata particolarmente acuta. Gli effetti si sono fatti sentire anche per le agenzie delle Nazioni Unite e le organizzazioni internazionali che a loro volta vivono una «tempesta perfetta»: aumento del costo del carburante, e quindi delle spedizioni, e diminuzione dei fondi per gli aiuti. La conseguenza è che al flusso di persone in arrivo corrisponde un netto declino del supporto alimentare e infrastrutturale.

Nei dintorni estremamente aridi di Dadaab giacciono carcasse di animali morti; quelli ancora vivi sono malnutriti come gli abitanti del campo. Nelle zone più periferiche, i nuovi arrivati costruiscono tende con quello che trovano: rami secchi, pezzi di plastica, stracci. Il Governo kenyota non ha mai autorizzato la costruzione di edifici stabili e permanenti per disincentivare i rifugiati dal trasferirsi nel Paese, ma i profughi dopo tre decenni sono ancora lì. Chi ha potuto, ha trasformato la tenda in una casa di lamiera o di fango, chi è arrivato da poco si accontenta degli stracci. Il cibo viene distribuito dalle organizzazioni umanitarie una volta al mese; questo significa che chi arriva dopo la distribuzione può restare anche tre settimane senza niente da mangiare, così la comunità prova a dividere il poco che c’è, che generalmente è una manciata di riso e un po’ di fagioli. Le famiglie con molti bambini hanno gravi problemi perché non c’è latte né altri cibi da dare loro, così la situazione precipita velocemente e anche chi era arrivato nel campo in buona salute finisce con l’ammalarsi e, se va bene, essere ricoverato nella clinica gestita da Medici Senza Frontiere, dove i casi di malnutrizione sono aumentati del 150% in pochi mesi. A peggiorare la situazione e mettere a dura prova la capacità sanitaria del campo anche l’epidemia di colera in corso, dichiarata alla fine di ottobre del 2022, che ha portato al ricovero di 500 persone. Colpa della siccità ma anche della risposta umanitaria del tutto inadeguata a causa di scarsi finanziamenti. Se non arrivano soldi, qui, non arriva acqua pulita, non arrivano latrine, ciò significa che il campo stesso diventa una latrina a cielo aperto. I bambini e gli adulti devono usare acqua non potabile e dannosa per l’organismo. Le malattie virali come il colera si diffondono dunque con estrema velocità.

Secondo le Nazioni Unite «il numero di persone colpite dalla siccità in Somalia è più che raddoppiato nel 2022, passando da 3,2 milioni di gennaio a 7,8 milioni di ottobre, con il bisogno di aiuto che aumenta in proporzione». Le previsioni non sembrano migliori per il futuro, anzi. L’Ufficio dell’ONU per gli affari umanitari ha previsto che anche la prossima stagione delle piogge, prevista da marzo a maggio, fallirà. È dunque destinata a peggiorare la portata dell’emergenza umanitaria nel Corno d’Africa, realtà che dovrà fare i conti con un ulteriore, probabile taglio degli aiuti. In pratica un milione di persone, nella totale disperazione, potrebbe mettersi in cammino nei prossimi mesi per cercare di salvarsi.

Persone come Fartun Ahmed Mohammed, una donna poco più che ventenne arrivata 4 mesi fa da Baidoa, in Somalia, con i suoi 6 figli. Il primo l’ha avuto a 14 anni. Nata e cresciuta in una famiglia di pastori, ha a sua volta sposato un pastore. «Non era rimasto più niente, vivevamo in un’area di campagna prendendoci cura del bestiame e della terra. Non è rimasto niente, sono tutti morti e la terra si è seccata». «Non è rimasto niente» è la frase che ripete più spesso. Pensa alle mucche, pensa al grano, pensa a sua nonna, morta di stenti, poi si rabbuia e dice che è venuta via per questo. Quando ha visto morire sua nonna ha capito che era arrivato il momento di mettere in salvo i bambini. Suo marito è rimasto in Somalia e lei si è messa in cammino, 4 giorni di viaggio fino all’ingresso in Kenya. «Voglio solo un futuro per i miei figli», dice. Non dice: un futuro migliore, dice solo «futuro». Perché è così che le madri pensano in questa parte di mondo, non attraverso la categoria della qualità. Loro sperano solo che i figli sopravvivano alla fame e alla sete.

Carlo Silini (redattore responsabile)

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