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In fin della fiera Andiamo oltre le apparenze, informiamoci
In Una cosa divertente che non farò mai più David Foster Wallace racconta di una signora che al secondo giorno di navigazione domanda: «L’equipaggio dorme a bordo?». Ha ragione di stupirsi, il piacere della crociera non deve essere guastato dalla vista dei marittimi che sgobbano notte e giorno per noi. In una lontana estate mi sono imbarcato su un piroscafo della Costa Crociere per fare l’animatore in cambio dell’ospitalità per me, mia moglie e la figlia più piccola. In trenta giorni di navigazione non abbiamo mai scoperto chi avesse provveduto a riordinare la nostra cabina. Sulla confezione del prezioso foie gras non ci sarà l’immagine dell’oca imboccata a forza per farle scoppiare il fegato. Il maître che ci consiglia l’aragosta non ci dirà che è stata appena infilata ancora viva nell’acqua bollente. Nel villaggio vacanze in riva all’oceano sconsigliano di oltrepassare il recinto, potremmo scoprire una realtà disturbante, una baraccopoli, un regime dispotico e corrotto. «Tanto non possiamo farci niente». Non è vero, nel nostro piccolo possiamo sempre farci qualcosa. Almeno provare. Sono ottimista, constato che il desiderio di saperne di più sulle diseguaglianze e sullo sfruttamento della mano d’opera è in crescita, grazie alle nuove generazioni e soprattutto alle donne. Non si rassegnano, fanno domande.
È quasi sera, mia moglie sta allestendo lo strudel, all’ultimo momento scopre che le manca il burro, mi spedisce a prenderlo nella latteria sotto casa: «Prima però informati». Roberta sta tirando giù la serranda, siamo amici, riapre per darmi un etto di burro. Cosa dovrei fare? Chiederle il curriculum del contadino che ha munto il latte? Come si chiama la mucca? Indagare se il burro è stato confezionato secondo i parametri corretti? Torno a casa e m’invento tutto, prometto che è l’ultima volta. Nello sforzo di sembrare credibile
Un mondo storto
esagero, lei si commuove. Nel settore degli alimenti il patto fra produttori e consumatori alla fine è basato sulla fiducia. Non sono in grado di intervistare la gallina che ha fatto l’uovo che sto per mangiare per sapere se è stata allevata a terra come afferma il venditore oppure al piano rialzato. Però posso tenere le antenne sempre in funzione. In prossimità dello scorso Natale una rivista di gastronomia titolava un servizio: «Il Rinascimento del cappone». Davvero quei galli hanno pensato a Leonardo o a Michelangelo quando la massaia rurale si è avvicinata a loro impugnando le forbici per privarli degli attributi? I pubblicitari sono i primi ad avvertire i cambiamenti dell’umore e della sensibilità dei consumatori. Lo dimostra la diffusa pennellata green sugli slogan.
Un altro indice positivo è l’interesse crescente per le condizioni di lavoro nella nostra società. È scientificamente provato: se un’azienda è sol-
Le cose devono avere un termine
Che cosa non approvo di questo universo in cui sono capitato? Tante cose non mi vanno giù, ad esempio le distanze interplanetarie, esagerate. Però una cosa che trovo giustissima è che si muoia, non solo noi, ma che tutto abbia una data di scadenza. Il sole ad esempio fra 5 miliardi di anni si estinguerà, senza speranza di risorgere. Ed è giusto così. Noi umani altrettanto; se va bene duriamo quasi un secolo, poi come qualunque motore diventiamo talmente usurati che non passiamo la revisione e finiamo tra i ferrivecchi da demolire. Ho sentito gente che si lamenta; ma anche una scatoletta di tonno sott’olio ha una scadenza, e nessuno pensa ci sia per il tonno una vita eterna o un aldilà in cui le scatolette cantano in coro le lodi della ditta che le ha prodotte.
Le cose devono avere un termine, lo dice il secondo principio della ter-
Xenia
modinamica, di cui sono soddisfatto, un mondo immobile e infrangibile sarebbe spaventoso, sarebbe un museo vetrificato, inutile. È inutile anche questo universo, ma almeno dà spettacolo, sia sulla grande scala del cosmo, sia su questa infinitesima Terra, dove anche noi umani abbiamo una scadenza, se non l’avessimo, saremmo più di 100 miliardi. I nuclei famigliari sarebbero formati da migliaia di persone, raccolte intorno ai primi avi, risalenti al 50 mila a.C., quando sono comparsi dall’Africa in forma di sapiens ; e ogni membro manterrebbe le abitudini della sua epoca, incompatibili l’uno con l’altro, cacciatori di mammuth senza più mammuth, terramaricoli abituati alle palafitte, antichi romani parlanti latino, e poi giù giù guerrieri crociati, mercanti rinascimentali, illuministi filosofi, carbonari ottocenteschi superati ma ostinati nell’unificare la patria che però è già unita, anarchici in cerca di un re da fare esplodere, e poi nazisti e comunisti impenitenti ecc. Come si vede, difficile in questa famiglia allargatissima andare d’accordo, si litiga anche quando si è in due, si immagini in diverse migliaia. Non oso pensare che atmosfera irrespirabile: sgarbi, male parole, obbligati a stare accanto e non soffrirsi; e poi le puzze, i fiati stantii, l’odore secolare di ascelle, i gabinetti intasati, le conseguenti maledizioni reciproche, le accuse di incontinenza fecale, di uso improprio del gabinetto, vendette con lanci di merda fresca; l’affollamento abitativo fa uscire il peggio dell’umanità. E si immagini la tensione nel tessuto sociale, 100 miliardi di persone appiccicate come fossero in scatola, peggio del tonno a lunga conservazione; i partiti politici quanti sarebbero? Beh, decine e decine di miglia-
di Bruno Gambarotta
lecita nel provvedere al welfare per i suoi dipendenti, un’aura virtuosa si trasmette ai suoi prodotti: sono più belli, durano di più. Il welfare aziendale si sviluppa in varie modalità, divise da una linea sottile. Va bene allestire una biblioteca aziendale, va meno bene se il registro dei libri presi in prestito serve per valutare i dipendenti, in base alla quantità e alla qualità delle loro letture. Da una parte ci sono imprenditori che aprono asili nido nell’azienda per aiutare le madri. Dall’altra i fondatori di un’impresa che usano il welfare per diffondere le loro scelte culturali. In teoria sei libero di dire «no grazie» alla gita aziendale per Lourdes ma è meglio di no.
Nella mia prima esperienza di lavoro in una piccola azienda, ricordo che, se il padrone iniziava dicendo «la nostra è una grande famiglia», finiva con l’annuncio di qualche sacrificio per i dipendenti. Il titolare di uno stabilimento tipografico regala una gita in bus ai dipendenti nelle valli valdesi. Il programma prevede una sosta a una miniera di talco grafite. È stata dismessa da molti anni, è diventata un museo vivente, dove i minatori di una volta, recitano la parte di minatori a beneficio dei visitatori. Messaggio subliminare: i giornali che stampiamo tra poco saranno online, preparatevi a fare altrettanto. Brianza, domenica pomeriggio, nel cortile coperto di uno stabilimento che produce grandi rotoli di plastica si tiene un concerto di musica classica, offerto dal padrone melomane ai dipendenti e ai famigliari. Pianista e flautista suonano da grandi virtuosi, io fra un pezzo e l’altro racconto la vita di Wolfgang Amadeus Mozart. E penso all’allarme degli ambientalisti, la plastica invade i mari, una volta sbriciolata i pesci l’inghiottono scambiandola per il plancton. D’ora in avanti, prima di accingermi a mangiare del pesce, farò partire dal giradischi una musica di Mozart. ia, a incominciare dal partito razzista anti Neanderthal, anacronistico e tuttavia perdurante, fino al partito che nega il femminile e il maschile, perché a seconda dell’umore ci si può svegliare un mattino maschio e un altro femmina, oppure una via di mezzo; esisterebbe anche questo partito purtroppo, insieme a quello dei terrapiattisti, e quello del sole che sarebbe artificiale, una lampada appesa dagli alieni per osservarci, come noi osserviamo gli insetti. E poi il partito di Carlo Magno, il partito che invoca il ritorno di Attila o di Nerone. In 50 mila anni le hanno pensate tutte. La lista dei partiti occuperebbe un volume, le votazioni e lo scrutinio dei voti impossibile. Le religioni non si conterebbero, chi crede ancora in Giove pluvio e nell’Olimpo, chi in un vitello d’oro, chi in Anubi con la testa di sciacallo, e così di seguito, con le relative
di Melania Mazzucco
Weiblinger, spirito libero e l’incontro con Hölderlin
Nel 1827 Waiblinger si insediò a Roma, nell’appartamento di un palazzetto tutto vetri e finestre, con l’intonaco ocra appena sbiadito, a via del Mascherone 62. Esiste ancora. Il Tevere – a quel tempo privo di argini e indomabile – scorreva poco lontano, ma non so se potesse vederlo dalla finestra. Si sentì subito a casa e divenne per tutti «Guglielmo». Frequentava le osterie, le ragazze e il popolino, ma anche artisti come lo scultore danese Thorvaldsen e il poeta von Platen (che lo sostenne economicamente perché, a differenza di quanto aveva immaginato, non riusciva a mantenersi scrivendo novelle o reportage e si era riempito di debiti). A Roma trovò pure l’amore – perché, ironico, scanzonato e divertente, era bello (in un autoritratto a penna e inchiostro si raffigurò col viso coronato da una zazzera di ricci), e maledetto come Byron, al quale del resto si ispirava. Giovane, straniero, squattrinato e spesso al limite dell’indigenza, nonostante la vita allegra e disordinata che conduceva, nonostante l’irrequietezza che lo spingeva al movimento perpetuo (si spinse da Napoli, dove raccolse canti popolari, e Paestum, fino in Sicilia, dove scalò l’Etna), trovò la concentrazione per scrivere odi ed elegie dall’Italia, reportage di viaggio, una favola (La grotta azzurra) e novelle di argomento italiano insolitamente realistiche e attente alla vita quotidiana della gente (erano un genere convenzionale e stucchevole).
Lui si interessava invece alle feste, ai riti popolari, ai canti del Carnevale, a figure originali di indigeni, come l’attrice e improvvisatrice Rosa Taddei. Nel racconto I britanni a Roma inventò la satira del turismo. Ma in Italia Waiblinger trovò anche la malattia. Capitava a molti: per lo più era il colera. Lui invece, a Roma e nelle paludi pontine, contrasse le febbri malariche.
Poteva conviverci. Qualcuno disse che però aveva anche la tisi – morbo inguaribile. Per questo negli ultimi anni scrisse la biografia di Hölderlin – che vale ancora la pena leggere. Perché l’adolescente aveva compreso istintivamente, per affinità ed empatia, il male e il dolore del suo amico e padre spirituale: ma ora poteva raccontarlo – sperimentava la stessa condizione. Anche Hölderlin era stato condannato a una morte precoce. Infatti, se anche morì a 73 anni, ne trascorse ben 37 come un non-vivo: assente a tutto, e soprattutto a sé stesso, spettatore della vita, disperata- mente incapace di sopportare il peso del mondo.
Don Guglielmo morì nella sua casa il 17 gennaio 1830, forse di polmonite e fu sepolto nel cimitero acattolico di Roma, il giardino all’ombra della Piramide Cestia dove riposano gli stranieri, i liberi pensatori, gli spiriti erranti. Nel primo centenario della scomparsa (1930) la città di Roma fece apporre una targa in sua memoria, all’altezza del primo piano del palazzetto. Si legge: «Il poeta Guglielmo Federico Waiblinger / Partitosi dalla nativa Germania / in questa Roma immortale / Trovò la patria dei suoi sogni / «qui solamente felice»
La sua opera fu pubblicata postuma dagli amici: oggi è considerato un brillante giornalista di costume e un tipico poeta romantico, fratello ideale di Keats (lui pure venuto a mori- eresie. Se nessuno morisse sarebbe un disastro, soprattutto sarebbe una macedonia di culti, di credenze, di leggi: poligamia, prostituzione rituale, matriarcato, cannibalismo, schiavismo. L’umanità non è mai stata costante, anche gli usi e costumi sono nati e poi sono morti, per fortuna, se no non ci sarebbe la storia, che è una nostra specialità e porta aria fresca. re giovanissimo a Roma). Un limpido talento, però minore ed epigonale. Ma si spense a 26 anni, quando la maggior parte dei poeti non ha ancora scritto un verso degno. Waiblinger invece ne ha scritti; mi piace ricordare almeno questi: «Metà alla luce della luna, metà nel crepuscolo / Imbrunisce già il campo di macerie / E nell’oscurità ancora cammina / l’ombra di un monaco solitario…»
Quindi in conclusione, meglio che tutto abbia un termine, noi umani compresi, meglio se il termine è brusco, un taglio netto irreversibile, e che la durata eterna sia solo un sogno. Meglio che le cose stiano così come sono, che non venga a meno il secondo principio della termodinamica, e tutto ciò che è ordinato, come gli organismi, le civiltà, finisca, si decomponga e si disgreghi e diventi una pagina bianca, o cenere portata poi via dal vento.
Gugliemo divenne romano per amore della vita, della libertà e della poesia. Roma fu per lui davvero «la patria dei suoi sogni» – ma anche l’assassina. I poeti non chiedono nient’altro che vivere scrivendo. Per questo la paradossale affermazione «qui solamente felice» è profondamente vera: il luogo in cui si viene a diventare sé stessi è il solo che è davvero nostro. (Seconda parte – fine)