Azione 10 del 8 marzo 2021

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Cooperativa Migros Ticino

Società e Territorio Nel web circolano sempre più video falsi e manipolati: il deepfake evolve in fretta e non sempre è innocuo

Ambiente e Benessere Il dottor Moreno Menghini ci parla di miopia: «Stare tanto al chiuso, senza orizzonti visivi e soprattutto senza luce naturale, compromette purtroppo anche la vista dei più piccoli»

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXIV 8 marzo 2021

Azione 10 Politica e Economia In Russia le attiviste sono ancor più sotto attacco e aumentano i casi di violenza domestica

Cultura e Spettacoli In Islanda si cerca di salvare la lingua nazionale dall’invasione di quella inglese

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Mark H. Milstein

Sarajevo, memorie di un assedio

di Simona Sala pagina 25

Come il boa che mangia l’elefante di Alessandro Zanoli Esattamente un anno fa Luigi provava di persona il morso del Coronavirus. Se ne ricorda un mattino davanti allo specchio, mentre sta facendosi la barba. Se ne ricorda per uno strano puzzo sgradevole, artificiale, tra il bruciaticcio e il sintetico, che è rimasto nel naso a sua moglie e a lui. E che ogni tanto si ripresenta. «Stamattina sento odore di Covid» dice lui prima di sedersi a colazione ed entrambi si scambiano un’occhiata significativa. Erano stati giorni di grande tensione, di paura dell’ignoto, anche di panico, vissuti insieme. Niente di paragonabile a come vediamo e viviamo oggi la pandemia. Giorni di messaggi scambiati con gli amici, di ricerca di informazioni, di rabbie contro i possibili untori. La comunicazione del medico, che confermava la positività, una notizia accolta con compostezza e consapevolezza, come quando si cammina sull’orlo di un precipizio, in un sentiero di montagna. Luigi, ora che è andato tutto bene, ora che lui e sua moglie sono al sicuro da tempo e non hanno riportato strascichi importanti (a parte quell’odore fastidioso che di tanto in tanto ritorna) si volta

a guardare quella primavera così anomala, allora, e così normale, oggi. Si preoccupa ancora, ma con cognizione di causa. Una delle cose che lo stupisce è paragonare quello spavento globale, assoluto di fronte alle cifre (che tenevano la sua famiglia inchiodata alle statistiche dei contagi) alla relativa indifferenza, alla rassegnazione odierna. Il solo disegno di quel grafico, che si snoda nel tempo e registra un anno di diffusione del virus è significativo. Ricorda il disegno del «serpente boa che mangia l’elefante», nel Piccolo principe: la prima ondata dell’anno scorso è infinitamente piccola se paragonata all’esplosione della seconda ondata d’autunno. Se il mondo si fosse spaventato in modo proporzionale alle dimensioni raggiunte dalla curva, saremmo tutti tappati in casa, con due o tre mascherine sulla faccia e lo scotch attorno ai bordi della porta. Invece no, la vita continua. Abbiamo passato il Natale e il Capodanno che non immaginavamo di poter passare mai, abbiamo iniziato l’anno nuovo, e stiamo proseguendo nel nostro sentiero sul precipizio, con attenzione e preoccupazione. Molti si sono ammalati, molti sono guariti, molti non ce l’hanno fatta. Con profonda tristezza, continuiamo: cos’altro possiamo fare?

In quest’anno agli arresti domiciliari Luigi ha cercato «lati positivi» ovunque: occasioni per trasformare la reclusione in un campus formativo casalingo. Sua moglie segue tutti i giorni una lezione di Pilates impartita da un docente su Youtube, si è iscritta a corsi universitari online, ha ripreso a fare del bricolage come quando era ragazza (ordinando il materiale sul web). Lui si è rimesso finalmente a suonare con regolarità e impegno la sua chitarra, ogni giorno si esercita sulle scale e sugli accordi. Sta scambiando file musicali con gli amici ed è riuscito persino a mettere in piedi una band musicale virtuale. Ha aggiustato la vecchia bicicletta che era da tempo in cantina e cerca ogni giorno di tenersi in movimento esplorando la sua cittadina. Ha scoperto angoli che non conosceva, stradine non asfaltate, vallette nascoste e insospettabili: ogni giorno il suo telefono gli dà il resoconto dei suoi progressi e la misura esatta dei suo sforzi. Luigi si trova ogni giorno a ringraziare chi ha inventato i media digitali: anche lui era uno scettico tempo fa. «Abbasso la tecnologia viva la realtà!». Oggi senza il web saremmo messi molto peggio: continuiamo, teniamo duro, proprio in virtù di Internet.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 marzo 2021 • N. 10

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Società e Territorio Casa Martini a Locarno Il primo anno di attività del centro di prima accoglienza voluto dalla Società di Mutuo Soccorso

I ragazzi e la pandemia Incontro con Isabella Saglio e Gaia Cattaneo, psicologhe e psicoterapeute del Servizio medico-psicologico cantonale attive presso i licei di Lugano

Demografia e mercato immobiliare In Ticino il calo demografico ha portato a una situazione di forte squilibrio tra domanda e offerta di abitazioni, una situazione già vissuta negli anni 90 pagine 10-11

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Se Trump recita Shakespeare Web La diffusione del deepfake (video

e audio falsi) è sempre più invasiva, sofisticata e per nulla innocua

Rocco Bianchi In un’epoca di fake oltre alle notizie non potevano mancare le immagini, pure loro ormai spesso taroccate. Non quelle abbellite grazie a programmi come Photoshop o social network stile Instagram; stiamo parlando proprio di immagini e video rigorosamente falsi, costruiti con intenti spesso non proprio cristallini. Vi è capitato di vedere video di attori, politici, personaggi famosi che fanno o dicono cose incredibili? Avete visto Biden dire parolacce o Trump recitare Shakespeare? Ecco, siete caduti nella trappola del deepfake, una tecnologia che utilizza una forma di intelligenza artificiale chiamata deep learning per appunto creare foto e video falsi. È un fenomeno relativamente recente, così recente che la parola è stata coniata solo nel 2017 e che prima di sapere cosa fosse ne siamo già stati probabilmente vittime. È comunque dal 2019 che le clip manipolate hanno cominciato a girare all’impazzata sui social, complice l’arrivo sul mercato di applicazioni sempre più sofisticate e performanti che permettono di crearle. Il lockdown dovuto alla pandemia, con l’obbligo del distanziamento sociale e la spinta che ha dato alla digitalizzazione della nostra vita, ha fatto il resto e decretato il boom. Il procedimento in sé è semplice: si combinano e si sovrapprongono video e immagini esistenti per creare qualcosa di totalmente nuovo. Il «trucco», che come in ogni gioco di prestigio c’è ma non si vede, sta nel fatto che per il nostro cervello quello che vediamo è reale e vero. Almeno in apparenza, naturalmente. Il deepfake tuttavia non è e non nasce come un gioco di prestigio. Nasce infatti dall’industria pornografica, che ad un certo punto si è «divertita» a creare video e foto spinti di numerose celebrità. Anche se, per paura di cause milionarie, i più importanti siti web dedicati al genere hanno ormai eliminato praticamente tutto quello che li riguarda, ancora oggi è possibile imbattersi in video porno con protagonisti attori o attrici più o meno famosi. Non spezzoni hard di film che hanno effettivamente girato, non solo scene porno in cui ai volti dei veri «attori» sono stati sovrapposti quelli della celebrità di turno, ma veri e propri falsi creati dall’intelligenza artificiale, dapprima distinguibili dai video veri in modo relativamente

facile, poi sempre più sofisticati e dunque meno riconoscibili. La faccenda emerse nell’autunno 2017, quando un utente anonimo con lo pseudonimo di «deepfakes» postò diversi video porno su Internet. Diverse le celebrità prese di mira, in maggioranza donne anche se non mancavano gli uomini. Scarlett Johansson, una delle attrici in questo senso più gettonate, parlò del problema pubblicamente a fine 2018 sul «Washington Post»: a suo avviso le celebrità come lei sono protette dalla propria fama; diverso il discorso per le persone normali, vittime spesso di revenge porn, termine che indica appunto la diffusione di materiale a sfondo sessuale con l’intento di rovinare la reputazione della vittima di turno. Di solito come detto donna, non di rado minorenne (recentemente le autorità di controllo italiane sono intervenute su un app che spoglia le ragazze). L’intento è, appunto, uno e uno solo: la vendetta. Pochi al momento i paesi dove questo fenomeno viene punito e represso con una legge specifica. Tra questi non figura la Svizzera, che si limita a perseguirlo su denuncia di parte come «reato contro l’onore», ossia diffamazione e calunnia. Tuttavia, se la maggior parte di questi video sono pornografici, c’è anche una grossa parte dedicata ai politici, con loro dichiarazioni rigorosamente false (esistono perciò anche deepfake solamente audio). E il fenomeno è in rapida crescita. Spesso l’intento è satirico (chi non ha ricevuto in questi ultimi mesi video o foto di Donald Trump ripreso negli atteggiamenti più strani?). Clamoroso ad esempio quanto fatto lo scorso 25 dicembre dalla rete televisiva britannica Channel 4, che ha trasmesso una parodia rigorosamente deepfake dei tradizionali auguri che Elisabetta II porge ai suoi sudditi. L’intento della rete televisiva era di dare un «forte avvertimento» sulle fake news. Ovviamente, visto che i britannici sono sì famosi per il loro humor ma lo perdono un po’ quando si toccano i reali, non sono mancate critiche e polemiche. Anche in questo campo comunque il deepfake evolve in fretta: per la gioia dei complottisti di ogni credo e nazione, sembra infatti che pure i governi stiano iniziando ad usarlo. Si vocifera ad esempio di falsi video di organizzazioni terroristiche creati per screditarne i vertici, ma in questo campo la fantasia (dei creatori e dei complottisti) è davvero infinita.

Le tecnologie di riconoscimento e mappatura facciale applicate a un falso video con protagonista Barack Obama. (Keystone)

Senza dimenticare le truffe: si ha ad esempio notizia di un responsabile di una società che ha versato diverse decine di migliaia di sterline su un conto bancario dopo essere stato ingannato dalla finta/vera voce del da lui creduto suo amministratore delegato. Non un caso isolato, pare, tanto che gli esperti in cybercriminalità stanno ipotizzando che questa tecnologia possa raggiungere livelli talmente alti da riuscire a creare addirittura false videoconferenze. Anche perché un programmatore ci è già quasi riuscito, intrufolandosi in una chat e facendo parlare in una videochiamata a tre il fondatore della Tesla Elon Musk, dimostrando così che ci si può far passare per chiunque, anche in tempo reale. In quest’epoca di lockdown e telelavoro in cui sempre più aziende si affidano al video come mezzo di comunicazione tra dirigenti e dipendenti, i danni per le imprese potenzialmente potrebbero diventare enormi. È dun-

que ipotizzabile che questa tecnologia, in mano ai malfattori e combinata con l’aumento dell’ansia di prestazione economica dei manager dovuta alla crisi del Covid-19, porterà alla nascita di nuove minacce che le autorità faticheranno a fronteggiare. Forse soprattutto per questo i grandi network digitali (social media, motori di ricerca ecc.) stanno formando dei team incaricati di studiare, monitorare e contrastare il fenomeno e studiando e in parte già applicando mezzi per contrastarlo che vadano oltre le segnalazioni degli utenti – si pensa ad esempio di elaborare algoritmi capaci di inviduare i deepfake. Problema comunque limitato alle imprese e a una cerchia ristretta di persone, spesso per di più di livello sociale e finanziario talmente elevato da portersene anche infischiare? Solo a una lettura superficiale. Dato che questa tecnologia diventa sempre più sofisticata (i video degli anni scorsi sono lontani

anni luce dalle possibilità offerte oggi a chiunque possegga uno smartphone) e invasiva, sempre più esperti di varia estrazione (filosofi, sociologi, informatici…) avvertono, infatti, che stiamo scivolando sempre più verso una società in cui le persone dubitano di tutto; grazie al deepfake, persino di quello che vedono con i propri occhi. Non solo: non si interessano neanche più di scoprire se una cosa è vera o falsa per il solo fatto che può essere manipolata. Si creano dunque una realtà la cui veridicità rimane sempre dubbia. Plausibile certo, ma non vera. Soprattutto sempre adattabile alle loro idee e credenze, che verrebbero così sempre confermate e mai messe in dubbio, se non cambiate. Di conseguenza, almeno in linea teorica, potrebbero esistere tanti fatti alternativi (la citazione non è casuale!) e dunque realtà quante le persone esistenti sulla terra. La Torre di Babele in confronto sembra una bazzecola.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 marzo 2021 • N. 10

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Dove si può chiedere aiuto

Casa Martini È aperto da un anno il centro di prima accoglienza per persone e famiglie

in difficoltà voluto dalla Società di Mutuo Soccorso e gestito dalla Fondazione Francesco

Il circo colorato di Calder

Concorso Biglietti

in palio per il Museo in erba di Lugano

Sara Rossi Guidicelli In Via Vallemaggia è aperta ormai da un anno la casa di accoglienza per dare un tetto, un pasto caldo e un po’ di ascolto a chi ne ha bisogno. A causa della pandemia si è dovuto ripensare a molte regole di funzionamento e soprattutto alle nuove e diverse necessità che si sono create. «C’è molto più bisogno di quanto pensavamo», spiega Fra Martino Dotta, che gestisce la casa tramite la Fondazione Francesco per l’aiuto sociale. «Soprattutto solitudine e perdita di lavoro. Figli, mariti, parenti buttati fuori di casa che si sono ritrovati per strada. Anziani che cercano un po’ di compagnia. E famiglie che non sanno dove trovare i soldi per la spesa». Alla prima occhiata, colpisce la bellezza. «Questo per me è un segnale importante di rispetto per la persona. Anche se non hai da mangiare, non hai soldi, non hai un tetto, ti meriti comunque di stare in un posto curato, ben restaurato e decorato in modo artistico; anche se sei affetto da dipendenze in questa fase della tua vita, non è detto che tu debba accontentarti di qualsiasi cosa. Ecco perché offriamo un posto caldo e bello». La Casa Martini all’ora di pranzo è piena; pensata per i bisogni di chi vive nella regione o di chi è di passaggio, con la pandemia si è vista accogliere soprattutto gente del quartiere. Anziani, famiglie, persone singole messe in difficoltà dalla situazione sociale ed economica. C’è chi si siede al tavolo per consumare un pasto e chi lo porta via. Una ventina di porzioni al tavolo e altrettante da asporto; quasi le stesse cifre si verificano all’orario di cena, sette giorni su sette. «Un secondo aspetto molto importante per noi è la professionalità di chi lavora qui», continua Fra Martino. «Il volontariato è una ricchezza immensa e ci aiuta in maniera preziosa, seppur per intanto limitata dalla pandemia. Abbiamo per contro attivato quattro posti di programmi di attività di pubblica utilità: al momento sono svolti da rifugiati, che si occupano di aiutare in cucina e nel fare le pulizie. Tuttavia, qui abbiamo bisogno anche di personale formato appositamente, perché non si tratta solo di cucinare, pulire e servire ai tavoli. Si tratta soprattutto di stare con le persone in un certo modo che possa essere per loro benefico». Nell’insieme, quindici sono i posti di lavoro generati da Casa Martini. Sette educatori, ai quali si aggiungono tre vegliatori notturni e il personale di cucina. Dopo mangiato infatti c’è un momento più informale in cui gli ospiti possono parlare, chiedere, farsi ascoltare. Non si tratta di una presa a carico, ma di un luogo dove stare, dove incontrarsi, dove essere ricevuti senza tante formalità, senza dover dare spiegazioni, senza ricevere giudizi. «Questa per me è la base per capire, come aiutare una persona», afferma Fra Martino. Ma come si fa a rimettere in sesto la vita di qualcuno, gli chiedo, perché so che a lui si possono fare queste domande diffici-

Azione

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938

Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Romina Borla, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

Il direttore della Fondazione, Fra Martino Dotta, in una delle camere di Casa Martini a Locarno. (Ti-Press)

Il Museo in erba è l’unico museo per i bambini in Ticino dove si scopre l’arte giocando. È un museo privato, gestito dall’omonima Associazione, inaugurato nel 2000. Presenta mostre interattive con un approccio ludico e al contempo educativo, in cui i visitatori sono i veri protagonisti delle loro scoperte. Propone inoltre un programma di laboratori per sperimentare la creazione artistica ed esprimere liberamente la propria fantasia con l’utilizzo di originali e sempre diverse tecniche pittoriche. Lo scorso 1. marzo al Museo è stata riaperta la mostra «Calder, che circo!» ideata dal Centre Pompidou di Parigi. L’esposizione (sostenuta dal Percento culturale di Migros Ticino) è caratterizzata da una divertente e colorata scenografia ispirata al mondo del circo e darà ai bambini l’opportunità di scoprire la forza, la poesia e l’inventiva dell’opera di Alexander Calder (18981976) importante artista del XX secolo. Nelle diverse zone del percorso i bambini potranno sperimentare in prima persona le basi del linguaggio plastico dell’artista: manipolando forme colorate e oggetti quotidiani, compiendo gesti semplici come soffiare, spingere, girare: imparando a conoscere l’equilibrio, il movimento, la composizione, il disegno nello spazio, il pieno e il vuoto e presentando ai compagni le loro creazioni. Il percorso è arricchito da un’ampia documentazione fotografica e da alcuni filmati che permettono ai bambini di avvicinarsi e capire la magia e l’umorismo di Calder. Per la riapertura il team del Museo in erba ha adottato tutte le misure di sicurezza. La prenotazione è consigliata, visto che il numero dei posti per la visita e per l’atelier è limitato (ilmuseoinerba@bluewin.ch – 091 835 52 54). Orari e programma sono disponibili su www.museoinerba.com. «Azione» offre ai suoi lettori la possibilità di aggiudicarsi alcune coppie di biglietti per la visita all’esposizione e alcuni buoni per partecipare alle attività dell’«Atelier». Per prendere parte al concorso seguire le istruzioni nella pagina www.azione.ch/concorsi.

li. E infatti la risposta arriva lieve, come una carezza. «Diciamo che è la sfida del nostro progetto: offrire un posto in cui si può chiedere aiuto. Se senti che sei rispettato e accolto, se senti che ricevi prima di tutto calore umano, attenzione, considerazione, allora cominci a pensare che puoi rimetterti in piedi. Ma sei tu che lo fai, se sei tu che sei a terra. Si lavora sulla relazione e sulla fiducia, che va conquistata. Qui nessuno ti obbliga a venire, né a “farti salvare”. Sei tu che lo chiedi e che attivamente ti impegni per capire di che cosa hai davvero bisogno. È una questione di motivazione, e la motivazione cresce dentro te stesso. Noi possiamo solo creare le migliori condizioni in cui far avvenire questa crescita. Ci vuole libertà, la libertà della persona. Ognuno ha la sua strada e, per poterla percorrere, ha bisogno di sentirsene responsabile». Questa Casa è il generoso regalo rivolto alla popolazione che la Società di Mutuo Soccorso Maschile di Locarno ha fatto per i suoi 150 anni. È infatti stata fondata nel 1864 per via dei cambiamenti sociali in atto; con la Rivoluzione industriale, molte sono le Società laiche di mutuo soccorso sorte in tutta Europa, soprattutto per dare una mano a quei lavoratori proletari che in caso di incidente perdevano tutto, lavoro, stipendio, possibilità di mantenere la famiglia. Nel Novecento poi, la Società locarnese si è adattata ai nuovi bisogni. Fino all’ultimo grande investimento: Casa Martini, deciso grazie al sostegno politico del Municipio di Locarno, dopo attenta valutazione delle necessità con i Servizi sociali cittadini. Negli anni la Mutuo Soccorso aveva già realizzato delle case: per esempio nel 1964 la Colonia Vandoni, luogo di vacanza per ragazzi in Vallemaggia, o nel 1989 i 18 appartamenti a pigione moderata di Casa Margherita,

situata tra il Lido e il Fevi. Casa Martini è stata acquistata dai coniugi Luigina e Marzio Martini, anch’essi benefattori, e ristrutturata a spese della Società di mutuo soccorso maschile di Locarno. Poi è stata affidata alla Fondazione Francesco diretta da Fra Martino Dotta. E proprio con lui, ovviamente, siamo qui a discutere di questo primo anno di vita di Casa Martini. Nel febbraio del 2020 è stata inaugurata la Casa come posto di accoglienza e mensa per pranzo e cena. Ci sono anche docce, lavatrici e vestiti a disposizione e, quando una famiglia ha bisogno di cibo da portare a casa, le si prepara una borsa della spesa. Per cibo e beni di prima necessità si fa capo a privati o fornitori vari, a Tavolino Magico e alle cucine della Clinica Hildebrand di Brissago e della Clinica Moncucco di Lugano. Poi da luglio si è aperto anche lo spazio notturno: otto stanze doppie vivibili solo di notte. «Durante il giorno non si può andare in camera», spiega Fra Martino. «Questo perché pensiamo che stimoli la persona a cercarsi un lavoro e una sistemazione diversa. Non vogliamo che si fermino, si siedano e si rassegnino». Ovviamente la Casa funge anche da punto di partenza per scoprire altri servizi a cui si ha diritto; anche per questo sono sempre presenti, giorno e notte persone con una formazione sociale specifica, tra cui una figura con il Diploma di assistenza sociale che aiuta a prendere contatto nei vari uffici, a sbrigare le pratiche burocratiche, a capire a chi rivolgersi nella propria situazione e così via. «Abbiamo già avuto qualche bella storia qui dentro», sorride il frate cappuccino. «È arrivata qualche settimana fa una famiglia con un ragazzino di dodici anni. Abbiamo fatto in modo

che fosse inserito subito a scuola. Ora la mamma ha trovato lavoro nel Malcantone. Nel frattempo, la famiglia si è stabilita a Ponte Tresa, dove ha trovato un appartamento». Oppure due ragazzi diciannovenni, che non potevano più stare con i rispettivi genitori. Li abbiamo aiutati a mettersi in contatto con i servizi sociali, per domandare assistenza. Da poco, hanno trovato un appartamento: l’uno sta per iniziare un apprendistato, l’altro ha un posto di lavoro. Casa Martini sta trovando il suo equilibrio tra la garanzia di servizi di qualità e lo stare in piedi economicamente senza dipendere dall’aiuto dello Stato. Non riceve infatti sussidi pubblici – «per scelta nostra», precisa Fra Martino – se non quando la persona stessa, che usufruisce di un posto letto, è al beneficio di prestazioni sociali. Per quanto riguarda il cibo, ha già collaborazioni molto proficue anche con pasticcerie e negozi della zona. Numerosi i privati che sostengono Casa Martini «facendo la spesa» a suo favore. Il grosso delle donazioni serve in particolare a coprire i costi correnti e gli stipendi del personale. «Cerchiamo di farci conoscere e abbiamo ricevuto versamenti preziosi da privati, fondazioni, ditte, istituti bancari, club di servizio, parrocchie e così via. Posso dire che c’è stato un bel movimento di aiuto, anche se nel 2020 non si è potuto organizzare attività di promozione, mercatini, feste di beneficienza e così via. Speriamo che continui il sostegno, anche adesso che Natale è alle nostre spalle». Per quanto il Natale non si possa mai definire veramente alle spalle, almeno per chi ha fatto del dono la sua ragione di vita. fondazionefrancesco.ch

L’imperdibile mostra ideata dal Centre Pompidou di Parigi è di nuovo aperta!

Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch

Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11

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La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 marzo 2021 • N. 10

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Idee e acquisti per la settimana

Dolci tentazioni

Attualità Sono tornate le ricercate specialità pasquali Balocco che soddisfano non solo gli amanti della tradizione

La Pasqua è ormai alle porte e i golosi saranno felici di ritrovare il dolce per eccellenza della festa, la Colomba. Lo storico marchio italiano Balocco è presente sugli scaffali di Migros Ticino con alcune immancabili prelibatezze. Lievitata naturalmente con solo lievito madre, la Colomba Classica è preparata come vuole la tradizione con profumati canditi, latte fresco italiano, uova da galline allevata a terra e glassa lavorata artigianalmente. Raffreddata in modo naturale a testa in giù per otto ore, questa colomba si distingue per la sua fragranza e il suo inconfondibile aroma. Il prodotto è realizzato in un sito produttivo che utilizza energia pulita ottenuta da un impianto fotovoltaico. Gli amanti del cioccolato non possono certo lasciarsi sfuggire l’irresistibile Colomba MaxiCiok con golosa farcitura, ricopertura e decoro di cioccolato fondente. È realizzata solo con uova da galline allevate a terra, senza ingredienti OGM e con energia pulita. Chi apprezza i sapori esclusivi sarà accontentato con la Colomba Albicocca Bottega Balocco. Le morbide e polpose albicocche dell’Emilia Romagna, dolci e delicate, vengono candite in uno sciroppo di acqua e zucchero. Sciogliendosi durante la cottura, donano all’impasto della colomba una morbidezza e una golosità senza pari. L’incarto in stile vintage è realizzato con prestigiosa carta uso mano, stampata in colori pastello che evocano la primavera. La lavorazione artigianale è totalmente realizzata in Italia.

La Colomba Classica Balocco 1 kg Fr. 7.95

Colomba MaxiCiok Balocco 750 g Fr. 7.95

Colomba Albicocca Bottega Balocco 750 g Fr. 14.90

Pesce intero per tutti i gusti

Attualità I reparti pesce Migros offrono un’ampia scelta di specialità

ittiche fresche, molte delle quali vendute anche intere. Naturalmente anch’esse provengono esclusivamente da fonti sostenibili

Pizze surgelate di qualità

Attualità Una sapiente combinazione

tra tradizione e innovazione caratterizza i prodotti del marchio Svila

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Scorfano, branzino, orata e sardine sono ottimi cucinati interi.

Pizza alla Pala Margherita Integrale 220 g Fr. 4.50

su tutto l’assortimento di pesce intero fresco dal 9 al 13.03

La Pinsa Romana Amatriciana e Gricia 335 g/305 g Fr. 5.90

Il pesce, si sa, oltre ad essere un alimento delicato e facilmente digeribile, è anche particolarmente apprezzato per le sue qualità nutritive. Contiene infatti preziose proteine, sali minerali, fosforo, iodio e i benefici acidi grassi omega-3, utili nella prevenzione delle malattie cardiovascolari. Per questo se ne consiglia il consumo da una a due volte alla settimana. Presso i reparti del pesce dei principali supermercati Migros ognuno trova specialità ittiche in tutte le varianti e

per ogni gusto. I nostri addetti sono a disposizione della clientela per elargire consigli e ricette sulla migliore preparazione del prodotto acquistato. La scelta annovera pure numerosi pesci interi che, non solo sono buoni, ma garantiscono anche un bell’impatto visivo una volta portati in tavola. Tra i più conosciuti e apprezzati, possiamo citare il branzino, l’orata, il rombo, la sogliola, la rana pescatrice, il pesce san pietro e lo scorfano rosso. Altre specie da provare assolutamente sono anco-

ra lo sgombro, il pagro, la ricciola, le acciughe e le sardine, come pure il salmone intero norvegese da 2-3 kg. Per quanto riguarda i pesci d’acqua dolce, la regina è la trota, disponibile sia bianca che salmonata. Infine, il pesce venduto alla Migros può essere gustato con la coscienza tranquilla: il 100% dell’assortimento proviene infatti da fonti sostenibili. In questo modo anche le generazioni future potranno ancora gustare pesce e frutti di mare freschi.

Il marchio Svila è sinonimo di pizze surgelate di elevata qualità, prodotte con ingredienti genuini 100% italiani e tanta passione. L’azienda nasce nel 1974 a Visso, un piccolo borgo italiano tra Umbria e Marche, dove ancora oggi ha la propria sede. Grazie a modalità di produzione prettamente artigianali da una parte e a un approccio sempre innovativo dall’altra, i prodotti Svila negli anni hanno saputo riscuotere un crescente successo presso i consumatori. Rispetto dell’autentica tradizione pizzaiola italiana, lunga lievitazione dell’impasto, nonché una delicata cottura su pietra, per-

mettono di ottenere delle pizze dalle caratteristiche inconfondibili, che conquistano per doratura, fragranza, leggerezza e sapore. La ricca farcitura della base e l’immediata surgelazione mantengono inalterate le qualità del prodotto. La gamma di pizze surgelate Svila in vendita nelle maggiori filiali Migros soddisfa qualsiasi desiderio con oltre dieci tipi diversi: dalle classiche pizze gorgonzola-noci, radicchio-speck, Posillipo, Napoli alle pizze alla pala 4 formaggi, margherita integrale, salsiccia-zucchine, verdure fino alle Pinse Romane amatriciana e gricia.


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Idee e acquisti per la settimana

Anche i fiori sbarcano su Smood

Da Micasa è arrivata la primavera Attualità Vieni a scoprire la nuova collezione

di mobili primaverili

Il servizio di successo di consegna della spesa Migros a domicilio Smood, da subito propone nel suo assortimento anche una selezione di bellissimi fiori freschi del reparto Migros Florissimo. Non c’è niente di più gradevole del ricevere direttamente a casa una rigogliosa sorpresa floreale. Che si tratti del compleanno, dell’anniversario di matrimonio, della nascita di un figlio o degli auguri di pronta guarigione, da sempre i fiori accompagnano i momenti più si-

gnificativi della nostra vita. Le modalità di ordinazione sono le stesse delle spesa ordinaria: è sufficiente collegarsi al sito o all’app di Smood.ch, selezionare il mazzo di fiori desiderato, il destinatario e inoltrare l’ordine. La consegna avviene in meno di 1 ora su gran parte del territorio ticinese. Infine, Ricordiamo che il portale Smood propone oltre 6000 articoli dell’assortimento Migros, tra cui numerosi apprezzati prodotti firmati Nostrani del Ticino.

Leggerezza e freschezza entrano in casa con le novità stagionali di Micasa. A farla da padrone sono i motivi divertenti raffiguranti un colibrì della biancheria da letto in raso, delle tende da doccia e dei cuscini; i decori floreali di tende e accessori d’arredo; nonché le tonalità chiare della mobilia che creano un ambiente accogliente e pieno di allegria. La cameretta dei bimbi si riempie invece di colori rilassanti, luci fresche e mobili particolarmente funzionali con

molto spazio portaoggetti. Da Micasa anche la tavola pasquale si trasforma in un vero attirasguardi, grazie a variopinte stoviglie di pregiata ceramica con graziose e trendissime decorazioni.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 marzo 2021 • N. 10

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Società e Territorio

Trasmettere fiducia nell’avvenire

Adolescenti e pandemia Incontro con Isabella Saglio e Gaia Cattaneo, psicologhe e psicoterapeute del Servizio

medico-psicologico cantonale attive presso i licei luganesi

Stefania Hubmann Perdita di esperienze fondamentali per la crescita, ma pure specifiche risorse da valorizzare. Potrebbe essere sintetizzata anche così, con due volti della stessa medaglia, la travagliata situazione con la quale è confrontata la gioventù durante la pandemia. Le misure di confinamento imposte dalle autorità pesano in realtà su tutte le fasce della popolazione con l’accento posto di volta in volta su alcune di esse e su aspetti settoriali: sanitario, economico, sociale, psicologico. Per approfondire quest’ultimo in relazione al vissuto di adolescenti e giovani adulti abbiamo interpellato Isabella Saglio e Gaia Cattaneo, attive da anni quali psicologhe e psicoterapeute presso il Servizio medico-psicologico cantonale (SMP) tramite il quale sono presenti in maniera regolare la prima nel Liceo cantonale Lugano 1, la seconda nella sede Lugano 2. Agli studenti è così offerta la possibilità di esprimere liberamente i loro problemi personali in forma anonima e con un facile accesso alle specialiste. Quali le loro paure e preoccupazioni durante questa inedita emergenza sanitaria? Quali le chiavi di lettura del contesto avanzate dalle due professioniste a diretto contatto con i giovani?

«Non bisogna cadere nell’errore di gravare con aspettative troppo elevate le giovani generazioni» Per Isabella Saglio e Gaia Cattaneo è indispensabile premettere, oltre al circoscritto numero di ragazzi con cui operano, l’impossibilità di osservare il fenomeno senza esserne coinvolti, poiché l’emergenza non è superata e in un modo o nell’altro riguarda ancora tutti noi. Cionondimeno la consapevolezza degli adolescenti di perdere un «pezzo di vita» che non potranno recuperare è ben presente. «I rapporti esterni alla famiglia dalla quale a questa età si inizia progressivamente ad affrancarsi sono essenziali per la crescita», spiegano le due psicologhe. «Si tratta di una tappa fondamentale nel processo evolutivo che contribuisce alla formazione della personalità e alla definizione della pro-

pria identità. Anche lo sviluppo fisico tende a rafforzare la spinta verso l’esterno alla ricerca di nuovi modelli con i quali confrontarsi e identificarsi. Ad esempio a 16 anni si inizia ad uscire la sera, a 18 si è maggiorenni ed è l’età dei primi viaggi con gli amici. Queste opportunità significano senso di libertà e nel contempo assunzione di responsabilità». La normale «fame» di uscire dei giovani si scontra con restrizioni che paradossalmente trasformano la scuola da obbligo quotidiano, vissuto a volte con disappunto, in unico luogo di incontro e attività fuori casa. L’ascolto offerto dalle rappresentanti del Servizio medico-psicologico – dipendente dal Dipartimento della sanità e della socialità e presente in diverse scuole medie superiori – è quindi un prezioso spazio di parola sostenuto dagli istituti scolastici e di cui gli studenti stanno approfittano in numero crescente. In entrambe le sedi luganesi del Liceo cantonale (frequentate rispettivamente da circa 1150 e 750 allievi) le due psicologhe hanno notato questa tendenza. Un segnale che indica l’esistenza di un disagio più diffuso, ma anche la capacità di farsi avanti alla ricerca di aiuto. Cosa esprimono i liceali che sentono sulle proprie spalle l’eccessivo peso di questa situazione? Rispondono le nostre interlocutrici: «L’ansia di compiere la scelta giusta per il futuro senza perdere tempo è uno stato d’animo ricorrente, così come il desiderio di maggiori contatti. Sentono infatti la mancanza del gruppo dei pari, cerchia spesso legata alle attività extrascolastiche come lo sport o la musica». Riguardo al primo aspetto le due professioniste citano un passaggio del libro Psicopatologia dell’adolescenza dell’emerito neuropsichiatra infantile e psicanalista francese Philippe Jeammet, nel quale l’autore precisa: «L’adolescente è di fatto collocato dalla società nella situazione di dover fare delle scelte urgenti. Il suo ambiente ne è spesso più cosciente che lui stesso. In particolare, tutto ciò che ha un effetto negativo sul suo funzionamento scolastico rappresenta rapidamente un handicap che rischia di gravare pesantemente sul suo avvenire». Altri temi che pur non emergendo in forma esplicita soggiacciono ad alcuni disagi sono i possibili lutti famigliari, così come la consapevolez-

Le restrizioni hanno trasformato la scuola da obbligo quotidiano in unico luogo di incontro e attività fuori casa. (Keystone)

za del pericolo di contagio. Elemento quest’ultimo che, oltre a portare a un generale rispetto delle regole per proteggere le persone più fragili (ad esempio i nonni), è molto sentito dagli adolescenti in quanto li confronta con un tipo di rischio non percepibile, più difficile da comprendere anche da parte degli adulti. Adulti considerati comunque, malgrado il senso di ribellione che anima gli adolescenti, un punto di riferimento in grado di offrire sostegno e rassicurazione. Questa visione di certezza è ora incrinata dai dubbi e dalle contraddizioni che caratterizzano il comportamento degli stessi adulti. Le forme di pressione che gravano sui giovani sono quindi molteplici, mentre la sperimentazione, bloccata nella sua forma concreta, tende a limitarsi alla dimensione virtuale offerta dagli strumenti digitali che, con un uso adeguato, mostrano il loro enorme potenziale. Malgrado questi riscontri, nella

riflessione delle due psicologhe trova spazio anche il valore degli strumenti di cui dispongono i giovani e che permetteranno loro di risorgere dalla crisi. Isabella Saglio e Gaia Cattaneo: «Creatività, vitalità, desiderio, spirito di adattamento, sono caratteristiche della gioventù che i genitori possono contribuire a rafforzare trasmettendo fiducia nell’avvenire, perché l’emergenza è una fase destinata ad avere una fine. Una fase, questo è vero, ormai divenuta molto lunga». Le prospettive, grazie alla messa a punto dei vaccini, in effetti esistono, ma ancora una volta i tempi non corrispondono a quelli ai quali la società era abituata prima della pandemia. Per le psicologhe i giovani «devono cercare di essere pazienti, mantenendo viva la propria creatività e continuando a sentirsi attori attivi nella società. Le crisi non comportano sempre solo aspetti negativi. Possono generare nuove opportunità, ad esempio a favore di determinati cambiamenti.

Certo, non bisogna cadere nell’errore di riporre nelle giovani generazioni aspettative troppo elevate, né a questo livello, né nel compito di risollevare la situazione dal punto di vista economico e sociale, perché altrimenti la pressione invece di diminuire, aumenta». Difficile per ogni essere umano in questo momento rispondere al bisogno innato di dare un senso agli avvenimenti. Ancora più arduo per chi alla vita si affaccia con l’entusiasmo e l’energia della gioventù desiderosa di realizzare i propri sogni. Apprezzare la quotidianità, sentirsi parte attiva della società, imparare a conoscere, attraverso le misure di protezione imposte, anche il funzionamento delle istituzioni e le figure che le rappresentano, sono comunque insegnamenti che contribuiscono alla crescita dell’individuo. Sulla gioventù è lecito riporre aspettative e speranze a fini incoraggianti senza che queste diventino un ulteriore fardello o l’espressione dei timori degli adulti.

Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Fabrizio Silei-AntonGionata Ferrari, Il maestro Grumo e il maestro Tino, Il Castoro. Da 4 anni. C’è brio in questa storia, che parla di maestri ma potrebbe parlare di chiunque, di tutti noi, Grumi o Tini, o un po’ Grumi e un po’ Tini. Il maestro Grumo vive in un appartamento disordinato e colorato, ha la barba lunga e una massa di capelli ricci e incolti, si entusiasma quando spiega arte, fa matematica nella natura ed è tutto creatività e intuizione. Il maestro Tino ha una casa organizzata e ordinata, si veste con cura, insegna a rendere facili anche le divisioni difficili, recita le poesie a memoria e le fa imparare anche ai bambini. Così diversi ed entrambi maestri, nella stessa scuola. Tra i loro alunni ci sono sia tipi Grumi che tipi Tini. Quando il maestro Grumo sbaglia una divisione, interviene Margherita, che somiglia un po’ a Tino, e lo toglie dai pasticci. E quando il maestro Tino deve disegnare alla lavagna, chiama Ignazio, che somiglia un po’ a Grumo, e sa disegnare

benissimo. Fin qui, una storia carina, portata avanti con il ritmo sapiente del testo di Silei e la straordinaria vivacità delle illustrazioni di Ferrari, e potrebbe anche bastare. Ma il colpo da maestro (è il caso di dirlo!) arriva con l’avvento di una nuova maestra, Biancaluna. E lei sì, che è un gran personaggio, perché con lei si va oltre il manicheismo dell’opposizione «genio e sregolatezza» versus «ordine e razionalità». Sarebbe troppo banale dividere così l’umanità, e i due autori, che banali non sono, lo sanno bene. E allora ecco la maestra Biancaluna,

con una foresta di capelli incolti ma anche una camicia ben stirata e pulita. A volte dimentica il registro, ma non sbaglia mai una divisione. Quando spiega le poesie suscita emozioni ma al contempo le fa imparare a memoria. Biancaluna è armonia, è tinesca e grumesca insieme, questa è la sua forza, e questa è la forza a cui ogni piccolo lettore può ispirarsi, per andare oltre gli stereotipi, per integrare felicemente i vari aspetti di sé. Magari di base siamo un po’ più Tini o un po’ più Grumi, ma di certo non siamo solo questo, ed è bello trovare un equilibrio coltivando anche un’altra parte di sé. Come cercheranno di fare i due maestri, innamorati cotti, entrambi, di Biancaluna, fino al divertente finale. Anche questo non scontato! Patricia MacLachlan, Quel prodigio di Rex, HarperCollins. Da 7 anni Nella sua lunga e tuttora rigogliosa carriera, la scrittrice americana Patricia MacLachlan ha offerto ai bambini libri che possono essere considerati

dei piccoli classici, spesso su storie di famiglia e di crescita. Penso a titoli di successo come Album di famiglia, Sette baci ogni mattina, Primo amore, o Sara né bella né brutta (con cui ottenne la prestigiosa Newbery Medal nel 1986). Più recentemente ha aggiunto alle sue storie una sensibilità particolare per il tema delle parole, del linguaggio, della scrittura (come in Una parola dopo l’altra); e vi ha inserito anche il suo grande amore per i cani, che ne divengono non solo personaggi centrali, ma anche personaggi risolutori, o guaritori, dei problemi degli umani.

Così è stato per Le parole di mio padre (Premio Andersen 2020). E così è per il recentissimo Quel prodigio di Rex, anch’esso uscito da HarperCollins. «Mia zia Lily si occupa di parole. Passa il tempo ad amare le parole» dice la piccola Grace, che trascorre tanto tempo dalla zia, affascinata com’è, anche lei, dal linguaggio. «Scombussolata» e «prodigioso», ad esempio, sono due parole nuove, appena apprese da zia Lily, e racchiudono il senso di questa storia. La zia è una scrittrice, ma si trova in un momento di blocco, è scombussolata, appunto, di fronte alla pagina bianca, dove nessuna nuova storia riesce a nascere. Serve un pizzico di magia, qualcosa di prodigioso, appunto, e non potrà che essere un cane, un cane un po’ magico come Rex, che infonderà saggezza e fiducia nella capacità di trovare le parole per «districare e dare forma alle storie». Perché scrivere aiuta a capire e a capirsi meglio; aiuta a sciogliere i nodi delle emozioni, in questa nostra vita in cui, per fortuna e purtroppo, «le cose non stanno mai ferme».


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 marzo 2021 • N. 10

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Società e Territorio

Il calo demografico preme sul mercato immobiliare

Analisi Non è la prima volta che in Ticino si viene a creare un forte squilibrio fra domanda e offerta di abitazioni,

con il tempo il mercato ha sempre trovato una nuova stabilità, ma oggi rispetto alla situazione degli anni 90 le condizioni di partenza sono sostanzialmente diverse

Elio Venturelli La popolazione del Cantone Ticino da qualche anno diminuisce mentre l’offerta di abitazioni sembra in continua espansione se si considerano i numerosi cantieri aperti (pandemia permettendo) e le innumerevoli modine disseminate su tutto il territorio. La situazione suscita preoccupazione, visto l’aumento dello sfitto in questi ultimi anni. Prima di trarre conclusioni affrettate, ci sembra opportuno analizzare sul lungo termine le caratteristiche del comparto abitativo, un comparto che ha dinamiche particolari, tenendo conto inoltre delle specificità del nostro cantone, terra di frontiera, ma anche territorio ambito da chi, vivendo Oltre Gottardo, subisce il fascino del sole del Ticino.

Dopo che negli ultimi 15 anni l’investimento nel mattone era tornato ad essere interessante, il calo demografico registrato di recente ha colto tutti di sorpresa Non è la prima volta che viviamo una situazione di forte squilibrio tra domanda e offerta di abitazioni. Ad esempio, negli anni 90 abbiamo vissuto una situazione analoga, ma con cause diverse. Abbiamo quindi ripercorso l’evoluzione del settore a partire dagli anni 50, riassunta sinteticamente nella figura 1, attingendo ai contributi realizzati a suo tempo per la rivista «Tutto Casa»1. La forte immigrazione del dopoguerra e il successivo sviluppo demografico degli autoctoni (baby boom), provocarono un forte aumento della domanda di abitazioni primarie. La penuria di alloggi indusse lo Stato, fin dagli anni 70, a intervenire in favore delle famiglie (alloggi sussidiati, crediti agevolati). Parallelamente, anche la richiesta di residenze secondarie si sviluppò fortemente, vuoi da parte di «confederati», in particolare in seguito all’apertura del tunnel autostradale del Gottardo, vuoi da cittadini germanici che beneficiavano, all’epoca, di

agevolazioni fiscali per investimenti all’estero dal loro paese. Il settore delle costruzioni, fortemente sollecitato anche dal fabbisogno di nuove scuole, di ospedali, di infrastrutture legate ai trasporti o alla depurazione, dalla costruzione di stabili industriali e amministrativi, di banche e capannoni, si sviluppò come non mai. Si ricorse massicciamente alla manodopera stagionale e frontaliera, le imprese di costruzione crescevano come funghi, a volte con strutture precarie. Le banche accordavano crediti ipotecari senza analisi approfondite sulla liquidità dei clienti, elargendo somme anche superiori al valore reale dell’immobile. I tassi ipotecari raggiunsero livelli mai visti, senza per questo frenare la domanda. Negli anni 80 il Ticino divenne terra di speculazione per molti investitori d’Oltralpe. Lacune fiscali permettevano la vendita di uno stesso fondo più volte in poco tempo, con lauti profitti. I prezzi dei beni immobiliari crescevano fortemente. Le cosiddette «disdette-vendita» portarono alla «ristrutturazione» di molti stabili, gonfiando ulteriormente la domanda nel settore delle costruzioni e mettendo inoltre in difficoltà non poche famiglie, attanagliate dal dilemma tra «comperare o lasciare l’abitazione». La tensione sul mercato immobiliare fu tale da indurre il Consiglio federale a emanare, nel 1989, una serie di decreti urgenti2 volti a frenare la domanda e combattere la speculazione. Il mercato crollò bruscamente e il valore delle compravendite si dimezzò nell’arco di un anno. Famiglie e imprenditori si trovarono nell’impossibilità di pagare dei tassi di interesse così elevati. Le banche si videro obbligate ad acquistare sottoprezzo gli immobili dei loro creditori, messi all’asta, evitando così il tracollo completo del mercato; persero svariati milioni e si ritrovarono a dover gestire un parco immobili consistente, senza averne le competenze. Gli imprenditori che riuscirono a sopravvivere, dovettero comunque portare a termine i lavori iniziati, riversando sul mercato numerose abitazioni e superfici industriali e commerciali, oramai non più richieste. Lo sfitto aumentò considerevolmente. Nella sola Chiasso, per limitarsi all’esempio più eclatante, ancora nel 1997, un’abitazione su dieci era vuota e ben

Fonte: Statistica delle transazioni immobiliari e Statistica delle costruzioni, Ustat, sito Internet/Ustat, elaborazione EV

18’000 mq di superficie industriale e commerciale erano sfitti. Per quasi un decennio il mercato stagnò. Malgrado il basso livello dei tassi ipotecari la domanda rimase a livelli modesti. Gli imprenditori dovevano eliminare le eccedenze prima di ampliare l’offerta. È solo a partire dal 2000 che la fiducia nel mattone torna a manifestarsi. Lo sfitto è stato riassorbito. Le banche propongono ipoteche fisse a condizioni sempre più interessanti. La clientela è accuratamente selezionata, per evitare i rischi del passato. Dal 2000 in poi, sia l’attività nel comparto residenziale sia l’acquisto di fondi immobiliari ha ripreso vigore. È solamente in questi ultimi anni che, dapprima il numero, poi anche il valore delle transazioni immobiliari ha iniziato nuovamente a diminuire. Nell’ultimo decennio la struttura del mercato immobiliare è mutata profondamente (vedi figura 2). L’importanza dei fondi non edificati, sempre più rari, è diminuita sensibilmente. È invece emersa una nuova realtà, molto presente nelle province italiane confinanti, ma che faticava finora ad attecchire in Ticino: l’interesse per il condominio. Il numero di proprietà per piani (PPP), dopo avere toccato le 2500 unità a metà degli anni 2000, si

Fonte: Statistica delle transazioni immobiliari e Statistica delle costruzioni, Ustat, sito Internet/Ustat, elaborazione EV

è stabilizzato attualmente attorno alle 2000 unità. Il loro valore rappresenta oramai il 50% di tutto il mercato immobiliare. Questa tendenza si contrappone a quella registrata nei decenni precedenti, caratterizzati da uno sviluppo dell’interesse per la casa monofamiliare. Per quanto riguarda in particolare il comparto abitativo, rispetto alla situazione degli anni 90, le condizioni sono sostanzialmente diverse. Stiamo vivendo un decennio con tassi di interesse ipotecari molto bassi. Contemporaneamente il rendimento dei depositi bancari è pure basso. L’investimento nel mattone acquista sempre più interesse e ciò spiega il forte aumento del numero di nuove abitazioni registrato negli ultimi quindici anni, tanto più che la crescita demografica è proseguita, in modo sostenuto, fino al 2016 permettendo di assorbire l’offerta di abitazioni. L’improvviso rovesciamento di tendenza demografica ha preso alla sprovvista un po’ tutti, in particolare gli impresari attivi nel comparto abitativo. Non è facile per un impresario anticipare i bisogni di nuove abitazioni, in particolare in un momento di cambiamento della struttura della domanda. Inoltre l’impatto di determinate realizzazioni, come l’AlpTransit compresa l’apertura del Ceneri, con ripercussioni sugli insediamenti nell’intero territorio, va previsto con largo anticipo. La realizzazione di nuovi quartieri implica tempi lunghi e, anche quando ci si rende conto che le aspettative non collimano con la realtà, i cantieri aperti non possono fermarsi. È quindi inevitabile che, in determinati momenti, domanda e offerta di abitazioni non coincidano e necessitino di un lasso di tempo di adattamento alla nuova situazione. Le esperienze precedenti ci hanno però mostrato che, anche in situazioni più complesse e delicate, l’edilizia abitativa sa reagire. Ha però bisogno di tempo. Una prima reazione si percepisce nel calo dell’offerta di abitazioni negli ultimi anni (figura 3). Anche guardando le autorizzazioni a costruire nuove abitazioni e le domande di costruzione di nuove abitazioni, si vede che il mercato sta reagendo di fronte all’aumento dello sfitto. È però probabile che se

le domande di costruzione di nuove abitazioni possono essere congelate, le autorizzazioni già concesse, probabilmente già in cantiere, aggraveranno ulteriormente lo sfitto. Malgrado la recente riduzione, sia pur modesta, dell’offerta di abitazioni, il numero degli alloggi vuoti e il relativo tasso (figura 3) ha continuato a salire negli ultimi anni3. Negli anni 70 la situazione era ben più grave. Il tasso di abitazioni vuote superava il 4,5%, mentre oggi è quasi di due punti percentuali inferiore (2,71%). Ciononostante, la situazione sembra destinata a peggiorare e già oggi la percentuale di sfitto è superiore a quella registrata durante la crisi degli anni 90. Come si vede bene nella figura 3, dopo qualche anno la tensione cala, il mercato reagisce e lo sfitto si riporta su valori normali, cioè quella percentuale di abitazioni vuote (attorno all’1%) necessaria al corretto funzionamento del mercato abitativo, evitando una pressione eccessiva sui prezzi. L’attuale situazione non è però di facile gestione, poiché stiamo assistendo contemporaneamente a cambiamenti importanti su vari fronti. Il calo demografico proseguirà, come prevedono gli scenari federali? Se sì, quale impatto avrà sul territorio, tenuto conto degli importanti investimenti che stanno facendo le principali Città per rendere attrattivo il loro territorio? Quale sarà l’impatto sul Cantone delle nuove trasversali alpine? Non va inoltre dimenticato che il calo demografico non ha un impatto analogo sull’intero territorio cantonale. Oltretutto, all’interno del cantone ci sono flussi migratori che favoriscono certe regioni a scapito di altre. È il caso del Luganese, che perde abitanti a favore del Bellinzonese, unica regione a non avere registrato un calo recente della popolazione. Ciononostante il Bellinzonese, sia come il distretto, sia come la città di Bellinzona, ha un tasso di sfitto superiore (figura 4). È possibile che le aspettative di sviluppo per questo territorio, legate ad AlpTransit, siano state eccessive? Solo il tempo ce lo dirà. Nella figura 4 abbiamo riportato il tasso di abitazioni vuote per alcune regioni geografiche significative. Come già riscontrato nella crisi degli anni 90, è il Mendrisiotto la regione con il tasso di abitazioni vuote


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Società e Territorio più alto. Numerosi comuni del distretto hanno dei tassi elevati, in primis Chiasso. Probabilmente il fatto di essere in prossimità della frontiera gioca un ruolo importante. Segue il Bellinzonese, con un tasso di sfitto superiore agli altri distretti, come pure alle altre agglomerazioni. La città di Bellinzona ha un tasso di sfitto del 3,6%, analogo a quello di Locarno, ma superiore a Lugano (3,2%).

Il tasso di sfitto varia sensibilmente a seconda dei distretti, a soffrirne di più sono Mendrisiotto e Luganese La scelta dei comuni è stata fatta in relazione ai tassi elevati di sfitto nel distretto in questione. Il grafico ci mostra come lo sfitto caratterizzi un po’ tutti i comuni del Mendrisiotto. Nel distretto di Lugano, malgrado complessivamente lo sfitto sia relativamente contenuto, numerosi comuni registrano percentuali elevate, in zone ben distinte (Collina D’Oro). La situazione dei distretti di Locarno e Bellinzona è invece relativamente omogenea. Non troviamo comuni con uno sfitto elevato. Mentre nel distretto di Leventina, Bodio registra un tasso elevato (6,7%). Per chi conosce le specifiche realtà menzionate, converrà che le cause non sono uniformi. Al calo demografico si sovrappongono situazioni specifiche, da approfondire singolarmente. L’analisi sul lungo periodo ci ha mostrato che, malgrado le situazioni difficili nelle quali si è trovato il mercato immobiliare del comparto abitativo, questo è sempre riuscito a risollevarsi e a rispondere adeguatamente alle esigenze. L’attuale situazione è particolarmente complessa, poiché interagi-

scono contemporaneamente numerosi fattori. Il calo demografico ne è uno, ma anche le migrazioni interne al cantone vanno tenute in considerazione. Vi è poi l’impatto di AlpTransit, tutto ancora da valutare, al quale si aggiungono i grossi progetti delle città tuttora allo studio e che mirano alla cosiddetta Città Ticino, tenendo conto del già attuale sovradimensionamento cantonale delle riserve di zone edificabili, in contrasto con le direttive federali, come ben spiegato da Fabio Giacomazzi in un recente articolo su «Azione»4 . A tutto questo, si aggiunge l’incertezza legata alla pandemia in corso, che potrebbe modificare profondamente i comportamenti individuali e le esigenze di spazio futuri, sia a carattere abitativo che lavorativo. Le sfide non mancano, ne siamo consapevoli. È già qualcosa. Note

1. Elio Venturelli, Il mercato immobiliare ticinese, «Tutto Casa» N. 1, 2008. Elio Venturelli, Ancora basso lo sfitto: difficile trovare casa in Ticino, «Tutto Casa» N.3, 2008. 2. Si trattava di 3 decreti urgenti, della durata di 5 anni, che stabilivano rispettivamente il divieto temporaneo della vendita di fondi non agricoli prima di 5 anni dall’acquisizione, il limite d’aggravio ipotecario (80%) e delle prescrizioni in materia di investimento degli istituti di previdenza, stabilendo al 30% il limite del patrimonio complessivo da investire in fondi in Svizzera. 3. Vedi anche l’articolo di Lorenzo Cedro, Analisi dei dati sugli alloggi vuoti e sull’occupazione delle abitazioni in Ticino, in «Dati Statistiche e Società» N. 02, Ottobre 2016, Ustat. 4. Fabio Giacomazzi, Nuovi scenari per la pianificazione, in «Azione» del 1. febbraio 2020.

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Società e Territorio Rubriche

L’altropologo di Cesare Poppi Lo squalo dal volto umano Il vostro altropologo preferito aveva ripromesso a se stesso di non tornarci sopra mai più in quanto argomento stomachevole e ormai trito – e per giunta deprimente per chi abbia anche solo un granello di fiducia residua nelle capacità raziocinanti del genere Sapiens. E invece no: obtorto collo gli tocca tornare sul tema degli squali. E dico «gli tocca» perché stavolta il coacervo di paure selacimorfiche (essendo tutti gli squali selacimorfi) costruito ad arte dall’industria culturale mediatica, di sentimentalismo regressivo e di angosce pandemiche sintetizzate nella voce «squalo» dall’industria culturale mediatica è un vero capolavoro. Pare che la notizia sia stata sparata nel Vecchio Continente da quel gioiello di diseducazione giornalistica che è «The Sun», tabloid inglese da tenere lontano dai bambini. Si tratta – tanto per intenderci – dello stesso che nel 1982, in piena guerra delle Falklands,

quando un siluro di Sua Maestà affondò quella vecchia innocua carretta che era l’incrociatore Belgrano annegando settecento cadetti della marina argentina, titolò in prima pagina «Up yours, Galtieri!». Intraducibile poiché universale. Questa volta il titolo è: «Cucciolo di Squalo Mutante dal Volto Umano». La notizia: un pescatore thailandese ha pescato una squalessa (si dice così?), l’ha sventrata e dentro ci ha trovato un cucciolo dal Volto Umano – ovvero un futuro Squalo Mutante. Invito i lettori a farsi un giro sul web solo per rendersi conto del fall-out mediatico che ne è venuto fuori. Video, foto, articoli, dibattiti, forum, pronunciamientos di scienziati, opinionisti, padri spirituali (no: altropologi NO – e mi piace pensare che sia così perché di noi hanno paura – quella vera – e non perché non contiamo niente): aspettiamo solo un’enciclica papale.

Qualcuno si è spinto anche oltre e ha rincarato la dose mettendo nel mixer altri ingredienti-esca per il grande pubblico. Così almeno due autorevoli (?) giornali italiani – che non nomino per vergogna di Patria – hanno ritenuto bene di specificare che il «volto umano» in questione è quello di un Puffo (sic!). Il circo mediatico in questione era stato peraltro preparato da un primo tentativo di sfondamento del fronte della diffusione virale che annunciava il ritrovamento nei mari di uno «squalo mutante a due teste». Trattavasi nella fattispecie di un mostriciattolo poco più grande di una mano – ovviamente appena partorito e destinato a vita ahinoi breve – che ovviamente non ha sfondato la soglia critica ed è sparito nel mare magnum di notizie selacimorfiche – o meglio: selacimorbose – che impesta la rete un giorno sì e l’altro pure. Vi invito a controllare: «Squalo enorme si avvici-

na ad una barca nel Salento: pescatore spaventato» (si trattava di un squalo elefante, meno pericoloso di una pulce). «Pesca con la canna dal molo uno squalo» (trattavasi di un gattuccio, che pesa – appunto – quanto un gatto), «Consigli per difendersi dallo squalo Tigre» (corso di addestramento che tutti dovrebbero frequentare prima di entrare nella vasca da bagno) e avanti di questo passo. Al di là del fatto che siamo tornati – nell’epoca del rispetto thunberghiano del Mare e dell’Ambiente ad una sorta di Medioevo Zoologico popolato di chimere, sirene, mostri ed ibridi di ogni sorta, tre elementi del caso in questione devono farci riflettere. Il primo è il riacutizzarsi – già segnalato in questa Rubrica – di un cultura delle paure dovute a cause vuoi inesistenti vuoi irrilevanti. In secondo luogo – nella specifica temperie pandemica – quelli che fino all’altro giorno sarebbe-

ro stati trattati come sfortunati casi di malformazione sono ora «mutazioni» di una Natura impazzita destinati a crescere e moltiplicarsi: il CD19 viene dai pipistrelli? Attenti al Ritorno degli Pterodattili Giganti. A fare da collante a questo cocktail impazzito il terzo elemento: i «cuccioli». Cifra ahimè di una cultura industriale tarda e regressiva che proietta – vero e proprio transfert – sul «cucciolo» fragile, innocente ed indifeso la condizione di un’umanità in piena fase di infantilizzazione. La stessa che ha bisogno del Governo per farsi imporre (e sancire) quando bisogna star chiusi in casa e quando bisogna andare a letto – per poi disubbidire alla Mamma. Per sollevare un po’ il morale invito a cercare in web «Il Giorno dei Morti: usanze, tradizione, folclore nel Sud Italia»: lì troverete la risposta a chi sia – veramente – lo Squalo Mutante dal Volto Umano. Parola di Altropologo.

di medici e infermieri, che rischiano la vita pur di salvare i loro pazienti, non possiamo considerarci «disperati». La gratitudine che dobbiamo provare nei loro confronti è il miglior antidoto contro la paura. La capacità di dire «grazie» esercita una funzione positiva non solo nell’individuo ma nell’intera comunità. Ricordati che fai parte delle persone che «hanno la fortuna di invecchiare» avendo accanto a te, per giunta, quelli che ami. Sei stata colpita da una sindrome depressiva, è vero, ma se ti rivolgi a un medico competente, saprà curarti nel modo migliore. Tuttavia i farmaci da soli non bastano senza un lavoro interiore. Sta a te recuperare stabilmente l’equilibrio turbato, la capacità di amare e la voglia di vivere. Probabilmente in questo momento la tua mente è dominata da un’istanza morale troppo esigente. Il Super-io, erede delle pretese dei genitori, ti colpevolizza per essere inattiva, per non dare alla società il contributo precedente, per non saper amare. Ma prima di ama-

re gli altri dobbiamo amare noi stessi, appagare un amor proprio che non è narcisismo ma senso di appropriatezza e fiducia nelle nostre capacità. È giunto il momento, dopo un’esistenza dedicata agli altri, di volerti bene, di riconoscere i tuoi meriti, di gratificarti realizzando qualche desiderio accantonato. Invece continua a perseguitarti la possibile morte dei tuoi cari. Una minaccia che incombe sulla nostra vita sin dall’infanzia, ma che l’emergenza ha acutizzato. La paura è diventata la passione prevalente. La stanchezza indotta dal protrarsi della pandemia e le contraddittore prescrizioni del lockdown hanno messo a nudo tutte le nostre fragilità. Ma sentirsi vulnerabili può costituire un’opportunità per infrangere la corazza dell’individualismo e incrementare l’empatia, il sentimento che induce a prendersi cura degli altri, ad essere uniti e solidali. Anch’io, dopo la morte di mio marito, ho provato un senso di precarietà e di

solitudine, ma ho trovato nei figli, negli amici e nei conoscenti una disponibilità inaspettata. Bastano piccoli gesti per confortarci, come quello di questa mattina quando la mia vicina di casa mi ha portato due viole appena colte, incollate su un bigliettino con queste parole: appena sbocciate… Quel piccolo dono ha acceso la fiducia nell’oggi e la speranza nel domani come solo la Primavera sa fare. Credo, cara Gabriella, che tu possieda un patrimonio di sensibilità, di cultura e di affetti che ti permetteranno di uscire dal cono d’ombra che t’opprime. Apri la mente e il cuore allo scambio reciproco, a quel dare e ricevere che non garantisce ma propizia la felicità.

Comunque, anche questo spettacolo, visto da pochi (a Milano su 685 sfilate, soltanto 2 «live») ha trovato ampio spazio sulle pagine dei quotidiani, in particolare italiani. Le sfilate fanno sempre notizia, almeno sul piano visivo. Infatti, le immagini parlano da sole. E, per lo più, sconcertano. Propongono figure di donne, e negli ultimi anni anche di maschi, in tenute grottesche. Fogge, colori, accostamenti da costumi di carnevale, piuttosto che capi funzionali, ispirati alle necessità quotidiane e al buon gusto, che è mutevole, ma esprime pur sempre un’esigenza estetica, qualcosa che dovrebbe migliorare il nostro aspetto. Ora, nei confronti di queste esibizioni estemporanee, i competenti, in particolare le inviate delle testate che contano, evitano di affacciare critiche. È una forma di consenso che ha aperto interrogativi imbarazzanti. Secondo un’indagine, condotta recentemente dal «New York Times», e ripresa in Italia da «Il Foglio», dietro questo compiacente silenzio, c’è un folto sottobosco di

favori che i produttori di moda assicurano alle croniste, in forme diverse. Si va dalla borsa di pelle pregiata, dall’abito firmato al volo in prima classe e relativo soggiorno in un «5 stelle», per assistere a sfilate in ogni parte del mondo, e si arriva a regali molto più consistenti, un appartamento a Manhattan o un villino in campagna. Si tratta della denuncia, per altro giustificata, di un malcostume che forse ha ramificazioni anche nostrane. Tenersi buono un direttore di giornale o di Tv o una redattrice può servire. E, sino a una certo punto, rispetta le regole del gioco. Lilly Gruber conduce con grande professionalità «8 ½», indossando ogni sera una giacca diversa, firmata Armani. Nulla da ridire, la cosa è nota. Con ciò, la moda continua a essere un ambito, bersaglio di condanne morali, di tipo diverso. Quella tradizionale, di matrice religiosa, rivolta soprattutto alla donna, facile vittima di futilità e vanità. E quella più recente, di tipo consumistico-ambientale: armadi troppo

pieni di capi superflui, comprati alla rinfusa. Un culto dell’abito che, secondo gli psicologi, contribuisce al culto di sé, esasperando l’egocentrismo. Al di là di queste condanne, del resto tutt’altro che nuove, si trascura l’effetto consolatorio dell’acquisto di un prodotto, in apparenza irragionevole. Si tratta di un aspetto emerso durante il lockdown. La chiusura dei negozi, le vetrine nascoste dalle saracinesche, la soppressione dei momenti d’incontro, al ristorante, a teatro, ai concerti, sugli spalti degli stadi, in viaggio, hanno conseguentemente cancellato il bisogno di adattare il guardaroba a bisogni differenziati. Privandoci di una sensazione primaria: trovarsi a proprio agio, secondo le stagioni, le situazioni e le esigenze della propria mobilità fisica. Proprio in questa direzione si è mossa la moda, negli ultimi anni, sviluppando i cosiddetti tessuti «smart», cioè intelligenti, in grado di proteggere dal caldo, dal freddo, dal sudore. Al nostro servizio, e non viceversa.

La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi Ritrovare la fiducia nell’oggi Cara Silvia, alla soglia dei 70 anni mi sento persa e inutile. Ho insegnato una vita e ora senza lavoro non ho più scopo. Pur avendo un marito e una figlia ben sposata sono terrorizzata dal futuro, ho paura di perdere i miei cari, vivo in uno stato di perenne angoscia. Non ho però paura di morire. Alla sera quando vado a letto prego per non svegliarmi più. Non ho più stimoli, desideri ma paura di tutto. È normale? Forse è colpa della pandemia? Aiutami, ti prego, con le tue sagge parole. Con affetto. / Gabriella Cara Gabriella, la vita narrata, quella cui affidiamo la nostra identità, a ogni svolta ci pone di fronte una pagina bianca esortandoci a scrivere un nuovo capitolo della nostra storia. Non è mai facile ricominciare, tanto meno quando non si è più giovani e molte possibilità sono ormai scadute. Tuttavia non si tratta di una disgrazia ma di una sfida, e come tale bisogna

affrontarla. Com’è possibile che ti senta una persona «persa e inutile» quando hai esercitato per quarant’anni una delle professioni più importanti del mondo? Pensa quanti, ragazze e ragazzi, hai aiutato a crescere, a scoprire le loro risorse, a diventare se stessi. Il passato è un patrimonio che non scompare perché fa di noi quelli che siamo e, nel tuo caso, una bella persona. L’insegnamento, lo riconosco, impegna tanto ma offre anche una ragione per vivere. Potresti proseguirlo, come molte mie amiche, offrendo una quota del tuo tempo a corsi di recupero per gli alunni più svantaggiati o per gli immigrati, soprattutto donne, che ancora non parlano bene l’italiano. Certo, di questi tempi, il futuro non ci sorride ma da qui a essere «terrorizzati» ce ne vuole! Il Covid-19 è un nemico subdolo e dilagante ma, a differenza delle pandemie storiche, siamo in grado di contrastarlo con una serie di vaccini prodotti in tempi record. Dinanzi alla generosità

Informazioni

Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch

Mode e modi di Luciana Caglio La moda: vecchi vizi e nuove virtù Milano non molla. Confermando una tradizionale efficienza di stampo lombardo, abbinata ad ambizioni internazionali, ha ospitato la «Fashion Week», anche alla fine di quest’insolito febbraio. E, per forza di cose, adeguandosi alle circostanze. Proprio una manifestazione che aveva portato nelle strade la moda, con i suoi protagonisti,

ha dovuto rinunciare al suo obiettivo: trasformare un appuntamento economico settoriale in incontro aperto al pubblico, una sorta di kermesse metropolitana, per tutti. Non però al riparo da qualche incidente. Capitava, infatti, che modelle, fotografi, invitati vip venissero accolti dai fischi dei contestatori di turno. Rischio, adesso, tristemente impossibile. Quell’incontro popolar-mondano, affollato e rumoroso, sopravvive in versione virtuale, termine con cui si definisce un’opportunità tecnologica che rimane un ripiego. Se ne sono resi conto gli addetti ai lavori, in primis giornalisti e giornaliste, privati del contatto diretto con la realtà: abiti indossati da modelle in carne e ossa che sfilano davanti osservatori e giudici in carne ossa, in un’atmosfera pervasa da umori e malumori veri. Tutto ciò sostituito dalle immagini di uno spettacolo digitale da osservare e valutare in solitudine, senza il supporto di scambi d’opinione, di applausi o di aperte condanne.


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Ambiente e Benessere Contagi senza confini Neppure le comunità nel folto della foresta amazzonica sono al sicuro dalla pandemia

Alexandra David-Néel La vita straordinaria di una viaggiatrice che non si è fatta mancare nessuna esperienza, dalle fughe di casa al buddismo

La terrazza sul Verbano Una passeggiata verso Cardada ricordando i tempi in cui per sciare bastava poco

Pane all’aglio orsino Ideale per un picnic: a base di pasta per pizza, è condito con erbe, pinoli e formaggio pagina 18

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La miopia e le sue «sfumature»

Salute Importanza di ambiente e stile di vita

per rallentare il calo dell’acuità visiva

Maria Grazia Buletti La pandemia ci costringe a stare più tempo in casa e passiamo parecchie ore davanti allo schermo del computer o con il telefonino che usiamo di più e per più tempo, a prescindere dall’età. L’impossibilità di relazionarci di persona ha rapidamente accelerato e sdoganato l’utilizzo delle tecnologie che sopperiscono in parte alla vita sociale, ci permettono di lavorare e comunicare. C’è un rovescio della medaglia: troppo tempo al chiuso, usando molto ogni sorta di tecnologia, rischia di dare una spinta all’insorgere della miopia che da anni sta già comunque aumentando anche fra i più giovani. «Oltre alle possibili e note cause genetiche, la sua diffusione è pure riconducibile a fattori ambientali: stare tanto al chiuso, senza orizzonti visivi e soprattutto senza luce naturale, compromette purtroppo anche la vista dei più piccoli», conferma il primario di oftalmologia dell’Ospedale Regionale di Lugano dottor Moreno Menghini il quale, pur riconoscendo che l’eziologia di questo disturbo non è ancora del tutto nota, ne ribadisce la responsabilità dei fattori ambientali (lavoro al computer, smartphone e altro), della mancanza di luce naturale e di alcuni fattori genetici predisponenti allo sviluppo della miopia. «Gli adolescenti sono coloro che oggi subirebbero un impatto più pesante: non possono andare a scuola, non possono camminare all’aria aperta per recarsi in ogni dove, devono stare troppo tempo in casa e sono tanto davanti al pc o usano troppo lo smartphone (per studio, per noia, per gioco, per comunicare). Questo potrebbe avere un impatto sull’aumento della miopia». Per gli adulti diminuisce il pericolo ma non le problematiche: «Vediamo più disturbi della superficie degli occhi che si presentano stanchi o più secchi; anche questo, nel tempo, può generare altri disturbi». A prescindere da questo periodo storico inusuale: «Ancora non si comprende del tutto perché si sviluppa la miopia, né per quale ragione la sua prevalenza è molto aumentata nelle generazioni di oggi. Ciò si osserva soprattutto nei paesi asiatici, ma pure in Europa». Ribadisce la chiara responsa-

bilità ambientale: «In Cina si è osservata la diminuzione della progressione della miopia in quei bambini che a scuola possono beneficiare di mezz’ora quotidiana all’aria aperta: stare fuori aiuta a prevenirne lo sviluppo perché è la luce a fare la differenza. Ad esempio, la prevalenza di miopia è più bassa in Australia dove c’è più luce naturale e vige una cultura di vita all’aria aperta». L’oftalmologo distingue fra miopia patologica e miopia cosiddetta scolastica: «La prima è tipicamente definita dal deficit visivo di oltre 6 diottrie fino a 20-25. Quella scolastica si situa con una mancanza tipica di poche diottrie che possono raggiungere un massimo di 4-6». Nello specifico: «La miopia patologica può creare problemi già da piccoli o a partire dall’adolescenza, come una maculopatia (malattia che colpisce la macula, area al centro della retina nella parte posteriore del bulbo oculare preposta alla visione nitida e dettagliata) ad essa correlata che aumenta significativamente il rischio di abbassamento della vista oltre le 6 diottrie». La differenza della miopia scolastica sta nel fatto che «queste persone presentano un errore rifrattivo che si può correggere con occhiali o lenti a contatto, ma il loro occhio è di per sé sano e, di norma, non dovrebbe sviluppare patologie nel tempo, non essendoci cambiamenti a livello di macula». Ne consegue però una riflessione sull’incremento della percentuale di miopia nella popolazione: «Si comincia a temere che questo aumento di miopia scolastica, già a partire dalla giovane età, in futuro potrebbe comportare un aumento percentuale anche di quella patologica». La prevenzione rimane il fulcro della possibile soluzione, a partire da un impegno interdisciplinare tra oftalmologi, famiglia, maestri e pediatri: «Si può agire a livello educativo, famigliare e scolastico, con l’insegnamento di un sano stile di vita che contempla lo stare maggiormente all’aperto. Parallelamente, a livello pediatrico-oftalmico si possono monitorare nel tempo i bambini più a rischio, col risultato di riuscire a contenere la crescita esponenziale di miopia che stiamo vivendo, mentre il monitoraggio ci permetterebbe di intervenire nel momento più opportuno». A questo proposito, spicca la novità

Il primario di oftalmologia dell’Ospedale Regionale di Lugano dottor Moreno Menghini. (Stefano Spinelli)

delle lenti ad alta tecnologia D.I.M.S. il cui beneficio è evidenziato da uno studio condotto su 160 bambini seguiti per due anni, e pubblicato sul «British Journal of Ophtalmology». Ripreso anche da esperti italiani (sulla base dei dati di efficacia fatti registrare anche da un analogo studio di Hong Kong), lo studio dimostra che le lenti con questa innovativa tecnologia rallentano lo sviluppo della miopia e inibiscono l’allungamento del bulbo oculare, «ingannando» il cervello rispetto al progredire del disturbo stesso. Secondo il nostro interlocutore: «La tecnologia D.I.M.S. è interessante e potrebbe aiutare a diminuire la progressione della miopia nei bambini o negli adolescenti; però bisogna altresì valutare la situazione individuale al di fuori dell’ambito di uno

studio scientifico, ricordandoci di paragonare ciascun caso per rapporto, ad esempio, all’uso alternativo delle gocce di atropina». Le gocce di atropina somministrate a bambini e adolescenti «dilatano la pupilla bloccando la possibilità di accomodare, con l’occhio che resta in un de-focus». È lo stesso principio delle lenti summenzionate, ma è una terapia molto più facile da attuare alle nostre latitudini: «Fatico a immaginare bambini in età scolastica, nella nostra cultura molto diversa da quella asiatica, che abbiano voglia di portare quelle lenti così impegnative che disturbano esteticamente, sono d’ostacolo nella pratica dello sport e impacciano nel gioco e nel movimento necessari alla crescita». Il dottor Menghini esprime un au-

spicio: «Realizzare la crescita del nostro servizio di Oftalmologia ORL che – in collaborazione con il servizio pediatrico, i responsabili educativi e i genitori – potrebbe dapprima valutare e poi prendere a carico questi ragazzi nell’ottica di un’auspicabile terapia di atropina». Un accenno, infine, all’adulto per il quale sono consoni, secondo il caso, la chirurgia rifrattiva («valida e adeguata alternativa alle lenti a contatto o agli occhiali»), l’intervento di cataratta e altre tecniche specifiche e personalizzate. Infine, il dottor Moreno Menghini condivide un’importante riflessione: «Quando l’occhio è sano, anche se miope, bisogna sempre soppesare molto bene la necessità o meno di intervenire per una correzione chirurgica della vista».


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Le voci della foresta

Covid-19 La pandemia purtroppo ha raggiunto anche le aree apparentemente più lontane o remote del pianeta

Amanda Ronzoni, testo e foto Nell’Amazzonia peruviana, lungo il fiume Yavarí (in spagnolo, in portoghese è Javari), mentre la nostra canoa scivola sulle acque ingrossate tipiche di febbraio, il rumore ritmico del motore, peque-peque – da cui prende il nome l’imbarcazione stessa – copre solo in parte la voce della foresta che attraversiamo. Ci muoviamo sotto un cielo gonfio, un po’ ostile, che a intervalli regolari ci scarica addosso il suo umore nero. Io e i miei compagni di viaggio avvolti in poncho e kway; la nostra guida, il pilota e la moglie (al sesto mese di gravidanza) magliettina e pantaloncini, incuranti della pioggia. Il nostro viaggio risale all’anno scorso. Siamo arrivati qui, al confine tra Perù e Brasile, in un piccolo avamposto militare, dopo aver lasciato Iquitos con un idrovolante, approntato da un giorno all’altro, perché gli aerei normalmente in uso non possono decollare a causa delle piste allagate. Abbiamo perso un giorno e siamo in ritardo sulla nostra tabella di marcia. Dobbiamo riadattare l’intero viaggio di conseguenza. Facciamo le ultime compere: acqua, riso e varie vettovaglie (poco). Riusciamo a ripartire solo a pomeriggio inoltrato. Incrociamo qualche piccola imbarcazione come la nostra e un paio di delfini si fanno immaginare sotto il pelo dell’acqua, scura, limacciosa, piena di tronchi che galleggiano, pericolosi, affiorando appena. In alcuni punti il nostro pilota decide di risparmiare qualche chilometro di navigazione e preziosi litri di benzina, tagliando alcune anse del fiume. Spegne il motore e passa ai remi. Si infila nell’intrico degli alberi, come seguendo una scorciatoia visibile solo a lui, tra piante poderose, liane pendenti e mille occhi che ci osservano nella vegetazione. Improvvisamente, morto il rumore del motore, la natura intorno torna ad alzare il volume. Una sorta di bolero, un crescendo. Richiami, grida, canti. Sono le innumerevoli specie di uccelli, insetti, anfibi, scimmie, roditori che noi non vediamo, ma che si nascondono tutt’intorno a noi. Arriviamo presso uno dei villaggi lungo il fiume, alle 2 di notte, creando un comprensibile scompiglio tra i cani che sono abituati a reagire a movimenti ben più sinuosi, silenziosi e letali delle bestie che abitano la foresta. Il capo villaggio, Carlos, non si scompone e ci offre per dormire il riparo nella loro maloca, ampio edificio un tempo utilizzato come abitazione comune. I cani, appurato che non siamo un pericolo tornano a dormire, noi appendiamo le nostre amache per svegliarci con il sole il mattino seguente. Sembra di essere lontani anni luce dal nostro mondo, da quello che cataloghiamo come quotidiano e usuale. I ritmi sono quelli dettati dalla luce del sole. Ci si lava o nel fiume, o sotto la pioggia, che in questa stagione, per temperatura e quantità, non ha nulla da invidiare alle docce più moderne. La toilette è un piccolo buco nel terreno sotto un riparo defilato lontano dalle capanne, o in alternativa open air ai margini della selva. Mangiamo quel che c’è: fondamentalmente yucca, platano e riso, accompagnati da ciò che di giorno in giorno arrivano dalla foresta e dal fiume. Solo il necessario. Del resto, il frigorifero non fa parte dell’arredo locale. Si caccia, si pesca e si consuma senza buttar via nulla.

Nel quartiere di Belem a Iquitos, si sensibilizza la gente su temi importanti come salute, alimentazione, educazione e ambiente con «murales» dipinti per terra. (Su www.azione.ch si trova una galleria fotografica più ampia)

Ci portano a visitare «l’orto» del villaggio, una specie di zona cuscinetto che separa le case dalla foresta. Qui le piante sono più basse, rade, il terreno ripulito da altri vegetali. I cani fungono da guardiani e da spazzini. Gli anziani sono una sorta di enciclopedia vivente che raccoglie informazioni inestimabili sulle proprietà curative di piante e animali. Un patrimonio immenso e fragile che si tramanda di generazione in generazione, oggi minacciato dall’esodo dei giovani verso le città, in fuga da un ambiente che si sta deteriorando a causa di incendi indotti, disboscamento selvaggio, inquinamento delle faglie acquifere causato da cercatori d’oro e di petrolio. I bambini girano con i piccoli di scimmia o di bradipo, spesso rimasti orfani durante le battute di caccia. La scuola è ufficialmente nella capanna centrale che ha diverse funzioni: centro culturale, municipio, luogo di culto, balera serale. È però nella selva che si passa dalla teoria alla pratica, confron-

tandosi con gli animali, in carne, ossa, piume e squame, quelli utili, quelli pericolosi, quelli da non toccare mai. All’inizio della pandemia si pensava (o, almeno, io lo speravo tanto) che queste comunità potessero in qualche modo restare al riparo dal contagio,

ma le notizie che abbiamo purtroppo non sono affatto buone. Tra le voci più autorevoli che si sono levate in difesa dell’Amazzonia c’è quella del fotografo Sebastião Salgado e con lui tantissime comunità di attivisti per i diritti delle popolazioni indigene, una su tutte la campagna degli Yanomami #ForaGarimpoForaCovid, per chiedere ai governi di mettere un freno alle scorrerie dei cercatori d’oro, che sono un ulteriore veicolo della pandemia nelle regioni più remote dell’Amazzonia. Nell’etere, da Nauta, a un centinaio di chilometri da Iquitos, le popolazioni locali lanciano i loro allarmi, ma anche messaggi di speranza e voglia di riscatto grazie a Radio Ucamara (https://radio-ucamara.blogspot. com) e al suo direttore Leonardo Tello Imaina. Le loro voci arrivano nei villaggi come quello di Carlos grazie a un piccolo generatore che tiene in vita una vecchia radio, fondamentale per comunicare tra villaggi e con il mondo dall’altra parte della foresta. Un mon-

do che mi sembrava così remoto, nel bene e nel male, nonostante la presenza quasi stridente nel folto della foresta, sul tetto di molte capanne, di pannelli solari per alimentare tv e telefonini. Nel nostro immaginario questi simboli del progresso del mondo cosiddetto avanzato sembrano fuori posto, come se chi abita nel folto della foresta dovesse vivere in una dimensione senza tempo, cristallizzata, in costume adamitico, come se l’umanità non si fosse sempre spostata, non cambiasse giorno dopo giorno, come se non vivesse di scambi e contaminazioni. Ecco, l’altro giorno, quando con mia enorme sorpresa, e gioia, e sollievo, sul mio smartphone è arrivato un messaggio WhatsApp da Carlos, con alcune foto di lui e del suo villaggio, per chiedermi come stavo e farmi sapere che lui e la sua famiglia per il momento sono al sicuro, i 9795 km che ci separano sono spariti e quel mondo che mi sembrava così lontano è diventato incredibilmente vicino.


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Ambiente e Benessere

Una lampada di saggezza che brilla nella storia

Nomadi digitali

Bussole Inviti a

letture per viaggiare

Viaggiatori d’Occidente La vita straordinaria di un’esploratrice del mondo

di fine Ottocento: Alexandra David-Néel

«Avete mai sognato di lasciarvi alle spalle la vita stanziale per cominciarne una on the road, con l’ufficio in un computer portatile e facendo di ogni tappa la vostra casa? Avete mai immaginato di inviare fatture dalla spiaggia, scrivere relazioni da Rio o confrontarvi con i clienti da un bar all’aperto nella piazzetta di un villaggio? Se è così, siete già sulla buona strada per diventare nomadi digitali…».

Claudio Visentin Leggendo l’ultimo, coloratissimo libro di Attilio Brilli (Il grande racconto del favoloso Oriente, Il Mulino) ho ripercorso le diverse forme della lunga fascinazione per una cultura tanto diversa dalla nostra. Le figure più diverse − studiosi, scrittori, artisti, viaggiatori, sino agli hippie degli anni Sessanta – hanno sentito l’irresistibile richiamo dell’Oriente. In questo percorso, pur costellato di personalità d’eccezione, spicca la figura di Alexandra David-Néel. La sua esistenza ricorda a ciascuno di noi tutto quello che sarebbe possibile fare in una vita e quasi mai si fa. Certo le fu d’aiuto una straordinaria longevità − nata al tempo di Bismarck morì quando Jimi Hendrix suonava a Woodstock − ma il conto degli anni da solo non basta a spiegare tanta energia. A settant’anni Alexandra stava ancora esplorando aree remote, a cento rinnovò il passaporto «perché non si sa mai». Fu anarchica, cantante d’opera, studiosa del buddismo, monaca, scrittrice e soprattutto una straordinaria viaggiatrice. Da ragazzina, a Bruxelles, Alexandra era l’incubo di una madre cattolica che tentava invano di educarla secondo i canoni del secolo. Il solo risultato furono diversi tentativi di fuga; uno a diciassette anni si concluse dalle nostre parti quando, finiti i soldi, mandò un telegramma per farsi venire a prendere. Nel 1886 a diciott’anni si prepara per lei l’ingresso in società. Ma Alexandra non è interessata ad abiti, gioielli e divertimenti; preferisce attraversare in diagonale Francia e Spagna con una delle prime biciclette, mentre tutti discutevano se le donne avrebbero mai potuto usare tale mezzo (no, era la risposta più frequente). Poi studia il canto e intorno ai trent’anni diventa un soprano di successo. Tra il 1895 e il 1897, col nome d’arte di Alexandra Myrial, è la prima donna dell’Opera di Hanoi, nell’Indocina francese: interpreta Violetta nella Traviata di Verdi e canta la Carmen di Bizet. Nel 1904, durante un intermezzo

Alexandra DavidNéel davanti al Palazzo del Potala, Tibet, 1924. (Autore sconosciuto)

africano, sposa Philippe Néel, ingegnere capo delle ferrovie tunisine, salvo poi ripartire alla prima occasione senza mai mantenere ripetute promesse di ritorno. La svolta nella sua vita fu senza dubbio la conversione al buddismo. Alexandra era tra quanti volevano riformarlo e renderlo universale, riportandolo alla purezza dell’insegnamento originario e liberandolo dai lacci della superstizione; ma soprattutto lo fece conoscere in Occidente. Già nel 1890-91, grazie a una piccola eredità della nonna materna, viaggia a lungo in India e pratica la meditazione. Tra il 1911 e il 1925 vi ritorna per poi estendere il suo raggio d’azione a Nepal, Birmania, Giappone, Corea, Cina e Tibet. Nel 1912 incontra il tredicesimo Dalai Lama, già in esilio in India. Dal 1914 al 1916 pratica esercizi spirituali vivendo da eremita in una caverna nel Sikkim, sotto la guida di Lachen Gomchen Rinpoche. L’apprendistato è durissimo, ma le vale il nome buddista di Lampada di saggezza. In quegli anni conosce il monaco tibetano Aphur Yongden, appena quindicenne; in seguito lo adottò e sarà poi il suo inseparabile compagno di avventure per quarant’anni. Nel 1924, a 56 anni, Alexandra riesce finalmente a soddisfare il suo de-

siderio più profondo: raggiungere la capitale proibita del Tibet (il racconto in Viaggio di una parigina a Lhasa). Fu un viaggio interminabile e pericoloso, mai tentato prima da nessuna donna europea, attraverso la Cina sconvolta dalla guerra civile. Alexandra viaggiava con la sola compagnia di Yongden, travestita da anziana mendicante con trecce finte di pelo di yak, la pelle scurita dalla fuliggine. Niente bagagli o altre scorte, per non attirare l’attenzione. I due camminano fino a diciannove ore al giorno, aggirano i posti di blocco, dormono sempre all’aperto e sopravvivono al freddo grazie alla meditazione tummo. «Per giorni camminavamo nella semioscurità di fitte foreste vergini, poi, all’improvviso, una schiarita ci svelava paesaggi che non si vedono che in sogno. Picchi aguzzi, che puntavano alti nel cielo, torrenti ghiacciati, gigantesche cascate, le cui acque gelate appendevano scintillanti drappeggi alle creste delle rocce, tutto un mondo fantastico, di un candore accecante, sorgeva al di là della linea scura tracciata dai giganteschi abeti». Al ritorno Alexandra si separa da Philippe, pur restandone amica, e si trasferisce in Provenza, in una casa-monastero. Per diversi anni si dedica alla

scrittura e alla meditazione ma nel 1937, a sessantanove anni, è di nuovo in partenza per l’Asia: vuole studiare il Taoismo in Mongolia e Siberia. Viaggia sulla Transiberiana ma rimane coinvolta negli orrori della Seconda guerra sinogiapponese e sopravvive a stento. Solo nel 1946 riesce a tornare in Europa. Seguì ancora un ventennio di tranquillità, sino alla morte nel 1969. Le sue ceneri furono disperse nel Gange a Varanasi, insieme con quelle del figlio adottivo. Richiudendo il ricco volume di Attilio Brilli ho pensato quanto Alexandra David-Néel, nel perseguire ostinatamente la vita che desiderava, abbia segnato una via alle tante viaggiatrici dei giorni nostri. Dopo una lunga preparazione oggi le donne viaggiano più degli uomini, con maggiore profondità e convinzione, e hanno anche cominciato a mettere per iscritto le loro avventure, rompendo un secolare predominio maschile. In questo nostro tempo di rivendicazioni, polemiche, scontri verbali, l’anarchica Alexandra David-Néel propone un modello diverso, un coraggio non esibito ma vissuto: non serve discutere, basta andare, partire, ignorare i divieti o aggirarli. Semplicemente rendersi padrone della propria vita.

L’immagine abituale di un nomade digitale è quella di un ventenne perennemente in viaggio che di tanto in tanto scrive sul suo blog da una spiaggia ai tropici. E in effetti sino ad ora la nicchia dei nomadi digitali era composta in larga misura da giovani ancora sospesi tra gli studi e un lavoro stabile; una sorta di anno sabbatico insomma. Il futuro però potrebbe essere diverso. A causa dell’epidemia, il lavoro a distanza si è esteso a milioni di persone ed è diventato quasi la regola. Sollevati dall’obbligo di andare ogni giorno in ufficio, molti sono tornati nei luoghi d’origine o hanno comunque lasciato la città per immergersi nella natura. È una sorta di scuola per diventare nomadi digitali. Certo per ora viaggiare a lunga distanza è difficile se non impossibile, ma molti progettano di utilizzare la conquistata libertà dalla scrivania per viaggiare molto di più non appena sarà possibile, lavorando da remoto. In tale prospettiva questa guida fornisce molte indicazioni utili, un elenco di destinazioni alla moda e le storie di chi ce l’ha fatta per ispirarsi. Inoltre, risponde ad alcune delle domande più frequenti: Paura di non farcela? Preoccupati di tagliare i ponti? E se finiscono i soldi? E se non c’è abbastanza lavoro? Che fine fa la carriera? Quanto conta l’età? Ci si abitua alla solitudine? / CV Bibliografia

Nomadi digitali. Consigli pratici e idee per vivere e lavorare on the road, EDT, 2021, pagg. 184, € 18,–. Annuncio pubblicitario

Fare la cosa giusta

Quando la povertà mostra il suo volto Legga la storia di Sidra e della sua famiglia: caritas.ch/sidra-i

Sidra, 10 anni, dalla Siria, è nata quando nel suo Paese è scoppiata la guerra. Vuole diventare medico per alleviare le sofferenze degli altri.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 marzo 2021 • N. 10

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Da un balcone all’altro

Ambiente e Benessere

Passeggiate Dopo il Ghiridone, un’altra passeggiata vista lago a Cardada, con qualche nota storica

Romano Venziani, testo e immagini Non so voi, ma io avverto sempre un profondo senso di libertà nel camminare in montagna. Libertà della mente, soprattutto, che può dialogare con il ritmo lento dei passi e sbizzarrirsi nel disegnare intricati percorsi della fantasia. Basta un protendersi di rami contorti di betulla, che disegnano arabeschi sul bianco della neve, l’azzurro del cielo e il blu cupo del lago, a suscitare forti emozioni e a smuovere i pensieri. Sto salendo da Cardada verso Cimetta e, all’improvviso, inciampo in una frase di Jack London, scaturita chissà come da un lontano ripostiglio della memoria. «La natura ha molti stratagemmi per convincere il genere umano dei suoi limiti»1. Eh, sì. La natura nella sua struggente bellezza a volte può essere estremamente crudele e beffarda con noi esseri umani, che ci crogioliamo nelle nostre limpide certezze e nell’illusoria convinzione della nostra onnipotenza. Pretendiamo di poter dominare tutto e tutti e poi, da un momento all’altro, ci ritroviamo lì, sgomenti, messi in ginocchio da un essere microscopico che tiene in scacco il mondo intero. Se ragioniamo, ci rendiamo conto che la colpa è anche un po’, se non soprattutto, nostra, e magari ci promettiamo di cambiare rotta, di scegliere con spirito nuovo le priorità della vita, ma non illudiamoci. Una volta finito tutto, saremo sempre quelli di prima. La natura è anche beffarda. Prendiamo quest’ultimo anno disgraziato. Quando tutti erano più o meno tappati in casa a telelavorare, sfornare torte e biscottini o a riempire le giornate alla bell’e meglio, fuori la primavera aveva spalancato le sue porte splendenti di sole e profumate di fiori. Anche la Pasqua, spesso inclemente con i turisti in visita, è stata una Pasqua da cartolina. Poi, quando il nemico subdolo e invisibile ci aveva dato un po’ di tregua e si tornava a una vita (quasi) normale da giocarsi tutta all’aperto e in compagnia, si era messo a piovere a dirotto, come se il cielo fosse diventato un enorme ombrellone bucherellato, sgocciolante quantità inesauribili d’acqua da tutte le parti. Tanto che il mese di giugno 2020 finirà negli annali come uno dei più piovosi della storia. Qualche mese dopo, a inizio dicembre, quando un disorientato e titubante governo federale decreta finalmente un nuovo semi-lockdown di fronte alla seconda ondata pandemica, ecco la neve. Viene giù, bella e abbondante, ammanta il paesaggio con uno spesso strato soffice come panna, che in tempi normali sarebbe un toccasana per iniziare alla grande la stagione degli sport invernali, garanzia del tutto esaurito per il periodo natalizio. La neve. E pensare che gli inverni bianchi si erano fatti rari, negli ultimi anni. Come le mosche. Mi è capitata

Un balcone vista lago.

sotto gli occhi un’eloquente rappresentazione relativa all’altezza del manto nevoso invernale, rispetto alla media pluriennale2 . Tante piccole Svizzere messe in rango, dal 1971 al 2020, con le varie zone pitturate di rosso, quando l’innevamento è stato inferiore alla media, di giallo, quando è rimasto nella media, e di blu, quando l’ha superata. A prevalere sono le Svizzere rosse. Ce n’è qualcuna un po’ più gialla, certo, ma pochissime quelle tutte blu, che rimandano agli inverni 1977, 1986 e 1999, quest’ultima con solo una curiosa appendice colorata di rosso: il Ticino. Ed è questa ostinata preponderanza di rosso ad aver costretto Cardada, il 18 ottobre 2019, a rinunciare alla pratica dello sci. Con grande rincrescimento dei Locarnesi. La nostalgia traspare ancora, qua e là, nei discorsi o postata sui social. «È un colpo al cuore vederla così bianca e non poter più sciare», ha scritto qualcuno di recente. «Quanti ricordi…» hanno aggiunto altri, «se a tarda mattinata avevi voglia di fare qualche discesa, in quattro e quattr’otto andavi su». C’è anche chi tesse le lodi della «mitica pista arancione, senza paragoni in Ticino… sciavi e sembrava che ti tuffassi nel lago. Uno spettacolo unico al mondo…» Non so quale fosse, l’arancione. A dire il vero, della mia limitata esperienza sciistica a Cardada, mi torna in mente solo una fantozziana settimana bianca, sul finire degli anni Sessanta. Neve alta, polverosa, cadute rovinose da cui ti rimettevi in piedi solo con uno sforzo sovrumano, ammucchiate di gente caduta dallo sci-lift e grandi risate. Nonostante la mia viscerale idiosincrasia per le competizioni, di qualsiasi genere o ambito esse siano, avevo disputato anche una gara di slalom, che avevo concluso se ben ricordo tra gli ultimi, ma con piena soddisfazione di essere arrivato in fondo. Ora Cardada, come d’altronde il Tamaro già da qualche anno, ha puntato sulla differenziazione delle attività, con alternative estive e invernali. Con un certo successo. Me ne accorgo oggi, sgambando sulla neve ancora alta, ma che ormai il caldo degli ultimi giorni di febbraio sta velocemente squagliando. C’è tanta gente, arrivata a piedi, in funivia o in seggiovia, famiglie intere, con frotte di bambini allegri, che passeggiano sui sentieri tracciati, arrancano con le racchette o accarezzano i pendii, leggeri, sulle slitte. Ogni tanto sbuca dall’alto qualche irriducibile con gli sci, ma ormai quella è un’epoca conclusa. Ulisse Del Grande, l’artefice, il Deus ex machina dello sviluppo turistico di Cardada-Cimetta, agli inizi degli anni Novanta mi aveva confessato di essere orgoglioso di ciò che aveva cre-

Illustrazione della passeggiata verso Cardada.

ato, «non sapevo a che cosa andavo incontro, ma lo rifarei ancora. Certo, c’è voluto coraggio e anche un po’ d’incoscienza a mettere in piedi qui una stazione invernale – aveva aggiunto – un conto è costruirla a San Moritz o a Lenzerheide, ma a Locarno, ritenuta la città dal clima più mite della Svizzera…». Eppure aveva vinto la sfida. Un mese di febbraio di qualche anno dopo, ansimavo con le racchette sul gobbo imbiancato di Cimetta, immerso in un silenzio irreale rotto appena dallo scricchiolio dei passi sulla neve. I vecchi impianti di risalita erano stati dismessi e smontati, i tralicci della seggiovia se ne stavano lì, neri scheletri metallici, distesi sul pendio. Erano iniziati i lavori preliminari per il rilancio e la rimessa in gioco della stazione turistica locarnese, che prevedeva la nuova funivia Orselina-Cardada firmata Mario Botta e il rifacimento della seggiovia Colmanicchio-Cimetta. Con me altri due pionieri della storia turistico-sportiva di questo incantato balcone aperto sul lago: Charly Zenger, ideatore della Scuola di sci e Remo Pini, co-fondatore con Ulisse Del Grande dello Sci Club Solduno. Allora ottantatreenne, Remo, mente lucida e gamba buona, non ci aveva pensato due volte a inforcare le racchette e a seguirci nella scarpinata sulla neve. «Erano gli anni 1932-33 quando sono salito per la prima volta con gli sci dal piano» aveva raccontato, rompendo il silenzio. «C’era l’Ulisse e tre o quattro altri giovani… Arrivati a Cardada, i Locarnesi ci hanno guardato di traverso. Solduno era ancora un paese agricolo e operaio, eravamo diversi dai

Seggiovia in vetta, Colmanicchio Cimetta.

cittadini e c’era una certa rivalità con Locarno. Allora ci siamo detti, andiamo a Cimetta. Siamo saliti zigzagando con gli sci, senza pelli di foca, con un metro e mezzo di neve. Sembrava di essere a San Moritz, una distesa di potenziali piste, belle, lunghe e affacciate su un paesaggio affascinante. Sono sceso da lassù… qua sotto – e indicava sorridendo col braccio teso il riverbero del pendio che sprofondava nel lago – ho fai una toma, mi sono rialzato e ho continuato a sciare». Locarno aveva un suo Sci Club fin dal 1928, che si era insediato nella baita dell’alpe Cardada, dando avvio alla pratica di questo nuovo sport sulle «distese immacolate di neve, solcate appena dagli sci di tre o quattro giovani, che godevano l’ebbrezza dei campi abbaglianti», scriverà qualcuno in quegli anni. È invece il 1936, quando il drappello di giovani soldunesi fonda il suo sodalizio, suggellando con stemma e statuti l’identità di un gruppo già unito di fatto dalla grande passione per lo sci. «Quell’anno – aveva proseguito Remo – abbiamo costruito a Cimetta un rifugio in legno, quattro metri per quattro, per ripararci dal vento, e l’estate seguente l’abbiamo ampliato». Mi pare di vederli, i giovanotti, partiti da Solduno con un mulo, una carretta, lamiere, assi e tutto l’armamentario necessario. «Da Colmanicchio a qui abbiamo fatto una staffetta. Eravamo una quindicina e ognuno portava il carico per cinquanta, cento metri. In quel modo entro sera abbiamo trasportato tutto l’occorrente a Cimetta». La capanna, aveva spiegato Remo, poteva ospitare solo una decina di persone, ma traboccava di calore umano. «Si mangiava fuori e ci si divideva quello che ognuno aveva trovato e portato da casa». È nata così la fortuna di CardadaCimetta, grazie a un gruppo di giovani un po’ visionari, accomunati dalla passione per lo sci, da una profonda amicizia e un grande amore per questa montagna, che è lì fuori, sull’uscio di casa. Ma per il decollo vero e proprio bisognerà aspettare il dopoguerra. «Il motore del notevole sviluppo dello sci è stata l’organizzazione nel 1947-48, da parte della Federazione svizzera, dei corsi d’istruzione per giovani e monitori degli sci club», mi aveva spiegato allora Charly Zenger, mentre mangiavamo un boccone seduti sulla terrazza deserta del ristorante Cimet-

ta. «Andavamo a sciare ad Andermatt, a quei tempi il posto attrezzato più vicino. E lì c’è venuta l’idea di mettere in piedi un impianto di risalita anche qui». Durante l’estate portano su il motore di una vecchia Citroën e un cavo d’acciaio. Però mancano i «ganci», le cinghie di cuoio, che facevano le veci delle àncore odierne. «Così abbiamo deciso di andare ad Andermatt e fan balaa dü o trii – ricorda Charly ridacchiando – siamo tornati con tre ganci e abbiamo potuto mettere in funzione lo sci-lift. Poi, nel 1951, quel grande idealista di Ulisse Del Grande ha deciso di costruirne uno vero. Abbiamo portato il materiale a Brè con i camion, e da lì a spalle. Una spedizione memorabile è stato il trasporto del cavo d’acciaio, lungo 500 metri. Eravamo una sessantina di persone, ognuna con un rotolo di 3 metri. Abbiamo trasportato in quel modo anche i pali e così è nata la sciovia, la prima in assoluto al sud delle alpi». È l’inizio di una lunga storia, che, seppur con altre modalità, continua oggi ancora a perseguire gli stessi scopi. Non so se l’Ulisse, che ha dato, con la sua intuizione geniale, l’impulso per la nascita e lo sviluppo dell’attività di «scivolamento sulla neve» di CardadaCimetta, avrebbe visto di buon occhio l’abbandono della pratica dello sci, ma tant’è. I tempi cambiano, così come cambia il clima, le aspettative economiche e le prospettive turistiche a breve e lunga scadenza. Intanto, vedo che la terrazza del ristorante-capanna Cimetta, nonostante le restrizioni pandemiche, è piuttosto affollata di chi ha cercato un posto all’asciutto per sedersi e sgranchirsi le gambe, perciò la evito e mi apparto a sgranocchiare un panino in mezzo alla neve ai bordi di questo balcone naturale vista lago. Me ne sto lì per un po’ a godermi il sole e ad assaporare quel panorama straordinario. Poi mi rimetto in cammino e scendo lungo la vecchia pista blu di Vegnasca, imbocco il sentiero nel bosco, che mi riporta a Cardada-Colmanicchio, e da lì, su un sentiero fattosi avaro di neve, tolte le racchette, mi avvio verso Brè. Note

1. Jack London, Il figlio del lupo, 1a edizione LandscapeBooks, ottobre 2015, pag. 212. 2. https://www.slf.ch/it/neve/neve-ecambiamenti-climatici.html


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Ambiente e Benessere Migusto La ricetta della settimana

Uno spezzatino Pane alle erbe aromatiche d’agnello speciale Piatto principale Brunch

migusto.migros.ch/it/ricette Per diventare membro di Migusto non ci sono tasse d’iscrizione. Chiunque può farne parte, a condizione che un membro della sua famiglia possieda una Carta Cumulus.

Ingredienti per 46 persone: persone (1 800stampo g di spezzatino per cake d’agnello, di 25 cm): ad esempio 50 g d’aglio spalla orsino · saleo· erbe pepe aromatiche · 2 cucchiai d’olio (vedi suggerimento) di colza HOLL·· 50 4 spicchi g di burro d’aglio ammorbidito · 2 cipolle grosse · ½ cc· 8dipomodori sale · tris di secchi pepesott’olio · 5 g di·pinoli ½ cucchiaio · 580 g di di farina pasta per · 4 dl pizza di brodo rettangolare di manzo già· spianata 50 g di olive · 80 nere g di formaggio snocciolategrattugiato. · 4 fette di prosciutto crudo · 2 cipollotti · 1 limone.

1. Tritate Conditefinemente la carne l’aglio con sale orsino, e pepe mescolatelo e rosolatela conbene il burro nell’olio e condite in unacon padella. sale e pepe. Dimezzate Tostate l’aglio, i pinoli tritate senza grossolanamente grassi in una padella. le cipolle. Foderate Aggiungete uno stampo aglio, per cipolle cakee con pomodori carta da allaforno, carne,inspolverizzate modo che la con cartalafuoriesca farina e bagnate dallo stampo con il per brodo. sformare Mettete il pane il coperchio con piùefacilità. stufate a fuoco medio-basso per circa 50 minuti. Lasciate il coper2. chio Srotolate leggermente la pasta aperto per pizza. per permettere Spalmate ilalburro vapore aromatizzato di fuoriuscire sulla dalla pasta padella, e mettein tene mododache parte il liquido un poco. si riduca. Mettete da parte anche un po’ di pinoli e poco formaggio grattugiato, 2. Tagliate ledistribuite olive e i cipollotti il resto sulla a rondelle pasta esottili, premetelo. il prosciutto Tagliatealadadini. pasta in Ricavate strisce larghe delle listarelle circa 7 dalla cm. Ripiegate scorza dellelimone. estremità Mescolate delle strisce tutto.verso il centro di un terzo poi 3. Spremete accomodate la metà le strisce del limone. così piegate Conditenello lo spezzatino stampo, una con accanto il succo di all’altra limone, senza sale stringerle. e pepe e distribuite Lasciate lievitare la gramolata per circa sulla10 carne. minuti. 3. Scaldate il forno a 200 °C. Infornate il pane al centro e cuocetelo per 15 minuti, Un abbassate piatto gustoso che può essere o semplicemente con poi la temperatura a 160accompagnato °C e continuatecon perpasta altri 15 minuti. Distribuite fette di pane. il burro, il formaggio e i pinoli messi da parte sul pane e infornate ancora per 15 minuti. Preparazione: circa 20 minuti; circa 50 minuti. 4. Sfornate il pane bello dorato ebrasatura: sformatelo. Servitelo tiepido a piacere. Per porzione: circa 47 g di proteine, 27 g di grassi, 13 g di carboidrati, 520 kcal/2150 kJ. essere sostituito con l’erba cipollina sminuzzata e 1 spicchio d’aL’aglio orsino può glio spremuto. Preparazione: circa 20 minuti; cottura in forno: circa 45 minuti; lievitazione: circa 10 minuti. Per persona: circa 14 g di proteine, 20 g di grassi, 44 g di carboidrati, 420 kcal/ 1750 kJ.

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Ambiente e Benessere

Tempi duri per i pesci piccoli

Sport La pandemia sta colpendo indiscriminatamente tutti i protagonisti dello sport, ma a rischiare

sono soprattutto le realtà finanziariamente più fragili Giancarlo Dionisio Da alcuni giorni, sul sito web dell’Ambrì-Piotta (www.hcap.ch) gira un video che ha quali interpreti il Direttore Sportivo, Paolo Duca, e l’allenatore Luca Cereda. Entrambi, con tanto di caschetto da minatore in testa, al centro della nuova pista in fase di completamento, lanciano un appello al popolo biancoblu: «L’Ambrì mi appartiene» è il titolo di una campagna di raccolta fondi. Obiettivo dell’operazione: emettere 6775 nuove azioni nominative. L’esatto numero dei posti a disposizione del pubblico nella nuova struttura. Le stesse quattro cifre del codice di avviamento postale della piccola frazione leventinese. Potrebbe essere interpretata come una normale operazione di azionariato, dettata da una legittima ambizione di crescita. In realtà è un preoccupante campanello d’allarme. La pandemia sta colpendo duramente le casse sociali. Dopo una brevissima fase in cui, grazie ad alcuni interventi strutturali, i club avevano potuto giocare davanti a due terzi del potenziale pubblico, da mesi si è passati a una situazione di chiusura totale. Una chiusura che perdura, e della quale non si intravede la revoca. Per il buon sonno del presidente del CDA, Filippo Lombardi, e dei suoi colleghi di Comitato, coloro che hanno preteso il rimborso dei costi dell’abbonamento si contano sulle dita di una o due mani. Mancano però gli introiti dei biglietti alla cassa, e quelli delle voci, gastronomia, ristorazione, hospitality, e merchandising. Non poco, per una società sportiva storicamente confrontata con ristrettezze economiche, e che

Il progetto della nuova pista per l’Ambrì Piotta. (www.hcap.ch)

in passato aveva già dovuto ricorrere al prezioso sostegno finanziario dei suoi tifosi. Nell’hockey moderno, non è più possibile restare competitivi solo con i Celio, Muttoni, Panzera, Fransioli, Zamberlani, Gagliardi e via dicendo. Pur attingendo, nel limite del possibile, alle risorse del settore giovanile, anche l’Ambrì Piotta è costretto a ricorrere al mercato nazionale e internazionale, ingaggiando un cospicuo numero di giocatori che accettano l’affascinante sfida proposta da questa sorta di «villaggio di Asterix», ma che non lo fanno certo per pochi franchi e una tazza di latte. A inizio stagione, gli atleti hanno concordato con la Direzione una riduzione dei salari superiori agli 84mila

franchi. Bravi, chapeau! Ma va detto che non sono salari multimilionari. Con la liquidità racimolata grazie ai tagli, i grandi club calcistici possono rischiare anche degli investimenti speculativi. L’Ambrì Piotta può solo fare salti mortali, e tentare di garantire perlomeno la gestione corrente. Nel video in questione, Paolo Duca si appella all’unicità del fenomeno Ambrì-Piotta, costantemente nella massima categoria, nonostante rappresenti una piccola realtà di montagna. È un miracolo, figlio della tradizione combattiva della gente contadina e montanara. Dal canto suo, Luca Cereda parla di «Grande famiglia biancoblù» e auspica che sempre più – soprattutto in questa delicata fase epocale in cui l’entusiasmo

per l’arrivo del nuovo stadio si sovrappone alla preoccupazione per i danni provocati dalla pandemia – i tifosi si sentano co-proprietari della squadra, mediante l’acquisto delle nuove azioni. Nella nuova casa, dice il tecnico biancoblù, devono poter essere salvaguardati i nostri valori forti, da trasmettere alle generazioni future. Valori come la passione e l’orgoglio di appartenere a questa famiglia. Auguriamo ovviamente al Club di raggiungere gli obiettivi che gli consentirebbero di rimanere nel mondo del grande hockey. Siamo altresì consapevoli che quanto sta accadendo al club leventinese, vale anche per le altre società della National League. L’unica discriminante sta nel fatto che, rispetto a qua-

si tutte le altre, l’Ambrì Piotta si porta dietro delle difficoltà, tipiche di una realtà periferica, colmabili, forse, solo con l’arrivo di uno sceicco che si innamori di questo miracolo sportivo e accetti di sostenerlo e finanziarlo. Ma sceicchi, emiri e principi azzurri compaiono soprattutto nelle favole, quindi, anche se quella del club biancoblù è una bellissima favola, è assolutamente necessario trovare delle soluzioni alternative. Se dovesse perdurare questa situazione, probabilmente neanche questa indispensabile azione di ricapitalizzazione potrebbe bastare. Urgono, anche per le altre società sportive, misure che diano un segnale e lascino intravedere il ritorno alla normalizzazione. Ad esempio, il progressivo e prudente ritorno del pubblico in tribuna, in tempi relativamente brevi. Ne va della sopravvivenza di una parte della storia dello sport, che è fatta di passione, abbracci, gioie, sofferenze, litigi e canti. Una storia che è anche la nostra, a Lugano, come ad Ambrì, Davos, Langnau, e ovunque. Per le autorità, politiche e sanitarie, si tratterà di valutare rischi e benefici, e di prendere delle decisioni. Magari anche moderatamente coraggiose. Sarebbe infatti tristissimo, fra uno, due o tre anni, essere chiamati a redigere necrologi, e a celebrare esequie. I seggiolini della Corner Arena e della Gotthard Arena, come quelli di tutte le altre piste, vanno occupati. Ci attendono nuove sfide tra Lugano Seagulls e Ambrì Piotta Farmers. E se i nomi non vi piacciono… nessun problema. L’importante è vedere da vicino le maglie, il sudore, i volti e i colori, e sentire dal vivo il rumore del puck e gli inni delle curve.

Giochi

Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku

Cruciverba L’animale che nella sua vita depone più uova al mondo è il… e ne depone all’incirca… Trovate le risposte a cruciverba ultimato leggendo le lettere evidenziate. (Frase: 5, 4 – 8, 7)

ORIZZONTALI 1.Pesced’acquadolce 7.DiogrecodelSole 8.Articolo 9.Unamacchietta... 10.Congiunzioneinglese 11.Torna...seoranonc’è 12.Superficiecircoscritta 13.Personaggiofiabesco 14.Unorganismostatale 18.Silavaconlalingua 20.Lofatuttociòcheserve... 21.Essenziale...sullapelle 22.Ripartizionidiunascienza 23.Unitàdimisuradella luminanza 24.UnoStefanoattore 26.Nomemaschile 27.Desinenzaverbale

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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch 1 2 7

I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione 3 4 5 6corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. 8

P e r S VERTICALI e L I O 1. Èunpoligono 2.LacantanteaustralianaLevon 3.UnBravo...fiume N e O 4.Solo...metà 5.Macchinasemplicecheserve N A perspaccare T 6. Propagazionevibrantedienergia 10.Èfattocomeunavolta... A O r 12.Partedelcorpoumano 13.Infiammazionedell’orecchio G A T T 14.Solitario,deserto 15.NeraaParigi 16.Leinizialidell’attoreDalton O L I O 17.IsoledelTirreno 19.Lebatteanchel’oca N I T 20.Larvadivariinsetti 22.Lehannodispariiricci... 24.UnannoaParigi O e N 25.Leinizialidell’attriceRocca Partecipazione online: inserire la

soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-

Sudoku Soluzione:

Scoprire i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.

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1 5

4 7

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9 9

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I C O 4 6 8 3 u N 9 5 A N D Soluzione della settimana precedente CIACK SI GIRA! – Oltre a «Ben Hur» gli altri due film che si sono aggiudicati più r e «ILASIGNORE DEGLI ANELLI» – «TITANIC». Oscar sono: Cv I OL L O Se I N T e2 6 9 8 3 1 5 7 4 1 8 4 9 7 5 6 3 2 N O N A G I O D e r T L O B r O D O5 3 7 6 2 4 9 1 8 9 7 1 2 8 6 3 4 5 r I P e T e D rA OA eMS I I G u I L6 5 8 7 4 3 1 2 9 3 4 2 1 5 9 8 6 7 C I A N e T O A L AL eCT ACL IO OrT S D I 8 2 5 3 6 7 4 9 1 7 1 6 4 9 8 2 5 3 I v A e T A T r I NA e Ir eO A N Te I CrO e4 9 3 5 1 2 7 8 6 luzione, corredata da nome, cognome, indirizzo, email del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui

concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 marzo 2021 • N. 10

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Politica e Economia Un «più» alle Nazioni unite La Svizzera ha inviato la sua candidatura quale membro del Consiglio di sicurezza ONU

Biden e l’obiettivo dei talebani L’Aghanistan è in balia della violenza e degli estremisti islamici mentre gli Usa decidono sul ritiro delle truppe

Myanmar in fiamme La gente continua a protestare nonostante gli spari. La voce di uno svizzero a Yangon

pagina 23

Sotto il tiro dei cecchini Incontro con Dzemil Hodzic, ideatore di una vasta raccolta di immagini scattate a Sarajevo negli anni Novanta pagina 25

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pagina 24 Nelle prigioni russe le attiviste vengono umiliate e minacciate. Nella foto: una manifestante a San Pietroburgo. (Shutterstock)

Lo Stato dei maschi attacca le donne Russia Mentre il Cremlino tenta di reprimere l’opposizione, c’è chi spinge verso il ritorno ai valori tradizionali.

Così riemergono ideologie che contribuiscono all’incremento vertiginoso dei casi di violenza domestica

Anna Zafesova Quando Daria Serenko, artista e attivista femminista, ha organizzato a San Valentino una catena di solidarietà con Yulia Navalnaya (moglie del nemico numero uno di Vladimir Putin, Alexey Navalny) e le detenute politiche, la sua idea era quella di importare in Russia un modello di protesta già collaudato in Bielorussia. Quello delle donne che sfidano l’autoritarismo e la repressione. Non si aspettava quell’ondata di odio e violenza che la perseguita da allora, con centinaia di minacce irriferibili inviate dai seguaci del movimento di ultradestra «Stato dei maschi». Questi ultimi non si sono limitati a fare gli «odiatori» da tastiera, pubblicando sui social l’indirizzo e le immagini della casa di Serenko, obbligandola a vivere protetta da una agenzia di sicurezza privata. Lo «Stato dei maschi» si era già distinto qualche mese prima in una campagna di intimidazione contro la «Marcia delle sorelle», un’iniziativa di solidarietà nei confronti delle tre sorelle Arutiunian che per difendersi avevano ucciso il padre Mikhail Khachaturyan. Krestina, Angelina e Maria – di 19, 18 e 17 anni all’epoca del delitto – vivevano segregate in casa e per anni sono state umiliate, picchiate, abusate e torturate

dal padre padrone. Il processo contro le due sorelle maggiori – Maria è stata dichiarata incapace di intendere e volere – dura ormai da 3 anni. La campagna per liberarle, che ha visto la partecipazione di attivisti, star dello spettacolo e Ong, per ora non è riuscita a ribaltare la pressione di una cospicua fetta dell’opinione pubblica che le considera bugiarde e ribelli. L’incaricata per i diritti dei minori presso il Cremlino, Anna Kuznetsova, ha definito il caso delle sorelle Arutiunian una montatura mediatica e il comune di Mosca non ha autorizzato la marcia per sostenerle. In una Russia che sta vivendo una svolta repressiva contro l’opposizione, si verifica anche un giro di vite reazionario nella società civile che, in nome del «ritorno ai valori tradizionali», ha già reso Mosca la Mecca di vecchie e nuove Destre di Europa e America. E la politica di repressione contro le donne ne è una componente importante, proprio nel Paese che è stato il primo al mondo a proclamare la parità dei diritti tra i sessi. Il divorzio e l’aborto, introdotti dai bolscevichi, sono da un secolo tra i più «facili» al mondo, e l’occupazione femminile, un altro retaggio del comunismo, è quasi totale. Ma il sogno di un revival patriarcale, nella politica come

nei valori, sta rendendo la Russia un posto poco confortevole per le donne. Il Paese è scosso dall’omicidio di Vera Pekhteleva, uccisa nel 2020 a botte dal fidanzato che voleva lasciare. I vicini avevano chiamato più volte la polizia, e nelle registrazioni delle telefonate si sentono le urla disperate della ragazza, però gli agenti non si sono mai presentati. Un’indifferenza che non è soltanto un caso isolato, ma una linea consapevole e promossa dai vertici dello Stato (in questo il femminicidio nel Paese si distingue da quelli perpetrati alle nostre latitudini): la Russia è l’unico dei 47 Paesi membri del Consiglio d’Europa a non possedere una legislazione specifica sulla violenza domestica. Una battaglia che dura da molti anni, e che per ora ha visto prevalere l’offensiva conservatrice delle forze politiche più tradizionaliste e del patriarcato di Mosca. Nel 2017 un voto della Duma ha praticamente depenalizzato la prima denuncia di violenza tra le mure domestiche. In assenza di gravi lesioni che comportano un ricovero, l’episodio viene archiviato come semplice litigio. La Chiesa ortodossa ha avuto un ruolo importante in questa svolta «patriarcale»: una commissione di gerarchi altolocati guidata dall’arciprete Dmitry

Smirnov ha bocciato ogni proposta di combattere la violenza domestica, ritenuta «in forme moderate» uno «strumento imprescindibile di educazione». Smirnov ha esplicitamente accusato i difensori dei diritti delle donne di essere «al soldo dell’Occidente» e di volere «distruggere la famiglia, come è già stata distrutta in Europa», chiamando a ripristinare il principio di autorità gerarchica nelle famiglie come nella società. Un’ideologia che contribuisce all’incremento vertiginoso della violenza contro le donne in Russia. Secondo il consorzio delle Ong femminili, delle 8’300 russe uccise nel 2018 5 mila sono rimaste vittime di mariti, compagni, padri o altri parenti. Una media di 13 vittime al giorno, una ogni due ore, senza contare quelle picchiate, deturpate, terrorizzate. La testimonianza del chirurgo facciale Ruslan Mellin, che ha disegnato i ritratti di molte sue pazienti e raccontato le loro storie alla testata online «Meduza» rivela un mondo sommerso che non finisce né nelle statistiche poliziesche, né nelle reti di soccorso. Storie raccapriccianti, come quella di Margarita Gracheva, che aveva denunciato per maltrattamenti suo marito e per punizione è stata portata in una foresta dove l’uomo l’ha picchiata

e le ha staccato le mani con un’ascia, nonostante fosse la madre dei suoi due figli. Oggi Margarita è un simbolo della lotta delle donne russe per i loro diritti. Ha avuto il coraggio di posare davanti alle telecamere con la sua mano bionica (la seconda si è conservata nella neve ed è stata riattaccata dai chirurghi), ha scritto un libro e partecipa a talk show, facendo sperare che anche nel Governo qualcuno sia sensibile all’argomento. Intanto le donne continuano a scendere in piazza ma il movimento, dopo le decine di migliaia di arresti di manifestanti nel gennaio scorso e la promessa del ministro degli Esteri Sergey Lavrov di «rompere con l’Europa», subisce il contrattacco di un regime sempre più repressivo, che associa qualunque discorso di libertà e diritti alle «ingerenze occidentali». Il viceministro della Giustizia Mikhail Galperin ha reagito ai verdetti della Corte dei diritti umani a Strasburgo a favore delle donne russe maltrattate, denunciando la «discriminazione dei maschi». Intanto nelle prigioni russe le attiviste scese in piazza vengono umiliate e minacciate di stupro, e il fatto che nel movimento che fa capo a Navalny le leader sono molto numerose rende la lotta per i diritti delle donne parte del discorso antiautoritario della protesta.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 marzo 2021 • N. 10

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Politica e Economia

Un «plus» per la pace

Onu La Svizzera vuole entrare a far parte del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite. La domanda ufficiale

è già stata inviata da diverso tempo e dovrà essere sottoposta al voto dell’Assemblea generale

Marzio Rigonalli Il Consiglio federale guarda in alto e aspira a ottenere un seggio in seno al Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite. Trattasi di uno dei dieci seggi non permanenti che, insieme ai ben più noti cinque seggi permanenti, formano la struttura di questo importante organo dell’Onu. I seggi non permanenti hanno una durata di due anni e vengono assegnati dall’Assemblea generale, che rispetta una certa ripartizione tra i vari Continenti.

La richiesta è motivata dal desiderio di aumentare la propria visibilità internazionale ma non è gradita da alcune forze politiche Sono ormai trascorsi vent’anni dall’adesione della Svizzera all’Onu ed è la prima volta che il Governo federale si muove in questa direzione. La candidatura porta sul biennio 2023-2024. È stata inoltrata già nel 2011 e, in questi ultimi anni, è stata confermata a più riprese, sia dal Consiglio federale che dalle due Camere. Ora è entrata nella sua fase finale ed è stata presentata a New York, alla fine del mese di ottobre 2020, ai rappresentanti di tutte le missioni Onu, con lo slogan «Un più per la pace» («A plus for peace»). A causa della pandemia la presentazione è avvenuta in maniera virtuale. Nei loro discorsi la presidente della Confederazione Simonetta Sommaruga e il capo della diplomazia, Ignazio Cassis, hanno evidenziato i punti di forza della candidatura elvetica. In particolare una lunga tradizione di promozione della pace, il continuo impegno in favore del diritto internazionale umanitario, dell’aiuto umanitario e dei diritti umani, nonché l’importanza di Ginevra come centro internazionale. La candidatura ha buone possibilità di essere accolta. Viene combattuta soltanto da Malta, che aspira a occupare lo stesso seggio e fin ora può vantare numerosi appoggi sul piano internazionale. La decisione verrà presa dall’Assemblea generale delle Nazioni unite nella prima parte dell’anno prossimo. Per essere scelti bisognerà ottenere almeno due terzi dei voti, ossia 129 voti dei 193 stati membri dell’Onu. Il Consiglio di sicurezza è l’organo

mondiale più importante nell’ambito del consolidamento della pace e della sicurezza. Viene spesso criticato, perché si ritrova bloccato e incapace di agire a causa del veto di uno o di più Stati membri permanenti. La sua composizione e il suo funzionamento sono stati definiti alla fine della Seconda guerra mondiale e sono lo specchio della realtà di allora. Oggi la situazione internazionale è diversa. Sono cambiati gli equilibri internazionali, si sono affacciate nuove potenze e sono emerse nuove realtà. Una riforma del Consiglio di sicurezza sarebbe sicuramente auspicabile, in modo da poter tener conto di questi cambiamenti e da poter dare spazio a Stati importanti sul piano politico ed economico, come per esempio l’India, il Brasile e la Germania. Una simile riforma, però, implicherebbe anche il consenso degli attuali cinque stati membri permanenti, ossia Stati uniti, Russia, Cina, Francia e Gran Bretagna. Stati che hanno interesse alla difesa dello status quo e che non sono disposti a cedere nemmeno una parte del loro potere decisionale. Ci si può chiedere quali sono gli obiettivi che il Consiglio federale intende raggiungere con l’inoltro della candidatura. Perché converrebbe alla Svizzera diventare membro di un organo la cui attività è quasi costantemente bloccata dal veto di uno o di più Stati membri permanenti? La risposta risiede nelle varie dichiarazioni rilasciate fin ora dal Governo e dai responsabili della politica estera svizzera. Il Governo è convinto di poter trovare nel Consiglio di sicurezza una tribuna che gli consenta di aumentare la propria visibilità all’interno delle organizzazioni multilaterali, di intensificare i suoi contatti sul piano mondiale e di dar prova delle sue capacità a promuovere la pace e la sicurezza. Nel suo discorso davanti ai rappresentanti di tutte le missioni Onu, lo scorso 30 ottobre, la presidente della Confederazione Simonetta Sommaruga ha dichiarato: «Noi cerchiamo soluzioni consensuali sia nella nostra politica interna che in quella estera e l’unica via per creare consenso è il dialogo». Un dialogo, ha poi aggiunto, alla base di una lunga tradizione che annovera il rispetto dello stato di diritto e della democrazia, nonché il continuo impegno in favore della pace e della sicurezza. Un dialogo che merita di essere continuato e, possibilmente, intensificato. Più concretamente il Consiglio federale nella presenza all’interno del Consiglio di sicurezza vede anche la

La candidatura è stata presentata in conferenza streaming da Simonetta Sommaruga e Ignazio Cassis. (Keystone)

possibilità di meglio difendere e sostenere la sede europea dell’Onu a Ginevra, una sede nei cui confronti non mancano gli appetiti di alcune capitali europee. Il Consiglio federale ha promesso di coinvolgere il Parlamento attraverso le commissioni di politica estera delle due Camere. Le commissioni verranno informate e consultate e, se in alcuni casi si rivelerà necessario, potranno anche essere coinvolte nella presa di decisioni. La posizione del Consiglio federale è stata ampiamente criticata. Due sono le principali critiche emerse. La prima riguarda la neutralità e ha come principale protagonista l’Udc. Il principale partito politico svizzero ha cercato di bloccare la richiesta di un seggio nel Consiglio di sicurezza con vari atti parlamentari, in particolare con una mozione. Ha accusato il Governo di farsi guidare da motivazioni di prestigio e l’ha invitato a puntare sulla strada maestra dei buoni servizi, una scelta che di solito viene accettata da tutti e che

si fonda sul rispetto della neutralità. Il tentativo però è fallito. La maggioranza parlamentare ritiene che la Svizzera, se entrerà nel Consiglio di sicurezza, verrà scelta come Paese neutrale. La sua neutralità non sarà quindi messa in pericolo. D’altronde Paesi che vantano una certa tradizione nell’ambito della neutralità, come l’Austria e la Svezia, sono già stati membri del Consiglio di sicurezza e non hanno incontrato problemi legati alla loro collocazione internazionale. Infine, ed è un argomento avanzato dai sostenitori della candidatura, la scelta del Consiglio federale fa parte di quella neutralità attiva che Micheline Calmy-Rey, consigliera federale e responsabile del Dipartimento degli affari esteri dal 2003 al 2011, ha lanciato e sostenuto, e che in seguito non è stata abbandonata. La seconda critica mossa contro la candidatura appare più pertinente. Riguarda le possibili conseguenze negative cui la Svizzera potrebbe dover far fronte dopo una decisione presa dal Consiglio di sicurezza, o bloccata

da un veto, alla quale avrebbe partecipato anche il rappresentante elvetico. Prendiamo come esempio una risoluzione che il Consiglio di sicurezza vorrebbe prendere contro la Cina, che verrebbe accusata di gravi violazioni dei diritti umani. In un contesto ricco di tensioni, Pechino potrebbe decidere di far pressione su Berna, minacciando di adottare sanzioni economiche contro la Svizzera, se il nostro Paese parteciperà all’approvazione della risoluzione. Che cosa farà allora il Consiglio federale? Si schiererà in difesa dei diritti umani o cercherà di non compromettere gli interessi economici del Paese? Oppure cercherà la classica via di mezzo? Sono situazioni che richiedono molta abilità politica e diplomatica e che vanno affrontate senza snaturare le caratteristiche della politica estera elvetica. Non sono però scenari suscettibili di bloccare la volontà di svolgere un ruolo attivo in un importante organo mondiale, volontà che il Consiglio federale intende mantenere.

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Politica e Economia Ragazze scampate al recente rapimento di Zamfara. (Keystone)

Emirato islamico in Afghanistan?

Strategia I talebani hanno un obiettivo

e sperano che gli Usa lascino presto il Paese

Francesca Marino «Durante il mio primo mandato riporterò a casa le truppe americane che combattono in Afghanistan. Una eventuale presenza residua di truppe nel Paese sarà focalizzata soltanto sull’antiterrorismo». Chi parla (o meglio, scrive) è Joe Biden, che lo scorso agosto così rispondeva a una delle domande di un questionario inviatogli dal Council of foreign relations. Lo stesso Joe Biden che si trova a dover fronteggiare una delle questioni più spinose del momento: se riportare a casa cioè, come da accordo stipulato dal suo predecessore, le truppe americane entro il prossimo primo maggio.

Per un pugno di naira

Nigeria Negli ultimi quattro mesi rapiti oltre 600 ragazzi e bambini

Nel mirino la povera gente e si sospetta la complicità delle autorità Pietro Veronese C’è un Paese al mondo dove il rapimento di ragazze e ragazzi, spesso bambine e bambini, è diventato un fenomeno ricorrente, un fatto della vita. Questo Paese è la Nigeria. Non solo il colosso africano – il più popoloso del Continente – è in cima a questa tragica classifica mondiale, quello che lo caratterizza è che questi sequestri di giovani vite avvengono quasi sempre in massa. Bersaglio dei rapitori non sono le case o le famiglie, bensì le scuole dove i ragazzi sono a convitto. Ogni volta sono centinaia di loro a essere portati via. Non esiste una cifra attendibile che indichi quanti sono ancora nelle mani dei loro sequestratori, ma il totale supera di sicuro le 200 unità. E la stima è largamente approssimata per difetto. I rapiti fino ad oggi sono in totale diverse migliaia. Oltre 600 soltanto negli ultimi quattro mesi.

Le famiglie delle ragazze di Zamfara sono infuriate per l’inerzia dei pubblici poteri e la mancanza di protezione Quando accadono, questi fatti abietti sono ampiamente riportati dai media, spesso anche quelli internazionali, date le loro inaudite proporzioni. L’ultimo è avvenuto a Zamfara, nel nord-ovest del Paese: 279 ragazze rapite poi liberate. La versione corrente, infinite volte ripetuta, è che gli autori dei rapimenti siano i militanti del movimento islamista Boko Haram, attivo da una ventina d’anni ma trasformato in feroce organizzazione paramilitare da circa dieci. Tuttavia ricerche recenti, opera di centri studi sia nigeriani che internazionali, tendono a ridimensionare il ruolo di Boko Haram. Anche nel più tristemente celebre di questi sequestri di massa, quello avvenuto a Chibok nell’aprile 2014 – 276 studentesse portate via a mano armata nella notte – l’intervento dei fondamentalisti islamici avvenne solo in un secondo tempo,

quando i rapitori, dei criminali comuni, gliele consegnarono non sapendo bene che farne. Più della strisciante guerra civile e religiosa che infierisce in forma sparsa sull’intero, vastissimo settentrione nigeriano, il primo responsabile di questi rapimenti di massa sembra essere la fiorente industria dei sequestri, una piaga che il Paese conosce da decenni e che la crescente povertà e la diffusa impunità hanno fatto aumentare a dismisura. Come ricorda il «New York Times», di avere una persona cara rapita a scopo di riscatto è accaduto a Ngozi Okonjo-Iweala, recentemente eletta a capo dell’Organizzazione mondiale del commercio (la madre, nel 2012, quando Okonjo-Iweala era ministro delle Finanze); alla più celebre scrittrice nigeriana, Chimamanda Ngozi Adichie (il padre, nel 2015); all’ex presidente Goodluck Jonathan (lo zio, nel 2016). Tutti casi conclusi felicemente con il pagamento di somme notevoli. Quel che è cambiato, da qualche anno a questa parte, è la tecnica. Invece di prendere di mira i vip, le bande privilegiano ormai i grandi numeri e la povera gente. Scuole e collegi – isolati, quasi del tutto privi di protezione, in contesti regionali già a bassissima sicurezza – sono bersagli che quasi non presentano rischi. Per loro stessa ammissione, le autorità locali o federali finiscono per pagare (la valuta locale è la naira). Perfino il presidente Muhammadu Buhari ha pubblicamente redarguito in un tweet i Governi regionali, invitandoli a «rivedere la loro politica di ricompensare i banditi con denaro e veicoli, che rischia di avere conseguenze disastrose». E in febbraio, all’indomani dell’attacco a una scuola media a Kagara (40 persone rapite), il generale Magashi, ministro della Difesa, si è spinto addirittura ad accusare le vittime di codardia. «A volte i banditi non hanno più di tre proiettili a testa», ha dichiarato. «Ma quando sparano, tutti scappano. Ai miei tempi, davanti a un’aggressione del genere, ci si fermava a combattere». Molti sospettano le autorità di essere in combutta con i criminali, con cui poi si spartiscono il bottino dei riscatti. Quando di recente a Zamfara è stata or-

ganizzata una cerimonia per la riconsegna delle ragazze liberate alle famiglie, la festa è finita in una sparatoria dopo che i genitori, infuriati per l’inerzia dei pubblici poteri e la mancanza di protezione, avevano preso a lanciare sassi contro i funzionari presenti. Sono passati quasi sette anni da quella notte d’aprile 2014, quando un gruppo di armati fece irruzione in un collegio statale del remoto nordest nigeriano, portando via quasi 300 studentesse, una cinquantina riuscì a scappare. Da allora il rapimento di Chibok è rimasto il paradigma di questa triste piaga, anche perché divenne subito oggetto di una campagna internazionale, #BringBackOurGirls, cui aderirono l’allora first lady americana Michelle Obama e numerosissime altre celebrità, compreso il Papa. Su quel fatto sono stati girati documentari e scritti libri, l’ultimo dei quali in uscita in Gran Bretagna, con molte testimonianze dirette delle vittime. L’attualità è legata anche al fatto che oltre cento ragazze mancano ancora all’appello. L’azione militare come detto fu attribuita a Boko Haram ma, a quanto risulta, la milizia islamista entrò in scena solo in un secondo tempo, dopo che i rapitori ebbero deciso di consegnare loro le giovanissime prigioniere. Non che i Boko Haram fossero estranei ad attacchi contro le scuole: era accaduto più volte, spesso con vittime innocenti, perché obiettivo dichiarato del movimento era quello di sottrarre la gioventù all’influenza educativa del Governo per consegnarla all’Islam più retrivo. Ma l’idea di attaccare il collegio di Chibok non era stata loro. Le ragazze si comportarono con coraggio. Malgrado le minacce, le percosse, la fame, organizzarono azioni di disobbedienza. In maggioranza cristiane, rifiutarono, salvo una trentina, di convertirsi forzatamente all’Islam e di sposare i loro sequestratori. Alcune decine riuscirono a fuggire a rischio della vita. Una di loro, Naomi Adamu, ventenne, usò due quaderni di scuola per tenere un diario, ora pubblicato. È una straordinaria testimonianza di resistenza: «Ero forte perché ero arrabbiata», dice Naomi. «L’ho scritto per ricordare». La sua storia dura ancora.

Joe Biden deve decidere se riportare a casa le truppe, come da accordo stipulato dal suo predecessore Trump Per riassumere, l’inviato speciale della Casa Bianca Zalmay Khalilzad aveva negoziato, con quelli eufemisticamente, pomposamente e ottimisticamente definiti «accordi di pace» con i talebani, il completo ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan entro il primo maggio 2021. L’accordo, stipulato a Doha nel febbraio 2019, è stato firmato praticamente senza condizioni, senza imporre alcun cessate il fuoco ai talebani e, soprattutto, senza la partecipazione diretta di rappresentanti del Governo legittimo insediato a Kabul. L’unica condizione posta ai talebani per il ritiro delle truppe americane era stata la promessa che il gruppo avrebbe cessato ogni rapporto con Al Qaeda e non avrebbe più permesso che l’Afghanistan fosse adoperato come base logistica per attentati contro l’occidente. Una foglia di fico, in pratica, per permettere agli Stati uniti di abbandonare quella che Kipling ha definito «la tomba degli imperi» senza dover annunciare ai propri cittadini un non proprio onorevole ritiro. Inutile sottolineare che la firma dell’accordo è stata festeggiata dai talebani come fosse una vera e propria resa. E, di fatto, lo era. A dettare condizioni sono infatti i talebani stessi che fanno pressione su Biden perché la data del ritiro delle truppe venga mantenuta senza alcun distinguo e che minacciano altrimenti una ripresa in grande stile delle ostilità. Ostilità che, per essere precisi, non sono mai cessate. Anzi. Nell’ultimo anno attacchi e scaramucce sono cresciuti e hanno riguardato in molti casi obiettivi civili. La strategia segue ormai una prassi consolidata: si attaccano mercati, scuole e ospedali o, meglio ancora, si ammazzano direttamente giornalisti (preferibilmente donne, come le tre uccise il 2 marzo), giudici, professori, attivisti. Nessuno

Talebani a Kabul. (Keystone)

rivendica gli attentati, i talebani rilasciano un comunicato negando ogni responsabilità per l’accaduto. In qualche caso a rivendicare il fatto è l’Isis o sono i gli stessi talebani a scaricare ogni colpa sullo Stato islamico. Khalilzad condanna i nemici del «processo di pace», tutti fanno finta di crederci e la farsa prosegue. Anche in questo caso, la strategia è chiara e i talebani non hanno mai pensato, nemmeno per un momento, di nasconderla: terrorizzare la società civile per puntualizzare un paio di cose. E cioè che i talebani non hanno alcuna intenzione reale di trattare con il Governo afghano (che non riconoscono) o di far parte di un eventuale progetto politico di stampo sia pur vagamente democratico. Ciò che vogliono è un Governo di transizione comandato da loro, che metta in atto l’unica forma di Governo considerata accettabile: l’Emirato islamico dell’Afghanistan. Tutto il resto non conta nulla. I talebani hanno anche di recente ribadito il concetto, in una lettera aperta diretta «ai cittadini americani» e via social media. Intanto, per mantenersi in esercizio in attesa della decisione di Biden, continuano ad ammazzare civili e ad attaccare truppe governative. Il fatto è che il «processo di pace» non esiste e non è mai esistito. Che i talebani, come evidenziato da più parti, non hanno alcuna intenzione di rescindere i loro legami con Al Qaeda. Che sia i talebani che l’Isis sono gestiti e finanziati dal Pakistan e allo Stato islamico vengono affidati i «lavori sporchi» che i talebani non vogliono o non possono fare e che si inaugurano sempre più «campi di addestramento alla pace» in cui gli stessi talebani, Al Qaida e la Rete Haqqani addestrano nuove reclute appartenenti a gruppi terroristici di matrice pakistana come la Jaish-i-Mohammed e la Lashkar-i-Toiba. In Pakistan, al confine, sono tornati i vecchi gruppi talebani e Islamabad ne sta formando addirittura di nuovi. In sintesi, non esistono soluzioni semplici alla complessa situazione afghana in cui niente è come sembra. Lo stesso Biden se ne era già accorto ai tempi in cui, durante l’amministrazione Obama, aveva cercato di dare il via al ritiro delle truppe americane entro il 2014 con risultati altrettanto disastrosi in termini politici e militari. Il fatto è che il quadro in questi anni si è modificato e non di poco, e che la vera partita si gioca al momento non tra Usa e talebani, ma tra l’Occidente e Beijing, che all’ombra del Pakistan muove le sue pedine per far rientrare l’Afghanistan, con un Governo favorevole e la pax talebana in atto, dentro la Belt and road initiative. Biden farebbe meglio a pensarci prima di dare il via a operazioni ad alto ritorno di immagine in termini di politica interna, come la fine di una guerra infinita, ma dai costi altissimi per tutti in termini geopolitici.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 marzo 2021 • N. 10

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Politica e Economia

I militari, l’uso della forza e la droga

Myanmar Le violenze contro i manifestanti che dal primo febbraio si oppongono al colpo di stato si intensificano.

L’Occidente fa poco e la Cina sostiene la giunta al potere che si arricchisce con la produzione di stupefacenti Fabio Polese Morti, feriti e arresti. La repressione dei militari in Myanmar si è intensificata nelle ultime due settimane. Uomini della polizia e dell’esercito hanno fatto fuoco ad altezza uomo in diverse città del Paese, dove centinaia di migliaia di persone stanno protestando contro il golpe del primo febbraio. «Questa situazione era prevedibile e credo che la violenza aumenterà nel breve periodo», spiega Zachary Abuza, docente al National war college di Washington ed esperto di Sud-Est asiatico. «Parliamo di un esercito che è in guerra contro il suo popolo dal 1948 e non ha mai avuto nessuna esitazione nel colpire i suoi stessi cittadini. Secondo il punto di vista dei militari, se non si reprime subito il movimento di resistenza civile, questo verrà legittimato e incoraggiato». Che la situazione si potesse infiammare velocemente c’era da aspettarselo. Tutte le proteste del passato, compresa quella del 1988 e la «Rivoluzione dello Zafferano» del 2007 portata avanti dai monaci buddisti, sono finite in un bagno di sangue. I segnali, anche all’inizio di queste manifestazioni, portavano sulla stessa strada. Le forze armate, dopo aver schierato gli uomini della polizia armati fino ai denti, hanno messo in campo anche i militari, compresi i

cecchini e gli uomini della 33. divisione di fanteria leggera, un gruppo d’élite già utilizzato nelle atrocità commesse contro la minoranza musulmana Rohingya nel 2017 e nei conflitti etnici che da oltre settant’anni, insanguinano il Paese. Tom Andrews, il relatore speciale delle Nazioni unite, qualche giorno fa aveva profeticamente descritto il dispiegamento di questo reparto come «una pericolosa escalation da parte della giunta al potere in quella che sembra essere una guerra contro il proprio popolo». Detto, fatto. Le violenze ordinate da Min Aung Hlaing, il numero uno del Tatmadaw – il potente esercito del Myanmar – hanno scatenato l’indignazione di gran parte dei Governi mondiali, che oltre a chiedere di «interrompere immediatamente l’uso della forza contro i civili» e «rispettare i diritti alla libertà di espressione», hanno annunciato qualche timida sanzione ai leader militari. Per il professore Abuza, in realtà, poco è stato fatto dai Paesi occidentali per contrapporsi a questa tragica situazione. «Le sanzioni sono state limitate e molto mirate. La ricchezza dei generali è protetta e in gran parte non influenzata, poiché è legata all’estrazione delle risorse naturali e all’ottenimento della loro parte del commercio di metanfetamine». Non bisogna dimenticare, infatti, che il Myanmar è il più gran-

Un manifestante con uno scudo improvvisato nelle strade di Yangon. (Shutterstock)

de produttore di droghe sintetiche al mondo e il secondo di eroina dopo l’Afghanistan. Un business illegale che vale oltre quaranta miliardi di dollari nel Paese e che, secondo numerose organizzazioni, sarebbe in gran parte sotto

Scendono in campo anche gli sciamani Nonostante il Myanmar sia un Paese a maggioranza buddista, la superstizione legata ad antiche leggende animiste fa parte della vita quotidiana della popolazione. Così, anche in un momento drammatico come quello che sta vivendo la Nazione del Sud Est asiatico, non poteva mancare l’invocazione agli spiriti. Nelle strade delle maggiori città, insieme ai manifestanti che da un mese si stanno battendo contro il colpo di Stato, sono scesi in campo anche gli sciamani Natkataw, che invocando i Nat, chiedono la liberazione di Aung San Suu Kyi e il rispetto delle elezioni del novembre scorso. Secondo la tradizione i Nat sarebbero persone realmente vissute e decedute in circostanze terribili. Dopo la morte,

trasformati in spiriti guida, vivrebbero tra la natura selvaggia. Il luogo simbolo del culto di questi fantasmi è la cima del Monte Popa, una montagna di origine vulcanica che sorge al centro del Paese. Questi spiriti si manifesterebbero alla popolazione grazie alla mediazione degli sciamani, che attraverso particolari rituali, dove vengono bevute bevande alcoliche a base di riso, entrerebbero in trance e riuscirebbero a comunicare con loro. Nonostante in Occidente pratiche arcaiche di questo tipo possono sembrare inconcepibili, il ruolo dei Natkataw nella società del Myanmar è molto importante. Sin dall’era coloniale britannica e nei decenni di dittatura militare successivi, questi stregoni hanno sem-

pre utilizzato i loro poteri magici anche per cercare di combattere gli oppressori. In passato, proprio per questi motivi, i vertici del Tatmadaw li hanno repressi. Ma sebbene la leadership militare abbia sempre mostrato pubblicamente disappunto verso questo tipo di rituali, anch’essa ha più volte chiesto aiuto agli sciamani, prestando molta attenzione ai consigli che le venivano indicati. Ad esempio Than Shwe, padre-padrone del Myanmar dal 1992 al 2011 e tuttora «padrino» delle forze armate, era un cliente abituale di un famoso indovino e sembrerebbe che anche l’attuale capitale Naypyidaw, la «Sede dei re», sia stata costruita dal nulla dopo il consiglio del suo Natkataw, proprio a causa della superstizione.

il controllo dei potenti capi militari del Tatmadaw. Eppure, mentre i generali continuano ad arricchirsi, la maggioranza dei birmani è costretta alla miseria. Quasi un terzo di loro vive al di sotto della soglia di povertà, soprattutto nelle zone etniche, dove risiede più del 70 per cento della popolazione. «L’esercito in decenni di dittatura ha trasformato il Myanmar dal Paese più ricco del Sud-Est asiatico a uno dei più poveri del globo», continua il docente del National War College. «I militari non si sono mai preoccupati dello sviluppo economico della Nazione, come farebbero dei normali politici, hanno pensato solo al loro portafogli». I Paesi vicini dovrebbero fare di più, ma la situazione non è semplice. «Singapore, che ha una reale influenza nella regione – prosegue l’esperto – sta scegliendo di non esercitarla al massimo, nel perfetto modus operandi dominante nell’Asean», l’Associazione delle Nazioni del Sud-Est asiatico. «L’Indonesia sta cercando di guidare un’uscita diplomatica dall’impasse, ma non ha l’autorità per farlo. La Cina, fedele alleata del Myanmar anche negli anni dell’embargo, sta spostando la sua posizione per accomodare la giunta

militare, fiduciosa che gli enormi interessi economici che legano Pechino a Naypyidaw saranno protetti». Intanto, una settimana fa Aung San Suu Kyi – dopo un mese che non si avevano più sue notizie – è riapparsa in videoconferenza durante l’udienza al suo processo. Il difensore Khin Maung Zaw, che ancora non è riuscito a parlarci, ha detto che l’ha vista «in buona salute». Alla leader agli arresti sono stati contestati altri due reati. Se condannata, rischia fino a 9 anni di carcere e l’impossibilità di candidarsi a qualsiasi elezione futura. «I militari stanno facendo di tutto per cercare di prendere tempo», spiega Abuza. «Non bisogna dimenticarci che Suu Kyi ha 75 anni, l’età media dell’alta dirigenza della Lega nazionale per la democrazia è di 74 anni e che il partito ha fatto un lavoro terribile nel coltivare la nuova generazione dei leader». Per l’analista l’esercito userà questo tempo per organizzarsi. «Non possiamo dire quando, ma credo che il Tatmadaw ripristinerà davvero una sorta di democrazia, ovviamente molto limitata. Lo farà dopo aver indebolito i partiti politici esistenti e aver usato la forza per fermare il dissenso popolare».

Uno svizzero nel caos di Yangon

La testimonianza Peter Schmidt lavora per Helvetas e vive da quattro anni nella metropoli:

«Con la pandemia e il golpe abbiamo ridotto le nostre attività ma continuiamo ad aiutare» Romina Borla Da 4 anni Peter Schmidt vive a Yangon, la più grande città del Myanmar e sua capitale fino al 2005, quando la giunta militare al potere le preferì Naypyidaw, città costruita ex novo in un’area remota, circa 320 chilometri più a nord. È responsabile per l’ex Birmania di Helvetas, organizzazione svizzera di cooperazione allo sviluppo che opera nel Paese dal 2014. Il programma dell’Ong in Myanmar comprende tre priorità tematiche, spiega il nostro interlocutore. «In un Paese con un alto tasso di disoccupazione, ci occupiamo di formazione professionale orientata alla pratica per i giovani. Ad esempio sosteniamo le ragazze che imparano a cucire negli studi di sartoria esistenti. Dopo tre mesi molte di loro sono pronte ad aprire una piccola impresa. La nostra seconda priorità riguarda il miglioramento del reddito delle famiglie di agricoltori e pescatori, senza dimenticare il rispet-

to per le risorse naturali. Ad esempio Helvetas e le sue organizzazioni partner sono pioniere nell’introduzione della produzione integrata di riso in Myanmar (un sistema agricolo di produzione a basso impatto ambientale). Il terzo tema che ci sta a cuore riguarda il rafforzamento della società civile e della coesione sociale – attraverso l’arte e la cultura – in una società caratterizzata da forti tensioni». Da agosto 2020 Helvetas vive una specie di lockdown a causa della pandemia: gli uffici rimangono chiusi, il lavoro si svolge in maggior parte da casa. La situazione si è un po’ alleggerita in dicembre, ma l’attività dell’organizzazione si è di nuovo ridimensionata dal colpo di stato militare del primo febbraio. «È difficile portare avanti i progetti», racconta Schmidt. «Non è scontato, ad esempio, riuscire a incontrare i coltivatori di riso per ottimizzare l’irrigazione dei campi e molti dei nostri interlocutori in ambito statale non stan-

no lavorando perché si sono uniti al movimento per la democrazia, il Civil disobedience movement». Dal giorno del golpe Schmidt è uscito di casa poche volte, ad esempio per fare la spesa. È stata l’organizzazione a chiederglielo: intende proteggere i suoi operatori in un momento di forte tensione. Ma l’emergenza la vive tutta, con il carico di preoccupazione che comporta. «Il Myanmar – dice – è un Paese profondamente diviso lungo linee religiose ed etniche però adesso si è unito contro il colpo di stato». In piazza ci sono giovani ma anche maestri e operatori sanitari (tanto che gli ospedali hanno dovuto ridurre i servizi). «Come detto parecchi dipendenti statali sono in sciopero e, nonostante l’elevata disoccupazione, molti si sono dimessi. In città c’è il coprifuoco tra le 8 di sera e le 4 del mattino; si vede poca gente in giro. Tuttavia ogni giorno si svolgono manifestazioni per la democrazia e contro il regime militare. La folla è decisa e crea-

tiva». Questi gli slogan: «Non vogliamo la dittatura militare». «Liberate la nostra leader» «Non ci fermeremo finché otterremo quel che vogliamo». Nelle proteste – osserva Schmidt – i social media giocano un ruolo enorme e sono stati oscurati, però ci sono modi di aggirare i blocchi. Così gli attacchi della polizia finiscono subito in Rete. Ma il regime non molla. «Attivisti e leader di organizzazioni della società civile denunciano arresti. Si sentono perseguitati e minacciati. Colpiti anche attori e artisti. Alcuni si nascondono, altri cercano soldi e modi per lasciare il Paese». Nubi grigie pesano sul futuro. È difficile prevedere come andrà a finire, afferma l’intervistato. «In questa situazione imprevedibile Helvetas rimane fedele al suo mandato di aiutare le persone svantaggiate finché la sicurezza dei nostri dipendenti e dei nostri partner rimane garantita», continua Schmidt. «Stiamo adattando i programmi all’emergen-

Peter Schmidt: «Esco poco di casa».

za in corso. Ad esempio nell’ambito di un progetto sostenuto dalla Direzione svizzera dello sviluppo e della cooperazione offriamo un aiuto finanziario immediato alle famiglie che sono già state particolarmente colpite dalle misure anti Covid. Stiamo inoltre pianificando un intervento cash for work: si tratta di dare delle ricompense agli abitanti dei villaggi che riparano infrastrutture locali (rete idrica o piccoli ponti). Insomma, Helvetas si concentra ancora più del solito sugli interventi locali, in collaborazione con alcune organizzazioni della società civile e aziende private».


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 marzo 2021 • N. 10

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Politica e Economia

Lungo il Viale dei cecchini

Incontri A colloquio con Dzemil Hodzic, bambino all’epoca della guerra in Bosnia ed Erzegovina e ideatore

del progetto «Sniper Alley» che raggruppa le fotografie scattate a Sarajevo dai reporter negli anni Novanta Simona Sala Quella di Dzemil Hodzic era un’infanzia felice, come quelle di una volta, quando la vita si svolgeva per lo più all’aperto, al riparo dalle regole e dallo sguardo severo dei genitori. Dzemil si divertiva, a Sarajevo, nonostante la guerra e la persecuzione per il fatto di essere bosniaco, nonostante i giochi si svolgessero in strada tra detriti e macerie, nel mirino dei cecchini appostati sul tetto degli edifici che costeggiavano la Sniper Alley. Tutto però cambiò il 3 maggio del 1995 quando, puntando un gruppo di ragazzini che giocavano a tennis e biglie, un cecchino colpì Amel Hodzic, 16 anni, fratello maggiore e unico di Dzemil. Di lui, per molto tempo, a Dzemil restarono solo un ricordo lacerante e due piccole fotografie. A ventisei anni di distanza Dzemil ha un’altra vita: lavora come video editor per «Al Jazeera English» e vive nel Qatar, ma ogni giorno la vita precedente si affaccia prepotentemente a quella nuova, sotto forma di immagini. Due anni or sono il giornalista ha infatti dato vita a un importante progetto online, Sniper Alley, che permette alla diaspora bosniaca di ritrovare una parte di quelle radici altrimenti perdute per sempre, dapprima a causa della guerra, poi in seguito all’emigrazione. Sniper Alley, che si trova sul web, su Instagram, su Facebook e su Twitter, propone migliaia di scatti realizzati dai più grandi fotoreporter di tutto il mondo durante il crudele assedio di Sarajevo negli anni Novanta. Dzemil Hodzic, potrebbe raccontarci come e perché ha iniziato il suo progetto?

Per due anni, forse a livello inconscio, continuavo a cercare foto di me stesso o della mia famiglia in internet scandagliando le agenzie fotografiche. Mi sono così reso conto che il nome di alcuni fotografi ricorreva di continuo. Cominciai quindi a salvare alcune fotografie, un po’ perché mi piacevano, oppure perché trovavo un bambino che mi assomigliava. Mi sono così creato un database personale. Un giorno mostrai a un amico alcune delle foto trovate e lui mi suggerì di farne qualcosa, o perlomeno di cominciare a

Sarajevo 1995: musica, nonostante la guerra. (Danilo Krstanovic)

mia storia, cominciai a mandarla ai fotografi, chiedendo loro se volessero parteciparvi attraverso l’invio di foto scattate a Sarajevo nel 1995. Oggi, a distanza di due anni, abbiamo 80 gallerie e il progetto continua a crescere. Credo che inconsciamente desiderassi ritrovare uno di quei momenti felici che mi furono tolti all’improvviso: è vero che ho le foto del funerale di mio fratello, ma sogno di possederne anche qualcuna che lo ritragga da vivo. Come è giunto in possesso delle foto del funerale di Amel?

Al funerale erano presenti sei fotografi, e qualcuno diede quelle fotografie a un membro della mia famiglia. Non avevo mai capito chi le avesse scattate, dunque mi misi alla ricerca della fotografa o del fotografo per parlarci e magari scoprire qualche particolare che mi era sfuggito. Sono riuscito a risalire a tutti e sei i fotografi presenti, scoprendo che in concomitanza con il funerale di mio fratello vi fu anche quello di un soldato. Ciò ha contribuito a dare una prospettiva diversa alle cose.

Non ha paura di rimanere deluso quando riceve nuove fotografie?

Dzemil Hodzic aveva 12 anni quando suo fratello fu ucciso. (Emir Jordamovic)

scrivere la mia storia. Io non amo parlare di me stesso, ma soprattutto all’epoca sentivo di non avere una voce, ero timido e arrabbiato, per cui il progetto subì dapprima una battuta d’arresto. Solo alla terza o alla quarta versione del mio scritto decisi di aprire una serie di account, mettendomi in contatto con i fotografi che avevo scoperto online. L’idea iniziale era di lanciare Sniper Alley nel giorno del 25esimo anniversario dalla morte di mio fratello, il 3 maggio 2019, ma purtroppo vi riuscii solo in agosto. Una volta lanciato il progetto e in possesso della versione finale della

Quando ne ricevo di nuove mi sento un po’ come un bambino davanti a una sorpresa, e spero sempre di vedermi o di trovare mio fratello. Non sono triste quando non trovo né me né lui perché questo progetto è pensato anche per le generazioni future. Si tratta di un documento, della testimonianza di un’epoca. Nessuno potrà mai affermare che tutto questo non sia successo. Poco fa accennavo al fatto di non avere una voce, ecco, forse con questo progetto ho creato la mia voce, attraverso cui ora parlo liberamente e dico ciò che penso. Era presente all’uccisione di suo fratello?

Sì, stavamo giocando con altri ragazzini. Nell’istante in cui Amel fu colpito da un proiettile, sentii che diventavo di colpo adulto, smettendo di essere un bambino da un momento all’altro. Non dimenticherò mai che non piansi, non gridai e non ero spaventato. Mia madre, appena rientrata dal turno di notte all’ospedale di Sarajevo, dove lavorava come infermiera, stava cucinando. La chiamai, presi una coperta per avvolgere mio fratello, chiamammo l’ambulanza e ci precipitammo all’ospedale. Io continuavo a non piangere, non piansi nemmeno al funerale. Fu come se fossi cresciuto in un

momento e volessi accertarmi del fatto che ormai ero un adulto. Ho cominciato a piangere solo negli ultimi due anni e mezzo: ogni volta che vedo un bambino in fotografia vedo me stesso e mio fratello. Non riesco a trattenere le lacrime. Sua madre che ruolo ha nella sua vita e cosa pensa di Sniper Alley?

Mia madre è felice per me. L’anno scorso le feci una lunga intervista in cui mi raccontò anche cose che ancora non sapevo. Durante la guerra lavorava come infermiera, pur non essendovi obbligata e senza percepire alcun salario. Per questo io la vedo come un’eroina: lavorava gratis all’ospedale, fino a 24 ore di fila, poi tornava a casa, faceva i compiti con noi e preparava i pasti. Credo che vi siano molte persone come lei, di cui non si sa nulla, e probabilmente, se non fosse stato per lei e per mio padre morto nel 2016, e per il loro amore, sarei stato perduto. A questo proposito ci tengo ad aggiungere che la maggior parte delle persone che mi contattano sono di sesso femminile. Sto quindi cercando di concentrarmi sulle fotografe, raccogliendo più materiale possibile, per realizzare una sorta di omaggio. Credo che l’approccio femminile al reportage sia completamente diverso. Ogni volta che incontro giornaliste, corrispondenti o fotografe, in loro vedo mia madre, riconosco le guerriere, le combattenti. Con la distanza del tempo le fotografie assumono un valore diverso?

Nelle foto riconosco le strade e molte altre cose: esse mi aiutano a riavvicinarmi a quel periodo. Si dice che il bambino non conosca la nostalgia, perché non ha nessun passato a cui tornare, perciò la grande nostalgia di noi adulti è rappresentata dall’infanzia. La mia nostalgia personale è rappresentata dal periodo di guerra, che io lo voglia o no, e la mia infanzia terminò nel 1995. Qual è il suo rapporto con i ricordi di quell’epoca?

I ricordi sono strani e spesso mi chiedo se cancelliamo le cose perché non sono rilevanti o perché fanno male. Di quel periodo ricordo ad esempio vividamente la Coppa del mondo di calcio, la squalifica di Maradona e il rigore sbagliato di Baggio. Eppure non avevamo l’elettricità per guardare le partite in televisione e ci servivamo di un aggregatore fatto in casa con le batterie delle

auto. Ma quando morì Amel tutto si fermò: del periodo di guerra che seguì non ho letteralmente alcun ricordo. Non ricorda nemmeno sensazioni come il terrore o l’incertezza?

Devo essere sincero: per me, bambino di dodici anni, la guerra era perfino divertente. Ricordo una volta che corsi al riparo con un amico perché un cecchino aveva cominciato a spararci. Dissi al mio amico di avere visto i proiettili piovere al suolo, ma lui non ci voleva credere, così ritornammo indietro e ci ritrovammo in uno spazio aperto proprio sotto il cecchino e io riuscii a trovare i proiettili ancora caldi. Era così che ci divertivamo. Ha riconosciuto molta gente con questo progetto? Quali sono le reazioni?

Ho riconosciuto alcuni bambini. Diverse persone mi contattano privatamente perché si riconoscono. Ricevo anche fotografie che ritraggono i fotografi e così gliele inoltro, creando una serie di nuovi contatti. Segue dei criteri per quanto riguarda la pubblicazione delle foto?

Per rispetto alle vittime cerco di evitare le foto in cui ci sia troppo sangue, se qualcuno le volesse vedere, può contattarmi privatamente. Ogni volta che carico una nuova galleria sul sito web, cerco di pubblicizzarla anche attraverso Facebook, Twitter o Instagram. Questo mi permette di raggiungere un pubblico più vasto. Da una parte ci sono le generazioni più vecchie, dall’altra quelle più giovani e cerco sempre di trovare una sorta di equilibrio tra i diversi social media. Lei ha dichiarato recentemente che purtroppo non impariamo mai nulla dalle guerre.

Certo, ed è per questo che il mio progetto è rivolto anche alle generazioni future. Volevano cancellarci, ma non ci sono riusciti. Se c’è un’espressione che odio sulla guerra è «never again» (mai più, ndr.) che considero vuota. Credo nel mio progetto perché magari qualcuno può imparare qualcosa, fosse anche solo come gestire determinate situazioni o come preservare la storia e la cultura. Abbiamo l’obbligo di perpetuare la memoria, perché un giorno qualcuno potrebbe sostenere che tutto questo non sia mai successo. Purtroppo tendiamo sempre a vedere le altre Nazioni come un’entità lontana e diversa da noi, ma poi ci rendiamo

conto di essere tutti uguali. La nostra «fortuna» è che dalla Bosnia in quattro anni passarono 240 fotografi, mentre ad esempio in Siria è molto più difficile raggiungere le zone di guerra.

Sono emersi anche aspetti negativi con questo progetto?

Mi arrabbio quando scrivono che ho perso il mio fratello… Io mio fratello non l’ho perso, l’hanno ammazzato. Forse dicendo così mi si vuole proteggere, ma io sono un uomo adulto ormai e non ho bisogno di compassione o di pietà, e quando sento parlare di perdita, è come se si esercitasse una pressione aggiuntiva su di me. I giornalisti balcanici hanno il vizio di chiedermi di continuo se sarei in grado di perdonare, ma per perdonare ci dev’essere qualcuno che si senta colpevole di qualcosa, mentre dall’altra parte c’è ancora un certo orgoglio per quanto fatto. L’estrema Destra ne è fiera e nessuno mi ha chiesto di essere perdonato. Finisce che mi sento di nuovo sotto pressione, perché questo tipo di domande, in base alle mie risposte, porta a un giudizio della mia di personalità, della mia morale. Cerco quindi di dedicarmi al mio progetto e ai miei affetti privati, dando meno spazio possibile all’odio e alla rabbia, ma cercando di rivivere e conservare i sentimenti positivi della nostra infanzia. Informazioni

Il progetto Sniper Alley si trova su www.sniperalley.photo e su Instagram, Facebook e Twitter, sempre digitando sniperalley.photo

Il viale dell’infamia Durante la guerra in Bosnia ed Erzegovina (1992-1995) il Viale dei cecchini (o Sniper Alley o Snajperska aleja) di Sarajevo divenne un corridoio strategico per l’assedio serbo. Il viale collegava l’area industriale e l’aeroporto alla città vecchia e, costeggiato da alti grattacieli, rappresentava una postazione ideale per i cecchini serbi. Durante l’assedio caddero sotto il fuoco dei cecchini almeno 225 civili tra cui 60 bambini. I feriti furono più di mille.


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Politica e Economia

La regina dei pannolini usa e getta

Curiosità La statunitense Marion Donovan ebbe un’idea che rivoluzionò la vita delle madri e delle famiglie.

Nata nel 1917 nello Stato dell’Indiana, si stabilì a New York. Tra il 1951 e il 1996 depositò una ventina di brevetti

Angela Nocioni C’era una volta il pannolino per bambini: un bel triangolo di stoffa morbida e resistente da annodare sopra all’ombelico del bebè. Da lavare ogni volta che si sporcava. Cambia, smacchia, lava, stendi, ritira e stira. Cambia, smacchia, lava, stendi, ritira e stira. Cambia, smacchia, lava, stendi, ritira e stira.

All’inizio i manager la ricevevano e la ascoltavano volentieri ma non credevano nel suo progetto Stanca di fare la spola tra fasciatoio e lavandino, Marion Donovan – due figlie e un marito che, come gli altri, non considerava quel lavoro affare suo – continuava a domandarsi: esisterà un modo per avere sempre un pannolino fresco e profumato senza doverlo lavare? Lei, nata nel 1917 a Fort Wayne nell’Indiana, newyorkese d’adozione, era una signora laureata in Lettere, con una grande passione per l’architettura coltivata all’Università di Yale. Nel secondo dopoguerra, ai tempi dell’esasperazione per i pannolini da smacchiare ogni volta, lavorava per «Vogue», una delle più prestigiose e autorevoli riviste del mondo della moda. Ma era figlia di un inventore. Suo padre aveva ideato, insieme allo zio, un tornio industriale che serviva per frantumare sia gli ingranaggi delle automobili che le canne di fucile. Trovata che li fece ricchi entrambi. Il loro stabilimento «tritatutto» nell’In-

diana, la South bend tornio, lavorava senza sosta. Con l’idea fissa di liberarsi dal giogo del pannolino da lavare, Marion Donovan fece un primo passo. Cambiò il materiale del prodotto. Con un telo di plastica flessibile e una semplice imbottitura creò un pannolino abbastanza impermeabile da mantenere perlomeno i vestiti e le lenzuola asciutti. Facile: un pezzo di tenda da doccia e una macchina da cucire. Semplice a vederlo fatto, perché nessuno ci aveva mai pensato prima. Visto che il pannolino funzionava, pensò di venderlo. Girò un po’ a vuoto. Migliorò il prodotto. Invece delle spille da balia preferì fissare il pannolino al corpo del neonato con una chiusura a strappo. Cercò di arrivare ovunque per trovare un produttore, però nulla. Nel 1949 negli Stati uniti nessuno tra gli interpellati ritenne un pannolino impermeabile un prodotto interessante su cui investire. A quel punto Marion Donovan puntò al comparto del lusso. Offrì infatti il suo prodotto a una boutique della Fifth avenue, la Saks. La voce si sparse rapidamente e i nuovi pannolini andarono a ruba tra le signore di New York abbastanza ricche da potersi permettere di fare acquisti in quel negozio. Due anni dopo la signora dell’Indiana vendette il brevetto, per un prezzo altissimo, alla Keko corporation. Nel frattempo le venne un’altra idea, un’idea migliore. Per realizzarla le servivano però molti soldi. Era necessario coinvolgere un’azienda. Serviva un finanziatore. Marion Donovan utilizzò tutte le sue conoscenze nel jet set metropolitano per trovare chi le desse retta. Eppure niente. I manager

Un affare miliardario Ma quanto denaro produce il business dei pannolini per bambini? Il mercato mondiale di quelli «usa e getta» muove ogni anno 44 miliardi di franchi. L’industria dei pannolini (25 miliardi di pezzi monouso prodotti in Europa ogni anno) è florida. E quanti pannolini si utilizzano nel mondo? Si usano (e si buttano) almeno 100 miliardi di pannolini l’anno. In Italia, secondo l’Agenzia regionale per la protezione ambientale della Tosca-

na, se ne consumano oltre 2 miliardi l’anno. In Inghiterra 3, mentre negli Stati uniti 16 miliardi. Tutto materiale che avrà bisogno di qualche secolo per decomporsi. Un bambino usa in 3 anni circa 4500 pannolini monouso, pari circa a una tonnellata di materiale (10 alberi di grandi dimensioni). La questione dell’impatto ambientale dei pannolini è nota da tempo e ora sono in corso vari progetti di riciclaggio della cellulosa che li compone.

Chi non li usa? Le madri povere e le ecologiste più convinte. (Keystone)

delle grandi imprese la ricevevano, si complimentavano per il suo ardire, la ascoltavano volentieri. Spesso la corteggiavano – perché Marion Donovan era tra l’altro una donna bellissima e affascinante – ma poi alla proposta del «pannolino che non si doveva lavare» sorridevano increduli e alzavano le spalle. Un pannolino che non si lava? Ma a cosa servirà mai? Proprio non capivano. L’idea era geniale, una trovata mai venuta in mente a nessuno prima, radicalmente nuova. Marion Donovan proponeva di produrre con fogli di cellulosa pannolini che non soltanto fossero in grado di assorbire meglio di quelli di stoffa, ma che dovevano essere buttati nella pattumiera dopo l’uso. Inaudito, rivoluzionario. La signora aveva pensato all’«usa e getta». Il pilastro della società del consumo, l’architrave dell’immaginario postbellico di un progresso economico rapido, senza freni e, allora si pensava, pure senza costi. L’immaginario allegro e spensierato del boom economico. L’inventrice ci mise dieci anni a far capire che quello era il futuro. Lo comprese la Procter&Gambles che produsse e mise in commercio il pannolino «usa e getta». Lo chiamò «Pampers». I «Pampers» servirono a liberare dall’incombenza di smacchiare e lava-

Marion Donovan era figlia di un inventore.

re i pannolini milioni di esseri umani, quasi esclusivamente di sesso femminile, perché il lavoro di cambiare i neonati è sempre stato considerato – in ogni dove, almeno fino a qualche anno fa – una faccenda da mamme più che da papà. Adesso che è tramontata, da questa parte di mondo e perlomeno in teoria, l’idea – dura a morire – che la questione pannolino non riguardi i padri, si è aperta tutt’altra questione. L’«usa e

getta» inquina. Sì, certo. Però libera dal lavoro anche. Così adesso ci sono due insiemi di persone che non usano il pannolino monouso: il primo comprende milioni di madri povere che nemmeno si sognano esista, il secondo un relativamente limitato numero di famiglie che preferiscono non adoperarli. Una scelta dettata dalla volontà di assumere comportamenti sostenibili per l’ambiente. Comunque Marion Donovan non si limitò a inventare i pannolini monouso, dal 1951 al 1996 depositò una ventina di brevetti. Fu lei a produrre un prototipo di assorbente femminile «usa e getta» liberando milioni di donne dalla scomodità del cotone arrotolato. Si attribuisce a lei anche l’invenzione dell’apertura dei pacchetti dei fazzoletti «Kleenex», dei gancetti per le calze autoreggenti, del filo interdentale, del distributore di asciugamani di carta e di un tipo di divisore di spazi per gli armadi. Marion Donovan è morta il 4 novembre 1998, a 81 anni, al Lenox Hill Hospital di Manhattan. A lei va l’eterna gratitudine di tutti quelli che, pur consapevoli della necessità di rispettare l’ambiente e di combattere la crociata contro le borse di plastica, non intendono rinunciare all’idea semplice e geniale del pannolino «usa e getta». Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi La politica del «prima i nostri!» non funziona I dati sull’evoluzione dell’occupazione nell’ultimo trimestre del 2020 sono stati accolti con sorpresa da diversi commentatori ticinesi. Questo perché di fronte a una diminuzione dell’occupazione totale pari al 4,4% (rispetto al quarto trimestre del 2019) si è registrato un aumento dei frontalieri occupati di circa 800 unità, ossia di circa l’1%, in netto contrasto con l’obiettivo della politica «prima i nostri!». Chiamati a spiegare questa evidente contraddizione, i responsabili dell’amministrazione cantonale hanno soprattutto insistito sul fatto che i due dati – quello per l’occupazione totale e quello per i frontalieri – provengono da due statistiche diverse e quindi, di per sé, non dovrebbero essere confrontati. E noi potremmo essere d’accordo con loro. Solo che,

in Ticino, e per fortuna solo in Ticino per il momento, vige una norma costituzionale che obbliga i datori di lavoro a privilegiare nelle assunzioni la manodopera locale e quindi il confronto – indipendentemente dalla natura e dalla qualità delle fonti statistiche – si impone da sé. Per essere più precisi la prima reazione quando la congiuntura non tira e l’occupazione diminuisce, è quella di pensare che, in forza del principio «prima i nostri!», prima dovrebbero diminuire i frontalieri e poi i domiciliati nel Cantone. Così la pensano in molti e tra di essi la maggioranza dei commentatori dei nostri media. Purtroppo, però, sul mercato del lavoro ticinese le cose sono più complicate perché la popolazione attiva residente è in diminuzione da almeno 4 anni cioè, guarda caso,

proprio da quando è stato introdotto il principio «prima i nostri!». Come si sa, la votazione su questo principio risale al settembre 2016. Allora il mercato ticinese del lavoro impiegava 115’600 svizzeri, 52’900 stranieri domiciliati e 65’000 frontalieri. Da allora e fino al 2019 l’occupazione totale in Ticino è aumentata ma solo grazie all’aumento del contingente di lavoratori frontalieri. Nel 2019, infatti, in Ticino lavoravano 112’000 svizzeri, 52’600 stranieri domiciliati e 69’300 frontalieri. Complice la pandemia, l’occupazione totale nel 2020 è diminuita in Ticino del 4,4%, ossia di qualcosa come 10’300 posti (dati del quarto trimestre). I frontalieri sarebbero aumentati invece di circa 800 unità. Questo significa che l’effettivo formato dai lavoratori svizzeri e dai lavoratori

stranieri domiciliati sarebbe diminuito di circa 11’100 unità. Per fortuna esiste il principio «prima i nostri!» commenterà con sarcasmo qualcuno. Certo è che nella legislazione ticinese degli ultimi 50 anni esistono pochi altri esempi di grida spagnole, ossia di leggi non applicate – o piuttosto non applicabili – come quella che protegge l’occupazione locale. Perché sosteniamo che questo principio è inapplicabile nelle condizioni attuali del mercato del lavoro ticinese? Supponendo che i dati da noi utilizzati siano attendibili (supposizione che per l’esistenza di diverse fonti potrebbe rivelarsi sbagliata), possiamo pensare che la diversa evoluzione dei contingenti di lavoratori domiciliati nel Cantone (svizzeri e stranieri) e dei frontalieri sia dovuta al fatto che i primi possie-

dono un tasso di attività relativamente alto, sono influenzati dal fenomeno dell’invecchiamento e possiedono un saldo migratorio negativo. Per effetto di queste tre concause è praticamente impossibile aumentare ulteriormente il loro livello di occupazione. In effetti, come si è già ricordato, l’offerta di lavoro locale è, da qualche anno, in diminuzione. Il fenomeno è relativamente nuovo e ancora mal conosciuto. Non è possibile giudicare, attualmente, se sia destinato a cambiare di segno nel medio termine. Aspettiamo con interesse i risultati dei chiarimenti promessi dall’Amministrazione cantonale. È infatti importante capire bene perché il principio «prima i nostri!» non funziona. Altrimenti questa politica rischia di diventare una farsa.

lui chiede informazioni che peraltro non gli vengono fornite e il magistrato Azibert non ha mai ottenuto il posto prestigioso di cui si parla tanto. In questo, secondo Sarkozy, sta l’ingiustizia e la molestia. «Provate a ricordare le vostre ultime 4500 conversazioni telefoniche», ha detto guardando in camera e rivolgendosi a tutti i francesi. «Io le prendo, ne ascolto una parte, ne traggo conclusioni», l’esito non può che essere parziale. «Sono venuto a parlare ai francesi», ha detto. «Sono un uomo che si è sempre assunto le proprie responsabilità, non chinerò la testa. Mi accusano di cose che non ho commesso, è un’ingiustizia, mi batterò fino a che la verità non trionferà». Il passo successivo è: non pensate, dice l’ex presidente, che questa condanna riguardi soltanto me, perché ci riguarda tutti, se accade un abuso di questo genere a me, può accadere a tutti. I commentatori francesi sottolineano il tono battagliero di Sarkozy, raccontano di come tutto il suo entourage, a partire dalla moglie Carla Bruni, costruisca passo dopo passo la storia dell’ingiustizia giudiziaria subita. Ma come spesso

accade con gli «ex», e ancor più con uno come Sarkozy controverso da sempre, le reazioni hanno a che fare con il giudizio politico o con l’ideologia. Troppe cose losche perché non ci sia una colpa, dicono i suoi detrattori, che sono tantissimi. C’è anche un pregiudizio nei confronti del modo con cui la Destra gollista gestisce il potere, visto che finora l’unico ex presidente ad essere stato condannato (per fatti avvenuti quando era sindaco di Parigi, ma pazienza) era Jacques Chirac, per appropriazione indebita di fondi pubblici e abuso di potere. Più recente è poi stata la spettacolare caduta del candidato dei gollisti alle presidenziali del 2017, François Fillon, che era dato per vincitore sicuro e che collassò sotto a un scandalo che era partito con le spese folli in abiti di sartoria. L’uscita dai giochi di Fillon aprì la strada a Emmanuel Macron, che vinse le elezioni. Il tormento dei gollisti, che oggi si chiamano Républicains, è ancora in corso. La condanna di Sarkozy lo riaccende e forse lo indurisce, ma la questione è politica, non personale. Sarkozy ha detto che la sua stagione politica è già conclusa, «ho girato pagina», e che

quindi non ha intenzione di fare politica attiva, anche se si riserva di esprimere pubblicamente la propria preferenza per il voto del prossimo anno. I Républicains non hanno ancora un candidato, si ammonticchiano nomi di funzionari dal peso leggero, mentre il dibattito a Destra è interamente gestito dal Rassemblement national di Marine Le Pen, sfidante unica al momento di Macron con l’obiettivo di coagulare attorno a sé tutto il conservatorismo francese. In questo schema che pare identico al 2017 c’è però un «game changer»: Michel Barnier, ex ministro ed ex caponegoziatore per gli europei sul dossier Brexit. Il suo incarico a Bruxelles è finito, Barnier è tornato in Francia con un carico di autorevolezza notevole. Al momento si lascia corteggiare, il suo nome rimbalza sulla bocca di tutti come il possibile salvatore di una Destra che vuole trovare un suo baricentro e che considera un’ingiustizia non tanto la condanna di Sarkozy, quanto il perimetro politico che ha preso la politica francese: Macron né di Destra né di Sinistra, Le Pen di Destrissima e un posto sempre più angusto e scomodo per i gollisti.

da forti indebitamenti che trasmetteranno precarietà e crolli alle casse statali e comunali. A recare pressioni al rallentamento congiunturale già in atto, a impedire che il debito che ha aiutato contro il virus soffochi ripresa e progetti di crescita, contribuirà quasi certamente anche il senso di impotenza che un microcosmo come il nostro (ticinese ma anche elvetico) avverte al cospetto di scelte o mutamenti epocali che dipendono da strategie geopolitiche o rapporti internazionali. Senza dimenticare i prevedibilissimi ostacoli di chi, dimenticando le crisi preesistenti e il fatto che le certezze del «respiro breve» raramente aiutano a programmare il «lungo periodo», a ripresa e rinnovamento preferirà un meno impegnativo ritorno all’antica normalità. Una cosa è sicura: le sfide più delicate sono legate alla capacità che avremo di uscire al più presto dalla cultura del sussidio e dell’aiuto «à la carte». In primo luogo occorrerà un sostegno corale per puntare a una rinascita che tenga in

considerazione anche vie di sviluppo considerate nuove (mobilità sostenibile, digitalizzazione spinta, economia verde ecc.) poste in evidenza e valorizzate dalla pandemia. In secondo luogo, oltre al consenso, sarà indispensabile un’intesa tra forze politiche e classe dirigenziale del Paese a sostegno delle future prospettive di sviluppo, in modo che popolazione attiva (lavoro) e generazioni future (socialità e formazione) riescano a passare dal buio alla luce, cioè a uscire dal disorientamento e a trovare slanci di ripartenza. Ignorare questi scenari, non tener conto che la luce oltre il tunnel, sbandierata, più che un ritorno alla libertà e una fine delle preoccupazioni, in realtà segnerà l’inizio di un immane impegno per classe dirigente (politica e imprenditoriale) e popolazione tutta, non è consigliabile. Sarebbe oltremodo increscioso, dopo un anno da «talpa», non riuscire a «vedere» e a evitare le fauci dei gattopardi che, a parole, sperano che tutto cambi solo perché tutto possa rimanere com’è sempre stato.

Affari Esteri di Paola Peduzzi Sarkozy e il tormento dei gollisti Ha aspettato appena poche ore Nicolas Sarkozy per reagire a quello che lui definisce «un abuso», «una molestia». Con un articolo su «Le Figaro» e un’intervista durante il telegiornale delle 20 di Tf1, l’ex presidente francese ha detto: mi batterò fino alla fine, questa ingiustizia sarà rimediata. Sarkozy, 66 anni e presidente per un solo mandato, dal 2007 al 2012, è stato condannato in primo grado a 3 anni (di cui uno da scontare in carcere) per corruzione e traffico di influenze. Le accuse si riferiscono a fatti accaduti nel 2014, quando secondo alcune intercettazioni telefoniche reperite dagli inquirenti, l’ormai ex presidente cercò di ottenere informazioni riguardo a un’altra inchiesta che lo riguardava, e che è ancora in corso, sui finanziamenti illeciti della sua campagna elettorale vittoriosa del 2007. Quando sentite o leggete della «liaison» tra Sarkozy e l’ex rais libico Muammar Gheddafi pensate a questa indagine sui finanziamenti. La recente condanna coinvolge invece altre due persone. La prima è l’ex magistrato Gilbert Azibert, a cui Sarkozy telefonava per avere informazioni dandogli in cambio un prestigioso incarico a Mo-

naco, il quale è stato condannato a sua volta a 3 anni per corruzione passiva e interdetto dalla pratica professionale per 5. Stessa pena è toccata all’avvocato di Sarkozy, Thierry Herzog, condannato per corruzione attiva e violazione del segreto professionale. Sarkozy considera la condanna «un’ingiustizia profonda». «Non c’è lo straccio di una prova», ha detto su Tf1: secondo lui ci sono frammenti di conversazioni in cui

L’ex presidente Nicolas Sarkozy. (Shutterstock)

Zig-Zag di Ovidio Biffi Fuori dal tunnel con occhi di talpa Si rinnovano gli annunci di chi vede una luce in fondo al tunnel pandemico. Come nella favola dell’«al lupo, al lupo!», c’è da temere che, invece di fugare le paure, facciano crescere le incertezze e affinino i timori. In parallelo abbondano anche interpretazioni e indicazioni, ma leggendole si capisce soprattutto che il buio lo stanno pesantemente subendo anche coloro – politici, filosofi, economisti ecc. – che, volendo chiarire cosa arriverà dopo la pandemia, non si azzardano ad andare oltre la fine dei lunghi viaggi o a prevedere pericoli di bolle e inflazione. Personalmente mi limito a seguire il sociologo tedesco Hartmut Rosa, semplicemente perché, coerente con quanto ha predicato in passato («Risonanza come concetto chiave di una nuova teoria sociale»), oggi ammette che «nessun modello sociologico, economico o futurologico è in grado di prevedere come andranno a finire le cose (…) perché l’esito non dipende dal nostro sapere, ma dalle nostre azioni». Tranquilli: volendo parlare

di post-pandemia, più che dissertare su teorie o passare in rassegna quanto propongo i più illustri futurologi, preferisco ammettere subito che la spinta mi giunge dai narcisi sbocciati davanti a casa mia anche quest’anno. Significa che torna la primavera e ci porterà comunque un sano afflato di rinascita, riuscendo a scuotere anche cuori appesantiti da divieti, rinunce, falsi annunci, paure, lutti e costi che senza soste hanno segnato un anno in stand-by negativo. Niente rosario di teorie sul futuro che ci attende, provo allora a cercare qualche risposta a una domanda molto semplice: cosa troveremo dopo un anno che la pandemia sanitaria, avviluppandosi e riprendendo forza, ha zavorrato pesantemente quasi tutte le attività anche nel nostro Cantone? Inizio da una chiara indicazione tratta dall’ultimo rapporto del Censis italiano: nei lunghi mesi di attraversamento del tunnel pandemico abbiamo dovuto imparare a guardare alla quotidianità e agli avvenimenti con «occhi di talpa».

E, dopo mesi trascorsi in «lockdown» (al buio proprio come talpe) – aggravato dalla dipendenza a tratti quasi totale da una classe politica impegnata a combattere la pandemia e a garantire una continuità più o meno sicura alla popolazione tutta – di sicuro ora faticheremo non poco ad abituarci alla luce (libertà) o anche solo a mettere a fuoco un paesaggio (società ed economia) profondamente mutato. Dovremo perciò preoccuparci di «vedere bene» il nuovo panorama, prima ancora di pensare a scelte e progetti su come muoversi per rimettere in moto il Paese. Magari impegnandoci un po’ tutti a combattere l’ignavia e le dipendenze (cioè il buio) a cui l’emergenza Covid ci ha abituati. Comunque davanti ai nostri «occhi di talpa», all’uscita dal tunnel troveremo un panorama con ambienti e paesaggi del vivere non solo segnati dalle emergenze imposte dalla pandemia, da prolungati stop alle attività personali e collettive, ma anche indeboliti da tagli e incertezze occupazionali, resi instabili


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 marzo 2021 • N. 10

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Idee e acquisti per la settimana

Devo lavare l’abbigliamento sportivo dopo ogni allenamento?

Sì. Idealmente dopo ogni allenamento. Se i capi rimangono a lungo nella cesta del bucato, i residui di deodorante, profumo e sudore si fissano sulle fibre, e con essi i cattivi odori. Se alla sera non è più possibile fare il bucato, sciacquare l’abbigliamento sportivo con dell’acqua calda e un detersivo delicato. Strizzare bene e appendere sullo stendibiancheria. Il giorno seguente lavare in lavatrice, meglio se con un detersivo per capi sportivi.

La vittoria del pulito! L’abbigliamento sportivo dovrebbe mantenere le sue funzioni a lungo, avere un aspetto nuovo e profumare di pulito. Determinante è come viene lavato. Le domande e risposte più importanti Testo: Heidi Bacchilega

Come posso togliere le macchie ostinate, come per esempio quelle di erba, dai capi sportivi?

Trattare la macchia con del succo di limone e lavare. Oppure spruzzarla con del detergente pretrattante. In caso di macchie d’erba vecchie si consiglia di utilizzare un detergente pretrattante e sapone di fiele. Lavare in seguito in lavatrice come di consueto.

Possono lavare in lavatrice le scarpe da ginnastica?

Ni. I produttori lo sconsigliano, perché la colla potrebbe staccarsi. Spesso è semplicemente sufficiente lavare la soletta interna. Chi volesse comunque provare, dovrebbe lavare le scarpe a 30 gradi insieme alla biancheria di spugna, utilizzando assolutamente un detersivo per delicati e una bassa velocità di centrifugazione. In seguito imbottire le scarpe con della carta da giornale e lasciar asciugare. La biancheria di spugna deve poi essere rilavata.

Come posso togliere l’odore di sudore ostinato dalla maglietta sportiva?

Lasciare in ammollo per tutta la notte la maglietta in una soluzione con detergente di aceto di mele MigrosPlus (2 dl di detergente per 10 litri di acqua). Lavare in seguito con un detersivo speciale per neutralizzare gli odori.

Qual è la temperatura ideale?

Lavare l’abbigliamento sportivo al massimo a 30-40 gradi. Chi possiede una lavatrice con programmi speciali come “Delicati”, “Sport” o “Mix”, dovrebbe utilizzare questi. Altrimenti scegliere semplicemente una bassa temperatura e ridurre la velocità della centrifuga: massimo 800 giri.

Posso lavare l’abbigliamento sportivo insieme al cotone?

No. I capi funzionali non dovrebbero essere lavati con quelli di cotone, perché i residui di fibre naturali possono limitare la funzione delle fibre sintetiche. Anche gli indumenti in materiali grezzi come jeans o con cerniere potrebbero danneggiare la struttura dell’abbigliamento sportivo.


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Cosa indosso per lo sci di fondo? N OV I TÀ La nuova tecnologia neutralizzaodori permette di neutralizzare i cattivi odori e il bucato profuma di nuovo meravigliosamente di fresco. Indicato soprattutto per i capi sportivi e sintetici. Le multicaps anti-odore di Total eliminano inoltre anche le macchie ostinate.

Posso aggiungere un pò di ammorbidente ai capi sportivi?

No. Il nemico di tutti i capi sportivi e l’ammorbidente. Incolla la struttura del tessuto e riduce la traspirabilità del materiale. La maglietta rimane sgradevolmente bagnata. Dopo un lavaggio con l’ammorbidente la t-shirt o gli short non sono però rovinati per sempre. L’ammorbidente si dissolverà dopo alcuni lavaggi.

Total Multicaps Anti-Odori 22 Caps, 528 g Fr.6.45* invece di 12.95

C O M P R OVATO Come lavo le calze sportive?

Le calze sportive, in particolare quando contengono della lana, dovrebbero essere lavate con un detersivo per la lana a 30 gradi. Per le calze sportive bianche di cotone meglio a 40 gradi con una lisciva sbiancante (per capi bianchi).

Il detersivo Yvette Outdoor + Sport ha due funzioni: protegge la membrana dei capi funzionali e, grazie alla tecnologia anti-odori integrata, gli odori sgradevoli scompaiono. Il suo profumo dona una piacevole freschezza.

Come lavo l’abbigliamento sportivo con lana merino?

Ad una temperatura tra i 30 e 40 gradi a mano o con un programma per lana. Assolutamente utilizzare un detersivo per lana (Yvette Care). Attenzione: all’acquisto di un detersivo verificare che sia indicato per la lana. I detersivi per la lana non contengono proteasi. Questo enzima scinde le molecole proteiche della lana merino, danneggiandola (buchi).

Yvette Outdoor + Sport 2 l Fr.11.50

* Azione 50% all’acquisto di due detersivi Total dal 9 al 15 marzo

Per non surriscaldarsi né raffreddarsi durante lo sci di fondo, è importante scegliere un abbigliamento funzionale elastico e traspirante in fibra sintetica o lana merino. Ideale sarebbe vestirsi secondo il principio della cipolla, adattandosi alle condizioni climatiche. Primo strato: biancheria funzionale di materiale regolatore dell’umidità, in modo che il sudore possa essere assorbito; secondo strato: maglie con zip, in modo che la temperatura del corpo posa essere regolata; terzo strato: giacca e pantaloni antivento.



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Cultura e Spettacoli Note struggenti Con Wednesdays a Ryan Adams, ex Whiskeytown, è riuscito un album degno di nota pagina 34

Una Berlinale molto densa Pochi giorni, meno film: quest’anno si è deciso di puntare soprattutto sulla qualità, come dimostrano anche i film svizzeri

Biancaneve&Co. reloaded Emma Dante rivisita le fiabe classiche (e un pizzico maschiliste) che ci hanno cresciute pagina 37

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L’avvento delle nuove tecnologie mette a repentaglio la lingua islandese. (Keystone)

Le insidie della profetessa dei numeri Progetti linguistici L’Islanda unisce migliaia di voci per salvare la lingua dalla «morte digitale» Irene Peroni Chissà che faccia avrà fatto Bob Chapek, amministratore delegato della Walt Disney Company, quando all’inizio di febbraio si è ritrovato sulla scrivania una lettera su carta intestata firmata della ministra dell’istruzione islandese, Lilja Aldredsdóttir, che gli rivolgeva un accorato appello. «La nostra lingua è il nocciolo della cultura e dell’identità del nostro popolo», spiegava la ministra, che si diceva «delusa» che i film per bambini e ragazzi trasmessi dalla Disney +, piattaforma di video in streaming lanciata in Islanda un paio di mesi prima, non fossero né doppiati, né sottotitolati in islandese. Sembra paradossale ma la lingua dei vichinghi, sopravvissuta indenne per più di mille anni, rischia ora di essere messa in ginocchio da videogiochi e canali digitali «on demand» – soprattutto considerato che il 58% dei bambini al di sotto dei due anni già utilizzano smartphone, tablet o computer, come ha rivelato uno studio della University of Iceland. «Mio figlio Sigurður ha ricevuto la Playstation 5 soltanto qualche mese fa;

da allora ha preso l’abitudine di parlare un misto di islandese e inglese quando gioca con i suoi amici», spiega Sólveig Kristín Sigurðardóttir, ingegnere civile di Reykjavík. «E il fratello minore, Þórdís, di otto anni, fa la stessa cosa: ripete in inglese frasi apprese dai suoi youtubers preferiti», racconta. «Quando li correggo si straniscono e mi dicono: “dài mamma, quanto sei all’antica!”». Il fenomeno è noto a livello mondiale, e per quanto riguarda l’Europa minaccia svariate altre lingue, sia regionali che nazionali. Tra queste ultime figurano lettone, lituano, gallese e maltese. Ma gli islandesi sono stati particolarmente caparbi nel preservare la propria, e ne vanno orgogliosi. Basti pensare che ancora oggi utilizzano due lettere dell’antico alfabeto runico: la Þ e la ð, che equivalgono ai due suoni, rispettivamente duro e morbido, del «th» inglese. E così il governo di Reykjavík è corso ai ripari, finanziando lo sviluppo di un software che riesca a capire e parlare l’islandese. «Stiamo implementando questo programma tecnologico per salvare la nostra lingua dalla morte digitale:

mi riferisco all’onnipresenza dei dispositivi digitali nella nostra vita quotidiana, e al fatto che non possiamo usarla quando comunichiamo con e attraverso queste tecnologie», ci racconta Jóhanna Vigdís Guðmundsdóttir, direttore esecutivo di Almannarómur, il centro per le tecnologie linguistiche in Islanda. «Poiché si tratta di una lingua parlata soltanto da 350mila persone, creare una simile infrastruttura per un mercato così limitato non è redditizio; e dunque per noi è stato subito chiaro che avremmo dovuto farlo da soli», spiega. L’idea sembra infallibile: chiunque voglia commercializzare un prodotto digitale per il mercato islandese, troverà a propria disposizione un patrimonio tecnologico di alta qualità e con licenza libera, pronto a essere utilizzato. E ciò riguarda anche colossi quali le case produttrici dei telefoni Android e la Apple. Migliaia di cittadini, compresi gli alunni delle scuole, hanno collaborato con entusiasmo a questo sforzo collettivo, una vera e propria raccolta di voci, pronunce e accenti: basta recarsi sul sito web samromur.is, e registrarsi mentre si legge una frase o un breve testo. In meno di un anno e mezzo sono

stati raccolti più di un milione di campioni vocali. Ma perché i software di riconoscimento vocale sono così cruciali per quanto riguarda la sopravvivenza di alcune lingue? Già oggi, i nostri smartphone sono dotati di assistenti virtuali, come Siri, la primogenita, creata per l’iPhone nel 2011. Secondo gli esperti del settore, nei prossimi anni i comandi vocali diventeranno onnipresenti nel nostro quotidiano. Li useremo per attivare e regolare ogni tipo di apparecchi domestici, per interagire con la nostra automobile e perfino per svolgere operazioni sul nostro conto in banca. È ovvio che ciascuno vorrebbe farlo nella propria lingua, sempre che il software sia in grado di capirla. E qui entrano in ballo le lingue minori: per quelle parlate da poche migliaia di persone, si prospetta il rischio di dover impartire i comandi in inglese o in un’altra tra le lingue più diffuse. Forse gli islandesi ci avevano visto giusto fin dagli albori dell’era digitale. Quando nel lontano 1964 giunse a Reykjavik il primo computer, lo ribattezzarono tölva, crasi di tala (numero)

e völva, una profetessa dell’antica mitologia nordica. Per i moderni vichinghi il computer è dunque «la profetessa dei numeri», e l’email (tölvupóstur) è «la posta della profetessa dei numeri». Negli ultimi anni però, questo purismo linguistico sta mostrando delle crepe profonde. Dopo il crack economico del 2008 e il conseguente crollo della corona islandese, si è assistito a un’enorme crescita del settore turistico visto che i prezzi, un tempo assolutamente proibitivi, sono diventati più abbordabili. Insieme ai turisti (oltre due milioni l’anno prima che scoppiasse la crisi del covid) sono arrivati molti lavoratori stranieri, ed è diventato necessario rendere più decifrabili scritte e menù di vario genere. Jóhanna Vigdís Guðmundsdóttir rimane ottimista sulla riuscita del progetto, e conclude ricordando che essere troppo rigidi può essere controproducente, e che è importante coinvolgere tutti: «Siamo molto orgogliosi della nostra lingua e delle sue radici, ma dobbiamo anche assicurarci di essere inclusivi. La lingua non dovrebbe mai essere utilizzata per definire un “noi” e un “loro”: le lingue devono unire, non dividere».


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Cultura e Spettacoli

Struggente Ryan Adams

Musica Dopo i guai legali del 2019, la rockstar statunitense pubblica a sorpresa

uno degli album rimasti nel cassetto

Benedicta Froelich Il tanto temuto piattume creativo che, a parere dei critici statunitensi, rischiava di sommergere l’ambito rock del nuovo millennio, ha fatto sì che, da una ventina d’anni a questa parte, molti giovani virgulti siano stati salutati come grandi promesse della scena musicale a stelle e striscie – a volte prematuramente. A Ryan Adams, ex frontman della rock band alternativa dei Whiskeytown, è toccata questa sorte: nel giro di pochissimo tempo, il giovane performer, originario del North Carolina, si è infatti conquistato la fama di cantautore sensibile e raffinato, principalmente grazie al grande successo dell’esordio solista Heartbreaker (2000). Negli anni a seguire, la sua carriera si è snodata rapidamente, seppur tra alti e bassi – passando dal buon riscontro di dischi come Gold (2001) e Ashes & Fire (2011) a scelte bizzarre quali l’album 1989, tributo all’omonimo lavoro di Taylor Swift – fino ad arrivare, nel 2019, allo scandalo: le solite accuse di molestie (in questo caso, psicologiche), che sembrano ormai costituire l’immancabile corredo di ogni celebrità statunitense hanno bloccato per circa un anno l’attività discografica di Adams; almeno fino a quando l’artista non ha deciso di pubblicare questo nuovo Wednesdays, da tempo annunciato ai fan e oggi infine disponibile sul mercato. E si tratta in effetti di un album riflessivo e intimista, quasi sottotono, soffuso di emozioni delicate quanto profonde: anche se bisogna dire che, fin dalla title track, l’intero CD sem-

bra suonare come una sfacciata combinazione tra due album di culto degli anni 70 quali il dylaniano Blood on the Tracks e il celebre Harvest di Neil Young. Ciò appare particolarmente evidente in brani minimalisti quali Walk in the Dark e So, Anyways – tanto da poter affermare che l’unico tratto davvero personale risiede nel sapore smaccatamente country delle slide guitars di Adams, soprattutto considerando come anche le ballate romantiche I’m Sorry and I Love You e Lost in Time ricalchino da vicino il sound del già citato Neil Young, da sempre vero mentore di Ryan.

Il nuovo disco del cantautore è riflessivo e intimista, anche se non sempre brilla per originalità Eppure, nonostante la relativa mancanza di originalità riscontrabile lungo l’arco della tracklist, non si può negare la forte carica emotiva di cui ognuno di questi brani è permeato; tanto che Wednesdays si potrebbe davvero definire, secondo un termine molto caro alla critica americana, come un «emotionally charged album». Un aspetto evidente anche nell’insistenza di Adams a indugiare in sonorità acustiche delicate e suadenti, tipicamente country ma anche caratteristiche di un certo soft rock cantautorale (un nome su tutti, l’irlandese Damien Rice, che potrebbe tranquillamente essere l’autore del lento

When You Cross Over, qui interpretato da Ryan con particolare grazia, e perfino con l’ausilio di un’armonica ad adornarne il finale). Lo stesso spirito che si ritrova in altri brani fortemente romantici quali gli struggenti Poison & Pain e Lost in Time, amare riflessioni sulla solitudine. Del resto, il tema portante, il fil rouge che lega tra loro le tracce di Wednesdays, sembra essere quello del rimpianto: un rimpianto costante, lacerante e onnipresente, proprio come un dolore fisico – quel rimpianto che si può provare soltanto davanti alla perdita di una persona amata. Perdita che Adams esplora in tutte le sue possibili sfumature, attingendo a piene mani all’autobiografia (il divorzio dall’ex moglie Mandy Moore e i recenti lutti famigliari): si passa così dalle riflessioni sulla fine di una storia d’amore (Who Is Going to Love Me Now, If Not You), all’addio a qualcuno di passaggio dalla dimensione fisica a quella ultraterrena (il già citato When You Cross Over), fino all’inaccettabile morte di un fratello amato (l’autobiografica e straziante ballata Mamma, dalle sonorità à la John Denver). Così, le uniche tracce in grado di offrire suggestioni meno malinconiche e più uptempo sono la trascinante Birmingham e la vagamente speranzosa Dreaming You Backwards (che non a caso chiude il disco). Certo, per quanto riuscito, questo Wednesdays tende a confermare quelli che da sempre sono i limiti più evidenti del Ryan Adams solista, i quali si fanno qui particolarmente preponderanti – su tutti, l’eccessivo debito verso il cantautorato anglo-

L’album era annunciato da tempo.

americano degli anni 70, e un debole un po’ troppo dichiarato per un timbro vocale che, seppur efficace dal punto di vista del coinvolgimento emotivo, tende a risultare infine ripetitivo (come, del resto, hanno lamentato diversi fan della «vecchia guardia» all’ascolto di questa nuova fatica del loro eroe). Tuttavia, laddove personalità ed estro creativo appaiono cedere davanti al prepon-

derante «effetto dejà-vu», ecco che a sopperire alla mancanza di sorprese giunge l’evidente dedizione di Ryan nel dipingere semplici, eppure intensi affreschi dell’animo umano, qui analizzato nelle sue più malinconiche sfumature; ed è proprio questo, in fondo, a nobilitare l’album, facendo di Wednesdays un efficace quanto struggente compendio del concetto di perdita e lutto.

Il signore della musica di Montecastelli

Incontri A colloquio con Philipp Bonhoeffer, il medico ora liutaio che ha trasformato la torre romanica

di Montecastelli in una sala concerti Giovanni Gavazzeni Un Belpaese tra le verdi colline della Val di Cecina, all’incrocio fra le antiche Repubbliche di Pisa e Siena. La strada che risale dal Mar Tirreno rivela come a D’Annunzio nel romanzo Forse che sì forse che no: «dietro una calva collina di marna gessosa, su la sommità del monte come su l’orlo d’un girone dantesco, (…) il lungo lineamento murato e turrito», la meravigliosa Volterra. Una strada punteggiata di fumarole, boschi, fattorie, casali, che incontra vichi come Montecastelli Pisano, un arco di case rustiche raccolte attorno a un castello medioevale.

Qui un viandante nato a Tubinga si è fermato per coltivare la predominante passione musicale. Philipp Bonhoeffer ha trasformato la torre romanica di Montecastelli, appartenente alla famiglia senese dei Pannocchieschi e l’adiacente chiesa diruta, in una sala da concerti, utile per studio, registrazioni e masterclass. Ospiti e indigeni hanno portato nella piccola sala 99 sedie diverse: c’è quella in ghisa e pelle di un barbiere e una semplice thonet, c’è quella portata da un premio Nobel e quella di una vicina di casa: tutti trovano posto per ascoltare meraviglie della letteratura cameristica eseguite da professionisti esperti, dilettanti e giovani promesse.

L’antico borgo di Montecastelli, in Toscana. (Wikipedia)

Il magister di casa, Philipp Bonhoeffer, ha iniziato a frequentare Montescastelli da studente: allora nel casolare di famiglia non c’erano né luce elettrica, né acqua corrente. Frequentava i corsi di medicina a Milano e Pavia, perché in Italia non c’era il numero chiuso come in Germania. Imparava la lingua italiana negli anni di apprendistato a Bergamo, accolto come il «5° figlio», da un pioniere della cardiochirurgia infantile, Lucio Parenzan, maestro poco convenzionale, originale, stimolante. «La sistematicità tedesca non mi calza; mi piace rompere le regole», afferma Bonhoeffer. Regole come quelle che immaginano scienza medica e arte dei suoni appartenenti a galassie distanti. Bonhoeffer, come molti tedeschi provenienti da famiglie della borghesia colta ha imparato a suonare fin da piccolo uno strumento (il violino), maturando nel corso degli anni il desiderio di scoprire i segreti di quella misteriosa scatola sonora. A Montecastelli ha impiantato un laboratorio di liuteria dove ha la libertà di sperimentare, «di commettere errori», perché la sua non è un’attività commerciale, ma filantropica: gli strumenti non vengono venduti, ma affidati gratuitamente a giovani solisti. Così si può permettere di non seguire i dogmi della liuteria, a partire dal provare ad assemblare legni diversi dagli abeti cresciuti in altitudine e al freddo della Val di Fiemme come vuole il mito Stradivari, tenendo presente che il periodo che ha prodotto i

peggiori strumenti (fine Ottocentoprimi Novecento) è stato quello che si era documentato di più. D’altronde Bonhoeffer appartiene a una famiglia straordinaria che proprio non seguendo le «regole» ha lasciato un esempio imperituro: due fratelli del nonno erano il teologo Dietrich e il giurista Klaus Bonhoeffer, figure luminose della Resistenza antinazista, maturata fin dagli anni del liceo a Berlino e consolidata con il matrimonio della sorella Christel Bonhoeffer con Hans von Dohnanyi (figlio del compositore Erno e padre del noto direttore d’orchestra Christoph), funzionario del Ministero della Giustizia, ritenuto la mente dell’Operazione Valchiria, la congiura per uccidere Hitler passata alla storia con il nome del conte Claus von Stauffenberg. Uomini che pagarono con la propria vita il coraggio eccezionale di aver cercato di fermare il Tiranno genocida (Dietrich fu impiccato nel campo di concentramento di Flossenburg tre settimane prima del suicidio di Hitler; Klaus fu assassinato a Berlino due settimane dopo). Anche chi come il nonno di Philipp «aveva dovuto pensare ai figli, a proteggere la famiglia», condivideva i principi dell’attività pericolosissima dei fratelli, pur limitandosi a commentare quello che succedeva ogni giorno, quando dalla sera alla mattina non avevi più casa o qualche amico o parente era stato ucciso al fronte. Philipp Bonhoeffer, dopo una

vita passata in due continenti come cardiologo, già inventore di una pionieristica tecnica che ha aperto la via all’installazione non invasiva di valvole cardiache (senza dover aprire il torace), insegue la bellezza fonica di uno strumento che nasce dalle sue mani e stimola una ricerca senza fine. Sostiene che come il suono giunge alla coscienza dopo un processo di miscelazione di impulsi ottici, acustici e olfattivi, così anche uno strumento e il suo suono sono qualcosa che nasce dalla «riunione dei sensi». Una bellezza non sterile che promette di fertilizzare altri luoghi della Val di Cecina. Dopo il recupero architettonico si immagina Montecastelli come scena per allestire opere che possono essere filmate come in un teatro naturale. Magari mostrando tutte le fasi di costruzione: gli ingranaggi, dalle scene alle prove musicali, all’esecuzione. «L’interesse del musicista deve essere al centro, perché deve trovare quello che cerca nella pace di questi luoghi. Non ci sono biglietti da emettere. Gli artisti che sono già venuti, lo hanno fatto gratuitamente». Nel frattempo Bonhoeffer ha organizzato convegni-incontro sulla musica «dilettantistica», nel senso più nobile del termine, a cui partecipano medici e scienziati: «un cardiochirurgo francese ha parlato di virtuosismo musicale e chirurgico». Progetti ai quali auguriamo non solo la riuscita ma anche una sempre più diffusa imitazione.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 marzo 2021 • N. 10

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Cultura e Spettacoli

Sperimentare senza complessi Berlinale/1 La giovane cinematografia svizzera abbatte le frontiere fra i generi

Giorgia Del Don Sebbene la qualità dei film documentari «made in Switzerland» sia ormai riconosciuta internazionalmente, la cinematografia svizzera fatica ancora a imporsi nel mondo della finzione, un po’ come se l’apparentemente innato pragmatismo elvetico non autorizzasse i registi a sognare mondi possibili. Una constatazione questa che rende la presenza di numerosi film di finzione rossocrociati nelle diverse sezioni della prestigiosa Berlinale decisamente inaspettata. Ciò che amplifica ancora maggiormente questa sorpresa, è la freschezza delle proposte: tanto dal punto di vista tematico ed estetico quanto generazionale, vista la giovane età dei registi, per lo più al loro primo o secondo film.

Come dimostra anche la Berlinale, negli ultimi anni il cinema svizzero è cresciuto in modo notevole Confrontata con l’aggravarsi della crisi sanitaria, anche la combattiva città di Berlino ha dovuto rassegnarsi rinunciando alla sua Berlinale così come l’ha sempre conosciuta. Una riorganizzazione rispetto alla forma (un primo momento online per stampa e professionisti del settore e un secondo, in giugno, aperto al pubblico) che non ha però intaccato il rigore della selezione dei film che, sebbene in modo quest’anno più tortuoso, sono comunque riusciti a stuzzicare la curiosità dei vari comitati di selezione. Fra questi troviamo cinque intriganti produzioni svizzere, molto diverse tra di loro eppure accomunate dal bisogno di sperimentare senza complessi: Azor d’Andreas Fontana e Das Mädchen und die Spinne dei fratelli Zürcher (Ramon e Silvan), nella sezione più sperimentale Encounters, Tides di Tim Fehlbaum, nel programma Berlinale Special, Ta-

ming the Garden della regista georgiana Salomé Jashi, che fa parte di Focus, e La mif del ginevrino Frédéric Baillif, nella sezione Generation 14plus dedicata a un pubblico giovane o a quanti desiderino stabilire con gli adolescenti d’oggi, troppo spesso ridotti al silenzio, un dialogo fruttuoso e paritario. Cinque proposte che flirtano con i generi cinematografici rendendoli quasi obsoleti. Sebbene quattro di questi film siano presentati come finzioni, gli echi costanti fra le storie che raccontano e l’attualità che li ha visti nascere ci rimandano inevitabilmente alla nostra quotidianità: la dualità fra bisogno di libertà e ricerca d’intimità (di cui da più di un anno siamo privati) per Das Mädchen und die Spinne, il monito riguardo allo sfruttamento sconsiderato delle nostre risorse naturali celato dietro il thriller distopico di Tim Fehlbaum, il fare i conti con le ombre d’un passato ancora ben presente per Azor, o ancora il ricercare la finzione nella realtà stessa, nella vita dei personaggi che mette in scena, per il film di Frédéric Baillif. Allo stesso modo il documentario, come illustrato da Taming the Garden, si trasforma in poesia facendoci viaggiare lontano, oltre i confini del reale. Il decostruire i generi cinematografici diventa per questi registi un’operazione quasi naturale che ha come punto di partenza il bisogno d’indagare ciò che si nasconde oltre la superficie asettica del nostro mondo iperconnesso. Tutti i mezzi sono buoni per ridare alla quotidianità la poesia che merita, soprattutto in questi tempi aridi di stimoli culturali. Paladini di un cinema esteticamente potente, ambiguo ed estremamente affascinante, i gemelli Ramon e Silvan Zürcher presentano quest’anno alla Berlinale il loro secondo film (parte di una trilogia in progress) Das Mädchen und die Spinne, che partendo dalla banalità di un trasloco distilla momenti di pura poesia, amplifica suoni e ingrandisce oggetti e gesti che da irrisori si trasformano in indizi fondamentali per decifrare l’interiorità dei protagonisti. A metà strada fra la

Fotogramma da Das Mädchen und die Spinne dei fratelli Ramon e Silvan Zürcher.

schiettezza accecante di Rohmer, la bellezza quasi architettonica di Antonioni e la sensibilità a fior di pelle di Chantal Ackerman, Ramon e Simon Zürcher interpretano in modo personale le emozioni che abitano le due protagoniste: la ricerca d’indipendenza di Lisa (Liliane Amuat) e il bisogno d’intimità di Mara (Henriette Confurius). Una storia di ragazze, anche se lontane anni luce dagli stereotipi di genere, anche quella di La mif che dipinge il quotidiano d’un gruppo d’adolescenti in un centro educativo ginevrino. Fedele alla sua idea di finzione come prodotto della realtà stessa, Frédéric Baillif costruisce ancora una volta i suoi personaggi basandosi sulla personalità delle sue attrici, tutte non professioniste. Una maniera di pro-

cedere molto particolare che spinge le protagoniste di La mif a esprimersi con una sincerità sconcertante malgrado, o forse piuttosto grazie alla fragilità che ognuna di loro possiede. Una simbiosi tra persona e personaggio che necessita una sensibilità e un lasciarsi andare straordinario per delle ragazze così giovani e vulnerabili. Azor (astore in italiano, un rapace usato nella caccia) si contraddistingue invece grazie a un’estetica potente fra minimalismo e sentimenti estremi come l’invidia e la smania assoluta di potere. Il tutto incarnato da un personaggio estremamente intrigante: il banchiere Yvan De Wiel (interpretato a meraviglia da Fabrizio Rongione) che arriva in Argentina nel bel mezzo della dittatura per sedurre i clienti abbandonati dal suo

partner, scomparso improvvisamente nel nulla. Ispirato a fatti realmente accaduti, Azor mette in scena gli (anti) eroi di un mondo corrotto che si nutre di segreti sussurrati e di terribili misteri. Cosa si nasconde dietro il viso imperturbabile di De Wiel? Cos’hanno visto i suoi occhi e cos’hanno sentito le sue orecchie? Ma soprattutto fino a che punto è capace di spingersi, di avvicinarsi al male più assoluto, per essere il migliore? Fra sogno e realtà, i film svizzeri selezionati quest’anno alla Berlinale hanno portato alla ribalta una nuova generazione di cineasti: spensierata e coraggiosa, capace tanto d’edonismo quanto d’empatia, ricca d’un’indispensabile faccia tosta che non possiamo che accogliere con entusiasmo.

Breve breve, ma molto intenso

Berlinale/2 A Berlino, nella versione online di Chatrian, meno opere in lizza e tempi molto più stretti Nicola Falcinella

Breve, intensissimo e a distanza causa pandemia. È il 71esimo Festival del film di Berlino, svoltosi fino a venerdì per giornalisti e addetti ai lavori, vedendo i film e seguendo gli incontri online da casa, mentre il pubblico parteciperà alla seconda parte della manifestazione, prevista in presenza a metà giugno. Se un anno fa la Berlinale fu l’ultima a concludersi regolarmente mentre il Coronavirus si diffondeva nel mondo, stavolta è stata la prima grande kermesse internazionale svoltasi da remoto. Un’esperienza straniante che toglie quasi tutto ciò che fa un vero festival e consente di guardare i film in condizioni lontane dall’ideale. Resta però il senso della selezione e il rapporto tra le pellicole scelte e, scrivendo a un giorno dalla conclusione, va lodato il lavoro che il direttore Carlo Chatrian e i suoi collaboratori sono riusciti a fare. Meno opere in lizza, ma anche tempi molto più stretti, cinque giorni contro i soliti dieci. I suggello sarà l’Orso d’oro, scelto tra 15 lavori in gara da una giuria composta da sei registi che l’hanno già vinto. Il premio maggiore potrebbe stavolta restare in Europa o nel Mediterraneo e andare verso est, da dove

arrivano le migliori sorprese, anche se da registi già noti nel panorama. Film sulla pandemia e sull’accentuazione dell’abbrutimento sociale già in corso è Bad Luck Banging or Loony Porn del romeno Radu Jude. L’insegnante Emilia è finita nei pasticci dopo che un video sessuale con suo marito è stato messo in internet da sconosciuti. A piedi attraversa una Bucarest dove i segni del lusso e del consumismo contrastano con quelli dell’abbandono e della povertà e dilagano i litigi stradali. Arriva nel grande cortile della scuola,

dove, distanziati e con le mascherine, i genitori in assemblea mettono sotto processo una docente sempre diligente e ben voluta. Attacchi ipocriti e moralisti, con Emilia che diventa vittima due volte (è successo recentemente anche a una maestra italiana) e i benpensanti che la attaccano con argomenti miserevoli mentre solo pochi la difendono. Jude, senza risparmiare inserti spinti e passaggi provocatori, mette alla berlina una società gretta e reazionaria, dove la democrazia è messa a rischio dalle basi, perché non c’è

Un momento di Bad Luck Banging or Loony Porn. (MicroFilm)

un terreno comune per un confronto. C’è invece un sottile senso di legame tra le storie che accadono in una città nel bel georgiano What Do We See When We Look at the Sky? di Alexandre Koberidze (già autore di Let The Summer Never Come Again del 2017). È come se Eric Rohmer incontrasse Otar Ioseliani in una cittadina su un fiume. La studentessa di medicina Lisa e il calciatore Giorgi si conoscono per caso e si danno appuntamento al bar sul ponte. Un maleficio è in agguato e trasforma entrambi, rendendoli irriconoscibili, oltre a fargli perdere il loro migliore talento. Entrambi si presentano all’orario convenuto, ma non si riconoscono. Finiranno a lavorare in due locali vicini mentre sono in corso i Mondiali di calcio. Intanto l’assistente di due registi gira per le strade alla ricerca di coppie adatte a un film in preparazione. Un film sull’amore impossibile, il destino, il caso, con un’atmosfera sospesa e leggera, un senso di magico (e la magia del cinema pronta ad agire) e, per una volta, di plurale: i protagonisti non sono soli, vivono circondati da storie e da ragazzi e ragazze che giocano a pallone per puro divertimento. La memoria è il centro del libanese Memory Box di Joana Hadjithomas e

Khalil Joreige, già premiati a Locarno nel 2005 per A Perfect Day. Una donna libanese che vive in Canada riceve un pacco inaspettato la vigilia di Natale: la sua migliore amica è morta e le vengono restituite le lettere, le fotografie e le audiocassette che si erano scambiate da ragazze negli anni 80 durante la guerra. Per la protagonista e la figlia ventenne è un viaggio all’indietro, per la prima ricordare, per la seconda scoprire ciò che non sa, per entrambe c’è un riscoperta del loro rapporto. Un film toccante e vitale che riesce a fondere forma e contenuto. Leggerezza e profondità sono caratteristiche del prolifico coreano Hong Sangsoo, il più europeo dei cineasti del suo Paese. Introduction è un breve apologo sul caso e l’amore, un ritorno e una variazione sui temi che gli sono cari. Merita attenzione, presentato fuori concorso, Per Lucio di Pietro Marcello (Martin Eden), un omaggio originale a Lucio Dalla. Il regista racconta il primo periodo del cantautore bolognese fino ai primi anni 80, utilizzando le canzoni scritte con Roberto Roversi per raccontare la storia d’Italia tra la fine della civiltà contadina, il boom economico, le stragi e l’avvento delle televisioni.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 marzo 2021 • N. 10

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Cultura e Spettacoli

Cenerentola e Biancaneve 2.0

In riva al testo

di tutte le connotazioni maschiliste

Stefano Vassere

Narrativa La brava Emma Dante ripropone alcune fiabe spogliandole

Laura Marzi Negli ultimi anni sono state varie le raccolte di fiabe con protagoniste ragazze e bambine eroiche: non serve salvate dalle fate, ma delle pilote, delle dottoresse, delle aviatrici… Questa operazione, il tentativo cioè di modificare l’immaginario collettivo attraverso la creazione di personagge forti e vincenti nei racconti per bambine e bambini, ha avuto da una parte un grande successo e dall’altra numerose critiche. Moltissimi genitori hanno infatti deciso di acquistare alle proprie figlie storie di donne eccellenti piuttosto che i classici racconti di principesse. Alcune femministe, invece, hanno notato che anche in questo caso alle donne veniva richiesta un’eccezionalità, mentre sarebbe preferibile se a essere raccontata e incentivata fosse la normalità del femminile. Questa critica si basava sull’idea che non bisogna essere principesse in attesa del principe azzurro, certo, neanche eroine però: sarebbe meglio lasciare che le bimbe siano solo come desiderano essere. Adesso che il dibattito si è finalmente sopito, arriva Emma Dante. La grande drammaturga palermitana,

vincitrice del premio UBU nel 2001 (il riconoscimento più importante in Italia in ambito teatrale) ha scritto per La nave di Teseo E tutte vissero felici e contente, con le illustrazioni meravigliose di Maria Cristina Costa. Emma Dante non inventa nuove fiabe nella speranza di rendere meno maschilista il mondo dei bambini e delle bambine, che pure è un obbiettivo sacrosanto, ma riscrive le favole classiche: Biancaneve, Rosaspina, Cenerentola… Le trasforma, senza snaturarle. Biancaneve, per esempio, resta quella ragazzina che la regina vuole eliminare perché teme la sua bellezza giovanile. Ritroviamo lo specchio come luogo di verità ma anche di ingrandimento delle nevrosi personali. Del resto, perché eliminare questi elementi narrativi così importanti, questi strumenti potenti di interpretazione della realtà? Non è obbiettivo di nessun femminismo quello di negare l’esistenza dell’invidia fra donne, né di fare finta che il conflitto intergenerazionale non esista, mentre è proprio compito delle fiabe mettere in scena le pulsioni umane più forti ed elementari, educare bambine e bambini a riconoscerle. Il finale anche resta lo stesso, solo che nella

Emma Dante è nata a Palermo nel 1967. (Keystone)

versione di Emma Dante Biancaneve si prende una cotta per il principe prima di finire avvelenata: lo aveva già incontrato prima che la vecchia malefica le offrisse la mela, insomma lo aveva scelto. Non così per Rosaspina che si trova risvegliata dall’incantesimo del sonno da un personaggio singolare, vestito da astronauta, l’unico che è riuscito a raggiungerla nel castello fatato e a darle il bacio della salvezza. La gioia del risveglio e la gratitudine per la vita riconquistata inducono Rosaspina a uno slancio d’amore nei confronti di questo presunto principe, che non si affievolisce quando, tolto il casco, il salvatore si rivela essere una salvatrice dalla lunga chioma rossa. Del resto la principessa si era addormentata proprio il giorno del suo passaggio alla vita adulta e dormendo non aveva potuto capire quale fosse il suo orientamento sessuale! I maggiori cambiamenti sono nella versione che Emma Dante scrive di Cappuccetto Rosso. La bambina che siamo abituati a immaginare mentre porta delle provviste alla nonna, nella visione della drammaturga ha una fame bulimica che modifica decisamente il rapporto tra lei e il lupo… Per la prima volta, incontriamo la madre di Cappuccetto Rosso e proviamo compassione per la bimba che le chiede di restare a casa con lei e non lasciarla, come sempre, da sola. Del resto, è comprensibile che ci siano delle novità su una struttura narrativa classica: tante cose sono cambiate nella condizione delle donne, per questo il raggiungimento della felicità delle protagoniste che, come indica il titolo, è l’obbiettivo di Emma Dante, passa anche da percorsi nuovi. Emma Dante, però, è riuscita a rinnovare questi racconti archetipici senza intaccarne la riconoscibilità. E come succede ai bambini e alle bambine che possono ascoltare la stessa storia tantissime volte, questa raccolta permette agli adulti di assaporare la consolazione di un racconto conosciuto, ma al passo coi tempi. Bibliografia

Emma Dante, E tutte vissero felici e contente, La Nave di Teseo, pp. 112.

Editoria Un libro dedicato a quanto in un

libro fa da contorno alle sue parole

C’è stata una stagione, che a partire dagli anni Settanta dello scorso secolo durò qualche fortunato decennio e nella quale fiorì a opera di studiosi francesi in particolare il più commovente costume della critica letteraria europea. Della squadra fece senz’altro parte Gérard Genette, imperatore dei paratesti, gli elementi cioè di contorno al testo vero e proprio, che con il testo stesso formano il libro. E che a loro volta sono separabili in peritesti, i paratesti che stanno nel libro, ed epitesti, vale a dire i paratesti che gli stanno intorno, fuori dal libro. Molto più semplice darne qualche esempio: dei peritesti fanno parte le fascette, le copertine, i risvolti, i colophon, i fogli di guardia, ma anche le fotografie dell’autore, le citazioni che aprono i capitoli, i dati biografici sull’autore, avvertenze, note e prefazioni; insomma, ancora, tutto quello che non è il testo vero e proprio. Gli epitesti sono le interviste, le corrispondenze dell’autore, le recensioni. Ai peritesti e con continui e benedetti richiami espliciti al metodo del Maestro dedica un libro che scoppietta Valentina Notarberardino, che con molta eloquenza già nel titolo si ripromette di prendere l’apparato forse un po’ asciutto di Genette e conferirgli polpa presa direttamente da un’interminabile esemplificazione pescata nei libri di questo e di altri secoli. Diremo subito che l’insieme passa la consueta prova di leggibilità, tanto da indurci a riprendere pari pari la benedizione conferita da Alessandro Baricco a Open di Andre Agassi e qui citata a pag. 102, al cap. dedicato alle fascette: «Se parti non scendi più fino all’ultima pagina. Roba che i famigliari protestano e sul lavoro non combini più un granché». Ecco, senza esagerare, leggere di temi del genere genera tanto profitto da non accorgersi che, esempio dopo esempio, siamo arrivati. Gli esempi sono infiniti e quindi a richiamarne qualcuno si rischia ovviamente la carta del gusto personale. Però, vale la pena ricordare l’insistenza di Salinger per la copertina completamente bianca, oppure, nel capitolo sui risvolti, quanto scritto da Elio Vittorini sulla bandella della prima edizione de La Malora di Beppe Fenoglio, «una vera e propria stroncatura». Oppure ancora, nella parte sulle dediche, quella di Luigi Bartolini, autore di Ladri di biciclette (del 1946 e dal quale il film di Vittorio De Sica), che

omaggia «I ladri romani, pregandoli di non rubarmi la bicicletta per la quarta volta». Sempre nelle dediche, sarà interessante sapere che un libro fatto per durare dura talvolta meno del matrimonio del suo autore, tanto che dalle parti di pagine molto belle con le dediche di Melania Mazzucco a sua madre o di Pier Paolo Pasolini a suo padre, nella nuova edizione di Presto con fuoco, Roberto Cotroneo sopprime con gesto ardito il nome della moglie, che stava nella prima, facendo posto a quello dei figli. Non sempre le dediche hanno un carattere pubblico; così è per Walter Siti, che dedica Resistere non serve a niente «A Stefano, che ora saprà», senza che nessuno sappia chi è Stefano (o forse sì). Le ultime pagine di questo stesso libro sono più leggere, e giocano un po’ a rispecchiare generi e fenomeni. Può succedere di leggere questo libro in formato e-book e derivarne qualche vantaggio: su tutti, procaccia grandi rendite accompagnare la sezione dedicata alle copertine e quella sulle fotografie con aperto, a lato, un browser per cercare di volta in volta ciò di cui l’autrice sta parlando. Ma è pur anche vero che questo è un libro che parla di materialità di libri, e forzando un po’ si potrebbe dire che nella maggior parte dei casi quanto detto in questo testo non avrebbe alcun senso se non parlasse in modo irrimediabile del buon vecchio libro. Nella sua forma (evviva!) di carta. Bibliografia

Valentina Notarberardino, Fuori di testo. Titoli, copertine, fascette e altre diavolerie, Mi, Pte alle Grazie, 2020.

Uomo e ambiente: le rivincite della natura Massimario classico Anche nel mondo antico, seppur in modo in parte diverso da oggi,

ci si chinava su questioni legate al territorio e alla natura

Elio Marinoni Naturam expelles furca, tamen usque recurret et mala perrumpet furtim fastidia victrix «Scaccia pure la natura con la forca, tuttavia tornerà sempre e, vincitrice furtiva, si aprirà un varco tra gli stolti disdegni» (Orazio, Epistole, I, 10, vv. 24-25) Nell’uso corrente di questi due versi oraziani, la massima indicherebbe che non si può soffocare l’indole naturale (cfr. p. es. Enciclopedia Treccani on line). Tuttavia i due versi si collocano nell’ambito di una discussione sulla tematica, cara agli autori augustei e in particolare a Orazio, relativa all’antinomia tra vita di campagna e vita di città. Orazio, che assegna il primato alla prima in quanto considerata secondo natura, osserva, nei versi precedenti dell’epistola, che essa si fa strada, con giardini e boschetti, anche fra le

colonne marmoree e i mosaici dei lussuosi palazzi urbani (vv. 19-23). Il tema è dunque piuttosto quello del rapporto tra l’uomo e la natura, l’uomo e l’ambiente. A questo proposito va ricordato che la cultura classica è caratterizzata in linea di massima da una concezione antropocentrica dell’universo (particolarmente esplicitata nelle opere di Aristotele), che considera i diversi esseri viventi o elementi del mondo che ci circonda al servizio dell’uomo in quanto a lui inferiori, giustificando quindi in ogni caso l’uso strumentale dell’ambiente. Esistono tuttavia, nella letteratura antica, se non tracce di una vera e propria coscienza ecologica, voci dissonanti dall’antropocentrismo dominante, che invitano a riflettere sulla forza e sulle leggi della natura e a limitare l’intervento umano su di essa. È il caso, oltre che dei versi di Orazio citati in epigrafe, della denuncia, da parte di Sallustio, della dissennata smania edificatrice dei ricchi romani degli ul-

timi tempi della repubblica, pronti a interventi massicci sull’ambiente (lo storico parla iperbolicamente di «spianare monti e costruire sui mari») pur di erigersi ville lussuose in posizioni dominanti, «costruite in modo tale da parere città», che egli contrappone alla semplicità degli antichi templi (Sallustio, La congiura di Catilina, 13, 1 e 12, 3). Sallustio stigmatizza il «lusso distruttivo delle classi superiori» come sintomo della decadenza dei tempi (cfr. Lukas Thommen, L’ambiente nel mondo antico, Il Mulino, Bologna 2014, pp. 77 e 132). Il pensiero del lettore moderno corre agli scempi edilizi perpetrati in particolare in varie località dell’Italia meridionale e al conseguente dissesto idrogeologico. La pianificazione di interventi anche radicali sull’ambiente per motivi di interesse pubblico è poi una costante nel mondo antico: si va dalla deviazione del corso del fiume Halys, su consiglio di Talete, per facilitare la

marcia dell’esercito di Creso durante la guerra tra la Lidia e la Persia intorno alla metà del VI sec. a.C. (Erodoto, Storie, I, 75, 3-6) alla discussione, avvenuta nel senato romano ai tempi dell’imperatore Tiberio (14-37 d.C.), sulla proposta, da parte di un’apposita commissione, di deviare il corso di alcuni fiumi e laghi del sistema idrografico compreso tra l’Arno e il Tevere allo scopo di porre un freno alle esondazioni di quest’ultimo. Dopo la relazione introduttiva di Arrunzio e Ateio, capi della commissione, si aprì un dibattito al quale parteciparono sia singoli senatori, sia le delegazioni dei centri urbani interessati. Alla fine del dibattito, la proposta fu bocciata. Tra le diverse considerazioni addotte ci fu anche quella che «la natura aveva provveduto nel migliore dei modi alle faccende umane, essa che aveva dato ai fiumi le loro foci, i loro corsi e, come una sorgente, così uno sbocco» (Tacito, Annali, I, 79). Dal disincantato re-

Lukas Thommen analizza il rapporto tra uomo e natura nell’antichità.

soconto tacitiano si evince tuttavia che sulla decisione finale di «non cambiare nulla» pesarono soprattutto i contrastanti interessi delle diverse municipalità interessate (ibidem). Anche a quei tempi, le iniziative del potere centrale si trovavano talora a confliggere con i poteri locali.


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Cultura e Spettacoli Rubriche

In fin della fiera di Bruno Gambarotta I vantaggi del socio onorario Mio nipote Enea mi porta la posta. Una lettera mi rende felice. Enea è curioso, vuole scoprire il motivo di tanta soddisfazione. Tento di spiegarglielo. «La busta contiene la tessera di socio onorario della Quattro A, Associazione Amici di Alessandro Antonelli. È l’architetto che ha progettato e costruito la Mole che da lui prende il nome e che è il simbolo della città di Torino. Da tanto tempo aspettavo questa nomina». I giovani di oggi hanno uno spirito pratico: «A cosa ti serve?». «A niente. Va ad aggiungersi alle altre tessere di socio onorario, mancava alla mia collezione». «Che senso ha collezionare le tessere di socio onorario?». «Ha il senso di qualsiasi altra collezione: tappi delle bottiglie di birra, soldatini napoleonici, menù dei ristoranti etnici. Un amico colleziona le contromarche che ti danno quando nell’intervallo vuoi uscire da un teatro per poterci poi rientrare. Lui per tenersi la contromarca, è costretto ad assistere solo al primo atto e a farsi raccontare dagli amici come va

a finire la commedia. Tu stesso, non ti ricordi? Da piccolo collezionavi le figurine dei Pokemon». «Toccato. Magari le avessi tenute, adesso le più rare valgono oro. Quali sono le altre tessere della tua collezione?». «Sono tante. Sbandieratore onorario del Palio di Asti, socio onorario del circolo della Magia, degli amici delle Bollicine, dei Tram Storici di Torino, del museo del Grande Torino, della Confraternita della Trippa, quella del Bollito Misto, del Baccalà, della Finanziera... Vado avanti?». «Cosa fai per ottenerle? Fai domanda?». «No, mai, sarebbe controproducente e anche di cattivo gusto. Basta poco per meritarsi la tessera di socio onorario. Tieni una conferenza nella loro sede, scrivi un articolo lodandoli, partecipi alla premiazione dei soci più anziani, accetti di far parte di una loro giuria...». I giovani hanno uno spirito pratico, vanno al sodo: «Quale vantaggio ricavi?». «Nessuno, ci mancherebbe. Potrei partecipare alle gite sociali organizzate dai circoli che mi

hanno voluto come socio, ma mi troverei circondato da persone sconosciute che fra loro si frequentano da quaranta anni. Se vogliamo, un utile, futuro e del tutto ipotetico, ci sarebbe». «Cioè?». «I necrologi. Se mai un giorno io dovessi morire, tutte queste associazioni che mi hanno voluto come socio onorario si sentirebbero obbligate ad acquistare uno spazio sul quotidiano della città per darmi l’ultimo saluto e vantarsi di avermi avuto nelle loro fila. Così i miei parenti risparmierebbero la spesa, i necrologi costano un occhio della testa». «Ma tu sei proprio sicuro che tutti i circoli farebbero questo gesto così oneroso?». «Sicuro proprio no ma mi sembra brutto mettere il necrologio come condizione per accettare la nomina». Lo stupore del giovane Enea è sincero: «C’è ancora qualcuno che li legge i necrologi?». «Noi della quarta età compriamo il giornale apposta, è la prima cosa che andiamo a leggere. Se non altro per controllare se è morto qualcuno di nostra conoscenza.

Quasi sempre lo trovo. Fatta la scoperta, con il giornale in mano mi sposto in cucina da tua nonna e l’interrogo: ti ricordi la maestra Zappalavigna? Quale maestra? Quella dell’asilo di nostra figlia Agnese? Proprio lei, è morta. Impossibile, Agnese l’anno prossimo compie quarant’anni e la Zappalavigna era già vecchia allora. Sembrava vecchia ma non lo era. Guarda bene, c’è scritto quanti anni aveva? Qui non lo specifica, non è mica obbligatorio. Allora non è lei; se fosse lei dovrebbe avere più di cento anni. Quando i morti sono molto vecchi i parenti mettono sempre l’età, vogliono far sapere ai lettori quanto sono stati bravi a conservare in vita il loro caro per così tanti anni. Va be’, se non è la maestra sarà una sua parente. Vedi di informarti, se non è lei cosa ci vado a fare al rosario?». La curiosità di mio nipote è insaziabile: «Da lettore di necrologi qual è la frase che preferisci?». «C’è un’espressione che, quando la trovo, mi procura brividi di piacere. Suona così: l’associa-

zione XYZ abbruna il labaro. Purtroppo non potrò mai meritarmela». «Perché?» «È la frase che usa la Massoneria per salutare un fratello passato all’Oriente Eterno. Io non sarò mai massone». «Come mai? Sei forse contrario per ragioni ideologiche? Quell’Antonelli di cui sei diventato amico era un fratello illustre». «Non sarò mai massone perché ho paura del buio. Mi hanno raccontato che l’aspirante fratello deve superare un rito di passaggio che in gran parte si svolge al buio... Sei costretto a tenere in testa un cappuccio nero e io non lo sopporterei...». «Non hai pensato che le tue associazioni per risparmiare potrebbero mettere i necrologi on line?». «Cosa cambia? Conta la quantità di circoli che fanno sapere al mondo dei lettori che sei salito sul pullman in partenza per l’Ultimo Viaggio». «Hai mai osservato un lettore di giornale on line? Sfiora lo schermo a ripetizione, legge solo i titoli». Mio nipote ha ragione. Adesso cosa ne faccio di tutte queste tessere?

«Nobody», qualsiasi uomo dimostrasse una eccessiva ammirazione per le grazie che Betta esibiva senza ritegno. Almeno finché Tom le aveva riservato la lusinga di una gelosia puntuale e appassionata. Von Arnim, pensò, non era stato marchiato e archiviato come Mister Nobody. Perché era un vecchio o perché Tom non la amava più? Pensò che non gli avrebbe detto che aveva una moglie. Magari ucraina, magari giovane. Con quegli zigomi speciali che hanno le slave. Non aveva intenzione di umiliarsi ulteriormente. Sentì i primi brividi e li accolse con una sorta di stanca gratitudine. Il giardino si era svuotato. Si alzò, la fame si era dileguata, lasciando una traccia bruciante sulle pareti dello stomaco. La pioggia stava assumendo la forma romantica di un temporale. Le gocce s’erano fatte grosse e colpivano il fiume creando vortici sulla superficie ondeggiante. Betta era scesa sull’argine del Tevere,

dove Tom andava a correre, almeno finché si era pavoneggiato in quella salutare abitudine. Non c’era nessuno, su quelle stesse banchine che la domenica ospitavano biciclette, bambini e atleti da weekend. Un barbone stava gonfiando un materassino di plastica sotto il Ponte Mazzini. Le tese un cartone di vino e le disse qualcosa. Betta non capì ed ebbe paura. Si mise a correre, mentre il cielo crepitava di tuoni. Scivolò nel fango e cadde, ma si rialzò subito, la paura era più forte del dolore alla caviglia. Continuò a correre fino a casa, zoppicando. Non si era mai sentita così brutta, non le era mai importato così poco. Non si fermò neanche a guardare nella buca delle lettere, come faceva sempre, da quando aveva trovato, quelle cinque banconote benedette. Von Arnim, che l’aveva vista arrivare sporca di fango e non aveva osato palesarsi, andò a riprendersi la busta. Preoccupato. (Continua)

più efficace della propaganda scritta e stampata. La voce comanda, ordina di pensare in un certo modo, ingiuria il disubbidiente e lo scettico e con la figura della ripetizione ottiene effetti sorprendenti di ubbidienza cieca, di persuasione convinta a cui nessuna parola scritta può giungere. Il passaggio dalla radio che allieta ed istruisce e fa dimenticare i dolori, alla radio che è causa di imbecillimento dell’umanità è graduale, chi sa premunirsi dall’andare oltre il punto critico nell’uso della radio?». A una prima lettura, queste posizioni così critiche (Einaudi parla addirittura di «imbecillimento») nei confronti della radio suscitano sconcerto. Soprattutto se si paragona la radio, uno strumento che oggi consideriamo in larga misura educativo e «nobile», a media molto più «forti» e «triviali» come la televisione o il web. Ecco, se noi applichiamo la teoria del punto critico al nostro rapporto bulimico

nei confronti della televisione, se noi applichiamo la medesima teoria alla voracità patologica che ci lega al mondo di internet, allora capiamo meglio cosa volesse suggerirci Einaudi. Pensiamo per esempio alla sua efficacia nello spiegare la parabola del Servizio pubblico italiano: fino a un certo punto la Rai ha rappresentato un benefico «bicchiere d’acqua», poi si è trasformato in un fenomeno mediale e culturale «tonificante» per la vita del Paese, in seguito ha giocato un ruolo cruciale nella vita sociale e culturale del paese, contribuendo in modo decisivo a portare a termine l’unità nazionale, ma successivamente, a poco a poco, ha iniziato a ripiegarsi su sé stesso, a rivestire un effetto quasi negativo (in termini di qualità dell’offerta e dei contenuti) sul sistema televisivo. Il discorso diventa ancora più cruciale se lo applichiamo al web. Tanto che oggi la dipendenza digitale è classificata come malattia (imbecillimento?).

Quaderno a quadretti di Lidia Ravera Le nuove povertà/16 «Betta la bella». Betta tentò di ancorarsi a quel titolo da miss, quell’etichetta lusinghiera, per ritrovare un po’ di autostima. Non ci riuscì. Sentiva l’offesa dilagare sottopelle come una emorragia inarrestabile. Dunque tutti parlavano di lei alle sue spalle. Von Arnim la derideva con sua moglie. M. Si lamentava con suo figlio, e magari anche con gli amici. La paziente bella che non paga mai. Altro che «quando uscirà da questo momento difficile... non se ne faccia un problema». Faceva lo splendido, lo stronzo. Provò a sintonizzarsi sul disprezzo. Dunque una persona evidentemente scompensata viene da te a farsi curare e tu la sputtani con quel tuo figlio bonsai, quel mezzo uomo, quel nano senza capelli, uno che aggredisce le donne per strada. Si sa che i figli degli psicanalisti hanno tutti una rotella fuori posto, ma questo è anche cattivo... le frasi si inseguivano mute, grossolane. Avrebbero dovuto, nelle intenzioni, scaricare la

rabbia, rallentare quella discesa agli inferi cui non sapeva opporre altro che una debilitante forma di pena per sé stessa. Invece stavano peggiorando la situazione. Da quanto tempo si parlava addosso per assenza di interlocutori? Sentì scorrere le lacrime sulla pelle del viso. Benissimo. Non le avrebbe trattenute. Che il mondo la vedesse piangere, che guardassero tutti, se voleva sapeva esporle anche lei, le sue ferite, come una di quelle performers pazze che si piantano gli spilloni nelle guance e restano lì, in mostra, a sanguinare nei musei. Godetevi il mio dolore. Non farò niente per nasconderlo. Si mise gli occhiali da sole, anche se, da un cielo quasi bianco, aveva ripreso a scendere una pioggia regolare e fredda. Mentre i passanti, unico pubblico a sua disposizione, si affrettavano verso qualche riparo, Betta rallentò e sedette su una panchina. Riconobbe con sforzo il giardino che stava attraversando come se fosse stato qualcun altro a portarla fin lì. Un vago-

ne blindato, un tappeto volante. Era seduta davanti a Castel Sant’Angelo, in un tondo piccolo parco stentato, illuminato da una quinta monumentale. Sentiva fame e freddo. La pioggia stava inzuppando la tela dei blue jeans. Sentiva i capelli incollati alla fronte, li spostò con la mano. Pesavano. Pensò che si sarebbe ammalata. Sperò che qualcuno la avvicinasse e la sgridasse per come stava mettendo a repentaglio la sua salute. Qualcuno, chiunque. Smania di relazione, Tom la chiamava così. Quando ti piglia la smania di relazione ti faresti anche mister Nobody. Mister Nobody era uno dei personaggi che animavano la loro intima officina creativa, prima che chiudesse i battenti per tristezza: si trattava di un omarino senza qualità, perennemente alla ricerca di un pasto caldo fra le cosce di una donna. Era ampolloso nei modi, banale nelle opinioni e perpetuamente arrapato. Veniva deriso, e subito dopo archiviato con l’infamante marchio di

A video spento di Aldo Grasso Luigi Einaudi e la teoria del punto critico Einaudi (economista, primo Presidente della Repubblica italiana, morto 60 anni fa) parla di radio all’interno del libro Lezioni di politica sociale, ideato nel periodo dell’esilio ginevrino (1943-45). Il libro rappresenta una sorta di compendio del sapere di uno dei maestri del pensiero liberale, stilato con toni e intenti didattici Qual è dunque la visione di Einaudi sul medium radiofonico? È interessante il fatto che Einaudi interpreti la radio a partire da una teoria dell’economista Emanuele Sella, uno dei suoi maestri, la «teoria del punto critico», o «teoria dei gradi decrescenti di utilità». Einaudi la riassume così: «Se una persona è assetata in un deserto, è lì che cammina a fatica, voi gli porgete un bicchiere d’acqua, quel bicchiere d’acqua rappresenta la sua sopravvivenza, se glie ne date un secondo quel bicchiere d’acqua rappresenta un piacevole dono alla sua tonicità, se glie ne date un terzo lo rafforzate ancora, ma se glie ne date

un quarto, un quinto, un sesto, quei bicchieri d’acqua rappresentano il decadimento, il suo danno fisico e quindi inizia la sua parabola discendente di questo aiuto». Per prima cosa bisogna notare la raffinatezza e la chiarezza della scrittura di Einaudi: sia Gianfranco Contini, il più importante filologo italiano, sia un critico letterario come Geno Pampaloni hanno speso parole di grande elogio per la prosa giornalistica di Einaudi, definendo il suo stile «cristallino e agevole», due aggettivi che restituiscono pienamente il senso dei suoi interventi. Nella sua grande curiosità per tutti i fenomeni umani, Einaudi non si è limitato ad applicare la teoria del punto critico alla sfera dell’economia, ma anche a temi sociali come la famiglia, all’organizzazione di strutture religiose come i monasteri, e infine alla radio. Bisogna subito premettere che, anche per le sue radici così legate alla terra, al suo Piemonte, Einaudi non amava

molto quelli che si è soliti definire mass media. Sulla sua interpretazione negativa della radio, inoltre, pesava il ruolo fondamentale svolto dal mezzo nel periodo fascista, come strumento di propaganda. Scrive dunque Einaudi: «È ragionevole che ogni famiglia, anche modesta, aspiri al possesso della radio che la tiene in contatto col mondo, che consenta audizioni musicali elevatrici con minimo costo e senza danno per l’adempimento dei doveri familiari, ma la radio fu altresì frutto della rabbia sentita dal demonio che è in noi contro lo spirito di critica al quale conduce gli uomini a ribellarsi contro la ripetizione, contro l’ordinario, contro ciò che tutti dicono e pensano e in quel giorno l’uomodemonio inventò questo che può diventare strumento perfettissimo di imbecillimento dell’umanità quando cada in mano di chi se ne valga a scopo di propaganda, propaganda orale e vocale, insinuante, quotidiana, mille volte


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