Azione 09 del 25 febbraio 2019

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Cooperativa Migros Ticino

Società e Territorio I volontari a fianco dei pazienti: una realtà del nostro sistema sanitario

Ambiente e Benessere La scoperta di Allison e Hojno, premiata con due Nobel, permette di imboccare una strada promettente nell’immunoterapia dei tumori

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXII 25 febbraio 2019

Azione 09 Politica e Economia L’ascesa dei socialisti millennial è un fenomeno da non osservare con la lente dell’ideologia

Cultura e Spettacoli «Pagine d’arte» propone un testo dello scrittore svizzero Gerhard Meier

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di Gianluigi Bellei pagina 37

Keystone

Due secoli di Prado

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Il mistero dietro le maschere di Alessandro Zanoli «Volete vedere come si vestono “i brutti”? Venite che vi porto». La signora ci fa strada in un intrico di vicoli, tra vecchie case da paese di montagna. Scalette, androni, giocattoli di bambini, biciclette. Entriamo in un porta che dà su un piccolissimo soggiorno, con due finestre e una stufa a legna. L’odore è quello delle abitazioni di tanti anni fa, quando tra le pareti rimaneva imprigionato un sentore acre di fuliggine di robinia e di salice. A noi sembra un po’ di disturbare, di infrangere una specie di segreto, ma non è così. Un gruppo di ragazze e ragazzi ci guarda con sorpresa, ma ci saluta con cortesia: hanno attorno a loro, per terra, i numerosi stracci colorati che danno forma al travestimento da «brutti». Nel carnevale di Schignano, in Val d’Intelvi, si fronteggiano da decenni due squadre di figuranti. Pare rappresentino i conflitti sociali tra le fasce ricche e povere della popolazione. Anzi, tra emigranti tornati al paese dopo aver fatto fortuna e altri che invece sono rimasti nella miseria. I «brutti», naturalmente, sono questi ultimi. Hanno abiti miseri e male assortiti. In realtà sono costruiti con grande attenzione, cucendo stracci tra loro

e ben imbottiti per ottenere una foggia sgraziata e caricaturale, con gobbe e pancioni. Per terra, in questa stanza, stanno infatti manciate di foglie secche, paglia e altro materiale utile. L’elemento fondamentale, comunque, è la maschera. La maschera del carnevale di Schignano è l’emblema di questa festa. Sono caricature dai grandi occhi e dai nasi prominenti, scolpite nel legno con grande abilità da artigiani locali. Sono cimeli di famiglia che si passano di generazione in generazione. Anche i «belli» portano le maschere. Il loro abbigliamento deve rispecchiare però la condizione di ricchezza che li caratterizza. Hanno vestiti ampi, fiorati, ricoperti di pizzi e decorati con veri monili d’oro. Hanno ombrelli dai colori sgargianti. Il senso del carnevale di Schignano sta tutto in una sorta di guerra tra «belli» e «brutti», che sfilando per le vie del paesino si affrontano e si minacciano a gesti, brandendo i loro ombrelli, senza parlare, ma dando il massimo risalto all’espressione truce e ridicola delle rispettive maschere. Entrambi, «belli» e «brutti», hanno legati alla cintola dei campanacci da mucca e li scuotono continuamente, trasformando questa battaglia tra i vicoli in un chiasso assordante. Oltre a questo, i «brutti» se la prendono anche con il pubblico che

assiste alle battaglie. Hanno barattoli pieni di cenere e pennelli: di quando in quando assalgono le ragazze presenti e dipingono sul loro viso o sulle scarpe delle righe di sporco. Mentre si vestono, i ragazzi del gruppo che ci ha accolto raccontano che coltivano la passione del carnevale fin da piccoli, e fin da piccoli decidono «da che parte stare». In questa squadra di «brutti» ci sono ragazze e ragazzi: una volta infilata la maschera però le identità spariscono. Unite dal comune ruolo nella recita carnevalesca, le figure sono asessuate: possono portare insieme gonne e pantaloni, cappelli e fazzoletti in testa. L’importante è dare forma a una moltitudine grottesca e a una recita tradizionale che sembra antichissima (ma pare non lo sia). Antico è il paese che la ospita, e somiglia così tanto a quelli delle nostre valli, nella sua storia di povertà e di emigrazione. A colpirci comunque (mentre usciamo un po’ alla chetichella, lasciando che «i brutti» finiscano i loro travestimento) è la differenza tra questo carnevale e quelli giganteschi e «globalizzati» a cui siamo abituati. Da una parte c’è l’odore di festa antica, il mistero di una tradizione vissuta e sentita in una piccola comunità. Dall’altra, il frastuono quasi un po’ obbligato, i nuovi miti e le nuove tradizioni che avanzano.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 25 febbraio 2019 • N. 09

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Attualità Migros

La nuova filiale di Riazzino

Inaugurazione Il Centro Leoni ospita, da giovedì prossimo,

un nuovo supermercato di Migros Ticino. Per l’occasione, fino a sabato 2 marzo, 10 per cento di sconto sull’intero assortimento e animazioni per i bimbi

Famigros Ski Days

Concorso In palio tre iscrizioni gratuite per

partecipare alla giornata sugli sci in famiglia

Un rendering digitale con il progetto della facciata.

Questo strategico supermercato, fortemente voluto dall’azienda, completa la rete di vendita di Migros Ticino nel Locarnese, con un’ottica di prossimità e servizio alla clientela. L’investimento totale ha superato i tre milioni di franchi. Il moderno negozio è ben collegato, si trova su un’importante arteria viaria e può essere raggiunto facilmente con i principali mezzi pubblici o in automobile. L’esercizio dispone di 85 pratici parcheggi gratuiti, comprensivi di 2 postazioni per diversamente abili e due colonnine di ricarica per veicoli elettrici, e si prefigge l’obiettivo di diventare un nuovo punto di riferimento in zona, servendo comodamente tutta la popolazione residente e di passaggio. Il nuovo supermercato, ampio, pratico e luminoso, si presenta al pubblico con una superficie di vendita di circa 1150 metri quadrati e assortimenti ben calibrati e orientati a soddisfare i più attuali bisogni degli avventori. La clientela avrà dunque la possibilità di farvi sia una spesa quotidiana veloce e completa, così come acquisti settima-

nali più consistenti. L’offerta di prodotti alimentari si è focalizzata sul fresco e sull’ultra fresco, con i fiori all’occhiello rappresentati dai banchi a servizio per carni, salumeria, formaggi e pesce (tutto certificato ASC e MSC e proveniente da pesca sostenibile), inseriti nel grande Angolo del Buongustaio, che proporrà al pubblico le migliori specialità gastronomiche locali e internazionali. Degni di nota saranno certamente l’ampio reparto frutta e verdura e l’assortimento di prodotti Daily, nuovo fresco e apprezzato marchio che racchiude una vasta scelta di bibite e cibi a consumo istantaneo di ottima qualità, che farà la felicità dei giovani e dei molti lavoratori in zona. Anche le gamme di prodotti Migros bio e Alnatura saranno ben presenti sugli scaffali. Un altro punto di forza del negozio è rappresentato dal moderno forno per la cottura del pane, che permetterà di acquistare prodotti freschissimi fino alla chiusura del negozio. Sarà quindi garantito anche un vasto assortimento di beni di prima necessità del non food.

Per chi va di fretta, oltre alle tre casse a nastro classiche, sono state allestite due comode e veloci casse Subito per il self checkout. Per chi invece ha qualche minuto in più, la filiale dispone di una mall da quasi 70 metri quadrati nella quale verranno proposte con frequenza svariate interessanti attività, di un chiosco (dato in gestione a terzi) e di una confortevole area servizi con macchina del caffè e microonde a disposizione della clientela. Completano questa zona la parete ecologica e il mobile PickMup (www.migrosticino. ch/pickmup), per chi desidera fare la propria spesa online, ritirandola però comodamente in negozio. Le strutture dello stabile sono state interamente rinnovate, sono all’avanguardia e caratterizzate dai più alti e innovativi standard di costruzione e di sostenibilità ambientale. La filiale dispone di moderni frigoriferi, riscaldamento e climatizzazione condensati in un unico impianto all’avanguardia, in grado di garantire la massima efficienza energetica. Il dispositivo è completamente a gas naturale CO2. Anche l’illuminazione LED e il sistema di chiusura totale dei mobili refrigerati contribuiranno a garantire un basso impatto. Per sottolineare questo nuovo significativo intervento nella propria rete di vendita, Migros Ticino ha previsto uno sconto generale del 10% concesso sull’intero assortimento dal 28 febbraio al 2 marzo, con clown e palloncini per tutti i bimbi giovedì 28 dalle 11.00 alle 14.00 e dalle 16.00 alle 19.00, così come pure sabato 2 dalle 10.00 alle 17.00. Il responsabile Bosko Stojcev e i suoi 17 collaboratori, cordiali e ben preparati, sono pronti a soddisfare i bisogni della clientela con cura e attenzione, in un clima accogliente e famigliare. Orari di apertura

L’équipe con il gerente, Bosko Stojcev.

Azione

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

Lunedì-venerdì 07.30 – 18.30, giovedì 07.30 – 21.00, sabato: 07.30 – 17.00. Tel. 091 821 78 90. Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31

Mancano pochi giorni all’appuntamento: la «tournée nazionale» dei Famigros Ski Day terrà la sua tappa ticinese ad Airolo la prossima domenica 3 marzo. In programma il consueto mosaico di attività per la famiglia, tra cui giochi, momenti di animazione, gastronomia e l’attesa gara per le famiglie. Si tratta di una gara di gruppo in cui genitori e figli faranno squadra tra loro, ricercando il migliore risultato in una discesa dal tracciato semplificato, adatto per tutti. La performance famigliare sarà tra l’altro filmata in esclusiva e i concorrenti potranno portare con sé al momento del ritorno a casa il video ricordo delle loro prestazioni. I migliori filmati, così come le migliori foto della giornata, saranno poi pubblicati sul sito web della manifestazione. Il costo dell’iscrizione è particolarmente contenuto, per permettere a tutti di prendere parte all’evento. La quota comprende infatti una carta giornaliera, il costo del pranzo di mezzogiorno e molti altri vantaggi. I costi di iscrizione per famiglia am-

montano a 110 franchi: i membri di Famigros, il club delle famiglie di Migros, ottengono una riduzione a 85 franchi. Le iscrizioni devono avvenire online all’indirizzo www.famigros-ski-day.ch. Vi ricordiamo inoltre che sabato 2 marzo sono previste ad Airolo le competizioni per giovani sciatori che fanno parte del circuito Grand Prix Migros. Quest’anno le gare sono riservate ai giovani sciatori nati negli anni dal 2003 al 2011: possono iscriversi già da ora sul sito www.gp-migros.ch, in cui sono pubblicate anche tutte le informazioni necessarie.

Concorso Migros Ticino mette in palio 3 iscrizioni gratuite da 110.– al Famigros Ski Day di Airolo: per partecipare al concorso seguire le istruzioni contenute nella pagina web www.azione. ch/concorsi.

Un museo di Parigi nel Golfo Arabo Anteprima Hotelplan invita i nostri lettori

alla proiezione del documentario Louvre Abu Dhabi il 19 marzo allo Studio 2 RSI Un progetto avveniristico che vuole fare di Abu Dhabi una capitale mondiale della cultura e dell’arte: grazie alle soluzioni architettoniche dell’archistar Jean Nouvel su un’isola artificiale sono stati realizzati cinquantacinque edifici bianchi che sembrano galleggiare nel mare del Golfo Arabo, sovrastati da una grande cupola d’acciaio. Un accordo trentennale tra gli Emirati arabi e il governo francese permetterà al Museo del Louvre di affidare a questa nuova struttura una patrimonio di opere d’arte di autori di tutto il mondo. Il documentario Louvre Abu Dhabi di Patrick Ladoucette ricostruisce la nascita di questo progetto e propone al pubblico di scoprirne i segreti. Hotelplan offre ai lettori di «Azione» la possibilità di assicurarsi alcuni biglietti gratuiti per seguire la proiezione, che si terrà allo Studio 2 della RSI (Lugano Besso) martedì, 19 marzo 2019 alle ore Tiratura 102’022 copie Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch

Particolare dell’interno. (G. Penone)

17.30. Al termine verrà servito un ricco aperitivo. Per poter partecipare all’evento consultare la pagina www.azione.ch/ concorsi. Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 25 febbraio 2019 • N. 09

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Idee e acquisti per la settimana

Delle svizzere dal cuore bio

Attualità Le mele Gala biologiche convincono grandi e piccini grazie alla loro dolcezza

e croccantezza

Azione 25%

sulle Mele Gala bio Svizzera, imballate, al kg Fr 4.90 invece di 6.60 dal 26.02 al 04.03

Le Gala sono il risultato dell’incrocio tra le mele Kidd’s Orange Red e Golden Delicious. Furono sviluppate in Nuova Zelanda negli anni Trenta del secolo scorso dal coltivatore J.H. Kidd e giunsero in Europa negli anni Ottanta. Grazie alla loro capacità di adattamento, crescono bene sia con climi caldi che freddi, tanto da essere oggi una delle varietà più coltivate al mondo. Le mele Gala si contraddistinguono per il loro calibro medio, la sottile buccia di colore rosa-rosso, con striature che vanno dal giallo all’arancio a dipendenza del grado di maturità delle mele, e un’inconfondibile croccantezza. Dal punto di vista gustativo, invece, presentano un sapore marcatamente dolce e gradevolmente profumato, aspetto che le rende molto apprezzate anche dai consumatori più giovani. Infine, per quanto attiene ai valori nutrizionali, analogamente ad altre tipologie di mele, anche le Gala sono povere di calorie, contengono vitamine essenziali quali C, A e B, nonché la fibra alimentare nota come pectina, sostanza ritenuta efficace nel ridurre i livelli di colesterolo e nella prevenzione delle malattie cardiovascolari. Le mele in Svizzera

Gli svizzeri sono dei grandi consumatori di mele: pro-capite se ne consumano annualmente qualcosa come ca. 16 kg. Secondo l’Associazione Svizzera Frutta nel 2018 le varietà favorite dai consumatori indigeni sono le Gala, in assoluto le più coltivate con una produ-

zione annua di oltre 40 mila tonnellate; le Golden Delicious (ca. 22 mila tonnellate) e Braeburn (ca. 16 mila tonnellate). I Cantoni con le maggiori superfici dedicate alla melicoltura sono quelli di Turgovia, Vallese e Vaud, i quali, insieme, producono annualmente oltre due terzi delle ca. 167 mila tonnellate totali di mele svizzere. Altre regioni importanti per la produzione di mele sono ancora San Gallo, Argovia, Zurigo, Lucerna e Berna. Coltivazione biologica

Nell’ultimo decennio in Svizzera le aziende produttrici di mele che si sono convertite al biologico sono aumentate in modo progressivo. È utile sapere che non tutte le varietà di mele sono idonee a questo tipo di coltura che esclude qualsiasi utilizzo di sostanze chimiche di sintesi. Infatti solo le più resistenti e meno vulnerabili alle malattie e ai parassiti si prestano ad un’agricoltura a basso impatto ambientale. Le mele Gala sono una di queste, giacché sono apprezzate dai coltivatori per la loro resistenza e le qualità organolettiche. Nella coltivazione biologica si punta sulla forza della natura: le malattie vegetali e i parassiti vengono in primis combattuti con una scelta ottimale del terreno e selezionando delle piante robuste. In caso di bisogno, i meleti vengono trattati con prodotti minerali e vegetali, per esempio utilizzando prodotti a base di argilla contro la ticchiolatura. Infine, come concimi organici, si preferisce l’utilizzo di letame e compost.

Il sushi del mese

Specialità Nuove esperienze culinarie dedicate agli amanti della cucina del Sol Levante

Sushi Yayoi 290 g Fr. 15.90

Quest’anno gli amanti del sushi hanno di che rallegrarsi ulteriormente: accanto alle già diverse varianti di sushi ottenibili normalmente o su ordinazione nei supermercati Migros, ogni mese proponiamo una specialità mensile particolarmente stuzzicante. Protagonista dal 1° di marzo sarà il sushi Yayoi, un ricco piatto composto da nigiri al salmone fresco e tonno fresco, hosomaki surimi-erba cipollina e chu-maki green roll e tuna dynamite. In aggiunta, esso comprende anche i tradizionali accompagnamenti, ossia pasta piccante wasabi, salsa di soia e delle zenzero marinato. Come tutte le altre pietanze

a base di sushi, anche quella del mese viene accuratamente preparata con i migliori ingredienti freschi da un’azienda specializzata in cucina giapponese e gastronomia asiatica: la Sushi Mania SA di Vuadens, nel distretto friburghese della Gruyère. L’azienda è in grado di confezionare ogni giorno 40’000 sushi di qualità irreprensibile nel rispetto delle più rigorose norme igieniche. La specialità di sushi mensile è disponibile nelle maggiori filiali Migros. In tutti gli altri punti vendita può tuttavia essere ordinato con almeno due giorni di anticipo.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 25 febbraio 2019 • N. 09

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Idee e acquisti per la settimana

Il meglio della carne

Attualità Scegliendo la carne di vitello TerraSuisse potete esser certi di ricevere un prodotto svizzero di qualità

superiore ottenuto nel rispetto degli animali e della natura. Questa settimana alla vostra Migros approfittate della vantaggiosissima offerta sugli ossibuchi di vitello Una ricetta classica

Azione 30%

sugli ossibuchi di vitello TerraSuisse Svizzera, imballati, 100 g Fr. 2.65 invece di 3.85 dal 26.02 al 04.03 migusto.ch

I contadini che allevano i propri vitelli sotto il marchio Migros TerraSuisse, devono sottostare alle severe direttive di IP-Suisse. Gli animali sono allevati in condizioni conformi alle loro esigenze e hanno accesso in permanenza a uno spazio all’aria aperta. Inoltre vivono in gruppo e l’alimentazione è costituita da latte vaccino e fieno. Queste condizioni contribuiscono a rendere gli animali più robusti e resistenti alle malattie, nonché a conferire alla carne un sapore particolarmente delicato. La carne di vitello inoltre si caratterizza per la sua tenerezza, la buona digeribilità, il basso tenore di grassi e il prezioso contenuto di sostanze nutritive. Gli apprezzati tagli ottenuti dai giovani bovini sono lo spezzatino, ideale per stufati a lunga cottura; lo sminuzzato, imprescindibile nella preparazione del noto «sminuzzato alla zurighese»; le costolette, ideali anche per la cottura al grill; il pregiato filetto per i piatti più sontuosi; le versatili fettine, utilizzate, tra l’altro, per il succulento Wiener Schnitzel; la rognonata, indicata per bistecche e arrosti e i tenerissimi ossibuchi, ricavati dallo stinco o geretto, ottimi per cotture delicate a fuoco lento.

Vi proponiamo qui la ricetta di un grande classico della cucina popolare: gli ossibuchi al vino rosso e alle verdure. Per 4 persone servono 4 ossibuchi di vitello da ca. 300 g ciascuno, farina, olio di oliva, 2 cipolle, 4 carote, 1 sedano rapa piccolo, 2 spicchi d’aglio, 2 cucchiai di concentrato di pomodoro, 2 dl di vino rosso, 1 l di fondo bruno, 1 foglia di alloro, sale e pepe dal macinapepe q.b. Procedimento: Salate e pepate bene la carne e infarinatela. Scaldate un poco di olio in una brasiera e rosolatevi gli ossibuchi per ca. 3 minuti da entrambi i lati. Toglieteli dalla brasiera e nella stessa rosolate cipolle, carote e sedano tagliati finemente a dadini. Unite l’aglio schiacciato, il concentrato di pomodoro e rosolate il tutto per qualche minuto. Aggiungete gli ossibuchi e sfumate il tutto con il vino rosso. Fate evaporare quasi completamente il liquido. Unite il fondo bruno e l’alloro, incoperchiate gli ossibuchi e fateli stufare a fuoco medio per ca. 1,5 ore. Di tanto in tanto bagnate la carne con il fondo. Servite con un soffice purè di patate.

Evviva il carnevale

Attualità Due specialità dolciarie che non possono mancare

sulla tavola carnascialesca

Vieni a sciare al Centro Migros S. Antonino

Evento Dal 2 al 9 marzo ti aspetta

un’esperienza indimenticabile di Virtual Reality

Questa e la prossima sono le settimane clou per gli appassionati dei carnevali del nostro Cantone. Dal 28 febbraio al 5 marzo i «bagordi» saranno di casa a Bellinzona con il Rabadan e a Chiasso con il carnevale Nebiopoli, l’1 e il 2 marzo si terrà La Stranociada di Locarno, mentre gli appuntamenti ambrosiani che chiuderanno i festeggiamenti saranno quelli di Biasca (6-10.3) Tesserete (7-9.3) e Brissago (7-10.3). Ma non si vive di solo musica e divertimento: infatti tra un ballo e l’altro sono molti coloro che si «corro-

borano» gustando alcuni tra i più tipici dolci della tradizione carnevalesca, come lo sono i Galani dei Dogi e i Pettegolezzi di Colombina del marchio veneto Gecchele. Preparati con un impasto tutto burro e altri pochi e genuini ingredienti quali farina di frumento, zucchero e uova, sono delicatamente fritti in olio di girasole affinché possano acquisire il loro tipico colore dorato e una croccantezza senza pari. Infine, prima del confezionamento, vengono generosamente spolverati con lo zucchero a velo.

Pettegolezzi di Colombina 125 g Fr. 2.80

Galani dei Dogi 200 g Fr. 2.45* invece di 3.50 *Azione fino al 4.3

Lanciarsi sulle piste da sci in un centro commerciale? Ebbene sì. Grazie ad un’innovativa postazione di gioco che si basa sulla più recente tecnologia della realtà virtuale, potrai vivere un’esperienza spettacolare provando l’ebrezza di una discesa in una fantastica scenografia montana. I gamer saranno proiettati in questo mondo immaginario indossando uno speciale visore e impugnando due

joystick come se fossero dei bastoni da sci. Il gioco è in grado di riprodurre l’esatta sensazione che proveresti sciando su una pista sciistica reale. Curiosi e visitatori avranno la possibilità di assistere alle sensazionali performance dei giocatori attraverso uno schermo installato all’interno della mall del Centro S. Antonino. Vieni a provare anche tu questo incredibile momento di divertimento puro: la partecipazione è assolutamente gratuita. Si potrà accedere al gioco ogni giorno, da sabato 2 a sabato 9 marzo. Ti aspettiamo!


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 25 febbraio 2019 • N. 09

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Società e Territorio Il caffè delle mamme Gli adolescenti ascoltano e amano il trap, i genitori non ne sono entusiasti, come comportarsi?

Le risonanze ci fanno vivere bene Intervista al sociologo tedesco Harmut Rosa che terrà una conferenza al Kulturhaus Kosmos di Zurigo ospite del Percento culturale Migros

Abitare, ma non solo Crescono anche in Ticino le iniziative e i gruppi interessati a realizzare delle cooperative d’abitazione pagina 13

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Al fianco dei pazienti

Volontari All’OBV di Mendrisio sono

presenti sette giorni su sette, quelli dell’associazione Triangolo si recano anche al domicilio della persona ammalata: l’esperienza dei volontari che operano nel nostro sistema sanitario

Roberto Porta Una presenza discreta, ma che porta sempre maggiore beneficio all’interno del sistema sanitario, in Ticino e anche nel resto della Svizzera. Quello dei volontari – ma sarebbe meglio dire delle volontarie – è un impegno costante e sempre più richiesto dai pazienti e di conseguenza anche da medici e ospedali. All’OBV di Mendrisio, ad esempio, i volontari sono ormai una quarantina. «Abbiamo cominciato circa 20 anni fa – ricorda Gabriella Grounauer, coordinatrice del Gruppo Volontari dell’Ospedale Beata Vergine – All’inizio c’erano 5 o 6 collaboratori, poi siamo cresciuti. Siamo riusciti ad instaurare un’ottima collaborazione con la direzione dell’ospedale, e in tutti questi anni siamo cresciuti in modo molto soddisfacente». Il volontario in un certo senso colma un vuoto, si fa presente laddove il professionista della sanità non riesce ad arrivare. «Operiamo principalmente su segnalazione del personale che ci indica se un paziente chiede compagnia o se vuole fare due passi. Siamo presenti in tutto l’ospedale, sette giorni su sette, sempre all’ora dei pasti. Abbiamo un’ottima collaborazione con i reparti, cerchiamo di esser di supporto senza intralciare il lavoro del personale curante». Una presenza non solo interna agli ospedali ma diffusa su tutto il territorio cantonale, per i pazienti che, seppur dimessi, devono ancora curarsi a casa propria. È il caso ad esempio dell’associazione Triangolo che da trent’anni si è data lo scopo di sostenere il paziente oncologico e i suoi famigliari. «La presenza del volontario è una presenza neutra e discreta – ci dice Giada Cometta Balmelli, una delle due coordinatrici dei volontari che operano presso l’associazione – Si tratta di un ruolo delicato ma al tempo stesso di leggerezza. Il paziente sa che con il volontario non verrà assillato da domande relative alla sua salute e che molto spesso si parlerà d’altro. I nostri collaboratori non sentono il coinvolgimen-

to emotivo che avvertono i famigliari. Per questo motivo nei nostri incontri si parla del più e del meno, non solo della malattia. Così facendo il volontario riesce a portare una ventata d’aria fresca nella giornata del paziente che, nel nostro caso, è un paziente oncologico». Situazioni quindi particolarmente delicate, con il volontario chiamato ad operare molto spesso al di fuori delle strutture ospedaliere, direttamente al domicilio della persona ammalata. «In genere chiediamo mezza giornata alla settimana – continua Giada Cometta Balmelli – L’impegno costante è importante. Questo è un compito in cui si impara molto grazie all’esperienza e quindi la continuità diventa essenziale. Oltre a questa mezza giornata abbiamo anche una riunione mensile tra i volontari, le infermiere e gli oncologi. Offriamo vari tipi di servizi attraverso i nostri collaboratori. Accompagniamo i pazienti dal medico o in ospedale, li incontriamo a domicilio, facciamo con loro delle piccole passeggiate, ci vediamo per un caffè, per fare la spesa. C’è chi invece trascorre la propria mezza giornata in uno studio medico o presso una clinica. Quest’ultimo incarico è riservato solo ai volontari più esperti, entrare in una camera di una persona che non sta bene non è per nulla facile». Per questo motivo i volontari chiedono sempre più spesso una formazione specifica, un accompagnamento al loro servizio. «Siamo molto orgogliosi della nostra formazione – ci dice Gabriella Grounauer, coordinatrice dei volontari dell’OBV – In tutti questi anni siamo riusciti ad offrire ai nostri volontari un valido supporto per poter affrontare al meglio i loro compiti con i pazienti. Una volta al mese abbiamo inoltre una supervisione da parte di uno psicologo che lavora in ospedale. Questo ci permette di affrontare i problemi legati al nostro lavoro e di approfondire diverse tematiche specifiche, legate esempio alle malattie». In altri termini il volontario non è lasciato da solo. «All’inizio con i nuovi volontari facciamo un la-

Gabrielle Grounauer, coordinatrice del Gruppo Volontari dell’OBV. (Ti-Press)

voro di introduzione, presentando le nostre attività e la realtà dell’ospedale, anche per affrontare i tabù che ci possono essere nei confronti della malattia e della sofferenza. Si tratta di capire se la persona è pronta a mettersi in gioco e a confrontarsi con le varie realtà che compongono le cure ospedaliere. Cerchiamo di accompagnarla affinché possa affrontare questa sfida con tranquillità. Da noi all’OBV ci sono tre mesi di prova, con un incarico settimanale prima di decidere se far davvero parte del nostro gruppo». «Noi all’associazione Triangolo abbiamo al momento un’ottantina di volontari – fa notare la loro coordinatrice Giada Cometta Balmelli – In questi anni ho potuto constatare che ai nostri collaboratori piace molto poter avere una formazione. Si sentono più sicuri. I nostri momenti formativi

servono per prendere un po’ di distanza dall’impegno con il paziente. Vedo però che si impara tanto proprio con le persone, con i pazienti. Il dono dell’aiuto e dell’assistenza è in fondo qualcosa di naturale, o uno è dotato oppure non lo è. In ambito oncologico devo dire che c’è uno sforzo particolare da fare, si è confrontati con la morte tutti i giorni». Ma chi è il volontario? Qual è il profilo umano e professionale di cui deve disporre? «Il nostro gruppo è composto essenzialmente da donne, anche se abbiamo anche qualche uomo – fa notare Giada Cometta Balmelli – Si tratta per la maggior parte di persone pensionate, anche se c’è anche qualcuno che ha un’attività professionale, per loro non è facile riuscire sempre a trovare il tempo per mettersi a disposizione. Per noi il volontario ideale è il pensionato, perché è molto flessibi-

le con gli orari». «Il volontario tipo è all’85% una donna – conferma la signora Groenauer dell’OBV – Abbiamo anche qualche uomo, pochi ma buoni, principalmente di una certa età. Anche per noi il profilo ideale è quello dei neo-pensionati, perché sono in forma e hanno del tempo a disposizione per fare cose che forse non hanno mai fatto in precedenza. C’è quindi una dose di entusiasmo molto importante. Abbiamo anche delle giovani mamme e a volte anche degli studenti, che si lanciano in questa avventura. Noi siamo felici di poter disporre di persone giovani. Per il paziente, che molto spesso è anziano, è una gioia vedere e incontrare persone più giovani». Insomma più che volontari, delle volontarie di una certa età, ma pronte all’aiuto e al sostegno. Un lavoro di cui oggi il sistema sanitario non può proprio fare a meno.


CROCCANTEZZA MESSICANA DURANTE IL PERIODO INVERNALE

Nachos al forno (Per 4 persone – finito in 10 minuti) Ingredienti: · Pancho Villa™ Nacho Chips · Pancho Villa™ Salsa Picante o Mexicana · Pancho Villa™ Sliced Jalapeños · 125 g di formaggio grattugiato

Preparazione: Distribuire i Nacho Chips in una teglia per sfornati, cospargerli con la salsa, coprirli con il formaggio grattugiato e cuocerli in forno per qualche minuto fino fino a quando il formaggio non si sarà fuso. Guarnire con alcune fette di jalapeño e servire. Buon appetito!

Altre ricette su www.pancho-villa.ch Disponibili da Migros


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 25 febbraio 2019 • N. 09

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Società e Territorio

La musica che ascoltano

Il caffè delle mamme Gli adolescenti amano i trapper, non sempre i genitori ne sono entusiasti

ma non serve demonizzare il fenomeno: le riflessioni dello psicoterapeuta Matteo Lancini

Simona Ravizza Cuffiette senza fili infilate nell’iPhone, nelle orecchie dal 1° febbraio risuona Rock and roll, sesso, moda e droga, ok, il ritornello scaricato da Youtube di Gang Shit, canzone del terzetto di rapper romani Dark Polo Gang, già in cima alle classifiche con Cambiare Adesso, 28 milioni di stream su Spotify: «Ho scelto i soldi ma non è per questo (no, no) / Che ho messo il mio cuore dentro a un cassetto (in un cassetto) / Ho paura dell’amore e non del resto (ehi, ehi) / Se ti vedo in giro cambio verso (ehi, ehi) / Ricordo quando stavamo insieme / Adesso mi sveglio con una tipa diversa nel mio letto / Amici che tradiscono, è già successo (ehi, ehi)». Basi elettroniche, loop infiniti, effetti che robotizzano la voce. Nel nuovo singolo Stamm Fort del rapper napoletano Luchè uscito il 18 gennaio con la partecipazione dell’idolo trapper Sfera Ebbasta, il mood è «Seduto su un jet penso ce l’ho fatta / Se parli di me sciacquati la bocca / Puoi farmi le seghe, spaccarti le braccia». E dal Festival di Sanremo con il testo Rolls Royce il rapper Achille Lauro, 28 anni di tatuaggi, indumenti femminili, collarini di Louis Vuitton e orologi Rolex, canta: «Voglio una vita così / Voglio una fine così / C’est la vie / Non è follia ma è solo vivere / Non sono stato me stesso mai / No, non c’è niente da capire / Ferrari bianco, sì, Miami Vice». A Il caffè delle mamme l’abbiamo ben

chiaro: tra gli adolescenti la musica è il trap. La domanda che ci poniamo è: ascoltarlo è diseducativo? «In realtà il vero interrogativo da porsi è perché ai ragazzi piacciano tanto testi con un linguaggio scurrile, rivendicativo e omofobo/misogino, dove su tutto c’è l’ostentazione del successo e della ricchezza», fa riflettere Matteo Lancini, psicoterapeuta e docente dell’Università Bicocca di Milano, già autore del saggio Abbiamo bisogno di genitori autorevoli (ed. Mondadori 2017): «Qui non c’è nulla della trasgressione di Jimi Hendrix o di Bob Marley, sono ormai lontani gli anni in cui il rock and roll veniva considerata la musica del Diavolo». L’acquisto avviene su store digitali, l’ascolto sulle piattaforme streaming. Innanzitutto bisogna sintonizzarsi sul vocabolario. Il linguaggio – come viene definito dagli stessi artisti e dove ricorrono spesso i medesimi termini – è alieno. Tutto da decifrare. Tra i vocaboli più usati: swag che tradotto in italiano vuole dire bottino o refurtiva, ma che in realtà viene utilizzato come sinonimo di cool; bufu che è l’acronimo di «By Us Fuck You», in cui la parola you è sostituita all’abbrevazione U, tipica dello slang americano e che in italiano sta per «Vai a quel paese»; eskere che è una suggestione dall’inglese della frase «Let’s get it», ossia «Facciamolo o prendiamolo», triplo sette che è la combinazione che si ottiene quando si raggiunge il jackpot alle slot machine:

I Dark Polo Gang nel video di Cambiare Adesso. (youtube)

di conseguenza 777 significa successo, soldi, danaro. Uno slang che ben riflette i temi cari al trap. I tormentoni delle canzoni sono le droghe e la vita sgomitata, l’avercela fatta da soli e il riscatto, il sentirsi fighi, i tanti soldi, la guida di auto di lusso, lo sballo. La borsa è la Chanel, ai piedi c’è Dior, la barca è a Saint-Tropez. Ma dalle canzoni emerge anche la necessità di rimanere se stessi nonostante il successo e di mantenere rapporti sinceri con gli amici con cui si è cresciuti: «Adesso ho più soldi ma meno affetto (cash, cash) / Con i soldi non ci compri il rispetto, no / Io non cambierò, correrò, scapperò / Giuro che ce la farò / I miei sogni

rincorrerò (skrt, skrt) / Come un re, ritornerò (yah)», da Cambiare Adesso dei Dark Polo Gang. Tutti usano un nome d’arte. I personaggi sulla scena sono ragazzi nati ai bordi di periferia come Sfera Ebbasta, 26 anni da Cinisello Balsamo (hinterland di Milano), cresciuto tra lavoretti che vanno dall’elettricista in cantiere al fattorino delle pizze e convinto che «le opportunità devi sapertele creare, ma i valori te li dà la strada». Ventenni come Capo Plaza da Salerno che non possono dimenticarsi da dove vengono e delle prime canzoni scritte nella cameretta delle case popolari: «Io non cambierò mai, no, mai / Voglio andar lontano da

qua, lontano da qua / Ho risolto i miei guai ormai / Fanculo chi parlava, fra’ / chi parlava, fra’ / Io non cambierò mai, no, mai». Giovanissimi con vite disastrate come il 19enne Young Signorino, sulle spalle già un figlio, svariati ricoveri in clinica psichiatrica e più di un’overdose di psicofarmaci, che in Mmm ha ha ha canta: «Sudo, bevo, passo e a letto / Mmh ha ha ha / Mia mamma mi crede pazzo / Mmh ha ha ha / Canto, canto, canto, canto / Ulalalalala». Post adolescenti come Chadia Rodriguez, classe 1998, metà marocchina e metà spagnola di casa a Milano, che in canzoni come 3G non tratta propriamente bene i maschi: «Nata e cresciuta in mezzo alla merda / Oggi Madrina come Griselda / Io sono un sacco pieno di soldi / Voi siete sacchi pieni di sperma (haha)». Ma che esempio possono essere per i nostri figli? Lancini ancora una volta ribalta la questione: «Agli adolescenti piacciono i trapper perché cantano il modello al quale oggi la società, e a volte gli stessi genitori, li hanno abituati: la generazione Like cresce nell’inseguimento della popolarità, del riconoscimento sociale e dell’essere sempre all’altezza delle aspettative». Allora, forse, più che preoccuparci della musica che ascoltano i nostri figli dovremmo cercare di dare loro modelli di riferimento alternativi al successo a ogni costo: un altro tema caro a Il Caffè delle mamme è l’importanza della riscoperta del fallimento e di come affrontarlo. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 25 febbraio 2019 • N. 09

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Società e Territorio

«Molte persone sono frustrate, sentono la loro vita non riuscita»

Personaggi La routine di cui siamo prigionieri ci impedisce di creare relazioni che ci facciano sentire veramente

vitali: secondo il sociologo tedesco Hartmut Rosa questa è la vera causa di molte delle crisi contemporanee

Hartmut Rosa, tutti noi ci sforziamo di vivere una «buona vita», anche se probabilmente ognuno di noi intende questo concetto diversamente. Ma cos’è «una buona vita», secondo lei?

Il problema è che tendiamo a spezzettare la nostra aspettativa sulla vita in vari elementi separati, tentando poi di ottimizzarli uno alla volta. Cerchiamo di adattare il nostro modo di vestirci, cerchiamo di non essere troppo grassi, di avere un salario che corrisponda alle nostre aspettative e di avere molti «Like» su Facebook. Questo sforzo però ci porta in modo abbastanza sicuro a non avere una vita soddisfacente. Perché, in realtà, tutto dipende invece dalla globalità del nostro essere, dall’insieme di quello che ci rende ciò che siamo. Un artista, ad esempio, avrà l’idea di una vita soddisfacente diversa da quella che può avere una dentista o un infermiere. Quale sarebbe la strategia migliore?

Se noi percepiamo come riuscita la nostra vita, dipende dalla qualità delle nostre relazioni, quelle che costruiamo nel mondo che ci circonda. Per questo ci servono relazioni con persone e cose, che ci «dicano» qualcosa e suscitino in

noi delle «risonanze». Dal mio punto di vista ci sono tre ordini di valori da considerare: quello sociale, cioè i rapporti con gli altri uomini, con i quali possiamo avere degli scambi, tra cui il partner, i bambini, gli amici; poi ci sono quelli materiali, cioè le interazioni con l’ambiente concreto che ci circonda, come gli animali, la musica, i libri, le auto; infine c’è l’ordine esistenziale, cioè il nostro rapporto con la natura, con l’arte, con la spiritualità. Se in tutti questi tre domini noi sperimentiamo il sentimento di una connessione vitale, allora avremo una vita riuscita. Questa risonanza, cosa è in grado di sviluppare? E cosa muove dentro di noi?

Si tratta di un’esperienza molto individuale. È fondamentale che sia generata da qualcosa di esterno a noi, in grado di parlarci: qualcosa di «altro», che non possiamo controllare, e che forse non riusciamo nemmeno a capire completamente. Deve essere qualcuno che non pensa o sente per nulla come noi. Con un robot che conferma costantemente le nostre opinioni, ad esempio, non potremmo mai costruire questa risonanza. Le relazioni d’amore al contrario sono ideali, proprio perché noi non potremo mai avere completamente in pugno l’altra persona e lei ci lascerà

Una conferenza a Zurigo Hartmut Rosa (53 anni) è docente di sociologia alla Friedrich-SchillerUniversität di Jena e direttore del Max-Weber-Kolleg dell’Università di Erfurt. Oltre ad essere insegnante e ricercatore, e pubblicista. Tra i suoi numerosi libri, Resonanz. Eine Soziologie der Weltbeziehung, (Suhrkamp 2016) e Unverfügbarkeit (Residenz Verlag 2018). Harmut Rosa sarà presente venerdì 29 marzo alle 18.00 nella Kulturhaus Kosmos di Zurigo, come ospite del Settore attività sociali del Percento

culturale Migros. L’invito a tenere la conferenza si inserisce nel ventaglio di iniziative promosse da questo particolare settore, che si impegna a fornire modelli e soluzioni per le sfide che la società deve affrontare e, in questo modo, vuole contribuire alla coesione e alla partecipazione sociale e culturale in Svizzera. Tale attività si esprime anche con il sostegno a progetti che vadano nella stessa direzione. Informazioni di dettaglio nel sito web: www.percento-culturale-migros.ch/ sociali

sempre con qualcosa da scoprire. La stessa esperienza si prova ad esempio con gli animali domestici. In certi momenti il gatto si lascia accarezzare e fa le fusa, un attimo dopo ci ignora e non gli interessiamo più. Questa imprevedibilità quindi è fondamentale?

Esatto. Se succedesse soltanto ciò che prevediamo, in noi non nascerebbe nulla, non si svilupperebbe questa risonanza. È fondamentale il nostro vissuto personale. Capita quando ci troviamo a pensare: «Questa esperienza mi sta dicendo qualcosa di speciale...». Ciò che per me è importante, ciò che porta qualcosa di nuovo nella mia vita, mi cambia. Oppure ciò che mi sopraffà dall’esterno, qualcosa a cui io devo arrendermi. Come essere costretti a salire su una montagna, senza poterlo rifiutare. Oppure come innamorarsi senza possibilità di salvezza. Simili spinte possono venire solo dall’esterno di noi. La risonanza può anche irritare e creare conflitto. Ad esempio all’interno della nostra stessa famiglia. Una relazione buona e vivace crea regolarmente momenti di risonanza, e di quando in quando anche di gioia, ma pure di conflitti che nel caso ideale possono condurre poi a una crescita.

Molte persone oggi non permettono al «nuovo» di raggiungerle. Le opinioni che non sono compatibili con le nostre sono rifiutate, a volte si preferisce quasi credere alle bugie.

Sì, ci troviamo oggi in un periodo di crisi che non è solo economico o politico, ma anche culturale. Molte persone sono arrabbiate e frustrate, perché sentono che la loro vita non soddisfa le loro aspettative. Ciò dipende anche da una mancanza di risonanze, proprio perché abbiamo disimparato ad ascoltare quello che abbiamo dentro e ciò che ci parla «da fuori». Tuttavia quello che ci serve è l’apertura, la disponibilità a lasciarci prendere, a lasciarci andare senza sapere dove questa apertura ci porterà, ma è una spinta che si deve assecondare. Perché è così difficile?

Perché viviamo in una società che è

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votata in ogni suo aspetto alla crescita, all’ottimizzazione, alla razionalizzazione, a disponibilità, sicurezza e controllo. Questo ci riempie di stress e scatena paure: ciò è veleno per l’apertura mentale e la disponibilità al contatto. Se ci sono dei cambiamenti, li rifiutiamo, e reagiamo ponendoci invece obiettivi precisi, anche in ambito non professionale: «Voglio fare almeno 10’000 passi al giorno, oppure avere almeno 1000 seguaci su Instagram». Per molte persone i cambiamenti sono un problema. Specialmente nel mondo del lavoro, che ci costringe regolarmente a subirli.

Proprio in quel contesto i cambiamenti si verificano di solito in modo molto unilaterale. Fa parte della risonanza anche il fatto che io possa rispondere con la mia propria voce, e replichi in questo modo alla mia controparte, in modo che ne nasca un dialogo. Nell’economia capita invece spesso si decida dall’alto su come debbono avvenire i cambiamenti, senza che ci sia nessuno scambio. Per questo molte persone si sentono snaturate nel loro lavoro. Dietro a quel problema si nasconde però qualcosa di fondamentale. Visto che il nostro mondo del lavoro ci offre così poche possibilità di risonanza, ecco che salgono le

nostre aspettative rispetto ai finesettimana. Questo è sufficiente?

No, e nella maggior parte dei casi non funziona nemmeno. Effettivamente cerchiamo di creare dei contesti alternativi al lavoro, piccole oasi da cui traiamo grandi aspettative. Ma spesso non si crea un vero scambio, perché siamo solo consumatori passivi. E ci manca comunque l’apertura all’inatteso, perché tutto è già stato programmato. Informazioni

La versione completa dell’intervista è su www.azione.ch

Biglietti in palio «Azione», in collaborazione con il Percento culturale Migros, mette a disposizione dei suoi lettori alcune coppie di biglietti gratuiti per la conferenza di Harmut Rosa che si terrà alla Kulturhaus Kosmos di Zurigo il 29 marzo (vedi riquadro a fianco). Per partecipare all’estrazione, occorre seguire le istruzioni contenute nella pagina del sito web www.azione.ch/concorsi. Buona fortuna! Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 25 febbraio 2019 • N. 09

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Società e Territorio

Socio, né proprietario né inquilino

Alloggi Da Tegna al Mendrisiotto passando da Lugano: crescono anche in Ticino le iniziative e i gruppi interessati

a realizzare delle cooperative d’abitazione

Stefania Hubmann Una cooperativa d’abitazione realizzata aiuterebbe a migliorare la conoscenza di questa forma abitativa in Ticino. Le iniziative non mancano, ma si scontrano con le difficoltà che spesso incontrano i progetti innovativi. Anche l’ente pubblico potrebbe favorire il decollo di una cooperativa che poi, come dimostrano le esperienze nel resto del Paese – da Zurigo a Berna, dal Canton Vaud a quello di Ginevra – si gestisce molto bene da sola. Scegliere di vivere quale socio di una cooperativa d’abitazione significa essere a metà strada fra proprietario e inquilino e non ha nulla a che vedere con una comune. CASSI (Cooperative d’Abitazione Svizzera sezione Svizzera Italiana) promuove questo concetto che offre vantaggi sociali ed economici non solo per i soci. A beneficiarne sono pure la comunità e l’ambiente. Sfide quali l’invecchiamento della popolazione, lo sfruttamento razionale del territorio, lo spopolamento delle valli possono essere affrontate anche grazie alle cooperative d’abitazione, forti in Svizzera di una tradizione centenaria.

A livello nazionale l’associazione mantello delle cooperative d’abitazione compie 100 anni Proprio quest’anno l’associazione mantello Wohnbaugenossenschaften Schweiz (wbg) festeggia la ricorrenza con il motto: 100 anni per abitazioni eque. Sono previste manifestazioni durante l’intero arco del 2019 in varie parti della Svizzera con un evento in Ticino il prossimo autunno. Al momento Monique Bosco-von Allmen, presidente di CASSI, non può ancora fornire dettagli sebbene vi sia l’auspicio di poter sottolineare il giubileo unitamente ai 60 anni della Residenza Emmy. Quest’ultima, fondata da un gruppo di donne luganesi, ha svolto un ruolo precursore in Ticino. Gestita ancora oggi da un consiglio di amministrazione tutto al femminile, promuove alloggi a pigione moderata per persone anziane. L’edificio, situato nel quartiere di Loreto, è stato costruito nel 1972 su un terreno dato in diritto di superficie dalla Città. Ed è proprio su questo tema, il di-

ritto di superficie, che CASSI, rivitalizzata due anni fa per iniziativa della sua presidente e del membro di comitato Rolf Würth, intende organizzare prossimamente un evento pubblico. Spiega Monique Bosco-von Allmen: «Conoscere il funzionamento del diritto di superficie può aiutare a sbloccare sia gli enti in grado di mettere a disposizione una proprietà, sia una cooperativa di soci. L’acquisto del terreno sul quale edificare o di un edificio esistente da ristrutturare è infatti di solito il principale ostacolo dei soci in ragione dei suoi costi». La presidente di CASSI cita gli esempi di Zurigo e Ginevra dove l’ente pubblico è risultato determinante per la nascita delle cooperative d’abitazione. Al riguardo precisa: «Nella Città di Zurigo gli appartamenti delle cooperative sono più o meno 40mila e circa il 13% di esse ha costruito su terreni messi a disposizione dal Comune». Se a Zurigo le cooperative hanno una lunga tradizione, a Ginevra si investe in questo tipo di abitazione da pochi anni. Il Cantone desidera rinforzare il loro ruolo nella politica dell’alloggio attraverso un piano d’azione che comprende appunto l’attribuzione di terreni (disponibili o acquistati ad hoc) e la garanzia dei prestiti ipotecari. Una figura specifica è stata inserita nell’amministrazione per occuparsi di questo settore d’intervento. Il finanziamento rappresenta pure una questione importante già approfondita da CASSI in occasione di un paio di conferenze pubbliche. Assieme allo statuto della cooperativa e alle condizioni di un eventuale diritto di superficie deve essere messo a punto con cura, meglio se con la consulenza di persone competenti. La cooperativa d’abitazione è un sistema flessibile e democratico che funziona al meglio se ben regolato. Essa si compone di un minimo di 7 soci (ognuno dispone di un voto) riuniti per coprire il loro fabbisogno abitativo secondo il principio della corresponsabilità e del reciproco aiuto a condizioni finanziarie accettabili. In pratica il socio è al tempo stesso comproprietario dei beni nel loro insieme e inquilino dell’appartamento che occupa. Divulgare, informare, offrire consulenza agli interessati come pure a istituzioni ed enti pubblici sono gli obiettivi a breve termine di CASSI, che comprende anche i committenti di immobili di utilità pubblica. Essa si propone quale punto di riferimento e promotrice di una cultura dell’abitare

Siedlung Bockler della cooperativa Wogeno di Zurigo è uno degli esempi a cui si guarda dal Ticino.

tesa a superare la dicotomia proprietari o inquilini. A chi sostiene che questa forma di alloggio collettivo non rientra nella cultura della nostra regione, la presidente risponde citando la condivisione di stalle, forni e attrezzi da lavoro che caratterizzava le generazioni passate nella realtà rurale del Cantone. Dall’Italia inoltre giungono notizie di un nuovo interesse per le cooperative d’abitazione, in particolare per il modello svizzero. Da rilevare, infine, la rete e la solidarietà esistente fra le cooperative sul piano nazionale. È infatti possibile beneficiare di sostegni finanziari elargiti dalla Confederazione tramite le due organizzazioni mantello, così come è reale la disponibilità di alcune cooperative confederate a partecipare a iniziative ticinesi in qualità di soci per aiutare ad avviare i primi progetti. Fra questi ricordiamo innanzitutto quello di VivInsema, la cooperativa che da diversi anni cerca di realizzare un complesso abitativo a Tegna. Rallentata da procedure di ricorso che lo scorso luglio si sono concluse a suo favore, ora deve colmare il vuoto lasciato da alcuni soci i quali, visti i tempi lunghi, hanno optato per altre soluzioni. Spiega Sebastiano Pollock: «Al momento riusciamo ad occupare i due terzi dei 17 appartamenti previsti, per cui cerchiamo

ancora 3 o 4 soci per ottimizzare l’operazione dal punto di vista finanziario. Abbiamo fissato un periodo di sei mesi per raggiungere questo obiettivo durante i quali organizzeremo alcune attività per promuovere la nostra cooperativa». Secondo Pollock VivInsema, situata fra città e campagna, risponde ad un certo tipo di bisogno, ma in Ticino vi sono opportunità per realizzare cooperative d’abitazione sia cittadine sia nelle valli. Chi non si è posto limitazioni da questo punto di vista è il gruppo Cam’On! del Mendrisiotto, che ha organizzato una serata pubblica sostenuta da CASSI lo scorso gennaio. Francesco Giudici precisa che la dozzina di potenziali soci non si è ancora costituita formalmente in cooperativa. A seguito della serata sono stati organizzati tre gruppi di lavoro. «Il primo si occuperà di preparare lo statuto – spiega Giudici – mentre al secondo spetta il compito di cercare opportunità abitative, siano esse terreni o edifici esistenti. Il terzo gruppo si impegnerà nel presentarsi a enti e associazioni con interessi affini a quelli di una cooperativa d’abitazione». Per chi invece desidera promuovere il vivere ecologico (senza l’uso dell’auto) in città, nella fattispecie Lu-

gano, il problema maggiore è rappresentato dallo spazio da destinare al progetto della cooperativa. «Plausibilmente sfumata l’occasione di ottenere in diritto di superficie il terreno comunale in zona Lambertenghi – riferisce il presidente de Il Domani e segretario di CASSI Leandro Pozzi – stiamo valutando altre possibilità per soddisfare le esigenze di una dozzina di soci». Benché il termine cooperativa d’abitazione inizi ad essere più diffuso, in Ticino il percorso di chi crede nei benefici e nei valori di questo modo di vivere e cerca di realizzarlo è ancora in salita. Come testimoniano i portavoce di alcuni progetti in divenire e come conferma la presidente di CASSI mancano alcune agevolazioni che potrebbero fare la differenza. È pure indispensabile continuare a diffondere informazioni precise sulle caratteristiche delle cooperative d’abitazione e sul loro funzionamento. Informazioni

www.cassi.ch www.wbg-schweiz.ch VivInsema: www.vivinsema.ch Cam’On!: cooperativaabitativamomo@gmail.com Il Domani: pozzi.leandro@gmail.com

Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Luigi Dal Cin – Francesco Fagnani, No, la zuppa no!, Lapis. Da 4 anni Una storia sul potere della fantasia in cucina e sul potere della fantasia tout court. Il momento del pasto dev’essere un piacere e allora perché non provare nuovi ingredienti e nuovi accostamenti, invece di battere per forza strade già note? La zuppa di cavolo fa bene, certo, ma magari anche i mirtilli col pane possono costituire un pasto sano, soprattutto se vengono proposti da un orco che li ha raccolti appositamente nel bosco. Sì, proprio l’orco che la mamma di Peter, che non vuole la zuppa, ogni settimana agita come spauracchio: «Se non la mangi, sarò costretta a chiamare l’orco». Finché il giorno in cui Peter non intende ragioni, la mamma non si ferma alla O, ma dice proprio tutta la parola, chiamando dalla finestra aperta: «Orco!» È qui il punto cruciale della storia: dal bosco, dove tutto è buio, il tempo sembra

sospendersi. Tra la finestra e il bosco c’è la soglia tra il qui e l’altrove, il limbo dove l’infanzia vive la sua vita più vera. Ed è interessante la doppia dimensione che si viene a creare: da una parte la mamma, che pensa «quando Peter vedrà che non arriva nessun orco, capirà che l’orco è un personaggio di fantasia e che è tutta una mia messinscena...»; dall’altra i rumori inquietanti che iniziano ad emergere dal silenzio del bosco. È in questo sottile confine, anzi in questo sconfinamento tra mondo reale e mondo immaginario, che si

gioca la suspense e l’emozione. Perché, certo, l’orco arriva davvero. Paura, e poi sollievo: è un orco simpatico, grande e grosso e rassicurante, che porta degli squisiti mirtilli, da gustare in allegria tutti insieme. Ogni settimana, Peter e la mamma andranno a casa dell’orco a provare nuove ricette con i mirtilli, tanto che Peter, consolidato da questo nucleo familiare anomalo ma ben integrato da una sorta di non convenzionale ma rassicurante figura paterna, potrà addirittura esprimere appieno la propria identità e trovare la propria strada nella vita. Andrea Valente – Umberto Guidoni, Voglio la luna, Editoriale Scienza. Da 9 anni Torna la coppia Andrea Valente-Umberto Guidoni, che già con diversi libri, editi da Editoriale Scienza, ha suscitato l’interesse dei ragazzi, integrando la verve dello scrittore Valente con la competenza scientifica dell’astronauta

e astrofisico Umberto Guidoni. Dopo essersi occupati dello spazio, dell’ambiente e dell’evoluzione tecnologica, Valente e Guidoni creano un libro di astronomia che si concentra sulla luna, a cinquant’anni dall’Apollo 11, «allunato» in quell’indimenticabile 20 luglio del 1969. Ma non solo della celebre missione si parla in questo libro, che è invece un vero e proprio approfondimento (per quanto leggero e divulgativo) sul tema «luna», trattato da diverse angolazioni. Infatti, efficace è la suddivisione del libro, tripartita:

una prima parte è dedicata alla mitica luna, ossia alla luna nell’arte e nella cultura (dalla poesia alla musica, alla narrativa, al cinema, alle leggende); la seconda parte, luna scientifica, è quella più propriamente astrofisica; mentre la terza parte, avventurosa luna, ha un taglio storico, che ci presenta la cosiddetta era spaziale, dal lancio dello Sputnik, nel 1957, fino alla Stazione Spaziale Internazionale dei giorni nostri. Sono eventi che riguardano non solo la storia degli astronauti, ma anche quella politica, soprattutto negli anni della Guerra Fredda, e quella tecnologica, con l’avvento dei computer. Tutti temi che vengono accennati nel libro, arricchendolo. Non mancano suggestivi accenni anche a possibili sviluppi futuri, e un chiaro e utile glossario finale. Ogni sezione ha poi un intermezzo fantasioso e narrativo, costituito da un breve racconto di Valente. Le illustrazioni, molto ben fatte, sono di Susy Zanella.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 25 febbraio 2019 • N. 09

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Società e Territorio Rubriche

L’altropologo di Cesare Poppi Eppure si era mossa Il 26 febbraio 1616 un Galileo Galilei col volto preoccupato saliva lo scalone della residenza romana del Cardinal Bellarmino per ricevere un’ingiunzione della Santa Inquisizione al termine del primo processo che lo vide sul banco degli imputati. Il team di teologi che aveva esaminato per un’intera settimana le sue posizioni su istigazione degli zelanti predicatori Domenicani Tommaso Caccini e Niccolò Lorini gli ingiungeva di abbandonare le posizioni Copernicane relative alle teoria eliocentrica in quanto «folli ed assurde del punto di vista filosofico formalmente eretiche in quanto contraddicono a più riprese il senso delle scritture». Dunque, sentenziava la lettera, Galileo avrebbe in futuro dovuto astenersi «…dall’insegnare o difendere la sua dottrina o dal discuterla… e abbandonare completamente… l’opinione che il Sole stia immobile al centro del mondo e che la terra si muova… e pertanto non difendere tale asserzione in qualsiasi forma, tanto in forma scritta quanto in forma orale». Il risultato del primo processo contro Galileo era maturato nel clima di un rinnovato sforzo della Chiesa Romana per asserire la sua autorità dopo che, col Concilio di Trento, terminato nel 1563, il partito più

conservatore aveva avuto la meglio ed il crescente successo della Riforma Protestante minacciava seriamente l’autorità di Roma. Il dibattito sulla questione eliocentrica aveva peraltro una lunga storia. Nel 1610 Galileo aveva pubblicato il suo Sidereus Nuncius («Il Messaggero Stellato») nel quale sottoscriveva le teorie già elaborate per via matematica da Niccolò Copernico nel suo De Rivolutionibus Orbium Celestium del 1543, due anni appena prima dell’inizio del Concilio di Trento, senza peraltro suscitare reazioni che oggi chiameremmo virali. Viene da chiedersi perché mai Copernico non finì nei guai mentre Galileo sì, visto anche che – paradossalmente – il suo modello eliocentrico aveva causato forte opposizione negli ambienti protestanti e non in quelli cattolici romani. La risposta al dilemma va cercata forse nel fatto che mentre Copernico proponeva un modello matematico – e in quanto tale pertanto ipotetico e aperto alle confutazioni, Galileo sostanziava cifre e calcoli con l’osservazione sperimentale da lui effettuata telescopio alla mano – o forse meglio dire all’occhio. «Occhio non vede, cuore non duole»: quello che era stato per le equazioni copernicane,

con Galileo acquisiva un carattere minaccioso di condanna di quella teoria geocentrica che – da quando Giosuè aveva fermato il sole a Gerico – era divenuta la posizione ufficiale della Chiesa. Ma qui il paradosso acquista toni da farsa. Ai tempi della contesa, la Chiesa cattolica era fortemente aristotelica nelle sue posizioni filosofiche – e prima fra tutte quel bunker di difesa dell’ortodossia che era diventata il think tank di Roma – ovvero l’Università di Bologna in particolar modo dopo il richiamo all’ordine promosso dal Concilio di Trento. Qui l’aristotelismo aveva battuto con successo la moda del neoplatonismo che, col Rinascimento, aveva riportato in auge quello che oggi chiameremmo posizioni filosofiche irrazionaliste: con Aristotele lo sguardo rimaneva fisso alle cose terrene, percepibili coi sensi e provabili con l’osservazione, così come graficamente illustrato nell’Accademia di Raffaello, dove Platone punta l’indice al Cielo mentre Aristotele indica la Terra. Era bensì vero che lo stesso Aristotele era stato geocentrico, ma la tendenza metodologicamente «materialista» della sua dottrina face, col caso Galilei, uno scivolone clamoroso nel momento in cui si preferì la lettera del testo al suo spirito.

Lo stesso Cardinale Bellarmino, attento lettore dei testi galileiani, aveva espresso una certa simpatia perlomeno tradottasi in posizioni possibiliste nei confronti della teoria eliocentrica. Era addirittura arrivato a suggerire che Galileo assumesse una posizione meno dogmatica e più possibilista – onde evitare la censura – suggerendo che le sue altro non erano che «ipotesi» passibili di critica e revisione e non descrizioni di uno stato di fatto provato ed osservabile. Insomma, pur avendo messo la museruola a Galilei, le autorità ecclesiastiche avevano espresso comunque posizioni moderate nei suoi confronti. Dopo un secondo incontro con Bellarmino, Galileo ebbe un’udienza con Papa Paolo V proprio perché al corrente delle posizioni moderate dello stesso. Il Papa aveva rassicurato Galileo che sarebbe stato al sicuro da altre persecuzioni fino a quando lui fosse stato capo della Chiesa romana. Ma Galileo non ci stava. Dopo alcuni anni nei quali tenne un profilo basso, nel 1610 pubblicò uno studio sulle maree e nel 1619 un altro sulle comete. Qui sosteneva che le maree fossero una delle tante prove della teoria eliocentrica. Poi, nel 1632, ormai vecchio, pubblicò il Dialogo sui Massimi Sistemi del Mondo, Tolomaico

e Copernicano dove metteva bene in chiaro che non aveva cambiato idea. Il resto è storia: stavolta la reazione dell’Inquisizione non si fece attendere e non propose compromessi. Nel 1633 Galileo fu processato e, per evitare il peggio, fu costretto ad abiurare essendo stato dichiarato «veementemente sospetto di eresia». Fonti peraltro spurie ci hanno tramandato che, al termine del processo che lo vide rinnegare il lavoro di una vita, abbia esclamato quell’«eppur si muove!» passato alla storia. Morale? Fosse Galileo in un altro momento e non invece nel pieno del caos culturale, sociale e politico nel quale un’élite usa a governare (quasi) senza contraddittorio si trovava a dover negoziare una crisi senza precedenti (ricordiamo che per lungo tempo Lutero godette di simpatie anche presso certe alte gerarchie della curia romana prima che la situazione precipitasse), forse avrebbe goduto dello stesso trattamento veniale riservato a Copernico – lui stesso messo all’Indice dei Libri Proibiti quando Galileo fu condannato – quasi un secolo prima. Ma la Storia, ahinoi, capita quando le pare. Ovvero mai al posto giusto al momento giusto: ma tant’è.

martellati da messaggi pubblicitari che, spesso in modo subliminale, finiscono per convincerci della nostra inadeguatezza e per indurci ad acquistare ciò che non abbiamo, ciò che non siamo. Suppongo che la sua silhouette sia disegnata in modo che ne risulti una figuretta adolescenziale cui mal di addice un seno prorompente. Inoltre, come si sa, esistono artifici sartoriali meno invasivi del bisturi. Probabilmente suo marito è rimasto influenzato dallo scontento che lei esprime e intende rasserenarla sostenendo il suo progetto. Durante la gravidanza e il parto, l’interesse della coppia si concentra sul lieto evento trascurando i rapporti reciproci e la sfera erotica. Ma ora lei deve ritornare a essere donna oltre che madre, a riconquistare l’am-

bito dell’intimità, della complicità, del gioco e del piacere. A questo scopo credo sia meglio una deliziosa cenetta a lume di candela che la frequentazione di una clinica. Suo marito si è innamorato di lei così com’è, non come vorrebbe che lei diventasse. Siete belli per la giovinezza, siete belli perché avete messo al mondo un bel bambino, siete belli perché avete tutta la vita dinnanzi, siete belli perché i nostri auguri vi accompagnano.

La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi La chirurgia e il desiderio di sentirsi bella Gentile Silvia, fin da ragazzina sono stata affranta dalla mancanza di seno, persino la minima è in eccesso! Avrei voluto tanto sottopormi a un intervento di chirurgia estetica ma mia sorella, che mi ha cresciuto, me lo ha sempre proibito. Ora però, sposata da cinque anni e mamma da uno, ho trovato un alleato in mio marito. Visto che neanche la nascita di un figlio e un breve allattamento hanno risolto la questione, propone di accompagnarmi lui stesso da un noto chirurgo. Mia sorella però continua a ostacolarmi. Lei che ne dice? / L. Gentile signora, tempo fa un chirurgo estetico, particolarmente apprezzato per la sensibilità psicologica, mi ha confer-

mato che in effetti molte donne, anche giovanissime, giungono nel suo studio accompagnate da mariti e compagni che, mentre le future pazienti tacciono, gli mostrano dove aggiungere, togliere, alzare, rimodellare il corpo della partner. Lui stesso, nonostante abbia un evidente interesse professionale a intervenire, si è mostrato molto perplesso e io lo sono ancora di più. Possibile che le battaglie del femminismo (cui ho partecipato con tante speranze) non abbiano lasciato alcuna eredità? Che esistano ancora giovani così arrese ai desideri maschili? L’immagine del corpo è parte integrante della nostra identità e della nostra storia. Noi siamo prima di ogni altra cosa un Io corporeo. Il fatto di considerarci inadeguate e insufficienti può avere tante ragioni ma vanno

conosciute prima di metterle a tacere con un «passaggio all’atto» che non si rivela quasi mai risolutivo. Non lo sarà neppure per il vostro rapporto di coppia. Suo marito insegue un fantasma che non le corrisponde, un desiderio di perfezione che lei, come nessun’altra, riuscirà mai a incarnare. Entrambi rischiate di andare incontro a una delusione difficilmente rimediabile. Il suo desiderio di sentirsi bella non è una colpa, ma prima di sottoporsi al bisturi, occorre chiarire: «chi parla?». In questa società l’estetica tende a prendere il posto dell’etica, a sostituire il Bene con il Bello. Per i Greci antichi erano la stessa cosa ma non pretendevano certo di incarnarli con interventi chirurgici. Li proiettavano piuttosto nelle opere d’arte e nell’armonia di una buona vita. Ora invece siamo

Informazioni

Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch

Mode e modi di Luciana Caglio Anche in medicina le parole contano Nell’era della comunicazione di massa, dove la tecnologia ha annullato le distanze fra interlocutori lontani, permangono zone stranamente silenziose, fra vicini che non riescono a intendersi. E succede proprio in situazioni d’emergenza, qual è la malattia quando, chi chiede una cura non entra in sintonia con chi la presta. Questione, insomma, di parole discordanti: quelle del paziente, che racconta il suo disagio, e quelle del medico, che spiega i suoi rimedi. Esprimono, infatti, due interpretazioni

diverse della stessa realtà, vissuta sulla propria pelle, e quindi emotivamente, dal malato, e, invece osservata con distacco professionale, e quindi razionalmente, dal terapeuta. Secondo un recente sondaggio, la maggioranza degli americani affronta la visita medica con imbarazzo, soggezione e timore Ma, ecco finalmente una buona notizia: l’avvicinamento dei partner, coinvolti nell’emergenza malattia, è possibile. Lo sta dimostrando l’esperienza, ormai ventennale, dei seminari, organizzati a Lugano, dalla Fondazione di ricerca psiconcologica e dall’Associazione di volontariato Triangolo, di cui sono stata diretta testimone: li ho seguiti quasi tutti e, per il mestiere che faccio, incuriosita in particolare dall’evoluzione del linguaggio. Si è, insomma, saputo fare di necessità virtù. Non si trattava, certo, di banalizzare i contenuti scientifici dei nuovi traguardi di una medicina tecnologicizzata, bensì

di definirli usando termini che hanno corso nella parlata attuale, all’insegna della chiarezza e della comunicabilità. Abbattendo, per cominciare, la barriera del «medichese», quel gergo, paragonabile al vecchio latino, che apparteneva, fino a pochi decenni fa, allo status symbol, professionale e sociale del «signor dottore», depositario del sapere e dell’autorevolezza. D’altro canto, il paziente, cliccando Internet e sbirciando rubriche di divulgazione salutista, si è costruito una presunta competenza in materia, elaborando la propria diagnosi da contrapporre a quella medica. Ciò che, a prima vista, può passare per una conquista democratica, dando voce a tutti, in pratica ha comportato il rischio di malintesi e derive. La caduta del potere assoluto del medico, quale esponente dell’ufficialità, ha favorito l’avanzata della variopinta categoria degli alternativi. Sotto etichette diverse, vanno proponendo, con successo,

esercizi fisici e spirituali, diete, tisane, e via enumerando rimedi che promettono salute, giovinezza, serenità, a iosa. Ancora una volta, è questione di parole che seducono e attecchiscono trovando un terreno particolarmente ricettivo, in un periodo in cui i poteri costituiti, le ideologie tradizionali, le cosiddette caste sono sotto processo. Si sta assistendo, esaminando appunto il linguaggio, a due filoni che si muovono in direzioni opposte. Frequentando i citati seminari ho avuto modo di constatare il bisogno e la capacità, da parte della medicina ufficiale, di mettersi in discussione, di riconoscere i propri limiti, di coltivare la virtù del dubbio. Il più delle volte, com’è successo anche quest’anno con il tema «Trattare il dolore o curare il malato?», si proponeva un interrogativo. A cui rispondere valutando i pro e i contro che, spesso, accompagnano una terapia o un farmaco. Per dirla con Giancarlo Dillena,

che in questi incontri svolge la funzione di «avvocato del diavolo»: «La pastiglia magica non è ancora stata scoperta». In realtà, proprio nell’ambito del dolore ci si muove su un terreno scivoloso, aperto a interventi miracolistici, sfruttati da guaritori, manipolatori e sciamani vari. In definitiva, è precisamente l’uso delle parole che stabilisce la linea di demarcazione fra scienza e parascienza, fra lealtà e inganno. Da un lato, seri ricercatori ammettono le lacune del loro lavoro e si arrendono all’inevitabilità delle sconfitte. E non nascondono, neppure, la difficoltà di spiegare fenomeni come l’effetto placebo: basato su un’illusione, che rimane tale. Dall’altro il trionfalismo compatto, mai sfiorato da titubanze e scetticismo, di quelli che vendono la loro merce contando su una diffusa creduloneria. Come, aveva osservato il filosofo Sini, in un precedente seminario, «vanno scomparendo i credenti, sostituiti però dai creduloni».


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Ambiente e Benessere Apre il salone di Ginevra Alcune anticipazioni sui modelli presentati dalla Volkswagen

Haiti, uno Stato di speranza Dalla cronaca alla realtà tra terremoti, tifoni, incendi che hanno disboscato ma non inaridito la terra, e soprattutto governi corrotti

Gli antichi vigneti di Francia La viticoltura provenzale dai primi impianti di Forum Julii (Fréjus) fino a oggi pagina 24

L’anno del maiale Quali sono le differenze tra le caratteristiche zodiacali del segno cinese e l’animale vero?

pagina 21

pagina 20

pagina 27 I Premi Nobel per Medicina, Tasuku Honjo e James Allison, Stoccolma, dicembre 2018. (Bengt Nyman)

Il sistema immunitario come terapia contro i tumori Oncologia La svolta in questo campo della medicina è da attribuire alle ricerche

dei due Premi Nobel James Allison e Tasuku Honjo Sergio Sciancalepore A che serve il sistema immunitario? Serve a difenderci da virus, batteri, parassiti e dalle malattie che provocano. Risposta esatta, ma non completa. Il sistema immunitario – l’insieme delle cellule sparse per tutto il corpo e di organi come i linfonodi, la milza e altri – ha un compito più generale, cioè riconoscere quello che fa parte del nostro organismo (quindi da proteggere) e quello che gli è estraneo, da eliminare perché potenzialmente pericoloso. In che modo lo fa? Controllando delle sostanze delle molecole, che si chiamano «antigeni», prodotte dalle cellule. Un esempio. Molti virus e batteri sono pericolosi e devono essere eliminati: questi microrganismi producono antigeni speciali che permettono al sistema immunitario di identificarli come estranei o, come si dice con un termine inglese, non-self cioè non appartenenti al nostro corpo, quindi i microrganismi con antigeni non-self sono da eliminare. Una qualsiasi, nostra cellula normale – che ha antigeni diversi rispetto a quelli delle cellule non-self – è invece identificata dal sistema immunitario come nostra, cioè self, quindi da non eliminare. E i tumori? Sono estranei? Certa-

mente. Un tumore è formato da cellule che erano normali e che, a causa di mutazioni, cambiamenti in un certo numero di geni, diventano anormali: non seguono più le regole, si riproducono disordinatamente, invadono e danneggiano organi normali fino a provocare la morte, se sono maligne. I geni mutati producono sostanze anormali che il sistema immunitario identifica come estranee (non-self), come le cellule che le hanno fabbricate: sono gli antigeni del tumore, i neo-antigeni. Il sistema immunitario sorveglia costantemente, cerca le cellule tumorali e, riconoscendo i neo-antigeni, le attacca per distruggerle, soprattutto mediante i linfociti T citotossici. Purtroppo, questa difesa naturale spesso fallisce perché le cellule del tumore sono in grado di evitare l’attacco, inattivando il linfocita. Una delle caratteristiche fondamentali del sistema immunitario è la capacità di smettere di funzionare, di inattivarsi quando l’azione di difesa non è più necessaria, cioè quando le cellule non-self sono state eliminate: se la risposta immunitaria continuasse, per l’organismo sarebbe uno stress insopportabile. In che modo avvenga questa inattivazione, lo si è capito intorno al 1992, quando due scienziati – James Allison negli Stati Uniti e

Tasuku Honjo in Giappone – hanno scoperto i meccanismi che inattivano i linfociti T: per questo motivo, l’anno scorso, hanno ricevuto il premio Nobel per la Medicina, anche perché questa scoperta permette di incrementare la immunoterapia contro il cancro. L’équipe diretta da Allison scoprì che i linfociti T hanno un «freno» (si chiama CTLA-4), un complesso sistema di molecole che inattiva la cellula quando il suo compito è terminato: contemporaneamente, il gruppo di Hojno scoprì un altro «freno» del linfocita, il PD-1. Le ricerche successive hanno permesso di capire che le cellule del tumore possono agire su questi due «freni», impedendo al linfocita di distruggerle: accade infatti che, quando la cellula del tumore e il linfocita sono a contatto, la prima aziona i «freni» della seconda. Il linfocita T riconosce la cellula tumorale ma non si attiva per distruggerla. Il passo successivo – dopo anni di studi e sperimentazioni – è stato quello di trovare il modo di impedire alla cellula tumorale di inattivare il linfocita. La soluzione sta nel costruire in laboratorio molecole in grado di impedire al tumore di azionare il «freno», permettendo al linfocita di attaccare e distruggere la cellula tumorale: queste

molecole sono gli «anticorpi monoclonali». Il passo ulteriore è stato quello di provare l’efficacia di questo meccanismo di attivazione dei linfociti T in terapia antitumorale. Il primo farmaco del genere è stato approvato negli USA nel 2011, l’Ipilimumab (la desinenza «mab» indica che è un farmaco con anticorpi monoclonali) per il trattamento del melanoma anche con metastasi: il farmaco è risultato attivo in circa la metà dei pazienti che lo hanno ricevuto. Attualmente, sono una ventina gli anticorpi monoclonali in uso o in sperimentazione clinica e la ricerca per perfezionare questo tipo di terapia è in pieno sviluppo: si è scoperto, per esempio, che il trattamento è più efficace se si usano farmaci per sbloccare contemporaneamente i due «freni» del linfocita bloccati dal tumore. Le indicazioni attuali di questa immunoterapia sono per i seguenti tumori: melanoma, polmonari (non tutti), renali, epatici, gastrointestinali, della testa e del collo, del seno e altri. L’immunoterapia dei tumori esiste già da prima che venisse messa in pratica la scoperta di Allison e Hojno, utilizzando metodi e farmaci con meccanismi d’azione diversi: il primo farmaco immunoterapico contro la leucemia è del 1986, altre terapie sono

state messe poi a punto e ancora in uso. È importante inoltre ricordare che un efficace mezzo per prevenire gravi tumori come quello del collo dell’utero e del fegato, è la vaccinazione contro i virus che li provocano: rispettivamente, il Papilloma virus e i virus dell’epatite B e C. La scoperta di Allison e Hojno permette comunque di imboccare una strada nuova e molto promettente nell’immunoterapia del cancro. L’immunoterapia, infatti, non utilizza farmaci per distruggere direttamente le cellule tumorali, come fanno i chemioterapici e la radioterapia: si stimola e potenzia il nostro sistema immunitario (per esempio i linfociti T) ad agire contro il cancro, potremmo definirla una specie di cura «naturale» in grado – potenzialmente – di bloccare lo sviluppo di un tumore e distruggerlo, risparmiando le cellule sane. Una cura «naturale» senza effetti non desiderati? Gli effetti ci sono, certamente meno problematici rispetto alla chemioterapia, tuttora un metodo di cura di grande importanza: l’immunoterapia, stimolando il sistema immunitario, può per esempio determinare uno stato infiammatorio prolungato, peraltro trattabile con farmaci antinfiammatori.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 25 febbraio 2019 • N. 09

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Ambiente e Benessere

Allegrissime viole Mondoverde Tornare a sorridere grazie alla natura

Anita Negretti I momenti difficili nella vita si presentano a tutti. Un amico giardiniere, conoscendo ed avendo passato uno di questi brutti momenti, una mattina in cui gli confidavo le mie ansie, mi consigliò di trovare la forza per essere felice guardando le piante e i fiori che mi circondavano.

I primi esemplari arrivarono dai Pirenei, loro luogo di origine; nel corso degli anni sono state ottenute varietà molto affascinanti con colori che spaziano dal bianco, al giallo fino al celeste e al viola intenso Facile a dirsi, ma quando il cuore e la testa sono in subbuglio, anche i colori diventano sfuocati. Tornata a casa, durante le chiacchierate con mio padre, da poco scomparso, che avevano assunto un sapore prezioso, parlammo proprio di questo e lui mi disse di sentirsi come la piccola violetta che con forza e coraggio era riuscita a crescere da sola tramite seme nell’incavo tra due piastrelle di autobloccanti presenti nel nostro cortile. In realtà, io ho sempre paragonato mio padre a un castagno o una quercia, tipici alberi ricchi di forza, ma

Un esemplare di Viola x wittrockiana. (Jerzy Opiola)

in quel momento compresi che il vero coraggio non risiede nella grandezza e nella maestosità, ma nella caparbietà di riuscire ad affrontare le situazioni. Anche quando se ne vanno, continuano a restare accanto a noi, come la piccola violetta del cortile, che spaurita attende di poter tornare bella e allegra come prima. Così questo articolo parlerà non solo della coltivazione e delle note botaniche, ma anche della forza che le piante, i fiori e la natura riescono a regalarci, senza chiedere nulla in cambio, se non il rispetto che si meritano. Già gli antichi Romani coltivavano all’esterno delle loro abitazioni delle

E il colesterolo? La nutrizionista Laura Botticelli Mi hanno trovato il colesterolo alto, ma a me non sembra di esagerare con il mangiare! Consumo salumi meno di una volta a settimana, e formaggi o carni massimo tre volte a settimana. Mangio sempre molta frutta e verdura… cosa posso fare d’altro per abbassarlo? / Fabio Tutte le cellule animali contengono colesterolo perché è un grasso che svolge un ruolo nella fluidità e nella permeabilità delle membrane cellulari. È anche un precursore della vitamina D, degli ormoni steroidei surrenali, sessuali e dei sali biliari che emulsionano e migliorano l’assorbimento dei grassi a livello intestinale. Il colesterolo alimentare aiuta a mantenere un pool stabile di colesterolo, sintetizzato però anche dal fegato. Esso viene trasportato attraverso il sangue, attaccato alle proteine. Questa combinazione di proteine e colesterolo è chiamata lipoproteina, ed è presente sotto due forme: lipoproteine a bassa densità (LDL) o «cattivo», che trasporta le particelle di colesterolo in tutto il corpo e si accumula nei muri delle arterie rendendoli duri e stretti. E lipoproteine ad alta densità (HDL) o «buono», che raccoglie il colesterolo in eccesso e lo riporta al fegato. Se da una parte, quindi, è molto importante per la nostra salute, dall’altra può essere pericoloso se presente in grandi quantità, perché si possono sviluppare depositi di grassi nei vasi sanguigni che rendono difficile il flusso di sangue attraverso le arterie aumentando il rischio di un attacco di cuore o di ictus. Capisco quindi la sua preoccupazione. Per abbassarlo esistono fattori che possiamo controllare, e altri invece no. Tra quelli su cui possiamo agire vi è indubbiamente l’alimentazione evitando formaggi grassi, uova, carne di manzo, di maiale, crostacei e prodotti contenenti

grassi trans. Un’altra possibile causa è la presenza di obesità e di una grande circonferenza vita. Il rischio aumenta se sei un uomo con una circonferenza della vita di almeno 102 centimetri o una donna con una circonferenza della vita di almeno 89 centimetri. Possiamo poi modificare le nostre abitudini: il movimento aiuta il colesterolo HDL perché fa aumentare la dimensione delle particelle del colesterolo LDL, o «cattivo», rendendolo meno dannoso. Inoltre il fumo di sigaretta danneggia le pareti dei vasi sanguigni, rendendoli verosimilmente capaci di accumulare depositi di grasso. Fumare può anche abbassare il livello di HDL. Ha il diabete? Alti livelli di zucchero nel sangue contribuiscono ad aumentare il colesterolo LDL e ad abbassare il colesterolo HDL. Inoltre danneggiano anche il rivestimento delle arterie. Esistono poi fattori fuori dal nostro controllo: ad esempio, un corredo genetico può impedire alle cellule di rimuovere il colesterolo LDL dal sangue in modo efficiente o fa produrre troppo colesterolo nel fegato. Da quello che mi descrive in effetti non consuma eccessivamente alimenti contenenti colesterolo. Com’è messo con gli altri punti sopra descritti? Se anche in questo caso risulta tutto nella norma ne parli con il suo medico e si faccia prescrivere dei farmaci, perché il suo può essere un fattore genetico. Spero d’esserle stata utile. Informazioni

Avete domande su alimentazione e nutrizione? Laura Botticelli, dietista ASDD, vi risponderà. Scrivete a lanutrizionista@azione.ch Le precedenti puntate della rubrica e altri interessanti quesiti su temi nutrizionali si trovano sul sito: www.azione.ch

viole cornute, il cui nome deriva dallo sperone nettarifero che si può facilmente vedere nella parte posteriore del fiore. I primi esemplari arrivarono dai Pirenei, loro luogo di origine e nel corso degli anni l’infaticabile lavoro dei floricoltori hanno portato all’ottenimento di varietà molto affascinanti con colori che spaziano dal bianco, al giallo fino al celeste e al viola intenso. Alta fino a venti centimetri, questa piantina ha foglie ovali con apice appuntito, di color verde chiaro, fiori variopinti portati da steli lunghi una decina di centimetri e poche esigenze, se non un terreno soffice, leggero e ben

drenato. Piantate in vaso, cassette, balconette o direttamente in piena terra, fioriscono continuamente da ottobre fino a giugno, periodo in cui diventano bruttine per via dell’arrivo del caldo intenso, non gradito dalle delicate violette amanti del fresco. Come detto, esistono in commercio un gran numero di varietà, tra cui la viola cornuta cascante, in grado di coprire dai 50 agli 80 centimetri in verticale, con fioriture ricchissime. Tra queste spicca «Cool Wawe», la cui paternità è legata agli ibridatori della Pan American Seed, e insignita di importanti riconoscimenti nel 2012; «Peach Melba», dai colori pa-

stello che sfumano tra i rosa e i gialli, regalandoci essenze molto profumate o le più comuni «Rocki f1», dai colori sgargianti e dal portamento eretto. A tener compagnia a tutte queste violette dal fiorellino piccolo, ecco la viola del pensiero, le pansy o pansè, botanicamente chiamata Viola x wittrockiana, un ibrido ottenuto dall’incrocio di due specie e dai fiori larghi fino a cinque centimetri. Durante il massimo sviluppo, tra i mesi di marzo e maggio, le piantine di viola wittrockiana raggiungono la dimensione di 30-40cm in altezza e altrettanto in larghezza, regalandoci piccoli cespugli fioriti durante i frizzanti giorni primaverili. Anche in questo caso la cromia è notevole, partendo dal bianco ghiaccio, salendo per il rosa delicato e sfumato di «Dentini Rose Pink», fino ad arrivare alle tinte giallo zafferano, arancio, terra di Siena e rosso cupo, che tanto attraggono i collezionisti di tutto il mondo, arrivando a dedicargli libri, dipinti e mostre. Se la coltivazione risulta essere molto semplice, altrettanto lo è la semina: in luglio-agosto procuratevi alcuni vassoi da semina riempiti con un substrato soffice e leggero, una bustina di semenza del tipo da voi preferito, spargete i piccolissimi semini e innaffiateli con un nebulizzatore. Si dovranno coltivare in una zona a mezz’ombra, nebulizzando una volta al giorno per tenere il terriccio sempre umido, procedete poi alla ripichettatura in vasetti singoli quando le piantine avranno raggiunto i 2-3 centimetri di altezza. Annuncio pubblicitario

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Ambiente e Benessere

A Ginevra le nuove idee di VW

Motori Apre oggi nella città sul Lemano l’International Motor Show, proponendo una carrellata di auto

che arriveranno a breve nelle concessionarie e di prototipi che prefigurano le tendenze di domani

Mario Alberto Cucchi Torna a Ginevra, da giovedì 7 marzo a domenica 17 marzo, il Salone dell’Auto (www.gims.swiss). Si tratta dell’89esima edizione e, per l’occasione, il Gruppo tedesco Volkswagen ha deciso di svelare con un mese di anticipo alcune novità che porterà sul lago Lemano. Si tratta di un paio di anteprime mondiali tra le più attese nell’ambiente delle quattro ruote. Due mezzi che ben rappresentano lo spirito del Geneva International Motor Show. Da una parte la concretezza di vetture di grande produzione che arriveranno a breve nelle concessionarie e dall’altra le linee futuribili di prototipi che prefigurano le auto di domani. Ecco allora la nuova Passat, prodotta in varie serie a partire dal 1973. Un modello che continua a infrangere nuovi record. Basti pensare che la prossima primavera supererà i 30 milioni di unità prodotte. Si tratta dell’automobile di medie dimensioni di maggior successo a livello mondiale. L’altra novità svelata in anteprima è un prototipo di Buggy elettrico capace di far sognare più generazioni di appassionati. Realizzato sulla piattaforma elettrica modulare MEB prende spunto dai suoi predecessori anni Settanta. Mezzi che utilizzavano come base il mitico Maggiolino. Ecco allora che come da tradizione non ci

Sarà svelato anche il prototipo di Buggy elettrico.

sono né il tetto fisso né le porte. A caratterizzare questo Buggy ci pensano le grandi ruote da fuoristrada. E subito lo si immagina mentre viaggia veloce sulla sabbia con due tavole da surf appoggiate dietro. Se la Buggy è una concept che dif-

ficilmente incontreremo su strada, di Passat invece ne vedremo molte. Questa ottava generazione integra tutte le innovazioni tecnologiche a disposizione del Gruppo tedesco. Si tratta, infatti, della prima Volkswagen in grado di guidare in modalità parzialmente

automatizzata a qualsiasi velocità da 0 a 210 chilometri orari grazie al sistema Travel Assist. Tra le novità anche il volante capacitivo. Come funziona? Rileva il tocco del pilota fornendo un’interfaccia interattiva. Insomma si tratta di un volante sensibile che attraverso

dei sensori e un software dedicato è in grado di assumere informazioni sulla nostra condotta di guida. Facciamo un esempio: se il pilota stacca le mani dal volante per troppi secondi il volante lo rileva immediatamente e l’auto provvede a fermarsi autonomamente. Sulla nuova Passat la tecnologia di bordo è davvero tanta. Non manca neppure l’Emergency Steering Assist che aumenta la sicurezza durante le eventuali manovre di scarto di ostacoli improvvisi. Poi ci sono i fari interattivi «IQ.Light – LED matrix» che sino a oggi erano disponibili esclusivamente sulla Touareg. Inoltre debutta la terza generazione della Modular Infotainment Matrixx (MIB3) che è integrata con l’avveniristico e sempre più presente cruscotto digitale. In questo modo anche al volante si è sempre connessi grazie ad App Connect e Apple CarPlay. D’altronde il sistema di infotainment è anche dotato di serie di una scheda SIM integrata proprio per la comunicazione con l’esterno. Tra le motorizzazioni disponibili, anche quella ibrida plug-in, la GTE, con potenza complessiva di 218 cavalli. L’autonomia in modalità completamente elettrica tiene circa per 55 chilometri. La nuova Passat sta arrivando. Quando? La prevendita nei principali Paesi europei inizierà a maggio. Annuncio pubblicitario

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Haiti, quale speranza?

Ambiente e Benessere

Reportage Lo stato di miseria in cui versa il paese è impressionante

adagiato sulla collina che sovrasta il centro città, è perennemente zona a rischio furti e aggressioni. Strade costantemente intasate dal traffico per la totale mancanza di pianificazione viaria. La città non offre alcuna occasione di svago. Sparite negli anni le sette sale cinematografiche esistenti; parchi lasciati all’abbandono totale; nessuna offerta culturale, mi dice Mayena, una giovane che lavora per un’organizzazione per la promozione delle strutture civiche del paese. Anche Jérémie, cittadina situata a otto ore di strada verso la punta occidentale dell’isola è lasciata al totale

abbandono. Nelle case edificate negli anni della colonizzazione francese, che offrono dei lunghi e bellissimi tratti di portici, s’intravvedono ancora i variopinti colori originali, ma le mura sono oramai fatiscenti, tanto da chiedersi come possano ancora accogliere la gente. Tante le mani tese a chiedere la carità. In centro città un grande giardino pubblico, che può assurgere a vero simbolo della decadenza da un passato glorioso. Vialetti elegantemente tracciati e delimitati da muretti dipinti di rosso. Sul lato che porta verso il mare una statua che ricorda tre generazioni della famiglia Dumas, di cui il bisnonno del famoso Alexander, autore tra l’altro dei Tre moschettieri, è nato proprio in città. Attorno, nel giardino ormai ridotto a semplice area in terra battuta da cui spuntano rarissimi ciuffi d’erbetta, una serie di giochi per bambini, tutti fuori uso. Sull’altro lato, verso la grande chiesa cattolica, un’ampia inferriata ovale, in parte divelta, al cui centro è posta una larga colonna. Sulla cima si indovina ancora la forma di due grandi scarpe. «Una volta lì c’era la statua di uno dei liberatori della patria», racconta in uno stentato francese mischiato al creolo un anziano seduto su un muretto «ma poi il tifone Mathieu due anni fa se l’è portata via…» e sorride con rassegnazione mostrandoci i pochi denti rimasti in bocca. Vicino a lui, altri vecchi a godere l’ombra dell’unico albero rimasto. Fuori dal parco

Fredy Franzoni

Su www.azione.ch si trova una più ampia galleria fotografica. (Fredy Franzoni)

Fredy Franzoni

Tristezza, che forse è anche amarezza. Questi i sentimenti, le emozioni che scorrono nella mente guardando Port au Prince dall’oblò dell’aereo appena decollato. Il viaggio era iniziato tre settimane prima all’aeroporto di Parigi con l’entusiasmo di un gruppo di donne, alcune accompagnate dai figli. Rientravano sulla loro isola per una prima vacanza dopo anni di vita da emigranti. «Ma voi avete mai visto un bianco sorridere sulla strada a Parigi?». Chiede una, facendo ridere tutti passeggeri del busnavetta che ci sta portando verso l’aereo. Piccola, rotondetta, pelle scura, seno prominente stretto in una giacca jeans nera. In testa un vistoso foulard leopardato; dai lobi delle orecchie pendono grandi orecchini in falso oro. Corre verso la scaletta dell’aereo sventolando le due mani verso l’alto «Haiti arrivooo…!», grida ridendo. Incontenibile e soprattutto contagioso il suo entusiasmo. Haiti, uno Stato di cui la cronaca si occupa regolarmente. Terremoti, tifoni, ma soprattutto governi corrotti. Attraversarla è piacevole alla vista. Morfologia ondulata. Lunghe spiagge, anche se in grandissima parte impraticabili. Laddove il disboscamento selvaggio non ha inaridito il suolo, ricca foresta tropicale, con palme e bananeti. Poi però ci si scontra con la durezza del vivere quotidiano della gente. Case fatiscenti, in gran parte poco più che delle baracche. Gente dallo sguardo spento, a differenza di coloro che avevo conosciuto nella loro lontana terra di origine, l’Africa. Gente schiva al momento di incrociare lo straniero. Rari i saluti spontanei che tanto ci avevano affascinati sul continente nero, anche se un nostro bonjour non manca mai di risposta e talvolta anche di un timido sorriso. Avevo avuto modo di visitare Haiti sette anni prima. Erano trascorsi pochi mesi dal terremoto che aveva mobilitato il mondo in una gara di solidarietà con pochi precedenti. Allora gli occhi miei e l’obiettivo del fotografo Alfonso Zirpoli, di cui avevamo riferito anche da queste pagine, si erano concentrati sui lavori di ricostruzione. Oggi invece ecco Haiti al di fuori dall’emergenza. Oltre un quarto della popolazione emigrata alla ricerca di lavoro. Totale assenza dello stato nei suoi servizi basilari, ma sempre attento a riscuotere tasse e balzelli che finiscono nelle tasche dei notabili, racconta Ernesto un ex funzionario dell’ONU che ha scelto comunque di continuare a vivere sull’isola anche dopo il pensionamento. «Qui c’è molto da fare» ci dice, «proprio per sopperire all’assenza dell’apparato statale, cercando di dare una prospettiva a chi non ha voluto o potuto andarsene». Port au Prince la capitale, salvo il quartiere residenziale di Petionville

frotte di ragazzi in motocicletta che offrono per pochi spiccioli il servizio taxi, unica possibilità di guadagno. I lampioni del giardino sono alimentati da piccoli pannelli solari, ma mancano le lampadine. Vicino svetta ben visibile l’antenna per le comunicazioni con i cellulari. Una cittadina con un passato certamente glorioso, ma di cui oggi rimangono solo imbarazzanti ricordi. Ingombrante la presenza religiosa, con oltre tremila sfumature diverse. La vita di tutto un popolo è impregnata o forse presa in ostaggio da tante chiese, predicatori, sette, credi diversi. Come da noi in passato e recentemente in molti paesi di fede musulmana l’assistenza sociale, scolastica e sanitaria, in assenza dello Stato, è appannaggio delle chiese. Ad Haiti, girando per le strade, ovunque scritte variopinte con lodi e ringraziamenti a dio, poco importa se sull’entrata di un negozio di ferramenta; sulla fiancata di un’auto che svolge il servizio taxi; su un camion carico di ferri vecchi o sui cassonetti in cui la gente corre per giocare alla lotteria o ad acquistare crediti per il cellulare. Camminando per le strade è un continuo imbattersi in chiese più o meno imponenti. La domenica, la sfilata di famiglie vestite a festa che in gruppo, Bibbia in mano, si recano nell’uno o nell’altro edificio sacro. Di Jérémie mi rimane il ricordo forte di una chiesa zeppa di gente che ascolta le veementi parole di un pastore di una delle tantissime correnti protestanti. Sono racchiusi tra tre mura, la facciata principale non esiste più. Sopra il tetto è un collage di tendoni di US Aid: uno degli effetti devastanti del recente tifone Mathyeu per il quale non sono ancora stati raccolti i soldi per porre rimedio. Spesso dai pulpiti, racconta Cadeau membro di una delle varie correnti della Chiesa metodista, i nostri pastori spiegano la situazione disastrosa in cui si trova il paese rifacendosi all’immagine biblica della traversata del deserto. «E allora alla gente si chiede di accettare con umiltà e rassegnazione la situazione attuale» aggiunge, «perché solo accettando di percorrere il deserto domani potremo arrivare nella terra promessa». Lo dice guardandoci diritti negli occhi, a sottolineare ancor più l’importante funzione che la sua chiesa, a suo parere, svolge nel cercare di sostenere la sua gente. Intanto però in sordina gran parte degli haitiani non hanno abbandonato i riti vudú. Al momento della partenza come sarebbe stato bello poter incontrare di nuovo la signora piccola, rotondetta, pelle scura, seno prominente stretto in una giacca jeans nera che correva verso la scaletta dell’aereo in partenza del volo per Port au Prince gridando a gran voce «Haiti arrivooo…». Come avrà rivisto la sua isola dopo anni di esilio? Purtroppo non era sul mio aereo per contagiarmi di nuovo con il suo entusiasmo.

Fredy Franzoni

Fredy Franzoni


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Idee e acquisti per la settimana

Per pelli sensibili Appena rasato e tutto arrossato? Storia del passato. Con il nuovo Gillette Skinguard ora possono radersi quotidianamente e senza problemi anche gli uomini con la pelle più sensibile. Il nostro testimonial Urur Giray (39), venditore presso la Migros di Rüschlikon, ha testato lo Skinguard per radersi la barba e il cuoio capelluto. La sua conclusione: «Già dal primo utilizzo si nota la differenza. Nessun arrossamento, nessuna irritazione, davvero un bell’aspetto. Il prodotto mi piace proprio molto».

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«Si vede proprio la differenza»: il venditore Migros Ugur Giray si rade la testa ogni due-tre giorni.

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I consigli per una buona rasatura su pelle umida ulteriormente e la crema permette di creare un sottile strato protettivo tra lametta e pelle. Avendo meno attrito il rischio di rossori, irritazioni, bruciori e tagli si riduce. 1. Inumidire bene la pelle con dell’acqua: l’umidità rende la cute più morbida. Infatti molti uomini preferiscono radersi subito dopo la doccia.

2. Applicare un leggero strato di gel o schiuma da barba. In questo modo la pelle viene inumidita

3. Utilizzare una lama ben affilata: in una rasatura l’uomo ha a che fare con circa 25’000 peli. Per questo è importante avere delle lamette che taglino bene, in modo da assicurarsi una rasatura indolore e delicata. 4. Pelo e contropelo: preferibilmente ci si rade

con dei movimenti delicati. Quest’ultimi dovrebbero essere effettuati in diverse direzioni, nel verso del pelo e contropelo. La barba cresce infatti in più direzioni. Tuttavia, come regola generale, radersi sempre nella direzione in cui il movimento è più piacevole.

5. Sciacquare le lamette: è importante pulire sempre bene il rasoio. Le lamette sporche tagliano male. Attenzione: battere il rasoio contro il lavandino può danneggiare delle piccole parti dell’apparecchio.

È sufficiente risciacquare le lamette sotto l’acqua calda corrente. 6. Radere ogni zona solo una volta: le parti del viso non dovrebbero essere rasate una seconda volta, altrimenti si rischiano delle irritazioni. 7. Risciacquare a freddo e applicare un dopobarba. Dopo la rasatura detergere bene il viso con dell’acqua fredda e asciugarlo. Un dopobarba idratante cura e calma la pelle dopo la rasatura.

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Ambiente e Benessere

Grazie ai ceppi di vite selvatica

Scelto per voi

Bacco giramondo La Provenza è la regione che per prima iniziò a produrre il vino

in Francia circa 2600 anni orsono Davide Comoli Furono i Fenici i primi a commerciare con i Celti-Liguri che abitavano le rive del Mediterraneo. I Greci presero poi il loro posto e fondarono intorno al 600 a.C. Massalia (Marsiglia). A loro volta, sulle coste dell’odierna Provenza, gli abitanti della nuova colonia gettarono le fondamenta delle città di Nike (Nizza), Antipolis (Antibes), Atheropolis (St. Tropez) e via elencando. Intorno alle loro nuove colonie, svilupparono la cultura della vite, che per tutta quest’epoca restò tuttavia relativamente discreta sull’intero litorale, in compenso grazie al loro sapere, portarono l’arte della potatura a un passo successivo; con i ceppi di vite selvatica incominciarono a coltivare e vinificare l’uva. La Provenza è dunque la regione francese che per prima ha prodotto il vino circa 2600 anni orsono. È con la conquista della Gallia da parte di Roma, che il vino conosce un eccezionale sviluppo. I conquistatori, infatti, portarono il loro grande sape-

re in materia di viticoltura e probabilmente anche nuove tecniche di vinificazione. I primi impianti cominciarono a Forum Juli (Fréjus) con l’aiuto della popolazione composta anche da vecchi legionari, i quali costruirono un importante porto e un arsenale imponente in nome di Roma e a favore del suo dominio sul Mediterraneo. Fréjus fu dunque un centro di rilievo con una popolazione di seimila anime che, per sostenere i suoi bisogni alimentari, creò (forse) la prima cooperativa agricola appoggiata sulla coltivazione di cereali e naturalmente della vigna. Durante degli scavi avvenuti nel 1976, furono rinvenute nei pressi di questa città, delle doghe di legno appartenute a una barrique alta 120 cm, datata circa 30 anni a.C. Dalle rive del Mediterraneo alle Collines du Haut Pays, la Provenza comprende i dipartimenti del Var, Bouches-du-Rhône e Alpes Maritimes. Si tratta di una regione che ha sempre esercitato un fascino e un’attrazione del tutto particolari. Alla nostra mente, il nome Provenza richiama splendide

immagini di un mare e un cielo sempre azzurri, villaggi abbarbicati a cime di rossa argilla e a bianche rocce calcaree baciate dal sole. Il suolo tormentato provenzale è legato a quello delle Alpi che nascono nell’era terziaria. I terreni sono molto diversi tra loro: alluvionali nelle valli del Rodano, della Durance e nel Delta, mentre sono scistosi, con residui minerali nel Massiccio des Maures, da Tolone a Saint-Raphaël; argillosilicei dall’aspetto rosso scuro e ricchi di sale e argillo-calcarei nel resto della regione. L’unico pericolo per le vigne è rappresentato dal Mistral il quale, secondo un antico proverbio della regione, è l’unico flagello della zona che non si è riusciti a debellare (gli altri due erano il Parlamento, trasferito a Parigi e le acque della Durance, che sono state canalizzate). Il forte vento infatti rende le estati ancora più secche e gli inverni più freddi. Per fortuna il mare mitiga questi eccessi e per quanto riguarda il vino, i vigneti sono spesso protetti da uno schermo di colline. A chi non conosce la regione, consigliamo di salire sull’altura di Cap Canaille, vicino a Cassis, che non solo ripara i vigneti sottostanti, ma offre un imperdibile panorama sui rilievi circostanti e sulla baia. Le A.O.C. provenzali sono otto e sono particolarmente varie, troviamo delle A.O.C. molto piccole (Bellet 38 ettari), alle Côtes de Provence (19mila ettari) e rappresenta il 75 % del volume di produzione regionale. Da Aix-en-Provence a Nizza, la straordinaria diversità dei terreni permette di produrre una vasta tipologia di vini. L’area che produce quelli migliori inizia vicino a Bandol, nei pressi di Tolone e si estende a forma di mezzaluna per circa novanta chilometri, attraverso l’altopiano delle Maures fino a Saint-Raphaël. I vigneti sono piantati su pendii orientati verso il mare e protetti dal Mistral. Le viti sulle colline sono coltivate sulle restanques, terrazze simili alle «fasce» liguri, sostenute da muri di pietra.

Vigneti in alta Provenza. (Varaine)

I vignerons provenzali vanno alla ricerca di un triplice obiettivo nella scelta del vitigno: l’armonia perfetta con il terroir, la tipicità del vitigno e la ricerca di un buon equilibrio tra le componenti del vino. Tra i vitigni a bacca bianca citiamo: il Rolle, parente stretto del Vermentino ligure; l’Ugni Blanc, antico vitigno portato in Francia da Caterina de Medici (Trebbiano Toscano); il Semillon, di grande qualità aromatiche, spesso assemblato con il Sauvignon Blanc che determina nei vini profumi vegetali e di fiori bianchi; la Clairette, vitigno tradizionale della Provenza; la Marsanne, che ci dona vini con una lunga persistenza in bocca e infine il Bourboulenc Blanc, chiamato anche Doucillon, vitigno rustico e robusto, entra in piccole parti nella composizione dei vini bianchi, portando morbidezza e un tocco di finezza. Fra i vitigni a bacca rossa citiamo: la Grenache che, originaria della Catalogna, costituisce la base del vigneto delle Côtes-des-Provence e produce vini di grande grado alcolico, possenti e molto persistenti; il Syrah, originario della Persia, dà ai vini profumi di violetta e confettura di frutti rossi, ricchezza di tannini e colore; il Carignan, tipico vitigno della zona Mediterranea; il Tibouren, vitigno precoce, sono da provare soprattutto nella versione rosée (la Provenza è famosa per i suoi rosati fruttati, sec, caldi di alcol ed eleganti); il Cinsault, coltivato un po’ su tutte le A.O.C. provenzali; la Mourvèdre, originario della Spagna è il vitigno emblema di Bandol, molto adatto all’invecchiamento; il Braquet, coltivato soprattutto nella piccola A.O.C. Bellet, che viene usato nella produzione dei rosati; la Folle Noire, vitigno particolare coltivato nel Bellet, molto profumato; e infine il Castet, che produce grappoli dagli acini molto piccoli. Tutti vini da bersi con cibi della cucina provenzale, ricca di profumi, sapori, aromi, difficile da reperire altrove, che non rinuncia alla frugalità del suo passato e resta fedele alle sue radici, al suo spirito e alla sua fantasia.

Is Argiolas Vermentino di Sardegna

Originario della penisola iberica, il Vermentino sardo sembra provenga dalla Corsica, dalla quale fu esportato in Gallura nel 19° secolo. Is Argiolas è prodotto da una delle grandi famiglie del vino isolane, storica azienda di Serdiana (CA), che produce vini di altissima qualità, usando solo varietà autoctone dell’isola. Allevato, come di frequente in queste zone calde del Mediterraneo, ad alberello, le uve raccolte di questo Vermentino ricercano espressioni classiche. Durante la macerazione, le uve rimangono a contatto con il mosto cedendo ricchezza e sostanze aromatiche. Il vino si presenta di colore oro antico e mantiene profumi di frutta gialla e avvolgente e una sensazione salmastra e mentolata degna di considerazione. È un vino che vi consigliamo soprattutto sulle varie preparazioni del merluzzo/baccalà, piatto tipico di questo periodo che precede il Carnevale e a quello che seguirà: la Quaresima, ma anche abbinati alle varie «tartare» di tonno o spada purché freschissimi. / DC Trovate questo vino nei negozi Vinarte al prezzo di Fr. 19.90. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 25 febbraio 2019 • N. 09

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Ambiente e Benessere

La cucina veneta più tradizionale Torno a parlare di cucina veneta, esplorazione iniziata su «Azione 07» dell’11 febbraio 2019. Per ciò che riguarda questa antica tradizione regionale, fra le carni, mitica è la celeberrima polenta e osei, preparata con volatili misti (piccioni, ma anche merli, pernici, stornelli e tordi). Carni e pesci arrosto sono serviti con la salsa peverada, antico condimento a base di aglio, olio, scorza di limone, acciughe, fegatini e soppressa veneta (un insaccato morbido con carni suine miste, grasse e magre); con i bolliti si gusta invece la veronese pearà, una salsa a base di pane casereccio sbriciolato e midollo di bue, il tutto diluito con brodo e insaporito con pepe.

Tra le verdure spicca il radicchio. Pregiati anche gli asparagi di Bassano, e le castraure, teneri carciofini Vastissimo è poi l’assortimento ittico delle zone costiere: granchi, granseole, gamberi, canocchie, cozze, scampi, seppie, polpi, anguille, sarde, cappe, code di rospo, orate, sogliole, branzini e triglie. Numerose sono pure le preparazioni tipiche, per esempio le moleche col pien, granchi pescati in autunno e primavera, quando il guscio è ancora morbido: i crostacei vivi sono posti in un recipiente con uova e formaggio grattugiato, di cui si nutrono (il loro «ripieno»); impanati e fritti, restano morbidi e possono essere gustati interi. Tipiche di Venezia sono poi le sarde in saor, infarinate e fritte, quindi marinate con aceto e abbondanti cipolle, pinoli, zucchero e uvetta. Sempre a Venezia si preparano i filetti alla carlina, filetti di pesce San Pietro, sogliola o rombo infarinati e dorati nel burro, quindi infornati con pomodori

e capperi. Le seppie al nero vengono invece cucinate con aromi, vino e poco pomodoro, quindi addizionate del loro stesso inchiostro e servite con polenta bianca. Al vasto assortimento ittico locale si aggiunge poi il merluzzo, sotto forma di stoccafisso (chiamato però in Veneto baccalà): dà il meglio di sé nel baccalà alla vicentina, cucinato con latte, aglio, cipolle, acciughe e olio; è ottimo però anche mantecato (bollito, lavorato a lungo con abbondante olio e aromatizzato con aglio e prezzemolo). Tra le verdure ha un posto di rilievo il radicchio (rosso di Treviso e di Verona, variegato di Chioggia e di Castelfranco), usato per insalate gustose e versatili. Pregiati anche gli asparagi di Bassano, bianchissimi, molto graditi nel risotto o semplicemente lessati e serviti con una salsa di uova sode e olio. A Venezia si raccolgono poi le castraure, teneri carciofini, mentre a Verona si coltiva il sedano rapa, consumato preferibilmente in padella con burro e parmigiano. Molto diffuse infine le verze, stufate con aromi e pancetta; nelle campagne si raccolgono anche i bruscandoli, cime di luppolo che crescono spontanee. Numerosi i formaggi veneti, tra i quali l’asiago, il piave, il montasio e la fresca casatella. I dolci più noti sono il pandoro e il tiramisù, affiancati da numerose altre specialità. Tra queste, la pinza (in alcune zone putana), una torta di farina gialla aromatizzata con frutta secca e semi. Con mandorle, farina bianca e gialla e molto burro si prepara invece la fregolotta, simile alla sbrisolona mantovana. A base di pasta lievitata è la fugazza, insaporita da mandorle, spezie e radice di iris. A Venezia si gustano poi i caramei, spiedini caramellati di noci, fichi, albicocche o prugne secche, e i baicoli, leggeri biscotti di pasta lievitata. Non mancano poi fritole (frittelle) con uvetta, pinoli e cedro, o di riso. Sono ancora da ricordare i buccellati o bussolà, ciambelline profumate alla grappa.

CSF (come si fa)

Marka

Allan Bay

MaMa

Gastronomia Dalla polenta e osei al vastissimo assortimento ittico, salse comprese, per finire coi caramei e le fritole

Oggi vediamo come si fanno due ragù a base di un pesce bistrattato ma saporito e poco costoso: il palombo. Dosi per 6/8 persone, ma dipende dal piatto: se è una ricca proposta unica, va bene per 4 persone. Ragù bianco di palombo. Ingredienti: 400 g di filetti di palombo privati di pelle e lische, 2 carote, 1 gambo di sedano, 1 spicchio d’aglio, 1 mazzetto di prezzemolo, 100 g di olive nere denoc-

ciolate, 1 bicchierino di vino bianco secco, 2 cucchiai di soffritto (ovvero cipolle o porri o scalogni tagliati a dadini e stufati con poca acqua), olio di oliva, sale e pepe. Pelate lo spicchio d’aglio e tritatelo finemente. Tritate finemente le olive, le carote e il sedano. In una padella con poco olio fate dorare lo spicchio d’aglio tritato finemente, unite il trito di carote, sedano e olive e lasciate cuocere a fuoco vivace per 10 minuti, bagnando con poca acqua. Tagliate a tocchetti i filetti di palombo, e uniteli al fondo insieme col soffritto, in padella. Sfumate col vino. Salate e pepate, infine tritate il prezzemolo e unitelo al ragù. Ottimo sulla pasta, ma anche su risotti, bruschette, gnocchi, polente, patate lesse e altro. E va bene anche

per lasagne, cannelloni, pasta ripiena di pesce o di verdure, legumi stufati e uova sode, in camicia, strapazzate e omelette. Sugo rosso di palombo. Per 4 persone: 400 g di filetti di palombo privati di pelle e lische, 200 g di salsa di pomodoro, 1 manciata di capperi dissalati, 1 mazzetto di prezzemolo, 2 cucchiai di soffritto, olio di oliva, sale e pepe. Pelate lo spicchio d’aglio e tritatelo finemente. Tagliate a dadini la polpa di palombo. In una padella con poco olio fate dorare lo spicchio d’aglio tritato, unite la salsa di pomodoro e il soffritto e lasciate cuocere a fuoco dolce per 5 minuti. Unite in padella il trito di palombo e cuocete ancora per 2 minuti. Unite il prezzemolo e i capperi, salate e pepate. Ottimo, come il precedente ragù.

Ballando coi gusti E anche qui parliamo di due sughi che possono sposarsi con tantissimi ingredienti, non solo con la pasta.

Sugo allo scoglio

Sugo ai quattro formaggi

Ingredienti per 4 persone: 600 g di cozze e vongole spurgate · 16 gamberi e scampi

Ingredienti per 4 persone: 50 g di mozzarella · 50 g di Gruyère · 50 g di Edam · 50 g di Sbrinz · 50 g di grana · 2 dl panna fresca · erba cipollina · noce moscata · sale.

· 200 g di salsa di pomodoro · 1 cipollotto · 1 spicchio di aglio · vino bianco secco · peperoncino · olio di oliva · sale.

Mettete cozze e vongole al fuoco in un tegame con il vino e fatele aprire, levate, sgusciatele o meno a piacer vostro, e tenete da parte. Filtrate il fondo di cottura. In una casseruola, scaldate 1 giro di olio con l’aglio, unite il cipollotto tritato e la salsa di pomodoro e fate cuocere pochi minuti. Aggiungete gli scampi e i gamberi, sgusciati o meno a piacer vostro, bagnate con il fondo di cottura, profumate con prezzemolo tritato e lasciate cuocere per 5’ – se sgusciati bastano 2’. Aggiungete le cozze e le vongole, regolate di sale e di peperoncino.

Tagliate a tocchetti la mozzarella, il Gruyère, l’Edam. Grattugiate Sbrinz e grana. Scaldate la panna a fuoco minimo, unite i formaggi a tocchetti, mescolando con cura fino a ottenere un composto omogeneo. Aggiungete i formaggi grattugiati e mescolate ancora per 1’. Regolate di sale e di noce moscata e arricchite con l’erba cipollina tagliuzzata.


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Ambiente e Benessere

Il suino che non ti aspetti Mondoanimale Agli onori dell’oroscopo cinese di quest’anno c’è il maiale

Maria Grazia Buletti Secondo l’oroscopo cinese, questo è l’Anno del Maiale. Iniziato ufficialmente il 5 febbraio, è caratterizzato dall’elemento Terra. E come poteva essere altrimenti, ci viene da pensare? Gli esperti in materia definiscono i nascituri sotto questo segno come persone «abbastanza chiuse, a volte burbere, che faticano a lasciarsi avvicinare da persone nuove. Selettivi nella scelta degli amici, i nati sotto il segno del Maiale si contornano da una cerchia molto ristretta di persone fidate». Si parla della sua onestà come della sua principale peculiarità: «Tendenzialmente dice con franchezza tutto ciò che pensa e questo crea spesso problemi, perché non ha una grande capacità di mediazione». Per quest’ultima caratteristica gli si riconosce di essere un ottimo collaboratore: sincerità e dedizione si accompagnano al saper essere depositario di «scomode verità» che lo fanno apparire, ancora una volta, «poco delicato e fastidioso» come una zanzara. Dunque, la personalità di chi nasce sotto quest’ultimo segno zodiacale cinese si può riassumere in: «Compassionevole, generoso e diligente». Eppure, a discapito del profilo tracciato dall’astrologia cinese, il «vero» maiale è un animale da compagnia. Ce lo conferma l’etologo Roberto Marchesini che lo definisce innanzitutto: «Un animale unico ed eccezionale, dalle grandi capacità comunicative e in grado di coinvolgerci come sanno fare i ben più conosciuti cani, nostri amici a quattro zampe». Lo dimostra la storia di Esther, maiale di oltre 200 chilogrammi che vive con la sua famiglia canadese, della quale il nostro interlo-

Molti dei luoghi comuni sui maiali sono del tutto errati. (publicdomainpictures. net)

cutore dice: «È la portavoce e testimone del “riscatto suino”. Esther vive insieme a tre cani e un gatto, proprio come fosse una di loro, e si può conoscerla visitando la pagina Facebook Esther The Wonder Pig nella quale la vediamo riposare sul divano, attendere la sua pappa di frutta in cucina, a dimostrazione che i maiali possono andare molto oltre il concetto di “animali da allevamento”». Marchesini ci aiuta a comprendere le origini del nostro rapporto con i suini: «Sono cinghiali che l’essere umano ha addomesticato circa settemila anni or sono; di fatto, cinghiali e maiali continuano ad appartenere alla stessa specie, tant’è che se lasciamo libero un maiale, esso tornerà senza problemi alla vita selvatica». Scopriamo che il «grugno» serve loro per grufolare nel terreno a caccia di radici e tuberi («se

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ORIZZONTALI 1. Lo era il calumet 4. Le iniziali dell’oncologo Veronesi 6. Il regno di Plutone 7. Legge francese 8. A fin di bene... 9. «Tempestose» quelle di Emily Brontë 10. Noto inventore statunitense 13. Allevò Bacco 14. Recenti, ultimi 18. La cantante Tatangelo 20. Articolo francese 21. In italiano e in tedesco 22. Timorato di Dio 23. Un Claudio attore e conduttore tv 25. Le iniziali del Foscolo 26. Lo chiede chi non ha sentito 27. Re di Francia... 29. Ventilato 30. Non si dà alle quisquiglie

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gno del Maiale: «Sono dei grandi chiacchieroni, lo fanno ad alta voce, imparano il loro nome e tendono a rispondere con un sonoro grugnito quando vengono chiamati!» Puliti, socievoli, estroversi e grandi buongustai, come Marchesini ci svela: «Sono onnivori ma si nutrono principalmente di frutta e verdura. Adorano le banane, i meloni e le mele». Pure salutisti, aggiungiamo noi ascoltando l’esempio personale del nostro interlocutore che racconta come, dal 2009, in famiglia condividono le giornate con due maialine vietnamite: «Sono Mery e Giuditta e sono cresciute con mia figlia Bianca, accompagnandola alla scoperta del loro meraviglioso mondo». È il maiale che non ti aspetti, insomma, a suffragio del quale non possiamo non citare il famoso Babe o l’idolo di tutti i bambini Peppa Pig, quello famoso di George Clo-

Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku

Cruciverba Forse non tutti sanno qual è il motto dei giochi olimpici, scoprilo risolvendo il cruciverba e leggendo le lettere evidenziate. (Frase: 3, 6, 3, 2, 4, 3, 5)

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vivono in libertà è una delle loro attività preferite»), e serve alla scrofa per dare i primi indizi evolutivi alla prole: «Alla mamma scrofa basta un colpo di muso ai suoi cuccioli per far loro comprendere cosa si deve o non si deve fare». L’esperto sfata un altro luogo comune: «Ai maiali non piace lo sporco e, a discapito del senso comune che li vuole sudici, sono animali pulitissimi! Non fanno mai le deiezioni nei luoghi in cui dormono e ciò anche in quei tristi luoghi che sono gli allevamenti, dove hanno pochissimo spazio a disposizione. I bagni di fango sono dunque un espediente per proteggere le setole della loro pelle delicata e il fango è paragonabile a una sorta di crema solare». L’etologia suina sgretola la caratteristica di scorbutico che, evidentemente a torto, l’oroscopo cinese attribuisce al se-

oney e quello non conosciuto di Simona, una signora italiana che lo descrive in questo modo: «Elvis è un maialino di razza Juliana, ha il suo carattere, a volte dispettoso, ma mai aggressivo. Con lui vado a prendere i ragazzi a scuola, ci circondano sempre un sacco di bambini, e lui è sempre stato educato». Pure l’etologo sfata il pregiudizio talvolta emergente sull’aggressività di questa specie: «Il maiale non ha un’indole aggressiva; io ho maiali liberi da moltissimi anni e non ho mai visto nessun atto aggressivo o di cannibalismo, glielo assicuro». Egli parla di «baruffe fra loro, come tutti gli animali» (se pensiamo ai gatti e ai cani ci ritroviamo nelle sue parole): «Ma si tratta di esseri viventi dalla socialità complessa e dall’intelligenza sviluppatissima». Appellandosi alle possibilità di cui è composta la natura, Marchesini spiega: «Possono esserci casi straordinari in cui gli animali, di qualsiasi tipo, sviluppano comportamenti lontani dalla loro natura: pensiamo alle volpi che arrivano in città invece che stare nei boschi, mamme di una specie che adottano i piccoli di un’altra, ma si tratta di casi eccezionali e non della norma». Ciò significa che se mettiamo i maiali in condizioni di vita non idonee, anch’essi possono come tutti sviluppare atteggiamenti non consoni. La rappresentanza del maiale come animale lurido, dotato dei peggiori istinti, è stata sfatata, e il perché è stato a suo tempo sintetizzato dall’etologo Danilo Mainardi quando affermò con toni forti che «anche il maiale possiede una sua intelligenza, ha capacità sociali e affettive, ma preferiamo non venirlo a sapere, perché quest’ignoranza indubbiamente ci facilita la digestione».

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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch

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I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.

VERTICALI 1. Quello di Siena è... forte 2. Si riordinano in silenzio 3. In coda alle truppe 4. Ha i cromosomi XY 5. Un famoso valzer 7. Logoro 9. Stato dell’Asia orientale 11. Il celebre regista Risi 12. Davanti a Nuova Guinea... 15. Avvezzi 16. Le iniziali della Toffa de «Le Iene» 17. Mare del Mediterraneo 19. Nucleo centrale della Terra 20. Detrito dei fiumi 23. Buono Ordinario del Tesoro 24. Scorrono senza far rumore... 26. Le iniziali dell’attore Amendola 28. Bocca in latino Partecipazione online: inserire la

soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-

Sudoku Soluzione:

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Scoprire i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.

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Soluzione della settimana precedente

L’AFORISMA – Il tempo si infila tra le persone e poi decide… Resto della frase: … SE DIVENTARE COLLA O SPAZIO.

S E T U X A T R R A L A P

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V A E O S P O C E L I N I O O E Z I C O N

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luzione, corredata da nome, cognome, indirizzo, email del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui

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concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 25 febbraio 2019 • N. 09

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Politica e Economia Reportage dall’Etiopia Seconda e ultima parte del resoconto di viaggio di Federico Rampini: un modello (ancora fragile) per l’Africa

Quel che resta del nulla Il governo del cambiamento si rivela del tutto inesistente, fatto di persone incompetenti che solo un anno fa si ripromettevano di rivoltare il Paese da cima a fondo

Situazione critica per l’AVS L’invecchiamento della popolazione e i bassi tassi di interesse rendono problematico il futuro delle pensioni pagina 34

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pagina 31 Alexandria Ocasio-Cortez, denominata AOC, come i grandi leader . (AFP)

Socialismo millennial

Usa L’ascesa di una nuova generazione di progressisti è molto più di una risposta al capitalismo. Si sta affermando

un nuovo tipo di dottrina che non va letta attraverso la lente ideologica del secolo scorso Christian Rocca Nasce il socialismo dei millennial, ha scritto il settimanale britannico «Economist», una nuova dottrina di sinistra che si sta diffondendo in America e, grazie alla potenza dei social media, comincia a fare proseliti in tutto il mondo occidentale. L’«Economist» sostiene che questo nuovo fervore solidaristico non sia la risposta giusta per risolvere i problemi che sta affrontando il capitalismo, ma nel raccontare l’attivismo delle nuove star del movimento, come la neodeputata americana Alexandria Ocasio-Cortez, mette nello stesso contenitore anche il socialismo tradizionale alla Jeremy Corbyn, segretario del Labour inglese, e il socialismo democratico alla Bernie Sanders, il candidato alle primarie americane del 2016 e anche alle prossime. È vero che, in questi anni post crisi economica, Corbyn e soprattutto Sanders sono riusciti a coinvolgere e entusiasmare giovani e studenti alle prime esperienze politiche, compresa la Ocasio, ma la nuova generazione di politici millennial non sembra interessata a combattere battaglie ideologiche del passato. Il socialismo dei millennial si pre-

senta come qualcosa di diverso, ancora poco definito, ma arduo da leggere con le categorie del secolo scorso. Nessuno dubita della formidabile capacità di Alexandria Ocasio-Cortez, ormai chiamata come i grandi leader semplicemente con le iniziali AOC, di bucare gli schermi televisivi, di interagire sui social e di argomentare nelle aule della Camera bassa di Washington, dove è entrata per la prima volta a gennaio come un uragano senza pagare (per adesso) dazio all’inesperienza e facendo dimenticare di essere la deputata più giovane della storia degli Stati Uniti. AOC avrà anche 29 anni e ancora molto da imparare, ma ha studiato, vinto concorsi di microbiologia per studenti di tutto il mondo, conquistato borse di studio, frequentato università prestigiose laureandosi con lode in relazioni internazionali; è una ragazza del Bronx che ha mosso i primi passi politici come stagista del senatore Ted Kennedy e come militante di Sanders. AOC per formazione è l’opposto dei tanti coetanei senza arte né parte catapultati per caso alla ribalta della politica occidentale. Si definisce socialista, ma è una socialista democratica figlia della rivoluzione digitale del XXI secolo.

L’unanimità scema quando si passa al merito delle sue posizioni politiche, giudicate da molti come radicali, populiste e in alcuni casi insensate, come il no al quartier generale di Amazon a New York malgrado la creazione di 40 mila posti di lavoro e la previsione di 27 miliardi di dollari in tasse da incassare in 25 anni, a fronte di 3 miliardi di detrazioni fiscali. I conservatori hanno trovato nella Ocasio-Cortez un obiettivo polemico ideale contro cui scatenare la loro indignazione, tradendo un’evidente ossessione per la matricola dei Democratici. E, nel discorso sullo Stato dell’Unione, il presidente Donald Trump si è rivolto innanzitutto a lei quando ha promesso in modo solenne che l’America non diventerà mai un paese socialista. Ma se i mal di pancia della destra sono naturali, nel mondo odierno diviso tra populisti anti élite e globalisti liberal-progressisti si fanno notare di più le critiche antipopuliste, come quelle dell’«Economist», all’attivismo di AOC sull’innalzamento delle aliquote marginali per i multimilionari, sulla lotta ai cambiamenti climatici e sul ripristino di regole di buon senso sui finanziamenti aziendali alle campagne politiche.

L’accusa a AOC, al suo metodo e alle sue proposte, è quella di fare il gioco dei populisti, di utilizzare i loro stessi strumenti e di ragionare con i loro medesimi argomenti demagogici. E, questo, soltanto perché la millennial AOC crede che l’America stia andando a rotoli a causa delle diseguaglianze ampie creatisi negli ultimi decenni, dell’assenza di un sistema sanitario nazionale, del disinteresse per le questioni climatiche e dell’influenza dei soldi su una politica priva della tradizionale regolamentazione sui finanziamenti delle corporation, cancellata da una sentenza della Corte Suprema del 2010. AOC non è sola: queste stesse idee sono alla base della proposta politica di Pete Buttigieg, sindaco trentasettenne di South Bend, in Indiana, e candidato alle presidenziali del 2020. Buttigieg è difficile da etichettare secondo i vecchi schemi politici, visto che è un progressista eletto in uno stato conservatore, sposato con un uomo e arruolato volontario in Afghanistan mettendosi in aspettativa da sindaco. Legittimo nutrire dubbi e opporsi alle proposte di AOC e di Buttigieg, ma definire quelle sensibilità e quei metodi come riproposizioni in bella copia dell’improvvisazione demagogica dei

populisti o di antiche ricette socialiste rischia di far perdere di vista la vera novità. AOC e Buttigieg esprimono la versione social e millennial della preoccupazione sociale che ha avuto un gigante dell’establishment americano come Franklin Delano Roosevelt, detto FDR. Quando negli anni Trenta del secolo scorso, dopo la Grande Depressione, FDR propose il New Deal, un programma di stato sociale minimo finanziato con le tasse, i banchieri e gli industriali dell’epoca presagirono il crollo di ogni prospettiva di crescita e la fine dell’esperimento americano. Quei giudizi non erano soltanto affrettati, non tenevano conto che le politiche sociali del New Deal erano state progettate per aiutare chi aveva bisogno e, allo stesso tempo, per evitare che le diseguaglianze create dal capitalismo potessero scatenare una rivolta socialista interna. Garantire maggiore protezione ai cittadini, secondo FDR, era un intervento antisocialista e in difesa del capitalismo liberale. Allo stesso modo, AOC e i millennial socialist sono antipopulisti contemporanei, un’alternativa alla rivolta dei forconi, un modello globale per i progressisti di nuova generazione.


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Un modello di speranza?

Politica e Economia

Etiopia – 2. parte e fine Il premier Abiy Ahmed vuole fare del Paese un esempio di sviluppo per l’Africa.

Ma la questione cruciale è la contesa per le risorse fra Cina e Arabia Saudita Federico Rampini La vera Etiopia la si scopre lasciando la capitale, i suoi grattacieli in costruzione, i suoi ingorghi e il suo smog. L’Onu ha la maggiore sede africana a Addis Abeba, ma se i funzionari internazionali restano lì hanno una visione parziale. Prendere un volo fino a Bahir Dar, spingersi su strade sterrate fino alla regione di Gumuz, uno dei vasti altipiani etiopi, offre una prospettiva diversa. Una puntata nelle zone rurali ridimensiona un po’ l’entusiasmo per il «miracolo etiope», pubblicizzato nel mondo dal premier-celebrity Abiy. Un’ora di strada asfaltata da Bahir Dar, due di strada sterrata (impraticabile nella stagione delle pioggie), un’ora finale di arrampicata a piedi, e si raggiunge un polo estremo, l’opposto di Addis Abeba. Lungo il percorso incrocio bambine e bambini che trasportano sulle spalle taniche d’acqua o canne da zucchero o cesti pieni di cipolle, camminando nella polvere per tragitti lunghissimi. Altri bambini lavorano nei campi coi genitori, la schiena piegata in due. I contadini usano aratri di legno come mille anni fa; non hanno mai visto un trattore. Carretti trainati a mano, al massimo da un asinello. Pastorelli sorvegliano mandrie di mucche «indiane» (la razza con la gobba), magre quanto i loro padroni. Arrivo in cima a una collina abitata da etnìe tribali di origine sudanese, e i segni di una povertà estrema sono evidenti. Non la fame, perché la terra è fertile e i contadini non mancano di cibo. Però nella folla di bambini che accorrono a osservare i visitatori bianchi si notano delle pance gonfie (infezioni da vermi intestinali, dice un esperto che mi accompagna), e occhi malati. La distanza che abbiamo percorso è una barriera tremenda per chi ha bisogno di raggiungere un ambulatorio; o una scuola. Né si trovano insegnanti disposti a un simile pendolarismo per il magro stipendio statale. La gente di qui – e in molte altre regioni rurali che ho attraversato – abita ancora nei tradizionali tucùl: muri di terra e sterco, tetti di paglia. Il bestiame dorme insieme agli umani. Entrando in uno di questi tucùl la prima impressione è di una camera a gas: il fuoco è perennemente acceso, per scaldarsi di notte e anche bruciare erbe aromatiche che scacciano zanzare da malaria, zecche e altri insetti micidiali. Gli incendi sono frequenti; anche le malattie polmonari, per chi respira tanto fumo. L’elemosina, o il regalo, che i bimbi di qui ci chiedono più spesso, è una penna biro. Nella cittadina di Bahir Dar incontro un medico inglese, David, venuto a lavorare come volontario nel policlinico «universitario» aperto da poco – appena il secondo ospedale in un’area che ha 15 milioni di abitanti – ma ancora sprovvisto delle attrezzature più essenziali. È un ortopedico ma gli capita di dover operare feriti da armi da fuoco, arrivano da zone di combattimento, dove le faide etniche non sono sopite. L’Etiopia ha una buona fama di questi tempi perché è un’oasi di stabilità politica e di riforme, circondata da vicini tragicamente turbolenti o repressivi: Sudan, Eritrea, Somalia. Ma il modello etiopico, come mi spiega un esule eritreo consulente dell’Onu, poggia su un equilibrio fragile. È una federazione etnica dove i ricordi delle oppressioni reciproche sono ancora freschi, ferite aperte. Storicamente la minoranza Tigray ha controllato il potere e le armi, gli Ahmari dominano l’economia, mentre la maggioranza Oromo solo di recente ha conquistato il governo con Abiy. Ce ne sono altri 80 di gruppi etnici e almeno quattro

Un bar a Bahir Dar, piccola città dell’Etiopia nordorientale. (AFP)

comunità religiose: ortodossi, musulmani, protestanti e cattolici nell’ordine di grandezza. L’idea di Stato è ancora un’astrazione, esercito e polizie federali sono milizie dei movimenti di liberazione etnici, riconvertite di recente. Il contesto internazionale non aiuta: la Russia «perse» l’Etiopia con la caduta del dittatore comunista Mengistu (1991); l’Occidente simpatizza con Abyi ma scommette pochi capitali su di lui; la vera contesa per l’egemonia qui è tra la Cina e l’Arabia saudita. Pechino costruisce infrastrutture; gli arabi edificano moschee e attraverso l’importazione di manodopera etiope (soprattutto colf) operano una islamizzazione strisciante (per lavorare sull’altra sponda del Mar Rosso conviene adattarsi ai costumi locali).

Se dovesse implodere il miracolo etiope, le conseguenze si sentirebbero in tutte le direzioni, inclusi i flussi migratori Se confrontata con la maggioranza dei paesi subsahariani l’Etiopia è un modello avanzato, quasi un’oasi felice, per varie ragioni. Tutte un po’ precarie. È il granaio d’Africa, una vera potenza agricola col più grande patrimonio di bestiame di tutto il continente, di che sfamare i suoi abitanti ed anche esportare. Ma fu teatro di carestie storiche, due delle quali contribuirono alla caduta dei due ultimi regimi (Haile Selassie, Mengistu). Quella del 1973, che fece duecentomila morti finché Selassie riuscì a nasconderla, contribuì alla «cultura degli aiuti» in Occidente, i cui errori sono stati analizzati con severità dalla economista Dambisa Moyo dello Zambia (La carità che uccide, Rizzoli, 2011). Com’è possibile morire di fame in una nazione così fertile, con tanti laghi e fiumi? L’eccessivo sviluppo degli allevamenti ha contribuito all’erosione dei terreni. La parcellizzazione delle terre non incentiva gli investimenti in tecnologie. L’industria agroalimentare è quasi inesistente: rara eccezione è Illycaffè che ha costruito un rapporto con contadini e imprenditori locali, la famiglia di Ali e Ahmed Legesse a Sidamo. La mancanza di infrastrutture e la politica – il prestigio dei dittatori, le contese etniche – hanno ral-

lentato l’arrivo di aiuti quando alcune regioni erano colpite da siccità. L’altitudine di gran parte del suo territorio la protegge anche da molti flagelli tropicali-equatoriali; purtroppo solo in parte. C’è meno malaria, febbre gialla e tifo che in altri paesi africani. Ma queste malattie non sono del tutto debellate. Altre sono endemiche per la mancanza di acqua potabile, le fognature a cielo aperto. La mortalità infantile elevata (che riduce la longevità media poco sopra i cinquant’anni) si spiega con l’assenza di un’igiene basilare. L’acqua pulita resta un bene irraggiungibile in campagna. Risorsa preziosa, l’acqua non serve solo per bere e lavarsi: è la più grande fonte d’energia. La Salini-Impregilo sta costruendo la quarta grande diga nazionale, e sta ultimando quella che viene definita la Diga della Rinascita. Egitto e Sudan seguono con preoccupazione questi progetti con cui l’Etiopia controlla a monte il flusso del Nilo Azzurro. L’astuto Abiy è andato al Cairo a garantire che esporterà energia anche ai paesi vicini. Eppure l’elettricità non basta nemmeno all’Etiopia: i blackout sono continui. Alla mia partenza, l’aeroporto internazionale di Addis Abeba mi consegna un’ultima immagine di questo Paese: il terminal è invaso da cinesi, sembra di essere allo scalo di Shanghai. Dambisa Moyo sostiene che dagli anni Sessanta ogni decennio ha visto una nuova «teoria» su come innescare uno sviluppo durevole dell’Africa. Stiamo vivendo nel decennio della teoria cinese. Finirà meglio delle precedenti? Non è una domanda retorica né ironica. Avendoli visti al lavoro per asfaltare le strade verso Awassa, in una regione del caffè, ho rivalutato l’importanza dei loro investimenti: non sono solo predatori; anche se nella popolazione locale cresce la diffidenza. Seconda nel continente per popolazione, e la più grossa economia di tutta l’Africa orientale, questa nazione dove il 70% degli abitanti ha meno di trent’anni, non crea posti di lavoro sufficienti per i suoi giovani. Mentre io ero in Etiopia il premier Abiy visitava Roma con proposte concrete: vorrebbe che fossero gli italiani a costruire la ferrovia di collegamento con il porto di Massawa in Eritrea. Se non si faranno avanti i nostri imprenditori, è probabile che sia questa la prossima grande infrastruttura «made in China». Per il momento i fondi italiani per la cooperazione, 120

milioni in tre anni destinati all’Etiopia, sono briciole al confronto degli investimenti cinesi, e non solo quelli. Il fenomeno dell’invasione cinese è risaputo, ma spesso evocato in modo generico, senza conoscenza di causa. Vederlo da vicino è un’altra cosa. Le sorprese sono tante. Io cominciai a seguirlo dall’altro versante, il Paese invasore. Quando mi trasferii in Cina quindici anni fa la strategia africana era già conclamata. Nei cinque anni della mia vita a Pechino, puntualmente una volta all’anno la capitale ospitava un supervertice sino-africano. Arrivavano capi di Stato da tutto il continente nero, gli ingorghi stradali diventavano ancora più tremendi, Piazza Tienanmen si affollava di bandiere nuove. Cifre già allora ragguardevoli sugli investimenti cinesi, i mega-contratti firmati, venivano annunciate con orgoglio. La strategia africana venne esaltata da un progetto ancora più ambizioso, le Nuove Vie della Seta. Il XXI secolo doveva essere il «secolo cinese». Un modo per irradiare l’influenza della nuova superpotenza era costruire una rete globale di autostrade e ferrovie, porti e aeroporti, centrali elettriche, linee telecom. Cominciarono le prime resistenze verso i nuovi colonizzatori, per esempio gli scioperi dei minatori di rame dello Zambia contro i padroni venuti dall’Estremo Oriente. Si scoprì anche che la generosità di Pechino ha i suoi limiti: molte grandi opere sono finanziate da prestiti e la Repubblica Popolare esporta anche debito pubblico. L’invasione però procede implacabile: in molti paesi africani, il rapporto tra gli investimenti cinesi e quelli occidentali è dieci a uno. Ma i grandi accordi governativi, fra il regime comunista cinese e gli autocrati africani, sono solo una parte di questa storia. Ce n’è un’altra, meno nota, più sorprendente. Pochi l’hanno vista e raccontata, uno è un collega americano, Howard French, che è stato corrispondente a Pechino e poi in Africa. È la storia di un’invasione dal basso, spontanea e privata. Almeno un milione di piccoli imprenditori cinesi, commercianti, intermediari, o avventurieri in cerca di fortuna, sono emigrati in Africa in cerca del loro Nuovo Mondo; senza chiedere permessi al proprio governo né ricevere istruzioni o aiuti. Un esodo biblico ispirato talvolta da insoddisfazione verso la Cina stessa. È una specie di nuova «conquista del West», perché questa fauna umana riprodu-

ce la mentalità di certi coloni bianchi quando traversarono l’America. La loro interazione con la popolazione locale, è molto più ravvicinata e intensa, rispetto agli eserciti di manager e tecnici delle grandi aziende di Stato cinesi che vanno a costruire strade e grattacieli. Il ragazzino cinese sperduto in una classe di scuola materna dell’Etiopia rurale e povera, mandato dai suoi genitori a studiare l’amarico invece del mandarino, è la cavia di un nuovo esperimento gigantesco di mescolanza etnica, incontroscontro fra civiltà, come all’epoca dello Scambio Colombiano che aprì mezzo millennio di egemonia dell’Occidente. Perché l’Italia – e l’Europa, l’Occidente intero – ha interesse nel successo di Abiy? Che cos’ha fatto di eccezionale per essere diventato il leader africano del 2018, con «The Economist» che assegna all’Etiopia il ruolo di «speranza dell’Africa»? In politica estera ha firmato la pace con l’Eritrea ponendo fine a un conflitto ventennale. Ha disteso le relazioni con tutti i vicini e negozia collegamenti portuali a Gibuti. All’interno ha liberato prigionieri politici, ha allacciato il dialogo con gli oppositori in esilio, alcuni dei quali sono rientrati. Ha favorito l’ascesa di donne ai vertici: la prima presidente della Repubblica di tutta l’Africa, la prima presidente della Corte costituzionale. Non è poco, e si può aggiungere il suo talento di comunicatore. È un volto fresco e accattivante in un continente dove ancora dominano tanti gerontocrati tirannici. Nell’elenco delle promesse ci sono la liberalizzazione della stampa, le privatizzazioni (parziali) dei monopoli di Stato, e l’organizzazione di libere elezioni nel 2020. Qui è ragionevole essere scettici. Non esiste una vera democrazia pluralista, la stampa e Internet sono ancora controllati. La politica è ingessata dentro le organizzazioni del Fronte Rivoluzionario che rovesciò la dittatura militare di Mengistu nel 1991. Soprattutto, la vita politica si svolge dentro la gabbia rigida del «federalismo etnico», che non ha affatto risolto le tensioni e eccita conflitti con centinaia di morti all’anno, soprattutto per la proprietà della terra: lo Stato rimane il proprietario di ultima istanza, ai contadini concede contratti di affitto di lunga durata, ma con delle precise assegnazioni etniche. Spesso è questa la scintilla che riaccende esplosioni di violenza. A cui l’esercito risponde con repressioni, limitate ma sanguinose. Durante il mio viaggio ci sono stati bombardamenti nella regione degli Oromo. La stessa pace con l’Eritrea – dittatura così feroce da essere paragonata alla Corea del Nord – rischia di essere solo un espediente tattico per l’ostilità comune verso il movimento Tigray. Nonostante i limiti di Abiy, un suo fallimento potrebbe essere fatale, per tante ragioni. L’Etiopia è l’unica grande nazione a maggioranza cristiana, circondata da forze islamiste che hanno disegni espansionisti. L’Etiopia ospita quasi un milione di profughi tra sudanesi, eritrei, somali. Nonostante i suoi problemi interni in questo momento ha una funzione stabilizzatrice per il Corno d’Africa. Se dovesse implodere il miracolo etiope, le conseguenze si sentirebbero in tutte le direzioni, inclusi i flussi migratori. Il giorno in cui non fosse più l’Etiopia a trattenere i profughi dai paesi limitrofi, si può immaginare quali direzioni prenderebbero. È singolare, o no, che «aiutarli a casa loro» sia diventato sinonimo di egoismo? E quando l’ultimo medico etiope avrà lasciato il suo Paese per andare a guadagnare di più all’estero, continueremo a definire «generosa» la nostra accoglienza?


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 25 febbraio 2019 • N. 09

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 25 febbraio 2019 • N. 09

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Politica e Economia

Tempi amari per gli italiani

Analisi Le recenti elezioni in Abruzzo hanno confermato il declino del M5S, di quello che un anno fa

era premiato come forza ispiratrice del cambiamento, di una moralità politica, di una ferma visione giustizialista. Che fa a pugni con la decisione di non procedere contro Salvini

Alfredo Venturi È dunque questa, la democrazia diretta? Una fuga dalle responsabilità della democrazia rappresentativa? Dopo la consultazione in rete della cosiddetta base grillina, chiamata a decidere sul destino di Matteo Salvini, è una delle domande che si pone il mondo politico romano. La base si è espressa per il 59 per cento a favore dell’immunità, invitando i gruppi parlamentari a tenere il vicepresidente del consiglio e ministro dell’Interno al riparo dalle attenzioni giudiziarie. Il caso è noto: da una parte una nave cui fu lungamente impedito di sbarcare alcune centinaia di profughi nei porti italiani e l’avvio di una procedura per sequestro di persona a carico di Salvini, che aveva imposto il blocco. Dall’altra parte una forza politica, il Movimento 5 Stelle, da sempre abbarbicata a una visione giustizialista e anti-casta, dunque ostile a ogni forma di immunità e impunità. In mezzo il capo della Lega che ostentava sicurezza: galvanizzato da una popolarità crescente, in buona parte dovuta proprio alla sua politica muscolare in materia di migranti, attendeva apparentemente tranquillo la prova di fiducia o l’aureola del martirio giudiziario. Sepolta nel passato, forse superata da una sottile inquietudine, la vecchia spavalda divisa: processatemi, non ho niente da temere.

Le elezioni europee sono un ulteriore grattacapo per Di Maio, che potrebbe scontare il malumore degli elettori Il rito si è celebrato sulla piattaforma Rousseau, che nel nome del filosofo ginevrino padre della democrazia diretta organizza il Movimento gestita dalla Casaleggio Associati, che è per così dire il vertice più o meno occulto, l’eminenza grigia dei Cinquestelle. Questa sorta di delega a una rappresentanza di frequentatori della rete (hanno votato poco più di cinquantamila persone) da parte di una forza politica votata da milioni di elettori rivela un evidente imbarazzo. Proprio non se la sentiva, il gruppo dirigente a cominciare dall’altro vicepresidente del consiglio, il capo politico del Movimento Luigi Di Maio, di risolvere il dilemma alla maniera di Alessandro il Grande, con un risoluto colpo di spada. E così da Alessandro si è preferito ripiegare su Pilato: laviamocene le mani, non abbiamo forse i fedelissimi pronti a intervenire in rete? Ebbene se la vedano loro con questa intricata vicenda. Non possono conoscere la pratica non avendo a disposizione le carte processuali? Poco male, il popolo sovrano sa il fatto suo! In più la consultazione si è svolta in modo caotico, la formula su cui si doveva scegliere era ambigua, rispondendo sì alla domanda se il blocco della nave coi profughi fosse

Ai vertici del Governo: Luigi di Maio, vicepremier; Giuseppe Conte, Presidente del Consiglio; Matteo Salvini, vicepremier. (AFP)

giustificato dall’interesse nazionale si diceva no all’incriminazione di Salvini, e viceversa. Qualcuno inoltre fa notare che il sistema si presta facilmente ad essere manipolato. Il giorno del voto un esponente di Forza Italia aveva profetizzato: stasera o cade il governo o cade Di Maio. In realtà la situazione si è rivelata più farsesca che drammatica. Nessuno dei due è caduto ma certo non è stato un bello spettacolo: l’immagine complessiva della maggioranza e del governo e soprattutto la posizione personale del vicepresidente appaiono ulteriormente indebolite. Fra l’altro molti malumori persistono fra i parlamentari a cinque stelle, non è proprio sicurissimo che tutti seguiranno fedelmente l’indicazione della piattaforma Rousseau. Il Movimento fondato da Beppe Grillo, che si era espresso con sarcasmo sulle modalità della consultazione e non perde occasione per segnalare un crescente distacco dalla gestione Di Maio, è da tempo in calo di consensi e sembra ogni giorno di fronte a una sorta di prova della verità. Le recenti elezioni in Abruzzo hanno confermato il declino ormai precipitoso di quella che un anno fa venne premiata come forza ispiratrice del cambiamento, di una nuova moralità politica, di una ferma attenzione alle ragioni del diritto. Di tutto questo che cosa resta? Lo storico Ernesto Galli della Loggia, che li aveva votati alle elezioni municipali di Roma,

confessa in un’intervista a «Foglio» una «errata apertura di credito», visto che i Cinquestelle si sono rivelati «il nulla assoluto» con la loro «totale insipienza politica», il loro populismo «plebeo e straccione». Sono tempi davvero amari per i grillini. Li turba fra l’altro un rapporto del tutto asimmetrico con gli amici-nemici della Lega. Raramente gli annali della politica hanno registrato una coalizione così dissonante. Ai dissapori ormai storici, come quello che riguarda la TAV, il collegamento ferroviario ad alta velocità voluto dalla Lega e osteggiato dai Cinquestelle, se n’è aggiunto un altro che investe in profondità la ragion d’essere dei due alleati. È la controversa questione delle autonomie che la Lega intende assicurare a tre regioni, Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna. Nella visione del capo politico dei Cinquestelle questo implica un vantaggio ulteriore per il florido Nord a scapito del povero Mezzogiorno. Non a caso quelle tre regioni sono il principale serbatoio di consensi leghisti, mentre nel Sud domina il Movimento, o almeno ha dominato fino alle elezioni politiche dello scorso anno. Lo stesso Sud che ha voluto favorire con l’introduzione del reddito di cittadinanza, esecrato al Nord come sussidio ai fannulloni. È dunque in condizioni d’emergenza che Di Maio vede avvicinarsi il voto di maggio per il rinnovo del parla-

mento europeo. Stordito dalla disfatta abruzzese, indebolito dalle incertezze manifestate sul tema dell’immunità per Salvini, deve anche pagare il conto delle sue disinvolte improvvisazioni in politica estera. Alla disperata ricerca di forze omogenee con cui costruire il gruppo parlamentare a Strasburgo, si muove sul terreno della diplomazia non proprio con la grazia che quel terreno richiede. Come nel caso del bisticcio con la Francia di Emmanuel Macron generato dalle critiche alle politiche africane di Parigi e dall’abbraccio ai gilets jaunes, una crisi faticosamente ricomposta dal presidente francese che ha scavalcato il governo di Roma trattando direttamente con il capo dello stato Sergio Mattarella. Ansioso di rimediare allo sgarbo diplomatico, Di Maio è scivolato nel ridicolo inviando una lettera al quotidiano «Le Monde» in cui rendeva omaggio alla «millenaria» democrazia francese! Del resto l’approssimativo approccio alle relazioni internazionali investe l’intero governo giallo-verde. Che dire dell’atteggiamento sul Venezuela? Unico Paese dell’Unione europea a non incoraggiare la transizione democratica tentata da Juan Guaidó, l’Italia si è rifugiata in un terzomondismo stile anni Settanta, per poi prodursi in una parziale marcia indietro affidata al ministro degli esteri Enzo Moavero Milanesi. Tutto questo non giova certo al

«governo del cambiamento», che un anno fa si proponeva di rivoltare l’Italia come un calzino, di condizionare l’Unione europea, di proporre al mondo un modello alternativo al sistema. Il panorama politico italiano è dominato dalla figura del leghista Matteo Salvini. Eppure anche su quel versante si registra qualche scricchiolio. È vero che la Lega è consacrata dai sondaggi come il partito più forte, ma la sua ascesa fin qui inarrestabile appare ora in fase di esaurimento, sia pure dopo avere raggiunto la stessa vetta, circa un terzo dei consensi, che alle elezioni politiche dello scorso anno premiò i Cinquestelle, nel frattempo calati di una decina di punti. Al tempo stesso le formazioni tradizionali, come il Partito democratico e Forza Italia, dopo mesi di coma hanno dato qualche timido segno di ripresa. Accanto al tema migratorio, principale ragione della popolarità di Salvini che lo ha ridimensionato sia pure a costo di ricacciare i profughi nell’inferno libico, sembra riguadagnare terreno quello del rapporto con l’Unione europea, da tempo considerata una sovrastruttura distante, burocratica, impopolare. Mentre tanti problemi restano irrisolti e l’economia continua a perdere colpi si fa strada un desiderio fin qui largamente insoddisfatto: certo, si vorrebbe un governo che sappia cambiare le cose, ma prima di tutto un governo di persone competenti. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 25 febbraio 2019 • N. 09

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Politica e Economia

Grido d’allarme preventivo per il finanziamento dell’AVS

Previdenza Nel 2018 gli investimenti hanno avuto rendimenti negativi, di conseguenza si devono ridurre i capitali

investiti e aumentare la liquidità: il capitale è ancora solido, ma è necessaria una riforma di fondo che contempli anche l’aumento dell’età di pensionamento

Ignazio Bonoli Il peggioramento della situazione finanziaria dell’AVS è confermato anche dalla pubblicazione, a metà febbraio, dei risultati del fondo di compensazione nel 2018. Le cause dell’evoluzione negativa delle finanze di questa importante assicurazione di base per la vecchiaia sono note: un’evoluzione demografica che fa aumentare i beneficiari di rendite e ristagnare, se non diminuire, il numero di coloro che pagano i contributi. D’altro canto, anche il momento non è per nulla favorevole a buoni risultati sul mercato finanziario. Per l’AVS la situazione è difficile perché, con le rendite da pagare in costante aumento, è costretta a mantenere molto liquidi i suoi investimenti e, nelle brevi scadenze, i rendimenti sono da tempo vicini a zero. In cifre, la sostanza investita nel 2018 è diminuita di 2,5 miliardi di franchi. Complice appunto la «performance» negativa del 4,22%. I responsabili del fondo hanno precisato che, a causa dei rendimenti costantemente negativi, il fondo ha venduto ogni mese titoli per circa 125 milioni di franchi. In sostanza, le uscite e le rendite hanno superato di 1 miliardo di franchi le entrate. Nel 2017, un anno eccezionale per le borse,

questa maggior uscita è stata compensata con «performance» del portafoglio del 7,1%. Si parla generalmente di fondo di compensazione AVS, ma si tratta in questo caso di «Compensuisse», l’istituto autonomo della Confederazione che gestisce i fondi delle assicurazioni sociali. A fine 2018, i capitali di questo fondo erano pari a 34,3 miliardi di franchi, di cui 28’400 milioni dell’AVS, 4’111 milioni dell’AI e 835 milioni dell’IPG. Il patrimonio investito era di 32,6 miliardi (diminuiti come detto di 2,5 miliardi rispetto al 2017), le liquidità ammontavano a 1,7 miliardi (0,5 miliardi in meno). Come si può constatare da queste cifre, il patrimonio delle assicurazioni sociali è ancora consistente ed è in grado di sopperire alle esigenze legali. Per l’AVS deve garantire almeno un anno di rendite e, sotto questo aspetto, non ci sono problemi. Più delicata è la situazione dell’AI, per la quale è giunto a termine il finanziamento suppletivo. Di conseguenza, anche il debito dell’AI nei confronti dell’AVS non è stato rimborsato. Tale debito, che superava i 13 miliardi di franchi, dopo l’azione di risanamento di qualche anno fa, è sceso a 10,3 miliardi di franchi. Preoccupante per l’AVS, oltre a

L’invecchiamento della popolazione è una delle cause del problema. (Ti-Press)

questo credito che probabilmente non verrà recuperato, è il fatto che i rendimenti degli investimenti non sono riusciti a coprire il disavanzo rispetto alle rendite versate. Per ovviare a tale situazione, l’AVS deve ricorrere alla diminuzione del capitale. Per questo sono previste creazioni di liquidità nella misura di oltre 100 milioni al mese. È evidente che la situazione non

potrà protrarsi a lungo, per cui è urgente trovare altre soluzioni. Difficile prevedere un miglioramento a breve dei mercati finanziari, con un aumento dei tassi di interesse. Qualche sostegno puntuale potrebbe venire dagli utili della Banca Nazionale, dal momento che la Confederazione versa la sua quota all’AVS. Qualche speranza è riposta anche nel pacchetto in votazione

il prossimo 19 maggio sulla riforma fiscale e dell’AVS. In sostanza, il pacchetto prevede che per ogni franco di riduzione delle tassazioni delle aziende, un altro franco venga versato nelle casse dell’AVS. Si tratterebbe complessivamente di un finanziamento di circa 2 miliardi di franchi all’anno. Non risolverebbe il problema di fondo, ma sposterebbe di 4 o 5 anni il prosciugamento delle riserve finanziarie. Dal momento che la causa principale della situazione è l’invecchiamento della popolazione, non si può far a meno di prendere in considerazione un aumento dell’età di pensionamento. Tanto più che in genere si è disposti a lavorare oltre i 65 anni e l’arrivo delle giovani generazioni sul mercato del lavoro è ritardato dal prolungarsi degli studi e della formazione in generale. Se la Svizzera vuole mantenere il sistema dei tre pilastri e continuare a gestire l’AVS in gran parte con il sistema della ripartizione (le giovani generazioni pagano per le vecchie) non ci sono molte soluzioni, soprattutto se questo implica un finanziamento moderato e puntuale da parte della Confederazione o da parte di altre fonti non sempre garantite (Banca nazionale) o mediante piccoli aggiustamenti dell’IVA, se la congiuntura lo permette. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 25 febbraio 2019 • N. 09

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi E lo Stato del benessere come sta? Il welfare State, o, nella traduzione italiana, lo stato del benessere può essere definito come il complesso di misure di politica sociale che i governi dei paesi più avanzati hanno adottato, durante la Seconda guerra mondiale o nel periodo immediatamente successivo, per venire in aiuto degli strati di popolazione più poveri. Sono misure che riguardano, in generale, le pensioni, le indennità per la disoccupazione, gli aiuti alle famiglie, i sussidi per i premi di cassa malati, e per altri tipi di assicurazione delle persone. Queste misure sono finanziate con contributi dei datori di lavoro, con contributi dello Stato e con il risparmio dei privati. Senza ombra di dubbio le misure del Welfare State hanno contribuito, durante la seconda metà del ventesimo secolo, a migliorare il livello di vita di una quota molto larga della popolazione. Per diversi motivi, ma, soprattutto,

per il progressivo invecchiamento della popolazione questo insieme di politiche sociali è oggi in pericolo. In molti paesi, infatti, la progressione dei costi delle sue misure è molto più rapida della progressione dei mezzi, di provenienza pubblica o privata, con i quali queste misure vengono finanziate. Di conseguenza, non di rado, il finanziamento dello Stato del benessere diventa la ragione principale del progressivo aumento del debito pubblico. Fatta questa premessa ci si può chiedere quale sia in realtà la situazione in materia. A fare il bilancio ci aiuta il rapporto di aggiornamento sulla spesa sociale dell’OCSE, l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico. Per poter consentire confronti, l’importanza della spesa sociale viene misurata, in questo documento, come quota del prodotto interno lordo di

ciascun paese. Nel 2018 la stessa, per l’insieme dei paesi dell’OCSE, era pari al 20%. Naturalmente vi sono differenze significative tra nazione e nazione. In testa alla classifica vi è la Francia con una quota di spesa sociale superiore al 30% del Pil. Anche Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Germania e Italia possiedono quote elevate di spesa sociale, superiori al 25%. In coda alla classifica vengono invece Svizzera, Islanda, Irlanda, Turchia, Corea e Cile. In questi paesi la quota della spesa sociale è inferiore al 16% del Pil. In generale, la quota di spesa sociale tende ad aumentare. Vi sono però paesi come la Svezia, la Slovenia, la Nuova Zelanda, la Slovacchia, l’Irlanda e, soprattutto, l’Olanda nei quali, nel corso degli ultimi decenni la quota di spesa sociale, finanziata dal settore pubblico, è diminuita. Le differenze tra una nazione

e l’altra sono dovute naturalmente al modo diverso nel quale la politica sociale dei singoli paesi viene finanziata. Le differenze maggiori concernono il modo con il quale la spesa viene ripartita tra Stato e settore privato (aziende e singole persone assicurate). Negli Stati con una quota di spesa sociale elevata, è lo Stato che si fa carico di buona parte della spesa. In Svizzera, Islanda, Irlanda e via dicendo, invece, è il settore privato ad assumersi una parte importante della stessa. Così, in Francia, lo Stato si assume praticamente la totalità del finanziamento, mentre in Svizzera lo Stato finanzia un po’ meno del 60% della spesa mentre il resto viene assunto da aziende e privati. Questo fa si che, mentre nella classifica concernente la quota di spesa sociale assunta dallo Stato la Svizzera figura, come si è già visto, negli ultimi posti (al ventiseie-

simo rango per essere esatti), in quella sull’importanza della spesa sociale complessiva (pubblica + privata) risale all’undicesimo posto. Delle nazioni dell’OCSE la Svizzera è quella che ha di gran lunga il maggiore contributo al finanziamento della spesa sociale da parte delle aziende e dei privati. È una buona premessa. Ma è possibile che, con questa struttura del finanziamento della spesa sociale, la Svizzera, in futuro, in seguito all’invecchiamento della popolazione e quindi alla flessione dei contributi da parte dei privati, potrebbe trovare maggiori difficoltà nel finanziamento della spesa sociale rispetto a quei paesi che hanno invece riversato il carico del finanziamento sulle spalle dello Stato. Rileviamo da ultimo che i due campi di intervento più importanti della spesa sociale sono, sempre stando all’OCSE, le pensioni e la salute.

tenti sono tornate se non presentabili, almeno legittime: basta vedere quel che accade con il tycoon ungherese George Soros, per capire che quella è soltanto la cosa più visibile di un fenomeno più capillare e quotidiano. E infatti gli ebrei scappano, se possono tornano in Israele, perché nella nostra Europa non si sentono più al sicuro. Macron ha detto che sono già state prese delle misure e che altre ne saranno introdotte, e che questa cultura dell’odio sarà punita e governata. Gli strumenti ci sono, giudiziari e di sicurezza, ma si sa che questo tipo di recrudescenze non sono facili da debellare, nonostante il coro di scorno e di indignazione che si è sollevato un po’ ovunque. Il presidente francese ha anche affrontato una delle questioni cruciali, che è stata sollevata in questi giorni quando si è scoperto che l’uomo che ha insultato Finkielkraut è islamico: «Accanto all’antisemitismo tradizionale c’è quello fondato sull’islamismo radicale», ha detto Macron. Il fanatismo islamista esiste ed è brutale, la Francia lo ha sperimentato sulla sua pelle, ma quel che è cambiato ha a che

fare con lo sdoganamento dell’antisemitismo negli estremisti di destra e di sinistra, autoctoni. In America questa trasformazione è stata tragicamente chiara: l’attentatore della sinagoga di Pittsburgh, in cui sono morte undici persone, la più grave strage contro gli ebrei della storia recente statunitense, era un bianco convinto che Soros, l’ebreo Soros, stesse finanziando un’invasione di immigrati in America per «contaminare» e infine «distruggere» il paese. Nella folla che ha manifestato a Parigi questa settimana contro l’antisemitismo sono emerse tutte le fratture e le contraddizioni: ventimila persone a Place de la République per dire «ça suffit», ora basta, a questo odio. A pochi passi dalla piazza simbolo dei valori francesi, la sinistra radicale ha organizzato la sua manifestazione, sempre contro l’odio, ma anche contro i «tentativi di strumentalizzazione» di questa faccenda, per rivendicare il diritto di definirsi antisionisti, confondendo la critica a Israele e al suo governo con il diritto a esistere dello stato ebraico. Dell’estrema destra è

quasi superfluo parlare: Marine Le Pen, leader del Rassemblement national (l’ex Front National), non ha partecipato alla manifestazione, dice che vuole mostrare solidarietà agli ebrei con altri gesti, senza mischiarsi con l’ipocrisia di questa protesta. Lo sdoganamento dell’antisemitismo è di fatto stato sancito con la protesta dei gilet gialli. C’è la tendenza a dare la colpa a questi manifestanti di tutti i guai culturali e politici della Francia e dell’occidente, ed è una tendenza eccessiva. Ma non si può negare il fatto che il clima di anarchia che si è creato attorno ai giubbetti catarifrangenti – si può sostenere tutto lì dentro, dalla guerra civile a «sionista di merda» – ha costruito un contenitore per la convergenza di destra estrema, sinistra estrema, islamismo, antiglobalizzazione, anticapitalismo, che si sfoga con l’odio per il denaro e per gli ebrei. Si discute se sia stato il comunitarismo di sinistra a creare questo sdoganamento o il solito, indomito fascismo, ma intanto sui muri i gilet gialli scrivono la sintesi del loro pensiero: «Macron, sei la puttana di Rotschild o degli ebrei?».

secolo scorso (alla pari del computer e del laser). La gratuità di Internet ha consentito a miliardi di persone di connettersi, di vedersi e di dialogare, è diventata strumento formidabile per consolidare intese e per abbattere barriere e pregiudizi. Questo fintanto che i «gatekeepers» (cioè i guardiani dei cancelli del web, come Facebook, Google ecc.) non hanno iniziato a sfruttare raccolta e manipolazione di dati personali, successivamente estese (con pericolose vendite) ad agenzie di intelligence private e governative, minacciando così non più solo la privacy, ma anche la democrazia. Anche Berners-Lee un anno fa, stigmatizzando i pericoli che possono derivare dalla gestione delle informazioni, aveva ammesso che il web era ormai una potenziale arma di controllo e di ricatto. Anche Facebook era e continua ad essere un’applicazione gratuita, esattamente come i suoi sempre più numerosi consimili: dal planetario Google ai

servizi analoghi asiatici o russi (Qzone, Weibo ecc.). In apparenza questi servizi chiedono solo l’account, ma è proprio il semplice legame di fidelizzazione (non a caso difficile da cancellare) a consentire la mutazione del tipo di gratuità degli strumenti social. E di riflesso è proprio questo avvio «virginale» a nascondere il pericolo che la loro gratuità ambigua possa trasformarsi in minaccia per il futuro non solo tecnologico, ma anche politico. Nel caso di Facebook, ad esempio, la gratuità ambigua ha permesso al suo fondatore di arrivare a gestire un impero miliardario, sempre più difficile da controllare e da frenare. Le cifre dell’ultimo quadrimestre parlano di ricavi saliti del 30% a 16,91 miliardi di dollari, con l’utile netto in crescita del 61% a 6,88 miliardi di dollari; e le cronache precisano che il 93% del totale del fatturato deriva dalla pubblicità sui dispositivi «mobile». Ora, se le vette finanziarie e il potere economico raggiunti da questi «gatekeepers» sono

impressionanti, il peso politico (esteso praticamente a tutti i continenti) di questi social è ancora maggiore visto che di fatto gestiscono un vero e proprio monopolio di controllo del web che a fatica governi cercano di monitorare. Sono circondati da sospetti, implicati in scandali sui furti o sull’uso dei dati di milioni di loro affiliati, sono già finiti davanti a commissioni congressuali negli Stati Uniti e in Europa, ma i guardiani dei cancelli del web, facilmente in grado di pagare multe miliardarie, non intendono rinunciare a quanto produce la loro ambigua gratuità, nonostante il fenomeno stia avvelenando il mondo politico a tutte le latitudini. Senza contare, come avverte Berners-Lee, le manovre di queste società per creare barriere contro gli avversari (ultime avvisaglie: la «querelle» fra Google, Facebook e Apple) in modo da accentrare tutte le forme di innovazione, assorbendo le startup innovative migliori e le menti più brillanti.

Affari Esteri di Paola Peduzzi Il ritorno dell’antisemitismo Non si vedeva tanto antisemitismo dalla Seconda guerra mondiale, ha detto il presidente francese Emmanuel Macron, riportando alla memoria l’orrore del passato che tornato vivo e palpabile nelle tombe ebraiche profanate, nelle svastiche blu e gialle, negli insulti per strada, «sionista di merda tornatene

Il filosofo francese Alain Finkielkraut. (Wikipedia)

a casa», come ha detto un manipolo di gilet jaunes all’intellettuale Alain Finkielkraut la settimana scorsa, e nelle uccisioni, perché si muore ancora, nella modernissima Francia, per il semplice fatto di essere ebrei. Ci dimentichiamo tutto, in questa età della distrazione, ma soltanto un anno fa a Parigi, una signora di 85 anni sopravvissuta all’Olocausto, Mireille Knoll, è stata accoltellata undici volte nel suo letto, e poi bruciata viva (se era ancora viva). I dati del Ministero dell’interno dicono che l’antisemitismo è cresciuto del 74 per cento: 541 episodi nel 2018, nel 2017 erano stati 311. Nicole Yardeni, che era a capo del Consiglio delle istituzioni ebraiche di Tolosa quando, nel 2012, il giovane Mohammed Merah assaltò una scuola ebraica in città, ha fatto un commento preciso: «Ho l’impressione che quel che avveniva soltanto su internet, i fantasmi del complottismo antisemita, si sia riversato nelle strade, a viso scoperto. È come se il tabù della Seconda guerra mondiale sia stato superato». L’antisemitismo è stato sdoganato, e le rappresentazioni degli ebrei col naso adunco avidi e po-

Zig-Zag di Ovidio Biffi Il prezzo della gratuità Lei compie 30 anni, lui 15. Non è una storia di sentimenti. Il lei è riferito alla rete, cioè al web o Internet. Il lui invece riguarda uno dei suoi servizi più illustri, più social si dice oggi: Facebook, che comprende anche Whatsapp e Instagram, più piccoli ma delfini promettenti. Il compleanno quasi in contemporanea, più che per segnalare le ultime novità in campo informatico (ad esempio il G5 che massimizza la velocità sul web, o gli ultimi scandali prodottisi sui social toccando, in punti sensibilissimi, persino l’uomo più ricco del mondo, ricattato come un pivello di terza media), mi intriga per la diversa gratuità che i due soggetti ostentano. Un amico campione di malignità, nel senso che i suoi giudizi vanno dall’ironico al sarcastico, liquida la faccenda con poche parole: la gratuità del web è roba del secolo scorso, quella di Facebook è invece prettamente da millennials. E me lo spiega con il semplice cambio di consonante di due vocaboli inglesi: il «prize» è diventato

«price», vale a dire ciò che un tempo era un premio, seguendo il corso di un progresso permeato dal consumismo ha finito per avere un prezzo. È la strada seguita anche da Facebook e dai suoi consimili, partoriti dalla gratuità a 360 gradi del web come strumenti per la comunicazione e la socializzazione, ma poi subito modificati per ricavare profitti da quanto riuscivano a incamerare. Vediamo di aggiungere qualche dettaglio in più. Che il web sia gratuito lo sanno tutti. Anzi: Internet difende la sua gratuità a ogni costo (è un po’ un ossimoro) da 30 anni, cioè dal giorno in cui Tim Berners-Lee – il suo inventore, insignito quattro anni fa del premio Gottlieb Duttweiler di Migros – lo creò come strumento di comunicazione fra gli scienziati che operavano al Cern di Ginevra. In pochi anni, senza che a Berners-Lee giungesse un centesimo di guadagno, si è trasformato in una delle più straordinarie invenzioni mai previste o immaginate da qualcuno nel


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Idee e acquisti per la settimana

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Cultura e Spettacoli La rivincita del maiale La cassoeula è in realtà molto più di un piatto lombardo: essa racconta la nostra storia pagina 38

Gerhard Meier e i melograni Grazie all’iniziativa di Pagine d’Arte, che ha creato la collana «fiammiferi», anche gli italofoni possono finalmente cogliere la delicatezza e il valore di Gerhard Meier

Immagini da un’auto Daria Caverzasio Hug presenta una serie di fotografie scattate con l’iPhone

Una monaca dilaniata A Milano fino al 3 marzo va in scena la tragica vicenda della Monaca di Monza

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La memoria del Prado

Mostre Prima mostra per i duecento anni

del museo

Gianluigi Bellei Grande evento il prossimo anno per il Museo del Prado di Madrid. Festeggia, infatti, i duecento anni. E lo fa con una serie di mostre, seminari, prestiti, dibattiti, pubblicazioni… Le celebrazioni sono iniziate il 19 novembre con l’esposizione Circa 1819-2019. Un lugar de memoria, inaugurata dai reali di Spagna Felipe e Letizia, che ripercorre la storia del museo attraverso una serie di opere eccezionali. Il 23, 24 e 25 novembre l’ingresso era gratuito e i visitatori potevano pinchar; sabato 24 ci sono stati i fuochi d’artificio, la proiezione di videomapping sulla facciata e uno spettacolo di teatro aereo a cura del collettivo catalano La Fura dels Baus. Il Museo del Prado apre il 19 novembre 1819 con il nome di Museo Real de Pinturas. Nel 1793 si inaugura il Musée du Louvre, nel 1795 il British Museum, nel 1815 la Pinacoteca di Brera, nel 1824 la National Gallery. Sono gli anni dell’Illuminismo e i fermenti rivoluzionari si spargono per tutta l’Europa a seguito delle invasioni napoleoniche. Il Louvre nasce dalla nazionalizzazione delle opere della Corona e dalla confisca di quelle della chiesa e da subito ha la vocazione di museo enciclopedico con opere di ogni periodo, di ogni scuola e di ogni tendenza. Il Prado, al contrario, nasce dalle opere possedute dalla Corona spagnola per volontà del re Ferdinando VII. In un certo senso come gli Uffizi che custodiscono quelle collezionate dai Medici o il Kunsthistorisches di Vienna quelle degli Asburgo. All’inizio, quindi, riflette i gusti della monarchia spagnola che regna dal Quattrocento e le opere provengono tutte dalla Colleción Real. I Re cattolici prediligono l’arte fiamminga. Carlo V colleziona dipinti di Roger van der Weyden, Jan van Eyck. Chiama a corte come ritrattista Tiziano. Il figlio Filippo II, alla fine, possiede una straordinaria raccolta del pittore cadorino. Acquista poi opere di El Bosco del quale il Prado possiede la maggior parte dei lavori. Filippo IV, tra il 1621 e il 1665, inizia a comprare arte spagnola e diventa il protettore di Diego Rodriguez de Silva y Velázquez. Carlo V, tra il 1788 e il 1808, prende sotto la sua ala Francisco de Goya e acquista opere classiciste di Andrea del Sarto e Sandro Botticelli. Il Museo del Prado apre i battenti con 311 opere che diventano quattromila nel 1827 e circa novemila oggi.

Fra le peripezie del museo segnaliamo quella del 1936, quando a seguito della Guerra civile il governo repubblicano nomina Pablo Picasso direttore. Un direttore simbolico perché assente in quanto si trova in Francia. Dopo il golpe del 18 luglio si decide di mettere in piedi un meccanismo di protezione. In novembre Josep Reanu, direttore generale delle belle arti, ordina l’evacuazione di trentasette quadri. Nella settimana seguente la lista cresce fino a cinquecentoquattro. All’inizio di aprile del 1937 si crea la Junta Central del Tesoro Artístico sotto la direzione del pittore Timoteo Pérez Rubio e nel 1939 si trasferiscono le principali opere a Valencia e poi in Catalogna. Infine il 3 febbraio 1939 il Comité Internacional para el Salvamento de los Tesoros de Arte Españoles trova un accordo con il governo repubblicano per poter trasportare nella sede della Società delle nazioni di Ginevra le opere più importanti. Dal Prado partono 361 pitture e 184 disegni. A Ginevra il 1. giugno si inaugura una mostra al Musée d’Art et d’Histoire con 195 opere fra le quali 38 Goya, 25 Greco, 4 Murillo, 5 Ribera, 34 Velázquez, 3 Bosco, 6 van Dyck, 6 Raffaello, 9 Rubens, 7 Tintoretto, 10 Tiziano. Una caratteristica del museo è la popolarità e l’attaccamento degli abitanti di Madrid alla sua storia e ai suoi dipinti. Fede ne fa la «sconvolgente» fotografia del 1932 nella quale osserviamo un gruppo di popolani in ammirazione di fronte al dipinto di Velázquez Las Hilanderas. L’esposizione del bicentenario è suddivisa in otto sezioni che raccontano la storia del museo dal 1819 a oggi attraverso testi dedicati, dipinti, sculture, fotografie, documenti, manoscritti, libri, video, piantine, progetti, cataloghi, cartelloni pubblicitari, riproduzioni tattili. Istruttiva la sezione che vede le opere d’arte spagnole entrare nei musei europei. Esempi ne sono il dipinto di Gyura Háry con La sala Española en la Academiade Ciencias de Budapest o quello di Edward Petrovich Hau con La sala Española del Museo del Hermitage. Nello stesso tempo il Prado è meta degli artisti di tutta Europa, diversi dei quali copiano direttamente nelle sale le opere esposte. Mariano Fortuny si cimenta con il San Andrés di José de Ribera, mentre Pablo Picasso con il Felipe IV di Diego Velázquez e La reina doña Mariana de Austria, sempre di Velázquez, diventa modello iconografico per Fran-

Diego Velázquez, Cristo crocifisso, 1632. (Madrid, Museo Nacional del Prado)

cisco de Goya e il solito Picasso. Édouard Manet scopre Velázquez al Musée du Louvre e nel 1865 decide di andare a Madrid a visitare il Prado. In mostra due sue opere che risentono di questa fascinazione: Angelina del 1865 e Amazona de Frente del 1882. Fra i documenti curiosi il libro delle firme dei visitatori fra il 1866 e il 1869 dove possiamo osservare quella di Gustave Courbet. Il 1899 segna l’inizio del nuovo corso scientifico del museo. È la data del tricentenario della nascita di Velázquez e si decide di organizzargli un’esposizione. La sala con le sue opere presenta una novità con tre caratteristiche: è destinata a un solo artista, le opere seguono un ordine cronologico e

la selezione è particolarmente rigorosa. Quarantaquattro dipinti che sono «il risultato di una profonda riflessione sopra l’identità stilistica del suo autore», scrive Javier Portús in catalogo. Seguono negli anni seguenti le sale tematiche dedicate a Francisco de Goya, a José de Ribera e a Bartolomé Esteban Murillo. Il processo di valorizzazione critica prosegue nel 1902 con la mostra dedicata a El Greco e tre anni più tardi a Juan de Zurbarán. Da allora le esposizioni temporanee aumentano con un ritmo sempre crescente. In occasione del bicentenario citiamo Bartolomé Bermejo fino al 27 marzo, sono invece andate in scena Doce Fotógrafos en el Museo del Prado fino al 13 gennaio, La fuente de la Gracia. Una tabla del en-

torno de Jan van Eyck fino al 27 gennaio e ce ne sono tante altre in programma quest’anno. Bella mostra da non perdere assolutamente. Menzione speciale per il catalogo, esauriente, tutto da leggere, con l’indice dei nomi e costa anche poco. Un must da collezione. Dove e quando

Museo del Prado 1819-2019. Un lugar de memoria. A cura di Javier Portús. Museo Nacional del Prado, Edificio Jerónimos, Madrid. Fino al 10 marzo 2019. Lu-sa 10.00-20.00, do 10.00-19.00. Catalogo Edición Museo Nacional del Prado, euro 20. www. museodelprado.es


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Cultura e Spettacoli

In viaggio con la «cassoela»

Pubblicazioni Nel suo libro più recente Emilio Magni si dedica alla «cassoela» o «cazöla»; resterà però deluso

chi si attende un ricettario: l’autore ne ripercorre infatti storia e leggende Luciana Caglio Un piatto povero, tipicamente locale, riabilitato dalla gastronomia stellata, nell’era dell’alimentazione a chilometro zero: parte da qui la ricerca che Emilio Magni, brianzolo doc, ha dedicato alla «cassoela», cibo di casa sua. Che, però, l’ha portato lontano. Certo, la scelta del tema conferma lo stretto legame dell’autore con il luogo dov’è nato e cresciuto, ma quest’appartenenza non significa un limite. Diventa, invece, un’opportunità per ricavare da cose, apparentemente minime, correlazioni e divagazioni, persino scoperte imprevedibili. Come, appunto, avviene con la «cassoela», piatto lombardo, simbolo di una civiltà contadina conclusa, che, in queste pagine, rivive lungo un itinerario storico, culturale e cronachistico ad ampio raggio. A cominciare dall’origine della parola: meneghina, cioè milanese, che deriverebbe dal francese «casserole», o , invece dallo spagnolo «cazveula». C’è pure chi avanza l’ipotesi tedesca «kassler», parente prossimo, potremmo aggiungere, della nostra «Bernerplatte», piatto a base di crauti e ovviamente, di maiale. Un toccasana per l’alimentazione delle famiglie contadine fino alla metà del secolo scorso, come racconta Magni, rievocando la centralità del maiale, protagonista non soltanto in cucina ma anche di eventi e riti che animavano momenti d’incontro, insomma forme di socialità spontanea. Da bambino, affascinato dal lavoro di chi trasformava le carni suine in salami, cotechini, luganighe e «cudegot»,

L’insegna della macelleria Hambel nel Palatinato renano.(Keystone)

sognava di fare il salumiere. Ma già allora, assistendo di straforo (i ragazzi non erano ammessi) alla cruenta mazza del «purcell», dimostrava quella curiosità per andare oltre che avrebbe poi contrassegnato la sua futura carriera di giornalista. Anche in queste pagine la fedeltà alla memoria locale e il bisogno di sfuggirvi si affiancano. Da un lato, il cronista di Erba, che registra una quotidianità vissuta in prima persona e, dall’altro, il reporter che esplora i grandi orizzonti esotici. A modo suo, però. Ecco che, persino in Perù, a quota 3500, fra i picchi della Cordillera Blanca, con un gruppo di alpinisti italiani, vedendo un maialino e, in un orto, le verze, riesce a far cucina-

re un’insperata «cassoeula peruviana». L’esperienza si ripete nel Kahmir, paese musulmano dove «il maiale è considerato alla stregua del diavolo». Invece, in un ristorante, che godeva di una speciale licenza, eredità dell’epoca coloniale britannica, «mi è capitata una gaudente “pacciata” di maiale», cucinato con spezie e accompagnato da tè bollente. Al di là di queste soste gastronomiche, un po’ goliardiche, il nostro autore punta verso ben altri obiettivi. Si tratta, in definitiva, di ritrovare, nel corso della storia e della cultura, le tracce che giustificano il riscatto di un animale tanto utile quanto mortificato. A cominciare dal nome, sinonimo di volgarità e sporci-

zia. In proposito cita lo scrittore Camilo José Cela, Nobel l989: «Ogni volta che scrive maiale, tra parentesi, aggiunge ( con licenza)». Come a scusarsi con il lettore. Per non parlare, poi, della femmina del maiale: qui, osserva Magni «Le cose precipitano: i sinonimi porcella e troia diventano veri e propri insulti». Proprio la scrofa può essere considerata un simbolo di Milano, antecedente il biscione dei Visconti. È infatti raffigurata in un bassorilievo del Palazzo della Ragione, in via Mercanti e compare su uno stemma, a Palazzo Marino, come riferisce Magni proseguendo in un’operazione riabilitativa, dove non è solo. Recentemente, il «Corriere della Sera» ospitava un intervento dello storico Roberto Finzi, già autore del saggio L’onesto porco, storia di una diffamazione; ora, sulla scorta di un documento del Seicento, il maiale serve a dissipare «Il pregiudizio contro gli ebrei». In quanto forniva ai «dilettissimi ebrei» le setole «destinate a “rappezzare le scarpe e far l’arte del calzolaio”». Muovendosi abilmente attraverso epoche e universi lontani, l’autore ritrova il filo conduttore che lo riporta vicino a noi, in luoghi sempre segnati dalla presenza della «casseola» e dei suoi estimatori, fra cui compaiono personaggi illustri, spesso pittoreschi. Ecco la scrittrice milanese Ottorina Perna Bozzi, morta nel 2013 a 104 anni, autrice di ricettari della cucina lombarda e considerata «l’Artusi del popolo». E poi, ovviamente, Gianni Brera, «grande maestro del giornalismo e grande pacciatore», e, inatteso, l’alpinista Walter Bonatti che,

a tavola, davanti al suo piatto preferito, usciva dalla riservatezza. Al novero, osa supporre Magni, potrebbe appartenere anche George Clooney, durante i suoi soggiorni sulle rive del Lario. Certo è che questo piatto continua a fare notizia, protagonista di feste culinarie, anche in Ticino. La più importante si tiene, dal 2013 a Cantù, voluta dal sindaco Carlo Bizzozero, che considera la casseola «un piatto iscritto nel Dna collettivo dei brianzoli». Alla prossima edizione, parteciperanno 42 ristoranti e trattorie, impegnati nel rilancio di un piatto diventato «trendy» anche fra i giovani. Può persino sembrare una sfida nei confronti della nuova dietologia che, del resto, ha cercato di proporre la versione «light» di una pietanza, per definizione grassa, «bela vuncia». Per Magni, la cassoela magra è «un ossimoro», una contraddizione di termini, un tradimento. Ma, in fin dei conti, a chi spetta l’invenzione di questo piatto, ormai adottato dalla gastronomia che conta? Qui dalla storia si passa alle leggende. La più simpatica racconta l’ascesa sociale di Giusepa, contadinella brianzola di bell’aspetto: da servetta diventa cuoca presso il governatore del ducato di Milano, allora, nel 1500, sotto dominio spagnolo: preparando una cassoela, piatto povero apprezzato dai gran signori. Ieri come oggi. Bibliografia

Emilio Magni Il sorriso della cassoeula. Storia e storie di un piatto lombardo, Milano, Mursia, 2018. Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli

Dorli, Gerhard e i melograni

Narrativa «Fiammiferi» è molto di più della nuova collana di Pagine d’Arte, è l’occasione per conoscere

autori e testi di nicchia, come il libro dello svizzero Gerhard Meier Luigi Forte La giuria del premio Heinrich Böll lo definì nel 1999 «lo sconosciuto più conosciuto della letteratura tedesca». Forse perché Gerhard Meier, autore di poesie, racconti e romanzi, aveva sempre vissuto un po’ al margine del business culturale pur ottenendo nel corso degli anni significativi premi e riconoscimenti. Era nato a Niederbipp nel Canton Berna nel 1917, e per oltre un trentennio lavorò come designer e direttore tecnico in una fabbrica di lampadari. Solo nel 1964 pubblicò la sua prima raccolta di poesie, L’erba rinverdisce, e pochi anni dopo abbandonò l’attività professionale per dedicarsi alla scrittura. Lui stesso si definiva un provinciale legato al suo paese e a quella casa ereditata dai genitori in cui trascorse tutta la vita in compagnia – per ben sessant’anni – dell’amatissima moglie Dorli scomparsa nel 1997. In realtà sempre presente nel suo cuore e tra le pagine del poema in prosa Se fioriscono i melograni pubblicato da Meier nel 2005, tre anni prima della sua morte, e ora proposto nella traduzione di Daniela Idra nei fiammiferi, la nuova squisita collana della casa editrice svizzera Pagine d’Arte. È una delicata, intensa elegia che dissolve i contorni del tempo in rievocazioni fuggevoli, in brevi flash fra presente e passato, un tour dell’anima che risveglia il dialogo mai interrotto con la propria compagna, creatura sensibile e colta che aveva condiviso con il marito l’interesse per la religione e l’arte figurativa, la musica e la letteratura. Temi esistenziali presenti in modo originale anche nei romanzi dello scrittore come la Tetralogia di Amrain conclusa nel 1990. Ma in questo esile libretto, i pensieri si accavallano e dissolvono in un leggero soffio di parole, tra mille fiori e piante, in attesa che un giorno Dorli possa ancora chiamare per nome il suo Gerhard inseguendo le rose del giardino, per riaffacciarsi insieme sulla realtà che un tempo ammirarono. Magari andando a Soglio, dove Rilke si era immerso nelle proprie elegie, e attraversando Borgonovo di Stampa, dove crebbe Giacometti, o Sils-Maria, per ricordare Nietzsche e il suo Canto d’ebrezza inciso sulla roccia, sostando poi all’Hotel Alpenrose, dove

soggiornò con un paio di amici Marcel Proust a rimirare il lago dalle sfumature preziose che con i suoi colori «somigliava a un grande fiore morente». Meier divaga con velata malinconia immaginando la sua amata aggirarsi tra figure letterarie, mentre il ricordo va a una cometa apparsa in cielo sopra il Giura non molto dopo il suo definitivo congedo. Nel proprio cuore come nell’universo quest’uomo scorge i segni miracolosi di un connubio inviolabile: la sua Dorli, vicina e lontana, riemerge da visionarie fantasie camminando «sul tappeto d’ombre degli eucalipti, in riva al Mar di Galilea».

Lo stretto rapporto tra Gerhard Meier e la sua amata Dorli continuò anche dopo la morte della donna Era una donna nata in una famiglia pietista e legata alla propria comunità in diversi modi: insegnava alla scuola domenicale, faceva parte del consiglio parrocchiale e dirigeva la Società per gli anziani. E mentre lui era tornato alla letteratura, Dorli teneva un chiosco in cui vendeva giornali, sigarette e cioccolata. Meier non trascura nel suo vagabondare dettagli o frammenti quotidiani, ma poi scavalca la provincia per deporre rose sulla tomba di Proust nel cimitero di Père Lachaise, risalire con l’amata la Via Dolorosa a Gerusalemme o girare un film a Jasnaja Poljana, Mosca e San Pietroburgo. Mentre l’album delle fotografie di Dorli lo riporta con lei a Berlino, alloggiati all’Accademia di belle arti, dove lui parla di Theodor Fontane e poi insieme vanno a zonzo per il Tiergarten e lungo le rive boscose del Wannsee ricordando Heinrich von Kleist. E certo non possono trascurare Vienna, contagiati dal bohémien Peter Altenberg con la nostalgia dei caffè, i cui testi sembrano spartiti di fisarmonica che richiamano canzoni dei pontili, dell’estate, della brezza che arriva dalla Galizia e si riversa sul Ring. Ma è Joseph Roth, lo scrittore di Brody, che affascina ambedue e li fa sentire nativi

Gerhard Meier (1917-2008) in un’immagine scattata a Niederbipp nel 2003. (Keystone)

di quell’impero. Più tardi proprio lui, Gerhard, proverà riconoscenza per l’amico austriaco Peter Handke che gli cedette metà del premio Kafka. L’intenso breviario di Meier dispensa parole e concetti, fatti e fantasie con un tocco quasi musicale, ariosi e impalpabili: un inno alla vita che nell’incanto letterario supera ogni soglia, anche quella definitiva, per poi ritornare alla luce. Magari quando Dorli lo accosterà in sogno apostrofandolo con le bibliche esortazioni di Sulamita: «Vieni, amato mio, andiamo nei campi (…) vedremo se germoglia la vite, se le gemme si schiudono, se fioriscono i melograni: là ti darò il mio amore». È un libro esemplare per la nuova collana letteraria, fiammiferi, che include storie brevi tradotte per la prima volta in italiano. Non a caso proposte dalla casa editrice Pagine d’Arte che si è sempre mossa fin dall’inizio nel 1982 nel segno della scrittura poetica coniugando parola e immagine. Del resto ha

avuto fra i suoi collaboratori significativi artisti come Emilio Tadini, Giulia Napoleone ed Enrico della Torre. Ma anche gli altri tre fiammiferi si muovono in spazi originali e curiosi. L’antologia della portoghese Maria Gabriela Llanson, scomparsa nel 2008, con Pessoa una delle voci più originali del suo paese, è una sorta di collage percorso da folgoranti immagini del corpo, della luce e del pensiero, un testo ricco di suggestioni che stimolano costanti processi interiori. Più accessibile e drammatico è il volumetto che il giovane scrittore francese Nicolas Cavaillès dedica agli otto figli della coppia di musicisti Clara e Robert Schumann. Vite segnate dal tragico destino del folle genio paterno e qui narrate con una scrittura appassionata e incalzante. Singolare è, a suo modo, anche il racconto Zinco, del saggista e romanziere fiammingo David van Reybrouk che narra la paradossale storia di un minuscolo territorio neutrale, il Moresnet,

fra Belgio, Olanda e Germania nei tragici anni delle due guerre mondiali del Novecento. Ma la cosa più curiosa è il destino del protagonista che qui visse cambiando cinque volte nazionalità senza aver passato mai il confine, perché, come sottolinea l’autore, sono le frontiere che lo hanno attraversato. Proposte originali e coerenti con il programma di fondo della collana. Non certo titoli di massa, ma letture assai coinvolgenti per un pubblico raffinato che cerca nella scrittura originalità e incanto. Si può solo augurare a questa bella casa editrice di trovare per la nuova collana non solo moltissimi lettori, ma anche giovani e originali autori con uno sguardo inquieto e curioso che va ben oltre la superficie uniforme delle cose. Bibliografia

Gerhard Meier, Se fioriscono i melograni, Pagine d’Arte, p. 39, € 10.–.

Una lingua per la nazione

Linguistica L’ipotesi di un’esposizione permanente dedicata alla lingua italiana in un appassionato libro

del linguista romano Giuseppe Antonelli Stefano Vassere «Nelle lettere che inviava a Lucrezia Borgia, lui la chiamava “luce della mia vita”, “dolcissima vita mia” e le scriveva che “grande fiamma è quella d’un vero amore”. Lei gli rispondeva chiamandolo “Pietro mio” e imponendogli di usare un misterioso soprannome: “questo da qui avante serrà el mio nome: FF”». Il quadro numero undici della terza stanza al primo piano di questo Museo della lingua italiana di Giuseppe Antonelli è dedicato a Pietro Bembo, che tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento fu cardinale, umanista e linguista, ma anche grande innamorato, un linguista innamorato si potrebbe dire. Bembo fu, sopra ogni cosa, lo stabilizzatore della norma linguistica, l’inventore dell’italiano letterario due secoli dopo Dante, Petrarca e Boccaccio; e decisamente un’istituzione, quindi, per la nostra lingua. Il museo della lingua italiana è opera recente di Giuseppe Antonelli,

che dei linguisti italiani è uno dei più prolifici, abile soprattutto nella divulgazione, nel virtuoso sapere indirizzarsi alla gente a proposito di cose di lingua. Il libro è particolare, perché progetta un concreto museo dedicato all’italiano, con piani, stanze, oggetti esposti e testi di accompagnamento, il tutto con taglio storico e ottimistico. Il modello è quello del Museo della lingua portoghese di San Paolo del Brasile; e il «sogno» di Antonelli si apre appunto sul suo rovinoso incendio del 2015. Poi, come detto, ha inizio il disegno dell’architettura interna dell’edificio, con la produzione degli oggetti e i testi che ce li giustificano. Il museo è sbilanciato: la prima sezione-piano espone il periodo dal Medioevo al Settecento e porta i primi testi in italiano, quelli informati di un materiale che farà dire agli specialisti qualcosa tipo «ecco, questo, per motivi strutturali morfologici e sintassi non è più latino (anche se non è ancora del tutto italiano)»; la seconda copre due

secoli, dalla metà del Settecento alla metà del Novecento e la terza è interamente dedicata all’italiano contemporaneo. I pezzi sono opere d’arte e testi documentari, ma anche «oggetti d’uso

comune». Dai ritratti dei padri dell’italiano, alla riproduzione dell’Indovinello veronese (testo primigenio, di quelli richiamati qui sopra), le pale dell’Accademia della Crusca, il simbolo dell’euro, il baule di un emigrante, una matita rossa e blu, un cartello direzionale che conferma l’itinerario verso Barbiana, la sua scuola e Lorenzo Milani. Ogni oggetto richiama un tema, e il percorso è dunque tematico ma soprattutto storico e cronologico. Se questo museo si farà o si potrà fare, non sappiamo; certo è che l’eventuale «museabilità» di una storia linguistica parrebbe proporzionale al grado di percezione della lingua come istituzione o addirittura patrimonio nazionale; il poco rispetto di molti italiani, anche di quelli che contano perché lavorano nell’amministrazione pubblica o nelle università, parrebbe scoraggiante se messo di fronte ad altre realtà che hanno organi e accademie fieri, consapevoli e determinati. Vedremo; il libro è bello, e beneficia

del fascino dell’elenco e del percorso. Tra le conclusioni possibili, fuori dal testo di questo libro, e pensando ancora a Pietro Bembo, c’è il fatto (minore ma forte di qualche suo fascino) che i linguisti sono capaci di affetti anche sofferenti e fuori misura; per la propria lingua, per il sogno di costruirle attorno un museo, e nondimeno per le proprie femmine. Oltre alla duchessa di Ferrara, Bembo scrisse parole tenerissime a un’altra delle sue donne, la vedova Maria Savorgnan. «Pure benedette quelle parole, chè essendo elle ardenti, non è meraviglia se accrescono ardore. Amatemi» (come non si potrebbe, del resto, non rispondere con parole ardite a una che vi ha appena spedito un «Vostra, vostra e vostra e vostrissima son e serò sempre»?). Bibliografia

Giuseppe Antonelli, Il museo della lingua italiana, Milano, Mondadori, 2018.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 25 febbraio 2019 • N. 09

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Cultura e Spettacoli

Improvvisazione, sensibilità e talento Mostre Alla Galleria ConsArc di Chiasso il lavoro

di Daria Caverzasio Hug, questa volta affidato a un iPhone

Un testo davvero contemporaneo?

Teatro Una «cozza» di farsa al LAC, in attesa

della Nuova Drammaturgia Giorgio Thoeni

Giovanni Medolago «Tutto può accadere, tutto è possibile. Il tempo e lo spazio non esistono. Su una base insignificante di realtà, l’immaginazione fila e tesse nuovi disegni: un misto di ricordi, esperienze, invenzioni, assurdità e improvvisazioni». Così August Strindberg nel suo dramma Il sogno, riflessione poi ripresa nel film Fanny e Alexander dal suo connazionale Ingmar Bergman. Colpisce nel segno l’epigrafe che ci introduce alla mostra aperta alla Galleria Cons Arc di Chiasso, un invito sia a cogliere quanto ci propone Daria Caverzasio Hug (DCH) attraverso le sue immagini, sia a tessere nuovi disegni, fantasticando su quanto potrebbe esserci al di là dell’inquadratura; mescolando ricordi, esperienze ecc. consiglia Strindeberg. Inoltre, quella «base insignificante di realtà» – confessa Daria sorridendo – nasce forse dalla forte miopia che l’accompagna sin da piccola. «Vista con un cannocchiale usato al contrario – aggiunge – la realtà viene in qualche modo distorta». A questa realtà già di per sé falsata, la fotografa giunge in modo altrettanto «distorto»: nella serie di ritratti che riprendono le immagini dei defunti sulla loro tomba e significativamente denominata «Transito», c’è sempre un riflesso, una gibigianna o qualche scoria lasciata dal tempo che irrompono sui visi dei trapassati. Ma sia pure Attraverso (titolo dell’esposizione) tutto ciò, lo sguardo dei poveri morti ci giunge mantenendo un’intensità talvolta addirittura inquietante, densa di interrogativi. «Volti trapassati, maschere algide prese da un gioco che soltanto loro padroneggiano» (G. Isella). Lasciati i defunti, DCH si lancia letteralmente sull’autostrada e con il suo smartphone (usato per realizzare tutte le immagini presentate alla Cons Arc) scatta attraverso il finestrino dell’auto, ancora incurante di quanto potrà sistemarsi tra il suo obiettivo e una realtà che questa volta è distorta dalla velocità. Le quattro foto della serie intitolata Il sogno del gigante sono attraversate da un

La stagione di LuganoInScena avanza a grandi falcate promettendo spettacoli di grande levatura. Una fase della sua programmazione che prevede anche un pacchetto di proposte inserite nell’ambito del Focus Nuovi Orizzonti con l’obiettivo di avvicinare il pubblico al teatro contemporaneo, alla Nuova Drammaturgia o, più semplicemente, al nuovo. In questo senso si inserisce perfettamente l’attesissimo ritorno di Romeo Castellucci con Democracy in America, spettacolo del quale ci occuperemo la prossima settimana. Ma anche l’arrivo in aprile del belga Ian Fabre con The Night Writer. Non è però il caso di Belve – Una farsa di Armando Pirozzi scelta per aprire il breve ciclo e preceduto, il giorno stesso del debutto sul palco del LAC, da un’appassionante conferenza di Carmelo Rifici sulla nascita e sul senso della Nuova Drammaturgia. Un appuntamento di pregio e ben argomentato che ha creato molte aspettative su quanto si sarebbe poi visto sul palco e che ha prodotto uno strano effetto boomerang proprio in relazione a uno spettacolo che aveva tutte le carte per essere in regola (dall’autore più volte segnalato e premiato alla blasonata regia di Massimiliano Civica con le

Dalla serie Transiti di Daria Caverzasio Hug. (© Daria Caverzasio Hug 2013-2018)

fascio di luce perentorio quanto capriccioso, poiché cambia forma, intensità, posizione. La serie mantiene tuttavia una felice unità cromatica, costruita su poche tenui tinte che miracolosamente si ripropongono nel bailamme di improvvisazione (e di scossoni e di casualità) che sta dietro ogni fotografia scattata in quelle condizioni. Un neopittorialismo tecnologico, un astrattismo 2.0: dall’insieme dei lavori, emerge altresì una sensibilità che DCH fa risalire dapprima ai suoi studi in Storia dell’arte all’Università di Fi-

renze, e poi alla lunga esperienza quale consulente scientifica al Museo di Villa dei Cedri a Bellinzona. D’accordo, ma partendo senza un progetto preciso in testa e con scarse nozioni tecniche, come ha fatto la fotografa, alla sensibilità bisogna pure aggiungere un certo talento. Altrimenti non si va lontano. Dove e quando

Attraverso. Fotografie di Daria Caverzasio Hug. Galleria ConsArc, Chiasso. Fino al 16 marzo 2019. consarc.ch

A Lugano è andato in scena Belve.

garanzie di un ente produttore come il Teatro Metastasio di Prato) ma che in scena si è rivelato, almeno per noi, ben poca cosa. D’altronde est modus in rebus, come commenterebbero i latini. Se Belve anagraficamente è un testo contemporaneo, cioè fresco di scrittura, è però distante dai presupposti del nuovo, da quei paradigmi di rottura e di stravolgimento che contraddistinguono un certo tipo di teatro d’avanguardia. Ciò è più evidente in spettacoli dove il testo è praticamente assente ma può manifestarsi anche in copioni dal taglio tradizionale. Pensiamo solo a Beckett, Ionesco o a un tale di nome Achille Campanile come per un primissimo Totò nel film Animali pazzi (1939), nelle sue Tragedie in due battute (1925) ma anche per Che cosa è questo amore (1927) in cui prevale sempre (e per tutti) il gusto per un funambolico gioco di battute, di dialoghi surreali, di spiazzamenti di senso. Belve in parte si nutre di tutto ciò come di vaudeville senza sconfessarne i maestri, ma alludendo in filigrana a una tradizione che arriva da lontano. E che non ha nulla a che spartire con la Nuova Drammaturgia. Lo spettacolo di Civica inizia con un tavolo imbandito per quattro al centro della scena. Una cena a base di cozze che sfocia nel delirio di personaggi caricaturali e grotteschi attorno a due coppie diverse fra loro ma in un certo senso simili, poi addirittura imparentate. L’allegoria del potere e del danaro muove la farsa lungo un percorso alla ricerca della risata con un macchiettismo spesso forzato, dove un mancato avvelenamento genera un simil-zombie in odor di vendetta e un progetto di arricchimento facile fa sognare con tanto di fuga in Brasile… insomma ingredienti per un minestrone. Ma la zuppa risulta insipida e stantìa… e la cena una cozza. Nonostante gli attori: Alberto Astorri, Salvatore Caruso, Alessandra De Santis, Monica Demuru, Vincenzo Nemolato, Aldo Ottobrino. «Lasciati andare al nuovo!», esorterebbe Carmelo. Senza dubbio, siamo fra i primi. Ma evitiamo accostamenti fuorvianti. Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli

La requisitoria di Marianna de Leyva In scena La monaca di Monza di Giovanni Testori, regia di Valter Malosti

Giovanni Fattorini Pubblicata nel 1967 e rappresentata in quello stesso anno dalla Compagnia Brignone-Fortunato-Fantoni diretta da Luchino Visconti, La monaca di Monza di Giovanni Testori si apre con un monologo che è un campionario delle figure retorico–stilistiche più ricorrenti nel testo. Chi lo pronuncia è suor Virginia Maria, la monaca del titolo (al secolo Marianna de Leyva, 1575-1650), che si rivolge ai fantasmi di quanti ebbero una parte rilevantissima nella sua drammatica vicenda terrena: il padre Martino, che per mantenere indiviso il patrimonio familiare la indusse a prendere i voti nel monastero monzese di Santa Margherita; la madre,

Al centro della pièce l’atto di accusa di un corpo desiderante che si ribella a repressione e negazione Maria Virginia, che la concepì durante un congiungimento carnale più simile a uno stupro che a un amplesso amoroso; il conte Gian Paolo Osio, l’amante, che la rese due volte madre (Testori ricorda soltanto il bambino nato morto) e di cui fu complice nell’assassinio di una conversa che era a conoscenza del loro rapporto e avrebbe voluto condividere l’esuberanza erotica dell’instancabile seduttore; don Paolo Arrigone, il prete lascivo che fece da mezzano; Francesca Imbersaga, la superiora che Marianna ridusse al rango di portiera; Caterina Cassini, la conversa uccisa da Gian Paolo e poi decapitata su istigazione di Marianna.

La rappresentazione integrale della Monaca di Monza richiederebbe dieci attori (ai personaggi sopra elencati ne vanno aggiunti tre: suor Ottavia, suor Benedetta, il Vicario Criminale), un numero imprecisato di figuranti (soldati, sicari, monatti, contadini), e durerebbe tra le cinque e le sei ore. Nel 1967, Visconti operò dei tagli che suscitarono l’ira del drammaturgo. Nel 2004, Elio De Capitani decise di sfrondare il testo in modo da ricavarne una rappresentazione (con Lucilla Morlacchi nel ruolo di Marianna) che durasse non più di due ore. Ancor più breve (un’ora e mezza) è lo spettacolo firmato da Valter Malosti, a cui si deve anche l’adattamento «a tre voci» che modifica profondamente la struttura del dramma. In tutti e tre i casi, a mio parere, la decisione di sfoltire il testo è derivata, fra l’altro, dalle caratteristiche di una prosa così smodatamente farcita di figure retoriche e stilistiche (mi limito a segnalare le iterazioni, le accumulazioni, le varie forme di allocuzione, oltre ai gruppi innumerevoli – perlopiù ternari – di aggettivi, verbi o sostantivi collocati alla fine o nel mezzo delle frasi e dei periodi) da risultare in breve tempo stucchevole alla lettura e presumibilmente anche all’ascolto. L’impressione che di pagina in pagina si fa sempre più netta è di aver a che fare con un’opera in cui prevale la dimensione oratoria. Probabilmente è una tale impressione che ha indotto Valter Malosti a trasformare il dramma testoriano in una sequenza di monologhi pronunciati da tre soli personaggi – Marianna, Gian Paolo, Caterina – che nella semplice ma efficacissima scena di Nicolas Bovey vediamo separatamente rinchiusi in tre cabine contigue (solo in due occasioni Gian Paolo e Marianna le lasciano per incontrarsi) che evoca-

Federica Fracassi nei panni di Marianna. (Noemi Ardesi)

no gli interni del monastero di Santa Margherita; l’angusta e umida cella dove Marianna venne murata e visse reclusa per quattordici anni; il sotterraneo del palazzo dove Gian Paolo, fuggito a Milano dopo la condanna a morte in contumacia, fu dapprima accolto e poi fatto uccidere a bastonate dal conte Taverna, che credeva suo amico. Ogni cabina è anche un esiguo palcoscenico (e la gabbia vitrea di un’aula giudiziaria, e un loculo verticale) la cui quarta parete è una lastra di plexiglass che Gian Paolo e Marianna, a un certo punto, sembrano voler infrangere a mai nude, e lungo la quale scivola il corpo insanguinato di Caterina. L’infran-

gibile lastra comporta l’uso dei microfoni: microfoni ad asta, per sottolineare il carattere oratorio, di volta in volta enfatico o autenticamente commosso dei monologhi. Estremizzata la staticità del dramma attraverso l’eliminazione dei dialoghi, Malosti ha messo in primo piano la parola, liberata per quanto possibile da eccessi retorici e ridondanze, esaltando al contempo – grazie anche alle luci di Nicolas Bovey – la presenza corporea degli attori, inquadrati come in certa ritrattistica seicentesca. La loro gestualità è prevalentemente sobria, ma i capelli improvvisamente disciolti di Marianna (l’intensa Federica Fracassi); la scollatura nell’abito monacale che alla fine lascia scoperta una

mammella; il torso nudo di Gian Paolo (l’energico e aitante Vincenzo Giordano) mentre giace a terra nel sotterraneo di palazzo Taverna; le mani e il volto insanguinati di Caterina (la brava Giulia Mazzarino), ci dicono con forza la verità del corpo: del corpo desiderante, soprattutto, che resiste e si ribella alla sua negazione e repressione: un tema che ricorre in tutto il teatro di Testori, e che qui diventa, per bocca di Marianna, un atto d’accusa contro le autorità terrene e contro un Dio distante, che tace. Dove e quando

Milano, Teatro Franco Parenti, fino al 3 marzo.

Un safari culturale d’alto livello

Festival A Ginevra è di nuovo andato in scena Antigel, festival multidisciplinare che si fa un baffo

delle convenzionalità e invita il pubblico a scoprire mondi nuovi Giorgia e Muriel Del Don Definire il gigantesco festival Antigel come un «safari culturale» fra i differenti comuni che compongono la grande Ginevra (per riprendere le parole dei suoi organizzatori), ci sembra davvero azzeccato. Un safari interattivo però, dove gli spettatori possono scendere dalle loro jeep per osservare da vicino le creature che li attorniano. Osservare, capire, amare e persino (nella migliore delle ipotesi) entrare in simbiosi, ecco lo scopo che si prefissa una delle manifestazioni culturali più accattivanti non solo della Romandia ma dell’intera Svizzera. Al di là dei generi (tanto artistici quanto sessuali), dell’età o della provenienza geografica, gli abitanti (spettatori ma anche interpreti) della giungla antigeliana si raggruppano durante tre settimane sul territorio ginevrino per creare una coreografia effimera e sfaccettata, fatta di musica,

danza, arte culinaria e tessile. Antigel ha fatto della libertà il suo credo; la kermesse non circoscrive gli spettacoli a un solo luogo, limitandosi a uno stile o cedendo all’omogeneità di una programmazione concepita a tavolino. Al contrario il festival sul Lemano erige delle frontiere talmente permeabili da trasformarsi in puro concetto: audace e sempre rivolto al futuro. In effetti, a differenza di altre manifestazioni che ogni anno cercano di proporre una programmazione minuziosamente calibrata e sorretta da un tema federatore, Antigel si pone come esploratore: di nuovi territori da conquistare in nome della cultura, di nuovi slanci vitali da infondere a una regione intera, e soprattutto di nuove dinamiche fra centro e periferie che spingano il pubblico ad avventurarsi lontano dalla propria comfort zone. Emblematici in questo senso i concerti nella piscina del Lignon, seduti tra i banchi della chiesa di

Un momento di Fúria, della Compagnia brasiliana di Lia Rodrigues. (Sammi Landweer)

Bernex, o ancora gli spettacoli di danza nella sala del Lignon attorniata dalle sue imponenti torri abitative. Lontano dall’elitismo che contraddistingue buona parte delle manifestazioni artistico-culturali svizzere, il festival romando assomiglia più a un comodo divano sul quale sdraiarsi avvolti in uno scintillante vestito di paillettes. Che gli spettatori portino una taglia XS o una XXXL, Antigel avrà di sicuro un vestito adatto per loro, affinché si sentano a proprio agio e partecipino al meraviglioso safari invernale. «Osate, siate selvaggi, esplorate e non dimenticatevi di rimanere pop», questa è la formula magica utilizzata senza moderazione da Antigel. Sempre più convinto del potere della cultura (e di conseguenza delle differenti organizzazioni culturali) in quanto vettore di cambiamento sociale, il festival ginevrino punta anche quest’anno sul suo progetto Antidote, sviluppato in partenariato con differenti attori sociali del cantone: l’Hospice général, Scène Active, l’Association pour la Promotion des Droits humains, FLAG 21, la Croix-Rouge Genève e Filinea. L’edizione 2019 propone un progetto di atelier interculturali e intergenerazionali di sartoria. Si tratta di momenti privilegiati d’incontro fra persone in situazioni molto diverse; richiedenti l’asilo, sarti professionisti, senior iper motivati e giovani alla ricerca della propria identità hanno dato vita a variopinte borse in tessuto wax i cui ricavati andranno all’associazione elisaasile. Preziose occasioni di apertura, di

condivisione delle proprie paure ma soprattutto di riscoperta delle risorse. La cultura approcciata non solo in quanto caleidoscopio attraverso il quale osservare la realtà, ma anche come strumento universale e democraticamente accessibile grazie al quale ricollocarsi in un tessuto sociale troppo spesso ostile. Le compagnie di danza Dear Ribane – che ha incendiato il Théâtre de l’Usine – e Lia Rodrigues Companhia de Dança, art et société – che ha invaso la Salle du Lignon – hanno incarnato alla perfezione questo spirito rivoluzionario e sociale. La prima, sorta di amalgama familiare (il gruppo è formato dalla performer Manthe Ribane, oltre a sua sorella e suo fratello) e pluridisciplinare fra moda, musica e performance, ci presenta una personale e attuale versione della «pantsula», danza per la libertà d’origine sudafricana in cui si afferma la propria cultura attraverso un linguaggio indecifrabile per la polizia. Il tutto arricchito da costumi fluorescenti un po’ hipster. La seconda invece, attiva nella gigantesca favela Maré di Rio de Janeiro, si presenta per la prima volta a Ginevra regalando ai suoi spettatori Fúria che, come indica il titolo, è un’esplosione catartica che interroga l’alterità nelle sue forme: sessuale, sociale, linguistica, razziale. Le creazioni di Lia Rodrigues, sempre profondamente ancorate al tessuto sociale che le ha viste nascere, sublimano la violenza e la povertà trasformandole in grida di ribellione. Assolutamente rivoluzionarie anche le lunghe notti del Grand Central, per l’ultima volta nell’imponente

Tour CFF (Pont rouge), che danno il via a un grido queer capace di sfidare le barriere di genere creando un’onda di choc che si ripercuote per tutto il festival. A innescare questo terremoto la coppia composta da DJ Lakuti, fondatrice del label Uzuri e co-programmatrice delle «Friday Nights» del Panorama Bar di Berlino e sua moglie Tama Sumo, resident del mitico Panorama e militante queer. In sintonia con questa sensibilità permeabile ai generi socialmente imposti, il magnifico MDLSX degli italiani Motus interpretato dalla magnetica Silvia Calderoni (v. «Azione» 11 giugno 2018, Ndr). MDLSX, intenso monologo sulle frontiere di genere e le norme sociali fra biografia e citazioni letterarie, apre il dibattito sulla permeabilità di un’identità non sempre disposta a essere imbrigliata. Come sempre anticonvenzionali anche i mitici Low (band slowcore del Minnesota), che hanno illuminato la sontuosa sala dell’Alhambra. Outsider rispetto al testosteronico universo rock, i Low da più di venticinque anni sfidano le convenzioni. Coppia nella vita e in scena, i leader del gruppo non hanno mai nascosto la loro fede nel mormonismo che si insinua nei testi delle canzoni tingendole di un’affascinante spiritualità decisamente atipica rispetto al classico universo rock. Le creazioni sonore, fra avanguardismo e messianismo, trasportano lontano, fino ai confini del mondo. Un viaggio immaginario, quasi spaziale che ci dimostra ancora una volta quanto i confini di Antigel siano impossibili da raggiungere.


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Cultura e Spettacoli Rubriche

In fin della fiera di Bruno Gambarotta Schedare e archiviare, per non morire mai Nonno litografo, padre e zio compositori a mano, io fino ai 25 anni fotolitografo e impressore offset, credevo di sapere tutto sul mondo del libro, dopo aver coltivato a lungo la fantasia di diventare editore ed essere tuttora collezionista di cataloghi storici di case editrici. Per arrivare a scoprire che fino all’altro giorno ignoravo il significato della parola «Bibliologia». Ora credo di saperlo, dopo aver assistito alla conferenza di Andrea De Pasquale, direttore della biblioteca nazionale di Roma, sul tema «Le origini della bibliologia tra Torino e Parma». Svelo l’arcano: la bibliologia è lo studio del libro come oggetto nella sua materialità, al di là dei suoi contenuti. Considera il libro come mero supporto per analizzare le informazioni che si sono stratificate su ogni singola copia, compresi i segni lasciati da coloro che l’hanno preso in mano prima di noi. È un’esperienza comune a tutti: chiedere in una biblioteca pubblica un libro da consultare sul posto o da leggere a casa

e scoprire che chi l’ha avuto in mano prima di noi ha fatto delle sottolineature o, peggio, ha scritto dei commenti sui margini bianchi. Fino a ieri mi montava una rabbia cieca, ora non più, da quando pratico la bibliologia sono felice di trovare un libro scritto dai lettori che mi hanno preceduto. Da ragazzo abitavo con la famiglia nella città di Asti e frequentavo la biblioteca Vittorio Alfieri. È facile da trovare, si trova nel palazzo Alfieri, in cima al corso Alfieri, subito dopo il liceo Alfieri; partendo da piazza Alfieri, dove c’è il monumento a Vittorio Alfieri, transitate prima davanti al teatro Alfieri e se, lungo la strada, vi viene fame, potete entrare in un bar e gustare una delizia, l’Alfierino, un minuscolo panettone. Aggiungo un ultimo particolare e mi scuso con il lettore che ci è arrivato per suo conto: Vittorio Alfieri è nato ad Asti. Bene, un giorno ho chiesto in lettura un volume delle opere di Shakespeare e mi sono visto consegnare un libro con i margini

annotati dal grande trageda. In qual caso vale la pena fare della bibliologia, ma succede molto raramente. Ma c’è di più: la nostra disciplina si occupa anche di tutti i materiali a stampa, effimeri nella loro natura di testimonianze di eventi singoli. Un consolante vento di utopia soffia su queste definizioni. Tenere tutto, schedare tutto. L’Archivio Storico della Città di Torino custodisce la «Collezione Silvio Simeon», così chiamata dal nome di colui che, dopo averla acquistata dal bibliofilo Vincenzo Armando, aveva continuato ad arricchirla. Consiste in 20’000 pezzi relativi alla storia della città di Torino, divisi in undici serie che comprendono incunaboli, libri, opuscoli, fogli sciolti, disegni, caricature, editti, almanacchi, guide della città, giornali, periodici, libretti d’opera, manoscritti. È un tesoro sterminato per chi volesse descrivere la vita quotidiana di un tempo: orazioni funebri, composizioni poetiche in occasioni di matrimoni, menù di pranzi uffi-

ciali, inviti a nozze, prediche, necrologi, avvisi comunali, bandi, regolamenti del commercio, verbali di contravvenzioni, programmi teatrali, cataloghi di mostre. Ci sono voluti dieci anni di lavoro degli archivisti guidati dalla direttrice Rosanna Roccia per redigere l’inventario e pubblicare il catalogo. Su ogni singolo pezzo erano anche segnati la data di acquisto, il prezzo pagato, il nome del venditore o del donatore e questi ultimi dati non sono stati riportati sul catalogo, così come non sono descritti i supporti sui quali sono stati redatti. Era necessario? Forse no. Fino a che punto bisogna arrivare nella catalogazione? Un altro caso: la Cineteca di Bologna lavora alla digitalizzazione dei supporti cartacei dei film di Charlie Chaplin e già diversi anni or sono aveva completato quella relativa al film Luci della città, per un totale di 50’000 fogli. Domande: uno studioso che voglia scrivere un saggio su quel singolo film dove lo trova il tempo di consultare quelle 50’000

pagine? E poi, per sviscerare il valore di quel film serve leggere gli appunti del trucco, l’elenco dei costumi, gli ordini del giorno della produzione, il foglio paga della troupe? Tornando all’ambito dei libri, da cui siamo partiti, ci deve essere una via mediana fra tenere tutto e buttare tutto. Ogni aspetto del reale è carico di significato e si presta a una lettura, la nostra personale biblioteca racconta molto di noi, non solo dai titoli dei libri ma dalla loro disposizione negli scaffali, dalla presenza e dall’assenza di certe opere. Gli sceneggiatori del cinema e della televisione, trattandosi di definire un personaggio, si soffermano sul suo aspetto esteriore, sull’abbigliamento, sull’arredo della sua casa, mai ho trovato su un copione l’indicazione di titoli di libri da mettergli in mano o sulla scrivania. Mandiamoli a scuola di bibliologia. A proposito, cosa ne faccio degli appunti che ho preso per scrivere questa puntata? In attesa di una risposta li schedo e li archivio, non si sa mai.

nonna, sua madre, imitò la sorella che chiedeva di controllare se davvero fosse morta, per non trovarla un dì con le mani ad artiglio nel tentativo di liberarsi, viva, da una cassa da morto. Quando morì un’altra parente, rideva come un matto perché ai becchini scappò di mano il feretro, che rotolò per i gradini di ingresso alla chiesa, e una delle sue sorelle esclamò «meno male che era ben imbullonata». Ebbene, dopo qualche anno di pesante malattia, se ne andò anche lui: un sollievo, perché soffriva davvero. Al suo funerale ricordo la sensazione di un’assenza, con chi potevo ridere di parenti e amici? Con chi potevo cadere dal banco, o notare i bulloni della bara? Non potevo non accorgermi dei suoi coetanei che da un lato porgevano condoglianze, dall’altro sembravano dire «e anche stavolta non è toccato a me». È talmente strana questa fine della vita corporale, questo entrare in un altro mondo, che non c’è fede che possa preservare dalla paura.

Anzi, forse proprio la fede è quella che permette di guardarla in faccia, «sora nostra morte corporale». Che sublimità le parole di San Francesco, che fiducia. «Laudato sì, mi’ Signore, per sora nostra morte corporale, da la quale nullo homo vivente po’ scappare». La morte, una sorella? La rivoluzione di ogni pensiero. E poi «guai a quelli ke morrano ne le peccata mortali; beati quelli che trovarà ne le tue santissime voluntati, ka la morte secunda no ‘l farà male». Leggere queste poche righe, in un italiano arcaico, tanto mi ha rincuorato di fronte alle morti che non sono mai giuste, mai eque. Non per questo siamo nati, non per finire. Però questo passaggio dobbiamo sopportare. Ora, forse sembrerà esagerato, ma il primo film che ho visto a un cinema che non fosse il Fiammetta, cinema dell’oratorio ormai soppiantato da un archivio di Stato, fu il Settimo Sigillo di Ingmar Bergman. Avevo dieci anni? Forse. I miei genitori mi ingannarono,

vai che c’è un bel cavaliere biondo. Era l’inquietante Max von Sydow (che vive ancora, più che novantenne), rivale di una morte vestita di nero, con cui gioca per tutto il film una partita a scacchi, una partita che troverà tutti perdenti, tranne la famiglia di saltimbanchi che riesce a fuggire dalla catastrofe finale. È brutto trattare di questi temi con i bambini? No, è renderli consapevoli di chi siamo, dove andiamo. I miei studenti non conoscono nemmeno il nome di Bergman, quando cito uno dei suoi film mi guardano come un procione in primavera, o un pinguino nel deserto. Bambini, non è colpa vostra, lo so bene. Però, dopo i dieci anni, cercate di capire l’essenziale, tutto passa, ma non c’è scampo da questa sorella, da questa fine della vita corporale. Credete quel che volete, ma lei arriverà, vi piaccia o no. Mi piaccia o no, e non si creda che solo perché ne parlo io sia immune dalla paura di ciò che, in fondo, è ignoto. Forse bellissimo, ma a noi sconosciuto.

di Salvini torni con lui. Formulata nello stile opportunamente confuso del precedente referendum (quello sul processo), la domanda verrebbe così: «Ha fatto non bene Elisa Isoardi a non restare di fianco a Salvini?». Oppure: «Ha non fatto male la Isoardi a non tornare non con Salvini?». Chiaro, no? Non oscuro, non sì? Ovviamente l’esito è vincolante, anche per garantire l’equilibrio del governo. Già che ci siamo, è giusto che la famigerata piattaforma Rousseau della Casaleggio Associati (la stessa che ha promosso i referendum Salvinigoverno e Salvini-Isoardi) si mobiliti anche su altri versanti. Nuovo esempio: Ultimo, il secondo classificato del Festival di Sanremo, non sarebbe giusto che non venisse ricompensato non vincendo quest’anno il Premio Strega? E Mahmood, il vincitore del Festival, non sarebbe ingiusto che non venisse non penalizzato arrivando secondo al premio Campiello? In sostanza: siete d’accordo che Ultimo vinca lo Strega? E che Mahmood perda il Campiello?

Né Ultimo né Mahmood hanno scritto libri? Possono sempre rimediare da qui alla chiusura dei bandi, che scadranno tra una quindicina di giorni. In fondo Kafka ci ha messo poche settimane a scrivere La metamorfosi. (E chiedere alla piattaforma Rousseau di esprimersi sulla partecipazione di Kafka a Sanremo 2010?). Il 99 per cento dei gatti sardi è favorevole alla manifestazione dei pastori, assicura Lercio. E non si stenta a crederlo, vista la colata bianca rovesciata sulle strade per protesta contro i prezzi del latte ovino ritenuti troppo bassi. «Siamo d’accordo» spiega Attu Munninnu, un bel micione nero a pelo lungo. Andando avanti di questo passo, se Sciascia ha scritto un libro intitolato Il mare colore del vino, prima o poi verrà fuori uno scrittore di Sassari con Il mare colore del latte. In visita a Cagliari, Salvini ha scattato un selfie mentre inzuppava un biscotto nel latte versato dai pastori. Didascalia: «Vorrebbero vederci piangere sul latte versato ma io lo uso per pucciare, un bacione ai rosiconi

che non intingono il biscotto da un po’». Naturalmente si tratta di uno scherzo. Quanto alla legittima difesa, la proposta di Lercio è che si finisca in carcere solo se non si uccide il ladro. Dunque – aggiunta nostra – se lo si colpisce, si può a scelta: 1. concorrere al premio Strega anche senza aver pubblicato un libro; 2. farsi un selfie con Salvini pucciando con lui un biscotto nel latte sversato a Olbia; 3. avere diritto a tre voti nella piattaforma Rousseau; 4. tirare tre sassi da un elicottero contro una nave di una Ong a scelta purché carica di migranti. Domanda su Rousseau: non siete non d’accordo? Non siete sfavorevoli? Nel trionfo della democrazia diretta on line, visto che tutto è sondaggiabile, chiedo ai lettori di questa rubrica se la prossima settimana non gradiscono che non si parli di politica, di cultura, di società, di cucina, di costume, di turismo, di spettacoli o di sport. Fatemi non sapere le vostre non risposte attraverso la piattaforma Rousseau (1), sempre non aperta al non voto.

Postille filosofiche di Maria Bettetini La sorella di tutti noi Un luogo dove ti sentirai a casa. Sarà la pubblicità di un venditore di divani? Di un sito immobiliare? Sarà il claim del simpatico ragazzo che in cerca di un appartamento si trova così bene da farsi la doccia e offrire all’agente un caffè o un «succhino» (molto milanese!)? no, è la pubblicità di un sito di onoranze funebri. Stupisce, perché di fronte alla tragicità del contatto con la morte il sito cerca di tranquillizzare: come a casa tua. Come se fosse domestico il dolore, come se fosse normale incontrare la fine ogni giorno. Non è così, ogni volta è una sorpresa, ma perché deve visitare casa mia questa signora antipatica e prepotente. Perché è l’unica certezza, direbbero quelli che dicono banalità. Perché ognuno la incontra, prima o poi, proseguirebbero. E via così, con i luoghi comuni, che poi spesso è l’unica difesa contro la paura. In Romagna morire si dice «tirare la gambetta», formula misteriosa per me e per i miei fratelli, da piccoli, finché vedemmo un

film che poteva essere L’aereo più pazzo del mondo, in cui uno dei protagonisti moriva tirando, appunto, la gambetta, cioè stendendo una delle gambe. C’è gente che non riesce a essere seria nemmeno nel momento culmine di tutti i momenti. Per loro ho grandissima stima, bisogna davvero possedere un grande senso dell’ironia e del limite per scherzare proprio su tutto. Mio padre era così, ai funerali, soprattutto, mantenendo grande apparente serietà, riusciva a dire e fare cose esilaranti; durante l’ultimo al quale abbiamo partecipato assieme, quello di un suo collega e amico, siamo riusciti ad appoggiarci insieme e inopinatamente al banco della chiesa, precipitando con esso e con gran fragore, cosa sconveniente ma di assoluto divertimento (avevamo l’onore della prima fila, tra l’altro). Quando morì, ancora abbastanza giovane, la nonna, imitò il nonno che gli chiedeva poche ma intense righe sulla vita della moglie. Quando morì l’altra

Voti d’aria di Paolo Di Stefano Il latte non versato su Rousseau «Trovo insopportabile». Così scrive Umberto Galimberti a proposito di una comunità sedicente cristiana la quale tollera senza reagire che uomini e donne vengano utilizzati come mezzi di ricatto nei confronti dell’Europa. Sono gli uomini e le donne abbandonati sulle navi da cui sono stati salvati. Galimberti, che è filosofo e psicanalista, cita Immanuel Kant, quando afferma la prima regola di ogni morale: «Trattare l’uomo sempre come un fine e mai come un mezzo» (6). «Trovo insopportabile», prosegue Galimberti nella sua rubrica di «D Donna», il settimanale della Repubblica, «che si definisca cristiana una comunità che, senza reagire, tollera che si chiuda quel centro modello di Castelnuovo di Porto, vicino a Roma, dove si era attuato con successo un processo di integrazione dei migranti, dove si insegnava l’italiano, si mandavano i bambini a scuola…». Quel che scandalizza di più, aggiunge Galimberti, non è tanto che un governo decida queste cose, ma che la popolazione (cristia-

na) non reagisca, non percepisca la contraddizione bruciante tra il Vangelo di Luca che invita ad accogliere l’ospite sconosciuto e il consenso al possesso delle armi pronte a sparare contro colui che dovesse bussare a mezzanotte (e anche un po’ prima o un po’ dopo). Incoerenza totale e sfacciata dirsi cristiani e prendere a calci nel sedere lo straniero, rifiutarlo, sbeffeggiarlo, discriminarlo. Personalmente ne so qualcosa, ma non voglio fare autobiografia. «Trovo insopportabile» la contraddizione sfrontata, spudorata, utile a far tornare i propri conti sempre e comunque senza il minimo senso di vergogna. Il repertorio recente sarebbe infinito. Il benemerito sito Lercio (sottotitolo Lo sporco che fa notizia) ci ride sopra (5½), ma va da sé che si tratta di «castigare ridendo mores», cioè di satira. Per esempio, dopo la votazione dei 5Stelle sul processo al ministro dell’Interno, suggerisce al popolo dei grillini, paladini della democrazia diretta, di esprimersi sulla necessità che l’ex fidanzata


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