Cooperativa Migros Ticino
Società e Territorio L’impegno di alcune associazioni per garantire Carnevali in sicurezza e tanto divertimento
Ambiente e Benessere La gastroenterologa Vera Kessler Brondolo, dell’Ospedale Regionale di Lugano, spiega come affrontare e curare le malattie del tratto intestinale
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXII 18 febbraio 2019
Azione 08 Politica e Economia Quarant’anni fa la rivoluzione khomeinista nella Persia che vuole uscire dall’isolamento
Cultura e Spettacoli Il Bauhaus festeggia cent’anni: nacque nel 1919 dalla mente geniale di Gropius
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di R.Venziani pagina 19
Romano Venziani
Le ardite invenzioni dei Walser
Il pupo, il tablet e il buonsenso di Alessandro Zanoli Di fronte all’ennesimo studio che attesta gli aspetti negativi dell’esposizione di bambini tra i 2 e i 5 anni all’uso di tablet e smartphone, Luigi si ferma a pensare. A colpirlo non è tanto la conclusione pessimistica della ricerca. Un gruppo di psicologi dell’Università canadese di Calgary giunge ad affermare che i piccoli, allevati all’uso precoce di queste tecnologie, si rivelerebbero nel corso dello sviluppo meno capaci da un punto di vista motorio, presentando inoltre difficoltà di comunicazione verbale e gestuale verso altri bambini. Luigi si scopre spesso, da genitore ormai avanti negli anni, a notare quanto padri e madri siano ormai abituati a considerare gli oggetti digitali come dispositivi educativi. Tra sé e sé Luigi li definisce scherzando, invece, «armi paralizzanti». Soprattutto quando li vede usare per disinnescare i momenti critici della professione genitoriale. Nel caso di questa notizia, però, Luigi è colpito piuttosto dalla chiusura dell’articolo. Gli stessi psicologi invitano i genitori all’uso del buonsenso per decidere come e quando esporre i pargoli all’uso dei dispositivi elettronici di cui sopra.
La ricetta sembra proprio minimalista e anche un po’ disperata. Ma, fermandosi un momento a riflettere, Luigi ha l’impressione che a stridere in tutto questo contesto sia proprio il termine di «buonsenso». È quello a non andar per nulla d’accordo con il mondo delle nuove tecnologie. Luigi ripensa a come si sono evolute le cose negli ultimi vent’anni. All’inizio pareva che tutti avrebbero voluto/dovuto avere un loro sito web personale. Il buonsenso diceva che era troppo complicato (occorreva imparare cose piuttosto complesse) ma la voce della nuova era profetizzava: «Tutti avranno il loro spazio su Internet». Allora, via! In tanti iniziarono a cercare programmi per la pubblicazione di pagine web, partecipando a corsi per adulti e sessioni serali di informatica, per evolvere verso il futuro. Di fronte alla difficoltà d’uso di questi strumenti molti (tra cui lo stesso Luigi) si dissero «Non vale la pena». Ma già era nata l’idea di fornire alle persone delle piattaforme più semplici e funzionali. Erano gli anni del Web 2.0: quelli in cui tutti avrebbero dovuto avere il proprio blog. Vari contenitori facilmente programmabili, furono allestiti, gratuitamente, affinché le persone potessero dire la loro. Si scoprì poi che essendo tutti occupati a
scrivere le proprie storie nessuno aveva tempo di leggere quelle degli altri, magari anche interessanti ma... troppe. E anche lì, la moda piuttosto rapidamente finì nel nulla. Luigi ci si era messo anche d’impegno con il suo blog sul giardinaggio, ma in pochi mesi... era appassito. Meno male che nel frattempo era arrivata l’era dei social, semplificando tutto ancor di più. Finalmente i pensieri e le opinioni potevano trovare dei lettori. Peccato che tutti i contenuti si mescolavano tra loro in un guazzabuglio di voci senza una vera coerenza né un vero discorso possibile. Anzi: le opinioni di Luigi venivano sommerse in poco tempo da quelle che non condivideva, provenienti da persone con cui ingenuamente si era ritenuto in sintonia ma che alla prova dei fatti si rivelavano ahimè molto diverse da lui. Ritornando col pensiero a queste sue esperienze Luigi si accorge che una sola cosa avrebbe potuto risparmiargli fatiche e delusioni: il buonsenso. Lui e molti altri l’hanno ignorato. Esercitare il buonsenso è e sarà sempre il nostro paracadute, certo. Cosa ci garantisce però che d’ora in avanti potremmo essere in grado di utilizzarlo? Al punto in cui siamo, sorride Luigi, finché non ci progetteranno l’app necessaria non ne saremo capaci.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 febbraio 2019 • N. 08
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Idee e acquisti per la settimana
Voglia di tisane alle erbe di montagna Attualità Le deliziose tisane Swiss Alpine Herbs bio a base di erbe aromatiche svizzere si sorseggiano
Prodotte sin dal 1991 nelle Alpi e Prealpi bernesi e del Giura con erbe aromatiche coltivate e raccolte a mano da contadini delle nostre montagne, le gustose tisane bio Swiss Alpine Herbs promettono momenti di autentico e benefico piacere. Le pregiate erbe crescono lentamente, in terreni di montagna assolati e ricchi di minerali, secondo le rigorose direttive dell’agricoltura biologica, vale a dire senza l’impiego di insetticidi, erbicidi, fungicidi e fertilizzanti chimici. Le erbe vengono lavorate entro 24 ore dalla raccolta per poter garantire il massimo aroma delle materie prime. L’essicazione avviene attraverso un delicato e speciale processo in grado di preservare il colore e l’intensità aromatica delle foglie. Le tisane Swiss Alpine Herbs sono al 100% naturali e non contengono nessun tipo di colorante, additivo o esaltatore di sapidità. In tazza l’aroma si sviluppa pienamente grazie alle capienti e innovative bustine a piramide.
La gamma Swiss Alpine Herbs Bio si compone delle seguenti varianti: Brezza Invernale: riscaldante e corroborante per i giorni più freddi dell’anno grazie ad un’armoniosa miscela di timo limone e un tocco di zenzero. Rosa Canina/Olivello Spinoso: fruttata e acidula, ecco una tisana perfetta per tutti i giorni dell’anno. Contiene rosa canina, olivello spinoso, pezzetti di mela e fiori. Ottima anche fredda. Brezza Alpina: una composizione leggera e rinfrescante da gustare in ogni momento della giornata. A base di citronella, verbena, timo limone e fiori. Miscela della sera: un’autentica fonte di benessere per l’anima, dall’effetto aromatico e calmante, con melissa d’oro, citronella, verbena, timo limone e fiori. Miscela di Menta: una fantastica composizione di tre varietà di menta per un piacere gradevole, rinfrescante e tonificante che aiuta la digestione.
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Swiss Alpine Herbs Bio Rosa Canina/Olivello Spinoso 17 g Fr. 5.50
Swiss Alpine Herbs Bio Brezza Alpina 14 g Fr. 5.50
Swiss Alpine Herbs Bio Miscela della Sera 14 g Fr. 5.50
Swiss Alpine Herbs Bio Miscela di Menta 14 g Fr. 5.50
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in ogni momento della giornata
Golosità all’insegna del biologico
Freschezza Lasciatevi deliziare dalla fragranza della Corona del sole bio appena sfornata, un pane di frumento
con segale, semi oleosi e fiocchi d’avena che trova spazio ad ogni pasto
La Corona del sole biologica è ormai un grande classico sulle nostre tavole, tanto da diventare negli ultimi anni uno dei pani più apprezzati dell’assortimento Migros. È prodotta con ingredienti agricoli sopraffini certificati bio e con molta passione dai panettieri della Jowa, il panificio di Migros. Le caratteristiche sei micche di cui è composta sono ancora formate a mano, aspetto che rende ogni pagnotta davvero unica e autentica. La lenta cottura conferisce al prodotto finale una croccantezza e una doratura inconfondibili che seducono i palati già solo al primo sguardo. Il suo sapore, delicato ma al contempo deciso grazie ai semi di girasole, lino e sesamo contenuti nell’impasto, trasmette sensazioni gustative d’altri tempi. Adatta ad accompagnare ogni tipo di alimento, sia dolce che salato, è inoltre particolarmente pratica da porzionare, in virtù della sei micche facilmente staccabili con le mani.
animali, come pure la fertilità del suolo, la salute delle piante, la biodiversità e la gestione responsabile delle risorse idriche. Perché il pane fa bene
Il pane apporta al nostro organismo importanti sostanze vitali per affrontare al meglio la giornata. I carboidrati forniscono energia grazie all’amido facilmente digeribile, le proteine di alto valore sono alla base della formazione di cellule e muscoli, i sali minerali sono presenti soprattutto sotto forma di magnesio, calcio, potassio, ferro e sodio; mentre tra le vitamine sono presenti soprattutto quelle cosiddette «dei nervi». Infine, le fibre alimentari favoriscono una buona digestione e regolano la glicemia.
Sostenibilità
Tutti i pani bio sono preparati nel rispetto delle severe direttive di produzione ed elaborazione dei prodotti biologici. I cereali sono coltivati in modo sostenibile e non contengono additivi chimici. I contadini bio lavorano in armonia con la natura, rispettando i processi e i cicli naturali. Ad essi sta a cuore il benessere degli uomini e degli
Corona del sole Bio 360 g Fr. 3.10
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 febbraio 2019 • N. 08
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Idee e acquisti per la settimana
Tradizione piemontese
Novità Due storiche specialità adatte anche al consumo da parte delle persone celiache vanno ad arricchire
l’assortimento di Migros Ticino
Marchio storico dell’industria dolciaria italiana, Novi nasce nel 1903 a Novi Ligure e da sempre produce finissime specialità di cioccolato. Tra i prodotti faro dell’azienda figurano i Gianduiotti e la crema spalmabile con il 45% di nocciole. Il Gianduiotto è il classico e superbo cioccolatino della tradizione piemontese, che nella forma si rifà al profilo del cappello della popolare maschera torinese, Gianduja. Il suo caratteristico sapore è dovuto ad un ingrediente particolarmente pregiato: le nocciole del territorio. I frutti vengono meticolosamente selezionati, lavorati e torrefatti al fine di preservare intatto il loro profilo sensoriale. Una volta finemente macinate, le nocciole sono utilizzate sotto forma di pasta. Come vuole l’antica ricetta che mette in risalto il tipico gusto della pralina, la pasta di nocciole viene miscelata accuratamente al cacao in pasta, al latte intero in polvere e al burro di cacao. Il Gianduiotto non contiene aromi, né tantomeno grassi diversi dal burro di cacao. Gli amanti delle creme spalmabili al cacao e alle nocciole non potrebbero proprio farne a meno, tanto da averne sempre una bella scorta nella credenza di casa. Stiamo naturalmente parlando dell’inimitabile, profumata e saporita Crema Novi, prodotta con pochi e nobili ingredienti, fra cui ovviamente ben oltre il 45% di nocciole. Il segreto di questa cremosa bontà sta nella presenza esclusivamente di sostanze grasse naturali presenti nelle sue materie prime – ossia cacao e nocciole –, nel contenuto relativamente basso di carboidrati, nell’ottima spal-
mabilità dovuta all’olio di nocciola (grasso monoinsaturo noto per le sue benefiche proprietà), come pure nella presenza di estratto naturale di bacche di vaniglia. Per apprezzare appieno l’aroma ricco, la setosa morbidezza e l’invitante lucentezza di Crema Novi, si consiglia di conservarla a temperatura ambiente. Spalmata generosamente su una fetta di pane, mangiata a cucchiaiate ogni volta che si ha voglia di un tocco di dolcezza in più, oppure utilizzata per preparare dolci e dessert vari, come anche per farcire crêpes e crostate… Crema Novi saprà sempre conquistare golosi di qualsiasi età.
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Alnatura Smoothie Mango-Banana 330 ml Fr. 2.35
to trendy anche da noi, in verità venivano già serviti negli anni Venti del secolo scorso nei juice bar statunitensi. Accanto alle tre varietà a base di 100 percento frutta – mango-maracuja, mango-banana e bacche – la gamma presente sugli scaffali Migros annovera pure il saporito smoothie «Verde», con
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Attualità Fate il pieno di energia con gli smoothie Alnatura
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 febbraio 2019 • N. 08
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Società e Territorio La mobilità domani La nuova galleria di base del Monte Ceneri sarà inaugurata nel 2020: intervista a Riccardo De Gottardi, direttore della Divisione dello sviluppo territoriale e della mobilità
Le voci dentro Gli studi dello psicologo Charles Fernyhough sugli «uditori di voci» nella prospettiva della storia del dialogo interiore pagina 9
La lingua dei segni Pietro Celo ci parla della lingua visivo-manuale per comunicare con e tra i sordi, che in Svizzera attende ancora di essere riconosciuta ufficialmente
I mulini di Moghegno Una passeggiata in Vallemaggia per riscoprire un passato rurale legato anche al castagno
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Vivere la gioia del Carnevale
Sicurezza L’impegno di alcune associazioni
per prevenire episodi di violenza e garantire il divertimento a tutti
Guido Grilli «Carnevali in sicurezza». Risiede già nel nome l’intento, di più, il progetto, affinché il divertimento prevalga nella moltitudine di balli e mascherate e perché la violenza non trovi cittadinanza nelle corti dei regnanti e in nessun luogo mai. Livio Mazzuchelli, 69 anni, di Carnevali ne ha visti tanti e nella sua veste di presidente di lungo corso di Or Penagin a Capriasca, di rito ambrosiano, prossimo ad inaugurare la sua 119esima edizione, dal 2007 ha messo a punto un Regolamento di sicurezza al quale hanno aderito altri sei comitati: Lingera di Roveredo Grigioni, Nebiopoli di Chiasso, Carnevaa di Goss di S. Antonino, Carnevale di Maggia, Isone e di Rivera. In cosa consiste? «Nelle diffide, alla stessa stregua di quanto avviene negli stadi. Chi compie risse o altri tipi di reati viene diffidato per due edizioni. Il suo nome viene inserito sulla “lista nera” dopo un verbale e reso noto a tutti i “Carnevali in sicurezza” in rete, cosicché se questo stesso avventore viene sorpreso in altri disordini, ecco che nei suoi confronti scatta da parte nostra la denuncia penale per violazione di domicilio; mentre la vittima dell’alterco ha dal canto suo tempo tre mesi per sporgere querela di parte, a meno che non si tratti di un reato più grave per cui l’inchiesta viene aperta d’ufficio» – spiega Mazzuchelli, che fa sapere come i diffidati quest’anno siano complessivamente una ventina, ammoniti durante l’edizione dello scorso anno. «Si tratta soprattutto di giovani sopra i vent’anni. Il regolamento ha base legale. Abbiamo infatti ottenuto una consulenza giuridica dal procuratore pubblico Antonio Perugini». Dal profilo della sicurezza qual è stata l’evoluzione? «La situazione migliora di anno in anno. Queste misure adottate sortiscono vieppiù l’effetto sperato, fanno da deterrente. E va comunque detto che ci sono anche bravi giovani, che si comportano adeguatamente. Le persone che partecipano al Carnevale con altre intenzioni si riconoscono piuttosto facilmente. Il nostro servizio di sicurezza, come anche quello degli altri sei Carnevali affiliati, è gestito dalla società Rainbow. L’importanza di avere una sicurezza interna
si riscontra nell’intervento immediato, saper cioè fermare sul nascere situazioni che potrebbero degenerare. Tutti i responsabili delle diverse tendine sono inoltre muniti di radiotrasmittenti, cosicché in caso di risse o disordini improvvisi possano allertare gli agenti di sicurezza». Infondere uno spirito positivo, proprio del Carnevale, e portare all’interno delle diverse manifestazioni il proprio esempio è invece la carta che gioca ormai da dodici anni l’Associazione regnanti della Svizzera italiana (Arsi), alla quale sono affiliati oltre 130 dei circa 200 Carnevali presenti in Ticino. Dichiara il presidente, Damiano Piezzi, al secolo Re di Giumaglio: «Lo scopo del nostro sodalizio, nato nel 2007, è chiaro: conservare la tradizione dei Carnevali della Svizzera italiana e dell’Insubria, divulgare e promuovere un Carnevale basato sul divertimento sano, coinvolgente e responsabile, promuovere manifestazioni, eventi e attività di carattere benefico e senza scopo di lucro». Ma concretamente come riuscite a conseguire questi nobili intenti? «Noi non facciamo parte direttamente delle società di organizzazione dei diversi Carnevali preposti a far rispettare regole o a predisporre agenti di sicurezza. Cerchiamo di sensibilizzare il pubblico alla problematica della violenza e a promuovere gli avvenimenti a favore del divertimento e dell’allegria portando una nostra precisa filosofia. Uno dei nostri cavalli di battaglia riguarda l’organizzazione ogni anno al capannone di Pregassona del “Carnevalarsi” dedicato alle persone meno fortunate (Tavolino Magico, Unitas, Gruppo sportivi diversamente abili) che di fatto apre la stagione dei Carnevali in Ticino. Qui dimostriamo proprio lo spirito del sano divertimento, come primo chiaro segnale. Per il resto, noi 130 regnanti riuniti in associazione presenziamo ai diversi Carnevali in programma in tutto il Cantone, ognuno con corti, paggi e damigelle, così da ritrovarsi tutti insieme tra regnanti e muoverci in gruppo, portando un buon clima: si partecipa attivamente alle diverse lotterie, giochi, aperitivi, alla premiazione delle mascherine. Passiamo da una corte all’altra del Ticino per tenere viva la tradizione di re e regine. Ci uniamo inoltre, come Associazione regnanti della Svizzera italiana, ad alcuni dei nume-
Il carro vincitore della Castello Bene al corteo mascherato Or Penagin di Tesserete nel 2017. (CdT - Maffi)
rosi cortei, sfilando al fianco delle formazioni locali, partecipando al clima allegro e ai colori del Carnevale. Per noi l’impegno si protrae sino a fine marzo: partecipiamo infatti anche a Carnevali d’oltre Gottardo, dal momento che siamo membri dell’Associazione svizzera dei regnanti». Un instancabile e fondamentale impegno in Ticino a favore della prevenzione della violenza giovanile e dell’aiuto alle famiglie coinvolte, nonché per onorare la memoria di Damiano Tamagni, vittima di un omicidio nel febbraio 2008 durante il Carnevale di Locarno, arriva dall’omonima Fondazione creata pochi mesi dopo la tragedia dal padre, Maurizio Tamagni, 62 anni. «Prevenzione è la nostra parola chiave», dichiara il presidente. «Il progetto principale, che si rinnova con successo da undici anni, riguarda il concorso di disegno promosso ogni settembre in tutte le scuole Medie del
Cantone, “Un Carnevale divertente per tutti”: gli allievi devono presentare un disegno-manifesto che poi viene valutato da una giuria ad hoc e l’opera vincitrice viene stampata in una migliaio di esemplari distribuiti a tutti i Carnevali della Svizzera italiana e affisso nei treni Tilo. Quest’anno lo slogan è “Da Airolo a Chiasso senza violenza solo spasso”». «Per noi l’obiettivo interessante – evidenzia Maurizo Tamagni – non è solo il disegno, ma la promozione da parte dei singoli docenti di una riflessione con gli studenti sul tema della violenza». La vostra Fondazione elargisce aiuti mirati. Da parte vostra quali sono i criteri per decidere quali richieste di sostegno assecondare? «Sono numerosissime le richieste di fondi, da piccoli progetti – ad esempio giovani che intendono organizzare un concerto rap – a iniziative più grandi, come il sostegno della città di Lugano per il
progetto di prossimità a favore dell’inserimento dei giovani, attraverso il furgoncino mobile “TheVan” per il quale abbiamo versato un importante contributo che ha consentito all’iniziativa, che riteniamo di grande importanza, di poter proseguire. Stiamo inoltre sostenendo un altro progetto simile in alto Malcantone, attualmente in fase sperimentale. Un altro contributo significativo lo abbiamo elargito a favore della formazione dei coach di Midnight Sport in palestra il sabato sera a favore dei giovani». L’impegno personale di Maurizio Tamagni per la quotidiana lotta contro ogni forma di violenza si rinnova da lungo tempo. «Partecipo a dibattiti e vengo chiamato in diverse scuole Medie. Ogni volta si riaprono delle ferite, ma sento che il mio impegno morale è importante. Molte volte – assicura il nostro interlocutore – gli episodi di violenza sono sommersi e non si leggono sui giornali».
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 febbraio 2019 • N. 08
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Società e Territorio
Una metropolitana a cielo aperto
Mobilità La nuova galleria di Alp Transit che attraversa il Monte Ceneri sarà inaugurata nel 2020 e permetterà
di dimezzare i tempi di percorrenza tra Sopra e Sottoceneri: intervista a Riccardo De Gottardi
intravvedere un raddoppio dell’utenza entro il 2030. I viaggiatori trasportati dall’avvio dei servizi TILO nel 2004 fino al 2017 sono già peraltro più che raddoppiati, ciò che è molto incoraggiante. Un’offerta di elevata qualità consentirà al trasporto pubblico di svolgere un ruolo importante nella gestione della mobilità in Ticino.
Nicola Mazzi Il traguardo si avvicina. La nuova galleria che attraversa il Monte Ceneri di Alp Transit sarà inaugurata alla fine del prossimo anno e i lavori stanno proseguendo secondo programma. Con Riccardo De Gottardi (direttore della Divisione dello sviluppo territoriale e della mobilità del Cantone) abbiamo voluto fare il punto della situazione. Per meglio comprendere come muterà il territorio della Svizzera italiana e capire i probabili cambiamenti legati alle nostre abitudini di spostamento. Nel 2020 dovrebbe essere inaugurata la galleria di base del Monte Ceneri. A che punto siamo con i lavori e quando parte la fase di test?
I lavori avanzano secondo il programma. La Società Alp Transit Gottardo SA si trova nella fase dell’installazione della tecnica ferroviaria e conta di effettuare le prove d’esercizio nella primavera-estate del 2020 per poi consegnare gli impianti alle FFS, che a loro volta svolgeranno i test operativi. L’avvio del servizio commerciale è a oggi pianificato per il 13 dicembre 2020. Quali sono le principali novità introdotte da questo nuovo collegamento?
In parallelo alla nuova opera, che è stata progettata e realizzata tenendo conto delle più avanzate tecnologie e dell’esperienza acquisita con la galleria di base del Lötschberg e del San Gottardo, sono in corso lavori per il potenziamento della linea esistente e per l’ampliamento dei profili di tutte le gallerie. Si disporrà così di un percorso ferroviario di pianura, veloce, più corto, con maggiore capacità e con la possibilità di impiegare treni viaggiatori a due piani e di trasportare casse mobili e semirimorchi con profilo laterale fino a 4 metri. In che modo cambierà la mobilità in Ticino?
La galleria del Monte Ceneri accorcerà i tempi di percorrenza dal Sottoceneri verso le città d’Oltralpe di circa 15 minuti. Zurigo disterà da Lugano circa un’ora e quarantacinque minuti. La nuova opera consente poi al traffico regionale ticinese di assumere i caratteri
Riccardo De Gottardi è direttore della Divisione dello sviluppo territoriale e della mobilità. (Ti-Press)
La linea Alp Transit, come si sa, è monca perché la continuazione a sud di Lugano è un progetto che appartiene al futuro. Dopo la raccolta firme si è mosso qualcosa a Berna? C’è qualche apertura per completare la linea? In quali tempi?
Novità
di una metropolitana. Infatti i collegamenti interni al Cantone diventeranno molto più rapidi, saranno più frequenti e confortevoli.
Quanto si accorceranno i tempi di viaggio? Può fare degli esempi?
I tempi di percorrenza tra Sopra e Sottoceneri si dimezzeranno. Tra Bellinzona e Lugano, ad esempio, saranno di circa 14 minuti e tra Locarno e Lugano di 30 minuti, senza la necessità di cambiare a Giubiasco, come avviene oggi.
Quali saranno le nuove fermate di questa linea ad alta velocità? Sono in corso lavori su altre stazioni (dopo aver terminato quelli a Bellinzona e Locarno)? Saranno pronte per quella data?
Le fermate dei treni internazionali e nazionali saranno a Bellinzona e Lugano. I servizi regionali su ferro (TILO, FLP, Centovallina) e su gomma saranno organizzati per assicurare le coincidenze in queste stazioni ed estendere i benefici della nuova opera a tutto il territorio cantonale. Ci si sta preparando da oltre un decennio all’arrivo di Alp Transit: dal 2004 i servizi sono stati regolarmente potenziati e sono state rinnovate o
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lo saranno a breve diverse stazioni: Lugano, Bellinzona, Locarno-Muralto, Paradiso, Mendrisio, Chiasso. Alcune nuove fermate sono già state attivate (Riazzino, Stabio, Mendrisio S. Martino, Castione-Arbedo) e altre lo saranno con l’apertura del Ceneri o immediatamente dopo (S. Antonino, Minusio, Bellinzona-Piazza Indipendenza).
Aumenteranno i collegamenti pubblici regionali per arrivare alle stazioni principali di AlpTransit?
La competenza per la definizione delle tariffe è delle imprese di trasporto e avviene sul piano nazionale. L’ultimo incremento è avvenuto a fine 2016. Al momento non sono note intenzioni per un nuovo aggiornamento. I vecchi treni continueranno a viaggiare o saranno sostituiti tutti? E l’attuale linea resterà o sarà in parte smantellata?
È in fase di avanzata progettazione il potenziamento mirato dei servizi su gomma urbani e regionali in tutto il Cantone a partire dal dicembre 2020. Si tratta di interventi concepiti nell’ambito dei Programmi di agglomerato con le Commissioni regionali dei trasporti, i Comuni interessati e le imprese di trasporto. L’impegno principale sarà nel Locarnese e nel Luganese dove l’incremento sarà particolarmente rilevante, dopo che nel Mendrisiotto e nel Bellinzonese sono già state introdotte importanti innovazioni a partire dal 2015. Con la nuova linea ferroviaria aumenteranno anche i costi dei biglietti? Può fare degli esempi?
I collegamenti nazionali e internazionali saranno in linea di principio svolti con nuovi e modernissimi treni denominati «Giruno». Quelli regionali lo saranno con i treni FLIRT che già conosciamo. La linea attuale sarà mantenuta. Essa, oltre che a eventuale sostituzione della nuova galleria, consente di servire la stazione merci di Lugano-Vedeggio e avrà ancora un servizio regionale per l’Alto Vedeggio. Quali le aspettative quantitative (numero di passeggeri) del Cantone sull’uso della nuova linea ferroviaria?
Le valutazioni svolte attraverso il cosiddetto «modello di traffico» sulla base degli scenari di sviluppo della popolazione e dell’economia nonché della nuova offerta di servizi lasciano
Alp Transit è incompleta nel senso che manca una nuova linea tra Biasca sud e Camorino (il cosiddetto aggiramento di Bellinzona) e a sud di Lugano fino al confine. Anche a nord, fino a Basilea, non sono state ancora predisposte linee nuove. Ciononostante la capacità del sistema che «combina» le nuove opere con la linea esistente potenziata permetterà un considerevole aumento della capacità e della qualità dei servizi (velocità più elevata, treni più lunghi e più pesanti, carrozze a due piani). La realizzazione dell’intero completamento da confine a confine comporta costi molto elevati, dell’ordine di grandezza di una ventina di miliardi di franchi, di cui poco meno della metà in Ticino. Constato che oggi l’attenzione politica a livello federale è rivolta alla direttrice est-ovest. Nei Paesi vicini non si intravvedono peraltro impegni vincolanti per approntare capacità supplementari mentre il Brennero è in costruzione e tante incertezze sono ancora presenti sul nuovo corridoio del Moncenisio tra Francia e Italia. Un nuovo impegno per l’asse nord-sud, inevitabilmente molto rilevante, non sembra possa avere seguito nell’immediato. Il Consiglio di Stato ha chiesto tuttavia di avviare la progettazione. Le recenti proposte del Consiglio federale per il prossimo pacchetto misure per lo sviluppo della rete entro il 2035, il cui costo ammonta per tutta la Svizzera a circa 12 miliardi di franchi, è attualmente al vaglio del Parlamento. Annuncio pubblicitario
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Società e Territorio
Tutte le nostre voci
Psicologia Charles Fernyhough ha studiato gli «uditori di voci»
nella prospettiva della storia del dialogo interiore
Lorenzo De Carli Pressoché perfetta, «River» è una miniserie televisiva prodotta nel 2014 dalla BBC. Attore principale è lo svedese Stellan Skarsgård nel ruolo dell’investigatore John River. Fin dalle prime scene lo si vede lavorare in coppia con la collega Jackie «Stevie» Stevenson, che siamo persuasi esistere per quasi tutto l’intero primo episodio, fintantoché, lei girandosi di fronte alla camera, ne vediamo la nuca sfracellata. A questo punto ci rendiamo conto che River s’intratteneva con l’allucinazione di una collega defunta. Siccome soffre di un profondo turbamento causatogli dalla morte della collega, River ha l’obbligo di recarsi con regolarità dalla psichiatra consulente della polizia e, nel corso delle sedute, lascia emergere la sua storia di «ascoltatore di voci». Nella finzione filmica, le voci che River sente hanno un corrispettivo allucinatorio nella fisionomia delle persone cui esse appartengono: tutte persone defunte che lo aiutano ad interpretare le complesse situazioni nelle quali s’imbatte; ma per la psichiatra quello di River è il caso di un «uditore di voci» e lo incoraggia a raggiungere, a Londra, un gruppo di persone anch’esse uditrici di voci. L’esistenza di simili gruppi non è una finzione e il loro ruolo è studiato da uno dei ricercatori più autorevoli tra quanti studiano l’esperienza di chi sente voci: Charles Fernyhough. Formatosi come psicologo dello sviluppo, Fernyhough insegna Psicologia alla
Durham University e dirige «Hearing the Voice», un progetto di ricerca sulle voci interiori che gli ha consentito di accedere a risultati sperimentali di grande interesse condotti facendo ricorso a tecniche di Neuroimaging funzionale. Raccogliendo i risultati delle sue ricerche sul campo, delle sue osservazioni sperimentali ed integrando queste nozioni con la ricerca storica, Fernyhough ha scritto una storia del dialogo interiore intitolata Le voci dentro. In una intervista dedicata al suo personaggio, l’attore Stellan Skarsgård ebbe a dire che, dal punto di vista della verosimiglianza con quanto accade nella realtà, John River è poco realistico perché, di solito, chi sente le voci essendo schizofrenico, è privo di quell’empatia che, viceversa, caratterizza il detective protagonista della serie tv. In realtà, spiega Fernyhough, la questione è un po’ più complessa perché chi «sente le voci» compie un tipo di esperienza distribuita lungo uno spettro di variabilità molto esteso. Tra i tanti casi descritti da Fernyhough, molti sono soggetti che, pur facendo occasionalmente esperienza di sentire voci, non sono a tal segno psichicamente dissociati da non poter entrare in empatia con altri, sicché il personaggio interpretato da Skarsgård è assai più verosimile di quanto l’attore non ritenga. Charles Fernyhough è uno psicologo che conosce la sofferenza dei soggetti che sentono voci dentro di loro. Tutti i pazienti da lui esaminati hanno subito traumi, per venire a capo dei
quali la loro mente ha messo in atto processi dissociativi. Tuttavia, sebbene l’autore di Le voci dentro sia bene consapevole che l’argomento affrontato nel suo studio è motivo di tanta sofferenza, ciò che si propone di fare, osservato che «altre esperienze comuni a tutti noi implicano una sorta di disconnessione con la realtà, come per esempio sognare o fantasticare», è comprendere per quale ragione nella mente sofferente emergano proprio delle voci. Per trovare una spiegazione al fatto per cui «le voci» sono una strategia della mente per contenere gli effetti devastanti dei traumi, Fernyhough ritiene fondamentali le osservazioni dello psicologo sovietico Lev Semënovič Vygotskij. Sottolinea con forza la rilevanza che il «dialogismo» svolge nell’opera di Vygotskij: è nel dialogo con gli adulti che apprendiamo il linguaggio ed è proprio conservandone la natura dialogica che lo introiettiamo, facendolo nostro. In virtù di questa natura dialogica i bambini, comunicando con sé stessi, usano il linguaggio con funzione autoregolativa (per esempio dicendosi come dovranno sistemare i pezzi di Lego), mentre lo sportivo adulto dialogherà anch’egli con sé stesso per indirizzare la sua attenzione verso l’esecuzione di un particolare gesto atletico. L’esempio dello sportivo, estensibile alla nostra vita quotidiana, permette a Fernyhough di rilevare che ognuno di noi sente la propria voce interiore orientarlo in un modo o nell’altro, e che questa voce, a volte, può essere anche
L’attore Stellan Skarsgard nei panni dell’investigatore River, ascoltatore di voci.
in competizione con altre voci portatrici di prospettive diverse. Ciò accade non perché – se equilibrati – abbiamo più personalità, ma perché la natura del linguaggio è fondamentalmente dialogica, e il nostro «io» è una sorta di centro di gravità di una narrazione ininterrotta, dove le voci s’intrecciano in una polifonia che ricordano le pagine dello scrittore José Saramago. Fernyhough ipotizza che queste voci sentite dentro da chi soffre sono una sorta di «errore di attribuzione»: il soggetto, cioè, assegna a un’entità che non è lui l’enunciazione dei discorsi che lo sopraffanno, ma ammette che «rimane da capire per quale motivo un ricordo traumatico venga percepito come una
voce». Nella prospettiva dello psicologo inglese, tra il soggetto sano e il soggetto che soffre non c’è una netta discontinuità perché entrambi sono immersi nel flusso del linguaggio: «i nostri Sé vengono costantemente costruiti e ricostruiti in modi che spesso funzionano bene, ma che spesso collassano»; in quel momento, il dialogo interiore che ci aiuta a prendere le decisioni difficili e ci aiuta a risolvere problemi complessi, è come se prendesse vita propria occupandoci l’intera mente – esperienza che nel suo studio Fernyhough cerca nella vita di filosofi e di mistici, così come di scrittori e pittori, persuaso che il dialogo interiore è quanto meglio ci contraddistingue come specie. Annuncio pubblicitario
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Società e Territorio
Parlare con le mani
La lettura crea legami
presso la Federazione svizzera dei sordi e Direttore pedagogico del Centro oto-logopedico all’Istituto Sant’Eugenio di Locarno
prima volta Prix Chronos arriva nella Svizzera italiana
Concorso Per la
Lingua dei segni Incontro con Pietro Celo formatore per interpreti, consulente
I nuovi media (tv, videochat, filmati su youtube...) hanno contribuito alla diffusione della Lingua dei segni. (FSS)
Alessandra Ostini Sutto Lingua dei segni, la maggior parte delle persone ha una conoscenza vaga o superficiale di questo mezzo di comunicazione usato dalle persone sorde o dagli udenti che vogliono rapportarsi con esse. Non tutti sanno, per esempio, che si tratta di una vera e propria lingua, dotata di una grammatica e declinata in numerose versioni, che corrispondono alle varie nazioni, quando non addirittura regioni. «Quella dei segni è però una lingua in assenza di suoni: si agisce con le mani e si “sente”, si capisce, attraverso la vista. Se nelle lingue parlate la modalità di trasmissione della comunicazione è acustico-vocale, nella lingua dei segni essa è visivo-manuale», afferma Pietro Celo, consulente di Lingua dei Segni presso la Federazione svizzera dei sordi (SGB-FSS) e Direttore pedagogico del Centro oto-logopedico Istituto Sant’Eugenio di Locarno.
La Svizzera è uno dei pochi Paesi europei a non riconoscere ufficialmente le proprie lingue dei segni I segni sono spesso intuitivi e ricordano i gesti che vengono fatti quando si vuole mimare qualcosa. «Non c’è una corrispondenza diretta con le lingue vocali: ci sono singoli segni che possono esprimere un concetto che in italiano va detto con più parole, mentre vi sono termini particolarmente densi per i quali occorrono più segni», continua Celo, che è pure progettista e formatore di corsi per interpreti di Lingua dei segni (presso la SUPSI, la Scuola Club Migros e l’OPPI di Milano). Per chi avesse a questo punto la curiosità di provare a tradurre qualche parola in questa lingua poco conosciuta, sul sito della SGB-FSS (www. sgb-fss.ch) è a disposizione un pratico dizionario: basta immettere il termine nel campo di ricerca e appare un breve video che mostra il segno corrispondente. Per comunicare con persone di diversa provenienza, i sordi utilizzano la
lingua dei segni americana oppure quella internazionale. Quest’ultima è stata artificialmente creata per tale scopo, un po’ come si voleva fare con l’Esperanto per le lingue orali. Tutte le altre lingue dei segni sono invece lingue storico-naturali, nel senso che si sviluppano all’interno di una comunità praticante, come accade per le lingue vocali. Formando una minoranza linguistica, le persone non udenti tengono fortemente alla vita di comunità, ed è generalmente in questo contesto che apprendono spontaneamente la lingua dei segni. «La lingua dei segni italiana – quella di cui mi occupo – è una lingua che nasce, strutturata come la conosciamo adesso, tra la metà e la fine del Settecento negli Istituti per sordomuti in Italia», spiega il docente, interprete e traduttore della Lingua dei segni. Successivamente, i suoi utenti cominciano ad usarla al di fuori della loro comunità, per esempio nei circoli, presso le associazioni o semplicemente al bar. La sua storia non fu però sempre rosea. Un po’ in tutto il mondo la lingua dei segni visse infatti un lungo periodo di repressione: «Il punto di svolta fu il congresso mondiale che si tenne a Milano nel 1880, nell’ambito del quale gli educatori decisero di ritenere la lingua dei segni un modo di comunicare troppo primitivo, non adatto a sviluppare l’intelligenza degli esseri umani. Negli Istituti si passò ad un insegnamento di tipo oralista e la lingua dei segni divenne clandestina, utilizzata cioè dai sordi in occasioni private, al di fuori dell’ufficialità della scuola», spiega Pietro Celo. Soltanto negli anni 80-90 del Novecento, fu riconosciuto il valore sociale, grammaticale e linguistico di questo strumento di comunicazione. La volontà, poi, di far conoscere questa lingua anche agli udenti, è stata spontaneamente favorita dall’avvento dei nuovi media, con i quali la componente visiva acquista importanza. «L’interpretazione nella lingua dei segni in televisione, la possibilità di effettuare videochiamate o partecipare a videochat sul telefonino o ancora la diffusione di filmati su YouTube, hanno contribuito ad una diffusione del modo di comunicare delle persone non udenti, oltre ad aver migliorato la qualità della loro comunicazione», afferma l’esperto.
Anche se la Svizzera non effettua rilevamenti statistici specifici, si stima che siano circa 10mila le persone affette da sordità profonda, il che corrisponde a meno dello 0,1% della popolazione. A queste si aggiungono le circa 600mila che hanno una debolezza d’udito. La comunità della lingua dei segni – nelle tre versioni nazionali – conta almeno 20mila persone. «Paradossalmente nella Confederazione ci sono più utenti delle lingue dei segni che parlanti del ladino», continua il linguista. Nonostante questi dati, la Svizzera è rimasta uno dei pochi paesi del continente europeo a non riconoscere ufficialmente le proprie lingue dei segni. La Federazione Svizzera dei Sordi auspica che la Confederazione decida di intraprendere questo passo. Quale organizzazione mantello, la SGB-FSS si impegna affinché vengano eliminate le barriere con le quali si scontrano tuttora le persone audiolese. «Quello di cui bisognerebbe rendersi conto è che questo sarebbe un atto di civiltà che la società fa prima di tutto per sé stessa. La società dovrebbe accogliere tutti, quindi cresce e diventa civile nel momento in cui fa le cose per tutti», commenta Pietro Celo, che conosce bene quello di cui parla, essendo figlio udente di due genitori sordi. Tra i progetti portati avanti dalla Federazione, segnaliamo il Café des Signes, che trasforma, per alcune ore, un ristorante o un bar in un luogo d’incontro tra persone sorde (che, per l’occasione, lavorano per l’esercizio pubblico) e udenti (i clienti). «Per la durata del caffè si utilizza esclusivamente la lingua dei segni; chi non la sa, ci prova e comunque può, per una volta, percepire la vita di chi non sente», commenta Celo, «restando in tema, proprio in questi giorni c’è stata la proposta di fare un Cafè des Signes alla buvette del Parlamento a Bellinzona, che speriamo vivamente si possa concretizzare a breve». La comunicazione, per le persone sorde, non corrisponde però unicamente alla lingua dei segni, anche perché, ovviamente, quest’ultima concerne soltanto la dimensione dell’oralità. Per leggere e scrivere essi usano l’italiano e sono quindi, in questo senso, bilingui. Una parte delle persone sorde usa, a volte, l’italiano pure per esprimersi: «Spesso si tratta di un italiano un po’ difficol-
toso perché chi lo parla, in questo caso, non è in grado di sentire sé stesso», afferma Pietro Celo. Terza opportunità di cui dispongono i non udenti è la lettura labiale, che in genere è complementare alle precedenti. Anche se l’interlocutore parla di modo lento e chiaro, le persone sorde riescono infatti a captare solo parte delle parole pronunciate e sono molte le variabili che rendono ulteriormente difficile la comprensione, come una luce sfavorevole o la presenza dei baffi. Inoltre la lettura labiale è molto stancante e non si addice a discorsi lunghi, complessi o che trattano argomenti sconosciuti. Per questi motivi, i bambini fanno molta fatica a leggere le labbra. Quello che però più conta, per loro, è che entrino il più precocemente possibile in contatto sia con la lingua dei segni che con quella parlata, dal momento che la maggior parte dell’apprendimento linguistico avviene in età prescolare. Per venire in aiuto alle famiglie, la FSS propone dei corsi a domicilio, nell’ambito dei quali tutti i membri apprendono la lingua dei segni, affinché sia possibile comunicare sin da subito. Oltre a ciò, l’insegnante – che funge da modello d’identificazione per il bambino audioleso – è a disposizione per rispondere alle domande della famiglia. La Federazione svizzera dei sordi propone poi dei corsi per imparare la Lingua dei segni in collaborazione con la Scuola Club Migros. «Attualmente proponiamo corsi di primo e secondo livello, cioè A1.1 e A2.2, e nel giro di qualche anno vorremmo arrivare almeno al livello B.1 del Quadro comune di riferimento per la conoscenza delle lingue, riconosciuto internazionalmente», puntualizza il linguista. Questi corsi sono frequentati prevalentemente da persone udenti, che apprendono la grammatica e i singoli segni, ma soprattutto entrano in contatto con un sistema linguistico-visivo per loro nuovo. Le persone segnanti pensano infatti tramite immagini e per gli udenti ciò rappresenta un’enorme sfida a livello d’apprendimento. «Oltre a ciò, FSS e Scuola Club Migros portano avanti un interessante progetto di formazione di interpreti della lingua dei segni, in collaborazione con la Scuola intercantonale di pedagogia curativa di Zurigo», conclude Pietro Celo.
«Leggere insieme, stupirsi insieme» è questo il motto di Prix Chronos, progetto promosso da Pro Senectute in collaborazione con Pro Juventute e volto a incentivare il dialogo intergenerazionale attraverso i libri. Prix Chronos è, infatti, un concorso di lettura che permette a persone giovani, ragazzi tra i 10 e i 12 anni, e meno giovani di imparare a capirsi meglio proprio leggendo insieme. In Romandia e nella Svizzera tedesca, Prix Chronos è giunto alla sua 22esima, rispettivamente 15esima, edizione e vede la partecipazione di più di 4000 persone: per la Svizzera italiana invece quella di quest’anno è la prima esperienza. Ad essere coinvolte in tutta la Svizzera sono classi scolastiche, centri diurni per anziani, biblioteche, gruppi di lettura, case per anziani, ma anche nonni e nipoti. I libri proposti variano da una regione linguistica all’altra (per la Svizzera italiana ne sono stati scelti tre: Il nonno bugiardo, Weekend con la nonna e Il bambino e il falegname) ma tutti presentano storie di relazioni tra nonni e nipoti, storie di amicizie tra anziani e bambini (senza legami di parentela) oppure temi sensibili come la morte o la demenza senile. Lo scopo è quello di attivare momenti di confronto e di discussione all’interno di gruppi intergenerazionali «promuovendo in particolar modo – precisa Judith Bucher, responsabile media di Pro Senectute – gli incontri e i contatti fatti al di fuori della sfera familiare, contatti che nella nostra società si stanno diradando o fanno più fatica a crearsi soprattutto tra gruppi di generazione diversa». Nella pratica i partecipanti della Svizzera italiana si impegnano a leggere entro aprile tre libri per poi scegliere e votare il proprio preferito. Ad aprile 2019 sarà decretato l’autore vincente del Prix Chronos e verrà premiato il libro migliore. Per permettere al maggior numero possibile di lettori di partecipare Pro Senectute e Pro Juventute si avvalgono della collaborazione di partner attivi nella promozione della lettura, come biblioteche e librerie, oltre che di Bibliomedia Svizzera italiana. Le iscrizioni, le informazioni e i nomi delle biblioteche coinvolte si trovano sul sito www.prixchronos.ch/it. Dopo questa prima edizione che ha coinvolto anche una classe di ragazzi di Bienne di madrelingua italiana, l’avventura italofona di Prix Chronos continuerà a settembre con l’inizio del prossimo anno scolastico. / Red.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 febbraio 2019 • N. 08
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Società e Territorio
La selva, le castagne e i mulini Vallemaggia I sette mulini di Moghegno, testimonianza
di un passato rurale in cui il castagno aveva un ruolo fondamentale Elia Stampanoni Castagno fa subito rima con Malcantone, ma anche altre regioni e valli della Svizzera italiana sono strettamente legate a questo frutto e hanno avviato progetti per il recupero e la valorizzazione di selve o altre attività ed esso legate. In ottobre, in Valposchiavo, c’è per esempio stata la Sagra della castagna, un appuntamento fisso nell’agenda che quest’anno ha pure accolto le celebrazioni per il decimo anniversario del riconoscimento della Ferrovia retica come patrimonio dell’umanità. A Moghegno, in Vallemaggia, il locale patriziato sta invece continuando a lavorare su un progetto che vuole contribuire alla valorizzazione dell’intera filiera del castagno, di cui un tassello fondamentale è la selva a ridosso della zona dei Mulini, a pochi passi dalle ultime case abitate e lungo la strada agricola forestale che congiunge Moghegno e Lodano (la strada «dal Törn»). Si tratta di un’area di circa 2,3 ettari, recuperata dall’abbandono già nel 2008. La superficie in questi anni è stata gestita dalla famiglia Yerli, proprietaria di un’azienda agricola biologica, che si è occupata della manutenzione e, quando possibile, anche della raccolta dei frutti. La zona, particolarmen-
te rocciosa, non ha di certo facilitato il compito dell’allevatore che, giunto alla pensione, nel 2016 ha passato il testimone al giovane agricoltore Giacomo Poli, pure lui di Moghegno, che si occupa attualmente della selva con i suoi 119 alberi di castagno.
La particolarità di quattro mulini è che sono a ruota orizzontale, l’acqua scorre sotto gli edifici Nel progetto del patriziato sono rientrati anche oltre 400 metri di muri a secco, ricostruiti nella zona «ai Mulitt», dove a caratterizzare il territorio, come suggerisce il nome, sono i sette mulini presenti che sfruttano o sfruttavano la forza del torrente (l’ultimo è rimasto in funzione fino agli anni 90 circa). Si possono notare percorrendo il citato cammino che da Lodano conduce a Moghegno e sono quasi aggrappati alla montagna, inglobati in un brullo paesaggio fatto di rocce, sassi e tanto bosco. Nel 2014 il patriziato ha inaugurato il ripristino dei due mulini di sua proprietà: «Un edificio era parzialmente crollato, mentre dell’altro esistevano
ancora i muri e il tetto, ma in pessime condizioni – spiega Daniele Binsacca del Patriziato di Moghegno – Il restauro è stato possibile anche grazie alla collaborazione di alcuni apprendisti della ditta AGIE che hanno fabbricato le parti metalliche dei mulini, come la ruota per esempio, sostituendone l’originale costruita in legno». Il Mulino Franscioni è inoltre stato dotato di tutte le attrezzature necessarie per essere di nuovo funzionante. Una volta la campagna di Moghegno era infatti coltivata con frumento, segale e granoturco che, analogamente alle castagne, venivano macinati in questi mulini. L’altro mulino del patriziato è adibito a deposito, mentre i restanti cinque sono di proprietà privata, più o meno integri, in fase di restauro oppure, uno, trasformato in abitazione. «La particolarità dei quattro mulini più in alto – spiega Binsacca – è che sono a ruota orizzontale, ossia la forza dell’acqua viene (o veniva) trasmessa al mulino tramite una ruota posta orizzontalmente al suolo e non tramite la più classica ruota verticale». Nel sistema di ruota orizzontale l’acqua deve poter scorrere al di sotto degli edifici e i mulini sono pertanto dotati di un passaggio alla loro base dove viene deviato il ruscello. Il progetto del patriziato si è protratto negli anni
I mulini di Moghegno. (Elia Stampanoni)
con piccoli ma importanti accorgimenti che vogliono consentire di macinare una parte delle castagne raccolte ed essiccate, un processo finora non sempre possibile. Oltre alla selva e ai mulini in zona «Bagnadüü-Mulitt» c’è poi la grà in paese che ogni anno torna in funzione. L’iniziativa è di un gruppo di lavoro il quale, nel 2005, ne ha rilanciato l’esercizio, permettendo di caricarla di nuovo con i frutti raccolti nei boschi circostanti da ragazzi delle scuole o da privati. Parallelamente il Centro Natura Vallemaggia (CNVM), che ha assunto negli ultimi anni il ruolo di coordinatore, propone attività didattiche attorno allo scarico e alla battitura e ogni autunno coinvolge una decina di classi. La macinatura avviene per ora invece al mulino di Loco, in valle Onsernone, che ben si presta al frutto del castagno. Tutte attività che oggi il gruppo di lavoro e il CNVM ripropongono a
scopi didattici e culturali, inglobando anche la visita alla selva e ai mulini, mantenendo viva una tradizione e valorizzando le risorse del territorio. Moghegno e la sua grà, una delle prime ad essere ristrutturare e rimesse in esercizio (già nel 1983), sono pure tappa di uno dei percorsi pedestri della serie Sentieri di pietra, edito da Vallemaggia Turismo, APAV (Associazione per la protezione del patrimonio artistico e architettonico di Valmaggia) e Vallemaggia pietraviva, che transita proprio a ridosso dei mulini: «Moghegno ha il nucleo antico adagiato ai piedi di una parete rocciosa e una bella e ampia campagna distesa davanti a sé» leggiamo sull’opuscolo. «Altre testimonianze della civiltà rurale caratterizzano il villaggio: il fontanone scavato direttamente nella roccia, i mulini, il grande lavatoio e le grà». Un ulteriore spunto per visitare i sette mulini e tutto quanto ruota attorno all’affascinante mondo del castagno. Annuncio pubblicitario
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Società e Territorio Rubriche
Lo specchio dei tempi di Franco Zambelloni La vita in immagini La nostra epoca viene ormai designata anche come «la civiltà dell’immagine»; definizione inconfutabile, perché certo nessun periodo storico è mai stato così straripante di immagini come il nostro. La storia delle raffigurazioni – artistiche e sacre – attesta un atteggiamento ambivalente nei confronti dell’immagine: a volte accolte con entusiasmo come esaltazione della bellezza, o di figure di potere e di uomini illustri; a volte, invece, esecrate come forme di culti idolatrici e quindi condannate da tutte le correnti iconoclaste che si sono succedute sul fondamento della Bibbia e del Corano. «Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra»: così si legge nell’Esodo biblico. Poi, però, nella cultura cristiana questo rifiuto delle immagini è venuto meno, e così oggi possiamo ammirare gli
splendidi affreschi di tante cattedrali, le decorazioni dei palazzi rinascimentali, i ritratti di pontefici, nobili e sovrani che, soprattutto a partire dal Cinquecento, affidavano ad artisti insigni l’esaltazione della loro magnificenza e il permanere del loro ricordo. Ma quelle immagini erano dei capolavori che richiedevano talento e fatica: Michelangelo ci mise quattro anni ad affrescare la volta della Cappella Sistina; oggi con un apparecchio digitale basta premere un tasto e hai subito un’immagine. Così, dall’avvento della fotografia in poi le immagini si sono moltiplicate in quantità vertiginosa; poi è venuto il cinema, poi la televisione, i tabelloni pubblicitari; e oggi Internet, gli smartphone, i giornali ci offrono un flusso ininterrotto di immagini che stravolgono i canoni della trasmissione culturale. Potrebbe sembrare solo uno dei tanti cambiamenti che contraddistinguono il nostro tem-
po incalzato dal progresso tecnologico; ma in realtà credo che il cambiamento, in questo caso, sia più profondo, perché non riguarda soltanto il mondo esterno, affollato di immagini, ma anche l’interiorità dell’uomo. La comunicazione, in passato, era affidata principalmente alla parola; oggi è l’immagine il mezzo a cui si tende ad affidare prevalentemente l’informazione. Si pensi ai messaggi pubblicitari: certo, la chiacchiera di sottofondo spiega le offerte meravigliose che non si possono perdere, ma sono le immagini a suscitare il desiderio: immagini di felicità, di amore, che fanno sognare una vita meravigliosa, affetti intensi e – naturalmente – l’acquisto del prodotto pubblicizzato. Negli SMS e nella posta elettronica le icone di faccine sorridenti, dispiaciute o rabbiose, rimpiazzano una frase scritta che certo sarebbe più impegnativa, ma assai meno anonima e stereotipa.
«In principio era la Parola», dice il testo sacro; ma poi sono venute le immagini e hanno prevalso. In effetti la parola, il linguaggio, agli albori della civiltà sono stati il canale di sviluppo del pensiero, lo strumento che ha consentito la riflessione, oltre che la comunicazione: dalla parola hanno avuto origine pensieri, miti, teorie e sogni. L’immagine, al contrario del linguaggio, è prevalentemente passiva: per lo più si lascia assaporare per qualche istante e poi è subito sostituita da un’altra. Così, a giudizio di alcuni studiosi, l’interiorità riflessiva va indebolendosi a favore dell’esteriorità visibile: non sorprende, dunque, che numerose ricerche attestino il progressivo declino delle competenze linguistiche un po’ in tutto l’Occidente. In un libro appena apparso, La morte si fa social, il filosofo Davide Sisto avanza poi considerazioni non infondate sul fatto che, vivendo sempre più immer-
si nel mondo virtuale di Facebook, Instagram, WhatsApp, non solo la vita si va trasformando, ma anche la morte: in un certo senso, la morte non esiste più, ma al tempo stesso siamo circondati dai morti, le cui immagini e i cui messaggi irrompono sugli schermi dei cellulari e sui monitor del computer. «Moriamo, – scrive Sisto – ma continuiamo ad esistere nella presenza ineliminabile della nostra vita passata online». Non è una grande consolazione, ma è comunque la forma di sopravvivenza che in passato era possibile solo per i nobili che si facevano ritrarre da grandi artisti, o per i letterati che affidavano alle loro opere quella speranza di immortalità che il poeta Orazio celebrava cantando: «Non tutto morirò». C’è però una bella differenza tra il sopravvivere nell’ammirazione di molti lettori e l’apparire post mortem in un blog a qualche curioso di passaggio in Rete.
cento chili di tufo calcareo e perdendo diciotto specie di piante. In realtà tutto sembra sia stato preservato da restauri cretini e la fontana della Oppenheim vive la sua vita. Come ha fatto la giovane Meret partendo da Berlino per Parigi. Musa di Man Ray, al di là della colazione in pelliccia – comprata già all’epoca dal lungimirante MoMA di New York per duecento franchi – molti l’hanno in mente immortalata nuda al volante dell’erotizzato torchio per stampa, con il palmo della mano sporca d’inchiostro vezzosamente sulla fronte. La bellezza di questa fontana, sorta come regalo di Berna per i settant’anni dell’artista svizzera che ha vissuto per anni nella capitale, dimora proprio, mi sa, in queste concrezioni calcaree fuori controllo simili al cancro arboreo. Non tutti i bernesi però la vedono di buon occhio, a tanti, apertamente o meno, non è mai andata a genio. «Scheissdreck» mi risponde senza peli sulla lingua uno spazzino interpellato per un suo rapido parere. Il collega rincara la dose, i due con l’Oppenheim-
brunnen ce l’hanno a morte. Mi dicono che crea solo sporcizia, tra terra, acqua, pezzi che si staccano, ghiaccio dappertutto. Una signora anziana una volta si è rotta una spalla cadendo. Qui vicino, a qualcuno, deve essere andata peggio. Ci sono ceri, rose, qualche foglio con su scritto qualcosa per ricordare Kilian. Un ventenne morto in cella la notte tra Natale e Santo Stefano. Infatti la Waisenhaus qui davanti, ex orfanotrofio che dà il nome a questa piazza da mercato, oggi è la sede della polizia: abuso di anfetamine, dicono. Oltre all’idea di un faro disertato preda di vegetazione d’azzardo, mi viene anche in mente un nido per cicogne allucinate, una roccia eremitica vista secoli fa in un quadro di Hieronymus Bosch, un palo per la coltivazione delle piccole cozze atlantiche. Mi serve, presto credo, un tazzone di caffè-crème. In men che non si dica sono alla Turnhalle. Bar arioso con anelli ginnici e lampadari a corona dove la sera fanno concerti e che in origine, come dice il nome, era una palestra ginnasiale di fine Ottocento.
rose tappezzerie tipica dei club per gentiluomini della Londra del 1700, le condizioni per accedere a Norn rimangono esclusive: ci si può iscrivere ai salotti tematici online oppure offline – se ci si trova nelle vicinanze – pagando una quota di 571 euro l’anno, mentre risiedere in una delle esclusive residenze per un minimo di tre mesi ha un costo che si aggira sui 17’000 euro. Il costo è elevato ma l’esperienza umana unica, assicura Hollingsworth. Le residenze coabitative Norn sono prima di tutto un luogo confortevole, rilassato nel quale sentirsi a casa e, solo in un secondo momento, un club. Durante le serate a tema in cui si parla di calligrafia, ikigai, sesso o modi per massimizzare la vita romantica di coppia, gli spazi condivisi sono affollatissimi. Altrimenti, si vedono scene di normale quotidianità 3.0: giovani riuniti attorno al tavolo della cucina con i loro computer mentre in sottofondo lavora la lavastoviglie, altri in un angolo della sala impegnati in
conversazioni online. Ogni proprietà offre cinque camere da letto, spazi condivisi ampi e accoglienti, luci calde e tutto incoraggia alla conversazione, anche il lungo tavolo di legno in cucina pensato per gustare insieme cibo e conversazione. A Berlino Norn si trova in un edificio del 1906 a ovest di Kreuzberg mentre a San Francisco in una casa di ringhiera in stile vittoriano vicino a Haight-Ashbury. Edifici che un tempo erano abitazioni familiari e ora riqualificati in un’ottica di spazi aperti, flessibili che possano offrire ai millennial, alle loro menti internazionali e ai loro spiriti multiculturali spazi di vita qualitativa a ogni latitutidine. A breve sono previsti altri club a Istanbul, Amsterdam, Copenhagen, Buenos Aires e Lisbona. Connessioni genuine offline in modalità coabitazione aperta, è questa la promessa di Hollingsworth, non solo per la generazione millennial, per noi tutti, membri, se non di Norn, sicuramente della società connessa.
A due passi di Oliver Scharpf La fontana di Meret Oppenheim a Berna Idea apparentemente balorda la visita, in pieno inverno, a una fontana. Eppure, per la controversa fontana che torreggia nella Waisenhausplatz di Berna, questo è proprio il periodo più propizio. Passando di lì l’anno scorso per caso, seppure a conoscenza della sua esistenza, mi aveva lasciato a bocca aperta: uno spettacolo inaspettato tutta ricoperta di stalattiti di ghiaccio. Una tarda mattina verso metà febbraio imbocco così la Speichergasse e in pochi minuti sbuco in faccia alla fontana di Meret Oppenheim (540 m). L’effetto cascata ghiacciata leva un po’ meno il fiato dell’altra volta, ma quel pomeriggio parecchi erano i gradi sottozero e tutti i giornali parlavano di «freddo siberiano». Le stalattiti non mancano, diverse si sono già sciolte, qualcuna è caduta per terra, andando in frantumi. All’alba, prima di partire, ho controllato le temperature: tre gradi sottozero la notte poi di giorno purtroppo risale. Condizioni meteo perciò non perfettissime per lo spettacolo glaciale che rapirebbe anche il passante più frettoloso. Comunque
sono arrivato in tempo per repertoriare diversi ghiaccioli traslucidi che pendono dagli scultorei depositi calcarei. La fontana a forma di faro concepita da Meret Oppenheim (1913-1985), artista surrealista nata a Berlino e sepolta a Carona, famosa per quell’iconica tazzina ricoperta di pelliccia di antilope intitolata Le déjeuner en fourrure (1936), è cambiata molto nel corso di quasi trentasei anni. Inaugurata il venticinque novembre 1983, lungo la superficie di cemento cilindrica tutta nuda, si vedeva solo una gronda in alluminio che scendeva a spirale, spezzettata in frammenti, alla fine dei quali, sgocciolava l’acqua. Inframmezzata alla gronda a zigzag, si snodava una spirale erbosa che credo venisse in parte innaffiata, attraverso gli stacchi da un pezzetto di gronda all’altro. Con il tempo il deposito calcareo ha quasi preso il sopravvento sull’opera, alta dieci metri, crescendo a dismisura. In alto, ai piedi di una specie di tempietto, spuntano lunghi steli d’erba secca, mentre il muschio ha colonizzato tutta una zona trovando
il suo habitat verticale. Ventidue tipi di muschio sono stati identificati in questo strambo ecosistema cittadino. Mi avvicino e rischio di scivolare sulle lastre di ghiaccio attorno. Nel 2013 l’Oppenheimbrunnen è stata molto discussa. Pezzi di concrezioni erano caduti, qualcuno parlava di instabilità e pendenza da una parte tipo torre di Pisa, alcuni sostenevano un restauro radicale, altri che il mutamento e la riconquista della natura sul cemento facevano parte degli intenti dell’opera. «Potrei urlare» così si lamentava il nipote incompetente sulle pagine di «Der Bund» per il presunto degrado della fontana della zia. Una curatrice del Kunstmuseum di Berna ne elogiava invece la mutevolezza, fiancheggiata dall’ex direttore del giardino botanico che da anni ne studiava la spericolata flora difendendo a spada tratta, al di là del valore artistico, questo insolito microcosmo così com’era diventato. Alla fine della fiera, nel settembre di quell’anno, si sceglie un risanamento lieve, asportando però, secondo la «Berner Zeitung», quattro-
La società connessa di Natascha Fioretti Millennials, idee su misura per abitare il mondo Non ho mai pensato di voler essere una millennial anzi, ho sempre ritenuto una fortuna essere nata prima della fatidica soglia del 1980 e avere avuto la possibilità di conoscere ancora un mondo offline. Fino a quando, un giorno, ho letto dei club privati per millennials e di un nuovo concetto
Norn si basa sulla mobilità come stile di vita dei millennials. (Pexels)
di coabitazione per gente nomade. Gente del nostro tempo, molto spesso professionisti indipendenti che fanno del viaggio e della mobilità il loro stile di vita. L’idea è venuta a Travis Hollingsworth, un passato da analista finanziario per Goldman Sachs e direttore di Big Society Capital, un’azienda specializzata in investimenti a impatto sociale, che ha pensato di fondare Norn – un club esclusivo, multiculturale, internazionale per menti curiose che mira a costruire comunità e discorsi culturali in giro per il mondo. Sette anni trascorsi con la valigia in mano, sempre pronto a partire, Travis Hollingsworth ad un certo punto della sua esistenza ha iniziato a chiedersi qual è il motore, cosa spinge le persone a creare connessioni sociali lontano da casa. Spostarsi di città in città può essere fantastico ma anche un’esperienza solitaria se non sai come e dove trovare persone affini, like minded, che la pensano come te. Avviato nel 2017, il nome del pro-
getto non è casuale, Norn infatti è la divinità del destino, colei che bisbiglia un segreto. E stando al suo fondatore è perfetto perché viaggiare significa anche mettersi nelle mani del destino che ci fa abitare luoghi, incontrare persone, scambiare conversazioni, trovare i caffè giusti. Questo lo dico perché come molti freelance anch’io sono spesso in viaggio, oggi a Roma, e vagando per le traverse di via Barberini ho appena trovato il caffè vintage Charlotte, perfetto per i miei gusti e per lavorare qualche ora. Anche volendo nella capitale italiana i club Norn non ci sono ma se doveste trovarvi a Berlino oppure a Londra, Barcellona, Los Angeles e San Francisco, sapete dove andare. Dovete però sapere che, come per ogni club privato che si rispetti, anche in questo caso non ci si può presentare senza prima annunciarsi. Sebbene l’idea di club sia lontana anni luce dall’atmosfera misogina avvolta in soffocanti nuvole di sigaro che si impregna in vecchie e polve-
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 febbraio 2019 • N. 08
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Ambiente e Benessere Le tante sabbie del mondo Ve ne sono di molti tipi: glaciali, fluviali, vulcaniche, continentali, eoliche, marine…
Storie di bagagli Basta un ritardo, una coincidenza presa al volo, un errore nell’etichetta elettronica, ed ecco che una valigia si perde
Serpeggiando in Vallese Un reportage sui bisses d’acqua, che si snodano dentro canali appesi persino contro la roccia
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In crociera con «Azione» Hotelplan organizza un viaggio nelle acque del Mediterraneo per i nostri lettori pagina 22
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Amico intestino
Salute Una conferenza pubblica per spiegare
le malattie croniche infiammatorie enteriche all’Ospedale Regionale di Lugano, lunedì sera 18 febbraio Maria Grazia Buletti «Quando ho saputo la notizia mi è venuto il mal di pancia», «Ho agito di pancia», «Avevo così paura di salire sull’aereo che sono dovuto correre in bagno», sono alcuni esempi che ci indicano come il tratto gastrointestinale (per l’appunto: la pancia) si relazioni intimamente con la nostra sfera emotiva oltre che con il nostro corpo. Esso non possiede solo una sensibilità somatica, per questo ci è permesso di considerarlo al pari di un secondo cervello. L’intestino possiede, di fatto, il sistema nervoso più esteso dopo quello cerebrale. Nel suo best seller L’intestino felice, la dottoressa Giulia Enders ce lo spiega ampiamente: «L’intestino è un organo pieno di sensibilità, responsabilità e volontà di rendersi utile. Se lo trattiamo bene, lui ci ringrazia». E ci fa del bene, perché tra l’altro allena due terzi del nostro sistema immunitario e ricava energia dal cibo per consentire al nostro corpo di vivere. Perciò dobbiamo averne grande cura, ascoltarlo, «andarci d’accordo» e soprattutto conservarlo in buona salute. Ne abbiamo parlato con la dottoressa Vera Kessler Brondolo, caposervizio di Gastroenterologia all’Ospedale Regionale di Lugano dove questa sera, lunedì 18 febbraio, dalle 18, l’Aula Magna ospiterà la conferenza pubblica (sul sito www.azione.ch, il programma completo). Come affrontare e combattere il Morbo di Crohn e la Colite ulcerosa: due malattie infiammatorie intestinali croniche e sempre più frequenti. Per cominciare, la nostra interlocutrice riassume le importanti funzioni del tratto digerente: «È strettamente collegato al sistema immunitario, ricava energia dal cibo e possiede il sistema nervoso più esteso dopo quello del cervello». Attraverso un esempio, la gastroenterologa conferma che cervello e intestino si scambiano vicendevolmente impulsi e informazioni, in legame stretto con il sistema di difesa dell’organismo: «Se siamo in un momento di tristezza o di stanchezza, ad esempio, la nostra sensibilità si amplifica. Allora può essere che diamo maggiori input all’intestino, e di conseguenza al sistema immunitario che potrebbe andare in tilt attaccando a sua volta l’intestino e il suo contenuto che non riconosce più come parte del corpo, bensì come un estraneo». Un sistema immunitario confuso, che «se la prende con l’intestino» e non reagisce verso cause esterne come possono essere il raffreddore, l’infe-
zione al dito e quant’altro, creando un sovraccarico fisico ed emotivo che potrebbero sfociare nel malessere o nella malattia. Diverse possono essere le manifestazioni patologiche di questo importantissimo organo: «Dalla gastrite al reflusso gastro esofageo, che sono piuttosto frequenti, al colon irritabile, diarrea, ulcera, tumori del colon e malattie infiammatorie intestinali come il Morbo di Crohn e la Colite ulcerosa». Queste ultime due, sono patologie infiammatorie croniche e in grandissimo aumento: «Attualmente, con circa 12mila persone che ne soffrono, si stima che in Svizzera Morbo di Crohn e Colite ulcerosa colpiscano una persona su mille; in Ticino si diagnosticano per l’uno e per l’altra da 10 a 16 nuovi casi all’anno, con pari rapporto uomodonna e un picco che si situa tra i 25 e i 40 anni. Senza però dimenticare anche i bambini e gli anziani», afferma la dottoressa Kessler che spiega sommariamente di cosa stiamo parlando, a cominciare dal Morbo di Crohn: «Esso si manifesta attraverso la diffusione dell’infiammazione in tutto il tratto digerente: può infatti comparire in differenti punti dell’intestino, per cui le zone infiammate possono direttamente confinare con quelle sane. Nelle sue fasi iniziali la malattia di Crohn potrebbe presentare pochi sintomi, per poi evolvere attraverso ricadute con un’alternanza di episodi acuti e periodi più lunghi meno sintomatici e infiammazione diffusa in tutti gli strati del tessuto intestinale; per la Colite ulcerosa, invece, l’evento infiammatorio resta limitato alla mucosa intestinale del grosso intestino o colon». È facile intuire come l’infiammazione intestinale diffusa si ripercuoterà sull’elasticità e sullo spessore delle zone interessate della parete intestinale. Poi, nel tempo: «Tutto questo, se non diagnosticato e curato adeguatamente per controllare il decorso del Morbo di Crohn, può nuocere sensibilmente al processo digestivo e all’assorbimento di sostanze nutritive, comportando poi seri problemi di salute, carenze di cui inizialmente non si comprende l’origine. Ad esempio se un bambino non cresce correttamente o ha sempre mal di pancia: dopo aver escluso cause semplici e comuni occorre indagare eventualmente anche in questa direzione». La Colite ulcerosa comporta invece sintomi più evidenti: «Diarrea con sangue nelle feci che spesso allarmano rapidamente il paziente che non esita
La dottoressa Vera Kessler Brondolo, caposervizio di Gastroenterologia all’Ospedale Regionale di Lugano. (Vincenzo Cammarata)
a rivolgersi al medico e sottoporsi alle indagini del caso». Inoltre, la gastroenterologa ci rende attenti sul fatto che entrambe queste malattie possono purtroppo essere associate a manifestazioni extradigestive: «Problemi e malattie oculari, forme di reumatismo, malattie epatiche, della pelle anche piuttosto severe, e comunque tutte invalidanti per la persona che ne soffre». Da qui l’importanza di un’anamnesi accurata e di eventuali esami diagnostici: «L’endoscopia gastrica e del colon nel caso del Morbo di Crohn, e la colonscopia nel caso di sospetto di Colite ulcerosa, con ricorso alla presa in carico multidisciplinare per le patologie manifeste collaterali». Dopo la diagnosi è importante affidarsi al gastroenterologo che appronterà un piano terapeutico farmacologico che non va abbandonato dal paziente con la remissione dei sintomi: «Quando giungiamo alla loro diagno-
si, siamo coscienti che siamo dinanzi a patologie portate avanti nel tempo, che hanno richiesto del tempo per essere scoperte, e che ci accompagneranno per tutta la vita». Di Morbo di Crohn e Colite ulcerosa non si guarisce: «Sono malattie croniche che vanno diagnosticate e trattate adeguatamente perché ci accompagneranno per la vita». Per la loro caratteristica di cronicità, la dottoressa ribadisce: «Non bisogna abbandonare le terapie adeguate appena ci si sente un po’ meglio, in quanto ci aiuteranno nel tempo a calmare la malattia con cui dovremo convivere, controllandola e limitando il più possibile le sue fasi acute con le relative carenze e complicanze derivanti da un’infiammazione cronica non controllata». Ricordiamo che sul come e il perché combattere le malattie infiammatorie intestinali, le loro manifestazioni extra intestinali, unitamente agli aspet-
ti nutrizionali ed emotivi legati a queste patologie in aumento, ne parleranno i medici specialisti lunedì 18 febbraio, all’Ospedale Regionale di Lugano, sede Civico (entrata libera) dalle ore 18.00 in Aula Magna. Per capire che un intestino sano è un «intestino felice». E soprattutto rende felici e sani pure noi.
Video intervista Sul canale Youtube di «Azione» e su www.azione.ch la videointervista alla Dr.essa Vera Kessler Brondolo.
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Ambiente e Benessere
Sabbie che rotolano da milioni di anni Alessandro Focarile Sable, sand, sabla, pisok. In tutte le lingue, la sabbia è definita ovunque nel Mondo. Dopo l’acqua, la sabbia (insieme alla ghiaia) è la materia prima più utilizzata dall’uomo in epoca attuale: 45 miliardi di tonnellate l’anno. Sono quantitativi che sembrano non abbiano fine. Ma il loro sfruttamento, ormai ritenuto eccessivo, comincia a preoccupare gli organismi internazionali che si occupano dei problemi ambientali a livello planetario. È un materiale sempre più raro e costoso.
Il minerale prevalente alla base della sabbia è il quarzo, il quale ben resiste agli agenti che producono abrasione Il Dubai, nel Golfo Persico, nonostante il fatto che si tratti di un Paese esteso su un territorio «sabbioso», ne importa dall’Australia spendendo 450 milioni di dollari USA per realizzare le sue mirabolanti e avveniristiche strutture architettoniche, creando persino isole artificiali nell’antistante Oceano Indiano. La sabbia si trova dalle gelide coste della Groenlandia, degli Oceani Artico e Antartico – alimentate incessantemente grazie allo scioglimento delle
calotte glaciali – fino alle torride coste dei tropici. Lungo fiumi e torrenti, sulle sponde dei laghi. Sabbia depositata da pochi anni (come lungo un torrente glaciale), oppure il risultato da depositi che hanno milioni di anni, come lungo le coste del Caspio. I geologi definiscono «sabbia» il materiale formato di aggregati incoerenti visibili; ad occhio nudo, di minerali di dimensioni definite. A seconda delle sue dimensioni (granulometria), la sabbia si colloca tra limo e argilla (elementi più minuti), e la ghiaia e i ciottoli (elementi più grossolani). Inoltre, può contenere anche materiale organico: frammenti di conchiglie, di ricci di mare, di coralli e di foraminiferi. La componente minerale, che costituisce in prevalenza la sabbia, è il quarzo che per la sua durezza è il più resistente agli agenti che regolano la sua resistenza all’abrasione. La sabbia può essere un istruttivo e prezioso museo di mineralogia in miniatura che racchiude materiali di eterogenea origine, composizione e natura. Sono stati classificati differenti tipi di sabbie a seconda della loro origine. Quelle derivate dall’abrasione prodotta dai ghiacciai sulle rocce (sabbie glaciali). Quelle fluviali sono il risultato del trasporto di materiali originati dall’erosione di fiumi e torrenti. Sabbie vulcaniche prodotte da una eruzione passata oppure presente. Sabbie continentali, i grani delle quali in zone de-
Turkmenistan. Campione di sabbia ingrandito, raccolto sulle rive del Mare Caspio. Sfere grigie (basalto vulcanico), le altre sono di quarzo. Inoltre, il frammento di una conchiglia. (Alessandro Focarile)
Pixinio.com
Geologia Da affascinante gioco infantile a materia prima, la più utilizzata dall’uomo in campo edile
sertiche sono progressivamente arrotondati grazie all’imponente ed efficace e permanente azione abrasiva del vento, e perciò dette sabbie eoliche. Nell’esame delle sabbie marine, le qualità delle stesse sono espresse dalle dimensioni dei grani che possono avere differenti dimensioni anche sulla stessa spiaggia grazie al gioco e alla direzione delle onde che arrivano a terra e lambiscono in permanenza la linea di risacca. Lungo le spiagge del Mare Tirreno, tra Livorno e il Capo Circeo a Sud di Roma, durante le mareggiate è depositato un vistoso cordone di pesante sabbia nerastra, i cui granuli sono frammenti di minerali di ferro (magnetite ed ematite). Dimensioni e forma possono essere più o meno arrotondati e levigati, avendo perso progressivamente la loro angolosità, grazie alla composizione chimica di singoli minerali e quindi della loro densità, e del tempo di rotolamento nell’acqua. Per esempio, le sabbie del Mare Caspio (370 mila chilometri quadrati di superficie, il più vasto mare continentale,
che in passato si estendeva dal Lago Aral comprendendo l’attuale Mar Nero), rotolano da milioni di anni, ricordando che questo bacino idrico è il residuo di quella immensa superficie d’acqua che costituiva il Mare della Tetide. Sabbie i cui grani sono perfettamente «arrotondati» (vedi foto) e ridotti a lucenti sfere in epoca attuale, anche se sono costituiti di minerali molto refrattari all’abrasione, come i vulcanici basalti, e il quarzo sempre presente ovunque. II 9 settembre 1943, la baia di Salerno a Sud di Napoli vide lo sbarco delle truppe Alleate che combattevano contro i tedeschi in ritirata. Nonostante le precedenti esperienze degli americani nelle acque del Pacifico (durante la guerra contro i giapponesi), lo sbarco a Salerno rischiò di trasformarsi in una catastrofe. Una barra di sabbia sottomarina si era improvvisamente formata entro 48 ore diminuendo il fondale di pescaggio dei mezzi da sbarco. Tale evenienza non era stata prevista dagli esperti della Marina britannica. Infatti, il pescaggio era di tre metri al massimo,
mentre la barra sabbiosa era a meno di tre metri sotto la superficie dell’acqua (W.W. Williams 1980). Si dimostrava decisiva la conoscenza delle qualità della sabbia e del gioco delle correnti entro tempi molto limitati, e quindi delle onde che giungevano a riva. Una conoscenza essenziale, per non compromettere la sorte di migliaia di soldati durante le operazioni belliche. E per concludere: non dimentichiamo che la sabbia è stato il primo materiale che serviva a noi bambini per costruire qualcosa con le nostre mani durante le vacanze al mare, oppure al fiume vicino casa. Bibliografia
** Jacques Ayer et al., Le sable, Musée d’Histoire Naturelle (Neuchâtel), 2002, 127 pp. ** Raymond Siever, Sabbia, Zanichelli Editore (Bologna), 1997, 354 pp. ** W.W. Williams, Coastal Changes, Routledge and Kegan Paul London, 1960, 290 pp. Annuncio pubblicitario
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Ambiente e Benessere
Effetti personali
Bene o male basta disegnare
Viaggiatori d’Occidente Storie di bagagli smarriti (e di ritrovamenti sbagliati)
Bussole I nviti a
letture per viaggiare
Claudio Visentin Aeroporto di destinazione, ritiro bagagli. Il nastro trasportatore si mette in movimento e poco dopo è coperto di valigie. Un viaggiatore dopo l’altro si fa largo tra la folla in attesa, riconosce il suo bagaglio e lo ritira. A volte, quando il nastro si ferma, resta soltanto una solitaria valigia in cerca del suo padrone. In un altro aeroporto intanto un malinconico passeggero vede passare e ripassare sempre gli stessi bagagli, ma mai quello che attende. È storia di tutti i giorni. Basta un ritardo, una coincidenza presa al volo, un errore nell’etichetta elettronica, ed ecco che una valigia si perde. Secondo una ricerca Sita (Société Internationale de Télécommunications Aéronautiques) è comunque un evento raro: indicativamente cinque ogni mille trasportate e il dato è in calo del 70% negli ultimi dieci anni. La maggior parte degli smarrimenti avviene in Europa, gli aeroporti americani e asiatici sono decisamente più efficienti. Solo pochi bagagli perduti poi (5%) vengono rubati o si perdono per sempre. La maggior parte (85%) ritorna ai legittimi proprietari entro due giorni, di solito sul primo volo utile della stessa compagnia, anche se alcuni, finiti nell’aeroporto sbagliato, faranno in tempo a vedere un poco di mondo. Solitamente le compagnie aeree spediscono il bagaglio smarrito direttamente a casa (o in albergo), rimborsando inoltre i passeggeri per le spese necessarie sostenute nel frattempo (massimo 1167 euro, è necessario conservare le ricevute). Nonostante sia un avvenimento poco frequente – quantomeno sulla carta – ogni viaggiatore ha una storia di valigie perdute da raccontare. «Volando da Cleveland a Denver per visitare degli amici, il mio bagaglio andò perso. Mi fu restituito una settimana dopo, esattamente un’ora prima della partenza per l’aeroporto, ormai sulla via del ritorno. Al check-in raccontai che la valigia si era smarrita per una settimana e raccomandai di averne cura. La risposta? Di non preoccuparmi: un fulmine non cade mai due volte nello stesso punto! Naturalmente la perdita del bagaglio si ripeté puntualmente e questa volta per sempre» (Simon).
«Questo libro è per tutti quelli che credono di non saper disegnare e quindi non disegnano. Alcuni non ne hanno voglia, altri pensano che sia una perdita di tempo, la maggior parte crede di non esserne capace. Forse anche tu non prendi più in mano un pennarello o una matita da quando andavi a scuola…».
A volte recuperare la valigia è come una scommessa alla roulette. (Pxhere.com)
Altre storie? Gregory doveva ricevere un prestigioso riconoscimento a Denver ma la sua valigia andò persa e arrivando di domenica trovò tutti i negozi chiusi. Alla serata di gala fu così l’unico in jeans e maglietta, davanti a duemila persone in abito da sera. Un bagaglio troppo anonimo può facilmente essere scambiato con un altro. «Sullo Shuttle dal parcheggio all’aeroporto, un vecchio prese il mio bagaglio a mano e io il suo. Mi trovai così all’imbarco senza documenti, medicine, denaro, vestiti, solo una valigia piena di mutande da uomo. Per fortuna mi lasciarono partire lo stesso e un amico all’arrivo si prese cura di me. L’anziano signore mandò poi la valigia a casa dei miei genitori, ma da allora lego vistosi nastri colorati alle maniglie» (Teresa). Per evitare molti di questi fastidi, i viaggiatori esperti infilano sempre qualche ricambio nel bagaglio a mano. Scrivere in chiaro l’indirizzo all’esterno può sembrare un’ottima soluzione, con qualche eccezione. «Avevo un contratto di lavoro per tre mesi in Cina ma la mia valigiona andò perduta nel viaggio. Non avevo niente quando arrivai in Cina. In compenso tre mesi dopo, quando tornai a casa, la ritrovai davanti
alla porta, coperta da venti centimetri di neve» (Joan). Le maggiori compagnie usano il World Tracer System per rintracciare i bagagli smarriti, cercandoli per tre mesi, ventiquattr’ore al giorno, in un database mondiale. Se dopo tre mesi il proprietario non è stato ritrovato o non l’ha reclamata, la valigia viene messa all’asta, di solito per beneficenza. La giornalista del «Telegraph», Annabel Fenwick-Elliot, ha visitato Greasby’s Auctioneers, un magazzino malandato a Tooting, sud di Londra, vicino a un cimitero, dove ogni settimana arrivano un centinaio di valigie dai diversi aeroporti inglesi. Le valigie sono messe in mostra con un numero, ma non si possono aprire prima dell’acquisto, ci si deve basare sul loro aspetto esteriore. Quelle lussuose naturalmente promettono di più (e mal che vada vi resta una buona valigia), ma meglio non offrire troppo: la casa d’aste ha già controllato l’eventuale presenza di oggetti di valore (Smartphone, Kindle, macchine fotografiche, orologi, gioielli, abiti di marca), venduti a parte (comunque a buon prezzo). Ma c’è sempre qualcuno che spera in una sorpresa, per esempio di trovare denaro nascosto
nella fodera della valigia. Alla fine Annabel acquista per cinquanta sterline una grande cassa rigida, un bagaglio verde con un finto manico in pelle di serpente e una piccola valigetta color crema retrò. Ma dentro trova solo abiti sporchi, probabilmente appartenuti a una famiglia di ritorno dalla Thailandia, e due federe rubate a un albergo. Qualche anno fa il viaggiatore statunitense Rolf Potts ha eliminato il problema alla radice, viaggiando intorno al mondo per sei settimane senza bagaglio. Le poche cose necessarie – spazzolino, dentifricio, deodorante, due bottiglie di sapone liquido concentrato, occhiali da sole, crema protettiva, macchina fotografica, carta di credito, passaporto, un solo cambio di calze, mutande e una maglietta di riserva – erano stipate nelle tasche interne di un giaccone. Rolf Potts ha apprezzato molto la libertà di viaggiare senza bagaglio ma gli ci è voluta quasi una settimana per liberarsi della seccante, istintiva paura di aver dimenticato da qualche parte la valigia; e in più di un’occasione si è trovato a guardare in giro, sotto i sedili del bus o nella camera d’albergo… alla ricerca di un bagaglio inesistente.
I grandi viaggiatori del passato hanno sempre disegnato nei loro taccuini, anche quando la fotografia era già disponibile, per fissare sulla carta il profilo di una casa, la forma di un albero, un’espressione del volto. Il critico d’arte vittoriano John Ruskin per esempio raccontò la Serenissima nel suo libro Le pietre di Venezia (1852), dove gli appunti si alternano con naturalezza a rapidi schizzi di dettagli architettonici. Anche un libro di viaggio straordinario come La polvere del mondo (1963) di Nicolas Bouvier è scandito dai semplici quanto efficaci disegni del suo fidato compagno di viaggio, il pittore Thierry Vernet. Perché disegnare se possiamo fotografare? Il tentativo di riprodurre la bellezza con la matita ci obbliga a sostare, osservare con attenzione, cogliere particolari, corrispondenze e simmetrie. E poco importa, a quel punto, se il risultato finale non è all’altezza delle nostre aspettative. Ai bambini, entusiasti e infaticabili disegnatori, non serve spiegare tutto questo. Ma con l’età adulta il piacere del disegno spesso si perde, anche per il prevalere di un giudizio troppo severo sui propri risultati. Per questo, anche se non è dedicato espressamente al disegno in viaggio (ma un capitolo insegna a Ridisegnare il mondo), il libro di Alessandro Bonaccorsi è divertente e utile per tutti i «Viaggiatori d’Occidente». Bibliografia
Alessandro Bonaccorsi, La via del disegno brutto. Riprenditi la libertà di disegnare e non smettere più!, Terre di mezzo, 2019, pp.200, € 14,00. Annuncio pubblicitario
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Idee e acquisti per la settimana
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Ambiente e Benessere
Bisses d’acqua
Passeggiata Un’escursione al «Torrent Neuf» di Savièse, antico canale d’irrigazione vallesano Romano Venziani Mi precede zoppicando, appoggiato a una stampella, André, mentre risaliamo il pendio seguendo il serpeggiare fluido di un canale, in cui scorre rumoreggiando un’acqua limpida accarezzata qua e là dagli sbaffi verde chiaro delle felci. «Mi hanno nominato répartiteur d’eau nel 1995» mi dice, orgoglioso. «È un mestiere antico e importante, lo facevano già mio nonno e mio padre e io seguo la tradizione di famiglia. All’epoca dormivo in quella cascina laggiù, perché allora c’erano anche i turni di notte, per far sì che i consorziati avessero l’acqua il mattino presto». È un omone sull’ottantina, André, curvo sulla sua stampella che sembra dover reggere il peso di tutta una vita. Una vita trascorsa accanto all’acqua, del cui defluire lui conosce ogni segreto. «Devi avere buon occhio e buon udito – continua – perché l’acqua ha un suo canto, ora tranquillo, ora gioioso. È un’armonia fluida che devi conoscere a fondo, per capire quando c’è qualcosa che non va». André Varone, quando l’ho incontrato, era il custode del bisse Torrent Neuf di Savièse, il canale d’irrigazione che disegna la montagna sopra Sion, in Vallese, scolpendo una lunga cicatrice che attraversa le pendici spoglie del Mont Prabé per poi diramarsi in un intrico di capillari sui prati del costone e, più giù, nella distesa di vigneti sovrastanti la città. È una struttura complessa, l’arco alpino, e una delle conseguenze di questa complessità è la presenza di tanti microclimi, che contraddistinguono molte delle sue vallate. Come il Vallese. Il cantone si sviluppa da est a ovest, formando un largo solco aperto tra le Alpi vallesane e quelle bernesi. Le perturbazioni, provenienti da sud e da nord spingendo nubi gonfie di umidità, si scontrano con la barriera di montagne e, risucchiate verso l’alto, si liberano del loro carico di pioggia, risparmiando la valle del Rodano, su cui l’aria ormai calda e asciutta ricade sotto forma di favonio. La regione è così conosciuta per il suo clima particolarmente secco, ideale per la coltivazione della vite e degli alberi da frutta, che necessitano comunque di acqua. Oltre a dissetarci e a rifornirci d’energia, l’acqua è il nutrimento del mito, elemento primordiale e dominante che informa il racconto mitologico di tutte le civiltà, dalla più piccola alla più grande, senza eccezioni. Tutte le idee di creazione, a qualsiasi latitudine, sono collegate alla presenza dell’acqua, che è sostanza costitutiva del mondo e di ogni essere vivente, sorgente di vita e di fertilità. E dove l’acqua non c’è, l’uomo ha fatto di
tutto per procurarsela inventando ingegnosi sistemi. In Vallese, i contadini sono andati a prenderla sulle montagne, ai piedi dei ghiacciai, dove sgorga copiosa e spumeggiante, e, per trasportarla al piano, hanno inventato i bisses, interminabili canali (questo il significato del termine nel dialetto locale) scavati nella terra e nella roccia più friabile oppure, quando ciò non era possibile, fabbricati in legno. Dal tredicesimo secolo, o forse anche da prima, i Vallesani hanno così creato una trama di canali a cielo aperto, che s’infittisce nei secoli seguenti, intersecando i versanti assetati della valle per una lunghezza totale di quasi 2mila chilometri. Un inventario allestito dal Musée des Bisses di Ayent elenca 272 bisses, in maggior parte situati nell’alto Vallese germanofono, dove sono chiamati Suonen. E forse sono proprio nati lì, grazie agli abili artigiani walser, che avevano trovato il metodo per superare le pareti strapiombanti, ancorando i rudimentali «acquedotti» di legno alla roccia e creando incredibili strutture sospese nel vuoto. Una tecnologia che i Walser porteranno con sé nel loro esodo attraverso le vallate alpine e che, tra l’altro, nei primi decenni del 1200, gli permetterà di gettare sulle temute gole della Schöllenen un’ardita passerella, aprendo così un passaggio più agevole sulla strada del San Gottardo. Il canto dell’acqua ora si è fatto più tranquillo. È diventato un lungo sospiro che mi avvolge, mentre seguo il passo lento di André lungo il canale del Torrent Neuf. Anche il sottobosco è cambiato, scomparsi i cespugli di ontano e le felci, si è aperto e la dominanza dei verdi si è dissolta nel grigio uniforme del terreno argilloso. Il sentiero che costeggia il bisse è pelato come una mano segnata da un reticolo di vene, le radici affioranti delle conifere, che ci regalano un’ombra rinfrescante e leggera. «Credo proprio che sarò l’ultimo guardiano del bisse» borbotta André. «È un peccato abbandonare una così bella tradizione, ma i giovani non vogliono farlo, perché per l’acqua non c’è né sabato né domenica. Bisogna amare il mestiere e la natura». Intanto l’anziano répartiteur d’eau ha tolto un pesante lucchetto da una saracinesca e la solleva a fatica aprendo uno stretto varco, da cui una parte dell’acqua del bisse inizia a defluire in un canale laterale. La storia del bisse del Torrent Neuf di Savièse s’intreccia con la storia del paese e dei suoi abitanti. I lavori di costruzione iniziano nel 1430 e durano 18 anni. È il primo grande periodo di realizzazione dei bisses, che risponde a nuove esigenze socio-econo-
Il canale ancorato alla roccia con a fianco la passerella per i visitatori. (R. Venziani)
Azione
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni
Illustrazione dei bisses d’acqua vallesani. Su www.azione.ch è pubblicata un’ampia galleria fotografica. (Romano Venziani)
miche. Alla metà del secolo precedente, una terribile epidemia di peste si era abbattuta su tutta l’Europa uccidendo un terzo della sua popolazione. Il Vallese, nonostante il suo relativo isolamento alpino, non sfugge al flagello. Con il calo demografico aumentano i terreni agricoli a disposizione degli abitanti scampati al contagio, rendendo possibile l’incremento dei capi di bestiame e, di conseguenza, il commercio della carne, più redditizio di quello dei cereali. La produzione di foraggio richiede però un maggior consumo di acqua, che i contadini andranno a cercare nei luoghi più remoti trasportandola sui pascoli grazie ai bisses, appunto. Quello del Torrent Neuf rimane in funzione per mezzo millennio, fino al 1934. In quel momento, l’agricoltura si fa più vorace e inghiotte quantitativi sempre maggiori di acqua. Il bisse ne porta 370 litri al secondo, ma non bastano, per cui si decide di abbandonarlo e di scavare un tunnel di quattro chilometri attraverso la montagna. La gente del posto accoglie la sua sostituzione come una rivoluzione, perché il canale a cielo aperto necessita di una regolare manutenzione, si deve ripetutamente pulirlo, sigillare le falle con rami e aghi di pino, riparare i manufatti in legno rovinati dalle intemperie, smontarli a inizio autunno, per non farli spazzar via dalle valanghe, che precipitano dal Mont Prabé, e rimetterli al loro posto a primavera. Un lavoro duro e pericoloso, che ogni tanto fa qualche vittima, come quel tale Luyet, che perde l’equilibrio e precipita per trecento metri gridando «Adieu les copains», prima di sfracellarsi sul fondo del burrone. Ogni anno, finito l’inverno, i bisses tornano a intonare la loro fluida melodia, mentre il prete benedice l’acqua sorgiva, che riprende a scorrere, e la gente festeggia con vino e raclette, in una sorta di rito propiziatorio. La gestione dell’acqua era (ed è ancora) affidata a un consorzio di proprietari che si uniscono per costruire il canale, assicurarne la manutenzione e gestirne lo sfruttamento secondo un ri-
goroso disciplinare. Ogni membro del consorzio ha diritto ad una certa quantità giornaliera di acqua, normalmente espressa in ore o frazioni di ora, e paga questi diritti in base alla superficie dei terreni da irrigare. «Questo è il registro» racconta pensoso André, mentre sfoglia un grosso quaderno. «Ogni bisse ha il suo guardiano che lo tiene aggiornato annotando i diritti di ciascun consorziato, i pagamenti, gli eventuali passaggi di proprietà, le cessioni, perché il diritto d’acqua si trasmette per eredità, ma può anche essere venduto». André, il répartiteur d’eau, soppesa con gli occhi il quaderno, soddisfatto e orgoglioso del compito che gli hanno affidato. Ogni giorno, feste comprese, apre e chiude le saracinesche, distribuisce l’acqua, controlla che scorra libera nel bisse e che nessuno se ne appropri senza averne diritto. Dei quasi duemila chilometri di bisses, 700 sono ancora utilizzati e forniscono l’80 per cento dell’acqua necessaria all’agricoltura vallesana. Il resto è stato abbandonato. Molti canali sono ormai soffocati da terriccio e sassi, ricoperti da un intrico di vegetazione, e i manufatti in legno, staccati dalle pareti strapiombanti, marciscono in fondo ai dirupi. Anche il percorso originario del Torrent Neuf di Savièse avrebbe fatto questa fine, se non fosse stato per un manipolo di appassionati, che nel 2005 fondano un’associazione con lo scopo di restaurarlo e riportarlo in vita. «All’inizio ci dicevano tutti che eravamo una banda di matti» ricorda Patrick Varone, il presidente. «Certo, c’è voluta una buona dose d’incoscienza, per immaginare il progetto, prima, e metterlo in atto poi. Ma, si sa, i Vallesani sono tenacemente fedeli al motto “Pà Caponà”, che, per la gente di qui, sta per “non mollare”». E così ne è nato uno spettacolare sentiero escursionistico, lungo otto chilometri, che segue il canale fin quasi alle sue origini, partendo da Sainte Marguerite, attorno ai mille metri di quota, dove è stata aperta un’accogliente buvette e
restaurata l’antica cappella, del 1448, eretta dai contadini dell’epoca, profondamente religiosi, come solida richiesta di protezione contro i pericoli della montagna. «Siamo contenti del risultato» racconta Partick. «È stata comunque una lezione di umiltà verso i nostri antenati, che hanno fatto un lavoro molto più imponente del nostro. E lo hanno fatto con niente». Dove il canale corre nel bosco, scavato nel terreno o nella roccia scistosa, il suo recupero è stato più semplice. Tutt’altro discorso quando si è trattato di affrontare le pareti calcaree del Prabé, che il bisse attraversava con un impressionante tracciato aereo. Il canale in legno è stato parzialmente rifatto, riproducendo ex novo i vari componenti della struttura o riutilizzando quando possibile quelli originali. I passaggi più impegnativi, a ridosso delle pareti rocciose del Prabé, si superano su tre ponti «tibetani», dai quali si può osservare in tutta sicurezza l’antico percorso del bisse. Sospeso sopra cento metri di vuoto mozzafiato, da cui mi separa solo il graticcio metallico del ponte, osservo le vecchie travi infilate nella roccia. Su ognuna è scolpita una data, l’anno in cui è stata incastrata lì da un acrobatico artigiano, e delle strane incisioni, i marchi di famiglia, che il guardiano di turno sapeva interpretare, deducendo chi aveva posato il bisse e quando la trave andava sostituita per «raggiunti limiti di età». «Non finirò mai di ripeterlo – conclude Patrick con convinzione – chi sa preservare e valorizzare ciò che il suo territorio gli offre e quanto ha ricevuto in eredità da chi lo ha preceduto, sarà in qualche modo ripagato». E l’esempio del Torrent Neuf di Savièse lo conferma. L’idea di recuperarne il tracciato, nata da un sentimento di fedeltà e di rispetto verso gli antenati e la propria storia, si è rivelata vincente, dando vita a una straordinaria attrazione turistica, creata e gestita da volontari e visitata ogni anno da centomila persone. Più del doppio dei castelli di Bellinzona.
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Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–
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Idee e acquisti per la settimana
Alnatura
Il gusto al passo con i tempi
Azione 20x punti Cumulus sull’intero assortimento Alnatura
I prodotti naturali Alnatura soddisfano il desiderio di un’alimentazione moderna e al passo con i tempi. Con loro è possibile preparare pietanze di tendenza, così come i classici più amati. Alnatura offre molti prodotti che rendono più facile seguire un’alimentazione senza carne o senza glutine
One pot pasta di ceci
fino al 25 febbraio
Per preparare un piatto di pasta senza glutine cuocete gli spirelli di farina di ceci assieme a tutti gli ingredienti che li condiranno. Rimarrete sorpresi. Per 4 persone Ingredienti 100 g di shiitake 1 mazzetto di cipollotti 1 broccolo 2 limette 5 dl di brodo 250 g di spirelli di ceci 100 g d’edamame surgelati, sgusciati 4 cucchiai di salsa di soia 2 cucchiai di sciroppo di datteri 1 mazzetto di coriandolo ½ cucchiaino di pepe di Cayenna macinato grosso
Stick di tofu al basilico impanati, serviti con una salsina saporitissima: uno stuzzichino irresistibile che farà girare la testa ai vostri ospiti
Preparazione 1. Mondate i funghi e tagliateli a striscioline. Tagliate i cipollotti ad anelli sottili. Dividete il broccolo in rosette. Dimezzate le limette e spremetele. Portate a ebollizione il brodo e cuocetevi gli spirelli per 2 minuti, incoperchiati. Mescolate la pasta poi unite le verdure e gli edamame. Rimestate bene il tutto, mettete il coperchio e continuate la cottura a fuoco basso per 6 minuti, mescolando ogni tanto.
Per 4 persone Ingredienti 400 g di tofu al basilico sale 60 g di panko 30 g di quinoa soffiata ½ cucchiaino di paprica piccante 2 cucchiai d’olio d’oliva 4 cucchiai d’amido di mais 1 dl di drink di riso con calcio 1 limone 100 g di crema di mandorle bianca 4 cucchiai d’acqua 2 cucchiai di salsa di soia 2 cucchiai di salsa dolce al peperoncino
2. Mescolate il succo di limetta con la salsa di soia e lo sciroppo di datteri, aggiungetelo alla pasta e fate ridurre un po’. Tritate grossolanamente il coriandolo e distribuitelo sulla one pot pasta. Guarnite con il pepe di Cayenna e servite.
Tempo di preparazione Preparazione ca. 30 min
Preparazione 1. Scaldate il forno a 180 °C. Tagliate il tofu per lungo a bastoncini e salateli. Mescolate il panko, la quinoa e la paprica. Aggiungete l’olio e amalgamate bene tutto. Passate il tofu prima nell’amido di mais, poi nella bevanda di riso e infine nella miscela di panko e quinoa. Premete bene la panatura sul tofu. Adagiate gli stick su una teglia foderata con carta con forno. Cuoceteli al centro del forno per ca. 20 minuti, finché non diventano belli croccanti. 2. Dimezzate il limone e spremetelo. Lavorate la crema di mandorle, il succo di limone e la salsa di soia, fino a ottenere una salsa cremosa. Incorporate la salsa dolce al peperoncino. Servite gli stick di tofu con la salsina alle mandorle.
Tempo di preparazione Preparazione ca. 20 min + cottura in forno ca. 20 min
Sciroppo di datteri Alnatura 250 g* Fr. 3.50
Spirelli di ceci Alnatura 250 g* Fr. 3.40
Quinoa soffiata Alnatura 125 g* Fr. 3.85
Tè bianco ai petali di rosa Alnatura 20 x 1,5 g* Fr. 2.70
Cracker alla barbabietola Alnatura 75 g* Fr. 2.35
Tofu al basilico Alnatura 200 g* Fr. 3.20
Crema di ceci e zenzero Alnatura 120 g* Fr. 1.95
Drink di riso con calcio Alnatura 1 litro Fr. 2.20
*Nelle maggiori filiali
5° anniversario I primi prodotti Alnatura sono arrivati alla Migros nel 2014. Da allora il numero dei prodotti della marca è costantemente cresciuto.
al natèura.ch Alnatura il marchio bio per uno stile di vita responsabile al passo con i tempi. Vengono utilizzati solo ingredienti di alta qualità e davvero indispensabili.
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Idee e acquisti per la settimana
Alnatura
Il gusto al passo con i tempi
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Stick di tofu al basilico impanati, serviti con una salsina saporitissima: uno stuzzichino irresistibile che farà girare la testa ai vostri ospiti
Preparazione 1. Mondate i funghi e tagliateli a striscioline. Tagliate i cipollotti ad anelli sottili. Dividete il broccolo in rosette. Dimezzate le limette e spremetele. Portate a ebollizione il brodo e cuocetevi gli spirelli per 2 minuti, incoperchiati. Mescolate la pasta poi unite le verdure e gli edamame. Rimestate bene il tutto, mettete il coperchio e continuate la cottura a fuoco basso per 6 minuti, mescolando ogni tanto.
Per 4 persone Ingredienti 400 g di tofu al basilico sale 60 g di panko 30 g di quinoa soffiata ½ cucchiaino di paprica piccante 2 cucchiai d’olio d’oliva 4 cucchiai d’amido di mais 1 dl di drink di riso con calcio 1 limone 100 g di crema di mandorle bianca 4 cucchiai d’acqua 2 cucchiai di salsa di soia 2 cucchiai di salsa dolce al peperoncino
2. Mescolate il succo di limetta con la salsa di soia e lo sciroppo di datteri, aggiungetelo alla pasta e fate ridurre un po’. Tritate grossolanamente il coriandolo e distribuitelo sulla one pot pasta. Guarnite con il pepe di Cayenna e servite.
Tempo di preparazione Preparazione ca. 30 min
Preparazione 1. Scaldate il forno a 180 °C. Tagliate il tofu per lungo a bastoncini e salateli. Mescolate il panko, la quinoa e la paprica. Aggiungete l’olio e amalgamate bene tutto. Passate il tofu prima nell’amido di mais, poi nella bevanda di riso e infine nella miscela di panko e quinoa. Premete bene la panatura sul tofu. Adagiate gli stick su una teglia foderata con carta con forno. Cuoceteli al centro del forno per ca. 20 minuti, finché non diventano belli croccanti. 2. Dimezzate il limone e spremetelo. Lavorate la crema di mandorle, il succo di limone e la salsa di soia, fino a ottenere una salsa cremosa. Incorporate la salsa dolce al peperoncino. Servite gli stick di tofu con la salsina alle mandorle.
Tempo di preparazione Preparazione ca. 20 min + cottura in forno ca. 20 min
Sciroppo di datteri Alnatura 250 g* Fr. 3.50
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Ambiente e Benessere
Autunno in mare
Tagliando di prenotazione
Viaggio Per i lettori di «Azione», Hotelplan organizza dal 26 ottobre al 2 novembre 2019
Desidero iscrivermi alla crociera dal 26 ottobre al 2 novembre 2019
una crociera sul Mediterraneo
Nome Cognome Via
M In omaggio a cabina, 1 carta Migros del valore di CHF 50.– con prenotazioni entro il 2 aprile 2019
NAP Località Telefono e-mail Sarò accompagnato da … adulti e … bambini (0-17 anni). Sistemazione desiderata (cerchiare ciò che fa al caso) a)
b)
c)
Il programma di viaggio
È considerata la «Regina del Mediterraneo». Stiamo parlando della nave sulla quale i lettori di «Azione» avranno la possibilità di navigare quest’autunno, dal 26 ottobre al 2 novembre. Si chiama Costa Diadema. Varata nel 2014, porterà i suoi ospiti in giro per il Mediterraneo con tappe quotidiane. In sette giorni, partendo da Savona, si fermerà a Marsiglia, Barcellona, Palma de Mallorca, Palermo e Civitavecchia per poi tornare a Savona. Il piacere della vacanza non sarà però limitato alle visite di queste perle di mare. La crociera sarà di cinque stelle dalla gastronomia all’ospitalità, dal design all’intrattenimento. Costa Diadema, infatti, offre nuovi spazi e
un nuovo modo di vivere la crociera. Sulla Terrazza del ponte 5, lunga oltre 500 metri e su cui si affacciano bar e ristoranti, ci si potrà, ad esempio, immergere nella vivace atmosfera estiva di una tipica località balneare italiana. Fiore all’occhiello della compagnia più grande D’Europa, questa nave offre le esperienze più complete, innovative e sorprendenti che si possano vivere in crociera. Affascina con i suoi diversi stili che convivono in armonia, avvolge con la maestosa e raffinata eleganza degli ambienti e delle atmosfere e infine vi coinvolge con la ricchissima offerta di attrazioni da vivere, dalle infinite proposte gastronomiche, per gustare sapori di tutto il
mondo, alla Samsara Spa più spettacolare della flotta, per il massimo del piacere e del benessere. Costa Diadema conta 1862 cabine totali di cui 130 all’interno dell’area del centro benessere. Sette sono i ristoranti, più 11 bar e 1 gelateria. La sera saranno dati spettacoli al teatro costruito su tre piani, e musica nelle varie sale. Non mancano poi casinò, discoteca e cinema 4D. Di giorno, sono variegate le attività per adulti e bambini; tra queste si può scegliere di frequentare la pista di jogging o campo polisportivo. Infine: lo Spa Samsara ubicato su quattro piani con i suoi 6200 mq, offre sale trattamenti, sauna, bagno turco e solarium.
Bellinzona
Lugano
Lugano
Viale Stazione 8a 6500 – Bellinzona T +41 91 820 25 25 bellinzona@hotelplan.ch
Via Pietro Peri 6 6900 – Lugano T +41 91 910 47 27 lugano@hotelplan.ch
Via Emilio Bossi 1 6900 – Lugano T +41 91 913 84 80 lugano-viabossi@hotelplan.ch
Sul sito web zione.ch/concorsi w.a ww » continua il «Quiz Hotelplan gio In palio buoni viag da 100.– franchi. Buona fortuna!
1 giorno Trasferimento in torpedone a Savona e partenza alle 18.00. 2 giorno Marsiglia arrivo alle ore 08.30, partenza alle ore 17.00. 3 giorno Barcellona arrivo alle ore 09.00, partenza alle ore 19.00. 4 giorno Palma de Mallorca arrivo alle ore 09.00, partenza alle ore 17.00.
5 giorno Palermo arrivo alle ore 08.00, partenza alle ore 16.00. 6 giorno Civitavecchia arrivo alle ore 08.00, partenza alle ore 19.00. 7 giorno Savona, arrivo alle 08.00 e partenza verso il Ticino.
Prezzo a persona a) In cabina doppia interna Premium: CHF 1300.– b) In cabina doppia esterna con finestra Premium: CHF 1460.– c) In cabina doppia esterna con balcone Premium: CHF 1580.–
cabina prescelta, trattamento di pensione completa e pacchetto «Brindiamo», quote di servizio, utilizzo di tutte le attrezzature della nave e partecipazione alle attività di animazione a bordo, tasse portuali. La quota non comprende Spese di dossier Hotelplan CHF 70.–, escursioni e tour organizzati; assicurazione annullamento CHF 55.– per persona, adeguamento carburante e valutario, e ogni extra non menzionato nella voce «la quota comprende».
*Attenzione: cabine singole / triple / quadruple su richiesta. La quota comprende Trasferimenti in torpedone dal Ticino a Savona e ritorno, sistemazione nella
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 febbraio 2019 • N. 08
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Ambiente e Benessere Migusto La ricetta della settimana
Insalata d’arance con cipolle speziate Piatto unico
migusto.migros.ch/it/ricette Per diventare membro di Migusto non ci sono tasse d’iscrizione. Chiunque può farne parte, a condizione che un membro della sua famiglia possieda una Carta Cumulus.
Ingredienti per 4 persone: 200 g di cipolle piccole · 1 dl di vino bianco · 0,5 dl di sherry · 1,5 dl di succo di barbabietola · 2 foglie d’alloro · 1 anice stellato · ½ cc di sale · 2 arance · 4 datteri Medjool · 3 cucchiai d’aceto · balsamico bianco · 3 c d’olio d’oliva · pepe dal macinapepe · 100 g di cicorino rosso · 50 g di crescione d’acqua · 2 c di mandorle.
1. Affogate le cipolle in acqua bollente e fate riposare per 2 minuti. Scolate l’acqua, tagliate la base con le radici delle cipolle e schiacciatele, in modo che queste sguscino fuori dalla buccia. 2. Portate a ebollizione vino, sherry, succo di barbabietola, foglie d’alloro, anice stellato e sale. Fate sobbollire le cipolle nel decotto per circa 10 minuti. Togliete la pentola dal fuoco e lasciate raffreddare le cipolle nel liquido. 3. Pelate le arance al vivo e poi affettatele. Tagliate in quattro i datteri e snocciolateli. Estraete le cipolle dal decotto e dimezzatele. 4. Mescolate 5 cucchiai di decotto con l’aceto balsamico e l’olio. Salate e pepate la salsa. Tagliate a strisce il cicorino e sistematelo su un piatto da portata assieme al crescione. Distribuitevi i datteri, le arance e le cipolle. Irrorate il tutto con la salsa. Tritate grossolanamente le mandorle e distribuitele sull’insalata. Preparazione: circa 40 minuti + raffreddamento. Per persona: circa 4 g di proteine, 20 g di grassi, 31 g di carboidrati, 280
kcal/1150 kJ.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 febbraio 2019 • N. 08
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Idee e acquisti per la settimana
Lotta contro i succhiasangue Quando finisce l’inverno i parassiti come zecche, acari e pulci ritornano nuovamente attivi. Come si possono proteggere i propri animali domestici? E come rimuovere correttamente una zecca?
te di Sue Ragg (54), Assisten ) Migros, con Bicho (19
ione delle cooperative direzione alla Federaz
La flemma e il leopardo «Bicho e Chispa sono già ben attempati, hanno 19 e 18 anni. Hanno nomi spagnoli poiché ho vissuto a lungo in Spagna. Bicho significa animale molto grande, mentre Chispa una piccola scintilla. E i nomi descrivono entrambi molto bene. Cicho è un grosso gatto e un flemmatico, veramente un gran pigrone. Chispa invece è come un leopardo, sempre in movimento, un vero predatore. Ma questo nel passato: oggi nessuno dei due è più molto in forma. Bicho ha ormai un po’ di demenza. Talvolta lo troviamo in soggiorno, disorientato, che miagola forte. Chispa è sorda e cieca. Ma esce comunque ancora in giardino e se ne va per i suoi soliti itinerari. Li conosce a memoria.
Foto zVg
Da sempre i nostri gatti sono liberi di uscire. Abbiamo un grande giardino. Siccome viviamo vicino a una strada molto trafficata lo abbiamo completamente recintato e con lo steccato per i gatti ci siamo preclusi la visuale. Abbiamo fatto veramente il possibile per loro. Ma per i membri della famiglia si vuole sempre e solo il meglio e in quanto tali vogliamo che trascorrano al meglio la fase finale della loro vita.»
1 2 3 L’animale domestico si protegge così
Le zecche possono trasmettere malattie che sono pericolose per l’uomo e gli animali. Il meglio per prevenire un’infestazione è l’utilizzo di collari antiparassitari o di preparati drop on, le fialette a gocce da applicare direttamente sulla pelle.
Rimuovere le zecche
Le zecche si rimuovono con una pinzetta o con un apposito uncino per zecche. Bisognerebbe evitare forti pressioni sul loro corpo. Con una trazione uniforme, con o senza un leggero movimento rotatorio, si evita che lo strumento utilizzato per rimuovere la zecca ferisca la cute o che la testa dell’insetto rimanga sotto la pelle.
Controllare le zecche
I cani in particolare vanno controllati dopo ogni passeggiata, dal momento che sono sensibili alle malattie che possono essere trasmesse dalle zecche. Le zecche amano i punti in cui la pelle è calda e sottile. Prestare quindi particolare attenzione a collo, testa e orecchie del cane.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 febbraio 2019 • N. 08
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Ambiente e Benessere
La forza del giovane che avanza divertendosi
Sport Holdener, Feuz, Cologna, Amman… sciatrici, sciatori, fondisti e saltatori che ci hanno regalato montagne
di soddisfazioni, ma da un paio di decenni c’è il nuovo che avanza
Giancarlo Dionisio È sempre più frequente il fenomeno che si manifesta da qualche anno sui pendii innevati di mezzo mondo. Gli sport invernali sono tornati a stimolare la fantasia oltre alla nostra vocazione sportiva per antonomasia. Fra le attività invernali stanno, infatti, spopolando, se non per numero di tesserati quantomeno per l’eccellenza dei risultati, le cosiddette discipline «fun». Dai recenti Mondiali di Snowboard e Freestyle di Park City, nello Utah, la Nazionale rossocrociata è tornata a casa con sette medaglie, di cui tre d’oro. Non c’è da stupirsi. È una storia lunga, che risale agli anni Ottanta, quando ancora si parlava di sci acrobatico e la solettese Conny Kissling fungeva da pioniere. Campionessa mondiale a Tignes nell’86, sul podio iridato altre due volte, grande specialista di acrosky, chiamato allora anche «balletto», e sublime interprete della combinata, la signora Kissling-Lehmann, consorte del presidente di Swissski, è stata il vento iniziale che, piano piano, salto dopo salto, ha scatenato una valanga di campioni e campionesse rossocrociate i quali hanno scritto la storia di snowboard, skicross, freestyle, aerials, moguls, big air, eccetera. Il fatto stesso che i nomi siano ri1 2 3 4 masti in inglese ci fa capire che gli Stati Uniti e il Canada sono stati le loro culle. 9 Nel nostro continente, Francia, 10 Svizzera e Italia sono salite sul tre-
Gian Simmen in volo con il suo snowboard. (Fanny Schertzer)
no giusto. Gian Simmen, primo oro nell’Half Pipe nel 1998, ai Giochi Olimpici di Nagano, Tanja Frieden, Daniela Meuli, Evelyne Leu, Philipp Schoch, su su fino agli eroi più recenti, come Jurij Podladtchikov, Patrizia Kummer, Fanny Smith, Nevin Galmarini, Sarah Hoefflin. Una lista che potrebbe essere anche più lunga se dovessimo includervi coloro che hanno dovuto accontentarsi 5 6 7 8 dei metalli meno preziosi. Non è facile stabilire con certezza le ragioni del successo di queste discipline. Si possono tuttavia azzardare
dalle nostre parti, si sono dotate di uno snowpark dove i ragazzini imparano a saltare, slaidare, cadere, rialzarsi. Oppure hanno disegnato una pista di moguls, le temibili gobbe, dove le articolazioni di giovani atleti che sembrano fatti di gomma sono sottoposte a sollecitazioni da brivido. Ne sanno qualcosa i due migliori freestylers della Svizzera Italiana, Marco Tadè e Nicole Gasparini. Il primo, lo scorso anno aveva in mano il biglietto per i Giochi di Pyeong Chang, ma un grave infortunio al ginocchio gli ha spento il sogno olimpico. I desideri di Nicole, pochi giorni fa, sono stati addirittura disintegrati. SUDOKU Quest’anno rientrava dopo un lungoPE stop per infortunio, era tornata su otlivelli internazionali, aveva conN. 5 FACILEtimi quistato la selezione per i Mondiali, ma, crac, a un soffio dalla sua gara, i leSchema gamenti del ginocchio sinistro hanno detto di no. Da piangere, altro che diE che dire dell’abbigliamento, alscipline 4 5 «fun»! Eppure 9 la forza di quetro fattore di successo? Un po’ come sti ragazzi sta proprio nella capacità di accade nel mondo del rap e dell’hip rialzarsi e di continuare a lottare fino 9 alla fine come1ha saputo 6 fare la loro pop, anche i freestylers hanno le loro «regole». Pantalone largo, cavallo bas- «sorella maggiore» Deborah Scanzio, 7 che la scorsa primavera 1 ha4messo5fine, so, giaccone ampio e lungo,3il tutto tendenzialmente dark, cuffie strane, in buona salute, a una lunga carriera tutt’altro che aerodinamiche, 9 a fronte 5 fatta di8un podio 4 iridato, tre6in Coppa di tavole da neve sovente ipercolorate del Mondo e quattro partecipazioni ai con motivi che ricordano l’opera di un Giochi Olimpici. 8 4 5 graffitaro. Infine, l’imprenditoria turiMarco e Nicole sono ancora giovastica ci ha messo del suo, adeguandosi ni. Con tenacia, voglia di divertimento 7 generations. e un pizzico di follia,3ci riproveranno. alle esigenze delle new Sempre più stazioni invernali, anche Why not?
Giochi per “Azione” - Febbraio 2019 delle ipotesi. Sono divertenti. Assecondano il bisogno di brivido degli Sargentini adolescenti. Stefania Hanno il loro risvolto estivo con lo skateboard e con il parcours. Danno un senso di libertà e di impunità: quante volte noi adulti ci siamo ritrovati a insinuare perplessità sulle abitudini degli snowboarders, soprattutto dopo che nel 1998 il canadese Ross Rebagliati fu trovato positivo alla marijuana. L’equazione fu presto fatta: un campione olimpico si fa di erba = gli snowboarders sono tendenzialmente dei cannaioli. Vero o falso? Chi lo sa!
(N. 5 - Beluga - Canarini del mare)
B E N E L U N G H E O R A C O R E A N 6 9 3 11 12 13 L una A delleM3 carte I Rregalo T da O 503franchi D Ncon Vinci 8 il cruciverba 2 7 1 14 15 e una da 50 franchi con il sudoku L delleL2 carte I Nregalo D O N O 2 6I 1 8 9 16 17 18 E D I T T O NMEDIO O ORIZZONTALI Cruciverba SudokuD O N. 6 1. Si anima girando... 19 si infila tra le persone20 Il tempo e poi decide… Trova 3. Un’attrice in vista E R R E Soluzione: L 8 7 5 9 il resto dell’aforisma leggendo, a cruciverba risolto, 6. Il... trasteverino Scoprire i 3 21 22 8. In fondo al Benelux numeri corretti le lettere evidenziate. G A I A M I nelle 9. Postille da inserire 1 (Frase: 2, 9, 5, 1, 6) 23 caselle colorate. 10. Importante quella «X» 11. Terribile, A angosciante C R E M 7 3 13. E-mail indesiderata 24 14. La memoria del PC 1 8 5 S Csul capitale A P O L E 15. Rendimento investito
Giochi
(Sigla) 17. Nasconde una mina... 19. La regista Wertmuller 21. Non si deve nutrire... 23. Scaltro senz’altro... 25. Quello XII fu l’ultimo... 26. Rende stretti i vestiti 27. Le iniziali dell’attrice Orioli 28. Contenevano olio 29. Impiegato... alla Zecca VERTICALI 1. Precede la Maestà Giochi per “Azione” - Febbraio 2019 2. Non incluso Stefania Sargentini SUDOKU PER AZIONE - FEBBRAIO 2019 3. Sigla di autenticità Soluzione della settimana N. 7precedente DIFFICILE 4. Trafila burocratica CURIOSITÁ SUGLI ANIMALI – Nome risultante: BELUGA – Per il loro verso N. 5 FACILE acuto sonoSchema soprannominati: CANARINI DEL MARE. Soluzione (N.5.5Pronome - Belugapersonale - Canarini del mare) 6.2Un3capitolo della4 geologia 1 5 6 7 8 4 E N E 5 9 N G H E 7. Si spoglia d’inverno 4 6 1 5 3 8 9 7 B L U 9 10 9. I propri... sono propri 1 R 6 E A 2 5 9 7 4 1 6 8 O R A9 C O N a Londra 11 10. In funzione... 12 13 3 7 1 4 5 8 3 7 9 2 6 1 4 L A M I R T O D N 12. Genere musicale degli anni1580 14 8 D 4 O 6 N O I 9 1 5 3 8 4 2 6 13. Si dice per scacciare L5 I N L9 16 17 16. Può essere essenziale...18 8 I T T O 4 D 5 O N O 6 8 3 2 7 9 4 5 E D 19 Con sotto è alla rovescia... 20 18. 7 E R R E 7 4 2 1 6 5 3 9 L3 20. Impervi, malagevoli 21 22 6 9 3 1 7 8 6 9 3 5 2 M I G A I A 22. Parlò con Mosè sul monte Sinai 23 24. Antico nome romano 7 1 3 9 4 8 5 2 7 1 A3 C 8 R E2 M 24 26. Uno in tedesco 2 A 6 P O 1 L E 8 9 5 2 6 4 1 7 8 3 S C 28. Un’ala del palazzo
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(N. 6 - ... se diventare colla o spazio) 1
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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch
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S E T U X A T R R A L A P
D I N O T O C E M R I S O D P I R O A
6 - ... se diventareonline: colla o inserire spazio) la I premi, cinque carte regalo Migros(N. Partecipazione del valore di 50 franchi, saranno sor- 1 soluzione del cruciverba o del sudoku 2 3 4 5 6 7 teggiati tra i partecipanti che avranno nell’apposito formulario pubblicato 9 10 fatto pervenire la soluzione corretta 8 sulla pagina del sito. 12 13 entro postale: la lettera o 5 il venerdì seguente la pubblica- 11 Partecipazione zione del gioco. la14 cartolina postale che riporti la so15 16
(N. 7 - Più veloce, più in alto, più forte)
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luzione, corredata da nome, cogno8 7 5 9 me, indirizzo, email del partecipanS deve E1 Tessere spedita D I Va «Redazione A E R te Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 U X 7 N O T E 3 O R A Lugano». A T R O C1 E8 S5 P A M Non si intratterrà corrispondenza sui
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concorsi. Le vie legali sono escluse. 6 8 7 4 5 1 9 2 Non è3possibile un pagamento in con9 3I vincitori 8 2 5 saranno 6 7 tanti 4dei 1premi. avvertiti per iscritto. Partecipazione 2 5 7 6 9 1 4 3 8 riservata esclusivamente a lettori che 9 7 6 2 1 8 3 5 4 risiedono in Svizzera.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 febbraio 2019 • N. 08
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Politica e Economia Spy story in salsa Usa I giornali americani stanno aprendo un nuovo fronte antiTrump dopo la vicenda Bezos
Verso le presidenziali ucraine L’attore comico Volodimir Zelensky guadagna consensi sui grossi nomi della politica a Kiev che si sfideranno alle elezioni per il Capo dello stato il prossimo 31 marzo
I franchi in prestito Uno studio di Moneyland analizza la propensione degli svizzeri verso l’indebitamento
La consulenza L’esperto di Banca Migros nota un ritorno di interesse verso l’oro come bene di investimento pagina 32
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AFP
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Iran, nazione o regime 40 anni dopo? Rivoluzione islamica Questa domanda è decisiva per collocare il Paese nello scacchiere geopolitico regionale,
in fase di acuto e non pacifico riassestamento. Soprattutto in relazione a Israele Lucio Caracciolo L’Iran è una nazione o un regime? Henry Kissinger poneva così, qualche anno fa, il dilemma geopolitico della Persia contemporanea. Quattro decenni dopo la rivoluzione khomeinista, la domanda attende ancora risposta. Ma questa risposta è decisiva per collocare l’Iran nello scacchiere geopolitico regionale, in fase di acuto e non pacifico riassestamento. Se (pre)vale la nazione – o meglio l’impero, dato che la rappresentazione della trascorsa millenaria grandezza domina sempre le carte mentali delle élite iraniane – allora un accomodamento nel contesto mediorientale diventa meno problematico, comunque molto più pragmatico. Se invece la logica è quella del regime, con la sua roboante retorica islamista e anti-israeliana, allora il rischio che la competizione per l’egemonia regionale finisca in guerra diventa più corposo. L’Iran è uno dei quattro soggetti di potenza in Medio Oriente. Gli altri tre
sono la Turchia, Israele e l’Arabia Saudita. Ad accomunare Teheran, Ankara e Gerusalemme è la radice non araba – anzi, anti-araba – di quei Paesi. A distinguere Riyad, oltre alla matrice araba esplicitata nel nome, il fatto che si tratti di una famiglia, molto allargata e particolarmente rissosa, la quale si è intestata una collana di giacimenti petroliferi, sui quali vive di rendita, e le due massime città sante dell’islam – Mecca e Medina – che le garantiscono una legittimità georeligiosa. In questo contesto, l’Iran non ha alleati. Ha due nemici principali, Arabia Saudita e Israele, mentre con la Turchia il rapporto, storicamente burrascoso, appare oggi tinto di qualche ambiguità. Su scala globale, un certo allineamento di interessi ha avvicinato la Persia (Iran) alla Russia, malgrado la memoria dell’occupazione sovietica nel Nord del paese, tra 1945 e 1946, resti viva. Con la Cina le intese sono energetico-pragmatiche, segnate dalla reciproca diffidenza e dal confine con-
teso fra Iran e Pakistan, quest’ultimo essendo in buona misura satellite di Pechino. Su tutti, sovraordinata quanto incerta nelle sue linee strategiche, l’America. Alleata della Turchia, con cui peraltro è in permanente tensione, intima di Israele, che considera Stato gemello, e legata a Riyad dallo scambio fra petrolio saudita e protezione a stelle e strisce – peraltro in crisi dopo l’affare Kashoggi. Teheran sta cercando di uscire dall’isolamento, accentuato dal congedo degli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare, cui li aveva spinti Obama, desideroso di riequilibrare la collocazione del suo Paese in Medio Oriente. Oggi la postura di Washington è palesemente aggressiva. Non passa quasi giorno che dagli Stati Uniti non giunga un minaccioso avvertimento al regime iraniano, quasi a preludere alla guerra. L’obiettivo dei «falchi» – l’ala neocon dell’amministrazione Trump, guidata da Bolton – resta il cambio di regime a Teheran. Vasto programma.
Con la guerra in Siria si è per la prima volta assistito a scontri diretti fra israeliani e iraniani. Gerusalemme ha messo nel mirino i pasdaran che hanno tenuto in piedi il regime di Damasco, con l’aiuto del loro braccio libanese (Hezbollah), di milizie sciite irachene e della Russia. E qui la questione iniziale diventa dirimente. L’Iran-regime considera Israele il nemico per eccellenza. La retorica pubblica dei suoi esponenti, specie in alcuni ambiti del clero e dei pasdaran, è su questo devastante. L’entità sionista (Israele) va distrutta e Gerusalemme «liberata». L’Iran-impero vanta invece una tradizione di dialogo e di rispetto degli ebrei, fin dall’epoca di Ciro. La borghesia ebraica è considerata uno dei fattori di sviluppo e di modernità che hanno tenuto in piedi l’economia nazionale. Inoltre, ebrei e persiani condividono un formidabile senso di superiorità nei confronti degli arabi, neanche si trattasse di tribali subumani. Una futura cooperazione fra Iran e
Israele, come ai tempi dello scià, non è quindi da escludere, stando a tale scuola di pensiero. Paradosso strategico vuole che la scelta reciproca di demonizzarsi abbia spinto gli israeliani a un curioso allineamento con i regimi arabi del Golfo e gli iraniani a uno sdegnoso autoisolamento. Di qui alla guerra Israele-Iran – più volte sfiorata negli anni passati, quando Netanyahu avrebbe voluto colpire le installazioni nucleari iraniani essendo trattenuto in extremis dai suoi militari e dagli americani – il passo non è lunghissimo. In questa vigilia di elezioni in Israele, la minaccia di attaccare l’Iran si è fatta più esplicita e ripetuta: Netanyahu spera che un conflitto limitato con i persiani possa garantirgli la riconferma da premier. Il gioco si sta facendo pericoloso. Possiamo sperare che a Teheran prevalga la vena imperiale sulla retorica islamista – e suicida – del regime. Ma non è affatto scontato.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 febbraio 2019 • N. 08
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Politica e Economia
L’ombra di Trump?
Usa La vicenda che coinvolge Jeff Bezos, il fondatore di Amazon
e editore del «Washington Post», assume contorni da vera spy-story con editori amici di Donald Trump e reali sauditi Christian Rocca Il presidente degli Stati Uniti, l’uomo più ricco del mondo, un tabloid trash, il quotidiano del Watergate, l’Arabia Saudita, la Russia, gli hacker informatici, le inchieste sulla manipolazione delle elezioni del 2016, un dissidente fatto a pezzi a colpi d’ascia dentro una sede diplomatica, fiumi di denaro, tradimenti, foto e messaggi intimi spiattellati on e offline e, sullo sfondo, la grande battaglia per salvaguardare la democrazia americana. Tutto questo nella stessa storia, in un’unica storia, probabilmente il feuilleton più importante di questo scorcio di Ventunesimo secolo.
Nelle elezioni del 2016 ci sarebbe un coinvolgimento saudita, oltre a quello già noto dei russi I fatti: a gennaio di quest’anno, il fondatore di Amazon Jeff Bezos e sua moglie Mackenzie hanno annunciato il divorzio qualche ora prima della diffusione dei messaggi erotici di Bezos e della sua amante, la giornalista televisiva Lauren Sanchez, pubblicati da un tabloid scandalistico, il «National Enquirer». Questo tabloid è di proprietà di David Pecker, grande amico di Donald Trump.
Mesi fa Pecker è stato messo sotto inchiesta dal procuratore Robert Mueller che indaga sulle complicità del team Trump nell’ingerenza dei servizi segreti russi sul processo elettorale americano che nel 2016 ha portato all’elezione a sorpresa di Trump alla Casa Bianca. Prima del voto del 2016, assieme all’avvocato di Trump Michael Cohen, anche lui sotto schiaffo di Mueller, Pecker ha comprato con 150mila dollari il silenzio di una modella di Playboy che avrebbe voluto raccontare il suo rapporto con Trump. Messo alle strette, anche dall’ammissione di colpa dell’avvocato di Trump, Pecker ha confessato di aver pagato la ragazza e ha patteggiato una pena con il procuratore Mueller (un accordo che gli evita la galera ma che, tenetelo a mente, non ha più valore se entro tre anni lo stesso Pecker commette altri reati). Si favoleggia, inoltre, di altri segreti politici compromettenti custoditi nella cassaforte del «National Enquirer», ma questa è un’ulteriore diramazione della storia di cui ancora si sa poco anche se si sospetta molto. In ogni caso, Pecker gode di grande accesso e familiarità non solo con il presidente americano ma anche con il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman (MBS), che ha incontrato sia a Riad sia in America e per il quale ha confezionato, in occasione della sua visita a Washington, il numero unico di una rivista patinata dedicata al «tocco
magico» con cui un leader illuminato come MBS guiderebbe il regno saudita. Bezos, invece, è odiato da Trump. Il presidente è convinto che il «Washington Post», acquistato dal fondatore di Amazon nel 2013, critichi furiosamente la Casa Bianca su indicazione precisa di Bezos e, per questo motivo, ha più volte proposto via Twitter di alzare le tariffe del Postal Service in modo da colpire il business delle spedizioni di Amazon. A ottobre, un editorialista del «Washington Post», Jamal Khashoggi, dissidente saudita trasferitosi in America, è scomparso dentro il consolato saudita di Istanbul, in Turchia, dove era andato, tratto in inganno dai servizi sauditi, per ritirare un documento per il suo matrimonio. Successivamente si è scoperto che al consolato Khashoggi è stato torturato, ucciso e fatto a pezzi a colpi di ascia dai sauditi su ordine del leader di Riad. Il «Washington Post», da quel momento, si è impegnato in una campagna pubblica per inchiodare alle sue responsabilità il regime saudita. In questo contesto, con il «Washington Post» di Bezos contro i sauditi che hanno ucciso un loro giornalista e con Trump molto vicino ai sauditi e contro Bezos, il «National Enquirer» dell’amico di Trump e dei sauditi ha pubblicato i testi dei messaggi privati che hanno causato il divorzio più costoso di sempre perché i Bezos, insieme, valgono 160 miliardi di dollari.
Il fondatore di Amazon Jeff Bezos. (AFP)
Bezos ha incaricato un noto investigatore privato, Gavin de Becker, di condurre un’inchiesta per scoprire chi gli avesse hackerato il telefono. La settimana scorsa, Bezos ha scritto su «Medium» un post per denunciare di essere stato oggetto anche di un tentativo di estorsione da parte della società editrice del «National Enquirer» che minacciava di pubblicare ulteriori messaggi e anche alcune fotografie che Bezos e la sua amante si sono scambiati durante la loro relazione. Anziché cedere al ricatto, Bezos lo ha denunciato pubblicamente scrivendo l’articolo e sottolineando una duplice bizzarra richiesta degli estorsori: fermare l’inchiesta privata sull’hackeraggio e smentire gli articoli del «Washington Post» secondo cui la pubblicazione dei messaggi privati da parte del «National Enquirer» è stata un’operazione motivata politicamente e per colpire un avversario di Trump. Bezos ha aggiunto un ulteriore elemento: «Per ragioni ancora da capire, il lato saudita della vicenda sembra aver toccato un nervo molto sensibile» di Pecker, il quale ricattando Bezos ha messo a rischio, come detto prima, il patteggiamento
con il procuratore Mueller. Per quale motivo Pecker era così «furibondo», per usare la definizione scelta da Bezos, e che cosa vuole nascondere di così importante al punto di mettere a rischio, con la tentata estorsione, l’accordo extragiudiziario che gli ha evitato di finire in carcere? Non lo sappiamo ancora, ma il fatto che qualcuno sostenga che a passare i messaggi al «National Enquirer» sia stato il fratello dell’amante di Bezos, Michael Sanchez, un amico di due ambigui ex consiglieri di Trump, entrambi incriminati e arrestati nel Russiagate, Roger Stone e Carter Page, non fa altro che aggiungere mistero a mistero e a rendere la vicenda ancora di più una tragica pochade. Le parole di Bezos sul «lato saudita» della vicenda, confortate dall’inchiesta del suo investigatore privato, hanno dato sfogo a molte teorie su un coinvolgimento saudita, oltre a quello già noto dei russi, nelle elezioni presidenziali del 2016, aprendo potenzialmente un altro fronte investigativo contro Trump, portatore di una politica estera molto più filosaudita rispetto alla comunque tradizionale amicizia americana con il regno dei Saud. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 febbraio 2019 • N. 08
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Politica e Economia
Etiopia senza veli
Parliamo europeo di Paola Peduzzi
Reportage – 1. parte Viaggio in un Paese che non è mai stato una colonia dei bianchi,
dove la sua storia è sua e non vuole attribuire all’Occidente le sue colpe. Anche se noi abbiamo la tendenza a considerarci l’ombelico del mondo nel bene e nel male Federico Rampini «Aiutarli a casa loro», perché non debbano emigrare? C’è un paese africano che ce lo sta chiedendo. Ha legami storici con noi («occupato» brevemente, non colonizzato, così ama definirsi), non ce ne conserva alcun rancore, anzi ci vorrebbe più presenti. È considerato il miracolo africano del momento, per la crescita economica. Il suo giovane premier è una star mondiale. È Abiy Ahmed, il 42enne riformatore alla guida dell’Etiopia. Un colosso da 105 milioni di abitanti (forse molti più, ce lo dirà il censimento in corso), con tassi di crescita «cinesi», in tutti i sensi. Una nazione che potrebbe servire da guida a tante altre del continente nero. Forse.
La grande questione del nostro tempo è se l’Africa riuscirà finalmente a liberarsi dal sottosvilippo. La storia del mondo cambierebbe, così come è accaduto in Cindia e nel Sud-est asiatico Nello stesso periodo in cui l’Italia era appesa al destino dei 47 disperati a bordo della della Sea Watch, mi sono dedicato a un lungo viaggio nell’Africa nera. Mi permetto di sottolineare una sproporzione. Per intere settimane, a giudicare dallo spazio sui media italiani, è sembrato che il trattamento riservato a quei 47 profughi fosse l’unico modo per giudicare in quale paese viviamo. La sorte di 47 persone era il test da superare per capire se sappiamo governare i flussi migratori (visto da destra) o se sappiamo dimostrare umanità, solidarietà, rispetto dei diritti umani (visto da sinistra). In Africa vivono 1,2 miliardi di persone. La stragrande maggioranza delle quali sognano un futuro dignitoso là dove sono nate. A metà del secolo – cioè fra soli trent’anni – secondo l’Onu potrebbero sfiorare i due miliardi. Quasi quanto Cindia. La grande questione del nostro tempo – economica, sociale, umana, morale – è se l’Africa riuscirà finalmente a liberarsi dal sottosviluppo, e darà una risposta adeguata alle aspirazioni di una parte così vasta dell’umanità. Se non ci riuscisse le ondate di profughi potrebbero diventare molto più grandi, e più difficili da governare. Se ci riuscisse la storia del mondo imboccherebbe una strada diversa, così com’è accaduto in Cindia e nel Sud-est asiatico, dove la miseria degli anni Cinquanta sembra appartenere alla preistoria. Ma quel che sta accadendo davvero dentro l’Africa non sembra interessare nessuno, neanche i più progressisti. Da quando «aiutarli a casa loro» è diventato uno slogan di destra (incredibile ma vero) alla sinistra più militante interessano solo le imbarcazioni che solcano il Mediterraneo. Non importa se in termini numerici questi disperati sono una frazione minuscola degli stessi profughi che rimangono in Africa. In Etiopia, per esempio: quattro milioni di rifugiati, fuori dalla portata della Sea Watch e delle altre ong impegnate nel Mediterraneo. Ma sia chiaro: tante altre ong, tanti altri volontari, tante agenzie umanitarie, tanti missionari lavorano in Africa, ed anche nei campi profughi di quel continente. Sono ovviamente più numerosi, quelli che lavorano sul campo in Africa, ma per loro la visibilità mediatica è pari a zero. Non
Il premier riformatore Abiy Ahmed è alla guida di un Paese il cui esempio servirebbe a tanti altri in Africa. (AFP)
meritano attenzione perché non sono appetibili come simboli per i talk-show, dove conta solo schierarsi pro o contro Salvini. Tra le cose che mi hanno attirato in quel paese e me lo hanno fatto scegliere, c’è la sua storia particolare. L’Etiopia, come ho già accennato, non entra nella vicenda del colonialismo bianco. Hanno ragione gli etiopi quando insistono a parlare di «occupazione» italiana per sottolinearne la brevità (cinque anni tra il 1936 e il 1941) e quindi la sostanziale irrilevanza rispetto alla lunghissima storia del loro paese. Gli italiani si macchiarono di alcune atrocità, di qualche massacro orribile, ma nulla di troppo diverso da quel che i clan dominanti dell’Etiopia avevano inflitto alle etnìe soggette, alle minoranze sconfitte e occupate nei secoli dei secoli. Perché uno degli aspetti interessanti della storia etiope, è la sua dimensione imperiale antica e autonoma. Altre nazioni africane, quando si liberarono dal giogo coloniale e conquistarono la loro indipendenza (tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta, per lo più), spesso vollero copiare i colori della bandiera etiope in omaggio al paese che era stato indipendente da sempre. Anche gli intellettuali afroamericani hanno sempre avuto un’ammirazione speciale per l’Etiopia. Bob Marley e la musica reggae giamaicana accompagnano il culto religioso rastafari in cui la figura dell’imperatore etiope Haile Selassie è una divinità. Il fascino di quel vasto territorio è comprensibile: vi nacque la specie umana, lì è stata ritrovata la nostra antenata Lucy, Femina Sapiens di 3,2 milioni di anni fa. La prima sovrana etiope che acquista un posto di rilievo nel nostro immaginario storico-mitologico è la regina di Saba, protagonista
dell’incontro col re Salomone. Da quel momento in poi, anche se non si chiama ancora Etiopia né Abissinia, quella parte dell’Africa è culla di imperi indigeni. Potenze autoctone, che intrecciano relazioni con l’Egitto e il Sudan, con l’altra sponda del Mar Rosso (araba), con l’altra sponda dell’Oceano (India). Studiare la storia etiope serve a vaccinarci dal vizio che perseguita noi occidentali: quello di credere che siamo l’ombelico del mondo. Ovverosia, nella versione politically correct, il dogma per cui ogni sofferenza dell’umanità contemporanea si deve ricondurre alle colpe dell’Occidente, dell’uomo bianco. Basta scavare bene, basta seguire le piste giuste, rispolverare le dietrologie adeguate, e alla fine spuntiamo sempre noi, il nostro colonialismo, il nostro imperialismo, il nostro capitalismo. Solo espiare le nostre colpe, può appagare una sinistra che non apre mai i libri di storia. L’Etiopia va fiera dei suoi libri di storia, ma raccontano una vicenda un po’ diversa dai luoghi comuni e dagli stereotipi superficiali. I suoi libri ci ricordano che è esistito un imperialismo africano: aggressivo, prepotente, predatore, molto prima che si affacciasse quello bianco. Le tensioni etniche che attraversano le varie componenti della popolazione etiope non le abbiamo fabbricate noi, è da duemila anni che re e imperatori autoctoni sfruttano i popoli vinti. Lo schiavismo, lo praticano da sempre: anche quello non è un orrore dell’uomo bianco. Il commercio degli schiavi è più antico di quello dell’oro incenso e mirra, in tutta l’Africa; è sempre stato un sottoprodotto delle guerre di conquista fra potenze locali. Ne divennero grandi intermediari esterni gli arabi, specialisti nella tratta degli schia-
vi su lunghe distanze, anche intercontinentali. Naturalmente fece un salto di dimensioni quando incrociò la conquista delle Americhe da parte dei bianchi, e la manodopera africana in schiavitù servì il business delle piantagioni di cotone, tabacco, canna da zucchero nel Nuovo Mondo. Ma non c’è nulla che l’Occidente abbia inventato in questo campo: se non l’abolizionismo. L’Etiopia non può e non vuole attribuire a noi i suoi problemi. Non solo non è mai stata una colonia dei bianchi, ma nella sua storia recente ha scelto per un lungo periodo di agganciarsi all’altro polo, l’anti-Occidente per eccellenza, l’Unione sovietica. Ora rischia di scivolare verso un altro anti-Occidente, la Cina. È dunque un punto di osservazione speciale: la si può attraversare con gli occhi bene aperti, senza avere lo sguardo velato dall’ossessione che in Occidente ci sia l’origine, la spiegazione, la colpa di tutto. Ma un aggancio molto particolare con la sinistra politically correct risale alla grande carestia etiope sotto Haile Selassie: fu una delle tragedie che diedero origine alla cultura pop-umanitaria. L’ecatombe di bambini etiopi negli anni Settanta, abbandonati a morire di fame da un imperatore che aveva un miliardo di dollari nelle banche svizzere, fu rivelata all’Occidente dallo scoop di un reporter inglese. L’esordio dei musicisti Bob Geldof e Bono come coscienze critiche della gioventù occidentale, le loro campagne per l’Africa, affondano le radici in quegli eventi. Le loro intenzioni sono state nobili e pure, ma l’idea di partenza era sempre quella: noi siamo la causa, noi siamo la soluzione, se soltanto facciamo le cose giuste. Onnipotenti. Nel male e nel bene. Ombelico del mondo.
La forza dell’unanimità La questione venezuelana, se sostenere il regime di Nicolás Maduro o il regime change di Juan Guaidó, ha fatto perdere il sonno all’Europa. Esiste una questione ideologica, che è duplice: c’è la difficoltà generale a parlare di cambiamento di regime, retaggio delle guerre di inizio Duemila e fondamento di un approccio interventista e idealista che è stato soppiantato da realismo purissimo; c’è lo scontro tra destra e sinistra e sinistra-sinistra, perché il modello chavista del Venezuela è stato a lungo portato come l’esempio del successo globale del socialismo statalista, e molte sinistre radicali ancora oggi non vogliono abbandonare questo santino della rivoluzione bolivariana. A spazzare ogni reticenza ci sarebbe la crisi umanitaria che è al di là di ogni dubbio e ideologia: il Venezuela è un paese fallito, e questo fallimento è stato perlomeno supervisionato dal presidente Maduro, il quale impedisce l’arrivo degli aiuti – cibo e farmaci che non ci sono più in ospedali in cui mancano acqua corrente ed energia – perché pensa che i camion umanitari siano come un cavallo di Troia, piazzato dagli yankees americani e i loro alleati. Ma l’interventismo umanitario, dicevamo, non si porta più. Esiste però anche una questione tecnica, che riguarda strettamente l’Unione europea e il suo funzionamento: l’unanimità in politica estera. I limiti di questo approccio sono emersi proprio sulla questione venezuelana: il comunicato europeo di sostegno a Guaido è stato bloccato da un voto (quello italiano), quando pure la reticenza di un altro paese (la Grecia) era stata vinta. Così il riconoscimento di Guaidó è stato fatto dal Parlamento europeo e dalle cancellerie europee prese singolarmente, mentre la posizione dell’Ue è rimasta monca. È così che è ripartito il dibattito sull’unanimità, che era già stato affrontato a settembre dal presidente della commissione, Jean-Claude Juncker, durante il suo discorso sullo stato dell’unione: «Quando l’Europa parla con una sola voce – aveva detto – può imporre la sua visione agli altri paesi». Nel testo scritto che era circolato, c’era anche una frase aggiuntiva che Juncker non pronunciò: «Non è giusto che uno stato membro sia riuscito a sospendere il rinnovo dell’embargo militare alla Bielorussia o abbia ritardato le sanzioni al Venezuela per molto tempo». La commissione sta lavorando a un piano che introduca la regola della maggioranza qualificata in tre aree: la risposta ad attacchi ai diritti umani, la richiesta di sanzioni efficaci e le missioni di sicurezza e di difesa. La maggioranza qualificata significa che per far passare una proposta basta il voto del 55 per cento degli stati membri che rappresenti il 65 per cento della popolazione europea. La commissione spera che i paesi europei approvino il piano al vertice di inizio maggio a Sibiu, in Romania (che ha la presidenza del semestre), ma ci sono molte resistenze. In particolare dai paesi più piccoli che non vogliono rinunciare al loro diritto di veto su una materia tanto rilevante. Ma vale anche un’altra considerazione, che riguarda lo strumento dell’unanimità in generale: se è vero che per la maggior parte dei casi indebolisce l’azione dell’Europa, una volta ottenuta, l’unanimità è molto potente ed efficace. Immaginiamo di dover prendere una decisione esistenziale, una missione di guerra per dire, l’Unione europea potrebbe prendere una decisione a maggioranza che ha impatto su tutti? Probabilmente no. La voce unica funziona quando è, appunto, unica, e infatti in Venezuela i convogli umanitari sono ancora bloccati.
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Politica e Economia
Un comico sfida i big della politica
Presidenziali ucraine Il messaggio di ottimismo e rinascita nazionale di Volodimir Zelensky gli fa guadagnare
vantaggi sugli sfidanti Poroshenko e Timoshenko: la loro agenda politica riprende argomenti che suonano vecchi
Anna Zafesova Un professore di storia di una scuola di Kiev si lancia in uno sfogo appassionato (e con un linguaggio molto poco adatto ai bambini) contro la corruzione dei politici e l’indifferenza degli elettori. Filmato di nascosto dai suoi allievi, finisce su YouTube e viene eletto presidente dell’Ucraina. Il personaggio di Vasiliy Goloborodko ha consacrato il suo inventore e interprete Volodimir Zelensky come il più famoso comico ucraino, con l’incredibile successo della serie Il servo del popolo, venduta anche a Netflix. Ora, la terza stagione potrebbe diventare un reality show: Zelensky guida i sondaggi per le elezioni presidenziali che si dovranno tenere in Ucraina il 31 marzo, battendo con il 21,9 per cento dei consensi i due pesi massimi della politica di Kiev, l’ex premier Yulia Timoshenko e il presidente uscente Petro Poroshenko, che progettavano di giocarsi la campagna elettorale in due e ora sono distaccati con il 19,2 e il 14,8 rispettivamente. Il passaggio dalla fiction alla realtà all’inizio era apparso a molti come una prosecuzione della campagna promozionale della serie: a Capodanno Zelensky era apparso a mezzanotte sul canale televisivo 1+1 al posto del tradizionale messaggio del capo di Stato, annunciando la sua candidatura. La sua campagna elettorale assomiglia più a una tournée del suo team di comici, Kvartal 95, che gira l’Ucraina con uno spettacolo di satira politica. Molti analisti hanno sospettato l’attore di essere una pedina dell’oligarca Igor Kolomoysky (proprietario del canale 1+1), che ha l’obiettivo di togliere voti a Poroshenko per finire al ballottaggio con Timoshenko e lasciarla vincere. Ma con il passare delle settimane la vicenda politica di Zelensky appare sempre meno uno scherzo, e non solo perché prestandosi a fare il candidato-civetta distruggerebbe la sua reputazione di comico del popolo che sfida politici e oligarchi. L’attore ha conquistato un terzo dei consensi degli under 30, ed è molto popolare nelle regioni dell’Est e del Sud, quelle tradizionalmente russofone. Un capitale politico che i suoi concorrenti, entrambi personaggi percepiti come ormai da troppo tempo in circolazione, non hanno. C’è chi parla di populismo, e i paragoni con Donald Trump o Beppe
Un poster ritrae Volodimir Zelensky con alle sue spalle l’oligarca Igor Kolomoyskyi. (AFP)
Grillo sono ovvi: lo stesso Zelensky scherza che con il presidente americano troverà un’intesa «perché veniamo dallo stesso ambiente dello show business». Il programma del «servo del popolo» è inevitabilmente vago, ma intuitivamente comprensibile dall’elettorato anche grazie alla contaminazione con il suo personaggio del presidenteper-caso Goloborodko: un uomo comune che con il buon senso e l’onestà sfida corruzione e ideologie. Alle critiche di essere un pagliaccio ha risposto con una campagna sui social, apparendo con un pallino rosso sul naso e la scritta «Io sono un clown»: invita i suoi sostenitori a mandare filmati in cui raccontano perché si considerano dei pagliacci anche loro (perché presi in giro dai politici, sottopagati, maltrattati dai burocrati, ecc.). Ma soprattutto Zelensky ha il potenziale per riparare la frattura tradizionale dell’Ucraina in Est e Ovest: viene da Kriviy Rih, una città industriale della parte orientale, la sua lingua è il russo, il nazionalismo ucraino non fa minimamente parte dei suoi codici
(i genitori sono professori di origine ebraica), prima della guerra con Mosca i suoi programmi televisivi erano popolarissimi anche in Russia. Nello stesso tempo la sua posizione indipendentista è indubitabile, ha imparato a parlare l’ucraino e non lo si può certo accusare di essere un candidato filorusso. I nazionalisti estremi l’hanno criticato per i film girati in russo e il rifiuto di boicottare artisti russi non compromessi con Putin, ma proprio questo potrebbe portargli i voti dell’elettorato centrista. La questione del rapporto con Mosca in queste elezioni, e nelle politiche previste in autunno, appare infatti molto meno centrale di quanto possa sembrare. Il dilemma «con la Russia o contro la Russia» dopo il Maidan, l’annessione della Crimea e la guerra nel Donbass è assente dal dibattito politico ucraino, e il candidato del Blocco d’Opposizione (quel che resta del Partito delle Regioni dell’ex presidente Yanukovich, in esilio in Russia) Yuri Boiko, che raccoglie l’8-10 per cento dei consensi, non propone comunque una agenda filorussa. La questione del ritorno tra le
braccia del Cremlino non si pone, l’occupazione della Crimea durerà fino a che durerà Putin, resta il problema del Donbass, che Zelensky vorrebbe risolvere con un negoziato con i russi all’insegna del «qualcosa andrà sacrificato». Una posizione che Poroshenko, un politico moderato costretto suo malgrado a vestire la mimetica del leader di guerra, non ha potuto assumere perché sotto pressione dei nazionalisti, che si riconoscono in Timoshenko, Anatoly Gritsenko (8%) e l’estremista Oleg Lyashko (6,5%). Ma gli ucraini sono stanchi di guerra, come sono stanchi delle guerre dei clan oligarchici, della corruzione e della povertà, e l’enorme dispersione di preferenze di voto su un numero incredibile di 44 candidati dimostra uno scoraggiamento elettorale nel quale un candidato non politico, che rappresenta una storia di successo personale e una posizione moderata, può aprirsi spazi insperati. L’agenda di Timoshenko e Poroshenko, infatti, riprende argomenti che suonano ormai vecchi. La scelta filoeuropea dell’Ucraina non è più in discus-
sione, e le reciproche accuse di essere corrotti, «mafiosi» e responsabili del disastro economico suonano scontate. Entrambi i big si trascinano dietro un lungo strascico di scandali, accuse, alleanze imbarazzanti e errori. Yulia Timoshenko, l’ex «principessa del gas» incarcerata da Yanukovich, ha dalla sua un carisma e un’abilità straordinari, e una rete di sostenitori collaudata, circostanza non indifferente in un Paese con una tradizione di brogli elettorali. La sua critica populista al governo di Poroshenko va però contro tutte le riforme proposte – lotta alla corruzione, fisco, sanità, finanze e agricoltura – e viene considerata dall’elettorato moderato un’avventuriera pericolosa, con più legami a Mosca di quanti dichiara. Poroshenko si porta dietro sia gli svantaggi che i vantaggi di essere il presidente in carica: è l’uomo che ha traghettato l’Ucraina dalla rivoluzione del Maidan a una vaga stabilità, è l’uomo che non ha perso la guerra con la Russia, è ben visto a Washington e Bruxelles e vanta la grande vittoria politica di aver conquistato per la chiesa ortodossa ucraina lo status autocefalo, rendendola ufficialmente indipendente da Mosca. Ma sconta cinque anni di crisi economica, corruzione, disastri militari e evidente tendenza all’accentramento del potere: il 50% degli ucraini dichiara che non lo voterebbe in nessuna circostanza (Timoshenko ha un rating negativo del 30%). Come nota Paul Hockenos su «Foreign Policy», nonostante gli ultimi cinque anni siano stati segnati dalla guerra con la Russia, che ha avuto un impatto devastante anche sull’economia, «l’Ucraina non è uno Stato fallito, e la sua democrazia non è in crisi, anzi, prospera e rivaleggia con quella dei Paesi centroeuropei». La Rada, il parlamento, ha bloccato il tentativo di Poroshenko di introdurre la legge marziale dopo lo scontro tra le marine russa e ucraina nel mare di Azov, e una fitta e attiva rete di organizzazioni della società civile, emerse nell’Ucraina del post Maidan, gioca un ruolo importante. Il messaggio di «ottimismo» e «rinascita nazionale» di Zelensky può fare presa su questa realtà, e il politologo Vladimir Fesenko ritiene che, se riesce a conservare le sue posizioni e arrivare all’eventuale ballottaggio il 21 aprile, diventerà presidente. Annuncio pubblicitario
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Politica e Economia
Svizzeri molto indebitati: c’è da preoccuparsi? Statistiche Un sondaggio rivela l’attitudine di romandi e svizzero tedeschi rispetto alla possibilità
di chiedere soldi in prestito
Marzio Minoli Almeno l’85% degli svizzeri ha fatto ricorso ai debiti per far fronte ai propri impegni. Lo dice un sondaggio della società di confronti in rete Moneyland. Naturalmente c’è debito e debito. Un conto è accendere un’ipoteca, quindi con della sostanza come garanzia. Un conto è il piccolo credito, quindi nessuna garanzia ma interessi molto alti. Un altro paio di maniche ancora sono i leasing. Ma pur sempre di debiti si tratta. Entriamo nei dettagli quindi dell’indebitamento degli svizzeri. I partecipanti al sondaggio sono stati 1500. Purtroppo, non ci sono i dati della Svizzera Italiana ma solo quelli riferiti alla Romandia e alla Svizzera tedesca. I romandi hanno meno remore degli svizzeri tedeschi a chiedere soldi. Infatti, solo l’8 per cento di loro non ha mai fatto ricorso a questa forma di finanziamento, contro il 19 per cento degli svizzero-tedeschi. Interessante sapere perché gli svizzeri chiedono soldi in prestito. Il 38 per cento degli intervistati ha dichiarato di aver acceso un’ipoteca e sono stati soprattutto coloro che abitano nelle zone rurali a farlo, più di coloro che abitano in città. Interessante sapere che l’80 per cento dei milionari che hanno risposto al sondaggio, ha detto di aver avuto almeno un’ipoteca in vita sua. Dopo aver sciorinato questa quantità di dati sorge una domanda spontanea: gli svizzeri sono troppo indebitati? E qui bisogna aprire un discorso più articolato, perché quando si parla di debito bisogna anche distinguere tra i debiti privati, quelli menzionati sopra, e quelli pubblici, che vengono pagati dai cittadini attraverso tasse e imposte. Ebbene, il rapporto tra il debito pubblico e il prodotto interno lordo in Svizzera è di circa il 30 per cento, tenendo conto del debito di Confederazione, Cantoni, Comuni e enti sociali. Una situazione
da far invidia a molti paesi vicini, ma che non mette al sicuro da nulla. Infatti, le incertezze che sta vivendo il mondo potrebbero influire anche sul livello di indebitamento. Basti pensare ad eventuali modifiche, volontarie o meno, sul sistema fiscale per far spostare potenzialmente diversi contribuenti, aziende o privati che siano, fuori dai confini nazionali. Ma queste sono ipotesi. Oggi dal punto di vista debito pubblico, che implica una parte di imposte destinate a pagarlo, chi risiede in Svizzera può stare tranquillo. Oltre ad essere contenuto, su alcune scadenze addirittura la Confederazione, quando i titoli saranno rimborsati, avrà avuto un guadagno in capitale, in quanto al momento dell’emissione il rendimento era negativo, ovvero l’investitore ha pagato più di quanto riceverà alla scadenza dell’obbligazione, anche tenendo conto della cedola incassata. Effetto collaterale degli interessi negativi introdotti dalla Banca Nazionale Svizzera per evitare un’eccessiva valutazione del franco. Il discorso cambia quando si parla di debito privato. Quanto citato in precedenza sul come e quanto gli svizzeri sono indebitati non mostra una cosa, ovvero il rapporto tra i debiti privati e il PIL. A fronte di un 30 per cento di rapporto debito pubblico/PIL, il rapporto debito privato/PIL è di circa il 145. Una cifra che dovrebbe preoccupare. È così? Vediamo come si presenta la situazione globale: la Svizzera si situa stabilmente ai primi posti per quel che concerne l’indebitamento delle economie domestiche, in compagnia di altri paesi, considerati «virtuosi», come ad esempio Svezia, Norvegia o Canada. Il grosso di questo indebitamento è formato dalle ipoteche, che attualmente ammontano a circa 1000 miliardi di franchi. A cosa sia dovuto questo «amore» per le ipoteche è presto detto. Per prima cosa i bassi tassi d’interesse
Le ipoteche in Svizzera ammontano a circa 1000 miliardi di franchi. (Ti-Press)
attuali favoriscono l’accesso alla proprietà, inoltre i prezzi degli immobili sono piuttosto elevati e anche il sistema fiscale incentiva l’indebitamento. Anche se in questi ultimi tempi si è visto un certo rallentamento, l’indebitamento è cresciuto molto negli ultimi anni. Quindi, tornando alla domanda iniziale, c’è da preoccuparsi? Qualcuno inizia a farlo. La prima a lanciare una sorta di segnale di avvertimento è stata la Banca Nazionale Svizzera nel mese di giugno del 2018, mese in cui viene pubblicato il «Rapporto di stabilità finanziaria» annuale. In quell’occasione, dopo molto tempo, la BNS ha messo in guardia su eventuali rialzi dei tassi d’interesse che metterebbero in difficoltà chi deve pagare i mutui, soprattutto per quel che concerne gli immobili residenziali, e in particolare chi ha acquistato per poi affittare. Altra preoccupazione della BNS è un ribasso dei prezzi degli immobili. Interessi più alti rendono meno inte-
ressante il mercato immobiliare e gli investitori uscirebbero dal settore per poi scegliere altre forme di investimento. Insomma, se i bassi tassi d’interesse hanno spinto molti ad entrare in questo mercato, il rialzo dei tassi avrebbe l’effetto contrario e le banche, di fronte ad un minor valore del bene sottostante l’ipoteca, potrebbero richiedere maggiori garanzie, ovvero più fondi propri. Ma non è solo la Banca Nazionale a mettere in guardia. Recentemente anche l’autorità di vigilanza sui mercati finanziari, la FINMA, per voce del suo presidente Thomas Bauer ha fatto lo stesso. A preoccupare anche in questo caso sono gli immobili da reddito. Insomma, i 1000 miliardi di ipoteche iniziano ad essere motivo di preoccupazione. Non siamo ancora ai livelli di allarme e a una situazione simile a quella vista negli Stati Uniti nel 2008, con la crisi dei subprime, che scatenò la crisi finanziaria mondiale. Qualcosa del genere non è certamente all’o-
rizzonte. La Svizzera rimane un paese dove i valori degli immobili rimarranno piuttosto alti, e anche una correzione dei prezzi non sarebbe drammatica, fosse solo perché non vi è una grande disponibilità di terreno sul quale costruire. Inoltre, le misure introdotte in questi ultimi anni per calmare questa ondata di indebitamento, si stanno rivelando efficaci. Pensiamo all’irrigidimento dei requisiti di capitale proprio per chi vuole acquistare, ma anche ai fondi propri delle banche, che, dopo la crisi del 2008, devono essere in grado di poter far fronte ad eventuali crisi. Sembra quindi che la Svizzera abbia gli anticorpi necessari per reagire a tempi meno favorevoli. In ogni caso l’indebitamento delle famiglie rimane alto, e questo fenomeno ora non può più essere ignorato. Anche perché la congiuntura economica inizia a mostrare qualche cedimento. Anche in Svizzera.
In vigore dal 2020 la Legge federale sui servizi finanziari
Legislazione Terminata la consultazione, si attendono le ordinanze d’applicazione: ci si adegua
alle direttive europee, ma si cerca di mantenere qualche spazio di manovra
Ignazio Bonoli Votata dalle Camere federali nel giugno del 2018, la Legge federale sui servizi finanziari entrerà in vigore all’inizio del 2020 (vedi «Azione» 16.7.2018).In pratica si tratta della risposta elvetica alle direttive UE Mifid II e persegue lo scopo di proteggere meglio coloro che investono sui mercati finanziari. L’intervento di questa legge sul mercato è piuttosto pesante. Infatti, le discussioni, prima e durante il dibattito parlamentare, sono state lunghe e talvolta accese. Gli operatori svizzeri del mercato specifico, che ha molti e importanti contatti internazionali, temevano una burocratizzazione e per finire anche la scomparsa di molti uffici di intermediazione finanziaria. Quindi, già in fase di consultazione, il progetto del Consiglio federale ha subito parecchi ridimensionamenti. In seguito, anche il Parlamento ha allentato alcune disposizioni che, a detta dei maggiori interessati, potevano diventare un «mostro regolatore». Il problema non è però interno al
mercato svizzero, ma piuttosto riferito all’attività internazionale di molti operatori, per cui il riferimento alle direttive dell’Unione Europea è diventato indispensabile. Questo ovviamente nell’ambito di un’apertura dei mercati finanziari europei che alcuni (per esempio l’Italia) vogliono condizionare con altri accordi o con l’accordo quadro in discussione con l’UE. Prima dell’entrata in vigore della legge è importante sapere come saranno concepite le ordinanze d’applicazione. Per questo, fino al 6 febbraio, era in corso una consultazione su tre ordinanze d’applicazione sia della legge sui servizi finanziari (Fidleg), sia su quella sugli istituti finanziari (Finig). Dalle prime reazioni degli interessati, si può arguire che le ordinanze sono ben accette, poiché lasciano pur sempre un certo spazio di manovra. Il che non impedisce però il persistere di un certo periodo di insicurezza giuridica, come spesso avviene per le grandi innovazioni in questo e in altri campi. Ci si chiede inoltre se nel campo della protezione degli investitori
la Svizzera debba sempre e in ogni caso adeguarsi alla legislazione europea. Si sa comunque che, per ottenere l’accesso al mercato finanziario europeo, la Svizzera deve adeguare la sua legge sulla protezione degli investitori alla direttiva europea Mifid II. Dal progetto uscito dal dibattito parlamentare si può però constatare che la legge svizzera non è così incisiva quanto la direttiva europea. Contiene minori riferimenti alla trasparenza dei costi, non ci sono divieti per quanto concerne le retrocessioni su investimenti finanziari, mentre consente un trattamento differenziato della classifica dei clienti. Questo deriva dal fatto che il primo progetto svizzero di legge era molto «interventista», ma è stato «edulcorato» nelle varie fasi di discussione. Anche l’ordinanza d’applicazione è meno dettagliata della direttiva europea, il che lascia agli istituti finanziari un certo spazio di manovra nella sua applicazione. Date queste modifiche sostanziali anche l’ordinanza non dovrebbe comportare cambiamenti di rilievo. Resta
comunque sempre l’incognita per l’esito delle discussioni sull’accordo europeo. Una mancata adesione potrebbe impedire agli istituti svizzeri l’accesso a questo mercato, anche se tutte le esigenze della direttiva europea fossero applicate alla lettera. Ma vi sono seri motivi che inducono ad adeguarsi alle direttive UE. Per esempio, l’accordo di Lugano dà ai clienti UE di istituti svizzeri la facoltà di adire ai tribunali del proprio paese di residenza. Ciò comporta rischi notevoli per gli istituti elvetici. Per questo le grandi banche svizzere hanno deciso di adeguarsi completamente alla Mifid II dell’UE. Del resto, la stessa FINMA chiede agli istituti svizzeri di adeguarsi alle regole estere in presenza di clienti dall’estero. Il presidente dell’Associazione dei gestori di patrimoni fa notare che l’ordinanza sulla Fidleg chiede la verifica della proprietà del capitale depositato e più precisamente dati sulla provenienza del deposito, sull’ammontare del reddito, sulla sostanza, nonché su eventuali impegni finanziari attuali e futuri.
L’interpretazione di questi dispositivi può essere molto ampia. Per esempio, esigere piani di previdenza, la formazione dei figli, l’acquisto o la ristrutturazione di una casa. Una procedura che può costare a ogni istituto ed espone a rischi di citazioni in tribunali. Il che conferma quanto temuto fin dall’inizio e cioè che i piccoli e medi gestori non saranno in grado di fare questo lavoro. Una soluzione potrebbe essere quella di disporre di centrali comuni, per esempio per l’informatica. Anche i gestori indipendenti autorizzati verranno sorvegliati in futuro dalla FINMA, attraverso un’apposita istanza di controllo. I tempi per adeguarsi alle nuove regole sono prolungati fino al 2022. Entro questo termine ci saranno parecchie pressioni sui gestori indipendenti, che dovranno probabilmente aderire a istituti più grandi oppure fondare nuove associazioni con vincoli più stretti e riconoscimenti ufficiali. Il che non è sempre negativo, come facevamo notare anche nell’articolo del 18.12.2017.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 febbraio 2019 • N. 08
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Politica e Economia
L’oro tende al rialzo La consulenza della Banca Migros
Thomas Pentsy
Dall’autunno il prezzo dell’oro ha registrato un forte rialzo 1400
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Oncia troy d’oro in dollari USA
tense si sta esaurendo; dall’altro, negli Stati Uniti il ciclo dei tassi sta volgendo al termine. Nel corso del 2019, sulla scia di un dollaro con tendenza all’indebolimento, l’oro ha senz’altro il potenziale per attestarsi in modo du-
raturo nella fascia compresa tra i 1300 e i 1350 dollari USA per oncia troy. Nell’allocazione del suo patrimonio, in dicembre la Banca Migros ha leggermente aumentato la quota in oro a scapito delle materie prime. Con-
Fonte: Bloomberg (al 28.01.19)
Thomas Pentsy è analista di mercato e dei prodotti presso la Banca Migros
L’oro è tornato alla ribalta riconfermando la sua reputazione d’investimento rifugio in tempi di crisi. Dopo aver registrato un primo semestre 2018 difficile, le quotazioni dell’oro hanno segnato una crescita costante a partire dallo scorso autunno. L’aumento del prezzo è riconducibile soprattutto alle correzioni dei corsi talvolta significative e alla volatilità generalmente più sostenuta sui mercati azionari globali. Inoltre, il prezzo dell’oro ha beneficiato del calo dei tassi che di recente è tornato a caratterizzare gli Stati Uniti. Anche i timori per l’economia mondiale in fase di rallentamento e la perdurante controversia commerciale ne hanno sostenuto l’ascesa. Se il prezzo dell’oro potrà mantenersi durevolmente oltre i 1250 dollari l’oncia, dipenderà tra l’altro dalla valuta statunitense. Tra l’oro e il dollaro esiste un nesso negativo, ovvero in genere quando il dollaro sale, il prezzo dell’oro scende, e viceversa. Un dollaro costantemente forte limita il potenziale di rialzo del metallo prezioso, poiché rende l’oro più caro per gli investitori al di fuori dell’area del dollaro. La Banca Migros prevede che nel corso dell’anno il dollaro subirà un lieve indebolimento rispetto all’euro e al franco svizzero. Da un lato, infatti, il dinamismo dell’economia statuni-
sigliamo di mantenere una piccola quota in oro come integrazione ai portafogli, sia per motivi di diversificazione sia come copertura contro eventuali periodi di instabilità sulle borse. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 febbraio 2019 • N. 08
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi La Svizzera nel vicolo cieco Dagli stranieri che scrivono sulla Svizzera siamo abituati a sentire solo complimenti, apprezzamenti entusiastici quando non addirittura esaltazioni. Il nostro paese viene lodato per le sue bellezze naturali, per il modo con il quale viene gestito, per la qualità dei suoi prodotti e della sua ricerca, per la pace sociale e chi più ne ha più ne metta. Non di rado la Svizzera viene addirittura designata come un modello da seguire, per esempio nella costruzione dell’Europa. Lo straniero che, invece di lodare, critica la Svizzera è invece un’eccezione. Ma di stranieri, critici del nostro paese, ce ne sono sempre stati, da Friedrich Engels in avanti. E siccome qualche volta le critiche possono anche servire pensiamo sia utile occuparci di una pubblicazione sulla Svizzera, apparsa recentemente nella basilese Zytglogge. L’autore, Steffen Klatt, un giornalista tedesco che ha lavorato diversi anni da noi, vi sostiene che il nostro paese si trova attualmen-
te in un vicolo cieco dal quale non sembra sia capace di uscire. Questa tesi viene sviluppata nei cinque capitoli del libro, ciascuno dei quali disamina di un aspetto particolare di questa situazione critica. Il primo è dedicato al dilemma che si è creato dopo la decisione popolare del 2014 che chiedeva di limitare la libera circolazione della manodopera proveniente dai paesi dell’Unione Europea. La legislazione adottata dal parlamento federale, sostiene Klatt, non rispetta il dettato dell’iniziativa popolare. Per poter dar seguito alla stessa, però, la Svizzera avrebbe dovuto rinunciare ai trattati bilaterali con l’U.E. In altre parole la scelta era tra due mali e per evitarla il parlamento svizzero ha cercato di guadagnare tempo con una soluzione che non dà seguito all’iniziativa. Nel secondo capitolo l’autore sostiene che l’economia svizzera sta soffocando. Il settore finanziario, così importante per l’economia del nostro paese, sta facen-
do le spese dell’abolizione del segreto bancario. L’industria degli orologi e il turismo, due pilastri dell’esportazione svizzera sono in crisi. In crisi è pure il settore dell’energia elettrica al quale riesce difficile adattarsi alla nuova situazione concorrenziale. Secondo l’autore di questa pubblicazione vi è addirittura il pericolo che questo settore diventi, come l’agricoltura, un settore assistito, a carico della Confederazione. Klatt non dimentica poi di ricordare gli effetti devastatori del franco forte, in particolare per l’industria delle macchine, ed esprime dubbi sulla vera importanza di fattori localizzativi come la qualità e la precisione della produzione perché oggi si possono praticamente ottenere dappertutto. L’economia svizzera, afferma infine il Nostro, non è riuscita a realizzare il passaggio dalla macchina al digitale. Nel terzo capitolo l’attenzione si sposta sulla politica. Il sistema politico svizzero funziona a vuoto. È fissato sui
problemi interni e incapace di risolvere quelli che gli vengono posti dalle trasformazioni a livello internazionale. Nei due capitoli finali, Klatt risale il corso della storia per capire come si sia potuti arrivare a questa situazione. Il capitolo quarto è così dedicato all’analisi dell’evoluzione dei rapporti tra lo Stato e l’economia, mentre il quinto contiene una critica del concetto di democrazia diretta. La democrazia diretta, intesa come partecipazione del popolo al governo del paese, è un mito, conclude Klatt tra l’altro anche perché gli stranieri non possono votare e la partecipazione degli elettori continua a diminuire. Per non lasciarci del tutto con l’amaro in bocca, Klatt aggiunge poi un capitoletto finale nel quale dapprima illustra come le difficoltà della Svizzera possano servire da lezione all’Europa e poi considera quello che si dovrebbe fare per uscire dal vicolo cieco. Occorrerebbe, da un lato, riparare il rapporto con l’Europa. Una soluzione
fatta non esiste, ma questo non significa che non se ne possa costruire una. Più difficile, per Klatt, è il secondo tipo di riparazione: quella della struttura politica del paese. Tre sono le sfide che bisognerebbe superare. La prima è quella di dare voce agli stranieri che vivono nel paese seguendo il principio, espresso nella costituzione americana, «No taxation without representation». La seconda sfida è rappresentata dalla necessità di attribuire una nuova vita alla democrazia diretta, per esempio offrendo al cittadino la possibilità di partecipare al processo legislativo fin dall’inizio e non solo quando la legge è già stata approvata in parlamento. L’ultima sfida concerne i Cantoni che, con la Confederazione, devono ridiventare le due colonne portanti del federalismo elvetico. Per Klatt, è questa è forse una delle conclusioni più curiose della sua analisi, di questa imponente opera di rinnovamento potrebbe farsi carico solo il partito liberale-radicale.
di cominciare anche per il veto del «clan degli andalusi»: l’opposizione interna che fa capo al Grande Vecchio del socialismo iberico, il sivigliano Felipe Gonzalez. Se la ricca Catalogna se ne va, alla povera Andalusia che resta? Così ora a casa va mestamente Sanchez, sconfitto nettamente in Parlamento sui «Presupuestos», il bilancio dello Stato. Inevitabili a questo punto le elezioni anticipate. Nel frattempo a destra è accaduto di tutto. Rajoy, accusato di non aver avuto pugno abbastanza duro con i catalani – nonostante le manganellate della Guardia Civil agli elettori del referendum illegale –, è tornato a lavorare al catasto nella sua Galizia. L’erede designata Soraya Saenz de Santamaria è stata clamorosamente battuta alle primarie da Pablo Casado, l’uomo di José-Maria Aznar, padrino dell’ala dura del partito popolare. Ma neppure lui è riuscito a frenare la nascita di una forza a destra del Pp, novità assoluta nella giovane democrazia spagnola. Una mutazione storica, un tabù infranto. Vox ha già fatto nascere
un governo di destra in Andalusia, un tempo bastione rosso. Anche in Spagna i populisti sono entrati in partita. La campagna elettorale si annuncia infuocata. Sànchez gioca la carta dell’Europa, facendosi fotografare accanto a Merkel e Macron: con l’Italia fuori gioco, la Spagna si candida a terza forza dopo Germania e Francia. Non è detto però che ai fini interni la mossa socialista rappresenti un vantaggio. Le grandi capitali dell’Unione non sono mai state così deboli: Londra quasi fuori, Parigi sottosopra, Berlino incupita dal tramonto della Cancelliera; Barcellona, la più grande città non capitale del continente, freme. L’Europa è a un tornante della storia; tra cento giorni elegge il proprio Parlamento; e non sarà un voto qualunque. In tutto questo si inserisce, per quel che riguarda specificamente la Spagna, la guerra della memoria. I socialisti sono accusati di pensare e rappresentare il Paese come un grande set di Almodovar, con suore sieropositive, preti inevitabilmente pedofili, madri che
diventano padri e viceversa. E di voler imporre una menzogna storica: il mito dell’antifranchismo di massa coltivato dagli scrittori, il giacobinismo di Savater, l’anticlericalismo di Javier Marias: l’intellighentsia di sinistra è accusata di voler ribaltare la storia, rimuovendo il consenso che Franco ha comunque in parte avuto. Dall’altra parte, si risponde che, dopo tanto silenzio, gli spagnoli non devono aver paura di sapere: la verità non è mai inopportuna. Per quarant’anni il franchismo ha martellato il popolo con la propaganda, la cui eco si avverte oggi nella pubblicistica della destra. I separatisti catalani raffigurano la loro terra come antifranchista. Ma quando intervistai Manuel Fraga Iribarne, delfino di Franco e fondatore del partito popolare, mi disse che tutte le volte che accompagnava il Caudillo a Barcellona l’accoglienza della borghesia catalana era entusiasta. La realtà è che misurare il consenso di una dittatura è sempre molto difficile. E a evocare i fantasmi del passato si sbaglia quasi sempre, anche quando farlo sarebbe giusto.
nel contempo era cresciuta nel paese l’apprensione per le sorti dell’ambiente, i timori per l’inquinamento e per i guasti provocati dalle piogge acide. La ferrovia poteva contare su un capitale di simpatia che non aveva eguali nel campo dei trasporti. A tutto questo si aggiungeva la funzione nazionalpatriottica che la strada ferrata aveva esercitato fin dagli albori. Lo storico dell’economia William E. Rappard, esaminando gli effetti della Costituzione del 1848, la poneva al centro del processo di edificazione nazionale accanto alla rete viaria, motore e collante della coesione nazionale: «È appunto al progresso della tecnica nei trasporti, cioè essenzialmente alla strada e alla ferrovia, che il popolo svizzero deve in primo luogo il senso crescente della sua unità nazionale. È pensabile che il popolo svizzero avrebbe cercato e realizzato un’unità nazionale, se nel XIX
e nel XX secolo la distanza da Ginevra a Coira e da Basilea a Lugano, calcolata in ore e in spese di viaggio, fosse ancora stata quella dei cinque secoli precedenti?». Questa consapevolezza di dover lavorare per avvicinare i cantoni dopo la guerra del Sonderbund (quelli progrediti a quelli arretrati, quelli di pianura a quelli di montagna, quelli protestanti a quelli cattolici) fu ben presente nella mente dell’élite liberale del XIX secolo, la cui figura di prua fu indubbiamente Alfred Escher, il «barone» di Zurigo, di cui la città festeggia il bicentenario della nascita (20 febbraio 1819). Il disegno di questo influente esponente della borghesia zurighese era lineare e ambizioso: collocare l’iniziativa ferroviaria in un ecosistema imprenditoriale più vasto, che comprendesse sia la formazione accademica (tecnici, architetti, ingegneri, geologi), sia il flusso del credito.
Sorsero così, come tessere di un mosaico, il Politecnico federale, il Credito svizzero e la compagnia di assicurazioni Rentenanstalt: una tela di ragno che Escher guidava e controllava con mano ferma, forte dei mille agganci che come politico iperattivo in vari consessi, cantonali e federali, aveva saputo coltivare sia nell’operosa Zurigo, sia nell’amministrativa Berna. Escher, com’è noto, fu uno dei fautori della ferrovia del Gottardo, opera grandiosa che però fu anche all’origine delle sue disgrazie come capitano d’industria e come finanziere. Scorrendo la sua biografia si rimane colpiti dalla sua energia come pure dalla sua lungimiranza. Ma balza all’occhio anche un altro aspetto, frequente nelle élites del tempo: l’insensibilità per la questione sociale, per i minatori e i manovali che nelle buie caverne scavate sotto le Alpi morivano come mosche.
In&outlet di Aldo Cazzullo Una parodia di guerra civile C’è un Paese antico, ai confini occidentali dell’Europa, assolato, dinamico, che potrebbe essere felice, invece si sta dilaniando in una sorta di parodia di guerra civile. È la Spagna. Settantaquattro anni di carcere. È la richiesta di Vox, l’arrembante partito di estrema destra, per l’ex vicepresidente catalano Oriol Junqueras, additato come «capo di un’organizzazione criminale». La procura che ha messo sotto processo lui e gli altri leader indipendentisti di Barcellona si accontenterebbe di 25 anni per ribellione, ma il movimento di Santiago Abascal Conde, il leader con la pistola, ha ottenuto di presentarsi come parte civile nel maxiprocesso ai protagonisti del separatismo catalano. Dirigenti politici eletti dal popolo, che hanno certo sbagliato a forzare la legge, ma ora si ritrovano ostaggio di una partita molto più grande di loro, in un’altalena tra l’ergastolo e l’amnistia che sarebbe la logica conseguenza di un accordo, per ora remotissimo. Infuria semmai lo scontro tra opposti sovranismi, quello catalano e quello
spagnolista, che domenica scorsa si è dato convegno a Madrid in plaza de Colon, la piazza della destra; dove tra falangisti che cantavano «Cara al Sol» e salutavano romanamente si è trovato a proprio agio Manuel Valls, candidato sindaco di Barcellona, ex primo ministro socialista francese, venuto a manifestare contro il primo ministro socialista spagnolo, Pedro Sanchez. Del resto era stato proprio Sanchez a evocare il demone franchista, pretendendo di riesumare dal Valle de los Caìdos le spoglie del Caudillo, difese strenuamente dall’abate legatissimo alla memoria del dittatore. In tutto questo, mercoledì scorso è di fatto caduto il governo. Un trauma che appare il semplice corollario della tempesta perfetta che incombe sul Paese. Sanchez non aveva vinto le elezioni. Era però riuscito ad aggregare i populisti di Podemos, i separatisti catalani e i nazionalisti baschi per far cadere Mariano Rajoy, e prenderne il posto. Un governo debole, nato dal rigetto della destra e dall’esigenza di aprire un dialogo con Barcellona, fallito prima
Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti Élite e potere: il caso Escher All’estero, ma soprattutto in Italia, spesso ci chiedono, non senza manifestare stupore, come mai AlpTransit non abbia incontrato resistenze, e abbia anzi beneficiato di un largo consenso, più volte confermato dalle urne. Una traiettoria, insomma, per nulla paragonabile – nelle premesse e nelle fasi della sua realizzazione – a quella che da decenni sta tormentando e lacerando la val di Susa con l’alta velocità (Tav), senza tangibili progressi. Le risposte sono più di una. C’era, innanzitutto, l’esigenza di sgravare la linea ottocentesca di un carico non più sopportabile; in secondo luogo, la necessità di trasferire progressivamente le merci dalla strada alla rotaia. Sul piano più generale, la galleria di base avrebbe accelerato l’integrazione del Ticino nello spazio transalpino, un’area dinamica non soltanto nel secondario (industrie) e terziario (finanza),
ma anche nella formazione (università e politecnico). Da questa stessa area ci si attendeva una ripresa dei flussi turistici verso sud, da tempo languenti. Questo era il lato pratico-concreto, comprendente sia l’economia che l’ecologia. C’era però un ostacolo che occorreva rimuovere, ovvero l’opposizione dei cantoni romandi, preoccupati che il San Gottardo rimandasse il Lötschberg. Di qui la soluzione di costruire entrambi i trafori, in base ai collaudati schemi del compromesso elvetico. Non furono dunque pur raffinate analisi costi-benefici a determinare le scelte sopra esposte. Anzi, probabilmente il fattore materiale non fu nemmeno il fattore determinante. La trasversale alpina rientrava nelle rivendicazioni che la minoranza ticinese sottoponeva regolarmente alle autorità federali, ricevendo risposte non sempre nette e convincenti. Ma
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Cultura e Spettacoli Grande musica classica Carolin Widmann e Giuliano Carmignola protagonisti di due concerti a Lugano e a Ginevra
Novant’anni di Oscar La statuetta più ambita del mondo della cinematografia compie novant’anni: ne ripercorriamo l’incredibile storia pagina 37
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L’Italia della rinascita Una spettacolare mostra celebra il (lontano) periodo della rinascita economica italiana
Una storia di donne Il fortunato caso della trilogia di Carmela Korn, che ripercorre la storia di quattro donne
È terribile il giorno della marmotta
I compagni di via ricordano Giovanni Orelli
Netflix Russian Doll e You, due nuove imperdibili serie
Pubblicazioni La rivista «Il Cantonetto»
dedica un numero speciale allo scrittore ticinese, a due anni dalla sua scomparsa
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L’edificio Bauhaus di Dessau-Rosslau progettato da Walter Gropius e costruito nel 1925-26. (Keystone)
Dall’alto, Brandon Sexton III e Natasha Lyonne in Russian Doll. (Keystone)
Bauhaus: un secolo di design
Mariarosa Mancuso
Anniversari Il movimento che ha cambiato la nostra percezione del bello compie cent’anni Luciana Caglio Le parole testimoni della storia: proprio design lo è, a pieno titolo. Già attraverso il suo stesso significato. Da vocabolo inglese, sinonimo di disegno e progetto, è cresciuto a neologismo, entrando nel linguaggio corrente mondiale da protagonista. Definisce un concetto del tutto nuovo: l’abbinamento estetica-funzione che ha cambiato l’aspetto della nostra quotidianità creando professioni, scuole, mode. Una svolta, dagli effetti permanenti, che risale esattamente a un secolo fa. Nel febbraio 1919, a Weimar, dove l’Assemblea nazionale aveva votato la costituzione della futura Repubblica democratica, nasce, dalla fusione fra l’Accademia granducale di belle arti e la Scuola d’artigianato, il Bauhaus. Il fondatore è Walter Gropius, architetto e urbanista lungimirante, che, nel discorso inaugurale, dichiara: «L’incontro tradizione-novità deve diventare il terreno su cui edificare una repubblica delle menti». Una visione idealista che ispira, da un lato, un’esperienza politica e, dall’altro, culturale: ma che, ben presto, dovrà arrendersi alla realtà. Con l’avvento del nazismo, nel 1933, si conclude il tentativo democratico di Weimar e, lo stesso anno, finisce anche l’esperienza del Bauhaus su suolo tedesco. Considerati pericolosi sovversivi, maestri e allievi di una scuola d’avanguardia, fu-
rono costretti a emigrare oltre Oceano. È un involontario regalo agli USA, dove questi straordinari profughi riuscirono a dare continuità, almeno in parte, ai loro propositi. Rilevante il contributo alla diffusione del razionalismo in architettura. Gropius ne insegna i criteri agli studenti di Harvard. Mentre un altro esule, Mies van der Rohe, fonda il «New Bauhaus», non a caso a Chicago, la città più aperta al cambiamento, si può dire per tradizione. Qui, dopo l’incendio che, nel 1871, aveva distrutto il centro finanziariocommerciale, si decise di costruire in altezza: una primizia chiamata grattacielo. Qui, nel 1875, l’architetto Louis Henry Sullivan dichiarava: «La forma deve sempre seguire la funzione», anticipando il principio base del futuro design. E, qui, sempre Sullivan, nel suo studio assumeva un giovane ingegnere, che si chiamava Frank Lloyd Wright. Insomma, Mies van der Rohe trovò a Chicago proprio l’ambiente più ricettivo al messaggio del Bauhaus europeo. Che, però era stato un esperimento irripetibile. A Weimar, si affrontò un progetto rivoluzionario ad ampio raggio, che racchiudeva anche un’utopia. Partiva, certo, dall’esigenza concreta di associare l’invenzione artistica e le capacità artigianali ai ritrovati della tecnica e all’efficienza dell’industria. In altre parole, produrre oggetti d’uso quo-
tidiano: belli perché funzionali. Un automatismo, però contestato da critici, tutt’altro retrogradi, come Ernst Gombrich che replicava: «Ci sono cose funzionalmente corrette eppure piuttosto brutte o almeno insignificanti». Del resto, anche in seno alla compagine del Bauhaus, c’era chi considerava questo nuovo credo un ostacolo alla libertà d’espressione. Fu il caso del pittore svizzero Johannes Itten, docente della prima ora a Weimar, che, nel 1922, decise di andarsene per ragioni d’incompatibilità: temperamento poetico, sensibile agli influssi esoterici, privilegiava una piena indipendenza creativa. Al suo posto subentrò l’ungherese Moholy -Nagy, convinto seguace dell’indirizzo tecnico impresso da Gropius, cultore della macchina tanto da progettare carrozzerie d’auto e una locomotiva Diesel. Intanto la scuola-laboratorio di Weimar era riuscita ad assicurarsi la collaborazione di maestri i cui nomi appartengono ormai alla storia dell’arte: stiamo parlando di Klee, Kandinskij, Feininger, Breuer, Muche, Schlemmer, Mies van der Rohe, che impartivano lezioni a 163 studenti, fra cui 84 ragazze: una presenza femminile che la dice lunga sullo spirito d’avanguardia di un istituto singolare e senza precedenti. Qui, infatti, s’imparava a tradurre la teoria in pratica, si sperimentavano forme inedite. E allo studio si affiancava lo svago, ascoltando musi-
ca, ovviamente d’avanguardia, partecipando a spettacoli teatrali, indossando abiti di propria creazione. Insomma, un mondo a parte che, per forza di cose, doveva insospettire quello della normalità e dell’ufficialità culturale e soprattutto politica. Gropius decise allora di mettersi in proprio, trasferendo, nel 1926, la scuola a Dessau, in un edificio da lui progettato secondo i canoni del razionalismo. E sarà appunto il razionalismo in architettura e in urbanistica a contrassegnare la seconda stagione del Bauhaus che, sotto la guida di Moholy-Nagy, si allontana dall’ambito della creatività individuale, per inoltrarsi sul terreno della costruzione a carattere pubblico e sociale. La tendenza si accentua, nella fase successiva, sotto la direzione dello svizzero Hannes Meyer, uno quasi di casa nostra: morì a Savosa nel 1954, dopo una vita di eterno viandante anche dal profilo ideologico. Fatto sta che il suo motto «Soddisfare i bisogni del popolo e non del lusso», chiaramente socialista, non poteva che accelerare la fine del Bauhaus. Si è nel 1930 e l’aria diventa irrespirabile per i promotori di un rinnovamento che va ben oltre il design di oggetti ed edifici, ma influisce su opinioni e comportamenti. Insomma, una presenza che disturba i nuovi detentori del potere. Nell’infausto 1933, il Bauhaus, costretto a trasferirsi in un capannone a Berlino, chiude i battenti .
Alessandro Zanoli
Breve l’effettiva stagione di questa scuola: frequentata, in 14 anni, da 1250 allievi. Enorme, inesauribile e molteplice il suo influsso, sul piano mondiale. Le sue diramazioni dovevano, infatti, animare, in tutt’Europa, fortunate correnti innovative. In Svizzera, il design ispirò, nel secondo dopoguerra, il linguaggio grafico nella pubblicità. Mentre, in Ticino, il razionalismo in architettura, precursore Rino Tami, mobilitò una generazione di promettenti talenti. In Italia, la lezione del Bauhaus attecchì nell’industrial design, attraverso mobili, lampade, utensili progettati da Albini, Zanuso, Viganò, Max Bill, e via enumerando gli artefici di una nuova estetica ed etica quotidiana: poche cose essenziali e belle. Un principio, poi tradito dagli eccessi del consumismo che innescò la smania dell’acquisto per l’acquisto. Intanto, Svezia e Danimarca proponevano, con successo, lo stile nordico nell’arredamento, che rispondeva a mutate condizioni abitative e familiari: piccoli spazi, piccole famiglie, singles. Una lezione, quella del Bauhaus, tutt’altro che conclusa. I suoi «pezzi» identitari più celebri, dalla sdraio Le Corbusier alla sedia in tubi di metallo Mies van der Rohe, alla lampada Wilhelm Wagenfeld, alla teiera Marianne Brandt, figurano ormai nei musei, promossi a classici intramontabili.
Era il giorno della marmotta, lo scorso 2 gennaio. A Punxsutawney, Pennsylvania, il roditore ha fatto le sue previsioni del tempo: la primavera arriverà in anticipo sul calendario. Non ci azzecca sempre, la bestiola, ma è tradizione bussare alla sua tana e osservarne il comportamento (per gli anti-americani, nonché cultori delle tradizioni popolari indigene, il giorno corrisponde alla nostra Candelora, con il suo proverbio: «Per la santa Candelora se nevica o se plora dell’inverno siamo fora»).
La «tradizione» del giorno della marmotta ebbe inizio nel 1983 grazie a un film con Bill Murray Il film del 1993 con Bill Murray – ne esiste anche una versione italiana con Antonio Albanese – ha iniziato una nuova tradizione. Dicesi «giorno della marmotta» un giorno del tutto uguale a un altro, e poi a un altro, e a un altro ancora. Sarà capitato anche a voi (a noi capita ai festival cinematografici, quando i film non c’è bisogno di vederli perché sono fatti con lo stampino, e con lo stampino sono fatte le recensioni dei critici). Un giorno prima del giorno della marmotta, Netflix ha lanciato Russian Doll, miniserie scritta da Natasha Lyonne, Amy Poehler e Leslye Headland (ricordiamo un suo film visto al Festival di Locarno, con il titolo Bachelorette: inaspettato antidoto al giorno
della marmotta in cui stavamo precipitando). Otto episodi da mezz’ora: per il binge watching basta un pomeriggio domenicale – state attenti perché è difficile smettere. Come era difficile smettere con The End of the F***ing World, la più bella serie adolescenziale in circolazione (altro gioiello di casa Netflix, che l’ha comprato fatto, scorrettezze politiche e strepitosi attori compresi, da Channel 4). Russian Doll sono le matrioske, bambolina dentro bambolina dentro bambolina (per i distratti lo ricorda il manifesto). Nadia – la rossa Natascha Lyonne, sembra essersi cucita il copione su misura – è alla festa per i suoi 36 anni: ospiti più o meno sballati e padrona di casa che ama cucinare, ma quando lo fa viene colta dall’ansia. Di mestiere fa la programmatrice, vive con un gatto che sappiamo essere scappato di casa, per hobby rimorchia un giovanotto e si rotola con lui tra le lenzuola. Son cose che si fanno, da Sex & the City in poi, non solo a New York. Il gatto smarrito ricompare, sull’altro marciapiede. Nadia attraversa senza guardare e viene travolta da un’auto. Si ritrova nello stesso bagno dove l’abbiamo vista all’inizio. Tutto ricomincia, un po’ diversamente da come era accaduto prima. Di nuovo, ma un po’ diversamente da come era accaduto prima, rimane sotto una macchina. Si ritrova davanti allo specchio del bagno, tale e quale a prima: stessa musica stesso neon stessa gente che bussa per entrare. Una, due, tre, quattro, cinque volte. Non ne servono altre per immaginare come la storia prosegue. A nulla serve evitare le auto, guardare bene a destra e guardare bene a sinistra. Nadia finisce, telefonino e
tutto, dentro un montacarichi. Morta. Epperò di nuovo si aggiusta i capelli rossi davanti allo stesso specchio dello stesso bagno. Il resto è puro divertimento, e fa il paio con You, altra serie che Netflix ha rilanciato. Sulla tv americana via cavo Lifetime non ebbe molto successo. Ripresa dalla piattaforma streaming ha totalizzato 40 milioni di spettatori (per spettatore, si intende un abbonato che ha guardato almeno il 70 per cento di un episodio). Scritta da Greg Berlanti e Sera Gamble, dal bestseller di Caroline Keynes pubblicato da Mondadori, racconta un’ossessione amorosa cominciata in libreria. Ambientazione bizzarra, rispetto agli standard, e la pista libraria resterà per tutti gli episodi, senza mai scivolare nei luoghi comuni e nei proclami sulla lettura che rende migliori, e «dove c’è una biblioteca il tasso di criminalità scende» (lo disse Michela Murgia, ancora fatichiamo a riprenderci). La bionda Guinevere curiosa tra gli scaffali, dalla lettera F alla K. Il commesso esclude William Faulkner (la ragazza non sembra voler fingere interesse per uno scrittore ostico) e pure Stephen King (la ragazza ha l’aria troppo sana e abbronzata). La bella chiede Desperate Characters di Paula Fox, scrittrice che ha avuto un suo momento di culto, non disgiunto dal fatto che risultò essere la nonna di Courtney Love. Passione al primo libro: il commesso comincia a seguirla, a spiarla, si appropria del cellulare, osserva le mosse della ragazza sui social network, cerca di strapparla alle amiche e al fidanzato in carica, un miliardario che fa l’hipster e crede nelle bibite gassate biologiche. Sul resto della trama, silenzio stampa.
Un nutrito gruppo di studiosi si riunisce nelle pagine della rivista di Carlo Agliati per dar corpo a un numero sostanzioso, pieno di spunti di riflessione e ricco di ricerche che ci aiutano a conoscere meglio la figura e l’opera del nostro Giovanni Orelli. Dalle pagine (in cui è compresa una bella antologia di versi d’occasione affidata a dieci amici poeti) esce un ritratto approfondito ma anche curioso, grazie a un apparato iconografico in gran parte inedito che ci restituisce l’immagine di Orelli in vari momenti della sua carriera. L’intento celebrativo è persino un po’ commovente nella sentita silloge di saggi, che si pone senz’altro come un primo ricco contributo allo studio dell’opera complessiva di Orelli. Insieme agli atti (che speriamo di veder pubblicati presto) del convegno «Gioco e impegno dello “scriba”. L’opera di Giovanni Orelli – Nuove ricerche e prospettive», tenuto a Berna all’Archivio svizzero di letteratura lo scorso 6-7 dicembre, il numero della rivista ticinese è destinato a segnare un punto di inizio di grande valore per gli studi orelliani. A completare il profilo disegnato in queste pagine, vorremmo ricordare qui l’opera di Orelli pubblicista e divulgatore. Quello che dall’osservatorio della nostra redazione abbiamo imparato a conoscere nel corso degli anni. Il bell’articolo di Pietro Montorfani pubblicato qualche numero fa sulle nostre pagine (il suo testo era tratto proprio da uno degli interventi tenuti al congresso bernese) testimoniava di un impegno assiduo, intenso, dello scrittore quale osservatore del panorama editoriale. Orelli ha scritto, naturalmente, per varie testate ticinesi ma con la nostra redazione aveva un rapporto particolarmente intenso, ed era ricambiato da grande rispetto ma anche da molta simpatia. Tanto che le sue frequenti incursioni in redazione erano sempre momenti piacevoli e colloquiali. E anche il rapporto che si era instaurato con lui, con il passare degli anni, era diventato famigliare e divertente. Negli ultimi tempi capitava ogni tanto che Orelli chiedesse un aiuto, per telefono. E allora bisognava andare a casa sua, a Cassarate, in quella meravigliosa stanza piena di libri, ordinata con il suo disordine. Giovanni aveva imparato a scrivere con il computer, ma di quell’aggeggio provava un sacro timore. Il fondale del suo schermo era ricoperto da uno sciame di documenti,
Uno dei molti biglietti che Orelli indirizzava alla nostra redazione per accompagnare i suoi articoli.
iconette tutte uguali, in cui lui faticava un po’ a raccapezzarsi. In effetti, finito di scrivere un pezzo, salvava quello che poteva e dove riusciva, tutto lì davanti, come in un formicaio di pensieri. Quella galassia di quadrettini con l’iconetta «W» azzurra, era il frutto di un’attività intellettuale continua, pronta a raccogliere spunti e a organizzarli anche nelle riflessioni della sua rubrica «Meridiani e paralleli». Ma ogni tanto occorreva districarlo da quella confusione. In cambio, si usciva dalla sua casa con un libro tra le mani. Era un prestito a tempo indeterminato, già tacitamente un regalo: «Leggilo. Questo mi è piaciuto, dimmi cosa ne pensi». Aiutato dalle figlie, a volte gli riusciva di copiare gli articoli su una chiavetta USB. Qui in redazione la ricordiamo tutti, azzurra con il coperchio trasparente. La portava togliendola con soggezione dalla sua cartella, e la esibiva come un trofeo: «Qui dentro c’è Gozzano, e poi la Cristina Campo, e il pezzo su Manzoni» come se li avesse catturati tutti lì dentro. E subito chiedeva se non potevamo stampargli una copia dei testi. Perché non si sa mai... E non dimenticava di sollecitare, con premura, la restituzione del piccolo testimone digitale del suo lavoro. Orelli pubblicista era sempre attento alle ricorrenze, alle nuove uscite, alle discussioni d’attualità e ne traeva spunto per i suoi pezzi. Nel bel numero del «Cantonetto» manca forse un po’ il ricordo di quest’attitudine curiosa, data da un’indole quasi giornalistica, diremmo. La stessa, del resto, che gli sentivamo esprimere dalle onde radiofoniche durante le sue brillanti rassegne stampa culturali su Rete 2. Era il Giovanni Orelli che abbiamo conosciuto, attento e vicino al lavoro redazionale, i cui numeri «Orelli Casa» e «Orelli Bedretto» (registrati nella nostra rubrica elettronica) si accendevano spesso sul display dei nostri telefoni. Ci fa piacere, per converso, vedere che nel bellissimo «Gioco del Memorelly» (illustrazione-pretesto per un’intervista pubblicata su «Viceversa letteratura» del 2014, ripresa poi sulla locandina del convegno bernese) c’era anche «Azione», casella numero 2, tra le molte tappe che disegnavano il percorso della sua carriera. I suoi «Meridiani e paralleli» ci hanno orientato per anni nel mondo delle lettere e della cultura e siamo sicuri che anche i nostri lettori, ora, come noi, sentono la mancanza di quelle sue personalissime mappe letterarie.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 febbraio 2019 • N. 08
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 febbraio 2019 • N. 08
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Cultura e Spettacoli Grande musica classica Carolin Widmann e Giuliano Carmignola protagonisti di due concerti a Lugano e a Ginevra
Novant’anni di Oscar La statuetta più ambita del mondo della cinematografia compie novant’anni: ne ripercorriamo l’incredibile storia pagina 37
pagina 36
L’Italia della rinascita Una spettacolare mostra celebra il (lontano) periodo della rinascita economica italiana
Una storia di donne Il fortunato caso della trilogia di Carmela Korn, che ripercorre la storia di quattro donne
È terribile il giorno della marmotta
I compagni di via ricordano Giovanni Orelli
Netflix Russian Doll e You, due nuove imperdibili serie
Pubblicazioni La rivista «Il Cantonetto»
dedica un numero speciale allo scrittore ticinese, a due anni dalla sua scomparsa
pagina 38
pagina 39
L’edificio Bauhaus di Dessau-Rosslau progettato da Walter Gropius e costruito nel 1925-26. (Keystone)
Dall’alto, Brandon Sexton III e Natasha Lyonne in Russian Doll. (Keystone)
Bauhaus: un secolo di design
Mariarosa Mancuso
Anniversari Il movimento che ha cambiato la nostra percezione del bello compie cent’anni Luciana Caglio Le parole testimoni della storia: proprio design lo è, a pieno titolo. Già attraverso il suo stesso significato. Da vocabolo inglese, sinonimo di disegno e progetto, è cresciuto a neologismo, entrando nel linguaggio corrente mondiale da protagonista. Definisce un concetto del tutto nuovo: l’abbinamento estetica-funzione che ha cambiato l’aspetto della nostra quotidianità creando professioni, scuole, mode. Una svolta, dagli effetti permanenti, che risale esattamente a un secolo fa. Nel febbraio 1919, a Weimar, dove l’Assemblea nazionale aveva votato la costituzione della futura Repubblica democratica, nasce, dalla fusione fra l’Accademia granducale di belle arti e la Scuola d’artigianato, il Bauhaus. Il fondatore è Walter Gropius, architetto e urbanista lungimirante, che, nel discorso inaugurale, dichiara: «L’incontro tradizione-novità deve diventare il terreno su cui edificare una repubblica delle menti». Una visione idealista che ispira, da un lato, un’esperienza politica e, dall’altro, culturale: ma che, ben presto, dovrà arrendersi alla realtà. Con l’avvento del nazismo, nel 1933, si conclude il tentativo democratico di Weimar e, lo stesso anno, finisce anche l’esperienza del Bauhaus su suolo tedesco. Considerati pericolosi sovversivi, maestri e allievi di una scuola d’avanguardia, fu-
rono costretti a emigrare oltre Oceano. È un involontario regalo agli USA, dove questi straordinari profughi riuscirono a dare continuità, almeno in parte, ai loro propositi. Rilevante il contributo alla diffusione del razionalismo in architettura. Gropius ne insegna i criteri agli studenti di Harvard. Mentre un altro esule, Mies van der Rohe, fonda il «New Bauhaus», non a caso a Chicago, la città più aperta al cambiamento, si può dire per tradizione. Qui, dopo l’incendio che, nel 1871, aveva distrutto il centro finanziariocommerciale, si decise di costruire in altezza: una primizia chiamata grattacielo. Qui, nel 1875, l’architetto Louis Henry Sullivan dichiarava: «La forma deve sempre seguire la funzione», anticipando il principio base del futuro design. E, qui, sempre Sullivan, nel suo studio assumeva un giovane ingegnere, che si chiamava Frank Lloyd Wright. Insomma, Mies van der Rohe trovò a Chicago proprio l’ambiente più ricettivo al messaggio del Bauhaus europeo. Che, però era stato un esperimento irripetibile. A Weimar, si affrontò un progetto rivoluzionario ad ampio raggio, che racchiudeva anche un’utopia. Partiva, certo, dall’esigenza concreta di associare l’invenzione artistica e le capacità artigianali ai ritrovati della tecnica e all’efficienza dell’industria. In altre parole, produrre oggetti d’uso quo-
tidiano: belli perché funzionali. Un automatismo, però contestato da critici, tutt’altro retrogradi, come Ernst Gombrich che replicava: «Ci sono cose funzionalmente corrette eppure piuttosto brutte o almeno insignificanti». Del resto, anche in seno alla compagine del Bauhaus, c’era chi considerava questo nuovo credo un ostacolo alla libertà d’espressione. Fu il caso del pittore svizzero Johannes Itten, docente della prima ora a Weimar, che, nel 1922, decise di andarsene per ragioni d’incompatibilità: temperamento poetico, sensibile agli influssi esoterici, privilegiava una piena indipendenza creativa. Al suo posto subentrò l’ungherese Moholy -Nagy, convinto seguace dell’indirizzo tecnico impresso da Gropius, cultore della macchina tanto da progettare carrozzerie d’auto e una locomotiva Diesel. Intanto la scuola-laboratorio di Weimar era riuscita ad assicurarsi la collaborazione di maestri i cui nomi appartengono ormai alla storia dell’arte: stiamo parlando di Klee, Kandinskij, Feininger, Breuer, Muche, Schlemmer, Mies van der Rohe, che impartivano lezioni a 163 studenti, fra cui 84 ragazze: una presenza femminile che la dice lunga sullo spirito d’avanguardia di un istituto singolare e senza precedenti. Qui, infatti, s’imparava a tradurre la teoria in pratica, si sperimentavano forme inedite. E allo studio si affiancava lo svago, ascoltando musi-
ca, ovviamente d’avanguardia, partecipando a spettacoli teatrali, indossando abiti di propria creazione. Insomma, un mondo a parte che, per forza di cose, doveva insospettire quello della normalità e dell’ufficialità culturale e soprattutto politica. Gropius decise allora di mettersi in proprio, trasferendo, nel 1926, la scuola a Dessau, in un edificio da lui progettato secondo i canoni del razionalismo. E sarà appunto il razionalismo in architettura e in urbanistica a contrassegnare la seconda stagione del Bauhaus che, sotto la guida di Moholy-Nagy, si allontana dall’ambito della creatività individuale, per inoltrarsi sul terreno della costruzione a carattere pubblico e sociale. La tendenza si accentua, nella fase successiva, sotto la direzione dello svizzero Hannes Meyer, uno quasi di casa nostra: morì a Savosa nel 1954, dopo una vita di eterno viandante anche dal profilo ideologico. Fatto sta che il suo motto «Soddisfare i bisogni del popolo e non del lusso», chiaramente socialista, non poteva che accelerare la fine del Bauhaus. Si è nel 1930 e l’aria diventa irrespirabile per i promotori di un rinnovamento che va ben oltre il design di oggetti ed edifici, ma influisce su opinioni e comportamenti. Insomma, una presenza che disturba i nuovi detentori del potere. Nell’infausto 1933, il Bauhaus, costretto a trasferirsi in un capannone a Berlino, chiude i battenti .
Alessandro Zanoli
Breve l’effettiva stagione di questa scuola: frequentata, in 14 anni, da 1250 allievi. Enorme, inesauribile e molteplice il suo influsso, sul piano mondiale. Le sue diramazioni dovevano, infatti, animare, in tutt’Europa, fortunate correnti innovative. In Svizzera, il design ispirò, nel secondo dopoguerra, il linguaggio grafico nella pubblicità. Mentre, in Ticino, il razionalismo in architettura, precursore Rino Tami, mobilitò una generazione di promettenti talenti. In Italia, la lezione del Bauhaus attecchì nell’industrial design, attraverso mobili, lampade, utensili progettati da Albini, Zanuso, Viganò, Max Bill, e via enumerando gli artefici di una nuova estetica ed etica quotidiana: poche cose essenziali e belle. Un principio, poi tradito dagli eccessi del consumismo che innescò la smania dell’acquisto per l’acquisto. Intanto, Svezia e Danimarca proponevano, con successo, lo stile nordico nell’arredamento, che rispondeva a mutate condizioni abitative e familiari: piccoli spazi, piccole famiglie, singles. Una lezione, quella del Bauhaus, tutt’altro che conclusa. I suoi «pezzi» identitari più celebri, dalla sdraio Le Corbusier alla sedia in tubi di metallo Mies van der Rohe, alla lampada Wilhelm Wagenfeld, alla teiera Marianne Brandt, figurano ormai nei musei, promossi a classici intramontabili.
Era il giorno della marmotta, lo scorso 2 gennaio. A Punxsutawney, Pennsylvania, il roditore ha fatto le sue previsioni del tempo: la primavera arriverà in anticipo sul calendario. Non ci azzecca sempre, la bestiola, ma è tradizione bussare alla sua tana e osservarne il comportamento (per gli anti-americani, nonché cultori delle tradizioni popolari indigene, il giorno corrisponde alla nostra Candelora, con il suo proverbio: «Per la santa Candelora se nevica o se plora dell’inverno siamo fora»).
La «tradizione» del giorno della marmotta ebbe inizio nel 1983 grazie a un film con Bill Murray Il film del 1993 con Bill Murray – ne esiste anche una versione italiana con Antonio Albanese – ha iniziato una nuova tradizione. Dicesi «giorno della marmotta» un giorno del tutto uguale a un altro, e poi a un altro, e a un altro ancora. Sarà capitato anche a voi (a noi capita ai festival cinematografici, quando i film non c’è bisogno di vederli perché sono fatti con lo stampino, e con lo stampino sono fatte le recensioni dei critici). Un giorno prima del giorno della marmotta, Netflix ha lanciato Russian Doll, miniserie scritta da Natasha Lyonne, Amy Poehler e Leslye Headland (ricordiamo un suo film visto al Festival di Locarno, con il titolo Bachelorette: inaspettato antidoto al giorno
della marmotta in cui stavamo precipitando). Otto episodi da mezz’ora: per il binge watching basta un pomeriggio domenicale – state attenti perché è difficile smettere. Come era difficile smettere con The End of the F***ing World, la più bella serie adolescenziale in circolazione (altro gioiello di casa Netflix, che l’ha comprato fatto, scorrettezze politiche e strepitosi attori compresi, da Channel 4). Russian Doll sono le matrioske, bambolina dentro bambolina dentro bambolina (per i distratti lo ricorda il manifesto). Nadia – la rossa Natascha Lyonne, sembra essersi cucita il copione su misura – è alla festa per i suoi 36 anni: ospiti più o meno sballati e padrona di casa che ama cucinare, ma quando lo fa viene colta dall’ansia. Di mestiere fa la programmatrice, vive con un gatto che sappiamo essere scappato di casa, per hobby rimorchia un giovanotto e si rotola con lui tra le lenzuola. Son cose che si fanno, da Sex & the City in poi, non solo a New York. Il gatto smarrito ricompare, sull’altro marciapiede. Nadia attraversa senza guardare e viene travolta da un’auto. Si ritrova nello stesso bagno dove l’abbiamo vista all’inizio. Tutto ricomincia, un po’ diversamente da come era accaduto prima. Di nuovo, ma un po’ diversamente da come era accaduto prima, rimane sotto una macchina. Si ritrova davanti allo specchio del bagno, tale e quale a prima: stessa musica stesso neon stessa gente che bussa per entrare. Una, due, tre, quattro, cinque volte. Non ne servono altre per immaginare come la storia prosegue. A nulla serve evitare le auto, guardare bene a destra e guardare bene a sinistra. Nadia finisce, telefonino e
tutto, dentro un montacarichi. Morta. Epperò di nuovo si aggiusta i capelli rossi davanti allo stesso specchio dello stesso bagno. Il resto è puro divertimento, e fa il paio con You, altra serie che Netflix ha rilanciato. Sulla tv americana via cavo Lifetime non ebbe molto successo. Ripresa dalla piattaforma streaming ha totalizzato 40 milioni di spettatori (per spettatore, si intende un abbonato che ha guardato almeno il 70 per cento di un episodio). Scritta da Greg Berlanti e Sera Gamble, dal bestseller di Caroline Keynes pubblicato da Mondadori, racconta un’ossessione amorosa cominciata in libreria. Ambientazione bizzarra, rispetto agli standard, e la pista libraria resterà per tutti gli episodi, senza mai scivolare nei luoghi comuni e nei proclami sulla lettura che rende migliori, e «dove c’è una biblioteca il tasso di criminalità scende» (lo disse Michela Murgia, ancora fatichiamo a riprenderci). La bionda Guinevere curiosa tra gli scaffali, dalla lettera F alla K. Il commesso esclude William Faulkner (la ragazza non sembra voler fingere interesse per uno scrittore ostico) e pure Stephen King (la ragazza ha l’aria troppo sana e abbronzata). La bella chiede Desperate Characters di Paula Fox, scrittrice che ha avuto un suo momento di culto, non disgiunto dal fatto che risultò essere la nonna di Courtney Love. Passione al primo libro: il commesso comincia a seguirla, a spiarla, si appropria del cellulare, osserva le mosse della ragazza sui social network, cerca di strapparla alle amiche e al fidanzato in carica, un miliardario che fa l’hipster e crede nelle bibite gassate biologiche. Sul resto della trama, silenzio stampa.
Un nutrito gruppo di studiosi si riunisce nelle pagine della rivista di Carlo Agliati per dar corpo a un numero sostanzioso, pieno di spunti di riflessione e ricco di ricerche che ci aiutano a conoscere meglio la figura e l’opera del nostro Giovanni Orelli. Dalle pagine (in cui è compresa una bella antologia di versi d’occasione affidata a dieci amici poeti) esce un ritratto approfondito ma anche curioso, grazie a un apparato iconografico in gran parte inedito che ci restituisce l’immagine di Orelli in vari momenti della sua carriera. L’intento celebrativo è persino un po’ commovente nella sentita silloge di saggi, che si pone senz’altro come un primo ricco contributo allo studio dell’opera complessiva di Orelli. Insieme agli atti (che speriamo di veder pubblicati presto) del convegno «Gioco e impegno dello “scriba”. L’opera di Giovanni Orelli – Nuove ricerche e prospettive», tenuto a Berna all’Archivio svizzero di letteratura lo scorso 6-7 dicembre, il numero della rivista ticinese è destinato a segnare un punto di inizio di grande valore per gli studi orelliani. A completare il profilo disegnato in queste pagine, vorremmo ricordare qui l’opera di Orelli pubblicista e divulgatore. Quello che dall’osservatorio della nostra redazione abbiamo imparato a conoscere nel corso degli anni. Il bell’articolo di Pietro Montorfani pubblicato qualche numero fa sulle nostre pagine (il suo testo era tratto proprio da uno degli interventi tenuti al congresso bernese) testimoniava di un impegno assiduo, intenso, dello scrittore quale osservatore del panorama editoriale. Orelli ha scritto, naturalmente, per varie testate ticinesi ma con la nostra redazione aveva un rapporto particolarmente intenso, ed era ricambiato da grande rispetto ma anche da molta simpatia. Tanto che le sue frequenti incursioni in redazione erano sempre momenti piacevoli e colloquiali. E anche il rapporto che si era instaurato con lui, con il passare degli anni, era diventato famigliare e divertente. Negli ultimi tempi capitava ogni tanto che Orelli chiedesse un aiuto, per telefono. E allora bisognava andare a casa sua, a Cassarate, in quella meravigliosa stanza piena di libri, ordinata con il suo disordine. Giovanni aveva imparato a scrivere con il computer, ma di quell’aggeggio provava un sacro timore. Il fondale del suo schermo era ricoperto da uno sciame di documenti,
Uno dei molti biglietti che Orelli indirizzava alla nostra redazione per accompagnare i suoi articoli.
iconette tutte uguali, in cui lui faticava un po’ a raccapezzarsi. In effetti, finito di scrivere un pezzo, salvava quello che poteva e dove riusciva, tutto lì davanti, come in un formicaio di pensieri. Quella galassia di quadrettini con l’iconetta «W» azzurra, era il frutto di un’attività intellettuale continua, pronta a raccogliere spunti e a organizzarli anche nelle riflessioni della sua rubrica «Meridiani e paralleli». Ma ogni tanto occorreva districarlo da quella confusione. In cambio, si usciva dalla sua casa con un libro tra le mani. Era un prestito a tempo indeterminato, già tacitamente un regalo: «Leggilo. Questo mi è piaciuto, dimmi cosa ne pensi». Aiutato dalle figlie, a volte gli riusciva di copiare gli articoli su una chiavetta USB. Qui in redazione la ricordiamo tutti, azzurra con il coperchio trasparente. La portava togliendola con soggezione dalla sua cartella, e la esibiva come un trofeo: «Qui dentro c’è Gozzano, e poi la Cristina Campo, e il pezzo su Manzoni» come se li avesse catturati tutti lì dentro. E subito chiedeva se non potevamo stampargli una copia dei testi. Perché non si sa mai... E non dimenticava di sollecitare, con premura, la restituzione del piccolo testimone digitale del suo lavoro. Orelli pubblicista era sempre attento alle ricorrenze, alle nuove uscite, alle discussioni d’attualità e ne traeva spunto per i suoi pezzi. Nel bel numero del «Cantonetto» manca forse un po’ il ricordo di quest’attitudine curiosa, data da un’indole quasi giornalistica, diremmo. La stessa, del resto, che gli sentivamo esprimere dalle onde radiofoniche durante le sue brillanti rassegne stampa culturali su Rete 2. Era il Giovanni Orelli che abbiamo conosciuto, attento e vicino al lavoro redazionale, i cui numeri «Orelli Casa» e «Orelli Bedretto» (registrati nella nostra rubrica elettronica) si accendevano spesso sul display dei nostri telefoni. Ci fa piacere, per converso, vedere che nel bellissimo «Gioco del Memorelly» (illustrazione-pretesto per un’intervista pubblicata su «Viceversa letteratura» del 2014, ripresa poi sulla locandina del convegno bernese) c’era anche «Azione», casella numero 2, tra le molte tappe che disegnavano il percorso della sua carriera. I suoi «Meridiani e paralleli» ci hanno orientato per anni nel mondo delle lettere e della cultura e siamo sicuri che anche i nostri lettori, ora, come noi, sentono la mancanza di quelle sue personalissime mappe letterarie.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 febbraio 2019 • N. 08
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Cultura e Spettacoli
Accostamenti arditi e studi filologici
Classica A Lugano va in scena Carolin Widmann, sorella del clarinettista e compositore Jörg, mentre a Ginevra
i Percento-Culturale-Migros-Classics propongono i Concerto Köln con Giuliano Carmignola
Enrico Parola Difficile pensare a un accostamento più ardito, ma Carolin Widmann ci è abituata: affronterà il Concerto di Berg, seguito dalla Pastorale di Beethoven con Michael Sanderling sul podio dell’Osi. La violinista bavarese ha inaugurato il cartellone di Lugano Musica con un concerto ancor più moderno, quello scritto per lei dal fratello Jörg; l’accompagnava Daniel Harding alla guida dell’Orchestre de Paris, e anche quella volta nella seconda parte risuonò la Sesta sinfonia di Beethoven. Widmann lo dichiara apertamente: «Mi piace accostare classico e moderno, lo faccio anche con Schönberg, Kurtág e tanti altri autori contemporanei; non ho paura dei giudizi del pubblico, potrei essere l’unica a propendere per una certa scelta artistica, ma quando ci credo andrei avanti anche se mi ritrovassi da sola in sala». A questo proposito si può ricordare un festival a suo modo clamoroso ideato qualche anno fa: solo musica contemporanea, i concerti iniziavano alle undici di sera e sulla locandina campeggiava un eloquente «Solo per curiosi»: «Un invito a venire per chi si ritiene tale o un invito a tenersi alla larga rivolto a chi ama solo il grande repertorio? Ognuno l’ha preso come ha voluto, mi hanno scritto sia per ringraziarmi dei nuovi orizzonti che ho aperto sia per insultare me e la “musica contemporanea-spazzatura”. Non sopporto l’ignoranza, apprezzo chi è aperto di mente e davanti a una musica contemporanea dimostra la disponibilità che si ha con una sinfonia di Mozart o Beethoven». Il discorso vira sulle sue esperienze di Widmann: «Mi è capitato di accostare in un castello vicino a Garmisch delle miniature bachiane a dei brani davvero tosti di Boulez – ma quali brani di Boulez non sono “hardcore”? Nonostante i timori dell’organizzatore il pubblico mi ha chiamato nove volte». Talvolta l’accostamento non è solo musicale, ma tra note e ambiente: «Ho suonato Schumann in una sorta di discote-
ca, a Berlino; la gente beveva e fumava, sui tavoli c’erano bottiglie di birra, ma fu un pubblico fantastico perché ascoltava, si lasciava coinvolgere. Più che la forma contano i contenuti». Ce ne sono tanti nel Concerto che Berg compose nel 1935 per Louis Krasner; era un periodo tormentato e turbolento per il musicista: dopo il grande successo del Wozzeck (e stava già lavorando su un’altra opera, Lulu), il vento stava cambiando. A Kleiber, che ne aveva appena diretto i Symponische Stücke, era stato criticato il modo di condurre la Staatsoper di Vienna; per protesta contro la politica culturale del Terzo Reich si era dimesso ed era emigrato in Sudamerica. Berg temeva che l’ostracismo nazista si abbattesse anche sulla sua musica e così preferì interrompere l’orchestrazione di Lulu e attendere alla commissione del violinista americano. «Da maggio sarò nella mia casa sul Wörthersee e là comporrò il “nostro” Concerto per violino, per il quale ho già compiuto molto lavoro preparatorio; forse possiamo rimanere in contatto anche nel periodo della genesi di quest’opera» gli scriveva; è curioso notare come la casa di Berg si affacciasse sullo stesso lago e fosse dirimpettaia della dimora (a Pörtschach), dove Brahms compose il suo Concerto per violino. Il titolo dell’opera, Alla memoria di un angelo, è legato alla morte per poliomielite di Manon Gropius, figlia che Alma Mahler ebbe dal secondo marito, l’architetto Walter Gropius. Berg scelse per il Concerto una materia musicale eterogenea – dodecafonia, musiche popolari (come la canzoncina della Carinzia Un uccellino sull’albero di susine), il corale bachiano Es ist genug e addirittura lo Jodel – e lo concepì come un ritratto di Manon: l’adolescenza nella prima parte, la morte e la trasfigurazione nella seconda. Il talento di Carmignola
«Avrei dovuto inciderli prima con loro, ma si mise in mezzo Abbado e a Claudio non si poteva dire di no». Sorride Giuliano Carmignola, ripensando al
Giuliano Carmignola così come appare per la Deutsche Grammophon. (© Kasskara/DG)
suo legame con il Concerto Köln e in generale alla sua carriera; il 26 febbraio il violinista veneto e l’orchestra di Colonia regaleranno al pubblico ginevrino un ulteriore capitolo del loro lungo e intenso sodalizio artistico, protagonisti alla Victoria Hall di un concerto straordinario organizzato da Migros-Percento-culturale-Classics. Introdotti dal Concerto grosso in sol minore di Locatelli e dal curioso concerto nella stessa tonalità composto da Charles Avison partendo da una sonata per clavicembalo di Scarlatti (Avison era un inglese che criticava aspramente Händel, e che deve la fama ai soli 12 concerti ispirati alle sonate scarlattiane), nel programma campeggiano solenni i due Concerti per violino e quello per due violini di Bach: un trittico meraviglioso che nel catalogo bachiano compare in stretta successione. Capolavori assoluti con cui si sono cimentati tutti i più grandi virtuosi
dell’archetto e che Carmignola ha inciso nel 2014 con il Concerto Köln; da allora si sono ritrovati non solo a ripeterli a tutte le latitudini, ma in varie tournée ad affiancarli agli stessi brani che propongono a Ginevra, a conferma dell’efficacia e della presa che tale programma sa regalare al pubblico. «È vero, tutti i più grandi li hanno suonati, ma in questi trent’anni c’è stata un’evoluzione abissale» spiega Carmignola; il segreto è la filologia, con la riscoperta della prassi esecutiva dell’epoca, dopo che per almeno un secolo il romanticismo aveva tinto architetture e linee di Sei e Settecento. «Io ero cresciuto nella tradizione, suonavo anch’io in modo romantico; anzi prendevo in giro i colleghi che si stavano interessando alla filologia. Poi la svolta: dopo molte insistenze Andrea Marcon mi convinse ad assistere a un concerto vivaldiano che teneva con l’ensemble di strumenti originali da lui fondato, la Venice Baroque Orchestra;
fu una folgorazione: mi si aprì un mondo nuovo e bellissimo fatto di violini con corde di budello invece che metalliche e con l’arco barocco. Non sono più tornato indietro da quei suoni». Da allora Carmignola ha esplorato il repertorio barocco tornando più volte a Bach. «Avrei dovuto inciderne i Concerti con gli strumentisti di Colonia una decina di anni prima, ma proprio nel 2004 mi arrivò un fax da Abbado; riconobbi subito la sua inconfondibile firma, con la C enorme. Mi parlava di un’orchestra che voleva fondare a Bologna, la Mozart, chiedendomi di fare il violino di spalla e il solista nei Concerti di Bach e Mozart. A Claudio non si poteva dire di no». Anche perché a lui doveva la carriera: «Io non l’avevo mai cercata. Ero stato fortunato: avevo iniziato giovane a insegnare in Conservatorio e a quei tempi si andava in pensione con 19 anni, 6 mesi e un giorno di lavoro; nel frattempo suonavo nell’orchestra della Fenice a Venezia, da privilegiato: pagavano bene e facevo solo le produzioni che mi interessavano. Poi cambiò il sovrintendente del teatro e la mia collaborazione finì. Ma non me ne crucciai: volevo stare con la famiglia, con mia moglie e le nostre quattro figlie». Nel frattempo Abbado aveva bussato alla sua porta: «Mi fece un’audizione quando avevo 23 anni per i concerti che organizzava con Pollini nelle fabbriche; mi ritrovai a suonare all’Ansaldo e alla Breda di Milano; e poi alla Scala».
Concorsi «Azione» mette in palio alcuni biglietti omaggio per il concerto della violinista Carolin Widmann che si terrà al LAC di Lugano giovedì 28 febbraio alle ore 20.30. Per partecipare all’estrazione basta seguire le indicazioni sulla pagina web www.azione.ch/concorsi. Buona fortuna!
Parola del Boss
Musica Bruce sbarca a Broadway: il nuovo exploit live del Boss mostra un artista dal vigore di sempre,
ma pericolosamente in bilico sull’orlo di un egocentrismo a lui alieno Benedicta Froelich Ogniqualvolta ci si ritrova a recensire un disco di un mito assoluto quale Bruce Springsteen (idolo di milioni di fan in tutto il mondo e cantore universale di una certa, popolare e democratica America), il rischio di indugiare in frasi fatte è sempre molto alto – soprattutto qualora si debba affrontare la retrospettiva di una carriera che sta ormai per superare la ragguardevole boa del mezzo secolo. Perché se è vero che Bruce è uno dei pochi rocker statunitensi ad essere riusciti a guadagnarsi un seguito pressoché universale, influenzando il pubblico di ogni continente e di qualsiasi background socioculturale, è altrettanto vero che il vederlo tentare, a quasi settant’anni d’età, una sorta di «autocelebrazione» della propria vita e carriera non è, forse, quanto i fan più affezionati si aspettavano dal loro eroe. Invece, alla fine del 2017 Springsteen ha voluto dare vita a una tournée completamente diversa dalle precedenti: un recital a metà strada tra concerto acustico e monologo teatrale, ispirato alla sua autobiografia Born to Run, pubblicata l’anno prima. Così, lo spettacolo che per ben 14 mesi ha animato, sera dopo sera, il palco del Walter Kerr The-
atre di New York, ha proposto il Boss in veste di vero e proprio storyteller – e, nell’atmosfera rilassata e raffinata di un piccolo auditorium, lo ha visto ripercorrere la propria vita e carriera in chiave solista, con il solo ausilio di voce, chitarra e pianoforte. E dato che lo show è oggi divenuto un film-documentario prodotto da Netflix, ecco che, come da copione, non poteva mancare una versione audio su doppio CD per i fan desiderosi di rivivere quei momenti. Ciò che l’ascoltatore si trova a sperimentare è quindi una via di mezzo tra un monologo teatrale e un concerto rigorosamente unplugged, un oneman-show della durata di ben due ore e
Il Boss durante un concerto di beneficenza a inizio novembre 2018. (Keystone)
mezza, secondo le abitudini di colui che è probabilmente il performer più vigoroso e potente del rock internazionale; ed è un vero guaio che, nonostante l’abituale simpatia e affabilità di Bruce, questo esperimento lo veda scadere in più di un’occasione nel più autentico narcisismo. Così, mentre la star racconta del «miracolo americano» che le ha permesso di sfuggire a una squallida infanzia nel New Jersey per diventare un mito assoluto (spiegando inoltre a un divertito pubblico come, nonostante il proprio impegno nel descrivere la dura vita di innumerevoli vittime della classe operaia, lui non abbia mai neppure intravisto l’interno di una fabbrica!), ecco che a
tratti si crea una strana contraddizione: da un lato, nonostante la voce di Springsteen non sia più quella di un tempo, le sue rivisitazioni scarne e acustiche di molti dei classici di un’intera carriera conservano qui tutta l’eccellenza e l’energia di sempre. Allo stesso tempo, tuttavia, gli ascoltatori dotati di vera padronanza dell’inglese rischiano di scoprirsi più volte a desiderare che il Boss si zittisca almeno per qualche secondo, così da dare infine la precedenza alle canzoni, anziché insistere a introdurre ogni brano con interminabili e spesso ridondanti chiacchierate. In effetti, non sarebbe probabilmente stata una cattiva idea quella di limitare la versione audio dello show alle esecuzioni musicali, soprattutto in quanto, a lungo andare, i goliardici e alquanto teatrali racconti di Bruce finiscono per suonare un po’ ripetitivi (proprio come il suo uso continuo dell’aggettivo «fucking» , che qui assurge quasi a base del vocabolario). Al di là di tutto ciò, comunque, l’estrema professionalità di Springsteen brilla come sempre lungo l’intero album, facendo di ogni versione acustica un autentico breviario del cantautorato americano d’alto livello; di conseguenza, On Broadway resta, come giusto, un disco imperdibile per qualsiasi suo
vero ammiratore. Dal brano d’apertura Growin’ Up, utilizzato come introduzione alla prima giovinezza dell’artista, si ripercorrono così veri e propri capisaldi del repertorio, selezionati in modo da fornire una sorta di istantanea artistica di ogni decennio della sua carriera. Pezzi «vintage» imprescindibili quali Born in the U.S.A. e Dancing in the Dark si ritrovano affiancati a ballatone storiche del calibro di Thunder Road e, naturalmente, dell’immancabile Tougher Than the Rest, che vede il gradito ritorno di Patti Scialfa, musa per eccellenza del Boss; e la tracklist si dipana lungo le varie fasi della produzione artistica del rocker, fino ad arrivare a brani più recenti e dalla maturità narrativa più marcata, tra cui The Ghost of Tom Joad e The Rising (i quali, nel finale dello show, devono tuttavia lasciare il posto al tormentone Born to Run). Ed ecco che, alla fine del disco, l’unico, vero rimpianto dell’ascoltatore smaliziato è rivolto proprio all’ego di Bruce: poiché, se non fosse per quell’enfasi da primadonna che si affaccia con troppa prepotenza sulla scena, On Broadway potrebbe davvero divenire un classico imprescindibile del catalogo rock anche per il grande pubblico, e non soltanto per i fan più accaniti del Boss.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 febbraio 2019 • N. 08
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Cultura e Spettacoli
Memorie di ghiaccio
Mostre Al Museo cantonale di storia di Sion si invitano i visitatori a un’importante riflessione
legata anche agli innegabili mutamenti climatici Marco Horat Quando nel 1991 sulle Alpi italiane vennero casualmente alla luce i resti di Ötzi vecchi di oltre 5000 anni, si parlò giustamente della scoperta archeologica del secolo; ora la più famosa mummia al mondo, insieme a tutti gli oggetti che lo accompagnavano nel suo ultimo viaggio (vestiti, calzature, armi, strumenti vari) si trovano nel bellissimo museo di Bolzano, oggetto di studio continuo e di cure appropriate. Un decennio prima in Vallese, nella regione di Zermatt, sul colle del Teodulo che collega Svizzera e Italia, erano venuti alla luce alcuni frammenti ossei di un uomo con una panoplia di armi e bagagli datati agli inizi del XVII secolo avanti Cristo, che trasportava mentre forse si recava a sud delle Alpi: di qui il soprannome di «Mercenario del Teodulo» che gli archeologi gli hanno scherzosamente dato.
In seguito al graduale scioglimento dei ghiacciai, in futuro avremo sempre più reperti storici Scoperte che in questi ultimi decenni si sono moltiplicate in tutto l’arco alpino a causa dei cambiamenti climatici che hanno portato al ritiro dei ghiacciai (si calcola che entro circa
cinquant’anni nelle Alpi vallesane sopra i 2500 metri ne spariranno l’80%!) e che, grazie anche a nuovi metodi di ricerca sofisticati resi possibili dallo sviluppo della tecnologia, hanno dato vita a una nuova branca scientifica: quella dell’archeologia glaciale, che studia i reperti che si sono conservati nel ghiaccio anche per millenni; le Alpi non sono mai state un vero ostacolo ma piuttosto una via di comunicazione per uomini, merci e idee. Un libro che si sta aprendo davanti ai nostri occhi. Di qui l’idea di PierreYves Nicod, direttore del Museo di storia del Vallese e dell’Archeologa cantonale Caroline Brunetti di mettere in scena questo appassionante tema che tocca diversi aspetti della vita di ieri e di oggi, allestendo una originale mostra nell’edificio del Pénitencier, situato nel centro storico di Sion, con il titolo Mémoire de glace. Vestiges en péril. Un percorso che si sviluppa toccando quattro argomenti tra loro contigui. Come si attrezzavano ad esempio i coraggiosi che volevano attraversare i colli alpini per proteggersi dal freddo, dall’acqua e dalla neve? Grazie alle ottime condizioni di conservazione sono state trovate, a partire dalla preistoria fino ad epoche recenti, tracce di calzature in cuoio, abiti di pelliccia e fibre naturali, di lana e seta; come pure bastoni, rudimentali racchette da neve e accessori per illuminare il cammino o per scaldarsi. Si è detto come le Alpi fossero una via battuta fin da tempi antichi: infatti sono stati trovati resti di animali
Scarpa di cuoio risalente alla fine del XVIII o all’inizio del XIX secolo emersa dal ghiacciaio di Arolla Evolène (VS). (© Musée d’histoire du Valais, foto M. Martinez)
da soma e delle merci che essi trasportavano lungo sentieri infidi ma ben conosciuti – come testimoniano le segnalazioni attraverso termini e paletti che si sono conservati giungendo fino a noi. Ma cosa spingeva l’uomo ad affrontare i pericoli di un viaggio comunque avventuroso? Da una parte il desiderio di vedere l’orizzonte oltre la collina, dall’altro la ricerca di materie prime, come ad esempio il cristallo di rocca, che si trovava a oltre 2800 metri di altezza, era già conosciuto nel VI millennio a.C. e ancora molto ap-
prezzato in epoca romana. Poi vi erano i cacciatori che seguivano camosci, stambecchi e marmotte e più in basso i pastori con i loro greggi e le loro mandrie. Strade insidiose che richiedevano l’aiuto e la protezione delle divinità; l’ultima stazione del percorso ci fa conoscere gli oggetti votivi e le offerte in monete lasciate in tutte le epoche in cima ai valichi alpini dove talvolta nascevano dei veri e propri santuari. La mostra vuole anche sensibilizzare i frequentatori dei sentieri d’alta montagna perché è grazie a loro se mol-
ti reperti, tra l’altro esposti per la prima volta al pubblico, sono stati recuperati dalle autorità cantonali che non possono tenere sotto controllo tutte le montagne e il fronte dei molti ghiacciai in ritirata. Dove e quando
Mémoire de glace. Vestiges en péril, Sion, Le Pénitencier (Rue des Châteaux 24). Orari: ma-do 11.00-17.00. Fino al 3 marzo 2019. www.museesvalais.ch
Buon compleanno, caro zio Oscar! Anniversari La statuetta più ambita del mondo del cinema compie i suoi primi novant’anni
Giovanni Medolago Quella che si terrà domenica prossima sarà la 90esima notte degli Oscar. La prima si tenne infatti il 16 maggio 1929 alla Blossom Room dell’Hollywood Hotel di Los Angeles; venne presentata da William C. deMille (fratello maggiore del regista di kolossal Cecil B.) e Douglas Fairbanks. Non aveva certo il glamour odierno e la sua copertura mediatica fu prossima allo zero. Durò 4 minuti e 22 secondi: giusto il tempo per attribuire tre statuette al film Settimo cielo di Frank Borzage – straziante storia d’amore tra un poverissima ragazza e uno spazzino che torna cieco dalla Prima guerra mondiale in una Parigi improbabile – e altrettante a uno dei capolavori di F.W. Murnau, Aurora. Borzage (nato tra i mormoni dello Utah, ma figlio di un immigrato del Trentino e di una svizzera) si vide premiato anche per L’angelo della strada: stavolta la città improbabile è Napoli, dove la disperata Angela cerca ingenuamente di prostituirsi per procurarsi le medicine per la madre malata. La pellicola muta, dove un ruolo importante è ricoperto dal cantante Alberto Rabagliati, fu immediatamente vietata agli spettatori italiani poiché il fascismo aveva pubblicamente abolito prostituzione e miseria (come di recente ha fatto Di Maio parlando però, bontà sua, solo di povertà). Eroina della serata fu tuttavia Janet Gaynor, protagonista di tutti e tre i lavori premiati; un riconoscimento andò anche a Charlie Chaplin per Il circo. Da qui nacque la prima polemica riguardo agli Oscar: si parlò di combine poiché il presentatore Fairbanks nel 1919 aveva fondato la United Ar-
tists Corporation proprio col suo carissimo amico Charlot, sua moglie Mary Pickford e il regista David W. Griffith. Infondato gossip d’antan, poiché Il circo da decenni conserva degnamente la definizione di «capolavoro»; Chaplin lo sistemava tra le sommità da lui raggiunte («Dobbiamo ridere in faccia alla tragedia, alla sfortuna e alla nostra impotenza contro le forze della natura… se non vogliamo impazzire») e Vladimir Majakovskj gli dedicò una poesia dal celebre incipit: Un debole omino calpestato / da Los Angeles a qui / recita attraverso gli oceani. La presunta combine, ma soprattutto la caccia alle streghe del periodo maccartista, costrinsero uno dei più grandi cineasti della storia a restare a bocca asciutta sino al 1972, quando l’Academy of Motion Picture Arts and Sciences gli attribuì l’Oscar alla carriera «per aver fatto delle immagini in movimento la principale forma d’arte del Ventesimo secolo». Quello «alla carriera» è un Oscar creato dai membri dell’Academy per lavarsi la coscienza dopo le loro clamorose dimenticanze, ed è andato a figure leggendarie quali Greta Garbo, Buster Keaton, sir Alfred Hitchcock, Orson Welles e tra gli altri, dopo 7 nominations andate a vuoto, a Robert Altman. Singolare il caso di Laurence Olivier, che ricevette il premio alla carriera nel 1947, due anni prima del premio per la regia di Amleto. L’Oscar, in realtà, nacque nel 1927 quando tre amici al bar (il produttore Louis B. Mayer, il regista Fred Niblo e l’attore Conrad Nagel) cominciarono a riflettere attorno all’idea di creare un’associazione che riunisse le principali «professioni cinematografiche
allo scopo di elevare gli standard di produzione sotto l’aspetto educativo, culturale e scientifico». Allora si pensò a sole cinque categorie, oggi sono quasi una trentina. Festeggiamo allora il 90esimo con poche, personalissime quanto arbitrarie Nomination! Assenze e presenze: detentrice del record assoluto con ben 4 statuette, Katherine Hepburn non andò mai a LA per ritirare il premio. Si presentò una sola volta, nel 1974, quando nella sua bacheca ancora mancava l’Oscar per Sul lago dorato (1982). Fu accolta da un’interminabile standing ovation. Woody Allen (21 Nomination di cui 6 andate a buon fine) trionfò nel 1978, quando a Io & Annie vennero
L’attrice Donna Reed prima della cerimonia di premiazione in un’immagine del 1955. (Keystone)
attribuite ben quattro statuette. Ma lui non c’era: quel lunedì stava in un club di New York, impegnato a suonare il clarinetto (male! L’abbiamo sentito anni dopo a Lugano). Stessa scusa 25 anni dopo per disertare la vittoria della sceneggiatura di Midnight in Paris. Fece una sola eccezione nel 2002, dove però andò a LA per lanciarsi in un monologo/atto d’amore verso la sua città, sconvolta pochi mesi prima dall’attentato dell’11 settembre. Nessuna Nomination e dunque nessun Oscar per Marilyn Monroe, che fu sul palco della Notte delle Stelle in una sola occasione, nel 1951. Per lei fu una serata da incubo: chiamata da Fred Astaire a premiare l’autore della miglior colonna sonora, dietro le quinte Marilyn si strappò il vestito pochi istanti prima della cerimonia. Turbata dall’inconveniente, lesse il verdetto senza mai alzare gli occhi dal foglio, anzi, seguì con le mani il testo scritto come fanno i bimbi che hanno appena imparato a leggere. Trovate il filmato su youtube. Notte da incubo: quella vissuta da Cecil B. deMille sempre nel ’51. Tentò invano di boicottare il rivale Joseph Mankiewicz convocando poche settimane prima della Notte delle Stelle una riunione di registi per accusarlo di simpatie comuniste. Fu zittito da un vecchietto con le scarpe da tennis e un basco sulla testa: «Mi chiamo Ford, faccio western. Tu CB sei un bravo regista e sai cosa vuole il pubblico. Ma qui stasera hai detto un sacco di stronzate. Perciò propongo di votare una dichiarazione di fiducia a Joseph, così possiamo andarcene tutti tranquillamente a casa a dormire!» Eva contro Eva si aggiudicò poi
6 Oscar, a deMille (e al suo Sansone e Dalila) restò la battuta di Groucho Marx: «Non avevo mai visto un film dove il protagonista avesse più tette della sua partner»! Gaffes: «Sei un bastardo! Sputtanare così l’industria che ti ha creato, ti ha dato da mangiare e ti ha fatto ricco! Eppoi, chi vuoi che vada a vedere un film che si apre con un cadavere che parla?!?» Così urlò Louis B. Mayer a Billy Wilder dopo la prima di Viale del tramonto, film premiato con 4 Oscar e inserito nel 1998 al dodicesimo posto dall’American Film Institute tra i migliori 100 del cinema USA. «Via col vento sta per diventare il più grande flop della storia del cinema, per fortuna sarà Clark Gable a perderci la faccia e non io». Questo il commento di Gary Cooper dopo essere stato scartato per il ruolo del Capitano Butler. Il film più popolare di sempre nel 1939 vinse ben 8 Oscar, tra cui il primo a un’attrice afroamericana: Hattie McDaniel, indimenticabile Mamie. Per il riconoscimento a un afroamericano si dovette attendere il 1964, quando trionfò Sidney Poitier (I gigli del campo) e solo nel 1983 un altro afroamericano riuscì ad agguantare la statuetta: Louis Gossett Jr., attore non protagonista in Ufficiale e gentiluomo. I due Oscar andati poi a Denzel Washington non bastarono a evitare all’Academy l’accusa di razzismo non proprio latente, avanzata ancora di recente da Spike Lee. Repetita iuvant: già miglior protagonista per Accadde una notte ma clamorosamente escluso dal trionfo di Via col vento, Clark Gable commentò il verdetto ribadendo la sua ultima battuta in quel film: «Francamente me ne infischio!»
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 febbraio 2019 • N. 08
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Cultura e Spettacoli
Quando l’Italia ancora sorpassava Mostre A Roma si ricorda il lontano periodo d’oro del Belpaese Blanche Greco Fotografie in bianco e nero, istantanee, scatti fortuiti che raccontano le storie di un Paese oggi irriconoscibile in un periodo quasi dimenticato: è l’Italia del dopoguerra, al centro della mostra aperta sino a marzo al Museo di Palazzo Braschi a Roma, e poi a Palazzo del Governatore a Parma sino a maggio 2019. Accoglie i visitatori e dà il titolo alla mostra la spider decappottabile azzurra, una Lancia B24, utilizzata per le riprese del film Il Sorpasso di Dino Risi, simbolo della rinascita dell’Italia che, nel 1962, anno di produzione del film, ormai filava a tutta velocità malgrado i contrasti sociali e le incongruenze che attraversavano la penisola. «Bisogna ricordare che le spider del Sorpasso erano due» – ci svela ironico Enrico Menduni curatore della mostra insieme a Gabriele D’Autilia – «quella in mostra era stata utilizzata per le riprese del film intorno a Roma, mentre l’altra, come da copione, era precipitata in mare, perché “di sorpasso” si può anche fare una brutta fine. E la nostra mostra vuole alludere anche a questo, infatti racconta il periodo in cui l’Italia trovò le energie per ricominciare, alle volte in forma volgare; incurante del passato; piena di goffaggini, ma con grande efficacia, riuscendo in un primo tempo a rimettersi in piedi, e poi, persino a superare storici pregiudizi e arretratezze, oltre a qualche altro Paese. Naturalmente questa rapidità provocò anche diversi pasticci. In qualche modo il film di Risi è una metafora che noi abbiamo preso e utilizzato AW09 come052_19 idealeGourmet raffronto». Perle - A la
Un racconto fatto di luoghi, di facce, di storie, illustrato da centosessanta scatti in bianco e nero, videoinstallazioni e documentari dell’Archivio Storico dell’Istituto Luce dove si vede come un Paese martoriato dalla guerra, diviso e stremato, riuscì a trovare la forza e la vitalità necessarie per la sua ricostruzione, ma anche per immaginare il proprio futuro ed entrare nella modernità. «Il vero mistero» – aggiunge Menduni – «è come, litigando e bastonandosi sulle piazze e tirandosi anche delle schioppettate, gli italiani siano riusciti però, a mandare avanti il Paese». Nell’intento di svelarlo, ma soprattutto di documentarlo, i due curatori sono andati a cercare immagini negli archivi delle agenzie fotografiche dell’epoca e in quello Publifoto conservato, con altri importanti fondi, presso il Centro Studi e Archivio della Comunicazione dell’Università di Parma, e hanno visionato, spesso stampato, decine di rullini ancora inediti poiché, a parte gli scatti di fotografi italiani conosciuti come Gianni Berengo Gardin, Cecilia Mangini, Fulvio Roiter, Tazio Secchiaroli, Wanda Wultz, Caio Mario Garrubba, Pepi Merisio, Bruno Munari, Ferruccio Leiss; e quelli degli stranieri, tra i quali c’erano anche i più famosi Willian Klein, Alfred Eisenstaedt e Gordon Parks, ci sono centinaia di fotografie di «illustri sconosciuti». «Noi li abbiamo chiamati i “senza nome”: erano dei fotografi che lavoravano per le agenzie e che una volta consegnati i rullini, non ne sapevano più niente, anzi spesso non sapevano neppure se il loro obbiettivo avesse catCarte mezza pagina @ Migros KW08_IT.pdf 1
turato qualcosa di “speciale” oppure no, e comunque perdevano ogni diritto sulle foto, sia professionale che artistico». – chiosa Menduni – «Negli archivi ne abbiamo trovate centinaia, di queste foto, spesso senza alcuna informazione circa l’anno, o il luogo dove sono state scattate. Tuttavia per una visione non realistica, ma che aggiungesse ulteriori elementi sul “sogno italiano” sono immagini belle e altrettanto importanti di quelle dei maestri riconosciuti». Così nelle dieci sezioni a tema della mostra troviamo anche gli scatti dei fotografi anonimi che hanno percorso e immortalato l’Italia, interessati alla mondanità, alla politica, all’economia, alla quotidianità come alla rinnovata vita culturale del Paese, al cinema e alla pubblicità, le grandi scoperte dell’Italia del boom economico. È un caleidoscopio che ricompone davanti ai nostri occhi una realtà per noi difficile da immaginare, ma anche tutto un bagaglio di emozioni: le speranze, le animosità, gli entusiasmi, le perplessità, le critiche, che agitarono l’opinione pubblica in quegli anni. Molte sono le fotografie che ci hanno colpito come quella del piccolo corteo nuziale che avanza su un cammino stretto tra cumuli di macerie. L’abito bianco della sposa spicca in mezzo ai vestiti neri e sulle facce serie c’è un’espressione di timida speranza. È una foto scattata da Luigi Gallotta a Eboli. C’è l’immagine, realizzata da Vestri, sul grande viadotto ferroviario di Bucine, ricostruito in tempi record e festeggiato con una tavolata collettiva. Vediamo fotografie di treni merci scortati 07/02/19 16:57
Soccorso ai bambini perduti e sbandati, 1946. (Archivio Luce)
della modernità degli italiani; i concorsi di Miss Italia; le feste da ballo eleganti e una fotografia inedita di La Dolce Vita scattata durante le prove del film. Si riconosce Anita Ekberg nell’acqua della Fontana di Trevi con due enormi stivali da pescatore, e Federico Fellini che l’aiuta da bordo Fontana. Una foto curiosa, ma all’epoca, era il 1960, forse giudicata poco «poetica» e per questo mai pubblicata.
dalla polizia; di Fiorello La Guardia, ex sindaco di New York e direttore del Piano Marshall, insieme a bambini e suore sorridenti. Ma c’è anche la partenza del Giro d’Italia circondato da una folla oceanica che all’epoca tifava per i ciclisti e sognava i bolidi della Mille Miglia e i loro temerari piloti. C’è una cantina, dove dal soffitto pendono salami e insaccati, con una piccola folla seduta davanti alla televisione che troneggia contro una parete. Vediamo Don Milani e i ragazzi di Barbiana; i comizi politici a Roma; una Fiat Seicento in panne, con tanto di foto di Mussolini sul lunotto posteriore e i passeggeri in camicia nera in attesa che il meccanico abbia finito per proseguire per Predappio. I viaggi di nozze sul Settebello il treno
Dove e quando
Il Sorpasso. Quando l’Italia si mise a correre, 1946-1961, Roma, Museo di Roma (Piazza Navona e Piazza San Pantaleo). Fino al 3 marzo 2019. www.museidiroma.it Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 febbraio 2019 • N. 08
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Cultura e Spettacoli
Una nuova era
Incontri A colloquio con la giornalista tedesca Carmen Korn, che con la sua trilogia dedicata all’emancipazione
femminile in Germania, ha scalato le vette delle classifiche – ora in italiano è uscito Figlie di una nuova era Natascha Fioretti A cento anni dal primo voto delle donne in Germania, nell’era del movimento #Metoo e a poche settimane dall’insediamento del 116esimo Congresso americano – che ha registrato un record di donne e visto la neodeputata democratica Alexandria Ocasio-Cortez omaggiare le Suffragette con la sua mise bianca – c’è una trilogia che sta facendo molto parlare di sé. Sin dalla prima pubblicazione uscita nel 2016, ora disponibile in italiano per Fazi editore dal titolo Figlie di una nuova era, la trilogia è subito balzata tra i bestseller. Questo primo volume – che esordisce con la primavera del 1919 – molto si sofferma sulla Germania del primo dopoguerra e su quella nazista. Agli inizi del Novecento alle insegnanti non era consentito sposarsi, pena la perdita del posto di lavoro e della pensione. Quando salì al potere, il partito di Hitler promosse l’esclusione delle donne dalla vita politica del Paese e l’idea che dovessero dedicarsi alla maternità e alla procreazione. Le donne furono escluse dall’insegnamento universitario e dalle professioni mediche. In quest’epoca, nella città di Amburgo, si muovono i destini delle quattro protagoniste scaturite dalla penna di Carmen Korn: Henny, Käthe, Ida e Lina. Henny, di buona educazione borghese, ambisce a diventare ostetrica, Käthe, di estrazione più modesta, emancipata e comunista convinta, non vuole piegarsi alle convenzioni del tempo e quando Rudi chiede la sua mano risponde «Tu mi piaci. Ma la faccenda del matrimonio te la puoi anche scordare». Ida è una rampolla ricca e viziata, Lina un’insegnante, una donna indipendente e anticonformista, che ha visto i genitori morire di fame per salvare la vita sua e di suo fratello. Classe 1952, nata a Düsseldorf, da diversi anni di casa ad Amburgo, Carmen Korn è giornalista – è stata redattrice dei settimanali «Die Zeit» e «Der Stern», testata con la quale ancora oggi collabora – e scrittrice. Le abbiamo fatto qualche domanda per capire perché le storie di quattro donne – che oltre
ai loro destini ritraggono un secolo di storia e di lotte per l’emancipazione e i diritti femminili – hanno riscosso un così grande successo di pubblico.
guitate per molto tempo. Ma nemmeno spiriti liberi e generosi come il dottore Kurt Landmann erano rari negli anni Venti del secolo scorso. Credo, tuttavia, che nella trilogia, al di là dei conflitti generazionali, ad essere messe in luce siano le singole personalità femminili e i loro destini.
Nel settembre del 2018 è uscito il terzo e ultimo volume della sua trilogia e molti lettori lo attendevano con trepidazione. Si aspettava un tale successo?
In passato è stata redattrice di importanti testate: è stato difficile farsi valere?
Non avrei mai sognato un successo del genere. È stata una grande fortuna dovuta credo al fatto che le lettrici siano pronte a confrontarsi con la vita dei loro nonni e della generazione dei loro genitori. C’è una grande identificazione da parte delle lettrici con i miei personaggi e le loro storie famigliari. In italiano è appena uscito il primo volume e presto uscirà il secondo: come è nata l’idea di scrivere un seguito, addirittura una trilogia che racconta la vita e i destini di quattro donne nella città di Amburgo?
Per descrivere un’epoca violenta come il ventesimo secolo tre libri non sono troppi, sono necessari. All’inizio avevo intenzione di scriverne soltanto due e di finire con la caduta del muro nel 1989, ma ho poi deciso di seguire il consiglio della mia lettrice e di raccontare la storia fino al volgere del secolo. Ho scelto Amburgo perché è la città a me più vicina, la città nella quale vivo, una città portuale sfaccettata e appassionante. Henny, Käthe, Ida e Lina sono donne realmente esistite?
Henny, Käthe, Lina e Ida sono personaggi fittizi che però incorporano caratteristiche, elementi e vissuti di persone realmente esistite. Käthe, ad esempio, ha molto della mia prozia, lei era ugualmente ostinata, proprio come Käthe faceva sempre discussioni con i nazisti e non in quanto comunista ma in quanto socialdemocratica. Anche nelle altre figure si riscontrano elementi appartenenti alla mia famiglia come i racconti di mia nonna e delle sue sorelle che da bambina ho ascoltato e impresso bene nella memoria. Oggi queste storie mi hanno permesso di fare miei il sentimento e lo spirito di quel tempo. E poi ho attinto a biografie, vecchie fotografie e filmati.
La divertente copertina della versione tedesca di Figlie di una nuova era. Perché la scelta del titolo Figlie di una nuova era?
La stagione che seguì la Prima guerra mondiale è stata per le donne l’inizio di una nuova era. Già nel novembre del 1918, solo pochi giorni dopo l’armistizio, fu introdotto il diritto di voto alle donne e fu abrogato il divieto di sposarsi per le insegnanti. Il fatto che la storia inizi nella primavera del 1919 con la figura di Käthe, una donna attiva in politica e di sinistra, non è un caso. A quei tempi ci si tagliava i capelli, si accorciavano le gonne, si eliminava tutto ciò che veniva considerato zavorra. La nonna zurighese di mio marito si è tolta la forcina dallo chignon e si è fatta fare una testa da paggetto per sentirsi più libera. Le donne che vivevano nella grandi città avevano senza dubbio una vita più semplice di quelle in campagna. La mia famiglia ha sempre vissuto nei grandi centri urbani e sono state proprio le esperienze di vita di chi mi è stato intorno a guidarmi e a ispirarmi. Henny e Käthe sono legate da una profonda amicizia, entrambe diventano ostetriche e come molte donne di oggi ben presto si trovano a un bivio: in che cosa si mostrano emancipate e controcorrente?
Se penso a mia nonna e alle sue sorelle,
Henny e Käthe non erano poi così controcorrente. Entrambe non mettono mai in dubbio la loro professione, quella per la quale hanno fatto tanti sacrifici. Henny, involontariamente, inciampa presto nel ruolo di madre ma trova sostegno nella sua famiglia: grazie all’aiuto della madre Elsa e della suocera Lina, riesce a coniugare lavoro e famiglia. Käthe dal canto suo è innamorata di Rudi ma non vuole piegarsi alle convenzioni e non vuole sposarsi. È molto autodeterminata ma il corso del tempo semina grossi macigni sul suo cammino. Ancora oggi, coniugare famiglia e lavoro, rimane una grande prova di forza. Lo vedo guardando mia figlia e le sue amiche: per una mamma lasciare il bambino piccolo all’asilo non è semplice, ma a nessuna giovane donna di oggi viene il dubbio di essere una madre snaturata.
Con forza emerge anche il conflitto generazionale...
Elsa, la madre di Henny, è una donna dal carattere dominante ancora molto influenzata dall’immagine del mondo dell’età imperiale e questo la porta inevitabilmente a scontrarsi con Henny e ancor di più con la progressista Käthe. Anche la gerarchia all’interno della clinica crea frizioni, d’altra parte queste strutture conservative ci hanno perse-
Ho avuto la fortuna di incontrare persone che mi hanno sempre sostenuta, uomini e donne, senza differenza di sorta. A Wolf Schneider, direttore della scuola di giornalismo di Gruner+Jahr e «Die Zeit» che ho frequentato ad Amburgo, interessavano il talento e la volontà di tradurlo in azioni concrete, non faceva distinzioni tra uomini e donne. Anche allo «Stern», che spesso e volentieri è stato definito un covo di squali, ho spesso ricevuto l’appoggio dei capi di redazione. E se oggi guardo con pessimismo alla professione giornalistica, non è certo per via dei ruoli di genere.
Il settimanale tedesco «Der Spiegel» ha dedicato un’edizione speciale a #Metoo, chiedendosi quanto sia moderna la Germania in fatto di donne e pari opportunità, crede di aver dato un contributo con questa trilogia? Alla domanda dello «Spiegel» cosa risponde?
Credo che qualsiasi libro, in cui si racconti di donne che osano percorrere la propria strada senza lasciarsi intimidire, possa contribuire al successo del movimento #Metoo. Credo, inoltre, che ogni donna abbia qualcosa da dire a riguardo. Se guardo al contesto nel quale mi muovo direi che la Germania è molto all’avanguardia e moderna. Ma io vivo in un ambito famigliare e di amicizie molto liberale e di sinistra e per di più ad Amburgo, la seconda più grande città del Paese. Sicuramente ci sono altri milieu, altri luoghi nei quali per una donna è più difficile decidere autonomamente della propria vita. Dove e quando
Carmen Korn, Figlie di una nuova era, Roma, Fazi, 2018.
Niente di particolare
Berlinale La 69esima edizione della kermesse cinematografica ha presentato un programma dignitoso,
ma senza momenti indimenticabili o film imperdibili Nicola Falcinella Un’edizione senza eccellenze, la 69esima Berlinale diretta per la diciottesima e ultima volta da Dieter Kosslick, che ora lascia a Carlo Chatrian, direttamente da Locarno. Sabato sera è avvenuta la consegna dell’Orso d’oro tra i soli 16 film in gara, con il ritiro a gara in corso di One Second del cinese Zhang Yimou, non ancora finito. Tra i miglio-
ri del lotto il macedone God Exists, Her Name Is Petrunya, La paranza dei bambini di Claudio Giovannesi dal libro di Roberto Saviano e Ondog del cinese Wang Quanan. Nel primo una giovane disoccupata sovrappeso si permette di violare la tradizione durante una cerimonia ortodossa, suscitando la reazione furiosa degli uomini. È l’occasione per una riflessione, condita di ironia, sul maschilismo diffuso. Giovannesi,
La paranza dei bambini è tratto dal libro di Saviano, regia Claudio Giovannesi.
dopo Fiore, conferma di saper raccontare i sentimenti dei ragazzini anche in un contesto violento. Qui una banda di adolescenti entra nella camorra e prova a prendere il posto degli adulti. Perdita dell’innocenza e ascesa criminale sono narrati senza un attimo di tregua, senza fermarsi a pensare, proprio come il protagonista Nicola, figlio di una lavandaia del Rione Sanità. Il regista cinese, già Orso nel 2007 con Il matrimonio di Tuya, ha realizzato una fiaba sui sentimenti e la solitudine nella steppa mongola, protagonista una pastora che sa ciò che vuole. Riuscito anche Grâce à Dieu di François Ozon, su casi di pedofilia da parte di un prete a Lione, riuscendo a evitare eccessi scandalistici e mostrare i diversi gradi di responsabilità e le diverse facce della questione. Mr. Jones della polacca Agnieszka Holland è un drammone molto classico che porta all’attenzione il giornalista e diplomatico gallese Gareth Jones che all’inizio del 1933 viaggiò a Mosca e in Ucraina sperimentando la fame sofferta dai contadini ucraini mentre il grano partiva per rimpinguare le casse di Stalin.
Intrigante e originale e insieme respingente è il franco-israeliano Synonymes di Nadav Lapid, pretenzioso quanto con momenti indovinati. Yoav è un giovane inseguito dai servizi segreti di Israele che si rifugia a Parigi e rigetta la propria origine, iniziando dalla lingua. La struttura disarticolata del film rende la perdita di identità. Fuori gara Varda par Agnès, con la novantenne grande regista francese (Cléo dalle 5 alle 7, Senza tetto né legge) a tenere una vera e propria lezione sul suo cinema, con umorismo, trovate e soluzioni registiche magistrali. Una cavalcata dagli anni ’50 a oggi spiegando le sue parole chiave «ispirazione, creazione, collaborazione», sottolineando aspetti personali e collettivi di ogni scelta e mostrando come ogni idea si sia concretizzata in immagini cinematografiche. Ancora una volta il cinema italiano ha presentato storie con protagonisti giovanissimi. In particolare Dafne di Federico Bondi e Selfie di Agostino Ferrente, entrambi già in passato a Locarno, rispettivamente con Mar Nero e L’orchestra di Piazza Vittorio. La pri-
ma è una commessa con la sindrome di Down, che, alla morte improvvisa della madre, si trova da sola con il padre anziano. Un viaggio a piedi insieme è metafora di un percorso fattibile, senza patetismi, ma con ironia. Ferrente ha chiesto a due sedicenni di Napoli di filmarsi e raccontare il buono e il cattivo del loro quartiere, il Rione Traiano, in ricordo di un loro amico sedicenne ucciso da un carabiniere in circostanze ancora non chiarite. Nel Forum molto interessante African Mirror, di Mischa Hedinger, che ricostruisce la figura del viaggiatore e scrittore bernese René Gardi, utilizzando suoi testi anche inediti, fotografie e soprattutto le riprese effettuate sulle montagne del Camerun tra popolazioni non a contatto con gli occidentali. Immagini che confluirono nel documentario Mandara, premiato alla decima Berlinale. Interrogativi posti nel momento della fine dell’epoca coloniale e ancora attuali: lo sguardo di Gardi è paternalistico, ma curioso e interessato al destino di quelle genti, le sue immagini sono preziose ancora oggi.
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