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I figli di internet in una società senza dolore
Famiglia ◆ Intervista alla psicologa Loredana Cirillo coautrice di una guida che aiuta i genitori ad accompagnare gli adolescenti nel loro rapporto con il digitale e le tecnologie
Alessandra Ostini Sutto
«Figli di internet» sono i ragazzi di oggi che si trovano a diventare grandi in un mondo onlife, caratterizzato dall’assenza di una distinzione netta tra reale e virtuale. Una situazione distante da quella vissuta dai loro genitori, per i quali risulta di tanto in tanto utile soffermarsi sulle questioni relative al rapporto tra i propri figli e le nuove tecnologie.
Di queste tematiche abbiamo parlato con Loredana Cirillo, psicologa e psicoterapeuta, socia dell’istituto Minotauro di Milano. Cirillo svolge attività clinica, di prevenzione e formazione relativa al disagio evolutivo ed è autrice di numerose pubblicazioni, tra cui citiamo l’ultima, scritta a quattro mani con Matteo Lancini, che si intitola proprio Figli di internet Come aiutarli a crescere tra narcisismo, sexting, cyberbullismo e ritiro sociale (Erickson, 2022).
Signora Cirillo, come è nata questa «giuda illustrata di auto aiuto»?
Si tratta di un «manuale di istruzioni per l’uso», che parte, almeno parzialmente, dalla richiesta fattaci da genitori ed editori. In realtà il libro è un «contro-prontuario», nel senso che le «regole» sono quelle dell’inquadrare i nuovi adolescenti e il contesto in cui vivono, per poi capire che la questione non si limita ai rischi che corrono in rete e ai pericoli dai quali li dobbiamo proteggere, ma va incentrata sul fatto che dobbiamo aiutarci e aiutare i nostri ragazzi a capire quali sono i drammi che li attraversano. Più che attraverso l’imposizione di limiti e il controllo delle azioni, la strada da percorrere passa per la comprensione e l’identificazione, che promuovono nei ragazzi comportamenti ragionevoli, rispettosi di sé e dell’altro.
Quali sono i principali elementi che contraddistinguono i «figli di internet» rispetto ai ragazzi della precedente generazione?
Sono precoci, precocizzati e accelerati da uno sguardo adulto collettivo; con ciò non voglio colpevolizzare genitori, insegnanti o altre categorie di persone, ma riferirmi a un processo che concerne tutti nell’ambito del quale consegniamo ai ragazzi il mondo, chiedendo loro di essere autonomi e indipendenti, oltre misura.
Sono cambiate le aspettative nei confronti dei nostri ragazzi?
Se prima dai ragazzi i genitori si aspettavano che diventassero dei buoni cittadini, normati e obbedienti, oggi gli si chiede di esprimere sé stessi ma di farlo «a modo nostro». Una contraddizione dentro la quale loro fanno fatica a trovare la strada. La confusione è aumentata dal fatto che li riempiamo di aspettative ideali di realizzazione di sé, pensiamo a cosa sia giusto per loro e diventiamo registi di ogni loro attività. In questo modo stentano a capire chi sono davvero e che cosa vogliono, con la conseguenza che oltre che confusi, sono fragili e molto relazionali.
Come si sentono questi ragazzi nei confronti dei propri genitori?
Oggi i figli non si fanno più «per dovere» ma per amore e, per via del rapporto forte e intenso che da ciò ne deriva, i ragazzi si fanno molto carico dei genitori. Concretamente, pur di non angosciarli si silenziano, non trasgrediscono, non fanno contestazioni, né politica attiva, scegliendo di farsi del male piuttosto che attaccare altri, i genitori, gli spazi. Hanno trasformato il modo di essere nel mondo e la relazione con i genitori nel nostro complesso sistema che non è più neanche narcisistico come si diceva qualche anno fa.
Cosa intende?
Riprendendo il tema delle aspettative, qualche anno fa si sosteneva che il problema stesse nel fatto che i ragazzi cadevano perché le spinte erano troppo forti e non erano in grado di sostenerle. Oggi non sono sempre le aspettative grandiose quelle con cui devono fare i conti ma piuttosto lo stato di confusione di cui parlavamo dovuto al fatto di dover essere come vogliono i genitori (in una modalità che però non è ben chiara) e, soprattutto, di non dover creare problemi, non soffrire, non appesantire. Gli si chiede di stare bene. Ma nella vita non si può stare sempre bene.
Come motiva questo cambiamento dei genitori? È dovuto al fatto che i genitori di
● fronte a un problema vanno in una forte angoscia che paralizza la possibilità di stare vicini. Questo anche perché pensano di dover offrire una soluzione a ogni problema, mentre in realtà la cosa più difficile è «stare nel problema», ascoltare ed essere disposti a sentire il dolore dell’altro, a riconoscere le fragilità. È come se si fosse persa questa possibilità, con la conseguenza che i ragazzi dentro hanno dei dolori, delle fatiche, delle sofferenze che non riescono a chiarire perché fin dall’infanzia non hanno potuto parlarne. E questo crea problemi durante la crescita, dal momento che i ragazzi non hanno modo di integrare le fragilità, i dolori, gli inciampi nella costruzione di sé.
Abbiamo creato una società senza dolore e i social ne sono una chiara rappresentazione, poiché sono il luogo in cui è presentabile solo la parte migliore di sé; il difetto e la difficoltà non devono esistere.
Quali sono le principali criticità riguardo all’uso della rete da parte dei giovani? Una delle criticità sta nel fatto che viviamo in un mondo iper connesso, dove il confine tra virtuale e reale non è più possibile da delimitare. Abbiamo chiesto ai nostri figli di silenziarsi e rifugiarsi nella rete, gli abbiamo chiesto di lenire le nostre angosce di fronte a separazione e autonomia dandogli in mano un cellulare in età sempre più precoce. Un altro elemento di criticità coincide con la complessità del nuovo sistema organizzativo familiare e sociale, nel quale il dispositivo, nello specifico il cellulare, diventa uno strumento dove convergono le attenzioni dei genitori sul comportamento che i figli assumono in rete, dimenticandosi che questo dipende anche dal loro benessere o malessere. Quali sono le cose che cercano online o come si muovono nelle relazioni virtuali parla di loro. Quindi, quando arriva l’adolescenza bisogna impegnarsi a mantenere un canale aperto; chiedere «come va la vita online?» piuttosto che rincorrere il tema dei divieti e delle limitazioni, con il quale i genitori cercano di semplificare una questione che in realtà è complessa.
Ce la illustri…
Tutti da adulti riteniamo che il virtuale sia una risorsa fondamentale per lavorare e stare nelle relazioni. In questa realtà, proteggere i figli dai pericoli della rete è possibile fino a un certo punto. Possiamo applicare filtri e controlli e ritardare il più possibile l’accesso, ma prima o poi la questione ci tocca. E a quel punto è come se dovessimo rieducarci ad annettere nel bilancio di crescita dei nostri figli la vita online. Cosa guardano, perché lo guardano e soprattutto chiedere loro come stanno piuttosto che litigare sui pericoli e sui malefici della rete. Se vediamo che il ragazzo è troppo rifugiato in internet non dobbiamo prendercela con il dispositivo ma capire come mai si sta chiudendo in quel mondo e fa fatica a relazionarsi e a impegnarsi nelle cose della vita reale.
Quali altri consigli si sente di dare ai genitori per aiutare i propri figli a crescere nell’era digitale?
Alla classica domanda «com’è andata oggi?» non diamo per scontato che «bene» sia sempre la risposta giusta. Capita, infatti, che sia andato male qualcosa e i ragazzi non lo dicano, né a sé stessi né a noi. Se c’è qualcosa, lo dobbiamo scovare, dobbiamo aiutarli a farci sentire abbastanza forti per poterlo tollerare. Non dobbiamo aver paura di affrontare i temi della sofferenza, anche della morte, come pensiero che può invadere la mente e a volte anche apparire come una drammatica soluzione all’esistenza. Non dobbiamo banalizzare i segnali di disagio o tristezza, magari per paura che soffermandoci su quelli li fomentiamo. Sono purtroppo tanti i ragazzi che portano carichi di sofferenza troppo pesanti per le loro spalle e hanno bisogno non che l’adulto glieli tolga – perché piccoli o grandi inciampi fanno parte della vita – ma che li aiuti a sostenerli.
Viale dei ciliegi di
Kevin Henkes
Una casa
Castoro (Da 2 anni)
La lettura che l’adulto fa di un libro al bambino piccolo è sempre una lettura dialogica, condivisa. Non è mai una lettura frontale, filata, dalla prima all’ultima parola. Perché ciò che il bambino piccolo incontra e vive nella lettura di un libro è prima di tutto una relazione: io racconto a te che mi ascolti, e tu rispondi, reagisci, con piccole parole, associazioni, riverberi emotivi, o anche solo con un ditino che indica, e mi racconti a tua volta. L’adulto amplia, commenta, fa riferimento all’esperienza del bambino. Domanda, sostiene, incoraggia i suoi interventi. Non giudica, ripete ed espande. Semplicemente è lì, nel momento magico e gratuito del qui e ora, insieme al bambino. La lettura di un libro è un momento di presenza profonda, di incontro e di conversazione. L’albo di Kevin Henkes Una casa, nella sua semplicità, esplicita proprio questa modalità di lettura dialogica, che peraltro viene spontanea a ogni adulto che si pone pienamente in relazione con il bambino durante la lettura: guarda! Quanta neve! Dove sono le pozzanghere? Cosa fa il gattino?
L’autore ci presenta una casa, semplicemente una casa, nei cambiamenti delle ore del giorno, e delle condizioni del tempo: giorno, notte, pioggia, sole, neve. La casa è sempre dentro un riquadro, come una cornice che si staglia con pacatezza sullo sfondo a colori tenui di ogni pagina. Come nei primi libri deve essere, i contorni so- no nitidi, evidenti. Non ci sono troppi elementi ad affollare le immagini, ma solo quelli che servono, quelli su cui la conversazione si porta: «Dov’è la porta? Che colore ha?», «Dove sono le nuvole? Qual è la più piccola?»… E nelle ultime pagine la casa si anima di presenze vitali: persone (grandi e piccine) e animaletti che tornano a casa. Nel calore e nella protezione della loro casa.
Julie Morstad
Che cos’è il tempo?
Terre di Mezzo (Da 4 anni)
Che cos’è il tempo, che grande domanda. Una domanda che impegna i filosofi, sin dall’antichità. Ma se la filosofia nasce, come affermava Platone, dal senso di «meraviglia», sono proprio i bambini i primi filosofi, perché sono loro che più di tutti sanno meravigliarsi per le cose del mondo. È dal loro stupore che nascono le grandi domande, tra cui, appunto, cos’è il tempo? E allora forse l’unico modo per provare a rispondere è farlo con un linguaggio più poetico e simbolico che concettuale: un linguaggio di metafore, che va dritto al senso del concetto. Sempre i greci sottolineavano il valore euristico della metafora: mettere insieme due termini tra loro lontani li illumina entrambi di senso e fa scattare la conoscenza.
«La metafora porta l’oggetto sotto gli occhi», scrive Aristotele nella Retorica. Questo albo scritto e illustrato dall’autrice canadese Julie Morstad parla del tempo principalmente attraverso metafore, a cominciare dal
Letizia Bolzani
titolo, che nell’originale non è una domanda ma un’affermazione metaforica, appunto: Time is a flower. Ma il tempo non è solo un fiore, può essere anche un albero, che cresce come cresci tu, o una ragnatela intessuta con delicatezza, una farfalla che prima era un bruco, il tempo è un ricordo, è il pane che lievita, sono i tuoi capelli che crescono, il tuo dentino che dondola. E tante altre cose, tutte legate all’esperienza dei più piccini. Nella natura, nel proprio corpo, nelle proprie emozioni. E quando le domande si fanno troppo vertiginose (il tempo è una linea? O forse un cerchio?), che bello mettere un limite e tornare alla saggezza pratica e confortante delle piccole cose quotidiane, che sono quelle che in fondo più contano: «Non lo so, ma ora… è pronta la cena!». Perfetta la chiusura sulle mani di un adulto che porgono alla bimba un piatto fumante: oltre al nutrimento spirituale c’è il nutrimento letterale, il cibo preparato, prima forma di accudimento e di amore.