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Approdi e derive Ripensare il legame con la natura
La catastrofe umanitaria, l’immane tragedia che ha colpito la Turchia e la Siria ci ha lasciati tutti sgomenti. A distanza di qualche settimana, sentimenti e pensieri resi silenziosi, ammutoliti di fronte a tanta sofferenza e distruzione, cominciano a riaffiorare come un invito a ritrovare parole. Le parole sono la casa in cui abitiamo, il luogo comune in cui ciò che accade prende forma e realtà. Le parole di oggi risuonano come un tentativo di riflettere sul significato della nostra vita esposta a queste tragedie. Pur con la delicatezza e la discrezione necessarie per avvicinarsi a una ferita aperta e a una situazione tuttora drammatica, è proprio la violenza di ciò che è accaduto a suggerire qualche pensiero sul nostro rapporto con la natura, sul nostro sentimento di appartenenza, sul nostro modo di abitarla.
Dare parole alla natura significa pensarla. La natura che cerchiamo di conoscere nei suoi segreti, o quella con
Terre Rare
cui percepiamo il legame, a cui sentiamo di appartenere, è da sempre una natura pensata dall’uomo. Per Aristotele la natura non fa nulla invano e mentre la osserva con occhi da scienziato, ne contempla il fine e la bellezza. È la stessa madre-natura cantata dai poeti latini, a proteggerla da possibili violazioni da parte dell’uomo: un organismo vivente che nel Rinascimento si esprime come intrinseco rapporto tra microcosmo e macrocosmo. Ma la natura è anche quella descritta da Francis Bacon nel Seicento: una natura a cui si deve certamente obbedire per scoprirne i segreti con occhi da scienziato, non tanto però per contemplarla, quanto per poterla dominare. Così la natura diventa una risorsa nelle mani dell’uomo e delle sue tecniche.
L’idea ha attraversato la storia del pensiero anche per parlare di noi, per pensare la natura umana. Dalla schiavitù naturale, alla naturale inferiorità delle donne, teorizzate proprio da Aristotele; dalla natura bellicosa dell’ homo homini lupus di Hobbes, alla naturale socievolezza, che trasforma la guerra di tutti contro tutti in benefica competizione economica; fino alla natura inconscia delle nostre azioni e alla causa naturalistica di sentimenti ed emozioni.
L’idea di natura è stata sempre, nelle sue differenti rappresentazioni, un potente punto di riferimento etico: naturale o contro natura è un criterio decisivo per scegliere le nostre azioni, per giudicarle e soprattutto per legittimarle. La complessità e la polifonia delle rappresentazioni non smettono di interrogarci sul nostro legame con la natura. Oggi nuove visioni, più consapevoli di una comune appartenenza, fanno ben sperare nella capacità di reagire al disastro ecologico di cui siamo in buona parte responsabili. Dall’astronomia alla neurobiologia vegetale, le conoscenze ci parlano di una continuità della natura: ci siamo dentro tutti. Poi però catastrofi come
Il leone spodestato da Instagram
«La televisiun la g’ha na forza da leun», ironizzava Jannacci nel secolo scorso. Osservando il colossale successo riportato dall’ultima edizione del festival di Sanremo in molti si sono stupiti e hanno gridato al miracolo. Finalmente la televisione può tornare a ricoprire un ruolo importante nel consesso dei media da intrattenimento, ecco il modello da seguire… «L’operazione in realtà è stata particolarmente complessa e intelligente: per costruire il palinsesto del programma si è badato a coinvolgere personalità con un larghissimo seguito sui social media, e questo è servito da traino alla trasmissione stessa. Tutto quello che accadeva sul palco, poi ha goduto di un eccezionale rilancio sui canali digitali, e soprattutto su un circuito di canali non istituzionali che fanno di Sanremo una narrazione alternativa ma vincente. Quindi si è tratta- to di uno spettacolo televisivo sì, ma ampiamente supportato fin dall’inizio dai social». Questa lettura, per noi particolarmente illuminante, ce la fornisce Pablo Creti, Responsabile digitale del Dipartimento cultura e società della nostra RSI. L’azienda mediatica ticinese ha già da tempo attivato tra le sue file una sorta di task force con l’obiettivo di convogliare sui prodotti aziendali l’interesse dei giovani utilizzatori odierni. «Si tratta di un lavoro complesso. Le tendenze ci mostrano che le nuove generazioni fruiscono sempre meno o in maniera diversa dei media tradizionali, il nostro compito è quello di segnare la presenza della rete pubblica sulle principali piattaforme social, che oggi influenzano il mercato: Instagram, TikTok e Youtube». I prodotti principali dell’offerta per i giovani sul web
Le parole dei figli
Skippare più che una Parola dei figli ormai è il gesto con cui loro convivono. Dall’inglese to skip, il significato letterale del verbo è saltare. È facile sentirlo usare da chi ama gli inglesismi in contesti come skippare le pubblicità in un video; nello slang giovanile in frasi del tipo «Esci stasera?», «No, frà. Stasera skippo!»; oppure in situazioni come quando l’adolescente ha una montagna di roba da studiare e quindi decide di skippare i capitoli che gli sembrano irrilevanti, dopodiché invece la prof lo martella di brutto proprio sui capitoli che ha skippato; e ancora quando un amico parla ammorbando con un pippone e il teen che lo ascolta a un certo punto sbotta: «Oh skippa un po’ please!». Ma nell’epoca pane, YouTube e TikTok il termine si è trasformato soprattutto in un gesto in grado di condizionare il loro modo di informarsi, pensa- re e alla fine essere: è quello che i nostri figli fanno per saltare i contenuti social che non interessano. Basta fare un giro nei commenti sotto i video di YouTube per trovare il riferimento ai secondi di una o più scene ritenute importanti così che gli altri utenti possano cliccare e saltare direttamente lì; e basta scorrere sulla barra dei video per individuare qual è il momento più visto per guardare solo quello: vista la caduta libera della soglia di attenzione dei giovanissimi utenti, sempre più spinti a uno skip selvaggio, eccoli favoriti e accontentati! E su TikTok è tutto uno scrollo continuo: se un video non interessa è immediato il passaggio a quello successivo, ossia skippo e vado oltre.
Ne Il caffè delle mamme abbiamo raccontato più di una volta come funziona l’algoritmo del social più amato dai giovanissimi: chi lo usa non sceglie i questo violento terremoto ci mettono di fronte a una natura non più addomesticabile dai nostri pensieri né dai nostri racconti. Il devastante movimento delle placche geologiche si sottrae all’idea di una natura da contemplare nella sua bellezza ma, nello stesso tempo, insieme alla vita di tante persone, distrugge anche la nostra pretesa di riuscire a dominarla. La catastrofe è un linguaggio inequivocabile, che inghiotte ogni parola indicando in modo brutale come la natura sappia essere indifferente a ogni nostro modo di percepirla. L’indifferenza è difficile da comprendere perché siamo abituati a considerare le cose o buone o cattive. L’indifferenza ci spiazza, mette in discussione ogni legame. Come la mettiamo allora con il nostro sentimento di appartenenza, con le molteplici rappresentazioni in cui l’abbiamo guardata, dentro e fuori di noi? Dobbiamo riconoscere la sua estraneità al nostro destino di uomini? Dobbiamo per forza accogliere le conclusioni del biologo Jacques Monod, Nobel per la medicina nel 1965, che ebbero grande risonanza negli anni Settanta del secolo scorso, secondo cui l’uomo è solo, in un universo da cui è emerso per caso? sono tre contenitori (con i loro canali) ormai ben rodati. «Abbiamo uno spazio che apre il mattino con una serie di brevi flash informativi, Spam. Poi, tra le varie attività messe in cantiere, si è affermato nel tempo uno spazio dedicato all’umorismo, Barnum. Infine abbiamo Cult+, che propone contenuti informativi culturali con un taglio leggero e moderno». Il lavoro per questa giovane squadra è dunque di intercettare l’interesse delle giovani generazioni, quelle più abituate a nuovi formati, essenzialmente legati all’uso dello smartphone: «Ma non si tratta solo dei giovani. Basta andare una sera al grotto per rendersi conto di come tutte le persone siano collegate costantemente con i social. La piattaforma più utilizzata è sicuramente Instagram, ed è quindi anche quella su cui ci stiamo concentrando noi. TikTok ha un pubblico e un for- mato molto diversi che non possiamo ignorare, naturalmente, ma i dati ci mostrano come il nostro seguito sia più concentrato su Instagram». Nel caso dei nuovi media, Creti ci conferma che la battaglia dell’audience è un problema quotidiano. «Il sistema di conteggio dell’audience è praticamente istantaneo e impietoso. Se un contenuto funziona, lo si vede subito, e curiosamente notiamo delle tendenze del tutto imprevedibili. Ad esempio abbiamo scoperto che seguendo alcuni trend riusciamo a ottenere interazioni altissime. Ma è sempre un terno al lotto con gli algoritmi dei social di cui conosciamo fino a un certo punto i meccanismi, può funzionare o non funzionare. Inoltre si finisce per essere tentati di usare una modalità “acchiappa like” per catturare follower, ma sarebbe limitativo, noioso e non da servizio pubblico. contenuti da vedere, ma gli vengono sottoposti automaticamente con un meccanismo che agevola la visione di contenuti simili a quelli che ha visto. L’abbiamo definita «cassa di risonanza di un messaggio», per cui un contenuto iniziale giusto o sbagliato che sia, tende a richiamarne altri dello stesso tipo, che contribuiranno sempre più ad amplificare una visione univoca e acritica su quell’argomento. Ora a tutto questo aggiungiamoci lo skip: cosa può succedere al cervello dell’adolescente, che ha sempre in mano il cellulare, sottoposto a una serie di video uno dopo l’altro di contenuti simili già filtrati da un algoritmo, di cui lui a sua volta ne prende una pillola?
A me pare che questa indifferenza della natura possa essere letta, al contrario, come un riconoscimento implicito della nostra comune appartenenza. Non ci siamo solo noi nell’universo, dobbiamo condividerlo con la polvere delle stelle e con i movimenti degli abissi. E con tutti gli altri esseri viventi, anche con quel virus che ci ha tanto provati negli ultimi anni, proprio perché anche lui voleva vivere. Pur nel suo manifestarsi più violento, la sua presunta indifferenza non è che il segno, seppur doloroso, del nostro comune stare al mondo; ed è anche un richiamo alle nostre responsabilità nell’abitare un cosmo che non dipende dalla nostra volontà di dominarlo.
Il nostro obiettivo è trovare sempre nuovi stimoli per suscitare interesse». Un settore che sembra avere la capacità di attrarre l’attenzione è quello «locale». «I nostri utenti seguono naturalmente quello che succede nella nostra regione, ma bisogna dire che col passare del tempo e con l’aumento del numero di giovani utenti anche i temi internazionali sono seguiti. Oggi, nell’epoca dei social network, i media di servizio pubblico devono reinterpretare il loro ruolo di traduttori locali di informazioni che vengono da altre parti del mondo. I giovani ormai capiscono l’inglese e sanno come andare a raccogliere informazioni direttamente. Questo rende in qualche modo più difficile il nostro lavoro, perché dobbiamo saper pensare in modo “glocale”, una parola che non mi piace molto ma che rispecchia l’ottica che dobbiamo assumere».
Tutto avviene in pochi minuti, spesso addirittura secondi, che sommati però fanno ore di bombardamento di messaggi veloci e superficiali.
La mia giovane amica Erika Fuser, bravissima social media manager 25enne per un certo periodo in redazione con noi a «Dataroom» del «Corriere della Sera», quando un giorno le ho chiesto come fare arrivare le nostre inchieste ai giovani su Instagram mi ha risposto prendendo in mano il cellulare: «Devi pensare a come scrollano e skippano da un reel all’altro!». Non mi sono fatta esplodere perché ho due figli! Non è un caso che un punto di riferimento dei teen per informarsi sia l’account Instagram Will dove nel sottotitolo è scritto: «Per capire ciò che ci circonda (e fare un figurone a cena)». Video brevi, post con sintesi massima: così deve essere l’informazione per funzionare tra i giovani. Gli psicologi ci dicono che il risultato del business model dei social, basato sulla cattura spinta all’estremo dell’attenzione, porta a una minore capacità di concentrazio- ne. Il giornalista d’inchiesta del «New York Times» Johann Hari nel nuovo libro Stolen Focus fa presente che gli studenti universitari ora si concentrano su un’attività per soli 65 secondi e riflette: «Pensate a qualsiasi cosa abbiate mai raggiunto nella vostra vita: quella cosa di cui siete orgogliosi ha richiesto un’enorme quantità di concentrazione che quando si rompe – e penso che ci siano prove convincenti che si sta rompendo – la tua capacità di raggiungere gli obiettivi si assottiglia e la tua capacità di risolvere i problemi è significativamente diminuita». Ora dare ai social e allo skip la colpa di tutto ciò sarebbe oltre che da boomer anche estremamente riduttivo. Ma certo è che, in un concorso di cause, il ruolo dello skippare continuo è innegabile. Anche se la battaglia contro tutto ciò mi sembra persa in partenza. Purtroppo.