Azione N. 10 del 7 marzo 2022

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Anno LXXXV 7 marzo 2022

Cooperativa Migros Ticino

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura

edizione

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MONDO MIGROS

Pagine 4 – 5 ●

SOCIETÀ

TEMPO LIBERO

ATTUALITÀ

CULTURA

Il virologo Enos Bernasconi spiega la distinzione tra epidemie, pandemie, endemie

Parola alla leventinese Deborah Scanzio, pioniera per il Ticino del Freestyle ai massimi livelli

Reportage da Dnipro, Ucraina, dove si preparano molotov e si formano gruppi cittadini di difesa

Il cinema nel tempo della guerra: intervista alla cineasta e produttrice ucraina Darya Bassel

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By Courtesy of Center for the Study of Art in Rural America, Canton, Ohio

L’America vista da un pittore svizzero

Benedicta Froelich

Improvvisamente siamo tutti europei Peter Schiesser

Giovedì 24 febbraio. Putin ha ordinato l’invasione dell’Ucraina, riportando la guerra in Europa. La sera al LAC a Lugano, al concerto con musiche di Shostakovic e Stravinskij diretto dal polacco Krysztof Urbanski, la moglie di un compositore ticinese si alza in piedi e chiede al pubblico e all’orchestra di osservare due minuti di silenzio in segno di solidarietà con l’Ucraina e contro l’aggressione russa. Applausi, e poi silenzio. Quindi, dagli strumenti dell’orchestra e dal violoncello di Kian Soltani riemerge dalle musiche di Shostakovic l’atmosfera russa dei tempi di Stalin (la percepisco cupa, ossessiva, dolorosa, dirompente, folle), ma anche quella magica quasi fiabesca dell’animo russo. Che si sublima nel finale con un Urbanski che si trasforma, nel suo volteggiare, nell’Uccello di fuoco di Stravinskij. Nel mentre, l’esercito russo vomita la sua potenza distruttrice sull’Ucraina. L’indomani, uscendo dallo studio dentistico, Nirvana mi dice: «ho una grande ansia, ne usciremo?» Penso si riferisca alla pandemia, ma lei dice «no, la guerra in Ucraina: arriverà fin qui?».

La mia risposta è no – ma ne sono certo? Il pomeriggio incontro un collega di lavoro, si parla anche di Ucraina e mi dice che la sera prima le sue tre figlie, bambine, chiedendo che cosa succedesse si sono messe a piangere. La paura della guerra è arrivata nell’animo di noi europei, grandi e piccoli, con la tristezza che le immagini di un’umanità punita nella sua innocenza provoca nei cuori. Un milione di persone hanno già lasciato il paese, innumerevoli mogli e madri sono separate dai mariti e dai figli adulti, a centinaia di migliaia le persone si nascondono nelle stazioni della metropolitana a Kiev e in altri rifugi – chi non piange al pensiero di tanto dolore? Ma assieme alla paura è sopraggiunta anche un’ondata di solidarietà senza precedenti per i fuggiaschi ucraini. Improvvisamente ci consideriamo tutti europei. Ancora una volta, la guerra non la vogliono i popoli, ma chi è soggiogato dalla volontà di potere. Che si regge su una follia insensibile, barbarica. Quella di Hitler, quella di Stalin e di tanti altri, oggi quella di Putin. Come la storia insegna,

alla fine si autodistrugge sempre. Ma al prezzo di indicibili sofferenze per noi comuni mortali. Noi siamo qui, sull’orlo di un buco nero che risucchia pezzi di Europa, del nostro mondo, del nostro vivere, impotenti, addolorati. La guerra torna ad essere un uncino che ci strappa la pace dall’animo. Non lo credevamo possibile. E dopo una pandemia che ci ha debilitati, dobbiamo reggere questo rigurgito di follia umana che sappiamo avrà conseguenze profonde. Ci chiediamo: l’Ucraina è persa, o riuscirà a resistere, ora e in futuro, all’invasione russa? I primi dieci giorni di guerra ci hanno mostrato un esercito russo in difficoltà, non è la macchina bellica organizzata ed efficiente che si è voluto far credere. Mentre l’esercito ucraino resiste oltre le aspettative, logisticamente e mentalmente più preparato degli avversari, spalleggiato da una popolazione che in massa prende le armi, si oppone agli invasori anche solo con la forza delle parole affrontando inerme i carri armati nemici. Gli ucraini mostrano immagini di soldati russi catturati, spaesati, che non sapevano neppure di

venir mandati in guerra. Questa volta Putin potrebbe essersi sbagliato: ha voluto far credere ai russi e ai propri soldati che si trattava di andare a liberare l’Ucraina da una élite nazi-fascista che tiene in ostaggio il proprio popolo, invece i soldati si sono trovati un paese contro – un fatto che non si aspettavano e che incide senz’altro sul morale delle truppe. E ora, non riuscendo ad avanzare come vorrebbe, Putin prende sempre più di mira i civili. Il presidente russo si è sbagliato anche sulla risposta dell’Occidente: questa volta le sanzioni sono tali da colpire in profondità l’economia russa, isolandola sempre più dal contesto mondiale. La condanna della guerra è tale che i russi vengono esclusi anche da manifestazioni sportive e culturali. Ma la situazione è altamente pericolosa: i paesi della Nato forniscono sempre più armi all’Ucraina e si preparano ad armarsi maggiormente in futuro. Putin, messo nell’angolo, minaccia velatamente una guerra nucleare e conta ancora di occupare tutta l’Ucraina. Resta quindi estremamente pericoloso.


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SOCIETÀ ●

Un disagio da prendere sul serio Autolesionismo e disturbi alimentari sono solo alcuni dei sintomi di un’adolescenza che sta attraversando un periodo di grande sofferenza

Il pericolo dei fuoripista e delle escursioni Ciaspolate e discese nella neve fresca determinano il sovraffollamento della montagna, uno dei fattori di più forte rischio per gli incidenti da valanga

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Da pandemia a endemia Medicina

L’evoluzione dell’incontro di virus e batteri con il nostro sistema immunitario

Maria Grazia Buletti

Da sempre la storia dell’uomo è stata caratterizzata dal suo rapportarsi con i virus, percepiti come un «nemico» sconosciuto che fa irruzione nella nostra quotidianità, mettendo in discussione il sapere scientifico di un determinato contesto storico. In certi casi il virus ha fatto perdere le proprie tracce dopo essersi diffuso a macchia d’olio in tutto il mondo, altre volte è invece rimasto in circolazione limitandosi a colpire un ristretto numero di persone. «Virus e batteri sono onnipresenti e le malattie infettive si diffondono persino nell’era della medicina moderna», così su un comunicato dell’Ufficio federale della salute pubblica (Ufsp). Come dire: gli agenti patogeni inducono sempre il sistema immunitario a confrontarsi con epidemie, pandemie, endemie: parole entrate a far parte del nostro quotidiano a causa di Sars-CoV-2, il cui significato deve però essere chiaro. La premessa è del professor Enos Bernasconi (nella foto), vice primario di malattie infettive all’Ospedale Regionale di Lugano: «Non dobbiamo dimenticare che il nostro sistema immunitario necessita di incontrare i virus, e che il nostro organismo ospita normalmente un microbioma batterico e uno virale (viroma umano)». Non tutti i virus sono nocivi per l’uomo: «I tanti microrganismi che convivono con noi rappresentano un importante sostegno per le funzioni del nostro corpo e del nostro sistema immunitario». È diverso quando l’interazione fra un microrganismo, virus o battere, e il nostro corpo conduce a manifestazioni cliniche: qui si parla di malattia infettiva: «Un’infezione può dare sintomi più o meno gravi, o essere totalmente asintomatica, ed è caratterizzata da due aspetti: il comportamento più o meno virulento del microrganismo e la fondamentale risposta del nostro sistema immunitario». Molte malattie sono conseguenza di una risposta eccessiva del nostro sistema immunitario, reazione che può differenziare da una persona all’altra. «Quando si entra in contatto con un virus ci si può ammalare gravemente fino a morire non a causa del virus stesso, bensì per una reazione eccessiva del nostro sistema immunitario che va a danneggiare i nostri organi». Egli porta a esempio le malattie autoimmuni come «disfunzione del sistema immunitario che induce l’organismo ad attaccare e distruggere dei propri tessuti». «Utile ricordare l’aspetto peculiare della gravidanza, situazione fisiologica che richiede un abbassamento delle difese immunitarie della futura madre per non compromettere la crescita dell’embrione o del feto; ecco perché

Il virologo professor Enos Bernasconi, vice primario di malattie infettive all’Ospedale Regionale di Lugano. (Stefano Spinelli)

le donne incinte sono più suscettibili a determinate infezioni come pure al Sars-CoV-2». Il nostro incontro con gli agenti patogeni si può definire come un «gioco delle parti» fra virus (o batteri) e sistema immunitario, «interazione necessaria al rafforzamento di quest’ultimo» di cui vale la pena menzionare l’estrema complessità: «È fra i più complessi del nostro organismo (un po’ come il cervello), e la sua assenza o i suoi difetti importanti sono incompatibili con la vita. La sua azione risiede proprio nel fatto che esso non funzioni in modo uniforme bensì con declinazioni individuali». L’incontro di una specie con un virus può portare a differenti scena-

ri (epidemia, pandemia, endemia) fra i quali quello complesso e globale con cui ci stiamo confrontando da un paio d’anni: la pandemia da Sars-CoV-2. È pure necessario definire il significato di ciascuna manifestazione, a cominciare dall’epidemia il cui concetto potrebbe essere erroneamente associato a una manifestazione di grande diffusione: «L’epidemia designa la manifestazione di una malattia infettiva molto frequente, localizzata e di durata limitata nel tempo». È epidemia anche quando siamo dinanzi all’aumento di casi di una malattia al di sopra di una soglia predefinita in precedenza: «Ad esempio, se negli ospedali il tasso osservato di infezioni dopo in-

terventi con posa di una protesi è normalmente tra 1 e 2 per cento, si parla di epidemia quando si dovesse riscontrare un aumento al di sopra di questa soglia definita accettabile. In effetti, malgrado misure preventive ottimali, il rischio d’infezione dopo un intervento dipende anche da fattori quali età avanzata o diabete mellito che non possono essere modificati. L’allarme è dato dall’aumento dei casi al di sopra del «rumore di fondo» inevitabile e innesca misure atte a combattere l’epidemia riscontrata». Secondo l’Ufsp «influenza, borreliosi di Lyme e meningoencefalite da zecche sono epidemie che si riscontrano stagionalmente in Svizzera, per

le quali sono analizzati i casi, valutati i rischi e allestiti rapporti epidemiologici per elaborare raccomandazioni per le vaccinazioni, strategie di lotta o programmi di prevenzione». Bernasconi porta anche l’esempio dell’RSV («virus stagionale invernale che provoca molti problemi alle vie respiratorie dei bambini più piccoli») il quale quest’anno ha causato «un’epidemia importante, con chiaro aumento dei casi, malgrado la presenza in parallelo della pandemia di Sars-CoV-2». Ciò dimostra la concomitanza di altri virus respiratori: «Grazie alle misure di protezione intraprese si è ridotta la trasmissione di taluni, mentre altri come RSV sono riusciti a manifestarsi». Contrariamente al carattere circoscritto dell’epidemia, «la pandemia designa la propagazione di una determinata malattia infettiva in molti Paesi o Continenti e può minacciare gran parte della popolazione mondiale». Bernasconi spiega che Sars-CoV-2 è nato come epidemia, trasformandosi rapidamente in pandemia: «Inizialmente circoscritto alla Cina, origina da Wuhan e si diffonde a livello mondiale a causa di fattori dovuti alla sua rapida capacità di diffusione e al comportamento umano (spostamenti veloci da una zona all’altra del mondo)». Oggi sentiamo dire che «stiamo andando verso una fase endemica». Bernasconi invita a una ragionevole prudenza, affermando che «i virus diventano endemici quando il loro potenziale patogeno si attenua, si arriva cioè a mutazioni o si forma uno stato di immunità, naturale o vaccinale, in una vasta fascia della popolazione: il virus potrà circolare solo nelle poche persone rimaste ancora suscettibili. «Non è ancora certo che questo virus evolva per diventare endemico: un nuovo coronavirus umano come quelli che circolano con costanza stagionale senza provocare severe infezioni, ma solo un banale raffreddore. Omicron si diffonde rapidamente creando una certa immunità nella popolazione. D’altra parte, non è assolutamente vero che questa variante non sia virulenta e l’esempio è dato dalle polmoniti severe ancora riscontrate in persone a rischio (non vaccinate o immuno-compromesse)». Cauto ottimismo, dunque, perché secondo l’esperto l’assottigliamento della curva dei contagi non è ancora garanzia di fine della pandemia: «È ancora tutto da dimostrare che, dopo la sua diffusione mondiale ai ritmi attuali, giungeremo a una variante ancora meno virulenta di quella attualmente in circolazione». Questo è il motivo per cui egli invita a continuare con il vaccino: «L’alta immunizzazione è la via più sicura per trasformare questa pandemia in endemia».


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Più spazio ai pedoni

Mobilità ◆ La mobilità pedonale rappresenta un grande potenziale, ma va incoraggiata. Vanno migliorate le infrastrutture a favore dei pedoni integrando superfici private con quelle pubbliche Fabio Dozio

Chi va piano, va sano e va lontano. Lasciamo perdere la metafora, basta il significato letterale. Muoversi lentamente fa bene. Soprattutto a piedi, come è naturale per noi umani. Mobilità lenta, in particolare mobilità pedonale. Dal secondo dopoguerra del Novecento, le strade l’hanno fatta da padrone. Nastri d’asfalto costruiti per sostenere lo sviluppo del traffico motorizzato: auto, furgoni, camion, TIR, moto. Il pedone ha finito per essere sopraffatto e negletto. Per fortuna negli ultimi anni c’è stato un cambiamento, o almeno una correzione: chi costruisce strade, chi si occupa di trasporti comincia a considerare anche la mobilità lenta, bici e pedoni. Il Consiglio federale, all’inizio del Duemila, ha incaricato l’USTRA, l’Ufficio federale delle strade nazionali, di elaborare delle Linee guida per la promozione del traffico lento. Come sta il Ticino con la mobilità pedonale? Uno studio del 2020 che mette a confronto sedici città svizzere sulla mobilità pedonale non dà risultati positivi per il Ticino. La città più amica dei pedoni risulta Basilea. Seguita nell’ordine da Berna, Zurigo, Neuchâtel, Ginevra, Losanna, Lucerna e San Gallo. Nella parte bassa della classifica troviamo Bienne, Aarau, Locarno, Bellinzona, Coira e Winterthur. Fanalini di coda, Zugo e Lugano. Nel nostro Cantone, per migliorare la qualità della mobilità pedonale, c’è molto da fare! Lugano aveva fatto discutere, qualche anno fa, anche per il primato del passaggio pedonale più pericoloso d’Europa, quello all’imbocco del parcheggio nord della stazione ferroviaria.

In Ticino per i pedoni c’è molto margine di miglioramento. (Keystone)

ti. «I pedoni – sostiene Mobilità pedonale svizzera – hanno bisogno di spazi pubblici in cui muoversi liberamente in tutta sicurezza e sostare piacevolmente. Se andare a piedi è solo un modo di spostarsi o se invece può rappresentare un’esperienza piacevole, un momento di distensione o addirittura di socialità, dipende dalla progettazione di strade, vie, piazze e parchi». In Germania, fin dagli anni Settanta, le direttive per le strade di città prescrivevano che per creare aree pedonali gradevoli bisogna prevedere che il rapporto tra larghezza del marciapiede, carreggiata e marciapiede opposto deve essere di 3:4:3. Obiettivo difficile da rispettare. «Si costruiscono strade a tre o quattro corsie – afferma Martin Urwyler, responsabile del settore Mobilità lenta dell’USTRA – e ai marciapiedi rimane uno spazio di 2-2,50 metri di larghezza». Troppo poco, evidentemente, ma molto spesso la mancanza di spazio necessario è data dal fatto che accanto ai marciapiedi ci sono superfici private. Per ottenere risultati significativi nella progettazione di spazi pedonali, è assolutamente necessario integrare spazio privato e spazio pubblico. Lo sa bene l’architetto Lorenzo Custer, ticinese d’adozione, esperto da anni nella pianificazione di spazi comunali. Ha progettato, fra l’altro, la piazza di Giubiasco, le zone pedonali nei nuclei di Manno e di Canobbio. «Privato e pubblico – ci dice Custer – devono cooperare. Purtroppo

in Ticino vige sfiducia verso le collaborazioni tra privato e pubblico. La privatizzazione dello spazio pubblico da parte del traffico individuale motorizzato soffoca il dialogo tra i due elementi». Il documento dell’USTRA indica alcuni principi fondamentali per la progettazione degli spazi pubblici destinati ai pedoni. Un punto cruciale è la riduzione della velocità del traffico motorizzato, per limitare i pericoli e garantire maggiore sicurezza a chi cammina. Dove già sono presenti limitazioni di velocità, a 30 o a 50 km orari, è importante adottare provvedimenti edilizi quali il restringimento delle corsie o la realizzazione di corsie multiuso, auto e mobilità lenta, in modo da moderare il traffico e agevolare i pedoni nell’attraversamento della strada. Altrettanto determinante, ai fini della realizzazione di uno spazio pubblico favorevole ai pedoni, è la cura delle facciate, dei pianterreni degli edifici, in modo da garantire una connessione tra le costruzioni e lo spazio pubblico adiacente. «Vetrine oscurate e facciate monotone – afferma lo studio – appaiono inospitali e noiose, mentre i piani terra adibiti a negozi che espongono merce in vetrine decorate aumentano l’attrattiva dei percorsi pedonali». Secondo Mobilità pedonale svizzera le autorità politiche devono intervenire sui proprietari degli edifici: «Mediante disposizioni di legge, quali ad esempio ordinanze sulla locazione dei piani terra adibiti a negozi, è possibile strutturare

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Da uno studio del 2020 le città ticinesi risultano ancora poco amiche dei pedoni: è necessaria una volontà politica più incisiva Per migliorare la vita dei pedoni, soprattutto nelle città, bisogna darsi da fare e, prima di tutto, è necessaria la volontà politica, ingrediente che, dalle nostre parti, scarseggia. Eppure negli ultimi venti anni sono stati pubblicati diversi rapporti e studi sul tema. Il più recente è il documento Mobilità pedonale e spazio pubblico, redatto dall’associazione Mobilità pedonale svizzera, edito dall’USTRA. La pubblicazione illustra alcuni esempi illuminanti di interventi sugli spazi pubblici comunali per migliorare la condizione del pedone, che deve sentirsi sicuro e accolto, possibilmente in spazi pubblici animati e coinvolgen-

l’interazione tra il pubblico e il privato». L’architetto Custer sintetizza: «Non esiste spazio pubblico senza spazio privato e non esiste spazio privato senza spazio pubblico. Il dialogo e la dialettica tra i due elementi creano cultura e attrattività. Per citare un progetto che ho curato, l’eccellenza dell’osteria Cima Piazza a Giubiasco risulta dalla presenza di un albergo a quattro stelle. L’eccellenza dell’albergo è anche frutto dalla presenza della piazza riqualificata». La mano dell’architetto è un requisito forse irrinunciabile per raggiungere risultati soddisfacenti. È necessario partire dai bisogni del pedone, e la riqualificazione degli spazi pubblici richiede spesso la partecipazione della popolazione. Il documento insiste su questi aspetti: «A seconda del contesto spaziale, delle competenze amministrative e della complessità del progetto, diversi settori specializzati e servizi pubblici, nonché attori della società civile sono coinvolti nel processo. Nominare un responsabile di progetto o un “risolutore” in qualità di interlocutore facilita la comunicazione e il flusso di informazioni e può garantire una certa continuità anche in caso di sviluppi imprevisti». Uno spazio pubblico ben riuscito, – sostiene Mobilità pedonale svizzera – si ottiene quando questi spazi riescono a favorire gli incontri: «Facilitano gli scambi e rafforzano la coesione sociale grazie al loro utilizzo collettivo. Così assumono anche un’importanza simbolica».

Il documento «Mobilità pedonale e spazio pubblico» cita fra i progetti svizzeri esemplari il comune di Canobbio, poco sopra il quartiere luganese di Cornaredo. L’ispirazione per intervenire nel Comune restituendo il centro del villaggio alla comunità è venuta al sindaco Roberto Lurati. «Pensavo a questo progetto da molti anni. Credo che gli spazi pubblici siano i pilastri fondamentali di una comunità: consentono di incontrarsi spontaneamente. Lasciare lo spazio pubblico alle auto rende meno facile l’incontro tra le persone e non crea un senso di comunità». Lorenzo Custer ha curato il progetto di Canobbio e raccomanda di «non essere contro le automobili, ma favorevoli ai pedoni». Infatti, le auto possono ancora transitare nel paese, ma a 20 km orari, e i posteggi sono stati spostati ai limiti del nucleo. L’autorità comunale si è mossa a tappe, in modo da convincere man mano la popolazione della bontà del progetto. «Se i politici conoscono bene i loro progetti e sono in grado di spiegarne l’utilità e l’importanza, incontrano raramente resistenza», sostiene Roberto Lurati. Per migliorare la mobilità pedonale e creare aree allettanti per i pedoni, uno dei problemi più delicati rimane la disponibilità dei privati a concedere i loro spazi per un uso pubblico, a favore della comunità. Ottenere la collaborazione dei privati rimane la cosa più difficile, ci dice Lorenzo Custer, «riuscirci è quasi un miracolo».

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MONDO MIGROS

Semplicemente irresistibile!

Novità ◆ La Panna Cotta è un grande classico tra i dolci al cucchiaio. Ora è disponibile alla Migros nella versione a base di solo latte nostrano, prodotta dalla LATI a S. Antonino

Panna Cotta al naturale nostrana 110 g Fr. 1.95

«Fiura Cöcia», così si chiama in dialetto ticinese la nuova delicata specialità entrata a far parte della grande famiglia dei Nostrani del Ticino. La Panna Cotta è un dolce al cucchiaio amato in tutto il mondo, simile al budino, originario della regione piemontese delle Langhe, preparato con una equilibrata combinazione di semplici e naturali ingredienti quali panna zuccherata, latte e gelatina. È ideale per chiudere in bellezza il pranzo o la cena, ma anche in qualsiasi altro momento in cui si desidera concedersi una dolce tentazione. La Panna Cotta può essere servita da sola o abbinata alle più svariate aromatizzazioni secondo il proprio gusto e piacere, come ad esempio frutti di bosco, fragole, castagne, miele, cioccolato, composte, caramello… e chi più ne ha più ne metta.

LATI

Un prodotto 100% ticinese

La Panna Cotta nostrana è prodotta dalla LATI di S. Antonino seguendo una ricetta che esalta al meglio la qualità dei 4 ingredienti essenziali utilizzati: panna e latte intero vacci-

no ticinesi, zucchero e gelatina. Cosa rende questo prodotto così speciale? «Direi senza dubbio la sua genuinità», afferma Renato Facchetti, product manager presso la principale azienda casearia ticinese. «La ricetta semplice e tradizionale è stata sviluppata dal nostro capo casaro Jimmy Molteni e dal suo affiatato team, con la consulenza di un’esperta pasticciera della regione, i quali hanno saputo dare una chiara impronta artigianale a questa dolce tentazione. Le diverse degustazioni organizzate successivamente in fase di sviluppo hanno permesso di trovare il giusto equilibrio tra gusto, dolcezza e consistenza». Il latte di qualità utilizzato è prodotto nel rispetto delle direttive che garantiscono la regionalità dei prodotti a marchio «Nostrani del Ticino», e proviene esclusivamente da produttori locali. «Siamo fiduciosi che questo prodotto privo di coloranti e conservanti riscontrerà l’apprezzamento da parte dei consumatori, i quali potranno lasciarsi sedurre da una golosa specialità a km zero», conclude Renato Facchetti.

Un prosciutto sopraffino Attualità

Il prosciutto di San Daniele DOP è uno dei salumi più rappresentativi della tradizione norcina italiana

Azione 30%* * Prosciutto crudo San Daniele DOP Beretta al banco a servizio, per 100 g Fr. 6.30 invece di 9.– dal 8.3 al 14.3.2022

L’azienda italiana Beretta da oltre 200 anni è nota per le sue specialità di salumeria di ogni sorta. Tra le numerose bontà del marchio disponibili sugli scaffali della Migros, segnaliamo ad esempio il prosciutto crudo di San Daniele DOP (Denominazione di Origine Protetta), un prodotto che seduce i palati grazie al suo aroma delicato, dolce e ben distinto. È lavorato seguendo la secolare ricetta tradizionale nello stabilimento dell’azienda a San Daniele del Friuli, in provincia di Udine. La stagionatura deve durare almeno tredici mesi. Le cosce provengono da maiali nati, allevati e macellati unicamente in Italia. Gli animali vengono alimentati in modo naturale e controllato. Il processo produttivo, semplice e

accurato, è effettuato da esperti mastri prosciuttai nella piena osservanza del rigido disciplinare del «Consorzio del Prosciutto di San Daniele», con solo sale marino e senza conservanti o additivi. A conferire alla specialità il suo inconfondibile gusto naturale è anche l’eccezionale microclima delle colline attorno a San Daniele, dove i venti alpini incontrano le brezze marine dell’Adriatico, condizioni che favoriscono una perfetta maturazione del prosciutto. Il modo migliore per gustare il prosciutto di San Daniele è al naturale, tagliato a fette sottili, accompagnato da un buon pane casereccio, oppure accostato a melone e fichi freschi si trasforma in un antipasto tra i più classici.


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MONDO MIGROS

Una mimosa per tutte le donne Attualità ◆ Domani, 8 marzo, si celebra la Giornata internazionale della Donna. Fiore simbolo della ricorrenza è la mimosa, disponibile presso i reparti Florissimo e i Do it + Garden Migros

Elegante, forte, vivace e luminosa come il sole: quale miglior fiore, se non la mimosa, poteva essere scelto come simbolo della Festa della Donna? Per questa importante ricorrenza la tradizione vuole che mamme, mogli, figlie, amiche, colleghe di lavoro… ricevano in omaggio un rigoglioso mazzetto di mimose in segno di rispetto e riconoscenza. Si suppone che questa usanza sia nata in Italia nel 1946, quando le donne italiane acquisirono il diritto di voto e si volle sottolineare l’evento regalando loro un bel fiore. Siccome all’epoca non c’erano molti soldi per comprarli, si optò per un fiore presente in abbondanza in natura e che ai primi di marzo cominciava a fiorire in modo del tutto spontaneo, la mimosa appunto. Le mimose vendute alla Migros arrivano dalla Riviera dei Fiori, in Liguria, dove rappresentano una delle coltivazioni più caratteristiche di questo suggestivo territorio dal clima parti-

colarmente mite. Diffusa già agli inizi del Novecento, proveniente dalla vicina Costa Azzurra, la mimosa ha trovato qui un ambiente ideale che non riscontra altrove per svilupparsi al meglio. Oltre ai mazzi di mimosa, l’assortimento dei reparti Florissimo annovera ancora delle composizioni ad hoc, realizzate con altri tipici fiori primaverili. Infine, segnaliamo che anche i banchi pasticceria dei supermercati Migros celebrano questa ricorrenza, proponendo la torta mimosa: una creazione artigianale a base di pan di Spagna, farcita con finissima crema chantilly alla vaniglia e cocco grattugiato; come pure la tartelletta mimosa, una golosità composta da pasta frolla, crema pasticcera e panna. Delle autentiche delicatezze che conquisteranno tutti al primo assaggio. Mimosa al mazzo Fr. 6.80 Torta mimosa per 6 persone Fr. 22.– Tartelletta mimosa al pz Fr. 3.20 Annuncio pubblicitario

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SOCIETÀ

Capire il malessere degli adolescenti

Intervista ◆ Gli adolescenti sono incompresi a causa dell’incapacità degli adulti di ascoltarli. La pandemia ha esasperato i disturbi alimentari e gli atti di autolesionismo. Serve un cambio di direzione, secondo lo psicoterapeuta Matteo Lancini Stefania Prandi

L’età tradita. Oltre i luoghi comuni sugli adolescenti è il titolo del nuovo libro di Matteo Lancini, psicoterapeuta e docente alle università Milano-Bicocca e Cattolica di Milano. Il testo analizza le responsabilità del mondo adulto nei confronti dei teenager e l’incapacità di capire il loro malessere. La pandemia ha reso l’adolescenza ancora più difficile ed è compito dei grandi capire quali soluzioni mettere in atto. Matteo Lancini, in che modo la pandemia sta condizionando gli adolescenti? La pandemia ha esacerbato espressioni di sofferenza e disagio già presenti. I giovani esprimevano un malessere anche prima, attaccando il proprio corpo con fenomeni autolesionisti come i disturbi dell’alimentazione, il ritiro dalla vita sociale e i tentativi di suicidio, spesso rimossi nelle discussioni familiari e pubbliche. Su quest’ultimo aspetto non abbiamo dati esatti, mancano anche in Svizzera, mentre sarebbero molto importanti. A mio parere gli adulti dovrebbero assumersi la responsabilità della società che hanno creato, troppo individualista e competitiva, smettendo di dare la colpa a cause esterne, prima a Internet e adesso alla pandemia. Penso che dovremmo assolutamente trasformare questa crisi in un’occasione di miglioramento, altrimenti avremo sofferto tutti per niente. Nel suo libro scrive che gli adolescenti di oggi non sono ribelli, come quelli delle generazioni che li hanno preceduti, ma delusi. Qual è il motivo di questo cambiamento? La causa principale è stata il cambio dei modelli educativi familiari. Una volta si cresceva in una famiglia tradizionale, normativa, in cui si doveva ubbidire. L’adulto morigerava, controllava e sottometteva i bambini in nome dei propri valori. In quella cul-

In questo momento delicato le ragazze e i ragazzi hanno bisogno di essere ascoltati. (Keystone)

tura, che sicuramente non possiamo rimpiangere, l’arrivo dell’adolescenza implicava un conflitto forte, un attacco ai grandi, al loro valore simbolico. Negli ultimi anni, invece, la famiglia è diventata più affettiva ed è cambiato anche il contesto. Quando arriva l’adolescenza, lo scontro non è più rivolto alle norme esterne ma contro sé stessi. I bambini di oggi hanno una grande spinta ad avere tanti amici, a fare molte attività e a vestirsi come degli adulti. A crollare, quando si entra nell’adolescenza, sono gli ideali. Non arriva la trasgressione, ma la delusione. Non ci si sente adatti, non si è mai abbastanza belli né popolari: come conseguenza, non si attaccano gli altri, ma il proprio corpo, perché si sono deluse le aspettative dei genitori e della società, basata sull’individualismo sfrenato e su un’idea impossibile di successo. Si sperimenta un sentimento di vergogna che porta a volere scom-

parire. Nemmeno il consumo dei cannabinoidi, hashish e marijuana, è più trasgressivo, ma è un’anti-noia, un antidolorifico. Negli ultimi due anni di pandemia i teenager si sono comportati benissimo all’esterno – adesso c’è qualche segnale di disagio nelle città, con gli attacchi agli arredi urbani e le risse – riversando il disagio contro di sé. Il corpo è diventato il megafono del dolore e della paura di non farcela. Lei spiega che gli adulti dovrebbero capire il «dolore evolutivo» degli adolescenti. Perché non riescono a farlo? Il «dolore evolutivo» è la sofferenza che non dipende esclusivamente da quanto è accaduto in passato, cioè non c’entra con quello che non si è ricevuto nell’infanzia dalla famiglia. La seconda nascita adolescenziale implica la realizzazione di compiti evolutivi nuovi, tra questi mentaliz-

zare un corpo con certe caratteristiche, separarsi dai genitori e andare avanti da soli. «Dolore evolutivo» significa che se non si intravede un futuro, si preferisce scomparire. I ragazzi e le ragazze di oggi sono cresciuti con il disboscamento del pianeta, la plastificazione dei mari, le crisi economiche, l’incertezza di un reddito stabile, in una società nella quale gli unici lavori certi saranno, secondo tutte le ricerche, saper usare Internet e produrre videogiochi. Invece di provare a capire cosa significhi vivere in un mondo del genere, gli adulti fanno ricorso a modelli standardizzati e incolpano i giovani. Secondo lei consideriamo l’infanzia diversamente da quanto facevamo in passato e dovremmo fare lo stesso con l’adolescenza. In che modo? C’è una precocizzazione dell’infan-

zia a cui segue un’infantilizzazione dell’adolescenza. Abbiamo modificato il modo di guardare ai bambini, non li consideriamo più una tabula rasa. Li cresciamo senza farli soffrire e quando entrano nell’adolescenza e non riescono a esprimere i fallimenti e ad affrontare gli ostacoli, gli diciamo che sbagliano, che sono senza nerbo. Proponiamo modelli educativi vecchi: pensiamo di dovere controllare i teenager, di mettere dei limiti, di usare «i no che aiutano a crescere». Ma come possiamo pensare che lo scarto tra un’infanzia iperstimolata e protetta e un’adolescenza incompresa funzioni? Passiamo le giornate attaccati ai cellulari; mentre sono piccoli, li inseguiamo con gli smartphone per fare foto e video, poi all’improvviso, quando hanno tredici anni, gli diciamo che Internet è il male. C’è qualcosa che va rimodulato. Nell’infanzia, dovremmo smetterla di rimuovere il dolore e gli inciampi, pensare che dagli errori si impara. Nell’adolescenza, dovremmo accettare di avere costruito una società problematica, aiutando i ragazzi a viverci dentro, affrontando i temi scomodi che li riguardano, come ad esempio il suicidio. Gli adulti come possono sostenere davvero gli adolescenti? Serve una rivoluzione affettivo-relazionale, occorre identificarsi di più con le fragilità e i bisogni dei ragazzi e delle ragazze. Gli adulti sono troppo concentrati su sé stessi, non si rendono conto del contributo che i teenager vogliono e possono dare. Anche la politica è miope rispetto a questo. Dovremmo fargli sentire che sono importanti per la società, che sono responsabili. Dovremmo dire: guardate cosa abbiamo combinato, che mondo tremendo, dateci una mano a costruire un futuro migliore. È difficile che le altre generazioni facciano peggio di noi.

Viale dei ciliegi Katherine Applegate L’ultima Dairne Il Castoro (Da 11 anni)

«Gli umani sprecano le parole», diceva il gorilla Ivan, dalla sua gabbia in un Centro Commerciale, nel bellissimo romanzo L’unico e insuperabile Ivan, con cui l’autrice americana Katherine Applegate ha vinto la prestigiosa Newbery Medal. Ora, dopo molti altri romanzi e dopo la nota serie «Animorphs», Applegate ci propone una saga fantasy, «Il regno di Nadarra», di cui quello che vi presentiamo è il «Libro Uno». Gli umani sprecano le parole, è vero, e allora anche qui la voce narrante è quella precisa e limpida di un animale; ma gli umani, verrebbe da dire, sprecano molte altre cose oltre alle parole. Sprecano le risorse del loro pianeta, lo impoveriscono di biodiversità, di specie. Fortemente impregnato di etica ecologista, ma senza dimenticare il registro avventuroso ed epico proprio del fantasy, questo romanzo ha come protagonista Byx, una «dairne», ossia una creatura fantastica molto simile a un cane,

di Letizia Bolzani

ma in grado di parlare, di camminare in posizione eretta, e con un dono (o un tormento) speciale: riconoscere quando qualcuno mente. Byx è una «endling», ossia l’ultima della sua specie. Già in ciò risiede un aspetto struggente di questa cagnolina, che decide tuttavia, dopo che la sua famiglia viene sterminata, di mettersi sulle tracce di una leggendaria colonia perduta di dairne, che nessuno ha mai visto. Altre creature la accompagneranno: Tobble, uno «wobbyk», ossia un animaletto che incarna il topos del compagno di viaggio buffo, ingenuo, piccolino e molto in basso nella

catena alimentare, eppure coraggioso e valoroso in modo commovente. Si unirà poi a loro anche Il Giocatore, un «felivet», ossia un grande felino di una specie dominante, potenzialmente molto forte, un personaggio interessante, sarcastico e malinconico. E non mancano, in quest’avventura, gli umani, amichevoli o ambigui, «imprevedibili», come nota Byx, attenta a non fidarsi di loro. Una piccola «Compagnia» di senza famiglia derelitti e forti (com’erano, in Ivan, quella costituita dal gorilla, dall’elefantina Ruby e dal cagnolino Bob), di cui vedremo svilupparsi gli accadimenti nel seguito della saga. Jess Wade-Melissa Castrillón Nano. La spettacolare scienza del molto (molto) piccolo Editoriale Scienza (Da 7 anni)

Dimenticatevi (almeno per lo spazio di questa recensione) i nanetti di Biancaneve. Nano non è solo un personaggio di fiabe e fantasy. Nano, come prefisso, può significare qualcosa di dimensioni microscopiche (anche se l’etimo è comunque quello dei na-

netti: deriva dalla parola greca νάνος, nànos, che significa appunto nano, cioè persona molto piccola). Ma microscopico non vuol dire solo «piccolo»: «significa milioni di volte più piccolo di un granello di sabbia». È indubbio che la scienza del molto piccolo sia spettacolare, come ci conferma il titolo di questo libro di Editoriale Scienza, scritto da una scienziata dell’Imperial College di Londra. Un libro la cui predominanza di illustrazioni e la coinvolgente semplicità del testo lo rendano adatto a lettori anche loro un po’ nanetti, già dai 7 anni. Apri il libro, e sei condot-

to per mano (anche tu adulto) a capire. Nella prima doppia pagina c’è una casa, in sezione, con ben evidenziati tutti i materiali di cui è fatto un appartamento. «Guardati intorno. Tutti gli oggetti nella tua casa sono fatti di qualcosa (…) Gli scienziati li chiamano materiali». I materiali che vediamo in quella casa, che può essere anche la nostra, sono vetro, legno, cotone, carta, plastica, metallo, pietra, cemento… Il mondo, ci racconta il libro, è composto da microscopici mattoncini chiamati atomi: da qui procede la narrazione, che è anche – in linea con il profilo della casa editrice – divulgazione scientifica. Scopriremo il grafene, ottenuto dalla grafite e formato da un solo strato di atomi di carbonio messi a esagono. È affascinante per noi lettori scoprire che il grafene, pur così sottile da essere trasparente, è il materiale più resistente che gli esseri umani conoscano. E scoprire per quanti usi il nanomateriale grafene possa essere impiegato! I nanomateriali sono materiali talmente piccoli da avere lo spessore di un singolo atomo. Piccoli ma capaci di fare cose grandissime. Come i bambini.


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Anno LXXXV 7 marzo 2022

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azione – Cooperativa Migros Ticino

SOCIETÀ

L’insidia invernale che aleggia nelle alpi

Climatologia ◆ Le valanghe hanno terrorizzato per secoli i popoli di montagna, ma oggi sono soprattutto i cittadini a esserne maggiormente coinvolti

Nel sortilegio della montagna innevata si inserisce la fredda, insidiosa e tragicamente suggestiva valanga ricorrente, conosciuta ed eccezionale, minuscola o immane, candida e precipite nuvola distruttrice, con il buono e il cattivo tempo, d’inverno e primavera, improvvisa e imprevedibile o attesa, e spesso provocata, dall’uomo. (Filippo Guido Agostini, in L’enigma delle valanghe, di Colin Fraser 1970). Giovedì 22 gennaio 2015. Tre californiani, che praticano lo sci fuori pista, si apprestano a scendere da oltre 3500 metri lungo un canalone sul versante italiano del Monte Bianco, in valle Ferret. Il giorno precedente era caduta molta neve, pesante a causa della temperatura bruscamente aumentata anche in altitudine. Sono le 11.30 del mattino, il primo sciatore inizia la discesa, e provoca una valanga che lo travolge e lo trascina per centinaia di metri. A recuperarlo, sotto venti centimetri di neve, le squadre di soccorso intervenute nonostante il pericolo di altre valanghe. Morirà dopo qualche ora all’ospedale di Aosta. Troppe valanghe causate dall’uomo titolava «La Stampa» del 17 dicembre 2014, riferendo di una precedente valanga (con un morto) causata dalla contemporanea presenza di una ventina di sciatori fuori pista. Il sovraffollamento della montagna è uno dei fattori di più forte rischio per gli incidenti da valanga. Il 60 per cento di questi eventi, come detto, sono causati dagli sciatori fuori pista (detti freeriders), sci-alpinisti che si avventurano non solo fuori dal tracciato di sicurezza, ma anche fuori stagione e fuori orario. Del tutto recentemente si sono aggiunti anche i ciaspolisti, escursionisti che vanno in montagna con le racchette da neve a volte in allegre e incoscienti brigate. Nel corso di quella stagione, e sempre in Valle d’Aosta, sono cadute 200 valanghe, ma ben 1304 durante

l’inverno precedente, particolarmente nevoso. Negli ultimi decenni, il fenomeno ha assunto aspetti e dimensioni preoccupanti in tutte le Alpi. Le cause sono molteplici e differenziate: 1. la sempre più fitta e periodica presenza dell’uomo che aumenta la probabilità di disgrazie; 2. l’accelerata, e spesso disordinata e imprevidente aggressione (edilizia, viabilistica, idro-elettrica) del bosco e un lento ma determinante mutamento della copertura vegetale dei pascoli, che va a creare il permanere e il consolidamento non del bosco protettore, bensì di superfici coperte da cespugli non più eliminati di anno in anno (come i rododendri, i ginepri, l’ontano verde) giunto quest’ultimo soltanto 3mila anni or sono insieme con l’abete rosso. Cespugli, uniti all’erba non falciata né bruciata, che creano ottime superfici di scivolamento per il manto nevoso. E infine: 3. per i mutamenti climatici in atto: insoliti e improvvisi aumenti di temperatura provocano lo scioglimento degli strati-superiori di neve e le successive diminuzioni termiche che li solidificano (congelandoli). Ulteriori nevicate si depositano su superfici instabili che agevolano lo scivolamento delle valanghe. Essenzialmente, le valanghe sono un meccanismo di eliminazione per gravità della neve dalle quote superiori di una montagna. In sostanza si tratta di una frana di masse di neve e/o di ghiaccio in condizioni di equilibrio instabile lungo un pendio superiore a 30 gradi. La valanga può essere provocata per scivolamento di masse di neve fresca su una superficie di neve vecchia, più o meno consolidata per effetto del proprio peso. Particolarmente in primavera, il parziale disgelo della massa nevosa – dovuto all’aumento termico dell’aria e a un apporto di calore dal basso verso l’alto – provoca una valanga di neve pesante, detta di fondo, con conseguen-

Scientif38

Alessandro Focarile

te trascinamento di vegetali e piccoli animali, dall’alto verso il basso in un ammasso di fanghiglia. Nel Cantone Ticino, la Valle Bedretto è nota da vecchia data per il flagello bianco: posta al confluire delle sorgenti di cinque fiumi (Reuss, Rodano, Toce, Ticino, Maggia; è sede di copiose nevicate. Tra il 1594 e il 1863 caddero nove memorabili valanghe, che causarono 51 vittime compresi due parroci. A testimoniare che, dopo l’optimum termico medievale (900-1400), le condizioni climatiche erano drasticamente cambiate, apportando valanghe, miserie, fame e morti durante la successiva piccola era glaciale prolungatasi fino alla fine del 1880. Anche nel secolo appena trascorso, si ebbero due inverni eccezionali per la caduta di valanghe ad Airolo e in

Valle Bedretto. Quello del 1950 narrato da Giovanni Orelli nel suo libro L’anno della valanga (1963), e quello del 1970-1971. In questo settore delle Alpi ticinesi, il disboscamento (dissodamento) fino in altitudine è stato particolarmente intenso e attuato da qualche millennio, (durante un periodo nel quale non sussisteva pericolo di valanghe) per trasformare le superfici un tempo boscate con il pino cembro e il larice, in pascoli di altitudine, per esempio, all’Alpe Pesciora, a 2100 metri, il toponimo deriva da Peccio (Abete rosso, Picea abies) a significare la passata presenza dell’abete rosso. La valanga – che discende quasi durante ogni anno da questo alpeggio fino nei pressi di Ronco Bedretto a 1500 metri – è una significativa te-

stimonianza di quanto possa produrre l’uomo nei cambiamenti ambientali a proprio danno, se si considerano i lunghi tempi della Natura. L’uomo alpino, nel corso della sua plurimillenaria presenza nelle Alpi, ha conosciuto il caldo, il freddo e le valanghe. Che cosa gli riserverà l’effetto serra nel molto prossimo futuro? Bibliografia Colin Fraser, L’enigma delle valanghe, Zanichelli (Bologna), 1970,236 pp. Giovanni Kappenberger & Jochen Kerkmann, Il tempo in montagna. Manuale di meteorologia alpina, Zanichelli (Bologna) 2004, 254 pp. Charles Pierre Péguy, La neige, Presses Universitaires de France (Paris), 1952, 119 pp.

Stellantis lancia la sua nuova Tonale Motori

La prima vettura della Casa di Arese ad avere in gamma un modello ibrido e un ibrido plug-in

Mario Alberto Cucchi

Una storia che viene da lontano quella della Casa del Biscione. Fondata il 24 giugno del 1910 a Milano come A.L.F.A. (acronimo di Anonima Lombarda Fabbrica Automobili), nel 1918 cambiò nome in Alfa Romeo in seguito all’acquisizione del controllo della società da parte di Nicola Romeo. Ne è passata di acqua sotto i ponti da quando nel 1925 ha vinto il primo campionato del mondo di automobilismo organizzato nella storia, seguito poi nel 1950 e 1951 dalla conquista delle prime due edizioni del Campionato Mondiale di Formula 1. E se negli anni Settanta, al culmine della capacità manifatturiera, la forza lavoro sfiorava i 29mila dipendenti, sicuramente negli anni Duemila più di una persona ha avuto l’incubo che potesse addirittura arrivare a cessare la produzione, dato che la gamma modelli era ridotta davvero al lumicino. E invece oggi ha ripreso a brillare con la nuova stella di Stellantis, che si chiama Tonale. Si tratta della prima Alfa Ro-

meo lanciata dal neonato gruppo italo-francese che comprende i marchi Fiat, Lancia, Alfa Romeo, Peugeot, Citroen, DS, Opel, Dodge, Jeep e Maserati. È anche la prima vettura della Casa di Arese ad avere in gamma un modello ibrido e un ibrido plug-in, quindi ricaricabile alla spina. Un suv compatto – lungo 4,53 metri, largo 1,84 metri e alto 1,6 metri – con cui il costruttore italiano spinge su digitalizzazione ed elettrificazione. Trazione integrale, 275 cavalli di potenza massima e fino a 80 chilometri di autonomia sono il suo biglietto da visita. Tonale testimonia oggi che la Casa del Biscione è ancora in grado di far battere i cuori sportivi degli alfisti. Anche se va detto che ai puristi del marchio sarebbe piaciuto un bel motore a benzina sei cilindri magari da 3000 cc. Niente da fare! Tonale è frutto dei tempi e quindi punta tutto sul green: bassi consumi e alta tecnologia. Senza però rinunciare a tanti cavalli per la versione di punta. Due i livelli di elettrificazione, Hybrid e Plug-in Hybrid. Tutto

nuovo il motore Hybrid VGT (Variable Geometry Turbo) da 160 cavalli. Si tratta di un «piccolo» ma potente propulsore 1,5 benzina con turbo a geometria variabile abbinato alla trasmissione automatica a doppia frizione sette marce Alfa Romeo TCT con motore elettrico «P2» 48 volt da 15 kW e 55 Nm. Capace di trasmettere moto alle ruote anche quando il pro-

pulsore a combustione interna è spento, consente di partire e muoversi in modalità elettrica alle basse velocità, nelle manovre di parcheggio e in fase di veleggiamento. Disponibile al lancio anche una versione Hybrid da 130 cavalli. Il massimo delle prestazioni è appalto del modello Plug-in Hybrid Q4 che, grazie ai quasi 300 cavalli, è in gra-

do di scattare da fermo sino a cento orari in soli 6,2 secondi. Meno interessante invece per il mercato svizzero la versione diesel da 1,6 litri in grado di erogare una potenza massima di 130 cavalli. In esclusiva mondiale, su Tonale debutta la tecnologia NFT (Non-Fungible-Token). Alfa Romeo è il primo costruttore a collegare la vettura a un certificato digitale NFT. Come funziona? La tecnologia si basa sul concetto di blockchain card. Un registro digitale secretato e non modificabile sul quale vengono riportate le principali informazioni della singola vettura. Una sorta di diario digitale in grado di generare una certificazione che potrà essere utilizzata come garanzia sulla reale vita dell’auto. Insomma, in caso di vendita il potenziale acquirente potrà sapere vita, morte e miracoli del mezzo usato che sta andando ad acquistare. L’apertura delle vendite in Svizzera è prevista dal prossimo mese di aprile. Il prezzo non è ancora noto ma si può ipotizzare che sarà intorno ai 40mila franchi.


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SOCIETÀ / RUBRICHE

L’altropologo

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azione – Cooperativa Migros Ticino

di Cesare Poppi

Pontefici massimi ◆

Qual è la natura del potere politico? Su cosa si basa lo jus che intitola alcuni a far fare ad altri ciò che questi non vorrebbero fare? Perché alcuni hanno il diritto di mettere a morte altri o mandarli al fronte? In queste ore drammatiche per un’Europa che ancora una volta rischia – Dio non voglia – di dover combattere l’Ultima Guerra Mondiale la domanda ha senso proprio, e pure nella sua cruda naïveté. L’antropologia classica aveva elaborato il concetto di divinità regale anche e proprio per rispondere a quel tipo domanda: semplice al punto di essere quasi deduttiva. Il potere ha origini e giustificazioni di ordine soprannaturale. Il potere è sovrano poiché di origini divine ergo il Sovrano è divino e divino è il suo volere. La sequenza assiomatica era sostenuta da una varietà di esempi etnografici che testimoniavano la diffusione dell’istituzione del Re Divino presso for-

mazioni sociali le più distanti fra loro nel tempo e nello spazio. Dagli Ali’i Hawaiani agli Inka, dai Monarchi Traci agli imperatori Assiri passando dai Faraoni fino ai sovrani Shilluk e Kuba dell’Africa, si impone il concetto secondo il quale esiste una sostanza particolare che circola all’interno della discendenza regale tale da assimilare il sovrano alla Divinità, della quale è l’incarnazione in terra. La morte del sovrano – pietra d’inciampo sulla quale ci si potrebbe aspettare che caschi l’asino – viene rimediata come necessario momento di passaggio verso l’apoteosi nell’eternità divina. «Il Re è morto, viva il Re!», recita la formula di annuncio della morte dei sovrani britannici. Essa si riferisce tanto al passaggio all’Altra eterna vita del sovrano defunto – che l’Altissimo avrà avuto la gentilezza di salvare obbedendo graziosamente agli ordini – quanto all’inaugurazione di un nuovo Regno da parte del successore.

La stanza del dialogo

In altre parole: la sostanza della quale è fatta la sovranità non muore mai. La letteratura antropologica riporta una varietà di escamotages per mantenere e rafforzare la fiction della divinità regale. I Kuba Bushoong del Kasai (Kongo) ricorrono ad una complicatissima messinscena rituale che ripercorre ad ogni successione le tappe del mito di fondazione della dinastia reale dimodoché ogni sovrano si manifesta come una sorte di clone del mitico Fondatore. Gli Shilluk – come tanti altri in giro per il mondo – vanno meno per il sottile e mettono deliberatamente a morte un sovrano non più in grado di svolgere le funzioni di anima motrice del proprio popolo: faut de mieux una morte «artificiale» è il modo per perpetuare la fiction dell’immortalità del sovrano – e poi via via con la mummificazione, la ricostruzione del corpo del sovrano con materiali artificiali e chi più ne ha più ne inventi. Il 6 marzo del 12 a.C. Cesare Otta-

viano Augusto, già eletto Imperatore da un senato paralizzato, esausto e imbelle, fu insignito del titolo di Pontefice Massimo. L’istituzione è di probabile origine etrusca e pare fosse stata adottata e adattata al severo e sobrio ordinamento romano dal grande Numa Pompilio (753-673 AC), istitutore e riformatore del palinsesto della religiosità romana. Il titolo di Pontifex, «colui che fa da ponte fra gli dei e l’umanità» conferito a chi già era stato insignito del titolo di Imperator inaugura, malgrado chi rivendicasse le diremmo oggi «laiche» sobrie virtù repubblicane, secoli violenti nei quali la disputa sulle «quote Dio» e le «quote Cesare» saranno causa di guerre e massacri – dolore in Europa come altrove. Concetto di ascendenza culturale orientale – certo non Semitica o Greca né Romana – l’Imperator Divinus rimane presso i Romani, comunque, sempre concetto «fra virgolette», «per

così dire». Un po’ come quello di Cavaliere della Repubblica per chi non ha mai visto un cavallo. Certo non ci credeva Marco Aurelio, troppo intelligente, lui, grande Imperatore che si descriveva segretamente Servo dello Stato (quello sì reale e regale) per non capire che si trattasse di un instrumentum regnii necessario e di cattivo gusto. Gli stessi Governatori romani – primo fra tutti Plinio il Vecchio come dalla corrispondenza accorata col Divino Imperatore Traiano (altro grande scettico) – imploravano i dissidenti cristiani di fare i sacrifici alla Divinità Imperiale implicando che tutto sommato si trattasse di un atto di ubbidienza civica formale e anche meno doloroso che non fosse il pagare le tasse. Niente da fare. C’è oggi chi si ritiene un Cesare, un Kaiser, uno Czar. E il peggio è che – nell’epoca in cui le ideologie sono messe al bando – non è più dato sapere unto da chi, percome e percosa.

di Silvia Vegetti Finzi

Un eccesso di ricordi

Gentile Signora Silvia, mi rivolgo a lei perché ho un grande problema: non riesco più a difendermi dagli eccessi di ricordi, parole e fatti accaduti. Ho 85 anni, sono in buona salute e ho un compagno con cui divido una parte del mio tempo anche se abitiamo separati, una figlia unica felicemente sposata e genero e nipotino molto cari. Una ricca rete sociale e vivi interessi culturali. Il problema è che ho un’ipermemoria e quando ascolto un discorso, leggo un libro o vedo un film scattano nel mio cervello associazioni e ricordi che non mi lasciano più: le scene si susseguono e non riesco staccare. E io, che sono sempre stata una persona allegra, divento malinconica. È la vecchiaia, la pandemia, o il mio modo di essere, di preoccuparmi per gli altri? Le sarò molto grata se vorrà rispondermi, i suoi consigli sono sempre preziosi. La ringrazio in anticipo. Gabriella

Cara Gabriella, credo che il suo problema sia piuttosto diffuso e dipenda da molte cause. Col procedere dell’età e l’assottigliarsi del futuro, è normale che la memoria si volga al passato perché è là che ormai risiede il significato e il senso della nostra vita. Mi sembra però che la pandemia che abbiamo attraversato, e che non è ancora conclusa, ci sia costata cara. Come risulta dalla lettera precedente (del 21 febbraio) rilevo una tendenza all’ossessività. In questo periodo, tutti i piccoli disturbi nevrotici di cui normalmente soffriamo si sono acuiti. Sarà l’isolamento imposto dalle norme sanitarie, l’ansia del contagio, la paura della malattia e della morte, fatto sta che ci sentiamo tutti più deboli e fragili. Nel suo caso tra le altre cause vanno annoverate, come lei racconta, un’infanzia difficile e una giovinezza avventu-

Mode e modi

rosa, trascorsa tra l’Italia e l’Africa. Dopo il matrimonio e il trasferimento in Svizzera però tutto è proceduto nel modo migliore, tanto che ora si chiede: «perché mi tormento?». Nella convinzione che insieme si pensa meglio, ne ho parlato con una psicoanalista che stimo particolarmente ed ecco la sua risposta: «La Signora di 85 anni è una scrittrice e non lo sa. La compulsione a ripetere i ricordi esprime una domanda di ascolto, di riorganizzazione e storicizzazione del pensiero. Nell’età matura si sedimenta un sapere prezioso, una conoscenza speciale che chiede di essere ascoltata e condivisa». Sono d’accordo. Il passato che ritorna predispone alla creazione artistica, basta pensare a uno dei più grandi capolavori della letteratura francese, il romanzo di Marcel Proust: Alla ricerca del tempo perduto. Il tempo non è mai

perduto, permane dentro di noi e alimenta la nostra anima: rivolta al futuro nella giovinezza, al presente nella maturità, al passato nella vecchiaia. È un potenziale formidabile e dobbiamo farne buon uso. Pertanto entrambe le consigliamo di scrivere, a mano come la lettera che mi ha inviato, le figure e le parole che affollano la sua mente. La mano connette il pensiero al corpo e lo sintonizza con i battiti del cuore. L’immaginazione è sempre caotica, ma incanalandola nel discorso, le conferiamo ordine: la declinazione dei verbi la sottomette al tempo, grammatica e sintassi la subordinano al soggetto. Quando scriviamo non siamo mai soli perché ci rivolgiamo, anche senza saperlo, a un interlocutore lontano o vicino. Con carta e penna possiamo davvero esprimere la nostra interiorità e, di riflesso, sentirci compresi da noi stessi ancor prima che dagli altri.

Sono però convinta che chiunque scriva voglia prima o poi essere letto. Per evitare le esigenti richieste dell’editoria, può inviare il suo testo ad amici, parenti, colleghi e studenti di un tempo. Le possibilità sono tante: trasmetterlo via Internet, farlo stampare e rilegare sotto forma di pre-print o ricavarne un libretto personalizzato da spedire come «biglietto d’auguri». Vedrà che, una volta espressi e condivisi, pensieri e fantasie, le ritorneranno indietro pacificati e arricchiti della stima e dell’affetto che lei merita. Informazioni Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch

di Luciana Caglio

Attualità del reporter ◆

Cambiano i luoghi, le situazioni, le cause ma a mobilitarlo è sempre un’emergenza, comune denominatore del reporter, entrato adesso nella nostra quotidianità di cittadini smarriti, in cerca di punti fermi. Per definizione, gli spetta il ruolo di riferire ciò di cui è spettatore sul campo, da diretto testimone, per forza di cose attendibile. Del resto, è il continuatore di una costante storica. Richiama, nella memoria dei ginnasiali di un tempo, Giulio Cesare che, nel De bello gallico, libro di testo per i latinisti, anticipò l’inviato speciale di oggi: raccontando ai suoi contemporanei l’esperienza della guerra vissuta personalmente. Certo, nell’era della comunicazione globale, il compito d’informare ha creato una folta schiera di addetti ai lavori, più o meno capaci, a volte improvvisati. Comunque necessari per soddisfare le esigenze di un pubblico che vuol sa-

perne di più, proprio nei confronti di una guerra che ci tocca da vicino, con ricadute imponderabili. La benzina a 2 franchi, il Consiglio Federale che, sfidando la neutralità, condanna l’intervento armato in Ucraina ne sono indizi giustamente allarmanti. Da qui, quotidiani che vanno a ruba, televisori e radio accesi, telefonini di continuo consultati, dove conduttori, commentatori, specialisti dell’ultima ora tengono banco sfoggiando conoscenze e competenze inattese. Come osservava, da maestro di una garbata ironia, Aldo Grasso, dopo l’ondata dei virologi, insomma della scienza spiegata al popolo, è la volta degli storici e strateghi, per la politica alla portata di tutti. Con ciò il reporter autentico si muove su un altro piano, quello insostituibile dei contatti umani. Con la sua presenza sul posto, ci trasmette le immagini, i rumori, le voci, le ansie, le

incognite di un’emergenza da condividere, in diretta. Come fossimo nella Kiev bombardata, fra le gente che si rifugia nei sotterranei della metropolitana, negli scantinati o nelle auto, cariche di beni di prima necessità, in coda su strade, verso un’illusoria salvezza. Niente chiacchiere né dissertazioni culturali, bensì l’esercizio di un mestiere chiamato a documentare la realtà, così com’è. Un dovere professionale che può comportare rischi. Tanto da esserne, loro stessi le vittime. Non è una forzatura retorica, parlare di eroismo. Ogni anno, decine, persino centinaia di reporter ci lasciano la pelle. A Londra, inesauribile fonte di sorprese, c’è anche la chiesa cosiddetta dei giornalisti. Si chiama St Bride’s Church, innalza il campanile a freccia, in Fleet Street, un tempo sede delle redazioni dei maggiori quotidiani, poi emigrati nei grattacie-

li della periferia. Qui in un edificio antico e ristrutturato, circondato da un giardino, dedicato espressamente alla meditazione, si celebra la memoria dovuta a chi ha vissuto il lavoro alla stregua di una vocazione. Sotto queste volte, si sono commemorati reporter della BBC e di quotidiani caduti nei conflitti in Croazia, in Cosovo, in Pakistan o uccisi da terroristi. Un elenco sempre aperto. Tuttavia, sacrifici e pericoli a parte, la professione reporter (che fu anche il titolo di un film di Antonioni) conserva un potere d’attrazione sempre seducente. Nata a New York, nel 1883, nella redazione del «Sun», ha alimentato sia ambizioni fasulle sia, d’altro canto, talenti autentici. Diventando una palestra in cui si esercitarono i cultori di un nuovo genere giornalistico e persino letterario. Basti pensare a Hemingway, inviato speciale durante la guerra di Spa-

gna. In Italia, precursore di un genere che abbinava spirito d’osservazione e avventura, fu Luigi Barzini, autore di un best seller dell’epoca: Parigi Pechino in 60 giorni, pubblicato nel 1908. Anche Montanelli si cimentò in questo filone, con risultati discutibili in quanto a credibilità, durante la conquista italiana dell’Etiopia, negli anni 30. A sua volta, Oriana Fallaci, giornalista e scrittrice di alto respiro, ottenne ammirazione, fama e critiche persino velenose. «Io e la luna»: commentarono maliziosamente i suoi colleghi. Insomma, più di altri mestieri, quello del reporter comporta contraddizioni estreme: il fascino di una meritata notorietà e la trappola dell’autocompiacimento. In proposito, se la sta cavando bene un reporter di casa nostra, Gianluca Grossi che, dal Medio Oriente, invia impeccabili corrispondenze. Non è merito da poco, muoversi in quel ginepraio.


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Anno LXXXV 7 marzo 2022

azione – Cooperativa Migros Ticino 13

TEMPO LIBERO ●

Una città morta piena di vita Pompei è l’unico sito archeologico al mondo capace di illustrare molti aspetti di una città romana

La festa delle mimose L’8 marzo è voluto per ricordare l’importanza delle donne: non regalare un fiore, mettilo a dimora

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Un tipico arrosto di coniglio All’italiana, va preparato con verdure, patate, aglio, olive e vino bianco, poi cotto a lungo in forno

Caso o probabilità? Le riflessioni di Galileo Galilei sul gioco Passadieci svelarono nuove logiche matematiche

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Sulle nevi a testa in giù

Adrenalina ◆ L’orizzonte bianco visto da un’altra prospettiva: gobbe e salti (anche mortali) sono il pane quotidiano di chi pratica il Freestyle Moreno Invernizzi

Airolo con l’abito invernale fa rima con Freestyle. È qui, ai piedi del massiccio del San Gottardo, che ha la sua culla questa disciplina, essendo l’unica stazione invernale svizzera attrezzata per aerials (gobbe) e moguls (salti), cosa che ne fa il punto di riferimento per le squadre nazionali svizzere (e dove nei prossimi anni sorgerà il centro nazionale di allenamento). In autunno, per contro, il Freestyle lo si pratica anche a Zermatt (moguls) e Saas Fee (aerials). Ma cosa è di preciso il Freestyle e come è nato? Le due categorie che lo costituiscono sono appunto moguls e aerials. Nella prima, divenuta sport olimpico nel 1992, gli specialisti scendono su una pista disseminata di gobbe compiendo due salti per discesa. Discese che vengono giudicate per tecnica dello sci tra le gobbe (60 per cento del punteggio complessivo), qualità e difficoltà dei salti (20 per cento) e velocità (20 per cento). C’è poi il dual moguls, dove gli sciatori si confrontano in parallelo, per ora però unicamente presente ai Mondiali. Negli aerials (specialità olimpica dal 1994), invece, i protagonisti sono i salti. Qui gli sciatori spiccano il volo da trampolini innevati, eseguendo una serie di figure e salti mortali prima dell’atterraggio. Salti che poi vengono valutati da una giuria.

Nato come elaborazione dello sci alpino attraverso l’introduzione dei salti, difficoltà di percorso e varie figure acrobatiche, il Freestyle affonda le sue radici in Norvegia. È qui che, attorno al 1930, alcuni sciatori iniziarono a usare mosse acrobatiche nell’allenamento dello sci alpino e nordico. Poco alla volta iniziò a prendere piede anche altrove: negli anni Sessanta-Settanta negli Stati Uniti vennero proposte le prime gare, col nome di «hot-dog». Agli albori, il Freestyle era uno sport con poche regole, e dunque rischioso. Nel 1979, poi, la Federazione internazionale di sci (Fis) lo riconobbe come uno sport a tutti gli effetti, organizzando quell’anno la prima Coppa del mondo specifica; i primi Campionati del mondo portano invece la data del 1986 (e si tennero a Tignes). Freestyle, alle nostre latitudini, fa ovviamente rima con Deborah Scanzio (nella foto), sorta di pioniera per il Ticino di questa disciplina ai massimi livelli. Ritiratasi dalle gare nel 2018 (ma sempre attiva per promuoverlo), l’oggi 35enne leventinese ha chiuso la sua carriera con quattro partecipazioni alle Olimpiadi e sette ai Mondiali, tutte consecutive, e ben 15 stagioni di Coppa del mondo.

«Al Freestyle mi sono avvicinata per gioco. Un giorno lo Sci Club Airolo, al quale ero affiliata, ha proposto dei pomeriggi alternativi per i bambini che non praticavano sci alpino» racconta lei stessa. «Siccome da piccola ero un po’ “matta” e “agitata”, e mi piaceva andare veloce, quando ho provato il Freestyle me ne sono subito innamorata! E da lì, assieme a mio fratello e alcuni amici (fra cui il fratello di Marco Tadé, ora impegnato in Coppa del mondo, ndr.) abbiamo creato il Freestyle Team Airolo». Come una discesa sulle gobbe, il percorso di Deborah non è però stato scevro di ostacoli. Anzi, per coronare i suoi sogni ha dovuto affrontarne non pochi… «Dal 2000 al 2002 ho fatto parte della selezione junior di Swiss Ski. A 15 anni e mezzo ho però dovuto prendere una decisione molto complicata: restare in Svizzera, dove all’epoca non c’era un piano per il futuro, pochi allenamenti, e tutto a carico degli atleti, oppure scegliere di gareggiare per l’Italia dove, grazie all’entusiasmo per le imminenti Olimpiadi di Torino c’era una struttura professionale e dunque maggiori chance di crescere e inseguire il sogno olimpico. Oltre a poter avere come coach Andrea Rinaldi, in Italia avrei anche potuto far parte di una

squadra di coetanei che parlava la mia stessa lingua. Non fu una scelta facile, ma alla fine optai per varcare il confine. E, col senno di poi, fu la decisione migliore che potessi prendere: se fossi rimasta in Svizzera con tutta probabilità avrei smesso». In Svizzera ci è dunque tornata qualche anno dopo: «Terminate le Olimpiadi del 2014, la Federazione italiana scelse di non investire più sulle gobbe; un po’ come dodici anni prima aveva fatto Swiss Ski. In Svizzera, però, nel frattempo, le cose erano cambiate, grazie anche al rientro di Andrea Rinaldi. Era da tempo che meditavo il comeback, ma ero anche combattuta, perché non volevo lasciare l’Italia, che mi aveva accolta quando avevo bisogno. Così, quando fu la stessa Federazione azzurra a propormi di tornare in Svizzera, ho colto al volo l’occasione: per tutti è stata una soluzione win-win». Per avvicinare i giovani a questo sport, sotto la spinta di Andrea Rinaldi (ora direttore gara del Freestyle per la Fis) nel 2006 è stata creata l’European Youth Freestyle Academy (Eyfa), che dal 2018 è parte integrante della Federazione sci Svizzera italiana (Tiski). «Andrea, dopo aver studiato i modelli di altre nazioni per la formazione dei gio-

vani, ha creato la sua scuola di Freestyle con l’obiettivo di proporre un programma regolare e professionale anche a chi si avvicina a questa disciplina in Svizzera. E al mio ritiro dalle gare con piacere ho iniziato a collaborare con Tiski per la promozione del Freestyle e il reclutamento delle giovani leve. Prima della pandemia, andavo anche nelle scuole a raccontare la mia esperienza sportiva e a presentare le attività che svolgiamo con i bambini, talvolta proponendo lezioni di ginnastica con esercizi pensati per il Freestyle». Qual è il ricordo più bello relativo alla sua lunga militanza nel Circo bianco? «Ricordo con tanta emozione il bronzo ai Mondiali del 2007: ero molto giovane; non me l’aspettavo, e c’erano tutta la mia famiglia e gli amici a vedermi. Poter condividere con loro quel momento fu fantastico! Come non dimentico nemmeno la vittoria in Coppa del mondo a Tazawako, in Giappone: il mio unico trionfo; ero felicissima che quella volta con me ci fosse Camilla Gendotti, osteopata nonché amica d’infanzia, per la prima volta con noi alle gare: credo che la serenità mentale che mi ha dato avere un’amica al mio fianco abbia influito in modo positivo sulla gara».


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azione – Cooperativa Migros Ticino

TEMPO LIBERO

Pompei, ovvero l’araba fenice Reportage

La città morta è più viva che mai: ritornano i visitatori e aumentano le scoperte degli archeologi

Tommaso Stiano

Il ricercatore britannico Mortimer Wheeler ebbe a dire che «l’archeologo scavando non porta alla luce oggetti, ma esseri umani» e questa affermazione calza a pennello con l’ultima scoperta resa pubblica il 7 novembre 2021, ossia il ritrovamento eccezionale presso una villa di Civita Giuliana, 700 metri a nord della necropoli di Pompei, di un dormitorio per schiavi pressoché intatto che permette di dare uno sguardo sugli umili lavoratori di venti secoli or sono. Le novità riguardo a Pompei si susseguono in questi due anni: il virus, un nuovo direttore, l’Antiquarium interamente ristrutturato, il pubblico che ritorna a visitare gli scavi e un nuovo sito web. Ne parliamo in questo reportage-cronaca. Dall’aeroporto di Napoli Capodichino con una navetta raggiungiamo la stazione di Napoli Centrale da dove parte il treno Metropolitano della Circumvesuviana che, in meno di un’ora, ci porta alla fermata di Pompei Scavi. Nel tragitto verso l’albergo scorgiamo dietro le cancellate la meta del nostro viaggio, gli scavi di Pompei sui quali troneggia Dedalo, il colossale bronzo moderno del polacco Mitoraj che richiama le grandi sculture classiche.

Tra i progetti che hanno interessato la necropoli più famosa al mondo, anche il completo rinnovamento del museo Antiquarium nell’area degli scavi La denominazione ministeriale attuale parla di Parco archeologico di Pompei che comprende anche i siti nelle località confinanti. Da un anno il Parco ha un nuovo direttore, Gabriel Zuchtriegel, 40 anni, precedentemente responsabile di Paestum. La cronaca ci informa che anche Pompei ha sofferto molto i divieti dovuti al Covid; infatti, nel 2019 ha contabilizzato 3,8 milioni di visitatori che sono drasticamente scesi a poco meno di 600mila nel 2020 per risalire a quasi un milione l’anno scorso. Ma che cosa attira tanto pubblico a Pompei? Un primato mondiale: quello di unico sito archeologico capace di illustrare in tutte le sue sfaccettature e nello stesso luogo la vita di un centro romano di media grandezza – si sono calcolati 20mila abitanti – carbonizzato in poche ore dall’eruzione del Vesuvio il 24 agosto (od ottobre) del 79 d.C. La storia ci dice che da quel tragico momento Pompei è stata dimenticata da tutti fino ai primi scavi ufficiali del 1748 promossi dal Re di Napoli. L’antica località marittima, delimitata dalle mura millenarie, copre un’area di 660mila mq di cui circa due terzi già esplorati con 1500 edifici pubblici e privati riemersi dalle ceneri e in buona parte accessibili al pubblico. Per quanto sembri contraddittorio, la distruzione simultanea di tutta l’area vesuviana, anziché gettare nell’oblio gli insediamenti ne ha favorito la futura memoria, tant’è che Goethe già nel 1786 meravigliato dai primi ritrovamenti disse che «molte sciagure sono accadute nel mondo, ma poche hanno procurato altrettanta gioia alla posterità». Non per nulla dal 6 dicembre 1997 tutti i complessi archeologici attorno al Vesuvio sono inseriti nella lunga lista italiana, la più folta al mondo, del

Via di Nola, una tipica strada della rete ortogonale di Pompei, lastricata con basalto intorno al 150 a.C. e attraversata da grosse pietre per il passaggio dei pedoni da un marciapiede a quello sul lato opposto. Al centro, il Tempio di Apollo con l’altare marmoreo all’aperto nei pressi del Foro. (T. Stiano)

Patrimonio Mondiale dell’umanità (Unesco) con la motivazione seguente: «Rappresentano una preziosa testimonianza della vita quotidiana e della società in un preciso momento storico, che non trova eguali in nessuna parte del mondo». Ville lussuose e anguste dimore, botteghe e postriboli, templi e terme, arene e ritrovi pubblici, strade e piazze, arredi, dipinti, utensili e quant’altro sono stati sepolti sotto una coltre spessa sei metri di lapilli, pomici e cenere ardente. Il gas venefico e le alte temperature dei flussi piroclastici trasformarono in breve tempo la città piena di vita in una necropoli che oggi costituisce un eccelso esempio di museo a cielo aperto, purtroppo sottoposto a tutte le fragilità contingenti: tombaroli, agenti atmosferici, posizione altamente sismica e prospicente «l’arida schiena del formidabil monte sterminator Vesevo» (La ginestra, Giacomo Leopardi). Come preludio alla visita del Parco archeologico all’aperto, le guide ci consigliano di esplorare dapprima l’Antiquarium, il museo al coperto riaperto un anno fa, completamente rinnovato. Questo spazio è concepito come terza tappa di un «museo diffuso» che comprende dapprima gli scavi per

portare alla luce i reperti e, in seconda istanza, i restauri di quelli più importanti. Gli ambienti rinati mostrano i ritrovamenti più significativi che illustrano per sommi capi la storia di Pompei dalle origini alla triste sepoltura e ci sono anche i rinvenimenti più recenti come i calchi delle due vittime estratti nel 2020 da una villa di Civita Giuliana. L’allestimento permanente comprende sei sezioni ripartite su undici sale molto luminose che si percorrono in poco più di un’ora. Diversi i luoghi pubblici che ri-

mandano alla storia di Pompei in quanto parte dell’Impero romano: il Foro centrale (piazza principale) con i vari templi dedicati agli dei, la Basilica dove si amministrava la giustizia, il Teatro Piccolo semicircolare per spettacoli di musica e poesia, il Teatro Grande a ferro di cavallo per pièce tragiche, comiche e satiriche, il Quadriportico dove si allenavano i gladiatori, l’Anfiteatro ellittico dove gladiatori e belve davano spettacolo e, tra le vigne verdeggianti, l’Orto dei Fuggiaschi con i calchi di tredici famigliari spirati quel

Nella Basilica (120-78 a.C.), preromana con 28 colonne corinzie, si amministrava la giustizia. (T. Stiano)

fatidico giorno; proprio qui si legge sui volti il dolore umano che rende uguale ogni vita, senza badare al ceto sociale. Scarpinando sul selciato millenario e irregolare si attraversano i ritrovi pubblici affacciati sulle vie principali come in una città moderna: taverne, botteghe, alcuni Thermopolia (tavole calde, fast food diremmo oggi), postriboli, le Terme Stabiane, i Granai del Foro. E poi ci sono le stupende vestigia delle residenze private (quelle aperte), dette «case», un tempo lussuose dimore di personaggi di rango oggi denominate con vari nomi a dipendenza degli oggetti trovati come la Casa del Fauno (2970 mq, II sec. a.C.), la Casa degli Amorini Dorati, la Casa dei Mosaici Geometrici con diversi pavimenti superstiti, la Casa del Menandro e molte altre con i resti degli ambienti tipici delle ville romane decorate con mosaici e pitture parietali. Qui bisogna dire che, per ovvie ragioni di conservazione, la gran parte degli oggetti d’uso comune dissepolti in queste residenze (suppellettili, utensili di bronzo o vetro), molti affreschi e svariati mosaici come quelli stupendi della Casa del Fauno non sono più sul posto, ma si trovano al Museo archeologico nazionale di Napoli (Mann) che dedica un gran numero di stanze ai reperti di Pompei e degli altri siti d’area vesuviana. Un buon motivo per passare qualche ora anche in questo immenso istituto di ritorno all’aeroporto e completare così la storia antica della città campana. La città morta di Pompei è più viva che mai, è in continuo fermento, non smette di sorprendere con le nuove scoperte come quella menzionata in esergo. La necropoli insomma è proprio come l’araba fenice, rinasce senza posa dalle sue ceneri grazie al lavoro certosino dei suoi archeologi che scoprono sempre grandi e piccole testimonianze del suo fiorente passato. Malgrado l’ausilio dei potenti e utili mezzi digitali, la cosiddetta realtà virtuale aumentata, bisogna pur riconoscere che l’esperienza concreta, la presenza personale tra le antiche vestigia di Pompei è incomparabile. Informazioni su www.azione.ch trovate una più ampia galleria fotografica.


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Dalla parte delle mimose

Mondoverde ◆ Il modo migliore per far durare l’importanza del messaggio sottolineato dalla Festa delle donne è prolungare la vita del simbolo dell’otto marzo

Appello ai soci della Cooperativa Migros Ticino

Tutti sanno che il simbolo della Festa della donna è la mimosa, venduta in pianta, in mazzetti o confezionata insieme ad altri fiori recisi. Ma come coltivare al meglio questa pianta e come far durare il più a lungo possibile i suoi fusti una volta recisi, e con essi il messaggio di cui si fanno ambasciatori? Acacia dealbata è il nome botanico di questo piccolo albero sempreverde che in natura ha il portamento ad arbusto, con rami che spuntano direttamente dal terreno, mentre in commercio si trovano prevalentemente a forma di albero, con un solo fusto che andrà a raggiungere i quattro-cinque metri d’altezza. Appartenente alla famiglia delle Fabacee, ha origini lontane: arriva infatti dall’Australia, sebbene sia poi riuscita ad ambientarsi bene lungo le coste più meridionali dell’Europa, creando ampi gruppi di mimose selvatiche che fioriscono dalla fine di febbraio e per tutto marzo. Ama, infatti, i climi miti, per questo risulta un po’ azzardato coltivarla alle nostre latitudini. Ma se trovate un angolo assolato e ben riparato accanto a un muro, è possibile metterla in piena terra, avendo però l’accortezza di fasciarla con del tessuto non tessuto durante gli inverni più freddi, per evitare che i boccioli brucino a causa del gelo.

Paul Downey

Anita Negretti

I grappoli gialli che tanto fanno allegria non sono dei veri fiori, ma infiorescenze sferiche, formate da piccolissimi fiorellini di colore giallo canarino, profumati e molto decorativi. Le foglie, sempreverdi, sono invece simili a delle leggere piume, essendo formate da minuscole foglioline tenute tutte vicine e dal bel colore grigio argenteo. La corteccia, ben visibile, è di colore verde oliva, ciò permette di creare un ottimo contrasto con le foglie, mentre in estate è possibile trovare sulle piante i frutti, che sono lun-

ghi baccelli verdi contenenti i semi. I fiori, una volta recisi, durano pochi giorni, a volte solo alcune ore poiché tendono a seccarsi rapidamente; un trucco per farli durare più a lungo consiste nel ripulire da fiori e foglie almeno gli ultimi cinque-sei centimetri della base del rametto e martellare delicatamente il fusticino sfibrandolo in modo tale che riesca ad assorbire più acqua possibile; utilizzate acqua tiepida, non troppo fredda e cambiatela ogni giorno. Le fortunate che riceveranno in regalo un’intera pianta di mimosa, dovranno collocarla all’esterno in vaso o in piena terra, utilizzando un buon terreno fresco, ben drenato e ricco di concime organico. Oltre alla posizione riparata, bisognerà prestare attenzione alle bagnature, che dovranno essere costanti, lasciando la terra sempre leggermente umida specie da marzo a ottobre e procedendo con le classiche due concimazioni annuali (febbraio e ottobre) con concime a lenta cessione o stallatico maturo. Quando la pianta avrà raggiunto un buono sviluppo, si potrà procedere con la potatura che deve essere eseguita preferibilmente verso aprile-maggio, per aiutare la pianta a mantenere la sua chioma globosa.

Cari soci, nel corso della 12esima settimana che segue questo avviso, la Cooperativa procederà all’elezione dell’Ufficio di revisione per un nuovo mandato biennale (2022-2023). L’elezione si svolgerà secondo le disposizioni dello Statuto e del Regolamento per votazioni, elezioni e iniziative della Cooperativa del 5 giugno 2021. Quali soci potete consultare questi documenti (presentando la vostra quota sociale o la tessera di socio) in tutte le nostre filiali nonché presso la sede della Cooperativa a S. Antonino.

I soci della Cooperativa possono presentare proposte elettorali, che devono soddisfare le disposizioni previste dallo Statuto (art. 35) e del Regolamento (art. 27) ed essere inoltrate entro il 26 marzo 2022. Inoltre, conformemente allo Statuto, il Consiglio di cooperativa e il Consiglio di amministrazione della vostra Cooperativa, così come il Consiglio di amministrazione della Federazione delle cooperative Migros, hanno il diritto di proporre candidature. In applicazione dell’art. 30 dello Statuto, il Consiglio di amministrazione ha nominato un Ufficio elettorale che oltre a ricevere le proposte elettorali, sorveglia lo svolgimento dello scrutinio. Esso è così composto: • avv. Filippo Gianoni, Bellinzona, presidente; • Edy Barri, S. Antonino, membro; • Roberto Bozzini, Giubiasco, membro; • Pasquale Branca, Giubiasco, membro; • Myrto Fedeli, Cadenazzo, vicepresidente. Le proposte elettorali e tutta la corrispondenza destinata all’Ufficio elettorale devono essere indirizzate al suo presidente. Sant’Antonino, 7 marzo 2022 Cooperativa Migros Ticino Il Consiglio di amministrazione Annuncio pubblicitario

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azione – Cooperativa Migros Ticino

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Ricetta della settimana - Coniglio al finocchio ●

Ingredienti

Preparazione

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Per 4 persone

1. Scaldate il forno a 200 °C.

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1,2 kg di coniglio a pezzi sale pepe 4 c d’olio d’oliva 2 c di semi di finocchio 6 spicchi d’aglio 2 dl di vino bianco 1 finocchio con i ciuffi verdi di circa 250 g 400 g di patate resistenti alla cottura 2 c di olive nere snocciolate

2. Salate e pepate i pezzi di coniglio, poi sfregateli bene con l’olio, accomodandoli in una brasiera. Aggiungete i semi di finocchio, gli spicchi d’aglio schiacciati e fate rosolare il tutto al centro del forno per circa 20 minuti. A metà cottura girate i pezzi di coniglio. 3. Sfumate con il vino bianco. Abbassate la temperatura del forno a 140 °C. 4. Mettete da parte i ciuffi verdi del finocchio. Tagliate il finocchio e le patate a spicchi e aggiungeteli al coniglio. Mettete il coperchio sulla brasiera e stufate in forno per circa 1 ora. 5. Tagliate le olive ad anelli e aggiungetele. Regolate di sale e pepe. Aggiungete i ciuffetti di finocchio e servite il coniglio. Preparazione: circa 10 minuti; cottura in forno: circa 20 minuti; brasatura: circa 1 ora. Per persona: circa 34 g di proteine, 23 g di grassi, 21 g di carboidrati, 470 kcal/1950 kJ.

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azione – Cooperativa Migros Ticino

TEMPO LIBERO

Scommettiamo sul dieci? Antichità rabelaisiane

Tre dadi, sfidando il caso, determinarono le origini del calcolo delle probabilità

«Il gioco a “passadieci” si giocava con tre dadi; e si scommetteva che il valore delle tre facce superasse il numero dieci», così si legge su La vita quotidiana nei castelli della Loira nel Rinascimento di Ivan Cloulas (BUR Biblioteca Univ. Rizzoli, 2019). Si parla di un gioco che ha più di cinquecento anni e che, infatti, si trova menzionato già nell’elenco del capitolo XXII del divertente romanzo Gargantua e Pantagruel di François Rabelais, stampato in prima edizione nel 1532: «Poi, borbottando alla grossa un tocco d’orazione di ringraziamento, si lavava le mani con vin fresco, si curava i denti scarnificando un piede di maiale e chiacchierava allegramente coi suoi. Quindi, steso il tappeto verde, metevan fuori mucchi di carte, di dadi e scacchiere. E là giocava:…» segue una lista incredibile di nomi di giochi, che in questo spazio noi riproporremo, almeno in parte, come antidoto ludico e materico contro l’era del virtuale, un’alternativa per trascorrere il nostro tempo libero. Antico, si diceva, ma che risuona ancora oggi in molte questioni matematiche, seppure a nostra insaputa: fu di fatto fondamentale per la teoria delle probabilità. Sebbene la si faccia risalire normalmente al 1654, cioè alla pubblicazione del Traité du Triangle Arithmétique di Blaise Pascal, in verità riflessioni in merito

furono già oggetto di studio di Galileo Galilei, il quale, nel 1610, si interrogò sull’incertezza del caso prodotta dai «giochi di sorte» prendendo in esame proprio il Passadieci: «Che nel giuoco de’ dadi alcuni punti siano più vantaggiosi di altri, vi ha la sua ragione assai manifesta, la quale è il poter quelli più facilmente e più frequentemente scoprirsi che questi, il che dipende dal potersi formare con più sorti di numeri: onde il 3 e ’l 18, come punti che in un sol modo si possono con 3 numeri comporre, cioè questo con 6, 6, 6 e quello con 1, 1, 1 e non altramente, più difficili sono a scoprirsi che, v.g., il 6 o ’l 7, li quali in più maniere si compongono…» da Galileo Galilei, Sopra le scoperte de i dadi (1664-1641). Per spiegare sia il gioco sia la riflessione di Galileo, ci facciamo aiutare dal libro a cura di Michele Emmer, Matematica e cultura (Springer Editore, 2001), che nel capitolo dedicato al calcolo delle probabilità spiega che il Passadieci «consisteva nel gettare tre dadi; si vinceva nel caso che si presentasse una somma dei punti delle facce superiore a 10. È facile vedere che le possibilità di ottenere un valore maggiore di 10 sono tante quante quelle di non ottenerlo. Questa condizione caratterizza, quando si scommette alla pari (si punta 1 per vincere o 0-2 con uguale probabilità), un gioco equo in cui si ha “simmetria” tra la possi-

ctrl.blog

Manuela Mazzi

bilità di vincere e quella di perdere». Tutto chiaro fin qui? A colpo d’occhio potrebbe davvero sembrare così come viene presentato, ma, nonostante l’imprevedibilità del caso, secondo la logica delle probabilità, equo, questo gioco in verità non lo è: «Un conoscente di Galileo, che giocava di frequente, si meravigliava di vincere più spesso con il numero 11 che con il numero 12 e di osservare più spesso il 10 che il 9. Eppure

Giochi e passatempi Cruciverba

Forse non tutti sanno che ogni ora l’essere umano perde circa … termina la frase risolvendo il cruciverba e leggendo le lettere evidenziate. (Frase: 2, 7, 1, 5, 2, 7, 10)

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questi 4 punti, con tre dadi, si ottengono tutti in sei modi. Perché allora il 12 è “più raro” dell’11? Galileo vide chiaramente che il ragionamento non era corretto. Infatti, i modi di ottenere i diversi punteggi non sono tutti equivalenti; non è confrontabile, per esempio, l’uscita 4 4 4 che corrisponde a 12, con l’uscita 4 5 2 che corrisponde a 11. La prima è ottenibile in un solo modo perché tutti e tre i dadi devono mostrare la faccia 4, mentre 4 5

2 possono uscire indifferentemente su ognuno dei tre dadi, producendo così sei combinazioni diverse. Ragionando in tal maniera, Galileo contò correttamente 27 modi diversi per ottenere 10 o 11 e solo 25 modi per 9 e 12». Che l’invito a provare sia letto solo a scopo di divertimento e di esperimento individuale, a conferma di quanto qui illustrato, e non per scopi altri, sebbene i giochi di oggi siano meno ingenui.

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Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.

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Soluzione della settimana precedente GIOCHIAMO A GOLF – Durante un giro di golf il giocatore può usare… Resto della frase: … MASSIMO QUATTORDICI MAZZE. ORIZZONTALI 1. Concordano nella stessa decisione 7. In coppia con lui 8. Avverbio di negazione 9. La targa di Novara 10. Interdetto 11. Antico popolo iranico 12. Cognome della moglie di Ricky Tognazzi 15. Il noto pittore spagnolo Salvador 17. Navigatore d’altri tempi 18. Un ricovero per animali 20. Nel volto e nel mento

21. Macchina semplice a forma di prisma triangolare 22. Le iniziali del noto Elkann 23. Ninfa della mitologia greca 24. Cuore di gelso 25. Ridente... a Marsiglia 26. Campi mitologici dell’oltretomba VERTICALI 1. Ossa dell’avanbraccio 2. Macchietta civettuola 3. In mezzo alla baia 4. Digiuno prolungato 5. Agitazioni popolari

6. La matrigna di Elle 10. Pelliccia animale 11. Della penisola di Malacca 12. Nota squadra di calcio italiana 13. Un giardino custodito 14. Ai piedi delle ragazze 15. Strenne 16. Compatti, uniti 18. Un colpo a golf 19. Mali in Inghilterra 21. Si ripete brindando 23. Iniziali del regista Avati 24. Pronome poetico

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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.


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ATTUALITÀ ●

Ucraina, voci dal fronte Reportage da Dnipro dove la gente raccoglie aiuti per gli sfollati interni e prepara bottiglie molotov. «Mosca vuole renderci schiavi»

Anche la Svizzera sanziona Putin Il Consiglio federale cambia idea e adotta tutte le sanzioni imposte dall’Unione europea alla Russia, una prima storica

Londongrad e le mosse di Johnson Il premier britannico tenta, almeno a parole, di sottrarre la megalopoli alla sua immagine di parco giochi per i Paperoni vicini a Putin

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Dopo l’attacco Xi Jinping (a destra) ha chiamato Vladimir Putin (a sinistra) per chiedergli spiegazioni. (Shutterstock)

Un’alleanza che scricchiola

L’analisi ◆ Pechino non vuole la guerra e teme le conseguenze economiche del conflitto in Ucraina. Americani e cinesi potrebbero approfittare della crisi russa per riprendere a dialogare seriamente? Lucio Caracciolo

L’invasione russa dell’Ucraina cambia l’equazione di potenza su scala mondiale. Cambia quindi anche i rapporti di forza all’interno del triangolo Stati Uniti-Cina-Russia. Fino a ieri avevamo una coppia sino-russa strettamente legata, o almeno così appariva e voleva essere percepita. La scelta di Putin di invadere il vicino ucraino ha colto di sorpresa Xi Jinping. E lo ha notevolmente irritato. Come prima cosa, il leader cinese ha chiamato il collega e amico russo per chiedergli spiegazioni. Putin si è giustificato dicendo che la crisi aveva raggiunto un punto critico. Soprattutto per la decisione di Washington, a suo dire imminente, di installare armi nucleari e missili ipersonici (ufficialmente non dichiarati) a ridosso della frontiera russa. L’allargamento della Nato andava quindi stoppato subito, puntando anzi all’arretramento delle armi nucleari Usa in Europa. Xi Jinping ha preso nota. Come prima risposta, ha evitato di appiattirsi sulla posizione russa. Per esempio astenendosi alle Nazioni Unite sulla risoluzione che condannava l’invasione. Poi ha lanciato se-

gnali diplomatici, pubblici e riservati, per ostentarsi disponibile a una mediazione che portasse al rapido cessate-il-fuoco sul fronte ucraino. Infine, sulla stampa e sui media cinesi appaiono articoli abbastanza critici dell’aggressione russa. Senza perciò dismettere il tono duro nei confronti degli americani.

Il buco nero in Ucraina significherebbe la fine delle vie terrestri della seta che dalla Cina puntano, via Asia centrale, ai mercati e ai produttori europei Da dove derivano preoccupazione e insieme prudenza cinese? Esistono alcune questioni di principio e altre d’occasione, legate alla stretta attualità. Quanto alle prime. La Repubblica popolare non vuole la guerra. In Asia ma anche nel resto del mondo. Oggi teme specialmente la guerra economica, non a caso l’arma impugnata dagli Stati Uniti contro la Russia. Con sanzioni assai penetranti che minacciano di stendere al tappeto

non solo i russi ma anche i paesi che con Mosca hanno strutturate relazioni commerciali, non solo energetiche. Una recessione mondiale è perfettamente possibile proprio mentre le economie dei paesi trainanti, Cina e Stati Uniti in testa, parevano riprendersi dagli shock asimmetrici prodotti dal virus. E siccome a Pechino salute economica significa salute e stabilità politica, questa prospettiva risulta particolarmente inquietante. Tanto più a pochi mesi dal congresso del Partito comunista cinese, che dovrebbe confermare e rafforzare nel suo mandato il presidente Xi Jinping. Inoltre, sul piano geopolitico, il possibile collasso economico e geopolitico della Russia dovuto a una sconfitta militare, con conseguenze non immaginabili sulla tenuta stessa dello Stato russo, significherebbe per Pechino perdere l’unico vero, decisivo alleato. Non è certo avendo al fianco Pakistan e Corea del Nord che la Cina può pensare di tenere a bada gli americani. Per quanto la diffidenza nei confronti di Mosca sia un dato permanente della visione cinese del mondo, l’accoppiamento tattico sancito nel

2014, quando Putin venne a Pechino con il cappello in mano essendo stato respinto dall’Occidente in Ucraina, è troppo importante per non provare a salvarlo. Almeno nella facciata. Infine, il buco nero in Ucraina, possibilmente moltiplicato dall’analoga destabilizzazione in Russia, significherebbe la fine delle vie terrestri della seta che dalla Cina puntano, via Asia centrale, ai mercati e ai produttori europei. Nel clima economico già compromesso dal virus e dalle sanzioni americane alla Cina, la guerra russo-ucraina potrebbe fungere da detonatore capace di far esplodere le numerose mine piazzate lungo il percorso delle vie della seta. Progetto al quale Xi Jinping ha vincolato il suo nome. Quanto alla contingenza. Alcuni sostengono che Pechino potrebbe profittare della distrazione – molto relativa – americana in Europa per attaccare e conquistare Taiwan. Estremamente improbabile. Primo: perché lo sviluppo delle forze armate cinesi non ha ancora raggiunto lo stadio necessario a prendersi un simile rischio. Secondo: perché la conseguenza quasi immediata della sfida all’America

nei Mari cinesi sarebbe la terza guerra mondiale. Sarà interessante osservare se in questo clima arroventato americani e cinesi vorranno profittare della crisi russa per riprendere a dialogare seriamente. Qualcuno a Washington comincia a suggerirlo pubblicamente, altri lo stanno già praticando in via riservata, attraverso vari canali secondari. Ciò significherebbe l’inizio della fine per la coppia sino-russa. Mosca e Pechino stanno insieme non perché vanno d’accordo, ma in quanto consapevoli che la strana coppia consente ad entrambe di influire sull’America. Manipolazione reciproca. Ma se la guerra continua e si inasprisce, questo doppio meccanismo perderebbe la sua ragion d’essere. La parola passerebbe alle armi, con effetti difficilmente prevedibili. Noi europei cominciamo a renderci conto di essere le vittime sacrificali di questo scontro al vertice della potenza mondiale. Prima di rischiare la guerra atomica, cinesi, russi e americani saranno tentati di scaricare su di noi le tensioni che li dividono. È ora di allacciare le cinture di sicurezza.


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azione – Cooperativa Migros Ticino

ATTUALITÀ

«La guerra busserà alle vostre porte»

Voci dal fronte ◆ A Dnipro incontriamo anche Alina che prepara gli aiuti per gli sfollati e Alexander, giovane dentista che non sa niente di armi ma si arruola volontario. Padre Savchenko: «Mosca vuole renderci schiavi, è il nostro nemico da secoli» Francesca Mannocchi

La nonna di Alina è a casa, nella periferia di Dnipro – porto fluviale e nodo stradale-ferroviario dell’Ucraina – a preparare sacchetti di cibo per i soldati. Alina prepara invece le coperte e i cuscini, i giochi per bambini e i quaderni per gli sfollati in arrivo dalle città vicine, come Kharkiv, ormai nella morsa dei russi. Le abbiamo incontrate giovedì scorso. Il padre di Alina è filo-russo, lo è da sempre. Per quello Alina non gli parla, ma non da oggi, da questa guerra. Ha smesso di parlargli anni fa, nel 2014, quando è iniziata la guerra nel Donbass, tra separatisti ed esercito ucraino. Quando è iniziata l’invasione suo padre le ha telefonato e le ha detto: preparati a festeggiare i liberatori del paese. Alina ha bloccato ogni possibilità che lui la contatti ancora. Non è solo un dolore, dice, è una vergogna. Questa guerra, o meglio l’invasione russa dell’Ucraina, è anche questa cosa qui: famiglie che si dividono, fisicamente ed emotivamente. Dnipro è la terza città del paese. Conta un milione e mezzo di abitanti ed è un nodo strategico perché collega il nord – Kharkiv – e il sud – Mariupol – con la capitale Kiev. Quindi conquistarla è una tappa decisiva. La città è militarizzata e pronta alla guerra che potrebbe arrivare da un momento all’altro, via terra o dal cielo. Lo ricordano le sirene che da giorni suonano anche qui, dove i combattimenti non sono ancora cominciati. Suonano a ricordare che la guerra è alle porte. Pericolosamente, perché i russi sono a sud e hanno già colpito (venerdì scorso) la centrale nucleare di Zaporizhzhia, la più grande d’Europa, una delle dieci più grandi del mondo.

Parsha: «Mio figlio ha 18 anni. Vuole solo studiare, non voglio mandarlo a combattere. Non voglio mandarlo a morire» Ogni mattina Dnipro si sveglia facendo il conto delle notizie tragiche. Quanti i morti, quanti i feriti, quanti gli edifici distrutti. Poche notti fa il buio ha portato notizie preoccupanti. La prima: carri armati russi a 90 chilometri a sud e diretti in città. La seconda: gruppi di soldati russi pronti ad essere paracadutati a terra. Per questo l’esercito ucraino è corso ai ripari, minando il ponte che unisce il

Il centro di coordinamento per gli aiuti allestito a Dnipro. Si raccolgono beni di prima necessità destinati alle forze di difesa territoriale e agli sfollati interni. (Shutterstock)

Donbass alla città. Se conquistano territori a est e Mariupol, Dnipro è una tappa obbligata verso la capitale. Le volontarie come Alina hanno cominciato a organizzarsi per accogliere gli sfollati dalle città assediate, come Parsha, che è scappata da Kharkiv con i suoi cinque figli. Suo marito è al fronte a combattere. Il rumore delle bombe ha fatto tremare i muri di casa, lei è corsa via, diretta qui, a cercare riparo. È stanca, piange. Soprattutto è preoccupata per suo figlio. «Ha da poco compiuto diciotto anni», dice. «Vuole solo studiare, non voglio mandare mio figlio a combattere. Non voglio mandarlo a morire». Anche gli uomini hanno cominciato a organizzarsi, come Maxym Quriachi, che lavora per una associazione locale che supporta gli sfollati, gestisce la lista dei rifugi antiaerei. Maxym sulla scrivania del suo ufficio tiene una pistola. «Siamo volontari, siamo qui per salvare la nostra gente», afferma. «E non permetteremo a un pazzo invasore di prendere il nostro paese. Sta distruggendo pezzi delle nostre città, ha terrorizzato i nostri bambini, le nostre madri e le nostri mogli. Non ci arrenderemo, non risparmieremo uno solo dei suoi uomini, perché hanno reso l’Ucraina un posto non sicuro per la sua gente. Non saranno perdonati». Maxym, come tutti qui, parla e insieme avverte:

«Dovete capire che questa non è più una guerra che riguarda solo noi. Arriverà alle vostre porte, perché Putin non ha più limiti, dovete rendervene conto prima che sia troppo tardi». Il piazzale adiacente, di fronte alla sede della televisione locale, si è trasformato in un arsenale. Non ci sono fucili, o AK47, ma bottiglie, garze, benzina e polistirolo. Servono a preparare molotov. Natalia coordina una delle unità del mattino, ha 35 anni, qualche giorno fa usciva di casa per andare a lavorare in uno studio legale, oggi viene qui a preparare bottiglie incendiarie. «Siamo tutte persone molto diverse e per lo più estranei», spiega. «Siamo studenti, ingegneri e operai, anziani, padri e madri di famiglia. Ma questa guerra ci ha uniti. Non siamo un esercito e non siamo soldati, siamo civili che fanno quello che possono per impedire a un esercito invasore di distruggere la nostra amata Dnipro». Anche Irina è qui a dare il suo contributo. Ha raccolto le bottiglie in città e si è fatta accompagnare da suo figlio Yaroslov, che ha sette anni, è nato dopo l’inizio della guerra, nel 2014. Anche lui vuole dare una mano, a sistemare le bottiglie degli uomini coraggiosi, così gli ha detto sua madre. Quando ha sentito i muri scossi dalle esplosioni, Irina non ha pensato a scappare, e non ci pensa. «Resto qui, racconta, perché non biMolotov preparate dalla resistenza ucraina. (Shutterstock)

sogna fare un passo indietro, bisogna difendere la nostra città e fare passi avanti a cacciare il nemico che è già entrato». Pensa a Kharkiv, la seconda città del paese, le sono arrivati video di soldati russi in città, che perlustravano le strade, assaltavano negozi e distruggevano case civili. Accanto a un edificio vediamo un cartello che riporta l’«indirizzo per registrarsi e andare a combattere». In città si formano i gruppi di difesa cittadini, civili che si mettono in coda

per unirsi ai soldati al fronte. Possono combattere uomini e donne dai 18 anni in poi. All’ingresso ci sono centinaia di persone. Alexander è uno di loro, ha 22 anni, è un dentista, non sa niente di armi. «So che questa è la mia terra e voglio difenderla». Dice di non essere spaventato, ma solo arrabbiato. «Qui, alla Brigata, pensano alle armi. Io porterò la mia rabbia, è tutto quello che serve per sconfiggere i nemici». A sostenere i soldati e i volontari ci sono anche i preti della chiesa ortodossa, i cappellani militari come Konstantin Savchenko. Si reca nelle caserme, al fronte e ai check point perché: «Sostengo i nostri giovani contro un nemico eterno. Mosca vuole renderci schiavi, Mosca è il nostro nemico da secoli, questa guerra è la nostra occasione per porre fine a questa ingiustizia antica, costi quel che costi». Padre Savchenko consuma i pasti insieme ai soldati, supervisiona le trincee e le centinaia di molotov nelle buche lungo la strada. I combattimenti sono alle porte, le truppe russe si stanno avvicinando, i riservisti continuano ad arrivare uno dopo l’altro. Kiyra, questo è il suo nome di battaglia, imbraccia il suo nuovissimo AK-47, si copre il volto e non esita: «Guardati intorno, tutto è pronto per affrontare l’esercito russo, siamo preparati per il loro arrivo. Li aspettiamo qui, coraggiosi come le guardie di frontiera dell’Isola dei serpenti davanti alle navi russe che volevano entrare nei nostri confini. Ci hanno dato l’esempio: meglio finire prigionieri che arrendersi ai russi». Annuncio pubblicitario

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ATTUALITÀ

La Svizzera si allinea all’Europa Guerra in Ucraina

Il Consiglio federale ha deciso di adottare contro la Russia le sanzioni economiche elaborate dall’Ue

Marzio Rigonalli

Dopo giorni di dubbi e di esitazione, tra forti pressioni interne ed internazionali, il Consiglio federale si è convinto a riprendere e ad applicare le sanzioni economiche e finanziarie decise dall’Unione europea contro la Russia. Sul piano interno, i partiti politici, ad eccezione dell’Udc, il Consiglio nazionale e le commissioni di politica estera, nonché i manifestanti scesi in piazza per protestare contro l’invasione dell’Ucraina, hanno chiesto al governo una reazione forte, all’altezza della grave situazione che si era creata. Sul piano esterno, molti governi occidentali hanno esercitato pressioni sul Consiglio federale perché temevano che la Svizzera potesse consentire alla Russia di aggirare le sanzioni e per impedire che l’unità dimostrata da tutto il continente europeo a sostegno dell’Ucraina venisse rotta da un piccolo paese situato al centro del continente. L’adozione delle sanzioni europee corrisponde all’abbandono o alla violazione della neutralità, un principio che da tempi lontani caratterizza la posizione della Svizzera sul piano internazionale? Pochi rispondono in modo affermativo. Molti invece ritengono che, in questo caso, essere neutrali avrebbe voluto dire essere codardi nei confronti di un popolo brutalmente aggredito e costretto a vivere sotto i missili, i razzi, le bombe e tutto il fuoco delle armi dell’aggres-

sore. La neutralità obbliga la Svizzera a non fornire aiuti militari a un qualsiasi paese belligerante. In questo caso, però, siamo di fronte a una violazione dell’integrità territoriale e dell’autodeterminazione di un paese e del suo popolo. È una flagrante trasgressione del diritto internazionale, dei principi che vi sono racchiusi, e rappresenta una minaccia al sistema della sicurezza in Europa e ai valori che difende il vecchio continente. Anche la Svizzera e i suoi interessi dipendono dal rispetto della pace, del diritto internazionale e dell’integrità territoriale degli Stati. La violazione di questi principi e valori rappresenta una minaccia anche per il nostro paese e la nostra libertà.

Secondo molti esperti l’adozione delle sanzioni europee non rappresenta una violazione della neutralità svizzera Con la sua decisione il Consiglio federale ha raggiunto anche tre risultati importanti per la nostra politica estera. Ha evitato un danno all’immagine internazionale della Svizzera, che rischiava di ritrovarsi isolata e di venir additata come opportunista, pronta a ricavare vantaggi da qualsiasi situazione, anche dalle tragedie e dalle sofferenze altrui. Non ha pregiudica-

Al diavolo la guerra

Solidarietà ◆ In Ticino continua la raccolta di beni di prima necessità destinati al popolo di Kiev Romina Borla

Una donna e un uomo si baciano. Tra di loro, sul letto, un bimbo ci guarda mentre la coppia mostra due passaporti – uno russo e uno ucraino – e il dito medio. Come a dire: «Al diavolo la guerra! Noi ci amiamo». L’immagine, che circola sui social, racconta dell’insensatezza di un conflitto fratricida innescato da un autocrate in preda – sottolineava Anna Zafesova su queste pagine la settimana scorsa – alle sue manie neo-coloniali e imperiali. «Al diavolo la guerra! Noi ci amiamo» sembra dire anche una ragazza russa che abita nel Luganese. È una delle tante persone che si sono mobilitate in Ticino per recuperare beni di prima necessità (dai vestiti agli alimentari, dai medicinali ai combustibili) da portare in Ucraina e in Polonia, dove si stanno ammassando i profughi. L’abbiamo trovata seguendo la via dei social, in particolare il profilo Instagram Ticinoperlapace (ma attualmente sul territorio ci sono parecchi gruppi che raccolgono aiuti). Ci spiega: «All’iniziativa – lanciata da due ragazze ucraine, Dasha e Katia – hanno aderito persone di diverse origini e nazionalità. Ci sono ucraini appunto, ma anche ticinesi, italiani, russi come me… Uniti per dare un forte segnale di solidarietà a chi resiste, nonostante tutto». La popolazione ha risposto con grande generosità all’appello, dice la nostra interlocutrice. «Il telefono squilla in continuazione, dalle 6 di mattina fino a sera. Siamo stati inondati dai prodotti di ogni tipo. All’inizio stoccavamo la

merce nei garage, alcuni hanno messo a disposizione le loro case che si sono trasformate in depositi». Sarà che l’aggressione all’Ucraina – geograficamente vicina, parte del Continente europeo – ha scosso le coscienze dei ticinesi molto più di altri conflitti in corso... «Azione» ha visto lo spazio davanti ad un’abitazione di una delle volontarie inondato di scatole e il via vai di automobili desiderose di scaricare bauli pieni zeppi. «Più che vestiti adesso servono medicinali e cibo», informa Dasha. «Seguite la pagina Instagram Ticinoperlapace per capire di cosa si ha bisogno e dove si trovano i punti di raccolta». Intanto i volontari si sono messi in contatto con l’ambasciata ucraina a Berna, dove hanno portato una parte degli aiuti (che si sono andati a sommare a quelli provenienti da tutta la Svizzera). Ce lo dice Gideon, la cui moglie Svitlana ha origini ucraine. «La grande partecipazione sorprende e commuove. Si sono fatti avanti privati, ditte, associazioni, comuni, istituti scolastici ecc. E le aree di raccolta si sono moltiplicate su tutto il territorio». A dir la verità ora regna un po’ di confusione. Settimana scorsa sono partiti dal Ticino alcuni furgoni carichi di beni di prima necessità destinati al popolo di Kiev (e non solo collegati a Ticinoperlapace). «Abbiamo anche riempito un camion con 12 tonnellate di merce destinata ai profughi giunti a Korczowa, in Polonia», spiega Gideon. «E stiamo pensando di fondare un’associazione no profit per organizzare le attività al meglio».

Quattro consiglieri federali per spiegare la decisione. (Keystone)

to la candidatura della Svizzera a diventare membro non permanente del Consiglio di sicurezza dell’Onu per i prossimi due anni. La candidatura è stata inoltrata l’anno scorso e la decisione verrà presa in giugno dall’Assemblea delle Nazioni Unite. Infine non ha pregiudicato ulteriormente i delicati rapporti con l’Unione europea. Come è noto, queste relazioni sono peggiorate lo scorso mese di

maggio, dopo la decisione del governo elvetico di abbandonare l’accordo istituzionale che per più anni era stato al centro di un negoziato. Poco tempo fa il Consiglio federale ha elaborato una nuova proposta, con la quale tenta ora di salvare la via bilaterale. Sono in corso sondaggi per capire quale potrebbe essere la reazione della Commissione europea al nuovo tentativo. Una reazione che potrebbe interveni-

re nelle prossime settimane e che potrebbe essere influenzata anche dalle varie posizioni emerse nei confronti dell’invasione russa. Resta da vedere ora quale potrà essere l’efficacia delle sanzioni adottate e, quindi, quale sarà l’apporto elvetico alla comunità internazionale, impegnata nella difesa dell’Ucraina. Molto dipenderà dal modo in cui le sanzioni verranno applicate. Dalla maniera con la quale verranno colpiti quei gerarchi che fanno parte della cerchia del potere russo intorno a Putin, che hanno depositato miliardi nelle banche svizzere, che hanno acquistato ville nei più bei posti del paese e che inviano i loro figli nelle scuole private elvetiche. La Svizzera è un’importante piattaforma per le operazioni finanziare russe e per le società russe attive nel commercio delle materie prime. Nel 2020 i cittadini e le società russe detenevano in Svizzera circa 10 miliardi di franchi. Certo, le sanzioni contro i gerarchi e le banche russe non basteranno a frenare Putin. Per questo, probabilmente, ci vorranno sia l’eroica resistenza del popolo ucraino sia una forte opposizione all’interno della società russa. Sono però un segnale forte in difesa dei valori di libertà e di democrazia, sui quali si fonda il convivere del mondo occidentale e che sono in contraddizione con tutte le forme di dittatura e di oligarchia. Annuncio pubblicitario


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ATTUALITÀ

Quei rapporti ambigui con gli oligarchi

Dentro le immagini

Londongrad ◆ Boris Johnson fa di tutto, almeno a parole, per sottrarre la megalopoli britannica alla sua immagine di parco giochi per i Paperoni vicini a Vladimir Putin Cristina Marconi

Londra piace a tutti i milionari, ma ai russi ancora di più. E la città negli anni si è lasciata fare, tanto da guadagnarsi il soprannome di Londongrad. Ma ora il premier Boris Johnson sta facendo di tutto per sottrarre la megalopoli britannica alla sua immagine – e forse solo a quella, secondo i detrattori – di parco giochi per i Paperoni vicini a Vladimir Putin, visto che proprio nella guerra il leader del Partito conservatore sta trovando un tonico per una carriera politica che tutti, fino a qualche settimana fa, davano per spacciata. Solo che gli annunci roboanti di nuove misure drastiche, come la creazione di una «cellula anti-cleptocrazia», nulla aggiungerebbero agli strumenti già a disposizione, secondo il «Financial Times». Basterebbe applicarli, usare quello che c’è, per invertire quella tendenza a chiudere un occhio sull’origine delle ricchezze che invadono la città. E, nonostante i proclami, anche l’opposizione ha notato una certa lentezza iniziale nell’agire contro gli oligarchi, che negli Stati Uniti e nell’Ue si sono già visti applicare pesanti sanzioni senza indugi. Anche Londra ci arriva, ma coi suoi tempi.

Nella guerra Boris Johnson sta trovando un tonico per una carriera politica che tutti, fino a qualche settimana fa, davano per spacciata La città, come raccontato da David Cronenberg nel suo film Eastern Promises, è stata negli anni teatro di attività illecite e casi internazionali da film di spionaggio, come l’avvelenamento al polonio del dissidente Aleksandr Litvinenko nel 2006 o quello al gas nervino dell’ex agente Sergei Skripal a Salisbury nel 2018. Oltre al suicidio del magnate Boris Berezovsky nel 2013, su cui in tanti ancora hanno dei dubbi. Ogni volta i vari governi hanno fatto la voce grossa con Mosca, che però ha sempre negato ogni coinvolgimento nonostante i sospetti e la conclusione di un’inchiesta secondo cui Putin e i servizi segreti sapevano dell’omicidio Litvinenko. Fino a ora contro l’opacità degli affari russi a Londra è stato fatto ben poco, anche perché

Belgravia’s Eaton square conosciuta anche come Piazza Rossa dai residenti russi a Londra. (Keystone)

le élite russe hanno una presenza capillare nei piani alti della società del Regno Unito, mandano a studiare i loro rampolli nelle grandi scuole private, sfruttano il mercato dell’arte e dell’antiquariato per arredare le loro dacie e alimentano gli affari nel settore degli immobili di pregio. Pensiamo ai due appartamenti da 11 milioni di sterline dell’ex vice di Putin, Igor Shuvalov, il cui nome non era neppure sulla lista iniziale delle persone da sanzionare, come notato dal leader dell’opposizione Keir Starmer. Tra le varie misure, il governo del Regno Unito ha escluso le società russe dal suo mercato dei capitali, dove dal 2010 hanno raccolto 39 miliardi di sterline, e ha proibito la vendita di titoli di debito sovrano del paese, attività in realtà già ridimensionata dopo l’annessione della Crimea nel 2014. Nel mirino delle sanzioni ci sono un centinaio di persone, ma anche qui gli osservatori hanno lamentato un cer-

to lassismo. Grazie a nuove misure che entreranno, nel migliore dei casi, in vigore tra un anno e mezzo, verrà messo un tetto a 50mila sterline per i fondi che i russi possono depositare nelle banche britanniche e sarà impossibile comprare una casa a Londra usando una società di facciata: bisognerà fornire il proprio nome. «Perché stiamo dando ai compari di Putin ben 18 mesi per trovare dove riciclare serenamente il loro denaro fuori dal mercato immobiliare britannico, in un altro porto sicuro?», ha chiesto il leader laburista Starmer durante il Question time in Parlamento. Per dare una risposta rapida al conflitto non è molto, gli effetti rischiano di sentirsi nel tempo. Beffarda, ma certo più immediata, è la proposta del sindaco di Leopoli, Andriy Sadovyi, che ha suggerito piuttosto di mettere i rifugiati ucraini nelle magioni londinesi, da dove i figli di alcuni membri del circolo ristretto di

Putin stanno twittando messaggi di pace e il loro scontento per la guerra. La figlia del portavoce del Cremlino Dimitri Peskov, per dirne una. Tutti gli occhi, ora, sono puntati su Roman Abramovich. Il più in vista tra gli oligarchi ha annunciato la decisione storica di vendere il Chelsea, la squadra di cui è proprietario da 19 anni, e di devolvere i proventi alle vittime della guerra in Ucraina. Mikhail Fridman, fondatore di Alfa Bank, tra gli uomini più ricchi della Russia e proprietario di una magione da 65 milioni di sterline a Highgate, si è visto i suoi asset congelati insieme alla sua quota in LetterOne, una società che ha partecipazioni in vari gruppi in Europa. Nato in Ucraina, con la famiglia ancora nel paese, era stato il primo a denunciare lo «spargimento di sangue» e la tragedia in corso, aggiungendo, in una lettera ai dipendenti, che «la guerra non potrà mai essere la risposta».

Le immagini che arrivano dall’est colpiscono i nostri cuori, soprattutto quelle che riguardano i più piccoli. Un bimbo, in fuga dall’Ucraina con alcuni parenti, che racconta di come il padre sia rimasto per aiutare «i nostri eroi», asciugandosi in continuazione le lacrime. Un altro che non scappa e passa le sue giornate a raccogliere bottiglie di vetro per produrre molotov insieme alla mamma. I rifugi sotterranei degli orfanotrofi: neonati e bambini di tutte le età stipati in spazi grigi e angusti accanto alla disperazione delle educatrici. La solitudine di una famiglia rinchiusa nel suo appartamento che finge di non sentire i colpi delle bombe avvicinarsi: «Mio figlio è affetto dalla sindrome di Down. Soffrirebbe troppo sottoterra, con il caos e tutti quei rumori...». E poi ci sono le istantanee che fanno sperare che il mondo sia migliore di come lo vediamo di questi tempi. Ad esempio la scena di un soldato russo – forse prigioniero – che piange mangiando un panino e bevendo un tè in mezzo a una folla di ucraini. Una donna gli concede il suo telefono per chiamare casa, magari sua madre che sarà in pensiero. Il video, pubblicato dal britannico «Sun», mostra lo sgomento del giovane mentre una voce fuori campo dice, in ucraino: «Non è colpa di questi giovani, non sanno perché sono qui. (…) Hanno mappe vecchie, si sono persi». Mentre diversi analisti occidentali sottolineano che fra le truppe russe mandate al fronte non mancano episodi di scoraggiamento. Che dire poi dell’anziana signora, russa, scesa in strada a San Pietroburgo per protestare contro una guerra ingiusta? Ha in mano dei cartelli, uno dei quali recita: «Soldato, lascia cadere la tua arma e sarai un vero eroe!». Decisa, senza un minimo di paura negli occhi nemmeno quando degli agenti la portano via, tra l’indignazione della folla. Il suo arresto – filmato dai presenti e pubblicato sui social – è stato ripreso dai media e ha suscitato scalpore, data l’età avanzata della donna. Come lei molte persone, in Russia, finiscono dietro le sbarre per avere espresso la loro contrarietà al conflitto voluto da Putin: giovani, anziani e persino bambini stando ad alcune fonti. Sogniamo: se questa situazione portasse a un graduale «risveglio» del popolo russo e a un radicale cambiamento politico? / RB Annuncio pubblicitario

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ATTUALITÀ / RUBRICHE

Il Mercato e la Piazza

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di Angelo Rossi

Alla fine solo spese

Le banche cantonali sono, indipendentemente dal loro statuto di oggi, istituti che, nel corso della loro lunga storia, hanno cercato di tener conto dell’interesse pubblico e di essere al servizio della popolazione. Per esempio in diversi cantoni, tra i quali il Ticino, esse, ancora oggi, versano una buona parte dei loro profitti allo Stato. Due anni fa la maggiore banca cantonale, quella del canton Zurigo, ha festeggiato il 150esimo anniversario della sua fondazione. I suoi dirigenti e il suo consiglio di amministrazione, coscienti dei legami che la banca, da sempre, intratteneva con la popolazione del cantone, avevano deciso di offrire alla stessa, in quell’occasione, una nuova funivia che avrebbe, per un certo periodo di tempo, attraversato il lago, dal Zürichhorn, sulla sponda destra, al Mythenquai su quella sinistra. L’idea non era nuova. Una funivia del genere era già stata costruita per l’e-

sposizione nazionale del 1939 come pure nel 1958 per l’esposizione Saffa, la cosiddetta esposizione nazionale delle donne. La banca cantonale, riproponendo nel 2017 la costruzione della funivia che traversava il lago di Zurigo, credeva quindi di dar continuazione a una tradizione che aveva avuto, le due volte precedenti, un grande successo. Ma aveva fatto i conti senza l’oste. Purtroppo l’attitudine favorevole a progetti del genere, che era prevalsa, nel 1939 e nel 1958, ha infatti da tempo lasciato il posto, nella popolazione zurighese, a un atteggiamento molto più distaccato e critico nei loro confronti. Così la Banca cantonale di Zurigo, che aveva promosso con grande passione il progetto per il suo giubileo, si trovò sin dalla prima presentazione confrontata con un’opposizione che, sicuramente non aveva immaginato potesse esistere. Nella popolazione l’entusiasmo del passato

Affari Esteri

per la realizzazione di progetti tecnici avveniristici aveva lasciato il posto a un atteggiamento di preoccupazione per le possibili conseguenze nocive che la costruzione e il successivo esercizio degli stessi potevano causare. Contro il progetto si pronunciarono, dall’inizio, le associazioni di protezione dell’ambiente. Ottenuta una prima vittoria presso il tribunale che aveva giudicato il loro ricorso contro la licenza di costruzione, esse conseguirono, di recente, un giudizio a loro favorevole anche dal tribunale amministrativo del cantone. Come il tribunale di prima istanza, anche questo tribunale ha deciso che senza l’iscrizione del progetto nel piano direttore cantonale lo stesso non poteva venir realizzato. Il giudizio di seconda istanza ha indotto i responsabili della banca a rinunciare al progetto perché, nel frattempo, l’anno del giubileo, ossia il 2020, era già passato e perché le

procedure necessarie per modificare le schede del piano direttore potevano trascinarsi ancora per qualche anno. Per un osservatore esterno appare sorprendente che, data l’importanza del progetto, un istituto nel quale i legali non sono una specie rara, non sia stato in grado di cautelarsi rispetto alle esigenze che poteva porre la pianificazione cantonale, prima di rendere noto il progetto all’opinione pubblica. L’ingenuità dei responsabili della banca può essere spiegata solo con il fatto che essi erano pienamente convinti che la popolazione avrebbe accolto con entusiasmo il progetto. Interessante nel giudizio del tribunale amministrativo di Zurigo è anche l’apprezzamento sul progetto di funivia come possibile nuovo magnete turistico per la plaga del lago di Zurigo. Il tribunale amministrativo di quel cantone ha ritenuto che, in una valutazione globale, gli interessi dei promotori del

progetto erano da reputare inferiori a quelli della salvaguardia del paesaggio. Preso atto di questo giudizio, la Banca cantonale di Zurigo ha deciso, come si è già ricordato, di archiviare definitivamente il progetto di funivia attraverso il lago. C’è chi pensa che l’atteggiamento avverso alle novità architettoniche e urbanistiche sia una prerogativa di Zurigo. Secondo noi, però, l’esito di questa controversia giuridica attorno a un progetto con forte impronta turistica potrebbe avere ripercussioni anche su altri progetti di funivie, attualmente allo studio o, addirittura, già in fase di pianificazione definitiva in altri cantoni. Ricordiamo infine che, richiesti di stimare il costo dell’operazione fallita, i responsabili della banca hanno affermato che si trattava di una somma di qualche milione di franchi. Alla fine, quindi, per loro, il progetto del giubileo non ha generato che spese.

di Paola Peduzzi

L’errore di Putin e la schizofrenia dei repubblicani ◆

Joe Biden, settimana scorsa, ha tenuto il suo primo discorso sullo Stato dell’Unione, in ritardo rispetto al calendario valido da decenni, a causa della pandemia. Non immaginava che si sarebbe ritrovato a parlare di guerra. Il presidente americano ha spiegato che l’invasione russa dell’Ucraina è un attacco a tutto l’Occidente, che la risposta è stata unita e forte perché in gioco c’è il sistema democratico occidentale e che Putin non sa «che cosa lo aspetta». Probabilmente uno degli errori di calcolo del presidente russo è stato pensare: Biden non farà niente, cercherà la mediazione a ogni costo. Il ritiro dall’Afghanistan, nel suo caos brutale, ha fatto sì che il mondo si convincesse che l’America aveva perso la voglia non solo di fare il poliziotto del mondo ma pure di sembrarlo. Secondo gli esperti che cercano di decifrare che cosa pensa e vuole Putin, le pressioni sull’Ucraina, fin dal dislocamento dei soldati, si basavano

sull’idea che gli americani non avrebbero reagito, se non con la durezza minima consentita dall’indignazione internazionale. Non è andata così: Biden ha spinto per una nuova strategia d’intelligence, con la complicità del capo della Cia, William Burns, che è un ex diplomatico, è uno che da sempre usa le informazioni a disposizione per costruire una tattica negoziale. Ma poiché la guerra d’informazione è stata vinta dal 2014 a oggi da Mosca, anche le continue denunce da parte di Washington sui movimenti delle truppe di Putin sono state relegate nelle solite categorie imposte dalla Russia: gli americani cercano un pretesto per fare la guerra perché sono guerrafondai e russofobi. Poi Putin ha invaso e si è visto chi mentiva e chi no, ma a giudicare dalla prima settimana di conflitto sembra quasi che il presidente russo sia rimasto vittima della sua stessa propaganda: ha pensato che l’Occiden-

te fosse davvero finito, e non si è accorto che invece si stava riallineando con una forza e una determinazione senza precedenti. Biden ha guidato un’offensiva sanzionatoria determinata, l’Ue si è accodata e ci ha aggiunto del suo, infine anche le aziende private hanno iniziato il loro boicottaggio. L’obiettivo è chiaro: l’isolamento della Russia. Gli strumenti sono chiari: il soffocamento dell’economia russa da perseguire in ogni modo evitando l’intervento militare, i boots on the ground. Il governo di Kiev insiste, vuole anche un coinvolgimento militare, spinge sull’America, chiede una no fly zone che per il momento è del tutto esclusa: sarebbe una dichiarazione di guerra alla Russia. Biden si ritrova per questo attaccato sia da chi dice che non fa abbastanza sia da chi dice che fa troppo. Intanto i repubblicani, cioè l’opposizione, sono divisi e la faglia è sempre determinata dall’ex presidente Donald Tru-

mp. Il quale ha colto ogni occasione per elogiare Putin e mai nessuna per condannarlo: certo, c’è dell’imbarazzo dalle parti di Trump. Il suo primo impeachment riguardava le pressioni che la Casa Bianca fece proprio sull’Ucraina e sul presidente Zelensky per ottenere informazioni sul figlio di Biden. Ricorderete i dipendenti di Trump, ambasciatori e non, che davanti al Congresso raccontarono come l’allora presidente aveva giocato con la dipendenza di Kiev dall’America per ottenere vantaggi personali. I repubblicani erano in maggioranza e l’impeachment non fu votato, ma quella storia assieme al Russiagate e al Rapporto Mueller hanno fatto sì che il putinisimo di Trump facesse il suo ingresso in un partito che era stato in passato anche molto falco nei confronti della Russia. La schizofrenia del Partito repubblicano va in onda ogni giorno su «Fox news», la tv del trumpismo, dove si

alternano quelli che Putin non lo condannano a prescindere, e si limitano a dichiarazioni di circostanza, e quelli che invece dicono che non si è fatto abbastanza per far capire al presidente russo che ogni attacco alla democrazia si paga (a volte i trumpiani che non considerano l’assalto al Congresso del 6 gennaio un attacco alla democrazia si ritrovano contro Putin). A tenere uniti tutti c’è l’opposizione a Biden che comunque è, nella narrazione dei repubblicani, troppo debole e inadatto a qualsiasi cosa, che sia negoziare (capitolazione!) o mettere sanzioni (troppo poche!), fino a che il ciclo non si chiude e si ritorna al caposaldo del trumpismo: Biden non è un presidente legittimo. In questo circo, il presidente degli Usa lavora per tenere unito il fronte occidentale, studia i prossimi passi a seconda dell’escalation di Putin e prova a spiegare all’Ucraina che una no fly zone non si può fare. Non oggi, non ancora.

Zig-Zag

di Ovidio Biffi

Siamo al cambio di paradigma ◆

Ognuno di noi ha già i suoi guai. E, da più di due anni, ha anche la percezione che questi guai siano in aumento, vista la drammatica successione di quanto il mondo è chiamato a combattere. Sino a poche settimane fa potevamo far risalire e addebitare le nostre angosce e le nostre paure, più che ad altre contingenze (dai ritardi nelle riprese delle economie sino ai problemi di denatalità, perdita di valori, mutamenti climatici ecc.), a una pandemia che… tutte le colpe porta via. Ora improvvisamente siamo nella fantasmatica condizione di non pensarci quasi più! Non perché la pandemia sia effettivamente debellata o superata, ma solo perché soppiantata, disintegrata quasi, da un inatteso cambio di paradigma politico che riporta in auge la messa in pericolo e la parallela perdita dei principali diritti universali, quindi della convivenza

pacifica. In poche parole: siamo passati dalla paura per la nostra salute fisica minacciata da un virus, a quella di vedere minacciate, più o meno direttamente, tutte le nostre libertà individuali. E questo perché il presidente della Russia Vladimir Putin ha deciso di togliere la sua maschera e di confermarsi dittatore pronto a usare il suo nazionalismo rafforzato da oligarchia e potenza militare, da sempre sottostimate o tollerate dall’Occidente, per intromettersi nel gioco delle superpotenze avviato l’autunno scorso da Stati Uniti e Cina. Mi scuso di rubare spazio a colleghi e politologi che in questi giorni con tesi e spiegazioni hanno fornito i primi commenti sull’attacco all’Ucraina. Mi limito a toccare solo un aspetto «collaterale» del mutamento intervenuto: le diversità rispetto al passato, in particolare quelle riscontrabili nei paral-

leli fra l’invasione avviata da Putin a fine febbraio in Ucraina e l’Anschluss che comunemente indica l’annessione dell’Austria decisa da Hitler il 13 marzo 1938, ma che in senso lato segna l’avvio dell’espansionismo nazista. I confronti fra le due azioni di guerra in realtà presentano notevoli differenze, fra le quali spicca quella fra l’atteggiamento dei due paesi: l’Austria quasi d’accordo se non contenta di salire sul carro nazista al termine di un lungo periodo di recessione economica e di contribuire ad allargare la spinta nazionalista di Hitler; l’Ucraina invece prontamente contraria ai disegni imperiali di Putin ed eroicamente decisa a difendere un’indipendenza a malapena salvata nel 2014 e di nuovo minacciata dal brutale intervento di chi comanda al Cremlino. Non a caso, e questo amplia la differenza, contro la barbara baldanza autoritaria di Putin

si è subito issata la serenità di spirito e la fermezza civile del suo omologo ucraino Zelensky, un «politico per caso» capace però anche di dire a Biden – che lo invitava a lasciare il paese, quindi in buona sostanza anche ad assecondare Putin – che lui «chiedeva sostegni contro i russi e non un passaggio». La diversità fra Hitler e Putin è poi segnata anche dal fatto che mentre il dittatore nazista ha iniziato l’espansione territoriale sospinto dalla folle ideologia del nazismo e dal sogno di imporre una «germanizzazione» a tutta l’Europa, Putin con l’attacco all’Ucraina cerca di colmare il vuoto ideologico su cui ha potuto costruire dapprima la sua ascesa politica e in seguito il suo dominio oligarchico, sopprimendo (si pensi solo alla Cecenia o a Navalny) ogni forma di opposizione e contestazione. A questo punto il discorso contempla

inevitabilmente anche le nostre colpe. Soprattutto quelle di un Occidente illuso che, in cambio delle centinaia di miliardi che Putin stesso e i suoi scherani spendevano in tutto il mondo in yacht, residenze sfarzose, acquisizioni mafiose o depositati in conti bancari segreti, la Russia non avrebbe mai chiesto ai nostri governi e alle nostre coscienze l’accondiscendenza per un attacco alla sovranità di un’altra nazione. Un Occidente talmente miope da impiegare settimane persino a capire gli allarmi dell’amministrazione Biden sui preparativi militari in atto («Putin bluffa» rassicuravano i tuttologi) e che solo davanti alla resistenza eroica del popolo ucraino ha capito che l’unica via era quella di ricompattarsi per dare a Putin risposte politiche e strategiche credibili, in linea con il cambio di paradigma drammaticamente aperto.


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CULTURA ●

Florian Illies racconta il suo romanzo Lo scrittore tedesco ci guida alla scoperta di protagonisti e comprimari della scena artistica e letteraria berlinese degli anni Trenta.

Storie di resistenza culturale da Kiev La produttrice e curatrice dei Docudays UA di Kiew Darya Bassel ci racconta l’impatto della guerra sul mondo culturale ucraino

Dopo il trionfo a Vienna l’OSI torna al LAC Il prossimo giovedì 17 marzo Krzysztof Urbanski dirigerà nella sala luganese le musiche composte da John Williams per Star Wars

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Spring Town: Berks Co Pa! grafite su carta ondulata. (F.A. Brader 1881, Hirschl & Adler Galleries, New York / Swiss American Historical Society Review, Vol. 51, 2015, No. 1, Art.2)

Un mondo di grafite

Personaggi ◆ L’incredibile vicenda di Ferdinand Arnold Brader, lo svizzero di Kaltbrunn che emigrò in America e dedicò la sua vita a ritrarre la realtà rurale dell’America di fine Ottocento Benedicta Froelich

Vi sono pochi universi apparentemente più contrastanti e distanti tra loro di quanto possano esserlo definiti le alpi svizzere e le sterminate pianure agricole dell’heartland americana. Eppure, vi è stato un artista di nazionalità elvetica (purtroppo spesso dimenticato e ignorato dai suoi stessi connazionali) la cui vita fu dedicata proprio a coniugare tra loro questi microcosmi, da molti considerati come agli antipodi – e a fungere da vero e proprio ponte tra due mondi tuttora, di fatto, poco affini. Ferdinand Arnold Brader, questo il suo nome, era nato nel 1833 a Kaltbrunn, cittadina del Canton San Gallo, e fin da bambino aveva imparato a conoscere quel mondo agricolo di cui avrebbe poi ricercato l’equivalente nella seconda parte della sua vita, una volta emigrato oltreoceano. Ma prima di allora, avrebbe trascorso a Kaltbrunn ben quarant’anni di vita, praticando la professione di intagliatore del legno e specializzandosi nella realizzazione di forme per dolci, poi utilizzate nella panetteria di famiglia, aperta dalla madre dopo la morte prematura del marito Johann Baptist; e fu sempre a Kaltbrunn che, nel 1860, Brader convolò a nozze con Maria Katharina Karolina Glaus, da cui avrebbe avuto un figlio, Carl Ferdinand.

I pochi indizi che si hanno sulla vita dell’artista suggeriscono che, negli anni trascorsi in Svizzera, fosse divenuto estremamente abile nell’intaglio di decorazioni sempre più complesse e intricate, impreziosite da veri e propri virtuosismi – almeno fino al 1879, anno in cui il suo nome appare per la prima volta su suolo americano, per la precisione in Pennsylvania, dove era apparentemente emigrato in solitaria qualche tempo prima (nulla si sa della sua famiglia dopo il trasferimento negli Stati Uniti).

Lo sguardo pieno di meraviglia di Ferdinand ha immortalato per la posterità quella che oggi viene spesso definita come «architettura vernacolare» americana Purtroppo, al pari di quanto accadde in quegli anni a molti europei diretti verso la tanto favoleggiata America, il futuro di Brader era destinato a essere contrassegnato da autentica povertà, e dalla necessità ad adeguarsi alla mancanza di beni di sussistenza basilari; infatti, anche a causa della salute cagionevole, Ferdinand si sarebbe spesso ritrovato a trascorrere lunghi periodi invernali nelle cosiddette «poor hou-

ses», specialmente alle Portage County e Stark County Infirmaries (Ohio). Nonostante ciò, fu proprio in terra americana che egli divenne un vero artista, producendo, tra il 30 ottobre 1879 (data del suo primo disegno ufficiale) e il 1895, circa un migliaio di opere monocromatiche realizzate a matita, tutte meticolosamente datate, firmate e titolate; nell’ultima parte della sua carriera, aggiungerà inoltre alla semplice grafite i pastelli, completando anche una serie di opere a colori. All’epoca Brader non poteva averne idea, ma il suo lavoro avrebbe finito per divenire di grande rilevanza storica, assumendo il valore di vera e propria documentazione di prima mano della vita nel cuore dell’America rurale di fine Ottocento – quell’America da lui percorsa mentre, in qualità di artista itinerante, visitava famiglie di immigrati tedeschi o svizzeri, realizzando disegni e dipinti in cambio di vitto e alloggio. Passando da una proprietà all’altra attraverso gli Stati adiacenti della Pennsylvania (dove viaggiò dal 1879 al 1884) e poi dell’Ohio (in cui, tra l’84 e il ’95, soggiornò soprattutto nella contea di Stark), Brader ritrasse i campi agricoli e le fattorie dei proprietari terrieri delle zone e townships da lui attraversate – realizzando suggestivi, e

per molti versi struggenti, paesaggi dal gusto quasi fiabesco, che si distinguono, tra le altre cose, per la straordinaria capacità dell’autore di dare vita a visuali aeree, colte da punti di vista sopraelevati ai quali certo non poteva avere accesso: un esempio su tutti, il piccolo capolavoro venduto per 12’500 dollari dalla nota casa d’aste Christie’s nel 2015 e intitolato Residenza di Henry e Priscilla Heisa, Jackson Township: Stark County, Ohio (1888). Per non parlare dell’unico manufatto di Brader non eseguito su carta, lo splendido Werley Family Quilt, il cui elaboratissimo disegno ricamato fu originariamente concepito e disegnato a matita su una tovaglia in un giorno del 1890 in cui, di passaggio nel villaggio di Osnaburg, Ferdinand si fermò a chiedere un piatto caldo nella casa dei Werley – per poi lasciarsi alle spalle un piccolo capolavoro. In questo modo, Brader è divenuto uno degli esponenti più interessanti della folk art americana: i suoi quadri, solo apparentemente ingenui o naïf, sono in realtà caratterizzati da un taglio personalissimo, contraddistinto da suggestioni quasi oniriche, che sembrano infondere un senso di vera e propria sacralità al mondo da lui ritratto, portando chi li osserva a «perdersi» letteralmente nei mille dettagli. Lo sguardo pieno di meraviglia

di Ferdinand ha immortalato per la posterità quella che oggi viene spesso definita come «architettura vernacolare» americana, fatta di granai, fienili e fattorie, persi in immense distese di campi coltivati che, come oceani le cui acque siano increspate dal vento, si stendono a perdita d’occhio fino a toccare l’orizzonte. E chissà se nel 1896, quando fece infine ritorno in Svizzera dopo aver ricevuto notizia della morte del fratello Franz Aloys, Brader provò nostalgia verso le terre in cui aveva vissuto così tante esperienze; forse non riuscì più a sentirsi davvero a casa tra le antiche montagne e pascoli, dato che, nel corso dell’anno 1900, si persero del tutto le sue tracce, e le autorità di San Gallo furono costrette a dichiararlo ufficialmente scomparso: un destino che, incredibilmente, nel 1919 sarebbe toccato anche al figlio Carl Ferdinand, sparito nel nulla nel medesimo cantone. Oggi, il mistero della vita austera e discreta di Brader, congedatosi con appena un silenzioso inchino dopo aver realizzato un’opera unica quanto misconosciuta, non fa che enfatizzare l’unicità non solo del suo lavoro, ma anche dell’amore che provava per il mondo intorno a sé – un amore tuttora trasmesso a chiunque abbia la fortuna di (ri)scoprirne l’opera.


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CULTURA

L’amore al tempo dell’odio Incontro

Lo scrittore tedesco Florian Illies racconta il suo romanzo uscito in italiano per Marsilio

Stefano Vastano

«Gli storici ci hanno spiegato tutto di quel periodo, ma non il modo di vivere le relazioni e gli amori negli anni 20 e 30». Siamo in un ristorantino al centro di Berlino. Un locale molto semplice, ma di cui Florian Illies si è innamorato, visto che «qui ho letto e scritto, continua lui, la maggior parte delle pagine del mio libro sugli amori alla fine degli anni 20». Stiamo parlando con uno scrittore e giornalista ancora giovane e in carriera (oggi Illies è co-editore del settimanale «Die Zeit»), ma che ha già sfornato veri best seller. Non è un’esagerazione. Il suo primo libro «storico», 1913, dedicato a quel fatale anno prima della Grande Guerra, è già stato tradotto in 27 lingue (in italiano da Marsilio). Anche L’amore al tempo dell’odio, edito da Marsilio e uscito in libreria a metà febbraio, sarà di sicuro un best seller. Perché Illies – che ha studiato storia dell’arte – si è nuovamente dedicato con passione «a ricostruire una delle fasi più felici del Novecento, e forse dell’umanità», come dice lui con verve. Quegli ultimi anni 20 per l’appunto in cui a Parigi come a Berlino – le due metropoli più effervescenti dell’Europa fra le due guerre – uomini e donne scoprono altre forme di amare, prima che l’Europa si avviti nell’immensa catastrofe della Seconda guerra mondiale. «Mi sento come l’ultimo dei romantici», continua Illies, «sono incredibilmente innamorato dell’Italia e di quella meravigliosa città che è Napoli». Probabilmente perché suo padre, che era un entomologo e amico di Ernst Jünger, si è ritrovato con l’uniforme della Wehrmacht a dover combattere nella carneficina di Monte Cassino. Anche l’ufficiale Jünger – uno che a sua moglie impone di chiamarlo «padrone e signore» – è uno dei protagonisti del libro in cui, uno dopo l’altro, vediamo sfilare «gli eroi» della letteratura e del cinema, dell’arte e teatro di quegli

anni ruggenti e infuocati. Incantati li vediamo inventarsi tutto un nuovo modo di viversi le relazioni extra-coniugali, dei ménages à trois, tradire in continuazione mogli, mariti e amanti e cercare disperatamente nuove avventure, altre fiamme da bruciare. «A tutti era chiaro che all’orizzonte incombeva una nuova tragedia. E quasi tutti i protagonisti del libro sono più o meno segnati dalla ecatombe della Grande guerra». È questo essere scampati a una Catastrofe che rende il giovane Bertolt Brecht o la divina Marlene Dietrich, il poeta-dermatologo Gottfried Benn così come il gelido Herman Hesse «delle personalità “fredde”, che hanno paura di affidarsi all’altro, spiega Illies, e che si cingono intorno all’anima una sorta di corazza emotiva per proteggersi dai rischi dell’avventura amorosa». Ciò che oggi chiameremmo insomma «coolness» non è un’invenzione post-moderna, ma la «matrice» con cui in quegli scatenati anni 20 intellettuali e Bohémien si vivono le storie d’amore. Il giorno stesso in cui sposa Helene Waigel, Brecht – 30 minuti dopo aver detto «Ja!» – è alla stazione di Berlino per porgere alla sua amante il bouquet delle nozze. Brecht, convinto com’è del suo genio, «è un vampiro che risucchia alle amanti linfa vitale», questa la diagnosi di Illies. Ma il caustico drammaturgo dell’Opera da tre soldi non è certo l’eccezione. Anche Lotte Weill ama il suo Kurt Weill, il grande compositore dei drammi di Brecht. Ma lo tradisce per anni con Otto Pesetti, e insieme Lotte ed Otto bruceranno ai casinò di Nizza e Monte Carlo i soldi che il buon Kurt non manca mai di spedirgli. Neanche uno scrittore raffinato come Erich Maria Remarque – l’autore di All’occidente niente nuovo, il romanzo che più di ogni altro segnerà quella generazione – riuscirà mai a conquistare Marlene Dietrich, la femme fatale che, con il suo Angelo

Un primo piano di Florian Illies, classe 1971, storico dell’arte di formazione, scrittore, giornalista e co-editore del settimanale «Die Zeit». (© Patrick Bienert 2019)

Azzurro, incanterà prima i tedeschi e poi Hollywood. «Le donne di quegli anni stanno conquistando la loro autonomia nel campo dell’arte, del cinema e della poesia. Non hanno più bisogno di essere dipendenti dall’uomo», spiega Illies. Oltre a una certa freddezza emotiva è questo l’altro tratto che rende gli anni della Repubblica di Weimar «la fase forse più felice di tutto il Novecento», sintetizza Illies. L’emancipazione delle donne fa saltare non solo le catene del maschio, ma consente anche a Klaus Mann o a Erika

Mann, come vediamo in tante «scene» biografiche del libro, di viversi in piena libertà la loro omosessualità. Ma è proprio questa liberazione nei costumi e regimi sessuali che la bieca propaganda nazista «sfrutterà» sino in fondo, indicando nella società di Weimar «quella decadenza borghese che i nazisti odiarono e perseguitarono», prosegue Illies, «e il piccolo borghese dell’epoca fu pronto a seguire l’ondata di odio con cui i nazisti seppellirono la prima Repubblica nata su suolo tedesco». È così che le società si spaccano

al loro interno. E che un periodo che ha conosciuto tante libertà e passioni tramonta in una disumana stagione di odio crudele. «Ed è questo repentino passaggio il motivo per cui ho voluto scrivere il mio libro, conclude Illies, e che specialmente oggi ci spinge a riaccostarci agli amori e all’odio di quel decennio». Bibliografia Florian Illies, L’amore al tempo dell’odio. Una storia sentimentale degli anni trenta, Venezia, 2021, Marsilio.

L’anima degli altri torna in libreria Letteratura

Per Cliquot è uscita la riedizione dell’opera con cui la scrittrice, poetessa e partigiana italiana esordì nel 1935

Laura Marzi

La riedizione di un testo di cui sono rimaste poche copie, magari pressoché introvabili, è sempre un evento gioioso. Quando si tratta, come in questo caso, della prima opera di Alba de Cespedes, allora è un piccolo miracolo. La casa editrice Cliquot, da anni attiva nel ripubblicare opere di grandi scrittrici escluse dal canone, ha riedito L’anima degli altri, la raccolta di novelle con cui de Cespedes esordì nel 1935, appena ventiquattrenne. Si tratta di diciotto racconti che descrivono un’epoca lontana, che la scrittura di de Cespedes rende viva agli occhi di lettrici e lettori, come accade col testo d’apertura, nel quale incontriamo il personaggio di Marco Stolfi, disperato, a casa dello scrittore Dario Cordero. Si trova lì per implorarlo di modificare la trama del romanzo, che sta uscendo a puntate proprio sul giornale che lui è abituato a leggere ogni mattina. Stolfi spiega a Cordero che il protagonista di quel racconto è un suo doppio, che vive esattamente la sua stessa vita. Per questo, se quel personaggio deciderà di compiere una scelta disastrosa, an-

che lui allora sarà costretto a farlo. La novella esplicita una concezione della scrittura come saccheggio della realtà, che troviamo anche nel racconto Il capolavoro: chi scrive per de Cespedes è un ladro, che prende dalla vita nel tentativo, coi suoi libri, di vincere la morte, ma così ruba anche a sé stesso, perché trascorre tutto il proprio tempo intento a raccontare ciò che gli altri sentono sulla propria pelle. In questa prima prova di de Cespedes, nella quale è già in atto il talento strepitoso dell’autrice, ritroviamo un modo di raccontare che è molto raro: un soffermarsi sui personaggi e le personagge, sulle loro azioni, certo, ma anche sulle intenzioni e sui sentimenti, senza ricorrere mai a uno stile cervellotico. Chi legge non si imbatte in uomini e donne fatti di soli pensieri, né d’altra parte si trova di fronte a un racconto scritto per esprimere il punto di vista dell’autrice, come capita nei libri di narrativa attuale, spesso di un individualismo inscalfibile. Per esempio, in La camicia da sposa conosciamo il desiderio di Mario per Elena, che viene raccontato con tale naturalezza,

che la risata di scherno della ragazza, nella sua semplicità, risulta essere la risposta perfetta a un sentimento tanto potente quanto astratto, quale l’amore impossibile dei ragazzini. Il riso come simbolo di incomprensione e quindi di grande solitudine è pro-

Alba de Cespedes mentre legge un libro, 1963. (Keystone)

tagonista anche nel racconto Il tempio chiuso. Qui viene descritto un tradimento, ma de Cespedes decide di rappresentare l’incredulità disperata del protagonista Carlo, circondandolo dal suono di risate che rendono ancora più evidente la sua condizione di uomo ingannato. De Cespedes racconta anche la felicità: nel testo La casa sul laghetto azzurro Mitì, che ha combattuto con i suoi genitori per sposare l’uomo che amava, anche se non corrispondeva secondo loro al miglior partito, accoglie nella sua casa di compagna una sua vecchia compagna di liceo. All’inizio prova vergogna di sé, del suo abito macchiato di marmellata, del suo viso struccato e ammira la bellezza curata dell’amica, sentendosi fortemente a disagio. Appena, però, smette di concentrarsi su vestiti e gioielli, percepisce l’assenza di gioia nella vita dei suoi ospiti e gode ancora di più della sua scelta radicale. Mitì ha infatti abbandonato la città e le norme dell’alta borghesia per vivere in campagna. Nei racconti di de Cespedes il vero e unico accesso alla felicità è la con-

templazione della natura e la possibilità di vivere a contatto con la meraviglia del creato. È evidente anche nella novella Arsura, in cui la giovane Mariella approfitta del fatto che i familiari stiano facendo la siesta e si avventura nei campi intorno alla casa. Ciò che colpisce, particolarmente in questo racconto, non è solo la visione idilliaca della natura, cara a tanti autori e autrici di tutti i tempi, ma la scrittura di de Cespedes, la sua capacità di trasportarci in quel quadretto bucolico, di renderlo reale ai nostri occhi, di ricreare nelle pagine la luminosità abbagliante di un primo pomeriggio nel Mediterraneo. Stupisce nella raccolta, infine, la consapevolezza rispetto alle relazioni, alle dinamiche tra uomini e donne, all’amore, la lucidità mai cinica con cui, appena ventiquattrenne, de Cespedes raccontava la realtà umana e le beffe di Dio. Bibliografia Alba de Cespedes, L’anima degli altri, Cliquot edizioni, 2022, pp. 134.


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CULTURA

Dalla Sala d’Oro di Vienna al LAC Musica

Il 17 marzo al LAC Krzysztof Urbanski dirigerà le musiche di John Williams per Star Wars

Enrico Parola

La sequenza sembra studiata da un abile regista: prima le luci e gli ori della sala che da sola vale un Oscar per chi vi suona e che nell’ambito della musica classica segna l’evento più mediatico e televisivo al mondo; poi un concerto dedicato ad alcune tra le musiche da film più spettacolari, conosciute e amate dal pubblico di ogni parte del pianeta. Il 18 febbraio l’Orchestra della Svizzera Italiana ha coronato la sua tournée internazionale sul palco della Sala d’Oro del Musikverein di Vienna, da cui ogni 1° gennaio i Wiener Philharmoniker augurano buon anno a tutto il mondo al ritmo dei valzer della famiglia Strauss. Poco più di due settimane fa il direttore musicale della formazione ticinese Markus Poschner aveva scelto di affrontare una sfida ardua, guidando i suoi musicisti negli abissi spirituali ed estetici della sesta sinfonia Patetica di Ciajkovskij; sfida ampiamente vinta, a considerare l’entusiasmo con cui il pubblico ha salutato l’esibizione dell’OSI, un successo che certifica il livello raggiunto dall’orchestra e il valore del percorso che Poschner sta tracciando attraverso l’universo sinfonico del compositore russo. Con un balzo transatlantico e attraverso un ponte che solo le note sanno creare da due mondi tornati drammaticamente contrapposti, da San Pietroburgo si volerà a Hollywood: giovedì 17 marzo alle 20:30 al LAC Krzysztof Urbanski dirigerà le musiche composte da John Williams per Star Wars. «Non bisogna pensare che sia un concerto pop, così come non bisogna pensare che questa sia musica da entertainment, di puro diverti-

L’OSI lo scorso 18 febbraio sul palco della Sala d’Oro del Musikverein di Vienna.

Al LAC con «Azione» «Azione», mette in palio alcuni biglietti per il concerto dell’OSI diretta da Krzysztof Urbanski e con Dejan Lazic al pianoforte che si terrà al LAC giovedì 17 marzo 2022. Per partecipare al concorso inviare una email con oggetto «Urbanski al LAC» all’indirizzo giochi@azione. ch con i propri dati (nome, cognome, indirizzo, numero di telefono), oggetto «OSI e Urbanski» entro le 24.00 di mercoledì 9 marzo 2022. Buona fortuna!

mento: è un concerto assolutamente e completamente classico, perché spero che tra venti o trent’anni questa musica sarà considerata classica e sarà entrata nel repertorio a fianco di Brahms o Beethoven» puntualizza il maestro polacco. «Non a caso non sarà una serata monografica, ma abbiamo deciso di accostarvi uno dei concerti per pianoforte più amati ed eseguiti, il secondo di Rachmaninov (solista Dejan Lazic, ndr.), perché il pubblico possa rendersi conto di quanta poca differenza ci sia». Nonostante nel corso del Novecento a scrivere per il grande schermo siano stati giganti come Sergej Prokof’ev, che un genio nel cui catalogo classico

figurano centinaia di brani come Nino Rota abbia legato indissolubilmente il proprio nome a Federico Fellini e che Ennio Morricone abbia scritto per il cinema note oggi suonate dalle orchestre di mezzo mondo (basti pensare a Gabriel’s Oboe da Mission, ma lo stesso si può dire di Williams, ad esempio col tema principale di Schindler’s List, inciso da Perlman), «oggi la definizione “da film” viene ancora intesa con accezione peggiorativa, di contro alla musica “assoluta”; invece sono sicuro che se Rachmaninov fosse vissuto più a lungo sarebbe diventato uno dei compositori cult di Hollywood». D’altronde secondo il direttore è lo stesso Williams a scrivere adottando stilemi classici: «Usa il leitmotiv, melodie legate a un personaggio o a una situazione, come faceva Wagner. Pensiamo alle tre note associate a Darth Vader, che per la prima volta si ascoltano ne L’impero colpisce ancora: tre note che nella loro semplicità sanno esprimere la banalità del male e la brutalità del carattere. E dopo vent’anni, quando girarono i primi tre episodi, quando compare Anakin, che poi diventerà Darth Vader, le tre note rintoccano sotterranee, come una passacaglia, mentre in superficie scorre una melodia dolciastra». Non solo i temi, ma la loro veste sinfonica è classicissima: «Williams scrive per grande orchestra, abbonda con percussioni e ottoni, e infatti non avrei mai osato affrontarlo con l’Osi se non avessi avuto prova della straordinaria abilità dei suoi professori, ad esempio suonando con loro la sinfonia Dal Nuovo Mondo di Dvorak o i Quadri di un’esposizione di Musorgskij».

Di muse ispiratrici e di clown In scena

Nel locarnese una produzione teatrale vivace che convince e fa riflettere

Pasolini, voce corsara

Smart TV ◆ A cento anni dalla nascita la RSI dedica all’intellettuale una serata speciale Marco Züblin

Libertà intellettuale, eccentrico impegno civile, pensiero critico: Pier Paolo Pasolini è stato uno straordinario intellettuale, il cui accidentato e troppo breve percorso esistenziale ne testimonia l’alterità. Fu ecumenicamente «corsaro», cioè non assimilabile, anche quando mise a fuoco le distorsioni della modernità. Pasolini lascia un segno alto, che merita ricordo e affettuosa tutela, nella poesia, nella saggistica, nel romanzo, nel cinema, nel teatro, non solo di area italiana. Più che giusto che la RSI giovedì scorso gli abbia dedicato una serata televisiva (che fa il paio con quanto proposto dalla Rete Due) in occasione del centenario della nascita; azzeccata la scelta di affidarla a Sandra Sain, che ha il passo giusto, elegante e profondo, per trattare temi come questi. Fabio Pusterla, che ben conosce Pasolini e il contesto in cui operò, ha offerto una serie di importanti chiavi di lettura per l’esplorazione di un universo complesso, di un Pasolini in perenne conflitto con i tempi (modernizzazione, distruzione

Pilar in uno degli intensi momenti musicali della serata.

Giorgio Thoeni

Questa settimana ci occupiamo di due spettacoli andati in scena nel locarnese, un’area geografica che sembra distante anni luce dall’eliocentrismo luganese. Eppure anche da quelle parti accadono cose. Magari sporadiche. Certamente significative. Con un sottile filo a unire origini e modi nella diversità, come una comune matrice di teatro fisico incontrato alla scuola di Verscio che si rimodella su altre forme. Il primo sipario si apre su Stefania Mariani, artista presente da anni sul territorio con StagePhotography proponendo spettacoli incentrati sulla narrazione. Con il recente Straordinaria tu! visto al Teatro del Gatto di Ascona, scritto con Laura Mella e diretto da Jean-Martin Roy, la Mariani disegna il profilo di tre figure femminili esplorando l’unicità delle loro

personalità attraverso vicende biografiche. L’americana Emily Dickinson, la svizzera Ella Maillart e la napole-

L’artista Stefania Mariani durante lo spettacolo Straordinaria tu! in scena al Teatro del Gatto di Ascona.

tana Filumena Marturano: tre donne che sembrano non avere nulla in comune ma che sono unite dall’atteggiamento che hanno avuto nei confronti della vita. Una forza che la Dickinson, nel suo volontario isolamento, tradusse in quartine memorabili, passionali e intimiste, sulla natura, l’amore, la spiritualità, diventando un’icona della poesia. Tinte forti anche per l’avventurosa Maillart, fotoreporter, viaggiatrice, riferimento per l’autodeterminazione femminile. Come la figura della Marturano che, sebbene nata dalla fantasia di Eduardo, si lega alle altre due vite vissute controcorrente rispetto ai modelli sociali. Sola in scena, la Mariani trasmette il piacere di una narrazione senza fronzoli, una teatralità garbata, quasi sottovoce, dove anche l’uso della lingua di-

venta un misurato esercizio attorno a personaggi che hanno ancora molto da insegnarci. Degno di nota anche Zum Polarstern …zweite Strasse links (Per la stella polare …seconda strada a sinistra) della lucernese Priska Elmiger. Il lavoro, creato nel 2021 per il Master in Teatro Fisico, è stato riproposto a Verscio con la regia di Mikaela Hasan. Elmiger sviluppa il suo personaggio a cavallo del mondo stralunato e innocente del clown sfruttando la musica, immagini filmate e proiettate su uno schermo nell’incontro con la fisicità del reale: metafora della ricerca di un posto in una società omologata. L’equilibrio teatrale della Elmiger parte dal dettato di Lecoq, attraversa altre esperienze e approda in Ticino con un progetto maturo, interessante, nel complesso meritevole.

del mondo contadino, periferie, proletariato) e con le proprie pulsioni, e che praticò varie forme espressive per meglio raccontare le ragioni e i contorni della sua immedicabile alterità. Una serata arricchita da materiali d’archivio, dalle canzoni di Pasolini proposte da Pilar e dagli interventi degli attori Silvia Gallerano e Ascanio Celestini; tutti, in modi diversi, raccolgono l’eredità pasoliniana. Si è proseguito con La ricotta (1963), il capitolo pasoliniano (che tanto assurdo scandalo suscitò) di un film a episodi che riuniva anche Godard, Rossellini e Gregoretti. Infine, il bel documentario RSI del 1967, Le confessioni di un poeta, realizzato da Fernaldo Di Giammatteo. L’offerta della RSI, nello specifico, deve essere salutata per l’intelligente attenzione nel ricostruire un profilo che, in questi tempi di ignoranza e di strumentale semplificazione, fa riandare a tempi più vivaci e stimolanti. Annuncio pubblicitario

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CULTURA

Classe 1985, studi in lingua e letteratura tedesca a Odessa, Darya Bassel dal 2011 è programmatrice e coordinatrice del Docudays UA International Human Rights Documentary Film Festival di Kiev. Qui a sinistra, sorridente, sul set di un suo film, in basso un suo primo piano.

«Continueremo a fare film in un paese libero»

Intervista ◆ Darya Bassel, produttrice e curatrice del Docudays UA International Human Rights Documentary Film Festival, ci racconta la resistenza culturale di Kiev e le peculiarità della scena cinematografica ucraina Giorgia Del Don

«È un’illusione pensare che la cultura non sia politica» afferma Darya Bassel senza tanti giri di parole. Produttrice e curatrice del Docudays UA International Human Rights Documentary Film Festival di Kiev, ho avuto la fortuna di conoscerla durante una mia partecipazione al Festival nel 2019. Un festival importante per la documentaristica e più in particolare per l’industria cinematografica ucraina sostenuta e promossa dal festival che ne rivendica un’unicità non sempre riconosciuta a livello internazionale. Come ci racconta Darya, i film ucraini sono spesso, a torto, uniti a quelli russi o comunque marginalizzati insieme alle altre cinematografie «di nicchia». Il suo statement sulla funzione dell’arte che va ben oltre la sfera estetica acquisisce oggi, alla lu-

ce dei vari boicottaggi della cultura russa a livello internazionale, tutto il suo significato. Emblematica è la recente decisione presa dal curatore e dagli artisti russi selezionati per rappresentare il loro paese alla 59esima Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia di annullare la loro partecipazione a causa dell’invasione dell’Ucraina. Fra sostenitori e oppositori di un tale veto la questione non solo solleva polemiche ma fa riflettere quanti preferirebbero continuare a mantenere distinte l’arte e la politica. Cosa significa vivere a Kiev in questo momento? Sono partita da Kiev la sera del 24 febbraio, il primo giorno dell’attacco russo. La sera precedente stavo ancora lavorando con i miei amici e colleghi di Tabor Production al nostro pitch. Dovevamo presentare il nuovo film Butterfly Vision (conosciuto con il titolo Spas) di Maksym Nakonechnyi all’Ukrainian cinema market. Abbia-

mo parlato molto della possibilità di un attacco russo, ma nessuno voleva davvero crederci. Molti dei miei colleghi registi e giornalisti, sono rimasti a Kiev, fra questi Maksym Nakonechnyi e Olha Zhurba, regista con cui abbiamo collaborato alla realizzazione del suo primo lungometraggio Outside (che sarà presentato in prima mondiale questo mese al CPH:DOX di Copenaghen). Olha è rimasto a Kiev per filmare la quotidianità di una città in guerra insieme ad altri registi coraggiosi che vogliono raccontare quanto sta accadendo, vogliono raccogliere le prove dell’aggressione russa affinché nessuno possa mai rimetterla in dubbio. I miei colleghi di Docudays UA stanno cercando di organizzare degli eventi o dei programmi speciali in altri festival o su piattaforme di VOD. Il sostegno della comunità internazionale legata al mondo dei film documentari è incredibile! Ma è complicato, le persone devono nascondersi nei seminterrati per ripararsi dai bombardamenti. Non riusciamo a dormire, mangiare, a pensare in modo lucido. Anche prima dell’invasione russa, quali erano i rischi ai quali vi esponevate per organizzare il vostro festival sui diritti umani? L’Ucraina non è la Russia, è un paese indipendente con la sua specifica e ricchissima storia culturale. Il clima politico, i problemi sociali dell’Ucraina e della Russia sono diversi. La politica del governo russo in materia culturale non ha quindi mai influenzato il nostro festival. Prima della rivoluzione ucraina del 2014 proiettavamo molti film russi durante il nostro festival, invitavamo registi russi a far parte della nostra giuria, li sostenevamo, nel limite delle nostre capacità, nella lotta contro il regime oppressivo del loro paese. La rivoluzione ucraina del 2014 ci ha aperto gli occhi sulla dinamicità, la ricchezza e l’importanza del nostro paese. Personalmente, ho capito che dovevamo focalizzarci maggiormente sulla nostra cultura sostenendone lo sviluppo. Abbiamo quindi dedicato molto tempo e molti sforzi per spiegare alla comunità culturale internazionale che l’Ucraina e la Russia non sono lo stesso paese. Ci siamo poi occupati della promozione dei film documentari ucraini affinché i nostri colleghi potessero rendersi conto del numero incredibile di registi e del loro talento, dell’unici-

tà del loro linguaggio cinematografico. Erano i tempi in cui le forze russe occupavano Donetsk e Luhansk e la macchina propagandistica mentiva per persuadere il mondo che si trattava solo di un conflitto locale, di una guerra civile. Ora il mondo si è reso conto della realtà. È arrivato il momento di nutrire la cultura, la lingua e

la cinematografia ucraina, di ascoltare le sue voci. Putin non prenderà mai il potere, continueremo sempre a fare i nostri film e la nostra arte in un paese libero e indipendente. Cosa ne pensi del boicottaggio dei film russi? Sostengo completamente il boicot-

taggio dei film russi da tutti i festival e dagli eventi culturali finché la guerra non cesserà. È un’illusione pensare che la cultura non sia politica. Tutto è politico in questo momento. Le strategie messe in atto per lottare contro la crudeltà di Putin devono essere impiegate anche in ambito culturale e artistico. Annuncio pubblicitario


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CULTURA / RUBRICHE

In fin della fiera

di Bruno Gambarotta

Essere vivi è un cosa straordinaria ◆

Non avete nostalgia dei necrologi sulla carta stampata? Io sì. Ignoro se sono stati sostituiti da quelli online perché non vado su Facebook, ma comunque non sarebbero la stessa cosa. Sono stato un lettore precoce dei quotidiani. Da giovane leggevo tutto il giornale ma non i necrologi. Mia madre invece sì, la ricerca dei necrologi era il suo primo gesto dopo che si era impossessata della copia del giornale. Rientrati a casa, seduti al tavolo di cucina per il pranzo, se nostra madre iniziava a parlare dicendo: «Vi ricordate di…» proseguendo con il nome e cognome di qualcuno, si poteva essere certi che, dopo essersi assicurata che il ricordo era affiorato in tutti i presenti a forza di accumulare episodi significativi della sua vita, avrebbe concluso il suo intervento affermando con granitica certezza: «Beh, è morto!». Trascorso qualche decennio ho iniziato anch’io a leggere i necrologi. È

successo quando mi sono trasferito per lavoro a Roma; era quello l’unico modo per tenere aggiornato il registro dei partenti fra i torinesi di mia conoscenza. Talvolta si presentava la necessità di capire se il nome del defunto corrispondeva alla persona che avevo conosciuto o se si trattava di semplice omonimia, in quel caso soccorrevano a sciogliere i dubbi i nomi dei parenti e degli amici che piangevano il de cuius agitur. Da lì a leggere le frasi di commiato è stato un passo e un altro passo fatale è stato il mettermi a trascrivere su una vecchia agenda le più originali. Non sono l’unico a coltivare questa forma di perversione non so quanto innocente e quando incontro un confratello ci scambiamo necrologi come altri si scambiano le figurine. Tempo fa un vecchio cronista della «Stampa» mi ha regalato: «È volato in cielo con la sua auto» e io in cambio gli ho dato: «È scompar-

Un mondo storto

so dentro il suo letto» che fa pensare a un ammalato a letto che si rimpicciolisce un po’ ogni giorno finché un bel mattino vanno a portargli la colazione e scoprono che anche quel poco non c’è più. C’è anche chi smette di volare: «Ha chiuso le ali, dopo aver lottato strenuamente fino alla fine come era suo costume di irriducibile combattente». Sono affascinanti i messaggi rivolti al defunto e che solo lui è in grado di comprendere fino in fondo: «Il migliore dei miei risotti sarà sempre dedicato a te e alla nostra eterna amicizia»; «Ricordati di quel foglietto appeso, ciao…»; «So che un giorno ritorneremo insieme sulla nostra jeep. Ma questa volta… guiderò io», da cui si desume che il defunto aveva qualche problema con la guida. C’è chi lotta strenuamente per trovare la frase giusta e poi si arrende: «Quello che scelgo o non scelgo di scriverti mi

sembra inutile e so che è lo stesso per te». Si citano frasi del defunto: «Dicevi: la vita è un castigo, la morte è un premio. Dio ti ha premiato». Un piccolo ma significativo numero di partenti pensa a scrivere il proprio necrologio prima dell’addio. Questo che segue è sublime: «In un’ora qualsiasi di un giorno qualunque è deceduto A.E.». Troviamo frasi che riassumono una vita: «Alla costante ricerca di un modo di vivere, si è spento…»; «Visse guardando alla morte. È morta guardando alla vita». Modelli di sintesi: «Credette, amò, servì». Talvolta si chiede soccorso alle citazioni, messe in corsivo, come la seguente: «Va Ignacio. Non sentire il caldo bramito. Dormi. Vola, riposa. Muore anche il mare». Non è firmata ma quell’Ignacio e quel bramito ci mettono sulla strada di Federico Garcia Lorca e del suo Cuerpo presente: «Vete Ignacio: No sientas el caliente bramido». Ci

sono necrologi destinati a pochi eletti: «L’Associazione Radioamatori Italiani partecipa al dolore della famiglia per la morte del socio I3QNY». Il dolore dei vivi è espresso in tutti i gradi di intensità, compresi quelli al minimo sindacale: «Ecco, anche questa è fatta. Andiamo avanti. Rosa Bianca P.Z. inizia un’altra vita». Qualcuno ha le idee chiare sull’aldilà: «B.S. se ne è andato dove non fa mai freddo, dove le donne cantano e gli orologi sono tutti riparati». Se ne deduce che questo B.S. avendo dimostrato una precoce attitudine a riparare orologi, era stato assillato per tutta la vita dagli amici che gli portavano quelli guasti perché li facesse funzionare di nuovo. E a gratis, naturalmente! Ecco un messaggio che il defunto ha voluto lasciare ai superstiti: «… so con certezza pressoché assoluta che essere vivi è una cosa straordinaria». Ci puoi scommettere.

di Ermanno Cavazzoni

La sfortuna di vincere alla lotteria ◆

Un modo che il destino ha per punirti è farti vincere una grossa somma alla lotteria di stato. Tutti credono sia una fortuna; invece, dati statistici alla mano, è una grande disgrazia. Se uno potesse scegliere conviene vincere una sommetta che ti permette di cambiare il frigorifero, senza intaccare il tenore quotidiano di vita. Uno è soddisfatto, ha ricevuto un regalino dalla sorte, e resta quello che era, cioè una persona qualunque. Si può arrivare anche a 500 mila euro, compra l’appartamento, magari la casa al mare, che equivale a un aumento di stipendio, visto che non deve più pagare l’affitto o le vacanze. La vita più o meno è la stessa, con un leggero benessere aggiunto; se uno ha moglie continua a tenersela; se è scapolo, con l’auto nuova trova subito moglie, cui segue un figlio o due, a limitare la decrescita della

popolazione. Cioè vita normale del giorno d’oggi. Se invece la vincita è sopra i 10 milioni, o peggio sopra i 100, la vita ne viene sconvolta. Non lo sarebbe se a vincere fosse un miliardario, che non cambierebbe tenore, il suo patrimonio crescerebbe percentualmente di poco. Ma quasi mai un miliardario compra i biglietti della lotteria; inoltre i miliardari sono pochi, quindi il caso è raro. La sorte, per il calcolo delle probabilità, fa vincere uno di basso o medio reddito, e bisogna dire che questa è la sua rovina; peggio di un terremoto o di una calamità naturale. La grossa vincita è simile a una grave malattia, anche se per la malattia c’è il sistema sanitario nazionale. Mentre nella vincita l’individuo è solo, ed è guardato con invidia e rancore, perché la fortuna è sentita come ingiustizia. In un primo tempo il fortunato è in

preda a una febbre euforica, si toglie tutte le voglie, e poiché era un poveraccio, le sue voglie sono modeste, l’auto, la villetta con l’erba rasata come una moquette, la casa vacanza, un motoscafo, che altro? vestiti, buoni ristoranti; ma il capitale cala di poco; subentra invece la paura di perderlo. Allora consulenti finanziari, ma essendo il fortunato inesperto, pensa che il consulente lo truffi, da cui angoscia, liti col consulente; si affida allora a un amico del ramo assicurazioni, ed è costui che lo truffa davvero, perché l’amico vuole solo la rovina del vincitore, che è alla sua mercé. Quindi perde soldi e perde anche l’amico e diversi amici comuni, che lo giudicano avaro perché non regala loro dei soldi. La moglie intanto chiede il divorzio e metà del suo capitale; questo avviene nel 100 per cento dei casi; nel frattempo si è licenziato dall’ufficio o dal posto fis-

so di operaio o muratore, con parole contro il titolare beffarde che gli hanno dato subito una grande soddisfazione, ma per le quali non lo riassumerebbero più. Il che trasforma il fortunato in un individuo in eterna vacanza, e come si sa la vacanza è bella quando la si aspetta, ma dopo un po’ è snervante, cui si aggiunge l’insicurezza economica, l’incomprensibilità dei meccanismi finanziari, l’ansia, l’avarizia nelle piccole cose mentre un investimento sbagliato si mangia l’altra metà del capitale. A questo punto s’apre la strada verso il suicidio, che può avvenire in due modi. Nuovi amici interessati lo convincono che il suo capitale è senza fondo, per cui va speso in allegria; e questa è la via dello sperpero, orge, macchine, donne, e molta droga, che lo portano a una specie di demenza di cui gli amici e le tante amiche approfittano, finché con gli ultimi soldi

compera una pistola e si spara. Nel 22 percento dei casi gli trema la mano, sbaglia il primo colpo e perde un occhio o per inavvertenza si spara a un piede, poi però riesce a centrarsi; se non ci riesce diventa barbone nel tre per cento dei casi attestati. Oppure, ed è l’altra strada, vuole tornare a lavorare, ma non più da dipendente. Se era muratore, avvia un’impresa edile, ma essendo ignorante e incapace di comandare, fallisce e perde tutto. Il fallimento è inevitabile, perché per dirigere si deve avere avuto il tempo di imparare. E questa seconda strada porta parimenti al suicidio, o in qualche caso, al ricovero in una struttura psichiatrica. Col che si dimostra che vincere alla lotteria è una grave disgrazia. Se nella struttura si trova bene ci resta, e assieme agli altri degenti, per consolazione, alla domenica giocano a tombola.

Voti d’aria

di Paolo Di Stefano

E se rileggessimo Vonnegut? ◆

«Il venticinque settembre milleduecentosessantaquattro, sul far del giorno, il Duca d’Auge salì in cima al torrione del suo castello per considerare un momentino la situazione storica. La trovò poco chiara. Resti del passato alla rinfusa si trascinavano ancora qua e là…». Non sono poche le occasioni in cui lo splendido incipit (6+) con cui si apre I fiori blu di Raymond Queneau continua a rivelarsi di grande attualità: e valido anche al tempo della guerra russa in Ucraina. Cambiate la data, aggiornate lo strumento ottico e vi ritroverete nella stessa esatta condizione di perplessità e di incomprensione del duca d’Auge. «Il ventiquattro febbraio duemilaventidue, sul far del giorno, Pinco Pallino accese il televisore per considerare un momentino la situazione storica. La trovò poco chiara. Resti del passato…». Quando si dice l’universalità della letteratura.

Forse però, più di Queneau, lo scrittore a cui guardare per considerare un momentino la situazione storica è un autore americano di origine tedesca di cui quest’anno si celebra il centenario: è l’antimilitarista Kurt Vonnegut, cui si devono diversi capolavori, a cominciare da Mattatoio n.5 (niente voto per i fuoriclasse). Si tratta del libro in cui Vonnegut rivive in forma un po’ distopica e un po’ schizoide, attraverso un alter ego che chiama Billy Pilgrim, l’incubo del bombardamento di Dresda del febbraio 1945 in cui morirono 30 mila persone. Vonnegut, che ne fu testimone essendo stato catturato dai tedeschi, tornò a Dresda nel 1967 e un paio d’anni dopo pubblicò il suo libro con grande successo. Per il sopravvissuto Billy, uscito folle dalla guerra dopo aver assistito al massacro, la vita è ormai insensata e indesiderata. Ma soprattutto quel che oggi ci appare sconvolgente è la confusione tempo-

rale in cui Pilgrim si trova a barcollare come proiettato in uno scenario fantascientifico: i ricordi gli provengono dal futuro, dunque sa quel che gli accadrà per averlo già vissuto, ma non riesce a far nulla per evitarlo. Vi ricorda qualcosa questo sentimento di paralisi di fronte all’ineluttabilità di una catastrofe? La vertigine di Billy non è anche la nostra? Scrivo oggi di Vonnegut per consigliare la lettura di Mattatoio n.5, ma anche perché è appena uscito un notevole volume che raccoglie le sue lettere (titolo: Tieniti stretto il cappello. Potremmo arrivare molto lontano, Bompiani). In una lettera del 1968 al Centro Reclute federale, troverete le ragioni per le quali Vonnegut era fiero che suo figlio, senza un granello di codardia, si dichiarasse un obiettore di coscienza: «Per tutta la vita gli ho insegnato a odiare l’idea di uccidere (…). Scrivo libri che esprimono il

mio disgusto per le persone che trovano facile e ragionevole uccidere». Secondo Vonnegut, che si definiva «un ateo che ama Cristo», si perse il controllo di ogni questione etica con le montagne di cadaveri prodotte dalla Prima Guerra mondiale. Il resto lo fece il nazismo, ovviamente. E il resto continuano a farlo le guerre in corso. Durante la luna di miele la sua novella sposa Jane fece leggere a Kurt I fratelli Karamazov, «il più bel romanzo di tutti i tempi»: fu il primo libro che lesse dopo la prigionia. A proposito di Karamazov e dintorni, l’Università Bicocca di Milano mercoledì scorso avrebbe voluto cancellare un corso dello scrittore Paolo Nori su Dostoevskij «per evitare ogni forma di polemica in questo momento di forte tensione» (1 a queste buone intenzioni). Per fortuna, dopo un’oretta dalla comunicazione e il pandemonio che ne stava derivando, il rettore

ha saggiamente ritirato la decisione, considerando più pacatamente che Dostoevskij non è mai stato un sostenitore di Putin. Al ridicolo non c’è mai fine. In un racconto del 2016, lo scrittore americano Odie Lindsey ricorda che un giorno del 1991, trovandosi soldato diciannovenne in Iraq arruolato per l’operazione Desert Storm, intravide un pacco anonimo di quelli che di solito non promettevano niente di buono con dentro ravioli o carne in scatola confezionati in una chiesa dell’Oregon o dell’Ohio. «La scena era questa: sabbia, una tenda, clima soffocante, il colpo di un’esplosione, un piccolo pacco ancora chiuso e io». Non c’era dentro niente, scrive Lindsey, salvo quattro libri di Vonnegut, che gli cambiarono la vita. Se rovesciassimo pagine di Vonnegut sui soldati russi in missione a Kiev? Un bel Mattatoio n.5 in caratteri cirillici?


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Scaloppine di manzo, IP-SUISSE

Scamone d'agnello M-Classic

16.50 invece di 27.70

33% Fettine di tacchino «La belle escalope» Francia, 2 x 360 g

Cervelas M-Classic Svizzera, 2 pezzi, 200 g, in self-service, 1.30 invece di 1.95

Migros Ticino

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02.03.2022 16:32:22


Pesce e frutti di mare

Prelibatezze di Fish Master 24% 1.25 invece di 1.65

Polpettone M-Classic Svizzera, per 100 g, in self-service

conf. da 2

20% 2.40 invece di 3.–

40% 8.60 invece di 14.40

Filetti Gourmet à la Provençale Pelican, MSC prodotto surgelato, 2 x 400 g

Tutti i prosciutti Tradition per es. prosciutto al forno, IP-SUISSE, per 100 g

In ve ndit a anc he al banc one

28% 1.25 invece di 1.75

30% 2.25 invece di 3.25

Fleischkäse affettato finemente, IP-SUISSE

CONSIGLIO DEGLI ESPERTI Mescolare l'olio d'oliva con la scorza di limone finemente grattugiata e versarne qualche goccia sul filetto di salmone rosolato. Altri consigli di preparazione e maggiori informazioni sono disponibili al bancone del pesce, dove i filetti vengono tagliati, marinati e confezionati sotto vuoto secondo le esigenze.

in conf. speciale, per 100 g

Prosciutto cotto Puccini prodotto in Ticino, per 100 g, in self-service

Migros Ticino

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30% 3.– invece di 4.30

Filetti di salmone senza pelle, ASC in vendita in self-service e al bancone, per es. M-Classic, d'allevamento, Norvegia, in self-service, per 100 g Offerte valide solo dall’8.3 al 14.3.2022, fino a esaurimento dello stock.

02.03.2022 16:32:38


Formaggi e latticini

Le offerte della settimana più cremose

LO SAPEVI? La Migros ha reagito alla ripetuta richiesta da parte dei clienti di yogurt meno dolci e sviluppato vari yogurt bio, tutti prodotti senza l'aggiunta di zuccheri. Finora disponibili nei gusti Mango-mela, Fruit Jardin, Exotic e ora anche Fico.

17% 1.45 invece di 1.75

20% 6.– invece di 7.50

Le Gruyère dolce, AOP per 100 g, confezionato

conf. da 3

Formaggio fuso a fette Gruyère, Emmentaler e M-Classic Sandwich, in confezioni speciali, per es. Gruyère, 30 fette, 600 g

20% 5.–

Mozzarella Galbani 3 x 150 g

invece di 6.30

20x PUNTI

Novità

–.85

Yogurt bio ai fichi senza zuccheri aggiunti 150 g

–.10

di riduzione

conf. da 4

–.90 di riduzione

Tutti gli iogurt Nostrani

Dessert Tradition Crème

per es. castégna (alla castagna), 180 g, –.95 invece di 1.05

vaniglia, caramello o cioccolato al latte, per es. vaniglia, 4 x 175 g, 4.30 invece di 5.20

Migros Ticino

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02.03.2022 16:32:51


Pane e prodotti da forno Il nostro pane de lla se ttim ne lle filiali con pane tte ria ana de lla casa: pane a lie vitazione naturale aromat ico, di spon inte ro (quasi 2 kg!) , pe r mibile età o un quar to

30% 1.60

Fontal Italiano per 100 g, confezionato

invece di 2.30

21% 2.20

Canaria Caseificio per 100 g, confezionato

invece di 2.80

15%

3.80

Tutti i tipi di crème fraîche (beleaf escluso), per es. panna acidula al naturale Valflora, 200 g, 2.20 invece di 2.60

io nz a l a t t o s c o n e s t r e s s e D r r i c c hi t o a , è f f a c n co e l l at t e p r o t e i ne d

20x

Pane Hercules, IP-SUISSE 410 g, confezionato

PUNTI

15% Tutti i Drink High Protein Oh! per es. Choco, 500 ml, 1.60 invece di 1.90

Migros Ticino

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25%

Novità

1.95

Pudding Macchiato High Protein Oh!

Michette o panini al burro precotti, IP-SUISSE

200 g

per es. michette, 1 kg, 4.30 invece di 5.75

Offerte valide solo dall’8.3 al 14.3.2022, fino a esaurimento dello stock.

02.03.2022 16:33:06


Dolce e salato

Il nostro lato dolce

conf. da 24

conf. da 6

Non è mai o t roppo pre stt o pe r un g e la

30% Tavolette di cioccolato Frey Noxana, Noir 72% o cioccolato al latte finissimo in conf. multipla, per es. Noxana, 6 x 100 g, 7.95 invece di 11.40

20% Tutti gli ovetti di cioccolato Freylini Frey in sacchetto da 200 g e 480 g, per es. Classics, 200 g, 3.90 invece di 4.90

50% 7.20 invece di 14.40

Hit 3.95

Snack Ferrero Nutella B-ready in conf. speciale, 10 pezzi, 220 g

15% 5.– invece di 5.90

Gelati da passeggio alla panna surgelati, disponibili in diverse varietà e in conf. speciale, per es. alla vaniglia, 24 pezzi, 24 x 57 ml

Kinder Cards in conf. speciale, 10 pezzi, 256 g

Con g ranulato bacc he e c roc di bric iole di bis c anti c ott o

20x

20x

PUNTI

Novità

4.90

20x

PUNTI

PUNTI

Novità

Ovetti di cioccolato Freylini Berry Crisp Frey, UTZ 200 g

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3.95

Novità

Biscotti Fiorellini Happy Easter 200 g

Uova, mezzo uovo, ovetti Lindt Connaisseurs o ovetti Lindt Lindor per es. mezzo uovo Pralinés Connaisseurs, 235 g, 17.95

02.03.2022 16:32:21


Se c ondo la ric basile se orig ine tta ale

24% 11.95

invece di 15.90

20% Leckerli finissimi

conf. da 2

22% 4.60 invece di 5.90

per es. al lampone, 330 g, 2.95 invece di 3.85, confezionato

conf. da 2

Pringles Original, Sour Cream o Paprika, per es. Original, 2 x 200 g

Hit 4.40

Popcorn Chips Kelly salati 2 x 140 g

nte Ne ll'inte re ssai g ust i d c ombinazione e to sale e ac

20x PUNTI

20% 4.65 invece di 5.85

Snacketti Zweifel Paprika Shells, Dancer Cream e Bacon Strips flavour, in conf. XXL Big Pack, per es. Paprika Shells, 225 g

20x PUNTI

Novità

2.90

Tutti i rotoli dolci non refrigerati

in conf. speciale, 1,5 kg

Novità

Blévita mini al formaggio al pepe

3.70

Blévita Salt & Vinegar Limited Edition, 228 g

130 g

Offerte valide solo dall’8.3 al 14.3.2022, fino a esaurimento dello stock.

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02.03.2022 16:32:30


Scorta

Fai le scorte e gusta

A roma dal baratt olo: la base ideale pe r og ni salsa di pomodoro

conf. da 6

20% Oli M-Classic (olio di girasole escluso), per es. olio di colza svizzero, 1 l, 3.75 invece di 4.70

conf. da 3

33% Salse Bon Chef disponibili in diverse varietà, per es. curry, 3 x 30 g, 2.80 invece di 4.20

21% 9.– invece di 11.40

conf. da 6

Tonno M-Classic, MSC in olio o in salamoia, per es. in olio, 6 x 155 g

40% 3.60 invece di 6.–

Pomodori triturati Longobardi 6 x 400 g

conf. da 3

a partire da 2 pezzi

20%

30%

Tutti gli antipasti Polli, Le conserve della nonna, La trattoria e Dittmann per es. carciofini sottolio Polli, 285 g, 2.70 invece di 3.35

Lasagne Anna's Best alla bolognese o alla fiorentina, in conf. multiple, per es. alla bolognese, 3 x 400 g, 9.– invece di 12.90

a di Cre mosa pure sv izze ro rro patate c on bu anna bio e p

20x PUNTI

conf. da 3

21% Pizza Trattoria Finizza surgelata, al prosciutto, alla mozzarella o al tonno, per es. al prosciutto, 3 x 330 g, 4.95 invece di 6.30

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Hit 4.55

Novità

Purea di patate Mifloc in conf. speciale, 4 buste + 1 gratis, 475 g

4.50

Purea di patate bio 400 g

02.03.2022 16:32:29


Bevande

Consig lio: può utilizzato anc e sse re ar ricc hire il p he pe r rose cc o

Postare e brindare

20%

33%

Tutti gli sciroppi bio

Tutte le capsule Café Royal disponibili in diverse varietà, per es. Lungo, 10 capsule, 2.90 invece di 4.40

500 ml, per es. ai fiori di sambuco, 2.60 invece di 3.30

conf. da 6

33% 3.95

Evian 6 x 1,5 l

invece di 5.95

conf. da 12

25% 13.50

conf. da 3

33% 16.65

invece di 24.90

invece di 18.–

Red Bull Energy Drink o Sugarfree, 12 x 250 ml, per es. Energy Drink

Caffè Caruso Oro, in chicchi o macinato per es. in chicchi, 3 x 500 g

Consig lio: g anc he ne lla must osa ine st ra

20% Tutte la quinoa, le lenticchie, i ceci e il couscous bio (prodotti Alnatura esclusi), per es. Quinoa Tricolore, Fairtrade, 400 g, 3.95 invece di 4.95

conf. da 6

40%

20x PUNTI

Orangina e Oasis in confezioni multiple, per es. Orangina Original, 6 x 1,5 l, 7.75 invece di 12.95

Novità

Succhi freschi Andros 1 l arancia/albicocca/carota o ananas, per es. arancia/albicocca/carota, 1 l, 4.95

conf. da 6

conf. da 4

33% Tutti i tipi di birra senz’alcol per es. Eichhof, 6 x 500 ml, 6.60 invece di 9.90

25% 5.60 invece di 7.50

Fever-Tree disponibili in diverse varietà, 4 x 200 ml, per es. Premium Indian Tonic Water

Offerte valide solo dall’8.3 al 14.3.2022, fino a esaurimento dello stock.

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02.03.2022 16:32:50


Casalinghi

La primavera a suon di pulizie

conf. da 2

conf. da 5

20% Spugne detergenti Soft 2.– invece di 2.50

r S e n z a mi c

conf. da 2

20% Cestelli o detergenti per WC Hygo in confezioni multiple e speciali, per es. Flower Clean, 2 x 750 ml, 5.60 invece di 7.–

o p l a s t i c he

a partire da 2 Pezzi

20% Tutti i detersivi e gli ammorbidenti Migros Plus per es. ammorbidente Sensitive alla lavanda, 1,5 l, 5.60 invece di 6.95

b i od

20%

a partire da 2 pezzi

33%

Detergenti Migros Plus

Tutti i detergenti Potz Xpert

in confezioni multiple e speciali, per es. Crema detergente, 2 x 500 ml, 5.75 invece di 7.20

per es. Multi Cleaner igienico, 750 ml, 4.45 invece di 6.60

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invece di 6.40

Carta per uso domestico M-Classic, FSC in conf. multipla, 2 x 1 rotolo

a partire da 2 pezzi

50% Tutti gli ammorbidenti Exelia per es. Florence in confezione di ricarica, 1,5 l, 3.25 invece di 6.50

Re alizzato con bottiglie ric iclat e de i ce nt ri di smal di plastic a timento Mig ros

V e g a no e l 9 9 % a e g radabile

conf. da 2

22% 4.95

conf. da 3

33% Detergenti Potz in confezioni multiple, per es. Calc, 3 x 1 l, 11.– invece di 16.50

02.03.2022 16:33:01


Hit 5.–

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19%

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Panni polivalenti in conf. speciale, 15 pezzi

Hit 3.95

Panni di ricambio Twist Dry XL

Strofinacci in microfibra disponibili in grigio o rosa, 30 x 37 cm, per es. grigio

3 x 20 pezzi, 11.50 invece di 14.25

conf. da 10

conf. da 12

30% 13.65

18% 6.80 invece di 8.30

invece di 19.50

Grucce appendiabiti verde

Hit 4.95

Grucce appendiabiti nero

Set di rulli per abiti Twist con 3 rulli, il set

conf. da 3

33% Sfere o candele profumate per ambiente Migros Fresh per es. sfere profumate Lemon Lime, 6.40 invece di 9.60

Hit

Hit 39.95

Stendibiancheria 165 cm x 106 cm x 108 cm, il pezzo

39.95

Asse da stiro 120 x 40 cm, il pezzo

Offerte valide solo dall’8.3 al 14.3.2022, fino a esaurimento dello stock.

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02.03.2022 16:33:14


Bellezza e cura del corpo

Lasciati sorprendere! conf. da 3

conf. da 3

conf. da 2

33%

33% 6.95

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Dentifricio Candida

Deodoranti Rexona

dentifricio Peppermint, White MicroCrystals o Sensitive, per es. Peppermint, 3 x 125 ml, 5.50 invece di 8.25

per es. roll-on Cotton, 2 x 50 ml, 3.45 invece di 4.60

invece di 10.50

Prodotti per la doccia Axe per es. Africa, 3 x 250 ml

20x PUNTI

Hit 9.80

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15% Spazzolini da denti Candida Sky Soft 6 pezzi

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Assorbenti o salvaslip Molfina

Kleenex Allergy

per es. salvaslip Bodyform Air, FSC, 2 x 46 pezzi, 2.80 invece di 3.30

salviettine cosmetiche o box, per es. box, 56 pezzi, 3.10

20x

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15.90

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Essie Gel Couture Matte Top Coat il pezzo, in vendita nelle maggiori filiali

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Novità

Mascara Air Volume 30H Mega Black L'Oréal il pezzo

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Novità

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Very Black, il pezzo

20x

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PUNTI

Novità

Siero occhi Revitalift Filler L'Oréal 20 ml

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Mascara Colossal Curl Bounce Maybelline

be l l e z za Boost e r di supe r v e g ani i c onc e nt rat

Triplo rullo pe r e ffe tt o rinfre sc a un nte imme diato

20x

17.90

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Siero L'Oréal Age Perfect Midnight

Siero CBD o Niacinamide Daytox

30 ml

per es. Niacinamide, 30 ml, 16.45, in vendita nelle maggiori filiali

02.03.2022 16:32:47


Varie

Trabocchiamo di ottime offerte

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Gel doccia Le Petit Marseillais bio verbena e limone, pesca e nettarina o arancia e pompelmo, per es. verbena e limone, 250 ml

Pe r v iso, corpo e cape lli

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26% Soda Stream Crystal nero, con due caraffe di vetro, il set

24.95 invece di 34.–

Caraffe di vetro Soda Stream 615 ml

Dado di sapone 3 in 1 per la doccia Le Petit Marseillais disponibile nella versione pesca, limone o latte, per es. pesca, 80 g

20x PUNTI

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26.95

Profumi My Looks by Wolfgang Joop

Hit 3.95

Cesto pasquale riempito con lana di legno, il pezzo

per es. Signature Woman, 50 ml

20x PUNTI

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Prodotti per la cura del viso Lavera My Age per es. crema da giorno, 50 ml, 19.95, in vendita nelle maggiori filiali

a partire da 2 pezzi

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20% Pantofole comode disponibili in nero o grigio, n. 36–41, per es. nere, n. 37, il paio

Tutto l'assortimento di alimenti per gatti Felix per es. pesce in gelatina Sensations, 12 x 85 g, 6.– invece di 7.50

Offerte valide solo dall’8.3 al 14.3.2022, fino a esaurimento dello stock.

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02.03.2022 16:32:59


Gioco e divertimento per amanti dell’ambiente 24.95

Validi gio. – dom. Prezzi

imbattibili del

weekend

Pallone da calcio ecologico Waboba Rewild il pezzo

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Set di giocattoli per la sabbia Smoby green il set

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Annaffiatoio Playgo disponibile in rosso, verde o blu, il pezzo

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Mezzi da cantiere Green Toys con accessori, per es. bulldozer, il set

Avocado bio Spagna, il pezzo, offerta valida dal 10.3 al 13.3.2022

Salmone affumicato scozzese d'allevamento, Scozia, in conf. speciale, 260 g, offerta valida dal 10.3 al 13.3.2022

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Offerte valide solo dall’8.3 al 15.8.2022, fino a esaurimento dello stock

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