Azione 11 del 9 marzo 2020

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Cooperativa Migros Ticino

Società e Territorio In Ticino le famiglie numerose sono una rarità, ne abbiamo incontrate due con 9 e 10 figli

Ambiente e Benessere Un progetto seguito dal Dipartimento federale dell’energia studia l’uso della geotermia per il raffrescamento degli spazi abitativi

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXIII 9 marzo 2020

Azione 11 Politica e Economia Vari modelli di contenimento del virus messi a confronto

Cultura e Spettacoli L’intensa amicizia tra Peter Weiss e Hermann Hesse in un carteggio edito da Dadò

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La quotidianità in tempi Il Super Tuesday di coronavirus resuscita Biden Al risveglio, il primo pensiero che sorge è: ora devo scendere nel mondo contaminato dal coronavirus. Immediatamente la quotidianità assume un aspetto diverso da quello abituale fino a due settimane fa. Salendo sul trenino (bado a scegliere un orario in cui non è troppo affollato) lo sguardo vaga in cerca di un posto in cui il dirimpettaio non sembra avere tosse o raffreddore, e se qualcuno tossisce valuto se non sia troppo secca. Salendo in redazione sto attento a premere il tasto del lift con le nocche ed evito di toccarmi bocca naso occhi. Mi lavo o disinfetto frequentemente le mani. Con i colleghi e con le persone che incontro adotto una social distance, come ci invita a fare il consigliere federale Alain Berset, quindi niente baci né strette di mano, mantenendo una distanza di sicurezza – nel rispetto della strategia nazionale di contenere e diluire il contagio nel tempo affinché le strutture ospedaliere non giungano al collasso con l’arrivo di un numero eccessivo di malati gravi. In una redazione la giornata di lavoro è composta da tanti compiti diversi, ma ovviamente siamo sempre attenti alle notizie che riguardano il Covid-19: gli ultimi bilanci in Svizzera, in Italia, nel mondo, le notizie più rassicuranti e quelle che invece preoccupano – la mente è alla continua ricerca di un equilibrio, nello sforzo di razionalizzare i timori ma nella consapevolezza di non voler banalizzare o rimuovere la realtà. Video e fotomontaggi umoristici aiutano ad esorcizzare un sottile disagio che non si riesce a cancellare del tutto. Contributi come quello di Silvia Vegetti Finzi a pagina 15 rassicurano e consolano (leggetelo!). La vita è piena di altre cose, la quotidianità in fondo è ancora quella di sempre (non conosco persone che si sono ammalate) e non c’è motivo di farsi prendere dal panico. Eppure, anche se il virus non è nel nostro corpo è ben presente nella nostra mente: il vicino sconosciuto diventa anche solo potenzialmente qualcuno che può contagiarti, si crea una distanza sociale nel senso peggiore del termine, in questa fase si bada a proteggersi e quindi a non aprirsi al prossimo, con gli amici si vorrebbe parlare d’altro, lo si fa anche, ma molto presto il discorso torna lì, al coronavirus. Se poi l’amica, docente di professione, che incontro per un aperitivo mi dice che a scuola si è trovata allievi che starnutivano o tossivano, sentendosi a disagio, il disagio diventa anche mio, e se anche affettivamente non si crea una vera distanza fra di noi il pensiero che potrebbe essere stata contagiata e quindi di esserlo poi anch’io resta in sottofondo. Ma possiamo vivere così, distanziandoci da tutto e tutti? Ad un certo punto si afferma in me un certo fatalismo: non è possibile evitare tutte le persone che in qualche modo hanno avuto contatti con la Lombardia o con persone che ci sono state recentemente, l’essere sociale che è in me si ribella ad una chiusura totale verso l’esterno e si accontenta di ridurre il più possibile i rischi seguendo alla lettera le raccomandazioni elencate sopra, che hanno comunque un effetto tranquillizzante. Ovvio, prevale la mia responsabilità verso il prossimo, la solidarietà verso la comunità e le persone più a rischio, quindi rispetto le nuove regole, sperando che così si riesca davvero a contenere il contagio, consolandomi con il fatto che in fondo ho sempre goduto di buona salute. Ma devo anche accettare il fatto che prima o poi questo coronavirus possa arrivarmi molto vicino ed avere fiducia che il mio corpo e il sistema sanitario riescano a reggere il colpo. Di certo, da due settimane a questa parte qualcosa di profondo si è modificato, c’è un tempo prima del coronavirus e ci sarà un tempo, diverso, dopo il coronavirus. La certezza che la vita possa sempre scorrere liscia, figlia di un innato senso di onnipotenza insito nella mente umana, si sgretola. Il nostro compito, di fronte a una situazione imprevedibile e per noi inconcepibile, è di trarne delle lezioni positive: svilupAllegro tempo pare la solidarietà e il rispetto verso il di Pasqua: decorazioni, prossimo, non la discriminazione e la storie e leccornie che chiusura in se stessi; capire che la vita sono il piacere della è un dono che non può mai essere dato primavera. per scontato. In fondo lo sappiamo già, ma lo dimentichiamo facilmente.

di Federico Rampini

pagina 30

Keystone

di Peter Schiesser


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 marzo 2020 • N. 11

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Attualità Migros

50 anni di collaborazione

Editoria Da mezzo secolo il nostro giornale viene stampato dalle rotative del «Corriere

del Ticino», una fiducia rinnovata quest’anno con un nuovo contratto di stampa È un traguardo importante, per il mondo della stampa in Ticino, quello che quest’anno Migros Ticino celebra assieme al Centro Stampa Ticino: da cinquant’anni il nostro settimanale viene stampato dalle rotative del «Corriere del Ticino».

Dal 2010 la nuova rotativa del centro Stampa permette di stampare 64 pagine in 38 mila copie all’ora La collaborazione fra Migros Ticino e il Centro Stampa Ticino (fino all’agosto del 2010 denominato Società editrice del Corriere del Ticino), che oltre a stampare il nostro settimanale mette a disposizione anche i poligrafi che lo impaginano, è di fondamentale importanza nella sfida a voler mantenere in Ticino la stampa dei giornali. Una sfida che la concentrazione delle testate ma anche dei centri stampa sotto il cappello di pochi editori di Oltralpe avvenuta nell’ultimo decennio, rende sempre più ardua. Quella con il «Corriere del Ticino» è una collaborazione solida, che prende avvio nel 1970. In precedenza, dalla fondazione del nostro giornale l’8 aprile del 1938 fino alla fine del 1969, Azione veniva stampato a Bellinzona, presso la Tipografia Grafica SA di proprietà della famiglia Torriani-Ma-

L’evoluzione nel tempo della nostra testata, dal 1938 al 2003. Quella attuale è del 2009.

derni. Nel 1970 ci fu appunto il trasferimento nel Sottoceneri, a Lugano. La stampa venne affidata alla tipografia Gaggini-Bizzozzero, che però faceva capo alle macchine del «Corriere del Ticino». Quando il CdT spostò la sua sede da Corso Elvezia a Lugano ai Molini di Muzzano, nel 1991, il contratto

di stampa di «Azione» venne stipulato direttamente con la Società editrice del Corriere del Ticino. E in questi anni i progressi tecnici nella stampa dei giornali hanno permesso un notevole sviluppo di «Azione». Se nel 1970 era possibile stampare un giornale di al massimo 16 pagine

La rotativa del Centro Stampa Ticino. (CdT Crinari)

(con una tiratura fra le 32 mila e le 35 mila copie), dal 1991, con l’acquisto di una rotativa Wifag 360 a due torri, divenne possibile stampare un giornale di 32 pagine in 55 mila copie settimanali. Nel 2001 venne aggiunta una terza torre alla rotativa (Wifag 370), ciò che permise di aumentare il numero massimo a 48 pagine, ma sempre solo parzialmente a colori. Il grande balzo in avanti avvenne nel 2010, quando il «Corriere del Ticino» decise di investire oltre 20 milioni di franchi per l’edificazione di un nuovo centro di spedizione e per l’acquisto dell’attuale rotativa, una Wifag 371 Evolution dotata di quattro torri. Si tratta di una macchina che permette di stampare ad alta velocità (36 mila copie all’ora) in una sola produzione 64 pagine e tutte interamente a colori, per una tiratura che da anni si aggira sulle centomila copie. Lo ricordiamo: il giornale edito da Migros Ticino non viene solo prodotto e stampato bensì anche redatto nel nostro cantone. Con il recente rinnovo del contratto con il Centro Stampa Ticino, della durata di altri tre anni, la Cooperativa Migros Ticino ribadisce il suo impegno in favore dell’economia cantonale e il suo radicamento nel territorio.

Migros news Annullamento concerti La situazione di allerta sanitaria legata al diffondersi dell’epidemia dovuta al Coronavirus sta convincendo le autorità ad alzare il livello di guardia per ciò che riguarda le manifestazioni pubbliche, con l’obiettivo di limitare le possibilità di contagio. Per questo motivo numerosi concerti programmati nel nostro cantone sono stati annullati o posticipati a data da definirsi. Tra le rassegne che hanno visto limitata la loro programmazione ci sono anche i locarnesi «Concerti delle Camelie», che abbiamo presentato nello scorso numero di «Azione». Gli organizzatori ci segnalano infatti che per decisione del Comune di Locarno le prime due serate sono state precauzionalmente annullate. Non avranno luogo quindi i concerti di venerdì 13 marzo «La bottega del caffè» con l’Ensemble Atalanta Fugiens e di venerdi 27 marzo «Le Sonate di J.S. Bach». Confermati invece gli appuntamenti previsti per venerdì 3 aprile, «Gioielli Musicali», con l’Accademia dell’Arcadia Turicum, di venerdì 10 aprile (Chiesa Nuova Locarno) «Dal Violino all’Arpa» con Flora Papadopoulos, arpa barocca, e di venerdì 17 aprile «Mozart e Beethoven: Quintetti per fiati e pianoforte» con l’Ensemble Dialoghi. Informazioni di dettaglio sull’evoluzione della situazione e sull’eventuale possibilità di recuperare i concerti saranno pubblicate sul sito: www.concertidellecamelie.com o si possono richiedere per email a: concertidellecamelie@gmail.com. Minispettacoli: errata corrige Nel numero scorso di «Azione» presentando l’ultimo appuntamento previsto all’Oratorio San Giovanni Minusio dalla rassegna Minispettacoli siamo incorsi in un errore. La data esatta per la presentazione della pièce «Libero?», proposta dai due clown Andreas Manz e Bernard Stöckli, è infatti domenica 15 marzo, con inizio alle ore 16.00. Informazioni: www.minispettacoli.ch

Appello ai soci della Cooperativa Migros Ticino Gentili cooperatrici, egregi cooperatori, nel corso della tredicesima settimana che segue questo avviso, la vostra Cooperativa procederà alle elezioni di rinnovo degli organi statutari per un nuovo mandato di quattro anni (dal 1° luglio 2020 al 30 giugno 2024): ■ 48 membri del Consiglio di cooperativa, di cui la maggioranza donne; ■ 7 membri dell’Assemblea dei delegati della Federazione delle cooperative Migros; ■ 5-7 membri del Consiglio di am-

ministrazione, fra cui il/la presidente; ■ un rappresentante della vostra Cooperativa in seno al Consiglio di amministrazione della Federazione delle cooperative Migros (il quale deve fare parte o della Direzione o del Consiglio di amministrazione o del Consiglio di cooperativa). Occorre inoltre eleggere l’Ufficio di revisione per un nuovo mandato biennale (luglio 2020-giugno 2022). Le elezioni si svolgeranno secondo le disposizioni dello Statuto del 7 giu-

gno 2008 e del Regolamento per votazioni, elezioni e iniziative della vostra Cooperativa del 2 dicembre 2015. Quali soci potete consultare questi documenti (presentando la vostra quota sociale o la tessera di socio) in tutte le nostre filiali nonché presso la sede della Cooperativa a S. Antonino. I soci della Cooperativa possono presentare proposte elettorali, che devono soddisfare le disposizioni previste dallo Statuto (art. 35) e del Regolamento (art. 27) ed essere inoltrate entro il 28 marzo 2020. Inoltre, conformemente

allo Statuto, il Consiglio di cooperativa e il Consiglio di amministrazione della vostra Cooperativa, così come il Consiglio di amministrazione della Federazione delle cooperative Migros, hanno il diritto di proporre candidature. In applicazione dell’art. 30 dello Statuto, il Consiglio di amministrazione ha nominato un Ufficio elettorale che oltre a ricevere le proposte elettorali, sorveglia lo svolgimento dello scrutinio. Esso è così composto: ■ avv. Filippo Gianoni, Bellinzona, presidente;

■ Roberto Bozzini, Sementina, membro; ■ Pasquale Branca, Giubiasco, membro; ■ Myrto Fedeli, Cadenazzo, vicepresidente; ■ Giovanni Jegen, Locarno, membro. Le proposte elettorali e tutta la corrispondenza destinata all’Ufficio elettorale devono essere indirizzate al suo presidente.

Azione

Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch

Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11

Tiratura 101’634 copie

Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31

Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch

Sant’Antonino, 9 marzo 2020 Cooperativa Migros Ticino Il Consiglio di amministrazione

Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 marzo 2020 • N. 11

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Società e Territorio Le portinerie di quartiere Sono luoghi di scambio e aggregazione, a cui rivolgersi per le piccole necessità quotidiane: l’associazione Generazione & Sinergie vorrebbe crearne una in Ticino

Tutti i rischi dell’empatia Paul Bloom, professore alla Yale University, ha pubblicato un saggio in cui invita a sforzarci di usare le nostre teste piuttosto che i nostri cuori pagina 8

La passione della cura Sarà presentato giovedì il docufilm dedicato a Joséphine Marrocco che ha portato in Ticino l’approccio canadese per accompagnare chi è affetto da deterioramento cognitivo

Infanzia e povertà Caritas ha pubblicato un documento sulla povertà infantile in Svizzera: coinvolge 103mila bambini e il doppio vive appena sopra la soglia di povertà pagina 13

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Gloria e Francesco Fraioli con i loro 9 figli: Chiara, Sara, Marta, Giuditta, Giovanni Paolo, Giacomo, Myriam, Lia e Anna. (Stefano Spinelli)

Super genitori con una squadra di figli Incontri L’esperienza di due famiglie numerose del Luganese tra gioie e preoccupazioni economiche Romina Borla Già con due figli piccoli le mattine sono complicate. Di solito ci si sveglia all’alba con manine in faccia e vocine nelle orecchie che chiedono impazienti latte e biscotti. Poi comincia la corsa per vestire l’intera ciurma almeno decentemente mentre scoppiano litigi tra fratelli e regna una ritrosia generalizzata. Passano i minuti, volano calzette e pannolini ovunque. Si inciampa di continuo in giocattoli non identificati. Alle 8.30 l’appartamento ha l’aspetto di una discarica ma si è pronti per partire, la fronte del genitore madida di sudore. Immaginatevi la stessa scena in casa di una coppia con una decina di figli al seguito… Ne esistono ancora in Ticino ma sono casi eccezionali. Il nostro, dice l’Ufficio federale di statistica, è il cantone svizzero con il tasso di natalità più bassa, con 7,2 nascite ogni mille abitanti (il tasso più elevato si registra a Friburgo, 11,2‰, mentre quello nazionale arriva al 10,3‰). Il numero medio di figli per donna in età fertile rimane stabile da qualche anno a 1,5. Ma oggi vogliamo presentarvi due famiglie in controtendenza.

Francesco e Gloria Fraioli, 40enni del Luganese, hanno 9 figli di età variabile tra 1 e 14 anni. «Una famiglia così numerosa non ce la saremmo mai aspettata», spiega lui. «Da giovani pensavamo al lavoro, al divertimento e, perché no, anche al relax. Poi ci siamo sposati e le cose sono cambiate. La vita e le esperienze ci hanno sorpreso, regalandoci tanti bambini». Li hanno sempre accolti con gioia, considerandoli dei doni. Nonostante la fatica. «Ogni giorno è un bel trambusto e le cose da organizzare sono parecchie», racconta il nostro interlocutore. «Ad esempio bisogna portare qualcuno all’asilo nido, altre alla scuola dell’infanzia, altri ancora alle elementari e alle medie. Poi andarli a riprendere ad orari differenti. C’è sempre chi chiede qualcosa. Un bel da fare fino a sera! Solo durante i fine settimana possiamo permetterci di prendercela con più calma». Per fortuna, sottolinea Francesco, i bambini tra di loro si aiutano molto. Crescono insieme. Inoltre nonni, zii e cugini abitano nelle vicinanze e possono dare una mano. «Non sono un super marito e papà ma contribuisco anch’io alle faccende domestiche e cambio pannolini

ogni giorno. Complicità e collaborazione sono necessarie in ogni famiglia, ancora di più in quelle numerose». I momenti di stanchezza, come si può immaginare, non mancano: «Mi capita di arrivare a casa stravolto dalla giornata di lavoro ma sono felice di giocare coi miei figli che sono una fonte inesauribile di emozioni e di gioia». Talvolta anche di preoccupazione? Pensiamo al lato economico... «Viviamo in un Paese che per fortuna, in un modo o nell’altro, aiuta le famiglie numerose», osserva. «Ad esempio coi sussidi cantonali, vedi quelli per la cassa malati. Certo, questi ultimi non risolvono tutti i problemi. È necessario adattarsi. Sappiamo che non possiamo permetterci il mondo ma, grazie a Dio, nella quotidianità le cose importanti non ci sono mai mancate». Nemmeno i figli di Cristina, 50enne del Luganese, che sono 10 e hanno dai 5 ai 27 anni, si sono mai lamentati della loro vita. «Certo, non si va spesso in vacanza e si accettano volentieri vestiti e giocattoli di seconda mano. Ma va benissimo così. Il problema diventa più importante quando i bambini crescono. Se – come è successo

a noi – più figli desiderano continuare gli studi, magari oltre Gottardo, non è scontato riuscire a far quadrare i bilanci. Ma con un po’ di aiuto ce la si può fare. Noi cerchiamo di vivere giorno per giorno, con l’aiuto della Provvidenza, affrontando i problemi uno alla volta e pensando a tutto quel che di positivo abbiamo costruito finora. In questo ci ha aiutato molto il nostro bambino speciale». La signora si riferisce al nono figlio, Nicolas, 10 anni e la sindrome di Down. «È proprio un bimbo felice e birichino. Gli manca giusto la parola ma è davvero recettivo. Ha aiutato noi e i suoi fratelli a cambiare prospettiva». A sentire Cristina la vita sembra una passeggiata ma – le chiediamo – non ci sono mai stati dubbi, ripensamenti, momenti di scoraggiamento? «Sì!», risponde subito. «Più di una volta mi sono domandata chi me l’aveva fatto fare (ride, ndr.). Da giovane soprattutto. Sono diventata mamma presto, prima delle mie amiche. Ho abbandonato feste e divertimento per buttarmi nell’avventura della maternità. Ho anche lasciato un lavoro che mi piaceva. Di rinunce insomma ce ne sono state. Pensi che il mio primo viaggio con mio marito l’ho fatto

quando la mia settima figlia compiva 9 mesi…». Ma nonostante tutto la nostra interlocutrice si dice felice. «È meraviglioso crescere un sacco di esserini che diventano uomini e donne con caratteristiche e personalità differenti». Caratteri che spesso si confrontano e litigano anche animatamente. «Così facendo però imparano a relazionarsi agli altri, al mondo. Per un figlio unico è più difficile. Noi genitori dobbiamo dare spazio, fidarci di loro e della loro forza». «Certo – riprende Francesco – è giusto che i bambini facciano le loro esperienze. Ma la nostra presenza e l’educazione sono fondamentali. Noi siamo un punto di riferimento, qualcuno su cui contare, in un mondo sempre più tecnologico che nasconde anche insidie. Ed esserci per tutti i nostri figli ci fa sentire vivi». «Spesso ci prendono in giro», afferma dal canto suo Cristina. «Ma non avete un televisore a casa? Sapete dell’esistenza di pillole e preservativi? Li hai fatti tutti con lo stesso uomo? Sono tante le domande assurde che ci sentiamo rivolgere. Noi però sorridiamo e andiamo avanti, sicuri che non cambieremmo la nostra con nessuna altra situazione al mondo».


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Società e Territorio

Le portinerie fanno (ri)vivere i quartieri Necessità quotidiane Da Parigi a Milano le portinerie di quartiere sono diventate delle realtà importanti

per i cittadini, l’associazione Generazione & Sinergie vorrebbe creare un proprio progetto in Ticino

Giorgia Reclari Devo ricevere un pacco ma sono raramente a casa, cerco un elettricista per una riparazione urgente ma non conosco nessuno nei dintorni, vorrei consegnare un oggetto a un amico ma non troviamo un orario che vada bene a entrambi. E i vicini? Non li vedo mai… Nelle nostre vite frenetiche, molto social ma poco sociali, spesso mancano i punti di riferimento concreti nel luogo in cui si vive. È per andare incontro a queste nuove esigenze pratiche, ma anche per ricreare luoghi di scambio e di aggregazione, che qualche anno fa in alcune grandi città sono nate le portinerie di quartiere. La prima è stata «Lulu dans ma rue» a Parigi nel 2015, un chiosco a cui rivolgersi per le piccole necessità quotidiane, dall’artigiano alla babysitter, dal ritiro pacchi alla consegna di chiavi ecc. La formula ha riscontrato un enorme successo e in poco tempo si è diffusa in altre città, tra cui Milano, dove nel 2016 è nata Portineria14, un bar-luogo di ritrovo, dove si può mangiare, fermarsi a chiacchierare, leggere uno dei libri a disposizione, ma che offre anche i servizi di portineria (deposito pacchi, chiavi, ritiro e consegna medicinali, oltre a una bacheca per gli artigiani del quartiere). Funge pure da banco alimentare, raccogliendo e ridistribuendo generi alimentari a chi ne ha bisogno. Vengono inoltre regolarmente organizzate mostre e altri eventi. «Il bilancio dal punto di vista delle soddisfazioni raccolte in

questi anni è sicuramente positivo, anche se dal punto di vista economico un po’ meno» ci dice Tina Leone, una delle tre ragazze fondatrici della Portineria. Il servizio più utilizzato fra quelli offerti? Il ritiro pacchi. L’idea e il successo delle esperienze europee ha fatto breccia anche in Ticino, dove l’associazione Generazioni & Sinergie si è attivata per sostenere e accompagnare progetti di portinerie, ma anche per avviarne uno proprio. L’associazione si occupa del fenomeno della longevità attiva e del mantenimento di buone relazioni fra generazioni. L’idea di creare una portineria di quartiere – spiega il presidente Roberto Fridel – è nata nel 2017 e si inserisce nella riflessione «Abitare bene a tutte le età» (www.generazioni-sinergie.ch). «Poi la nota esperienza francese di Lulu dans ma rue ha certamente accelerato la nostra volontà di procedere nella direzione della Portineria di quartiere». Così negli scorsi mesi l’associazione si è concretamente attivata: per definire le esigenze della popolazione è stato lanciato un sondaggio, cui hanno partecipato circa 200 persone da tutto il cantone, in prevalenza dalle aree urbane. Con quali risultati? L’età dei partecipanti andava dai 15 ai 78 anni, con una media di 45 anni. Molto diversificate le professioni. Un po’ più della metà erano persone sole e la solitudine nello svolgimento delle proprie mansioni emerge in circa il 50% dei partecipanti. In generale il 60% gradirebbe un aiuto gratuito o volontario, mentre il restante

40% si dichiara pronto a pagare qualcosa per poter usufruire dei servizi. Grande successo, evidenzia Fridel, hanno riscosso in seguito i due workshop aperti a tutti, organizzati il 18 gennaio a Locarno e il 25 a Massagno. «Gli atelier sono andati molto bene, hanno partecipato globalmente una cinquantina di persone e si sono potuti sviluppare sette diversi progetti di portineria» commenta soddisfatto il presidente. «Tutti si sono fermati per oltre 4 ore, scambiandosi le idee nei gruppi, verificandone la fattibilità tecnicoeconomica ed infine confrontando e commentando fra loro i diversi progetti di portineria. È stato indubbiamente un momento magico e noi ne siamo entusiasti». Altre persone, che hanno saputo del progetto dai media, hanno contattato l’associazione dichiarando la propria disponibilità a collaborare in progetti che dovessero trovarsi nelle loro zone di residenza. «Siamo molto soddisfatti di questo risultato che va ben oltre le nostre aspettative». In generale, commenta Fridel, dall’esperienza dei workshop è emersa la forte volontà di dare risposte ad esigenze del territorio, diverse a dipendenza di dove erano pensati i progetti. Ma soprattutto è emersa la pragmatica necessità di dover partire da qualcosa di esistente – un’attività o un esercizio pubblico già funzionante – da sviluppare poi grazie all’eventuale disponibilità di volontari, di associazioni o dell’ente pubblico. La portineria di quartiere che l’as-

Tante le idee nate nei workshop di Generazione & Sinergie.

sociazione intende promuovere è ispirata ai modelli già esistenti: nasce quindi dal basso e si costituisce attorno a un’attività che si autosostiene economicamente, (come un bar, un ristorante o un’edicola), a cui si aggregano innanzitutto servizi semplici (ma al giorno d’oggi nuovamente necessari e tipici della portineria) come il fermo posta, il deposito e ritiro di pacchi e chiavi, la spesa. Ma il servizio alla comunità del quartiere va oltre le mere necessità pratiche e la portineria dovrebbe diventare anche un luogo di incontro, aggregazione e scambio fra i residenti. «Così queste realtà arrivano a essere punti di riferimento per le persone che vivono il quartiere» commenta Fridel. Ora si tratta di passare dalle pa-

role ai fatti. «Siamo stati contattati e siamo in contatto con persone e attori in alcuni luoghi del cantone» dice Fridel, che preferisce però non fare nomi «per non citare qualcuno e dimenticarne un altro». Ma – assicura – «Generazioni e Sinergie sta valutando tre o quattro casi, sia per aiutare chi è già in qualche modo attivo e desidera coinvolgere maggiormente la popolazione del quartiere sia, dall’altro, proprio per dare vita come associazione a qualche prima realtà in quartieri che ne hanno particolare bisogno». Quindi l’associazione, oltre a continuare ad avere un ruolo di promozione sul territorio, intende valutare nei prossimi mesi l’inaugurazione di una prima portineria operativa. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 marzo 2020 • N. 11

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Società e Territorio

Meno empatia, più razionalità

Pubblicazioni Paul Bloom critica la moda di guardare (e cercare di aiutare) il mondo attraverso le storie personali

Sara Rossi Guidicelli Empatia: una parola e un concetto molto alla moda. Bisogna essere empatici per stare a questo mondo senza essere tacciati di egoisti e senza cuore: mettersi nei panni degli altri, soffrire per l’umanità in difficoltà, struggersi insieme ai protagonisti di tutte le peggiori storie del mondo. Eppure quel dolore che ti viene nella pancia quando pensi ai bambini affamati non li salverà. Li salverà piuttosto una politica intelligente e lungimirante. L’empatia può sicuramente fare leva sul pubblico: raccontare di Ahmed nella valigia darà per un attimo un po’ di angoscia a chi ascolta, ma poi serve ben altro. E attenzione: l’empatia è stata usata anche dai peggiori dittatori, che per esempio mettevano in circolazione storie di povere famiglie ariane distrutte dalla prepotenza di avidi ebrei. L’empatia è dunque uno strumento per arrivare al cuore delle persone, nel bene e nel male. Questo lo dice fra gli altri Paul Bloom, professore alla Yale University, esperto riconosciuto a livello internazionale di psicologia dell’età evolutiva, del ragionamento sociale e della morale. È appena uscito in traduzione italiana il suo recente saggio Contro l’empatia. Una difesa della razionalità (ed. LiberaLibri). Bloom mette in guardia dall’insistere proprio sull’empatia come mezzo per migliorare il mondo e i rapporti umani; l’altruismo unito al buon senso, quelli sì invece che possono davvero creare commerci più onesti, politiche più egualitarie, rapporti benefici

tra Stati, società e persone. Pensate per esempio a tutti quei camion di vestiti, scarpe e alimenti che vengono mandati dall’Europa all’Africa: questa idea arriva con le migliori intenzioni e uccide qualsiasi piccola impresa locale nel campo dell’abbigliamento, della fabbricazione di calzature e di attività rurali. Lascia l’Africa nel bisogno, nella dipendenza dagli aiuti, nel sogno di raggiungere un giorno quella Paris c’est chic che c’è scritto sulla maglietta che ti hanno dato. A ragionarci su, si potrebbe invece comprare alimenti e vestiti dall’economia locale e distribuirli, o investire in quelle fabbriche, agevolare prestiti bancari a tassi favorevoli per incoraggiare l’intraprendenza economica. «L’empatia è una buona serva, ma una cattiva maestra», dice Bloom. Altri rischi che comporta: per provare un sentimento di empatia devo identificarmi con qualcuno. In generale mi viene più facile se questo qualcuno in qualche modo mi piace, mi assomiglia, mi è vicino. Lo sanno le pubblicità: per raggiungere le emozioni di chi le guarda, usano soggetti come bambini carini o donne dagli occhi profondi. Ci piacciono, quindi vogliamo che stiano bene. Più difficile è certo raccogliere fondi per i carcerati, i drogati e i senzatetto. Per chi è diverso da noi, per chi conduce una vita che non approviamo del tutto, per chi ci sembra che «se la sia cercata». O semplicemente per gli antipatici, i lagnosi, i brutti. È giusto questo? È come dire di essere vegetariano perché gli agnellini sono carini e poi disfarsi senza remore dei pidocchi sulla

tredici volte quel numero muore a causa della malnutrizione». Per fare davvero del bene, scrive, «è necessario rapportarsi con questioni complesse e essere consapevoli dello sfruttamento che può venire da interessi in contrasto tra loro e che possono essere malvagi e rapaci. Per farlo è necessario compiere un passo indietro e non cadere nelle trappole dell’empatia. La conclusione non è che non si dovrebbe donare, ma che si dovrebbe farlo in modo intelligente, con un occhio alle conseguenze». Le convenzioni di Ginevra, ragionando unicamente su basi empatiche, non sarebbero mai nate: come posso essere tanto empatica verso i miei nemici quanto lo sono verso il mio popolo? Per decidere di trattare con umanità chi ha fatto del male a mio figlio, non posso essere io il giudice: deve farlo una legge giusta, non la mamma della vittima e non la mamma del carnefice, che tuttavia sono le persone più coinvolte empaticamente. Paul Bloom nel suo saggio cita numerosi studi che dimostrano come più una persona è empatica più chiede punizioni violente per chi ha commesso un crimine. È la razionalità, quella usata da persone oneste che pensano al bene degli altri, che invece porta a essere più equi. Perciò attenzione a non essere troppo empatici: rischiamo di cambiare marciapiede se vediamo davanti a noi un mendicante, rischiamo il burn-out se di mestiere facciamo l’infermiere e soprattutto i nostri amici hanno più bisogno di qualcuno che li faccia ridere che di qualcuno che pianga insieme a loro.

Secondo Bloom la razionalità, non l’empatia, porta ad essere più equi. (pxhere.com)

propria insalata. Un animale è un animale, la zanzara non è certo fra le più popolari ma nell’ecosistema naturale ha una funzione più importante degli animali della mia fattoria. Inoltre, se vogliamo fare qualcosa per l’emergenza ambientale, l’empatia non ci serve a molto. Le distorsioni climatiche dovute all’uomo non danno particolari dolori empatici, eppure sono importanti soggetti di discussione. Se guardassimo al problema con empatia, scrive Bloom, preferiremmo non fare nulla: infatti se si agisce, «molte vittime identificabili – persone reali per cui possiamo provare empatia – saranno danneggiate dall’au-

mento del prezzo del carburante, dalla chiusura di attività, dall’aumento delle tasse e così via. I milioni o miliardi di persone che in una non specificata data futura subiranno le conseguenze della nostra attuale inazione, invece, sono pallide astrazioni statistiche». L’empatia è miope e parziale, vede come un riflettore: punta la luce su un caso specifico e lascia il buio intorno. Paul Bloom illustra il caso di un rapimento e assassinio avvenuto negli Stati Uniti durante il genocidio del Darfur. «Ogni giorno oltre dieci volte il numero di persone scomparse nell’uragano Kathrina muore a causa di malattie evitabili, e oltre

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 marzo 2020 • N. 11

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Società e Territorio

Curare con passione

Alzheimer Sarà presentato giovedì a Lugano il docufilm dedicato

a Joséphine Marrocco che ha portato in Ticino l’approccio canadese per accompagnare chi è affetto da deterioramento cognitivo

Un paese di contrabbandieri

Storia La mostra itinerante della Fondazione

Sasso San Gottardo è ora visitabile a Ponte Tresa Daniela Delmenico

Una scena del documentario Joséphine Marrocco (a destra, ndr.), la passione della cura. (Multimedia Dynamic Group)

Stefania Hubmann Inizia dallo sguardo rivolto alla persona l’attitudine con la quale si accompagna chi è affetto da deterioramento cognitivo. Valorizzare il qui ed ora, cogliere l’attimo presente, oltre ad essere più rispettoso dell’individuo, ne facilita l’accompagnamento. Lo testimonia Joséphine Marrocco, infermiera di origine francese che ha scoperto l’approccio denominato proprio Carpe Diem nel 2008 durante un convegno in Francia. Dopo averne approfondito la conoscenza in Canada, dove è nato negli anni Novanta, lo ha portato in Ticino nell’ambito della sua attività sia nelle case per anziani, sia a livello di insegnamento alla SUPSI. Appassionata del suo lavoro e di questo approccio che privilegia la relazione umana nella sua essenza, nonché nella sua naturalezza, Joséphine Marrocco è protagonista di un docufilm che sarà presentato giovedì 12 marzo alle 20 al cinema Iride a Lugano.

L’approccio Carpe Diem si basa sulla relazione di fiducia fra curanti e pazienti ed è adattabile ai bisogni della persona La sua vasta esperienza è stata raccolta in una produzione audiovisiva di 35 minuti realizzata da Multimedia Dynamic Group di Chiasso e sostenuta da Alzheimer Ticino, Cantone Ticino e Assicurazione per l’Invalidità. «La presentazione pubblica del docufilm – spiega Ombretta Moccetti, responsabile del Centro di competenza Alzheimer e altre forme di demenza – ha quale obiettivo di diffondere nella popolazione la conoscenza di questo approccio pensando in particolare ai familiari dei malati. Promuovere metodi e approcci riconosciuti validi per fornire un accompagnamento adeguato alle persone confrontate con un deterioramento cognitivo è d’altronde uno degli obiettivi della Strategia nazionale sulla demenza 2014-2019». Anche il linguaggio riflette l’attitudine promossa da Carpe Diem, sottolinea Joséphine Marrocco contraria alla parola demenza, poiché etimologicamente associata alla follia. «Il nostro linguaggio determina le nostre azioni», afferma l’infermiera, precisando che espressioni come «Gestire il paziente» e «Affrontare il problema» denotano mancanza di umanità e spirito negativo. Sostituire la prima con «Accompagnare la persona» rivela un’attitudine diversa che incide sulla relazione fra chi offre e chi riceve il sostegno. «Ho pre-

parato il bagno per lei, vuole venire?» è in effetti molto diverso da «Andiamo a lavarci». Sembrano dettagli ma non lo sono. La relazione di fiducia fra curanti e pazienti è infatti il primo dei quattro grandi principi dell’approccio Carpe Diem, che non viene definito metodo essendo sempre adattabile ai bisogni della persona. L’obiettivo è mantenere il massimo grado possibile di autonomia e autostima attraverso appunto la flessibilità negli orari e nelle attività. Il rispetto dei ritmi di vita precedenti la malattia e il coinvolgimento attivo della cerchia di persone più vicine costituiscono un altro caposaldo di Carpe Diem che nel quarto principio riassume il suo credo: «Creare una risposta unica in funzione della situazione, offrendo servizi adattati a ogni persona e a ogni famiglia lungo l’intero corso della malattia». Nella vita quotidiana come si traducono questi principi? Risponde Joséphine Marrocco: «Occorre inanzitutto posare lo sguardo sulla persona con serenità ed ottimismo, valorizzando le sue capacità e non concentrandosi sulle sue mancanze. Quando lavoravo nel reparto protetto della Residenza Visagno a Claro svolgevamo piccole attività domestiche e andavamo a fare la spesa, sfruttando al meglio le risorse di ognuno. Bisogna partire dal principio di andare nella realtà dell’altro senza aspettarsi che l’altro venga nella nostra. Contrariamente a quanto si sente spesso affermare, tutti i loro comportamenti hanno un senso; rappresentano un messaggio che cerchiamo di comprendere attraverso l’empatia e la conoscenza della loro vita prima della malattia. La memoria procedurale guida gran parte delle loro azioni e spiega molti comportamenti all’apparenza incomprensibili. Un esempio è il rifiuto di salire in auto a destra di un uomo che ha sempre usato l’auto come guidatore, quindi salendo a sinistra della medesima. Non appena si capisce questo processo, il problema è risolto». Il costante confronto fra i curanti, per capire quali azioni hanno un effetto positivo sul comportamento della persona malata, è uno dei punti di forza dell’approccio canadese. La casa Carpe Diem, gestita da un organismo comunitario autonomo senza scopo di lucro, gode dell’indipendenza necessaria per sperimentare e innovare a tutti i livelli. L’abitazione familiare, situata in Québec, è stata trasformata in struttura di accoglienza per persone affette da deterioramento cognitivo nel 1995 dai membri della Società Alzheimer della regione Mauricie guidati da Nicole Poirier, la cui famiglia era proprietaria dell’edificio. Oggi ospita 14 residenti e 20 persone nel centro diurno. Già venu-

ta a più riprese in Ticino e presente anche nel docufilm, Nicole Poirier è stata per Joséphine Marrocco dapprima fonte d’ispirazione (nel convegno francese del 2008 seguito mentre svolgeva un Master in geriatria alla SUPSI) e poi prezioso punto di riferimento. Precisa l’intervistata: «Uno dei vantaggi di questo approccio è costituito dalla sua applicazione quotidiana in un centro che vanta un’esperienza ultraventennale. La collaborazione con la casa Carpe Diem è ottima e in questi anni fra il Ticino e il Québec vi sono stati scambi reciproci a livello di stage. Il personale curante dimostra grande interesse per questo approccio, perché facilita e valorizza l’attività professionale. Entrare in sintonia con la persona malata di Alzheimer o di un’altra patologia legata al degrado cognitivo permette di ridurne le reazioni aggressive e di conseguenza le terapie medicamentose». Questo esito positivo è dimostrato dall’esperienza canadese, ma pure riscontrabile nell’ambito di un progetto di ricerca promosso dalla SUPSI in collaborazione con diverse case per anziani ticinesi. Diretto da Rita Pezzati, psicologa e docente alla stessa SUPSI, il progetto si sta avviando alla conclusione con la pubblicazione dei risultati. Rita Pezzati, con la quale Joséphine Marrocco collabora sin dai tempi del Master in geriatria, introdurrà l’incontro con la protagonista del docufilm dopo la proiezione di giovedì sera. Sarà un incontro all’insegna della passione per la cura (sottotitolo del docufilm), così come è avvenuto con «Azione». Ogni esempio, ogni riflessione di Joséphine Marrocco riflette la gioia con la quale si avvicina alle persone affette da deterioramento cognitivo per accompagnarle nel loro percorso. «Mi rifiuto di ridurle a un protocollo» commenta. La situazione nelle strutture di accoglienza del nostro cantone sta evolvendo. Metodi alternativi, fra i quali l’approccio Carpe Diem, vengono sperimentati a tutto vantaggio di malati, familiari e personale curante. Formazioni mirate su Carpe Diem si sono già svolte in diverse case per anziani e sono previste anche la prossima primavera. Per Joséphine Marrocco bisognerebbe però andare oltre, prestando maggiore attenzione alla fase che precede l’entrata in istituto. Visite a domicilio da parte dei futuri curanti permetterebbero di conoscere meglio la vita quotidiana della persona anche prima dell’insorgere della malattia. L’obiettivo di Joséphine Marrocco e dell’approccio con il quale si identifica resta infatti l’accompagnamento della persona in quanto tale nel rispetto della sua identità, del suo vissuto e della sua volontà. Una sfida che passa in primo luogo da un cambiamento di attitudine.

Si è tenuta lo scorso 15 febbraio, presso la sala multiuso del Municipio di Ponte Tresa, l’inaugurazione della mostra itinerante «La Seconda guerra mondiale in Ticino. Sviluppo del contrabbando come risposta al razionamento», organizzata dalla Fondazione Sasso San Gottardo e curata da Cristina Kaufman, mostra che si potrà visitare fino al prossimo 30 aprile. Il contrabbando è per definizione un atto contrario al bando, alla legge... ma non alla morale comune dell’epoca, che lo accettava e anzi lo considerava quasi un’istituzione. Il contrabbando tra l’Italia e il Canton Ticino, nel periodo 1939-1945, è stato infatti un fenomeno di massa, la cui diffusione è strettamente legata alla situazione socio-economica dell’epoca. Come raccontato dal regista Bruno Soldini nel corso della conferenza in occasione dell’inaugurazione della mostra, quest’attività, a partire dal Risorgimento e fino alla vigilia della Grande Guerra, era diretta dalla Svizzera all’Italia. Dapprima si contrabbandavano opuscoli e volantini propagandistici e in seguito, dopo l’unità d’Italia, tabacco, caffè, orologi, armi e perfino petrolio. Il transito di merci cambiò poi direzione durante la Prima guerra mondiale, e soprattutto nella Seconda.

Il contrabbando in Ticino era un fenomeno estremamente diffuso e socialmente accettato al quale partecipavano persone di tutte le età Fu soprattutto dopo l’armistizio italiano dell’8 settembre 1943 che il fenomeno si intensificò. I soldati italiani ormai sbandati trovarono infatti in questa occupazione l’unica fonte di guadagno possibile: a partire da quel momento aumentò quindi notevolmente il passaggio di generi alimentari tra l’Italia e il Ticino, soggetto, come il resto della Confederazione, al Piano Wahlen e al razionamento. Tessere e bollini alimentari facevano parte della quotidianità dei ticinesi e ne decidevano, in tempo di crisi, l’accesso a beni prima molto diffusi, come lo zucchero, la carne, i cereali, il latte e le uova. Furono anni in cui l’approvvigionamento alimentare risultava difficile per i ticinesi, e tutto ciò

ha permesso al contrabbando di svilupparsi. Soldini, nel corso della sua presentazione, sottolineava inoltre, anche attraverso la proiezione di alcuni estratti dei suoi film, come quest’attività fosse di conseguenza diventata parte della quotidianità degli abitanti del Ticino dell’epoca. La mostra, dopo aver fornito al visitatore diverse informazioni sullo svolgimento della Seconda guerra mondiale e sui suoi effetti, in Svizzera in generale e in Ticino in particolare, parte proprio da qui, mettendo in luce i tratti principali e le caratteristiche di questo fenomeno, ma anche alcune curiosità e le particolarità legate al contrabbando tra Italia e Canton Ticino durante gli anni della guerra. Alcuni pannelli sono dedicati alla vita in Ticino durante il conflitto e, attraverso fotografie, testimonianze e documenti – tra cui per esempio un libro di cucina con consigli utili in tempo di ristrettezze o un opuscolo per il riconoscimento dei vari aerei da guerra che potevano sorvolare il nostro Cantone – affrontano temi quali la mobilitazione, l’oscuramento e il razionamento alimentare, per poi concentrarsi, più nel dettaglio, sul tema principale. Il contrabbando è presentato sotto vari aspetti, come quello dell’equipaggiamento del contrabbandiere, caratterizzato dalla bricolla, dalle scarpe fatte con la tela dei sacchi di juta per non fare rumore e dal falcetto, utile per tagliare rapidamente le bretelle della bricolla e abbandonare la merce in caso di «alt!» delle guardie di confine. Si può leggere poi delle astuzie utilizzate dai contrabbandieri e dalla popolazione, come i segnali visivi (il bucato lasciato steso) o uditivi (fischi e versi di animali) che servivano a segnalare la presenza di guardie o il via libera; e dei pericoli affrontati dalle guardie di confine, la cui vita, proprio come quella dei contrabbandieri, non era affatto facile. La mostra sottolinea infine, come detto, come il contrabbando fosse un fenomeno estremamente diffuso e socialmente accettato, e come vi partecipassero persone di tutte le età, di qua e di là dal confine, a creare una rete di trasportatori, ricettatori e rivenditori che copriva l’intero territorio tra Italia e Svizzera. Una realtà affascinante, molto diversa da quella del dopoguerra, in cui il contrabbando perse la sua aurea romantica per diventare un fenomeno criminale, che causò diverse morti, anche tra le guardie di confine, e in cui venne così meno anche il suo legame con il vissuto e la quotidianità della popolazione ticinese.

La locandina dell’esposizione aperta fino al 30 aprile.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 marzo 2020 • N. 11

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Idee e acquisti per la settimana

Dal cuore della Svizzera Attualità Lo Sbrinz DOP è pronto

a deliziare il palato dei buongustai dopo una stagionatura di almeno 18 mesi. Approfittate questa settimana dell’offerta speciale su questa tipicità rossocrociata

La produzione dello Sbrinz

Per potersi fregiare della rinomata DOP, Denominazione di Origine Protetta, (in francese, AOP - Appellation d’Origine Protégée), dopo l’attenta lavorazione da parte di esperti casari il formaggio deve essere affinato per un periodo di almeno 18 mesi. Il pregiato latte svizzero e la lunga maturazione gli conferiscono la sua straordinaria ricchezza aromatica e le sue delicate note speziate. Lo Sbrinz viene prodotto quasi esclusivamente con latte di mucche di razza bruna. Naturalmente il rispetto degli animali gioca un ruolo molto importante nella filiera dello Sbrinz: i bovini possono per esempio uscire all’aperto quando lo desiderano. La loro alimentazione è costituita

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È uno dei formaggi principe della tradizione casearia svizzera, ed è anche il più antico tra quelli conosciuti nel nostro paese. Stiamo parlando dello Sbrinz, il formaggio extraduro della Svizzera centrale, prodotto artigianalmente in selezionati caseifici di pianura e d’alpeggio nei Cantoni di Obvaldo, Nidvaldo, Lucerna, Svitto, Zugo, Argovia, Berna e in alcune zone del Canton San Gallo. Si suppone che una sorta di Sbrinz fosse già nota a Plinio, che lo chiamava «Caseus Helveticus».

principalmente da erba fresca, in estate, e fieno in inverno. Nel rispetto degli obblighi di produzione, la distanza tra caseificio e produttore di latte non deve superare i 30 km. Per produrre una forma da 45 kg di Sbrinz, sono necessari ben 600 litri di latte fresco crudo. Ogni anno vengono prodotte mediamente quasi 1900 tonnellate di questo formaggio. Il termine «Sbrinz» appare già in documenti del 1530, e si rifà al nome della località di Brienz, nell’Oberland bernese. Qui, infatti, all’epoca i commercianti dei vari Cantoni si ritrovavano per negoziare il prezzo del formaggio che sarebbe poi stato esportato verso sud. Lo Sbrinz è ottenibile sfuso al banco formaggi, oppure a libero servizio in pezzi di diverse grammature, a trucioli, in bocconcini oppure grattugiato.

Le orchidee terrestri

Novità Nei maggiori reparti fiori di Migros Ticino da domani trovate alcune particolari varietà di queste bellissime piante Le orchidee sono sicuramente considerate tra le piante più belle ed eleganti, in grado di trasformare gli spazi della nostra abitazione, del terrazzo o del giardino in un vero e proprio paradiso fiorito. Gli amanti di queste magnifiche piante saranno felici di sapere che presso i reparti fiori sono disponibili quattro speciali varietà di orchidee terrestri, ideali per essere trapiantate all’esterno, perenni e particolarmente resistenti al freddo. La Bletilla è stata una delle prime orchidee ad essere coltivate in Europa, verso il 1800. È un’orchidea a foglia caduca, con fiori di colore giallo, viola, rosa o bianco. La fioritura avviene tra maggio e settembre. Esistono quasi 200 varietà di orchidea Calanthe. Questa pianta terrestre sempreverde originaria del Giappone si caratterizza per la straordinaria varietà di colori e forme dei suoi fiori, senza dimenticare il gradevole profumo che è in grado di emanare. In suo nome giapponese è Ebine. La Cypripedium è la regina delle orchidee robuste. È una pianta che può sopportare temperature fino a -25°C. In natura questa orchidea dagli sgargianti colori giallo, rosa e bianco si trova soltanto nell’emisfero nord, in Nordamerica e nell’Asia del Nord e SudEst. Infine, ecco la Pleione (nella foto),

un’orchidea tuberosa dai fiori spettacolari. A differenza delle altre orchidee terrestri, può essere anche tenuta come pianta d’interni. I suoi fiori dalle tonalità rosa, viola, bianco, giallo e arancione, durante la fioritura spiccano per la loro incredibile rigogliosità che non lascia nessuno indifferente. Infine, sulle confezioni di ogni orchidea, troverete diversi utili e mirati consigli per un risultato ottimale, sia per quanto riguarda la posizione ideale delle piante, la coltivazione, il terreno e l’innaffiatura. Orchidea Bletilla Fr. 17.90 Orchidea Calanthe Fr. 17.90 Orchidea Cypripedium Fr. 17.90 Orchidea Pleione Fr. 14.90


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 marzo 2020 • N. 11

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Società e Territorio

I bambini poveri in Svizzera

Infanzia Caritas svizzera definisce scandalosa la povertà infantile che riguarda più di 100mila bambini.

Propone di introdurre una legge quadro federale che imponga l’adozione delle prestazioni complementari a favore delle famiglie

Fabio Dozio Una volta, nei primi decenni del secolo scorso, i bambini poveri si distinguevano. Vestiti malamente, zoccoli di legno ai piedi invece delle scarpe, pantaloni sdruciti, maglioni di seconda o terza mano, pulizia e igiene del corpo discutibile. Le abitazioni dei poveri erano poco confortevoli, non erano riscaldate o lo erano in modo insufficiente, i servizi igienici si dovevano condividere con altre famiglie. I figli, non solo in tenera età, dormivano nella stessa camera, anche se erano quattro o cinque: a volte, in due, dividevano lo stesso letto. Oggi, i bambini poveri si mimetizzano, si confondono con gli altri. La povertà è cambiata, non è più quella estrema che a volte sfiorava la miseria. Oggi siamo confrontati con una povertà relativa, che è data dalla mancanza di poter vivere decentemente in questa società. I bambini poveri, anche se quasi invisibili, in Svizzera sono una realtà. Una realtà scandalosa, denuncia Caritas, che lo scorso dicembre ha pubblicato un documento sulla povertà infantile rivelando che il fenomeno è molto diffuso nella Svizzera benestante. Nel nostro Paese, 103mila bambini vivono in condizione di povertà e il doppio di essi in condizioni precarie appena sopra la soglia di povertà. Il dato è preoccupante anche perché nel nostro Paese il numero delle persone vittime della povertà è in costante crescita dal 2014. Un rapporto della Confederazione risalente al 2015 afferma che crescere un bambino può costare dai 7mila ai 14mila franchi all’anno, a dipendenza della dimensione della famiglia e dell’età del figlio. Crescere due o più figli è sempre più difficile e quasi impossibile se la madre non lavora. Il reddito medio disponibile delle coppie senza figli è infatti superiore del 40% rispetto a quello dei genitori con figli. Le cause della povertà infantile vanno ricercate nella situazione dei genitori. In Svizzera 71mila bambini crescono in famiglie di lavoratori poveri. A fine gennaio l’Ufficio federale di statistica ha pubblicato i dati sulla povertà relativi al 2018. Il 7,9% della popolazione, ossia circa 660mila persone, era colpito da povertà reddituale. Una persona su otto aveva difficoltà a sbarcare il lunario. I più sfavoriti sono

coloro che vivono in economie domestiche monoparentali (tasso di povertà del 19,3%), gli stranieri (17,5%), le persone senza lavoro (14,4%) e quelle senza formazione postobbligatoria (12,1%). Una persona su cinque non era in grado di far fronte, nello spazio di un mese, a una spesa imprevista di 2500 franchi. Questo è lo stato della nazione, una delle più ricche al mondo. È evidente che le categorie appena citate, confrontate con le difficoltà finanziarie, ripercuotono sui figli le loro situazioni negative. Le lacune nella possibilità di conciliare famiglia e professione sono motivi di povertà e le famiglie meno abbienti non possono permettersi di collocare i figli negli asili nido. La Confederazione ha riconosciuto la mancanza di strutture di cura dei bambini piccoli, anche se negli ultimi anni sono stati creati circa 60mila posti per la custodia. Il divorzio è un altro fattore che può spingere genitori e figli verso la povertà. Secondo Caritas, esistono misure efficaci contro la povertà infantile, ma lo Stato deve fare di più. «In Svizzera – si legge nel documento – i bambini sono considerati in gran parte una questione privata e per questo lo Stato investe poco nella famiglia e nei bambini. Per le prestazioni sociali a sostegno delle famiglie e dei bambini viene impiegato solo l’1,5% del prodotto interno lordo, una percentuale nettamente inferiore alla media europea del 2,4%. Nel settore della prima infanzia il dato è anche peggiore: le spese per la formazione, l’assistenza e l’educazione sono tre volte inferiori alla media dei Paesi dell’OCSE». Per contrastare la povertà dei bambini, Caritas propone di introdurre a livello nazionale le prestazioni complementari a favore delle famiglie. Il Ticino è stato il primo Cantone, nel 1997, a proporre queste misure di sostegno alle famiglie e alla prima infanzia. All’inizio del 2000 sono state presentate due mozioni a Berna sulla base del modello ticinese. Le iniziative parlamentari Fehr e Meier-Schatz chiedevano la crea zione di una base legale per l’introduzione di prestazioni complementari a livello federale per le famiglie. Dopo dieci anni di discussioni e di tira e molla le proposte sono state insabbiate. In sostanza il Parlamento federale ritiene

La povertà minorile ha ripercussioni importanti come l’esclusione sociale e le minori opportunità formative. (Keystone)

che le politiche a sostegno della famiglia debbano rimanere di competenza cantonale. L’esempio del Ticino è stato seguito dai cantoni Soletta, Vaud e Ginevra. «I quattro cantoni che prevedevano il versamento di aiuti integrativi per le famiglie – dice Caritas – erano convinti che questo strumento fosse adeguato alla situazione delle famiglie indigenti e che avrebbe quindi contrastato anche il fenomeno della povertà». Il documento di Caritas elogia il Ticino che con la sua politica sociale è riuscito a ridurre il rischio di povertà tra i bambini e gli adolescenti. Inoltre è l’unico cantone a offrire una scuola dell’infanzia cantonale a partire dai tre o dai quattro anni. Il modello introdotto dal canton Vaud è ritenuto il più efficace in quanto «i sussidi sono erogati fino all’adolescenza e non prevedono l’obbligatorietà di un reddito o di una percentuale lavorativa. Il canton Vaud si assume inoltre la maggior parte delle spese di custodia dei bambini ed è l’unico che rimborsa le spese sanitarie».

Per Caritas è tempo di rivedere la politica federale in questo campo e chiede al nuovo Parlamento di promuovere una riforma. Prendendo esempio dai quattro cantoni citati, si afferma che «urge l’elaborazione di una soluzione sul piano federale come pure una partecipazione economica significativa da parte della Confederazione». Si chiede in particolare una legge quadro a livello federale per l’introduzione di assegni famigliari integrativi, come quelli esistenti nell’ambito delle prestazioni complementari AVS e AI. La povertà infantile è in contrasto con il diritto vigente e in particolare con la Costituzione. Nell’articolo 12 la Carta fondamentale afferma che la Svizzera garantisce alle persone nel bisogno e che non sono in grado di provvedere a se stesse il diritto di essere aiutate e assistite e ricevere i mezzi indispensabili per un’esistenza dignitosa. Inoltre, sottolinea Caritas, all’articolo 11 la Svizzera si impegna a garantire ai bambini e agli adolescenti il diritto a particolare protezione della loro in-

columità e a promuoverne lo sviluppo. Intanto nel Ticino precursore nazionale dell’aiuto alle famiglie le preoccupazioni nei confronti della povertà rimangono vive. A metà febbraio la commissione parlamentare Sanità e sicurezza sociale si è chinata sul tema dicendosi preoccupata dai dati che rivelano come nel cantone la povertà sia sempre presente, con tassi molto più alti rispetto alla media nazionale. «La povertà – scrivono i relatori Gina La Mantia e Giorgio Galusero – rimane un tema di stretta attualità di cui soffrono troppe persone nel nostro cantone e che ha ripercussioni negative non solo in merito all’esclusione sociale, ma anche sulla salute fisica e psicologica e, di conseguenza, sulla qualità di vita di famiglie intere. La povertà incide, inoltre, in modo pesante sul futuro dei bambini toccati». Per tenere sotto controllo il fenomeno, la Commissione chiede al Consiglio di Stato di presentare con ogni consuntivo anche un aggiornamento sulla situazione della povertà nel Cantone.

Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Pinin Carpi, Mauro e il leone, Piemme Il Battello a Vapore. Da 8 anni Il 2020 non è solo l’anno di Rodari. Un altro grande scrittore per l’infanzia è nato cent’anni fa: Pinin Carpi. Milanese, appartenente a una famiglia di artisti (il padre, Aldo Carpi fu un importante pittore del Novecento italiano, nonché amatissimo docente di pittura all’Accademia di Brera, alla cui scuola si formeranno molti noti pittori, anche ticinesi, come Giuseppe Bolzani, Edmondo Dobrzanski, Alberto Salvioni, il locarnese d’adozione Italo Valenti), Pinin Carpi scrisse e illustrò meravigliosi libri per bambini, curò innovativi progetti editoriali (l’enciclopedia «Il mondo dei bambini» con Emme Edizioni di Rosellina Archinto; la collana di Vallardi «L’arte per i bambini»), fu saggista, giornalista e – come tutti i suoi famigliari – uomo dal fermo impegno civile e antifascista. Il padre fu internato a Mauthausen, il fratello Paolo venne ucciso, ancora adolescente, a Flossenburg, Pinin stesso venne

più volte arrestato. Eppure, da queste tenebre che costituirono la sua memoria di ragazzo, Pinin seppe tirar fuori lampi di luce e di vitalità, da offrire come dono di speranza a tutti i bambini che avrebbero letto i suoi libri. Tutti i bambini, anche quelli di oggi, restano incantati dalle sue storie. Il loro ritmo narrativo; la musicalità della scrittura; l’umorismo che le pervade, nonostante l’intensità dei temi; e quella scrittura così «orale», che sembra fatta apposta per la lettura ad alta voce (Pinin fu un vero e proprio cantastorie), rendono

i suoi romanzi dei classici assoluti, tuttora in grado di sprigionare la freschezza di cui sono intrisi. Sono editi da Piemme, ve li segnalo tutti, nella speranza che tornino ad essere pubblicati anche quelli che ora sono fuori catalogo. La copertina che apre questa recensione è quella di Mauro e il leone, una storia che racchiude molti dei temi prediletti dall’autore: il magico nel quotidiano, l’avventura, il viaggio, il mondo salvato dai ragazzini (e da creature innocenti o emarginate che collaborano con loro), l’allegria vitalissima pur nella prova, le atmosfere oniriche, un certo esilarante gusto per il paradosso e l’iperbole. E soprattutto la straordinaria capacità di mantenere uno sguardo bambino (che è lo sguardo dell’artista): puro e irriverente, mai scontato, in grado di aprire scorci inediti sul mondo. Philip Giordano, Gerald, stambecco gentile, Lapis. Da 4 anni Una terza storia dell’autore e illustratore Philip Giordano imperniata su

un animale «non allineato»: dopo Il pinguino che aveva freddo e La rondine che voleva vedere l’inverno, arriva Gerald, stambecco gentile. Il tema dell’animale che non si conforma ai comportamenti del gruppo rischia di diventare un po’ stereotipato nella letteratura per l’infanzia, già così ricca di personaggi analoghi (si pensi ad esempio al Gufo che aveva paura del buio e agli altri titoli di Jill Tomlinson), però Philip Giordano conserva una sua profonda delicatezza nell’affrontarlo,

riuscendo ad offrirci storie con un loro senso compiuto, anche grazie al suo stile illustrativo e alla coerenza dell’assetto grafico e editoriale del libro, in questo caso di formato verticale, alto come la montagna su cui abita Gerald, stambecco che alle battaglie con scontri di corna preferisce l’esplorazione del suo bel territorio. Così Gerald abbandona il gregge e sale sulla cima della montagna, accogliendo dagli altri animali tanti consigli di sopravvivenza. Questi segreti della montagna gli saranno utili per aiutare il suo branco, al quale si riunirà, finendo per guadagnarsi, grazie alla sua saggezza, la fiducia di tutti. Stagione dopo stagione la vita trascorre e Gerald diventa vecchio: sarà tempo per lui di intraprendere una nuova salita sulla cima del monte. Una salita che lo porterà Altrove, ancora più in alto, tra le stelle; ed è un congedo la cui malinconia è stemperata da un bellissimo dono che Gerald lascerà, in ricordo, ai suoi amici stambecchi e a tutto il popolo delle montagne.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 marzo 2020 • N. 11

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Società e Territorio Rubriche

L’altropologo di Cesare Poppi Cucina Cinese Un caro amico, noto per il suo incrollabile senso dello humor e più spesso che no del grottesco del quale spesso è levatrice, confidava giorni fa all’Altropologo in cambio del divieto assoluto di riferirlo a chicchessia di non essersi mai divertito tanto in vita sua come nei Giorni del Contagio. E difatti, confortato dal fatto che rivelerò solo il peccato ma non il peccatore, corro a dare tutto alle stampe, grato ancora una volta per avere l’opportunità di esternare la lezione che ogni giorno s’impara dalle bizzarrie della vita. Perché tutta questa fretta?! Perché è vero. Vero è, ovvero, che mai come in questi giorni i vicini dei Confederati transalpini dimostrano di non essere (solo) il popolo di piagnoni lamentosi e litigiosi, sempre pronti a correre dalla Mamma puntando il dito «è stato lui!» secondo l’immagine

ormai accreditata in mezzo mondo – voglio essere ottimista per difetto. Da quando il Paese si è ritrovato in trincea causa di un evento non certo fra i più desiderabili come regalo di Natale, l’esplosione di umorismo che trova nel virus una fonte… virale di ispirazione è semplicemente stupefacente. Tale, comunque, da confondere le idee per la complessità di un «carattere nazionale» (posto che esista nel caso di un agglomerato demografico di anarco-individualisti come sono poi in sostanza gli Italiani) a chi se ne fosse fatto un’immagine coerente e lineare. Aneddoti, barzellette, doppi sensi, caricature, sfottò, vignette e quant’altro possa venire alla mano circolano sui media di ogni sorta in un’esplosione di creatività della quale non si ricordano precedenti – certo non per un fatto altrettanto grave.

Si va da chi sostiene che il Papa fosse informato da Fonti altolocate dei fatti prossimi venturi e pertanto avrebbe schiaffeggiato la signora cinese che lo strattonava in Piazza San Pietro a ragion veduta, a quel conoscente che mi ha riferito di aver tirato un sospiro di sollievo quando una banda, visi nascosti dalle mascherine, ha fatto irruzione in banca rassicurando tutti che si trattava di una rapina… Le autorità ecclesiastiche contribuiscono a loro modo al buon umore generale rassicurando, come si è sentito in dover di fare il Patriarca di Milano, che l’epidemia non ha origini divine. Tesi che, peraltro, getta nello scompiglio la schiera degli storici i quali ricordano come la vecchia, collaudata spiegazione delle epidemie come castigo divino sia stata per secoli la più efficace – non foss’altro in quanto di facile spiega-

zione per tutti, altroché gli algoritmi sulle mutazioni genetiche virali che ancora prevengono la produzione del Vaccino che non ci capisce niente nessuno e nessuno si fida. Meglio allora – incalzava ieri un amico storico della Firenze medicea – meglio allora rassicurare l’opinione pubblica come faceva il grande Savonarola quando spiegava che Dio mandava il contagio come punizione per i peccati. E chi gli obiettava come il morbo colpisse indistintamente Buoni e Cattivi rispondeva… «beh…, vorrà dire che i Buoni andranno in Paradiso». Insomma, i Giorni del Contagio 2020 come già li chiamano da queste parti non produrranno forse un altro Decamerone come ai tempi di Boccaccio – altri tempi, altri virus – ma certo stanno facendo riscoprire da questa parte dello spartiacque che se non si

riesce a ridere delle proprie disgrazie (quelle, s’intenda, imputabili al Fato, al Caso, agli Dei Dispettosi – e oggi più prosaicamente alla S…a) allora… Allora a nulla varrebbero gli sforzi dei nostri conclamati leader di spiegarci con parole forbite per mezzo TV che tutto si riduce al fatto che ( ) «tutti abbiamo visto i cinesi mangiare topi vivi» come ha argomentato il Governatore del Veneto. Il vostro Altropologo preferito, nutritosi nel corso dei suoi soggiorni presso popoli vuoi pure strani dell’indicibile, si è sentito a questo punto chiamato in causa. Circola in rete un selfie che lo ritrae mentre divora uno dei tanti, troppi topi che gli fanno compagnia in casa. Prova provata che non solo i Cinesi mangiano topi. O almeno non li mangiano tutti. Auguriamoci che diventi virale.

pericolo preciso. Guai se non ci fosse! Quella che dobbiamo superare è l’ansia che, se non elaborata, può dar luogo ad attacchi di panico. Rievocare il passato ci può aiutare a ridimensionare l’allarme perché insegna che le epidemie hanno un picco d’intensità ma poi decrescono e finiscono col concludersi. Molte, anche recenti, hanno provocato un terribile spavento ma poi, adeguatamente contenute e curate, sono state debellate e addirittura ben presto dimenticate. Quella attuale rivela una straordinaria velocità di diffusione ma i servizi sanitari dei Paesi più avanzati sembrano in grado di far fronte all’emergenza. I mass-media ci suggeriscono, in modo martellante, comportamenti corretti: piccoli gesti quotidiani come lavarsi e disinfettarsi le mani, mantenere distanze di sicurezza, evitare gli assembramenti e così via. Eseguiti con costanza e diligenza finiscono per costituire una piccola liturgia che tranquillizza e difende dall’ignoto che ci circonda. L’importante è che ciascuno si assuma le responsabilità che gli competono. Come nonni siamo tenuti, in primo luogo, a infondere fiducia ai nostri nipoti, a rassicurarli che ce la faremo. La famiglia di sua figlia, sta

affrontando la minaccia di un contagio che non sempre si trasforma in malattia conclamata, raramente richiede un ricovero in medicina intensiva e ancor più raramente si rivela mortale nel caso, per lo più, di pazienti anziani e già gravati da precedenti patologie. In questo quadro ipotetico, la paura è giustificata, l’ansia no. Per controllare l’angoscia che l’attanaglia pensi che le sue nipoti, come tutti i bambini, vivono questi momenti di tensione in conformità allo stato d’animo dei familiari: se i genitori, i nonni e gli zii sono preoccupati ma non allarmati, anche loro si sentono protetti e rasserenati. Da un punto di vista collettivo, l’epidemia ha sempre rappresentato un passaggio d’epoca perché mette in crisi false certezze: come, nel nostro caso, lo sfruttamento incondizionato delle risorse naturali, lo sviluppo illimitato, la fiducia acritica nelle possibilità delle tecnica, il mito del successo personale. La fragilità, rompendo la corazza del narcisismo, ci unisce e, se accettata ed elaborata, si può trasformare in una forma di solidarietà e di fratellanza. La crisi sarà inevitabile e profonda ma conosciamo i percorsi positivi della resilienza, consapevoli

che nessuno basta a se stesso e che ci salveremo insieme, tutti o nessuno. Finora la diffusione dell’epidemia sembra risparmiare i più giovani, in particolare i bambini. Una salvaguardia naturale che sembra indicare, nel futuro, la direzione da seguire nella difficile navigazione che stiamo affrontando. Freud in proposito ci rassicura quando scrive: «Possiamo ribadire all’infinito che l’intelletto umano è senza forza a paragone della vita pulsionale, e in ciò avere ragione. Eppure in questa debolezza c’è qualcosa di particolare: la voce dell’intelletto è fioca, ma non ha pace finché non ottiene udienza. Più e più volte pervicacemente respinta, riesce alla fin fine a farsi ascoltare. Questo è uno dei pochi punti che consentono un certo ottimismo per l’avvenire dell’umanità». (Freud S. (1927), L’avvenire di un’illusione, OSF 10, 482).

che ha scelto di raccontare gli USA da visionario, tuttavia realista. All’immagine standard degli States, scintillante, rumorosa, persino arrogante, si contrappone così quella che lui ha percepito: silenziosa, pervasa di solitudine, sofferenza e mistero. Una denuncia, anche sociale, se si vuole, ma proposta senz’acredine polemica. In termini poetici e magici, che ispirarono registi come Hitchcock, Wenders e il Kevin Kostner di Ballando coi lupi. È sempre, in forme diverse, questione di immagini. Infine, tutto dipende dal valore aggiunto del realizzatore: la capacità di trasmettere non solo sensazioni fuggevoli ma stimoli permanenti per ripensare consapevolmente la propria quotidianità, insidiata, e non soltanto oltre Oceano, da contatti umani sempre più rarefatti, da incertezze che intaccano i baluardi del potere, persino quello dell’arte.

Da qui la popolarità di un artista fuori degli schemi sanciti dalla critica, non inquadrato in correnti precise, che si affida soltanto al linguaggio della pittura. Aveva ragione Francis Bacon, quando affermava: «La pittura è il linguaggio della stessa pittura. Quando si cerca di parlarne, diventa una traduzione inferiore». La definizione racchiude il segreto dell’artista che fa centro e vi rimane, conquistando il pubblico. Com’è avvento alla Beyeler, alle prese con una ressa, non ancora sfoltita dall’allarme virus: era il 24 febbraio e non aveva varcato il Gottardo. Si trattava di una folla veramente rappresentativa della popolazione attuale che risiede nella Confederazione, e in particolare durante una vacanza scolastica. Quindi famiglie al completo, con bambini e adolescenti, più numerosi ovviamente gli svizzeri tedeschi,

ma una buona presenza di romandi, e anche di stranieri d’ogni provenienza e colore. Particolare rilevante, la folta presenza maschile, spesso minoritaria nelle occasioni culturali. Le donne sono, statisticamente, le più dirette responsabili della vita culturale, sia come frequentatrici sia come organizzatrici di manifestazioni. Si deve parlare anche degli assenti. Forse soltanto meno in vista rispetto ad altre mostre, gli addetti ai lavori: cioè gli accompagnatori di gruppi che impartiscono lezioni, i critici che osservano con il giusto distacco opere di cui detengono la chiave di lettura, e latitante la categoria degli intenditori, dotati del fiuto per la scoperta del nuovo assoluto, che disorienta ma, forse diventerà epocale. Per concludere: un’esposizione per tutti. A qualcuno, può sembrare un indizio inquietante.

La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi «Le mie nipoti vivono nella zona rossa» Gentile signora Silvia, sono una sua assidua lettrice ma non mi sarei mai immaginata di scriverle. Adesso invece, improvvisamente, mi trovo a chiederle aiuto perché sono nel panico. Mia figlia, col marito e due figlie di sette e tredici anni, vive da tempo vicino a Codogno, nella zona rossa del Corona Virus, quella messa in quarantena. Domenica avremmo dovuto trovarci insieme per festeggiare, come ogni anno, l’anniversario del loro matrimonio ma naturalmente non se ne farà niente: tutto rinviato a data da destinarsi. Ci sentiamo ogni sera via Skype ma, probabilmente è colpa mia, non sento un vero contatto. Ci scambiamo frasi di circostanza: «come va?», «c’è qualche novità?», «cercate di stare sereni», ma sereni non siamo, né noi né loro. Non si sa quando l’emergenza finirà, se si eviterà il contagio, che cosa ne sarà dopo. Mio genero manterrà il posto di lavoro? I mutui saranno sostenibili? Tante domande, nessuna risposta. Non riesco più a dormire la notte, mi giro e mi rigiro nel mio letto in preda a un’ansia che non trova pace. Mio marito mi riprende, mi sgrida, non capisce, ma io sto male davvero e mi dica lei se posso farci qualcosa. / Federica M.

Cara Federica, precipitare all’improvviso in un’emergenza così grave suscita reazioni emotive difficilmente controllabili. Molto dipende dal temperamento innato, più o meno tranquillo, dal carattere introverso o estroverso, nonché dal passato personale. Qualcuno ha attraversato, nella sua vita, circostanze così traumatiche da aver prodotto e conservato sostanze immunitarie contro la disperazione mentre altri, come mi sembra il suo caso, avendo avuto un’esistenza serena, si trovano impreparati di fronte a un trauma collettivo. In questo momento, poiché non siamo in grado di valutare completamente il rischio, di prevedere le conseguenze, di calcolare i danni, navighiamo a vista sperando di non incontrare, lungo il percorso, troppe insidie. Per fortuna, dopo un primo tempo di allarmismo stanno prevalendo forme di comunicazione razionali e coscienti, informazioni precise e documentate che aiutano a ragionare, la cosa più importante da fare. Per prima cosa dobbiamo distinguere l’ansia come stato di allarme diffuso, come minaccia incondizionata, dalla paura che è una forma istintiva di difesa verso un

Informazioni

Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch

Mode e modi di Luciana Caglio La mostra per tutti Mostra che vai, pubblico che trovi, si potrebbe dire parafrasando un vecchio proverbio. E vale anche per altre manifestazioni, dove va in scena la cultura: la prima di un film premiato, una novità teatrale, il concerto di musica classica, diretto da un maestro famoso, lo showcase della popstar di successo, o la presentazione di un libro d’autore. E via enumerando incontri caratterizzati, ognuno, dai propri frequentatori. Nell’era degli eventi, queste particolari preferenze dovevano creare tipologie umane diversificate e riconoscibili. Una sorta di identikit, intellettuale e fisico che contrassegna comportamenti, vestiario, linguaggio e, non da ultimo, età. Ovviamente, i giovani, in jeans e felpa, ascoltano i rapper e gli anziani, in abito scuro, affollano le serate dedicate a Beethoven, nel 250.mo della nascita. Ma forse non è più così. Recentemente, mi sono trovata in

una situazione che smentiva proprio questo giudizio, o magari pregiudizio, nei confronti di un pubblico a compartimenti stagni: quello, numeroso, che risponde alle sollecitazioni della cultura popolare, o bassa, e quello, selezionato, che invece bazzica le manifestazioni di alta qualità. È successo, due settimane fa, a Basilea, per la precisione a Riehen, dove la Fondazione Beyeler, nell’impareggiabile sede firmata Renzo Piano, ospita un’ampia e documentata rassegna delle opere di Edward Hopper. S’intitola «Un nuovo sguardo sul paesaggio», e caso fortunato, coincide con lo stesso sguardo dell’architetto, sensibile al paesaggio circostante, tanto da renderlo godibile anche all’interno del museo. Fatto sta che non potevano trovare un ambiente più confacente all’attenzione e alla riflessione gli oli, gli acquarelli, i disegni di quest’americano insolito,


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 marzo 2020 • N. 11

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Ambiente e Benessere Il fresco viene dal terreno Con il geocooling è possibile utilizzare le sonde geotermiche anche per rinfrescare le case pagina 18

Il limone in cucina È uno degli ingredienti più importanti della tradizione mediterranea, utile per insaporire e per sanificare i cibi

Lungo il Rio delle Amazzoni Sulle tracce di Francisco de Orellana, che per primo esplorò le acque del Rio Napo

In crociera con «Azione» Hotelplan propone un viaggio affascinante alla scoperta del delta del Danubio

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Straordinario laboratorio di sostanze

Biologia Non siamo solo l’espressione dei

nostri geni ma anche del nostro microbioma

Lorenzo De Carli Se molti di noi, fino a qualche hanno fa, pensavano alla «flora batterica intestinale» come a qualcosa che, in un qualche modo, ci permetteva di digerire e assimilare i cibi, oggi lo studio del microbiota e del microbioma ci sta facendo comprendere che tutti quei microorganismi ospitati nel nostro intestino non soltanto permettono l’assimilazione dei cibi ma sono anche un laboratorio in grado di produrre sostanze indispensabili sia per la nostra salute fisica, sia per quella mentale. Talvolta usati come sinonimi, «microbiota» e «microbioma» hanno in realtà significati diversi. Il nostro «microbiota» è l’insieme dei microrganismi che vivono in simbiosi con noi. Sebbene anche i batteri della nostra pelle facciano parte dell’intero nostro microbiota, la sua porzione più consistente risiede nell’intestino ed è costituita prevalentemente da batteri, oltre che da lieviti, parassiti e virus. Il «microbioma» è invece il patrimonio genetico posseduto dal microbiota, vale a dire i geni che esso riesce ad esprimere. Il microbiota è una specie di organo endocrino aggiuntivo che, in un certo senso, ci rende disponibile un secondo genoma, i geni del quale codificano molecole che il nostro genoma stesso non è in grado di produrre. Siccome i geni di origine microbica possono superare di cento volte il numero dei geni presenti nel genoma umano, non sarebbe azzardato sostenere che ciascuno di noi è un essere composto da cellule umane e microbiche. Quando la comunità degli organismi che costituiscono il nostro microbiota intestinale è in equilibrio, si ha uno stato detto «eubiosi» – fondamentale per la salute generale dell’organismo. La «disbiosi», per contro, è lo stato di disequilibrio, causato per esempio da infezioni, stili di alimentazione o di vita scorretti, oppure dall’uso di farmaci. La composizione del microbiota intestinale – che cambia nel corso della vita, fluttuando anche durante la giornata in funzione di ciò che mangiamo – è soggettiva: tuttavia essa possiede anche caratteristiche omogenee al livello delle popolazioni. Condotto dal 2007 al 2017, il Progetto microbioma umano ha fornito strumenti utili per osservare come le diverse popolazioni abbiano microbioti diversi.

A chi studia il microbiota intestinale è noto che le popolazioni indigene rurali hanno una maggiore diversità di batteri nel loro intestino rispetto alle popolazioni industrializzate. In una ricerca, i cui risultati sono apparsi il primo novembre 2018 nelle pagine della rivista «Cell», alcuni ricercatori dell’Università del Minnesota a Minneapolis hanno studiato il microbiota di rifugiati e immigrati trasferitisi negli Stati Uniti dal Sud-Est asiatico. Si trattava di popoli Hmong e Karen, due gruppi etnici provenienti dalla Cina e dalla Birmania che hanno comunità in Thailandia. La ricerca ha mostrato che l’immigrazione negli Stati Uniti ha prodotto una serie di cambiamenti nel microbiota intestinale, compresa la perdita di diversità microbica, di ceppi batterici non occidentali e della capacità di degradare le fibre vegetali. È molto probabile che, nei prossimi anni, lo studio del microbiota mostrerà come l’evoluzione culturale influenzi l’evoluzione genetica molto velocemente grazie agli effetti epigenetici degli stili di alimentazione. Culture alimentari di tutto il mondo hanno sempre messo in atto processi di trasformazione del cibo tali, da ricavare sostanze utili alla nostra salute. Questa attività di tipo «culturale» mima l’attività del nostro microbiota e favorisce l’assimilazione di sostanze benefiche. Basterebbe pensare alla pratica giapponese di far fermentare con il fungo Aspergillus oryzae i fagioli di soia per produrre il Natto, condimento alimentare ricco di un enzima – detto Nattochinasi – che ha la proprietà di migliorare il flusso ematico riducendone la viscosità. Un esempio più vicino alla cultura occidentale è l’uso di fermenti per trasformare il latte in yogurt, rendendolo meglio digeribile. Un caso particolarmente interessante è quello di una sostanza che il nostro microbiota produce, digerendo il melograno. È un metabolite denominato urolitina A, che viene a formarsi digerendo l’acido ellagico, presente in abbondanza nelle bacche e nella frutta secca. Negli ultimi anni, questa molecola è stata studiata con particolare dedizione dal team di ricercatori del Politecnico di Losanna diretto dal professor Johan Auwerx. L’urolitina A consente alle cellule muscolari di proteggersi da una delle principali cause d’invecchiamento: la perdita di efficienza dei mito-

Il Prof. Johan Auwerx, del Poli di Losanna, ha studiato l’urolitina A, metabolita della digestione del melograno. (labiotech.eu)

condri. Organelli presenti all’interno delle cellule, i mitocondri sono la «centrale energetica» di tutti gli organismi eucarioti – compresi noi umani. Col tempo, questi organelli si deteriorano. Una cellula perfettamente funzionale si occupa della degradazione dei mitocondri danneggiati, riciclandoli per produrre nuovi mitocondri. Questo processo – chiamato mitofagia – col tempo diventa sempre meno efficiente, contribuendo in maniera notevole all’invecchiamento. In un articolo apparso il 14 giugno 2019 sulla rivista «Nature Metabolism», il team di Johan Auwerx ha dimostrato gli effetti anti invecchiamento dell’urolitina A in un trial clinico di fase uno: «l’urolitina A (presente in melograni e in altra frutta) potrebbe rallentare l’invecchiamento muscolare e la perdita di forza e massa muscolare tipica della terza età.» Nella sperimentazione umana oggetto di studio

dell’articolo, la molecola è stata somministrata in tre dosi diverse per 28 giorni a tre gruppi di anziani, sedentari ma in buona salute, mentre un quarto gruppo ha ricevuto una sostanza placebo. L’urolitina A si è dimostrata sicura a tutte le dosi e gli esperti hanno visto che, a livello muscolare, la molecola stimola l’aumento della biogenesi dei mitocondri. La questione rilevante dal punto di vista del microbiota, è che il frutto stesso non contiene la molecola miracolosa, ma piuttosto il suo precursore. Solo alcuni di noi dispongono dei ceppi batterici idonei a produrre questa trasformazione, sicché – secondo Auwerx – non restano che due opzioni: o somministrare i probiotici adatti a questo scopo, oppure somministrare l’urolitina A. Il Politecnico di Losanna ha fondato una start-up, Amazentis, che ha messo a punto un metodo per fornire dosi finemente calibrate di urolitina A;

mentre per quanto riguarda la prima opzione, per il momento, non è affatto chiaro quali siano i ceppi batterici adatti a produrre urolitina A. Il caso dell’urolitina A mostra in che modo il nostro microbiota sia in grado di sintetizzare autonomamente molecole utili alla nostra salute, partendo dal cibo che assimiliamo. Dalle ricerche degli ultimi anni, sta emergendo chiaramente che la varietà della nostra alimentazione è di grande aiuto per mantenere una varietà quanto più vasta possibile di batteri benefici. Di grande valore sono in particolare gli alimenti non trattati artificialmente e integrali, ricchi di quegli elementi probiotici utili ad alimentare adeguatamente i batteri che ci sono amici; tanto che non sarebbe troppo sorprendente se, tra qualche hanno, andando a far la spesa, mettessimo nella lista anche qualcosa di specificamente utile per il nostro microbiota.



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Energia dal sottosuolo per il raffrescamento

Ambiente e Benessere

Geocooling Un progetto dimostrativo a Lugano sotto gli auspici dell’Ufficio Federale dell’Energia

Benedikt Vogel La Svizzera è leader nell’uso dell’energia geotermica per il riscaldamento e la produzione di acqua calda sanitaria. Per un utilizzo sostenibile dei sistemi con sonde geotermiche è opportuno prevederne l’impiego anche per il raffrescamento estivo. La Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana (SUPSI) ha esaminato a titolo illustrativo il potenziale del cosiddetto «geocooling» in un immobile residenziale a Lugano. È stato dimostrato che in questo modo il sottosuolo può essere rigenerato efficacemente nei mesi estivi dopo la sottrazione di calore in inverno; allo stesso tempo, gli edifici possono essere raffrescati raggiungendo un buon livello di comfort interno e con un consumo relativamente basso di energia elettrica. Nei primi due anni di funzionamento sono emerse varie problematiche, alcune anche causate da un elevato tasso di umidità negli appartamenti. Il comfort abitativo per i residenti è stato quindi migliorato apportando ottimizzazioni all’impianto. Lo sfruttamento del calore presente nella crosta terrestre mediante sonde geotermiche è molto diffuso in Svizzera. Circa 106’000 pompe di calore in tutto il Paese sfruttano l’energia geotermica per il riscaldamento e l’acqua calda sanitaria, portando il calore estratto dal suolo a livelli di temperatura desiderati mediante l’elettricità. Da alcuni anni le sonde geotermiche sono state utilizzate non solo per fornire calore, ma anche per il raffreddamento di locali residenziali e commerciali. In particolare, i nuovi impianti con sonde geotermiche sono sempre più spesso realizzati con il geocooling. Secondo una stima approssimativa, diverse centinaia di immobili in Svizzera utilizzano l’energia per il raffrescamento proveniente da questa fonte. In Ticino sono in funzione una decina di impianti. Uno si trova a Lugano (quartiere Besso) e fornisce energia termica e di raffrescamento a un edificio residenziale Minergie con 46 appartamenti. Inizialmente per l’immobile, con una superficie di riferimento energetico di 5700 mc, erano previste 17 sonde geotermiche destinate esclusivamente alla fornitura di calore. Il cliente ha deciso successivamente di utilizzare le sonde anche nei mesi estivi per raffrescare l’edificio. Per raffrescare si sfrutta la naturale differenza tra la temperatura dell’aria interna negli appartamenti (elevata) e quella del sottosuolo (bassa). Si è così potuto evitare l’installazione di una pompa di calore reversibile,

normalmente conosciuta anche con il nome di macchina del freddo (che, secondo alcune ben precise condizioni, è consentita in alcuni Cantoni tra cui il Ticino). «Inoltre, il calore sottratto ai locali durante i mesi estivi può essere reimmesso nel sottosuolo e rigenerare quindi il campo di sonde geotermiche», spiega Marco Belliardi, ricercatore della SUPSI, che sta valutando il sistema di geocooling in un progetto di ricerca applicato all’edificio di Lugano (Besso). «Grazie al recupero del calore dei mesi estivi, è stato possibile ridurre il numero di sonde geotermiche da 17 a 15, inoltre dopo che i rilievi geologici hanno indicato condizioni di terreno favorevoli, sono state infine eseguite solamente 13 perforazioni, con una riduzione delle spese di costruzione tra i 70’000 e gli 80’000 franchi». Il nuovo edificio residenziale nel cuore di Lugano è stato abitato a partire dal 2014. Il ricercatore della SUPSI Belliardi vi conduce dal 2016 un programma di monitoraggio dell’impianto di riscaldamento e raffreddamento promosso dall’Ufficio federale dell’energia come progetto dimostrativo, che è terminato alla fine del 2019. L’analisi scientifica ha preso in considerazione due slot temporali così suddivisi: il primo da giugno 2016 a luglio 2018, il secondo da agosto 2018 a ottobre 2019. È stato necessario suddividere il programma in due tranche in quanto l’impianto è stato ottimizzato nell’estate del 2018 e da allora viene monitorata l’efficacia delle ottimizzazioni implementate. Una prima importante scoperta del progetto: il geocooling permette di raffreddare l’edificio residenziale di Lugano con un consumo relativamente basso di energia elettrica. L’estate 2017 può essere presa come riferimento per illustrare questo risultato: durante la stagione estiva, il sistema di geocooling è stato utilizzato per sottrarre 47 MWh di calore all’edificio, mentre per il funzionamento delle pompe di ricircolo sono stati necessari circa 3 MWh di elettricità. In base a questi dati si calcola un coefficiente di prestazione per il raffreddamento (indice di efficienza energetica stagionale/SEER) di 15, o in parole semplici: la capacità di raffreddamento è 15 volte superiore all’energia elettrica utilizzata. Dopo l’ottimizzazione dell’impianto durante l’estate 2018 (migliore regolazione delle pompe di circolazione), nell’agosto 2018 questo valore è aumentato addirittura a 30. Le misurazioni effettuate nell’estate 2019 hanno tendenzialmente confermato questo

Un’immagine schematica mostra le sonde geotermiche collegate alla pompa centrale. (DFE)

valore. «L’efficienza energetica del geocooling è quindi dieci volte superiore a quella di una macchina del freddo tradizionale, che di solito ha un SEER da 3 a 4», afferma Marco Belliardi. «Se potessimo regolare tutte le pompe di circolazione sui valori desiderati e ottimali, potremmo ottenere addirittura un SEER di 40 nell’edificio in esame». Va inoltre tenuto presente che in molti Cantoni l’uso delle macchine del freddo tradizionali per gli edifici residenziali non è consentito. Un secondo risultato dei ricercatori ticinesi: il geocooling consente di rispettare in modo affidabile le norme della Società svizzera degli ingegneri e degli architetti (SIA) per quanto riguarda la temperatura ambiente (norma SIA 382/1). Dopo che le norme SIA erano state in parte quasi disattese con valori vicini alla soglia inferiore nei due periodi estivi 2016 e 2017, la potenza frigorifera dell’impianto è stata ridotta in seguito alle ottimizzazioni effettuate nell’estate del 2018 e la temperatura di mandata nel circuito di riscaldamento a pavimento è aumentata da 18 a circa 20 °C. La temperatura ambiente è stata quindi aumentata in media di circa 2 gradi, producendo un gradito beneficio secondario: poiché il geocooling non deumidifica l’aria, durante le prime due estati l’umidità relativa dell’aria negli

Riscaldare in inverno, raffrescare in estate Le 13 sonde geotermiche sotto l’edificio residenziale di Lugano sfruttano il calore fino a una profondità di 200 metri. Le sonde geotermiche sono costituite da due tubi in polietilene a doppia «U» di circa 40 mm di spessore con cui viene pompata nel terreno una miscela di acqua glicolata (salamoia) che, dopo aver attraversato il sottosuolo a una temperatura di circa 15 °C, ritorna in superficie più calda. Questa salamoia può essere utilizzata per il riscaldamento in inverno e il raffrescamento in estate. In inverno, una pompa di calore salamoia-acqua sottrae il calore dalla salamoia riscaldando l’acqua nel circuito di riscaldamento a 35-40 °C, mentre in estate, quando il circuito di riscaldamento negli appartamenti

cede calore alla salamoia nel terreno, non è necessaria alcuna macchina del freddo (raffreddamento passivo, detto anche «geocooling»). L’acqua del circuito di riscaldamento scorre quindi alla temperatura corrispondente attraverso i tubi posati nel pavimento degli appartamenti e riscalda (in inverno) o raffredda (in estate) gli appartamenti. Il contributo energetico dei collettori solari posti sul tetto dell’edificio non è quantificato a causa della mancanza di adeguati strumenti di misura. Si stima che nella stagione calda questi soddisfino circa la metà del fabbisogno di acqua calda sanitaria. Il loro contributo energetico in inverno è insignificante. Il calore dei collettori solari (ca. 60 °C) non può essere utilizzato per ri-

generare il campo di sonde geotermiche, perché altrimenti l’acqua glicolata del sottosuolo sarebbe troppo calda per essere utilizzata contemporaneamente per il raffreddamento degli appartamenti. In linea di principio, tutti gli impianti geotermici con sonde geotermiche sono adatti al geocooling e attualmente in Svizzera ne sono in uso circa 100’000. Teoricamente anche le circa 6000 idrostrutture sotterranee installate in Svizzera sono adatte al geocooling. In base alla prassi autorizzativa dei diversi Cantoni la reimmissione di acqua riscaldata in falda può non essere tuttavia consentita, oppure può esserlo solo in misura molto limitata. / BV

appartamenti era molto elevata (fino al 90% con una temperatura ambiente di 22°C), compromettendo il comfort abitativo e portando a volte alla formazione di condensa a livello del suolo. Aumentando la temperatura dell’acqua di mandata, la temperatura ambiente negli appartamenti è aumentata di conseguenza, ed è quindi stato possibile abbassare l’umidità relativa dell’aria ottenendo un comfort migliore per i residenti. Inoltre, i ricercatori della Scuola universitaria professionale ticinese hanno acquisito con il loro studio ulteriori conoscenze che forniranno in futuro indicazioni utili ai pianificatori per il corretto dimensionamento degli impianti di geocooling. Per l’impianto realizzato a Lugano, con un campo di 13 sonde geotermiche è stata calcolata una rigenerazione attiva di circa il 25%. Significa che circa un quarto dell’energia che viene sottratta al sottosuolo per il riscaldamento durante l’inverno, viene poi restituita al suolo durante l’estate mediante il geocooling. Ciò è importante anche perché la norma SIA 384/6 è attualmente in fase di revisione per garantire un’adeguata rigenerazione dei campi di sonde geotermiche in aree urbane e densamente popolate. La rigenerazione è infatti importante per far sì che la temperatura media del volume di terreno del campo di sonde geotermiche non diminuisca negli anni, compromettendo nel lungo termine l’estrazione invernale di calore. Una delle difficoltà riscontrate oggi negli edifici realizzati secondo lo standard di costruzione Minergie-P è la quasi assoluta impossibilità di dissipare il carico termico estivo che entra dalle grandi superfici vetrate – un’evoluzione alla quale gli esperti guardano con preoccupazione. «Abbiamo bisogno di edifici ad alta efficienza energetica durante tutto l’anno, e il suolo può svolgere un ruolo importante come accumulatore termico estremamente efficiente. In questo contesto il geocooling è un’opzione interessante per rigenerare il suolo apportando al contempo un gradevole beneficio agli abitanti di un edificio», afferma la Dr. Céline Weber, responsabile del programma di ricerca Energia geotermica dell’Ufficio federale dell’energia. Il progetto ticinese fornisce una se-

rie di suggerimenti anche per la Svizzera tedesca e romanda, benché i risultati sul dimensionamento degli impianti non siano facilmente trasferibili. Nel corso del loro progetto, i ricercatori della SUPSI hanno anche acquisito un’informazione che dovrebbe essere presa in considerazione nei progetti futuri: la persona di contatto durante l’indagine e l’ottimizzazione condotta sull’edificio di Lugano è sempre stata l’amministratore, che ha potuto consultare i 46 proprietari dell’immobile in merito a modifiche ed interventi importanti al sistema di riscaldamento e raffreddamento solo in occasione dell’assemblea annuale condominiale. «È quindi importante pianificare tali sistemi in modo ottimale fin dall’inizio, perché eventuali ottimizzazioni successive durante il funzionamento possono essere molto più difficili da realizzare», conclude Marco Belliardi. Nota

Per informazioni sul progetto è possibile contattare la Dr. Céline Weber (cweber[at]focus-e.ch). Altri articoli specialistici su progetti di ricerca e faro in materia di Energia geotermica sono disponibili all’indirizzo: www. bfe.admin.ch/ec-geothermie

L’UFE sovvenziona progetti pilota, di dimostrazione e faro La ricerca complementare della Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana (SUPSI) sul progetto di geocooling a Lugano è uno dei progetti pilota e di dimostrazione con i quali l’Ufficio federale dell’energia (UFE) promuove lo sviluppo di tecnologie che consentano un uso razionale e parsimonioso dell’energia e incentiva l’utilizzo delle energie rinnovabili. L’UFE sostiene progetti pilota, di dimostrazione e faro con il 40% dei costi imputabili non ammortizzabili. Le domande possono essere presentate in ogni momento.


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Ambiente e Benessere

Bacco, tra enologia e medicina

Scelto per voi

Vino e salute Già nell’antichità si conoscevano le proprietà terapeutiche

legate alla fermentazione delle bacche dell’uva Davide Comoli È materia complessa e a tratti contraddittoria, il rapporto che intercorre tra vino e salute. Il ripercorrere il connubio particolare e l’evoluzione che ha avuto nei secoli, offre più di un motivo d’interesse e precisiamo non solo di tipo medico. La storia del vino ci permette infatti di appurare una volta in più come la bevanda sacra a Bacco non sia solo un prodotto della vigna e del lavoro dell’uomo, ma anche un elemento, oserei dire, insostituibile della nostra cultura. Infatti nel mondo dell’immaginario e della fantasia, il vino alimenta da sempre in ogni epoca storica una profonda e ben radicata simbologia. Pensiamo che approfondire questo argomento aiuti a capire meglio l’epoca in cui stiamo vivendo: la storia dell’uomo è costituita dal continuo alternarsi di varie fasi, estremizzate in una certa epoca e ridimensionate in quella successiva. In poche parole la storia mostra il vino in un continuo alternarsi di immagini, considerato una panacea di molti mali, oppure elemento da demonizzare; perché non pensare al vino semplicemente per quello che è? È inevitabile che quando si parla di vino si finisce sempre a parlare di medicina. È meglio chiarire quindi subito che il nostro lavoro non si pone alcun

Poliziano (Vino Nobile di Montepulciano D.O.C.G.)

Il dio con la sua coppa, in una scultura di epoca romana. (Marka)

obbiettivo scientifico, né tantomeno vogliamo sintetizzare in modo esauriente tutta l’evoluzione della ricerca medica nel corso dei secoli, ma le molte pubblicazioni sul tema che abbondano sui nostri scaffali ci hanno incuriosito talmente che vogliamo farvi partecipi. Ai nostri giorni, non si parla più del vino come bevanda magica dotata di poteri soprannaturali, ma come bevan-

da che se viene consumata in dosi appropriate può aiutare a prevenire alcune patologie. Fino addirittura ad arrivare agli ultimi sviluppi dell’argomento che virano decisamente verso concetti di bellezza e benessere: la vinoterapia è già da tempo diventato un fenomeno ampiamente diffuso. Per cercare di capire il rapporto che esiste tra vino e salute, dobbiamo con

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l’immaginazione ritornare a migliaia di anni fa, quando l’uomo abitava in oscure e fredde caverne. Cosa avrà pensato il nostro lontano antenato nel ritrovarsi davanti al mosto dato dall’autofermentazione di bacche raccolte e dimenticate forse in qualche pelle d’animale? Certo questo è solo un gioco di fantasia e d’immaginazione, ma pensiamo che da quel momento il succo dell’uva incomincia ad assumere un significato diverso. Immergendo le dita, il nostro antenato s’accorge che da esse gocciola un liquido color sangue, magiche dovevano essere le proprietà ad esso attribuite, infatti quando esce dal corpo, sembra portarsi via il nostro «soffio vitale». Spaventato e turbato, si porta le dita in bocca, come normalmente fa ognuno di noi quando si procura una piccola ferita; è dolce e riscalda e dopo averlo bevuto viene preso da un’euforia strana, che gli fa dimenticare la fame. Nella mente del nostro antenato si accende una luce, riscalda, nutre e ci dà felicità, è qualcosa di magico! Non c’è dunque da sorprendersi se la civiltà sumera come quella babilonese ed egizia, abbiano sempre considerato il rapporto vino/medicina mediato tra religione e stregoneria. A quei tempi d’altronde il guarire le malattie era prerogativa dei sacerdoti e dei maghi o di stregoni vari. Per assistere alla nascita della medicina bisogna attendere il greco Ippocrate (460-377 a.C.) che operava sull’isola di Cos, di fronte alle odierne coste turche. Ma prima di continuare la nostra storia, vorremmo far notare ai nostri lettori come l’alcol contenuto nel vino deve non poco aver contribuito a rendere ulteriormente magica questa bevanda agli occhi dei nostri antenati. Sarà proprio l’alcol ad assumere, come vedremo, un ruolo di primaria importanza nell’evoluzione del rapporto vino/ salute a partire dalla fine del 19° secolo. Nel 1910, nell’antica città sumera di Nippur, oggi nel travagliato territorio iracheno, fu rinvenuta la più antica testimonianza del ruolo svolto dal vino in ambito medico. Si tratta di una tavoletta d’argilla risalente a 2600 anni a.C., dove in caratteri cuneiformi un medico dell’epoca, incide un lungo elenco di sostanze da lasciare in infusione in un vino chiamato «Kushumma». L’uso di aggiungere sostanze varie al vino (erbe, miele, spezie, ecc.), non era di certo solo prerogativa di quell’epoca, ancora ai giorni nostri lo si fa: Vermouth, Barolo chinato, Retsina greca, tanto per citarvi i più conosciuti.

Nel suo Bacco in Toscana, Francesco Redi (1626-1698) medico e poeta del vino, canta «Montepulciano d’ogni vino il re». Quale miglior regalo quindi per festeggiare la «Festa del papà»? Da anni punto di riferimento per la D.O.C.G. Nobile di Montepulciano, l’Azienda Poliziano ci regala questo importante vino, prodotto con vitigni autoctoni della Toscana; dominati dal «Prugnolo Gentile», troviamo infatti il «Colorino», il «Canaiolo» e un tocco di «Merlot». Il Nobile di Montepulciano è un vino che ha eleganza da vendere; la zona in cui viene prodotto si trova a ca. 300 m s/m, verso la Val di Chiana. Area questa che gode di un’ottima ventilazione termica che favorisce un microclima adatto in modo particolare ad una viticoltura di qualità. Dal colore rosso intenso e vivo agli occhi, percepiamo note di terra, fiori, frutti croccanti, profumi di macchia mediterranea, note di tabacco e spezie appena fumé, e restiamo meravigliati dall’equilibrio di questo vino. Da abbinare all’agnello al forno, arrosti vari, primi piatti con sughi corposi, un vino insomma per una ricorrenza importante. / DC Trovate questo vino nei negozi Vinarte al prezzo di Fr. 26.90. È tra il 1900 e il 1200 a.C. che risalgono molti dei papiri egizi contenenti prescrizioni mediche a base di vino. Da notare, e sembra quasi un colpo del destino, che uno dei primi geroglifici tradotto da Champollion (1790-1832), che basandosi sullo studio della stele di Rosetta decifrò i caratteri dandone l’interpretazione fonetica, fu AREP, che significa vino. Questi papiri in fondo sono delle ricette farmacologiche «ante litteram», che spesso contengono elementi bizzarri come grasso d’ippopotamo, rane arrostite, occhi di maiale. Ingredienti talmente originali, che alcuni ritengono avessero l’unica funzione di creare misteriosi aloni attorno al mondo dei vini medicamentosi, il tutto per scoraggiare il semplice popolo nel preparare loro stessi questi infusi e proteggere la casta da concorrenti. La cultura ebraica raccolse e rielaborò in seguito il sapere dell’antico Egitto. A tal proposito nel Libro Sacro del Talmud, possiamo leggere: «Il vino è la principale delle medicine; ovunque manchi il vino si rende necessaria la medicina». Questa citazione dimostra in modo molto chiaro il ruolo del vino come «rimedio universale», in grado di guarire ogni malattia conosciuta. Un’ulteriore testimonianza delle virtù terapeutiche del vino, le ritroviamo sia nel Vecchio che nel Nuovo Testamento, in cui troviamo per la prima volta citato il vino in purezza quale rimedio con svariati poteri terapeutici, come ad esempio un possibile antisettico per le ferite.


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Ambiente e Benessere

Giallo come il sole Allan Bay Parliamo oggi di limoni, un agrume fondamentale in tutte le cucine del mondo. È il frutto dell’albero omonimo, appartenente ovviamente al gruppo degli agrumi. Di forma ovale e colore giallo chiaro, ha polpa succosa e sapore molto agro. Le cultivar esistenti sono moltissime. I lime, in italiano limette, sono cugini dei limoni, entrambi appartengono alla stessa famiglia, le Rutacee: la principale differenza è che sono verdi e che sono piante tropicali, mentre i limoni sono sub tropicali.

Tutta una gamma di piatti può giovarsi del suo aroma: è un ingrediente essenziale per carne, pesce, verdura e soprattutto dolci (per non parlare dei profumi) L’albero del limone può fiorire fino a tre volte l’anno: i frutti cosiddetti invernali maturano a partire da ottobre, i bianchetti, meno pregiati, si raccolgono a marzo, i verdelli tra giugno e luglio. Diversamente da altri agrumi, i limoni maturano anche dopo essere stati colti, perciò sono spesso spediti ai mercati ancora verdi. Questo fatto comporta alcune manipolazioni dei frutti: prima del trasporto vengono spruzzati con un fungicida e spalmati con cera e all’arrivo sono trattati per portarli a completa maturazione. Tutte queste sostanze rendono sconsigliabile l’uso della scorza, a meno che nei limoni che comprate non sia certificata l’assenza di trattamenti: i cosiddetti limoni non trattati. Però se non mangiate la buccia, ben vengano i trattamenti. I limoni sono molto apprezzati per la ricchezza di vitamine (non solo la C) e di sali minerali, le proprietà alcalinizzanti, antisettiche, rinfrescanti.

Il limone è raramente gustato a tavola come frutto, ma in cucina è indispensabile: il succo aromatizza varie preparazioni crude e cotte – può sostituire l’aceto come condimento di insalate – ed è spesso usato per marinare pesce o carne, ma attenzione a non eccedere nelle proporzioni per non coprire il sapore degli alimenti. Grazie alla sua azione antiossidante, il succo limone impedisce che frutta e verdura come le mele e i carciofi anneriscano dopo il taglio. È protagonista di gelati, sorbetti, budini e semifreddi; corregge l’acidità delle confetture; diluito in acqua e zuccherato a piacere dà luogo a una rinfrescante limonata. La tradizionale spruzzata di limone sui fritti sembra invece, a detta di alcuni, un’usanza sconsigliabile, perché il fritto, bagnandosi, perde il croccante: de gustibus… (però io sul fritto di mare un po’ lo spruzzo…). Scorza e succo possono essere usati per realizzare marmellate molto gustose. Celebre è la marmellata della tradizione siciliana, nella quale per eliminare il gusto amaro della parte bianca della scorza si fanno bollire i frutti interi in acqua per 3 volte, rinnovando ogni volta l’acqua, prima di iniziare la preparazione vera e propria della marmellata. Pezzetti di scorza, di cui comunque è meglio usare solo la parte esterna e non la parte bianca interna, aromatizzano bevande di tutti i generi. La scorza grattugiata dà un gusto inconfondibile a creme dolci, pasta frolla, impasti per torte e biscotti, ma anche a impasti salati o, per esempio, all’ossobuco. E infine, dalla sua scorza si ricava un’essenza profumatissima, usata per realizzare bibite e caramelle. Ma il limone non è solo un ingrediente indispensabile: il suo ruolo ornamentale è ugualmente importante; a spicchi o a rondelle, tonde o intagliate, rappresenta una simpatica guarnizione di piatti dolci o salati, o di bicchieri con bibite. Per completare, anche la produzione di profumi e detergenti fa largo uso dell’essenza di limone.

Marka

Gastronomia Il limone è un agrume versatilissimo, anzi indispensabile in cucina

CSF (come si fa)

Vediamo come si fanno due classicissimi tortelli: di patate e di zucca. Tortelli di patate, per 6 persone. Cuocete al vapore per 50 minuti 1 kg di patate, levatele, pelatele e passatele allo schiacciapatate. Rosolate in una casseruola una cipolla, uno spicchio di aglio e 50 g di pancetta tritati. Amalgamate il soffritto con le patate, aggiungete 150 g di ricotta, una grat-

tugiata di noce moscata e 2 cucchiai di grana grattugiato e regolate di sale e di pepe. Preparate della pasta all’uovo con 400 g di farina, 4 uova, un pizzico di sale e acqua, poi stendete la sfoglia e tagliatela in rettangoli di 4 x 7 cm. Mettete al centro un cucchiaino di ripieno, ripiegate la pasta a triangolo o a rettangolo e pressate bene i bordi. Cuocete i tortelli per 7 minuti, scolateli con la schiumarola e saltateli per 2 minuti in una casseruola con una noce di burro, un mestolo di acqua di cottura e una manciata di grana grattugiato. Tortelli di zucca, per 6 persone. Togliete i semi, ma non la scorza, a un pezzo di zucca di circa 1,5 kg e tagliatela a fette di 2 cm di spessore. Cuocetela in forno a 180° per 10 minuti, finché la polpa risulterà morbida, quindi

levate la scorza e passate la polpa. Pestate 120 g di amaretti e impastateli alla zucca. Unite 150 g di mostarda di Cremona tritata, 5 dl di liquido della mostarda, 40 g di grana, noce moscata, sale e pepe e mescolate; lasciate riposare il ripieno, coperto, per qualche ora. Preparate la pasta fresca come indicato sopra. Tirate una sfoglia sottile e ritagliatela in quadrati di 8 cm. Deponete al centro di ciascuno un cucchiaino di ripieno e ripiegate la pasta a triangolo o a rettangolo, premendola bene sui bordi affinché il ripieno non esca. Lasciate asciugare i tortelli per circa 1 ora, quindi cuoceteli per circa 5 minuti scolandoli con la schiumarola quando sono ancora leggermente al dente. Disponeteli a strati sul piatto di portata, condendo ogni strato con burro fuso e grana grattugiato.

Ballando coi gusti Oggi, risotti. Ben sapete quanto io ami il riso e i risotti in particolare…

Risotto con peperoni e zucchine

Risotto alle mele

Ingredienti per 4 persone: 320 g di riso da risotti · 2 peperoni piccoli · 2 zucchine

Ingredienti per 4 persone: 320 g di riso da risotti · 1 mela grossa · 2 o 3 scalogni · 1 gambo di sedano · brodo vegetale · limone · burro · sale e pepe.

Abbrustolite i peperoni sulla fiamma, privateli della pellicina, mondateli dei semi e dei filamenti e tagliateli a listarelle. Mondate le zucchine e tagliatele a rondelle. Rosolate le verdure con poco burro per un paio di minuti – o più se così vi piace. Tostate il riso in una casseruola senza altro aggiungere per 1 minuto. Aggiungete 1 mestolo di brodo bollente e 4 cucchiai di soffritto di cipolle e portate il riso a cottura a fuoco medio basso, unendo il brodo bollente necessario. Due minuti prima che sia pronto unite le verdure e regolate di sale. A cottura, a fuoco spento mantecate con 20 g di burro, se volete profumate con prezzemolo, fate riposare al coperto per un paio di minuti e servite spolverando con pepe.

Pelate la mela, tagliatela a pezzetti gettandoli subito in acqua acidulata con succo di limone perché non anneriscono. Mondate e spezzettate gli scalogni e il sedano, unite poco brodo e la metà della mela e cuocete per 10 minuti, poi frullate. Tostate il riso in una casseruola senza altro aggiungere per 1 minuto. Aggiungete 1 mestolo di brodo bollente e le verdure frullate e portate il riso a cottura a fuoco medio basso, unendo il brodo bollente necessario. 2 minuti prima che sia pronto unite l’altra metà delle mele e regolate di sale. A cottura, a fuoco spento mantecate con 20 g di burro, fate riposare al coperto per un paio di minuti e servite spolverando con pepe.

piccole · soffritto di cipolle · prezzemolo · brodo vegetale · burro · sale e pepe.


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Idee e acquisti per la settimana

Zucchine, pomodori e spinaci

Per poter raccogliere cetrioli, zucchine e pomodori dal proprio giardino durante l’estate, Patrick Stöpper insieme ai figli John e Jayden mette i semi nella terra già in febbraio. Una volta terminato il lavoro, però, non sanno più esattamente cosa hanno seminato e dove Testo Rahel Schmucki; Foto Monika Flückiger

«L’anno scorso avevamo zucchine giganti in giardino».

legno. Jayden, che è in prima elementare, può scriverci i nomi. Conosce già quasi tutte le lettere. Soltanto sull’H si sente insicuro. «Scrivi come pensi che sia corretto», gli dice Patrick dandogli uno spesso pennarello nero. Tutto concentrato, Jayden si siede al tavolo e scrive: zucchne, cetrioli, pomodori, spnaci e carote. Nel frattempo John ha messo nella terra anche i semi di cetriolo e pomodoro. Adesso i due bambini possono finalmente riempire d’acqua gli annaffiatoi. Versano con cura l’acqua sulle piccole formine. «Basta, basta così. Altrimenti si inzuppano», esclama Patrick salvando i semi dall’annegamento.

John (5 anni) si ricorda del raccolto della scorsa estate.

Sulla tovaglia di plastica a strisce bianche e blu c’è un po’ di terra. La paletta da giardino, la zappetta e i semi sono disposti alla rinfusa. Il lunedì pomeriggio John (5 anni) e Jayden (7 anni) non vanno a scuola e il papà Patrick Stöpper (40enne) è a casa con loro. Oggi la famiglia di Wangen an der Aare (BE) ha in programma di fare un po’ di giardinaggio. Patrick Stöpper ha comprato terriccio da semina, diversi semi e vaschette di coltura. Oggi vogliono piantare cetrioli, pomodori e zucchine. Forse anche carote e spinaci nella cassetta rialzata. «Queste sono le varietà di verdura preferite dei miei figli», spiega il padre mentre apre le confezioni e distribuisce i semi sul tavolo che si trova all’ombra del pergolato davanti alla casa. I due bambini prendono le palette e le zappette da una cassetta e un piccolo innaffiatoio. Sulla strada accanto alla casa unifamiliare passa un gruppetto di bambini con pattini in linea e monopattini. Incuriositi, guardano oltre la siepe. «Cosa state facendo?», chiede una bimba. «Stiamo facendo giardinaggio», risponde John bagnando in modo dimostrativo la terra accanto alla siepe. Nel frattempo è pronto anche Patrick Stöpper. Ha travasato per i suoi figli un po’ di terriccio da semina dal sacco di plastica in grandi vasi e ha sistemato le vaschette di coltura una accanto all’altra. «Così c’è almeno un po’ di ordine», afferma.

Fiori per la mamma

«Una zucchina gigantesca»

Fare giardinaggio con i bambini è una tipica attività primaverile della famiglia Stöpper. L’anno scorso hanno coltivato cetrioli da insalata, peperoni e basilico nella piccola cassetta per piante rialzata e hanno raccolto mele dall’albero in giardino e ribes rossi dal cespuglio. «Ai bambini piacciono soprattutto i pomodori ciliegia, che piluccano come snack», racconta Patrick. Le zucchine, invece, fanno fatica a mangiarle e il padre deve nasconderle nel cibo. «Per esempio grattugiandole in un gratin», bisbiglia Patrick per non svelare il segreto, in particolare al più piccolo. Malgrado ciò, John si ricorda bene di questa verdura: «L’anno scor-

so avevamo una zucchina gigantesca», racconta ripetendo sempre «zucchina gigantesca» mentre saltella di qua e di là. «Sì, era davvero grande. Quasi così», conferma Jayden allargando le mani di circa mezzo metro. Jayden riempie con cautela le vaschette di terra, vi fa un buco con l’indice destro e vi infila due o tre semi a una profondità di due centimetri. «Mettiamo sempre più semi in ogni buco. Così siamo sicuri che cresca qualcosa», precisa Jayden. Il piccolo John vorrebbe aiutare, ma il tavolo è troppo alto. Raggiunge a malapena con la sua paletta il vaso con la terra. Patrick gli porta uno sgabello e ora può affondare bene le mani nella terra.

«Per essere certi che cresca qualcosa, piantiamo diversi semi nel terreno». Jayden (7 anni) mangia volentieri pomodori cherry. L’ortografia corretta

Dopo poco tempo le prime file di zucchine sono seminate e John passa ai cetrioli. Jayden si chiede: «Come facciamo a sapere dove abbiamo piantato cosa?» Patrick Stöpper ha già preparato dei cartellini di

I cartellini con le scritte sono pronti, ma dove si trovano i cetrioli e dove le zucchine? «Credo che qui ci siano le zucchine», dice Jayden. Ma non è del tutto sicuro. «Non fa niente, sarà una sorpresa, li rassicura Patrick infilando insieme ai figli i cartellini nella terra. Un po’ annoiato il piccolo John prende un cartellino vuoto e il pennarello. Scrive l’unica parola che sa scrivere: John. Dopodiché lo infila in una vaschetta. «Adesso qui crescerà un piccolo John», afferma ridendo a crepapelle. Patrick Stöpper sistema i vasetti in cucina. Quando le piantine saranno abbastanza grandi, le pianterà fuori in giardino. «Probabilmente dovremo coprirle con un telo per proteggerle dal gelo». Dopo tanto lavoro i bambini sono stanchi e un po’ impazienti. Non hanno più la forza per piantare anche gli spinaci e le carote. Ma Patrick ha ancora un’idea. Va a prendere un vaso quadrato che si trova sul davanzale. «Venite, piantiamo dei semi di fiori e non diciamo niente alla mamma. Così cresceranno improvvisamente dei fiori davanti alla finestra.» Ancora una volta John e Jayden prendono le loro palette e riempiono il vaso di terra. Per questa bella sorpresa hanno ancora abbastanza energia.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 marzo 2020 • N. 11

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■ Le vaschette da coltura vanno collocate in un luogo luminoso della casa. ■ I semi che germinano con la luce devono essere spinti solo leggermente nella terra e non vanno coperti. ■ A partire da aprile, quando il terreno si è riscaldato, è possibile spargere a spaglio, direttamente all’aperto, alcuni semi come, ad esempio, quelli della salvia selvatica, dell’issopo officinale, dell’iperico o della calendula. ■ Prima si deve però smuovere la terra liberandola dalle erbacce. ■ Stendendo un telo protettivo di tessuto non tessuto sopra il terreno seminato si possono mitigare gli sbalzi di temperatura tra notte e giorno e proteggere le piantine appena germogliate dai predatori.

«Ai bambini piacciono molto i pomodori». Patrick Stöpper si dedica spesso al giardinaggio con i figli John e Jayden. Annaffiatura moderata

■ Dopo aver interrato i semi segue l’annaffiatura, che deve essere effettuata prestando attenzione ad alcuni punti importanti. ■ Occorre evitare intensi getti d’acqua dall’annaffiatoio che trascinerebbero via i semi. ■ La soluzione migliore è disporre il vaso in un contenitore con dell’acqua – come ad esempio una vasca o un lavabo – e lasciare che l’acqua penetri dal basso. ■ Dopo questo primo bagno i semi vanno inumiditi con regolarità. L’ideale è utilizzare uno spruzzatore. ■ Non si deve mai fare asciugare completamente il terriccio! Si tratta di semi vivi. Non appena viene interrotto il riposo vegetativo dei semi, si mette in moto un meccanismo e non possiamo più abbandonare i semi a se stessi.

■ Non si deve dimenticare di rimuovere regolarmente la copertura per garantire un apporto d’aria fresca alle piantine. Trapianto

Semina: in vaso o nel terreno?

■ Per prima cosa si devono leggere sempre attentamente le istruzioni stampate sulla confezione dei semi! ■ I fiori annuali o le erbe aromatiche vengono seminati preferibilmente in vaschette per coltura. Ciotole di terracotta, vassoi di coltivazione, scatole di cartone delle uova, vasetti dello yogurt: il tipo di contenitore non è importante. Basta che abbia però dei fori di drenaggio sul fondo. ■ Il terriccio giusto: per una buona semina è meglio utilizzare l’apposito terriccio. È particolarmente soffice e lascia defluire bene l’acqua. I semi non tollerano l’acqua stagnante. Se l’umidità è eccessiva, i semi marciscono ancora prima di germogliare.

■ Occorre distribuire le sementi sul terriccio e, se si tratta di cosiddetti semi scuri, è necessario ricoprirli leggermente di terra, senza premerli a fondo. Vale la regola generale secondo cui quanto più piccoli sono i semi, tanto più sottile dev’essere lo strato di terra di cui sono ricoperti. Un grosso seme di fagiolo tollera da quattro a cinque centimetri di terra, mentre per i piccoli semi di cosmea sono sufficienti due millimetri. ■ Al termine della semina si deve premere leggermente la superficie in modo che i semi siano a contatto anche con il substrato. Si ricopre poi con un coperchio di plastica trasparente, arieggiando di tanto in tanto.

Ogni pianta ha una sua particolare velocità di crescita. Sotto una copertura protettiva ci vogliono in media 14 giorni prima che il seme germogli e altri dieci fino al momento del trapianto. Le piante che nascono dai semi crescono fitte le une accanto alle altre e rischiano di ostacolare a vicenda il proprio sviluppo. Per tale ragione occorre seguire poche semplici regole. ■ Non appena le piantine producono due foglie vere e proprie (da non confondere con i cotiledoni dei semi!), devono essere sfoltite. Per fare ciò si estraggono con cautela dalla vaschetta da coltura le piantine più forti. ■ Con l’aiuto di un piantatoio queste vengono poi trapiantate in un contenitore più grande o direttamente nel terreno all’aperto, a una distanza di cinque centimetri una dall’altra. ■ Per il trapianto delle piantine si utilizza un terriccio ricco di nutrimento, ma privo di torba. Il terriccio per gerani è, ad esempio, un’ottima scelta.

Il round successivo

■ I fiori preferiti si possono moltiplicare facilmente: basta raccogliere i loro semi. ■ A tale scopo sono adatti i fiori quali l’echinacea, la zinnia o il girasole nonché varie erbe aromatiche. ■ Importante: le piante non devono essere nate da sementi ibride F1. ■ I semi devono maturare sulla pianta e venir raccolti solo quando sono ben secchi. ■ La semente raccolta e ben essiccata si conserva d’inverno chiusa in una busta, collocata all’asciutto e al buio.

«Dove si nascondono i cetrioli e i pomodori?» Jayden (7 anni) cerca di capire insieme al papà in quale vaso ha piantato i vari semi.

■ E non si deve dimenticare di scrivere sulla busta il nome della pianta! ■ Adatte per la raccolta dei semi sono le piante cresciute da sementi bio.


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Ambiente e Benessere Dall’8 cilindri a V sotto il cofano, si passa oggi a un motore elettrico da 258 o 337 CV.

Un clerodendro da casa

Mondoverde Sempreverde con foglie

semplici e fiori bianchi cascanti, come glicini Anita Negretti I clerodendri sono piante originarie di Asia ed Africa, con grandi foglie e fiori e con bacche dalla forma di stella. Alte fino a nove metri, vengono utilizzate nei parchi e nei giardini ampi per creare zone ombrose sotto le quali fermarsi nelle calde giornate estive.

Il puledro diventa elettrico

Il suo nome si deve al fatto che il clero cingalese usava tenere delle cerimonie religiose sotto la sua folta chioma

Motori La nuova Mustang Mach-E trasborda un mito del passato

in un veicolo del futuro

Mario Alberto Cucchi Era il 1964 e in America si affacciava al mondo del lavoro la prima generazione dei baby boomers. I giovani nati subito dopo la fine della seconda guerra mondiale e cresciuti in un contesto economico forte. A loro pensava Lee Iacocca, il famoso manager Ford, mentre chiedeva a designer e ingegneri di progettare una nuova vettura sofisticata. Dall’idea di Iacocca nel 1964 nacque la prima Mustang. Una giovane muscle car, un’auto muscolosa nelle forme, un mezzo che non passava inosservato, a partire dal cavallo lanciato al galoppo che ne identifica il modello e che svetta al centro della calandra anteriore. Il Mustang è una particolare razza di cavalli selvatici del Nord America. In oltre cinquant’anni di storia sono stati costruiti molti modelli di Ford Mustang. Indimenticabile per gli appassionati la GT 350 realizzata da Carol Shelby con il beneplacito della Ford nel 1965, che eroga 306 cavalli. Mitica la Shelby GT 500 del 2007 che sotto il cofano ospita un motore 8 cilindri a V da 5,4 litri sovralimentato in grado di erogare una potenza di 500 cavalli. Queste iconiche e sportive auto a stelle e strisce sono generalmente equipaggiate da propulsori alimentati a benzina caratterizzati dalle grandi cilindrate e dagli importanti consumi.

D’altronde, il gallone di benzina negli Stati Uniti costa meno di un litro qui da noi. Ma ai giorni nostri, tutti vogliamo consumare poco e inquinare ancora meno. Mustang non si tira indietro anche in questa sfida e presenta la nuova Mustang Mach-E: un suv elettrico che traghetta la muscle car nel mondo dell’elettrificazione e lo fa in modo convincente, adottando tutte le ultime tecnologie, seppur mantenendo uno stile unico e distinguibile. Sotto il cofano non borbotta più un motore V8 assetato di benzina, ciò nonostante il mitico cavallo svetta come sempre al centro della calandra. Mach-E non rinuncia neppure alle prestazioni, che oggi non sono più solo cavalli e velocità massima (è limitata elettronicamente a 180 orari), ma anche autonomia e tempi di ricarica. 450 chilometri di autonomia massima dichiarati da Ford secondo il ciclo Wltp per la versione a due ruote motrici da 258 cavalli di potenza massima, equipaggiata con cerchi in lega da 18 pollici. L’autonomia massima scende a 420 chilometri per la versione a trazione integrale da 337 cavalli, in cui l’energia viene distribuita in modo uniforme su entrambi gli assi tramite un doppio motore elettrico. In quest’ultima i cerchi di serie sono da 19 pollici. Attenzione però, si può scegliere tra due diversi pacchi batterie: standard range da 75,7

kWh ed extended range da 98,8 kWh. Con quest’ultimo l’autonomia teorica sfiora i 600 chilometri, sempre secondo il protocollo Wltp. La ricarica può avvenire con una potenza sino a 150 kW nelle colonnine dedicate, riducendo i tempi necessari per il pieno. Bastano dieci minuti per ottenere 93 chilometri di autonomia. Con 38 minuti si passa dal 10% all’80%. La ricarica può anche avvenire durante la notte tramite una pratica wallbox posizionata nel garage di casa, ma i tempi si dilatano. Mustang Mach-E è un’auto americana pensata per l’Europa: sospensioni, telaio e sterzo sono studiati per le nostre strade, non solo per le immense autostrade americane in cui le curve sono sempre davvero poche. Ford ha svelato in questi giorni la nuova Mustang Mach-E a Londra e ha sfruttato l’occasione per annunciare l’intenzione di introdurre 1000 stazioni di ricarica presso le strutture Ford in tutta Europa nei prossimi tre anni. Il prezzo di Mach-E? A partire da circa 50’000 franchi svizzeri per la versione a due ruote motrici che salgono a circa 60’000 franchi svizzeri per l’integrale. Per vederla su strada bisognerà aspettare un po’. Infatti le prime consegne avverranno solo alla fine del 2020. Si può già prenotare su sito svizzero di Ford versando una caparra di 1000 franchi.

Arrivate in Europa alla fine del 1700, devono il loro curioso e complicato nome a Linneo, che coniò per loro la nomenclatura legata a Kleros (clero) e dendron (albero), ovvero piante utilizzate durante le funzioni religiose e, nello specifico nelle messe della popolazione cingalese nello Sri Lanka. Tra le varie specie in vendita si trova però una curiosa eccezione che ha il pregio di avere un’altezza modesta e soprattutto una bella fioritura invernale, da accompagnare a quella della arci-

nota Stella di Natale o ai sempre allegri ciclamini. Si tratta di Clerodendrum laevifolium «Prospero» (sinonimo di C. wallichii «Prospero»), di origine orticola, caratterizzato dal fatto di essere un sempreverde con foglie semplici, verdi intense e lucide. Alto non più di 40-50 cm, nel corso di vari anni può raggiungere il metro e si presenta con fiori bianchi disposti in lunghi grappoli cascanti, simili a quelli dei glicini, che sbocciano in autunno fino alle festività natalizie. Amanti di posizioni luminose ma non di raggi diretti del sole, si sviluppano bene con temperature tra i 18 ed i 22°C, deperendo però sotto i 12°C. Bagnate un paio di volte alla settimana, queste belle e decorative piante si mantengono in ottima salute, soprattutto se da fine agosto e per tutto il periodo della fioritura vengono concimate regolarmente con prodotti liquidi dall’alto titolo di fosforo. Al termine dell’inverno, tra fine febbraio e marzo è utile accorciare i rami vecchi o che seguono crescite scomposte, in maniera tale da poter ottenere una chioma sempre compatta, mentre con l’arrivo delle prime giornate calde primaverili si possono trasferire all’esterno al riparo dal sole diretto.

Un esemplare di Clerodendrum laevifolium. (Wikipedia) Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 marzo 2020 • N. 11

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Ambiente e Benessere

Alle soglie dell’Amazzonia

Un galleria con altre immagini è pubblicata su www.azione.ch. (Natalino Russo)

Viaggiatori d’Occidente Sul Río Napo, tra i fiumi e le foreste dell’Ecuador alla corrente del Río Napo ma poi, impossibilitati a tornare indietro, furono costretti ad assecondarla e così si ritrovarono a navigare per migliaia di chilometri in un universo verde di foreste e acqua. Lungo il loro viaggio alla ricerca del mitico Eldorado incontrarono piante e animali mai visti, si scontrarono con le popolazioni locali, si meravigliarono di fronte alle donne guerriere, le Amazzoni, tanto da chiamare così quel grande fiume che prendeva forma dinanzi ai loro occhi stupiti. Il resoconto di quel lungo viaggio fu scritto dal cappellano della spedizione, Gaspar de Carvajal: Relación

Sul Rio Napo. (Natalino Russo)

del nuevo descubrimiento del famoso Río Grande que descubrió por muy gran ventura el capitán Francisco de Orellana. È la narrazione di un’epopea durata otto mesi, dal dicembre 1541 all’agosto 1542, un’avventura partita dai vulcani delle Ande e conclusasi nell’oceano Atlantico, migliaia di chilometri più a est. Il viaggio di Orellana cominciò nel territorio dell’attuale Ecuador, dove oggi sorge una città dedicata proprio al «descubridor del Amazonas». È Puerto Francisco de Orellana, da tutti chiamata El Coca per via del Río Coca, il grande affluente che il Napo riceve da nord. Nonostante El Coca sia una cittadina di quarantamila abitanti, questi sono luoghi meravigliosamente selvaggi. Soltanto nel 2012 è stato inaugurato il primo ponte per superare il Napo, il Puente Majestuoso, lungo settecento metri, l’ultimo ponte di tutto il corso d’acqua: fino alla foce del Río delle Amazzoni, quasi seimila chilometri più a valle, non c’è altro modo di attraversare il fiume se non in barca. Il Napo si trova a poca distanza dalla sierra e dai vulcani, eppure è già un fiume enorme; per svariate centinaia di chilometri raccoglie le acque di decine di affluenti. Facilmente navigabile con piccole imbarcazioni, è un’importante via di comunicazione che collega una vasta area al confine tra l’Ecuador, la Colombia, il Perù e, poco più a est, il Brasile. Sul fiume scivolano veloci lance a motore e si spostano lentamente le piroghe degli indigeni. Si può navigare

La Laguna de Limoncocha. (Natalino Russo)

Alcune guide accompagnano nell’esplorazione della Laguna. (Natalino Russo)

Natalino Russo Nel 1542 lo spagnolo Francisco de Orellana fu il primo europeo a navigare per intero il Rio delle Amazzoni, all’epoca conosciuto come Río Grande ma ancora non documentato né cartografato. Orellana era impegnato con Francisco Pizarro nella conquista dell’Impero Inca quando intraprese un viaggio esplorativo lungo il corso del Río Napo, un fiume secondario che nasce alle falde del vulcano Cotopaxi. Quel viaggio si trasformò in una delle più incredibili spedizioni geografiche mai compiute: Orellana e i suoi uomini si affidarono

Monumento a Francisco de Orellana. (Natalino Russo)

per un migliaio di chilometri attraverso spettacolari porzioni di foresta fino al centro abitato di Nuevo Rocafuerte, entrare in Perù e poi giungere alla confluenza con l’immenso rio delle Amazzoni.

Il Napo dà il nome alla grande provincia ecuatoriana di Napo e più a valle divide la provincia di Orellana da quella di Sucumbíos, che si estende fino alla Colombia; lambisce importantissime aree naturali come le riserve di Cuyabeno e di Yasuní. Quest’ultima in particolare è una delle zone a maggior biodiversità del pianeta: si stima che in un solo chilometro quadrato ci siano più specie di piante native che in Stati Uniti e Canada insieme. Navigando il Río Napo ci si immerge in una natura esuberante e splendida. Da una parte e dall’altra del fiume, quelle che sembrano rive sono in realtà solo l’inizio di un’immensa foresta inondata, un vero e proprio universo acquatico verde. Lungo il Napo ci sono anche riserve naturalistiche meno conosciute e ugualmente ricche, come quella di Limoncocha, estesa su 4.613 ettari. Si trova presso il villaggio omonimo, nel cantone di Shushufindi, provincia di Sucumbíos. Dalla città di El Coca sono sufficienti tre ore di barca, oppure poco più di un’ora e mezza di lancia veloce. Qui c’è una laguna (cocha, in lingua kichwa) che assume spesso un colore verde limone per via dei lechuguines, piante galleggianti che ricoprono buona parte dello specchio d’acqua. È il regno dei caimani e delle tartarughe, delle scimmie urlatrici e dei giaguari: nella riserva sono state censite 53 specie di mammiferi, 144 di uccelli, 93 di pesci e 92 di anfibi e rettili. Ma lo spettacolo arriva all’imbrunire, quando l’intera laguna si illumina di milioni di lucciole... Oltre alla maggioranza di popolazione Kichwa, lungo il Napo vivono ancora gli indigeni Waorani, che sono usciti dalle loro terre d’origine soltanto alla fine del secolo scorso. E si conoscono casi di popolazioni che non hanno mai avuto relazioni con l’esterno: per loro scelta preferiscono rimanere isolate. Navigando su questo fiume si vedono spuntare nel verde della vegetazione i tralicci di alcune perforazioni petrolifere, segno di una colonizzazione mai veramente finita. Ma oggi questa terra sperimenta anche modelli di ecoturismo più vantaggiosi per le comunità locali, dischiudendo le porte di un nuovo Eldorado, più lungimirante e rispettoso.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 marzo 2020 • N. 11

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Ambiente e Benessere

Sul Delta del Danubio

Tagliando di prenotazione Desidero iscrivermi al viaggio dal 25 settembre al 9 ottobre 2020

Viaggio Viaggio di gruppo

Nome

in collaborazione con «Azione» dal igros del valore 25 settembre al 9 ottobre 2020 M In omaggio a camera, 1 canirtaenMtro il 30 aprile 2020

Cognome

io di CHF 50.– con prenotaz

Dopo un lungo viaggio di navigazione sul Danubio iniziato dalla Foresta Nera, si raggiunge la regione della «Dobrogea» per immergersi nelle acque del Mar Nero e nel magnifico Delta; il meglio conservato d’Europa. Il Delta del Danubio è considerato Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco e area protetta dal WWF. Dal

punto di vista naturalistico, è una delle aeree più importanti del nostro Pianeta! Con 2783 chilometri il Danubio è il secondo corso d’acqua più lungo in Europa, dopo il Volga in Russia che ne misura 3692, e regala incontri con attrattive naturalistiche oltre che il fascino di storiche capitali europee.

Via NAP

Informazioni nave

MS THURGAU ULTRA***** è una nave suite come nessun’altra. Lo squisito arredamento di legni pregiati, marmo di alta qualità, cromo lucido e pelle crea l’ambiente

Il programma di viaggio 1. Ticino – St. Margrethen – Passau. 2. Vienna. Pomeriggio di visite della città imperiale; dalla zona nuova di Vienna fino al suo romantico centro storico. 3. Solt – Puszta. Nel pomeriggio escursione da Solt alla Puszta ungherese: visita con dimostrazione della tradizionale equitazione ungherese. 4. Belgrado. Visita della capitale serba con la sua ricca storia. 5. Navigazione. Giornata di navigazione attraversando «La Porta di Ferro». 6. Bucarest. Al mattino, l’escursione inizia

con la visita della capitale rumena, anche conosciuta come la «Parigi dell’Est». 7. Tulcea – Delta del Danubio. Intensa escursione nel magnifico Delta con le apposite imbarcazioni. 8. Ruse. Il più grande porto del Danubio in Bulgaria. Visita al monastero di Basarbowski appena fuori città. 9. Navigazione. Giornata di navigazione ripassando dalla «Porta di Ferro». 10. Belgrado – Novi Sad. Escursione da Belgrado a Novi Sad, con sosta al monastero di Krusedol.

11. Mohács – Pécs. Escursione a Pécs, una delle città più belle e antiche dell’Ungheria. 12. Budapest. Giro panoramico in bus e a piedi per la capitale ungherese. Pomeriggio a vostra disposizione. 13. Bratislava. 14. Weissenkirchen. Escursione all’Abbazia di Melk, patrimonio mondiale dell’UNESCO. 15. Passau – St. Margrethen – Ticino. Trasferimento con il torpedone verso il Ticino. Arrivo in serata.

Bellinzona

Lugano

Locarno

Viale Stazione 8a 6500 – Bellinzona T +41 91 820 25 25 bellinzona@hotelplan.ch

Via F. Pelli 7 6900 – Lugano T +41 91 910 47 27 lugano@hotelplan.ch

Piazza Stazione 8 6600 Muralto Tel. 091 910 37 00 locarno@hotelplan.ch

Giochi Cruciverba Purtroppo ogni anno il deserto avanza di… Termina la frase completando il cruciverba e leggendo nelle caselle evidenziate. (Frase: 12, 10, 8)

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pullman Gran Turismo Ticino – Passau e ritorno; tasse portuali; servizi privati in cabina prenotata; pensione completa senza bevande durante la crociera; pacchetto escursioni in lingua italiana; carta regalo Migros 50.- CHF a cabina; accompagnatore Hotelplan Ticino. La quota non comprende Bevande; extra in genere; assicurazione viaggio; mance (ca. 5-7 EUR per persona al giorno da pagare in loco); spese dossier.

La quota comprende La quota comprende: trasferte in

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39. Dottrina opposta alla chiesa 40. La nota Ricciarelli VERTICALI 1. Ballo brasiliano 2. Malvagi, crudeli 3. Le hanno il topo e la talpa 4. È ripetitivo 5. Non sta né in cielo né in terra!... 6. Servizio vincente a tennis 7. Le iniziali del cantante Cutugno 8. Facilitare, agevolare 9. Una lettera dell’alfabeto 11. Elemento del perimetro 14. La cerca il molesto I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.

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Scoprire i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.

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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch

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Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku

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ORIZZONTALI 1. Gruppo ideologico chiuso 5. Una festa molto amata 10. Vasti, spaziosi 11. Uniti da uno stretto legame... 12. Le iniziali del cantante Pezzali 13. Randelli 15. Ultra High Frequency 17. Si richiede con enfasi 19. Andate per Cicerone 20. Sono delle miscredenti 21. Elevato 23. Diede un figlio ad Abramo 24. Motivi orecchiabili 25. La Golda israeliana 27. Accozzaglia di uomini armati 28. Titolo nobiliare 29. Pari nel veleno 31. Un’emittente televisiva italiana 32. Può allungare o accorciare la spiaggia 34. Due in quinta 35. Mutata, rinnovata 37. Cantone della Svizzera

giusto ed elegante. 120 passeggeri per un totale di 60 cabine, tutte dotate di doccia/WC, TV/Radio, minibar, asciugacapelli, telefono e aria condizionata con regolazione individuale. Le cabine sul ponte principale hanno una finestra non apribile. La nave dispone di ristorante principale, salone panoramico con il pavimento da ballo, bar, reception, boutique, bistro con angolo Internet, sala fitness, parrucchiere, ponte prendisole con Jacuzzi. Le lingue parlate a bordo sono tedesco e inglese.

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16. Suo a Londra 18. Si conservano sott’olio 20. Pari in larghi 22. Prima moglie di Giacobbe 23. L’atmosfera del Carducci 24. Pappagallo americano 25. Si prende con un occhio 26. Sferica 27. Le tracce del passato 28. Fiume sloveno 30. Giusti, equilibrati 32. Pronome personale francese 33. Nonna, antenata 36. Iniziali del poeta Saba 38. Le iniziali della Tatangelo Partecipazione online: inserire la

soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-

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CURIOSITÀ IN CUCINA – Se la minestra è troppo salata immergervi… Resto della frase: …TRE FETTE DI PATATA CRUDA.

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Z E F I T I T O P E R A I O M O N O C A L O R A T A C O R L U N D A Z I O

R E T T E

luzione, corredata da nome, cognome, indirizzo, email del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 marzo 2020 • N. 11

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Politica e Economia Super Joe Biden A sorpresa l’ex vice di Obama sbaraglia gli avversari e sfiderà Trump il 3 novembre

Partita a tre in Medio Oriente L’accordo raggiunto fra Mosca e Ankara su Idlib riporta i riflettori sulla partita geopolitica che si sta giocando nella regione mediorientale e su una delle più grandi tragedie umanitarie

Accordo di pace Usa e Taliban hanno firmato a Doha un’intesa per la pace in Afghanistan e il ritiro delle truppe americane entro 14 mesi

5G, vantaggi e incognite La telefonia mobile di quinta generazione ha il potenziale di cambiare la nostra vita. A che punto siamo in Svizzera? pagina 33

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pagina 32 Una passante con la mascherina al Dongdaemuna Design Plaza a Seul. (AFP)

Un test per la democrazia?

Ai tempi del coronavirus Cina e Italia adottano modelli di contenimento autoritari. Mentre in Europa, Corea

e in parte anche Giappone c’è libertà assoluta. È scontro fra sistemi in un momento di rinascita dei nazionalismi

Giulia Pompili Intorno alle undici e mezzo di lunedì scorso un uomo di cinquant’anni stava facendo la fila a un ufficio postale del distretto di Jung-gu, nella città sudcoreana di Daegu. È lì, infatti, che vengono distribuiti ai cittadini i presìdi di protezione, mascherine e guanti, per tentare di limitare il contagio del nuovo coronavirus. Un giornalista della tv pubblica sudcoreana KBS gli si avvicina, gli fa qualche domanda, e l’uomo spiega di essere stato trovato positivo al virus poche ore prima, ma che aveva comunque bisogno di andare a prendere le mascherine. Il giornalista gli dice di tornare a casa, poi avverte la polizia. Nel giro di qualche minuto un’auto con personale medico raggiunge l’infetto potenzialmente contagioso e lo accompagna in isolamento. Anche il giornalista viene costretto alla quarantena. È la nuova normalità in Corea del sud, dove il numero di contagiati ha superato la scorsa settimana quello nella provincia dello Hubei, in Cina, dove tutto è iniziato. Giappone, Corea del sud e Italia sono tra i paesi con il più alto numero di contagi da Covid-19 eppure le immagini delle lunghe file davanti agli uffici postali, nelle città più a ri-

schio come Daegu, arrivano soltanto da Giappone e Corea. Nessuna zona rossa, nessun ordine restrittivo. I modelli di contenimento scelti dal governo di Seul e, in misura minore, da quello di Tokyo sono molto diversi dalle «misure draconiane» decise dal presidente cinese Xi Jinping il 23 gennaio scorso – la messa in lockdown di un’area di oltre sessantacinque milioni di persone – e dal governo di Roma per il nord Italia. Soltanto dopo le pressioni dell’opposizione, che accusavano il governo giapponese di non fare abbastanza per proteggere i cittadini dall’epidemia, in un discorso molto commentato Shinzo Abe ha chiesto agli organizzatori di annullare o posticipare i grandi eventi e alle scuole su tutto il territorio nazionale di rimandare la riapertura dopo le vacanze invernali. Non era mai successo nella storia moderna giapponese che il governo procedesse su questa linea, ma non è stata decisa nessuna ordinanza: tecnicamente, senza lo status d’emergenza, che il governo non ha voluto dichiarare, si tratta solo di una raccomandazione. E infatti alcune scuole restano aperte, e restano aperti soprattutto i day care center, aperti per aiutare i genitori che devono comunque lavorare. Hideki Noda, direttore del Tokyo Metropolitan

Theatre, ha scritto in un comunicato di voler continuare con gli spettacoli «perché il teatro, a differenza degli eventi sportivi, non ha ragione di esistere senza gli spettatori». Assicurando tutte le norme di sicurezza e contenimento del contagio, il direttore ha scritto che «si potrebbe creare un pericoloso precedente». Per il Giappone è un momento cruciale dal punto di vista economico, e una chiusura delle attività, sul modello delle «zone rosse» anche italiane, rischia di peggiorare la situazione. Ma non è soltanto una questione economica. Al pericoloso precedente hanno pensato tutti, in Corea del sud, quando dopo l’approvazione delle leggi straordinarie il governo di Seul ha spiegato che il Paese non sarebbe andato incontro ad alcun «lockdown». Per i sudcoreani è un ricordo molto recente quello di un governo che limita le libertà personali dei cittadini – l’ex presidente Park Chung-hee, assassinato nel 1979, portò il Paese allo sviluppo economico usando il pugno di ferro. La Corea del sud è il paese con la società civile più attiva d’Asia, si scende in piazza e si protesta molto di frequente, tre anni fa oceaniche manifestazioni pacifiche hanno portato all’impeachment dell’allora presidente Park Geun-hye. Insomma:

la democrazia in Corea del sud è ancora un feticcio intoccabile, anche di fronte a una crisi sanitaria globale. Per questo il governo ha ripetuto più volte che il modello cinese non sarebbe stato preso in considerazione. Gli esercizi commerciali restano aperti, così come i teatri, i cinema, i ristoranti. Ci sono soltanto molti più controlli: due volte al giorno vengono disinfettati gli spazi pubblici praticamente ovunque, e i test sulla temperatura vengono effettuati a caso, anche per strada, con dei posti di blocco con auto medica. Chi viene trovato con la temperatura corporea oltre i 37,3 gradi centigradi viene sottoposto al test per il nuovo coronavirus, e mentre aspetta i risultati deve stare in isolamento. In caso di violazione dell’isolamento cautelativo, si rischia una multa salata. Se invece il test è positivo l’isolamento è sempre a casa propria – e non di gruppo, in strutture dedicate – e se si violano le disposizioni si può rischiare anche il carcere. Ma non c’è nessun soldato fuori dalla porta a controllare la quarantena. Il modello di «contenimento democratico», come lo hanno definito alcuni media americani, non sappiamo se riuscirà, o se sarà sufficientemente efficace. Di sicuro, anche in Europa, è quello più adottato.

L’unica eccezione sembra essere quella italiana, che non appena ha scoperto il contagio nelle regioni del nord – tra i più estesi nel mondo – ha provveduto a votare, anche in Parlamento, un decreto restrittivo delle libertà personali dei cittadini. Il governo obbliga, tra le altre cose, undici comuni alla quarantena: vietati gli spostamenti, vietate le manifestazioni, chiusura delle attività commerciali fino al 15 marzo. Misure più leggere per le intere regioni Emilia Romagna, Lombardia e Veneto. Nel nostro Paese, i grandi eventi sono stati posticipati, ma finora non è stata intrapresa alcuna misura estrema come la chiusura dei confini o delle scuole – il Consiglio federale potrebbe comunque farlo, in caso di emergenza, avocando la legge sulle epidemia del 2010 che serve proprio a questo. Anche la Germania ha deciso di intensificare i controlli alle frontiere e di annullare la fiera del turismo di Berlino, ma nessuna città in quarantena. È uno scontro tra sistemi, un tema importante su cui vale la pena riflettere, in un periodo di rinascita dei nazionalismi e di modelli democratici a rischio. E con il rischio di pandemie sempre più frequenti.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 marzo 2020 • N. 11

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Politica e Economia

Biden, rimonta spettacolare Super Tuesday La gara per essere candidato contro Donald Trump a novembre si sta riducendo a due:

Bernie Sanders e il risorto ex vice di Obama che dimostra di avere dalla sua parte l’establishment ma anche una buona quota della base

Per Pete Buttigieg (al centro), Elizabeth Warren e Mike Bloomberg la corsa è finita. (AFP)

Federico Rampini È la settimana che ha rivoluzionato tutta la corsa verso la Casa Bianca. È risorto Joe Biden, si sono ritirati tutti gli altri candidati alla nomination democratica: nell’ordine Pete Buttigieg, Amy Klobuchar e Mike Bloomberg nel campo moderato, Elizabeth Warren in quello della sinistra radicale. Sicché la gara diventa a due, fra Biden e Bernie Sanders, con un vantaggio per il primo in termini di delegati. Novità anche sul fronte opposto, perché l’avanzata del coronavirus in America fa gravare l’ombra di una recessione che diminuirebbe le chance di rielezione per Donald Trump. Bernie Sanders arriva primo in California, conquista lo Stato più grosso e più ricco (di Pil oltre che di delegati), può cantare vittoria in tutto l’Ovest degli Stati Uniti dove arriva primo anche in Oregon e Utah. Però l’ex vicepresidente Joe Biden risorge dalle ceneri, è protagonista di una rimonta spettacolare: a sorpresa porta via la totalità del Sud incluso il Texas, strappa il Massachusetts alla senatrice locale Elizabeth Warren, conquista il Minnesota, si dimostra competitivo ovunque. L’ex numero due di Barack Obama era dato per spacciato fino a due settimane fa, ora che si sono ritirati dalla corsa per la nomination Buttigieg Klobuchar e Bloomberg convergono su di lui i voti dei moderati. E questi sono, sulla carta, la maggioranza del partito democratico. La gara per essere candidato contro Donald Trump a novembre si sta riducendo a due, Sanders e Biden. Con Mike Bloomberg che promette di mettere i suoi (tanti) miliardi al servizio di Biden. Le lezioni di questo Supermartedì faranno discutere a lungo, la prima è questa: l’establishment esiste e sa vendere cara la sua pelle. Lo si è visto nella veloce ritirata di Buttigieg e della Klobuchar, nel loro disciplinato endorsement a favore di Biden. C’è stata la capacità da parte dei vertici del partito democratico di chiudere una fase di eccessiva dispersione delle candidature, di compattare il fronte centrista. Il serrate i ranghi è arrivato perché il partito è convinto di rischiare grosso:

la maggior parte dei dirigenti pensano che una candidatura di Sanders, troppo radicale, garantirebbe un secondo mandato a Trump. Che l’establishment esista, Sanders lo ha sempre detto, bisogna dargliene atto. Lui attribuisce l’ostilità di questa élite dirigente a una congiura dei miliardari per tenere in vita il capitalismo com’è. Dovrebbe ammettere un’altra possibilità: i vertici del partito democratico pensano che un programma di governo socialista (supertasse sui ricchi, sanità pubblica per tutti, università gratuita, all’estero simpatia verso l’Iran e Cuba) verrebbe respinto dalla maggioranza degli elettori. Del resto Sanders non è mai stato democratico, è un outsider che per la seconda volta in quattro anni tenta un’Opa ostile per conquistare dall’esterno il partito. Non può stupirsi se la sua offensiva «rivoluzionaria» viene accolta da resistenze forti.

La fortuna politica di Biden si spiega con il fatto che parte della base democratica lo sostiene perché ha nostalgia di Obama e non ama le radicalizzazioni Biden ha dimostrato di avere con sé non solo l’establishment ma anche una quota importante della base. Non si vince senza il Sud moderato che ha espresso presidenti come Jimmy Carter e Bill Clinton. Il Texas è un trofeo importante e inaspettato per Biden. Al 77enne ex-vice di Obama gli elettori che lo hanno scelto sanno perdonare tante cose: le gaffe, la smemoratezza, l’invecchiamento, le disastrose performance nei dibattiti televisivi. Molti democratici lo considerano malgrado tutto un politico affidabile, onesto, di buon senso. Se Sanders promette una rivoluzione politica, vuole rifondare l’economia e la società, Biden si accontenta d’incarnare un ritorno al passato riformista, e alla normalità. Chi lo vota

vuole chiudere in fretta la parentesi Trump e affidarsi a un collaudato professionista della politica per riportare un po’ di civiltà, moderazione, buona educazione. Che rispetto al trumpismo è, in un certo senso, una rivoluzione: il ritorno allo status quo ante, la cancellazione del populismo, la riabilitazione delle competenze e delle tecnocrazie. Un pericolo viene segnalato da una domanda rivolta negli exit poll. Ai democratici che hanno partecipato alla primaria del Supermartedì è stato chiesto: il 3 novembre votereste l’altro candidato, se fosse lui ad avere la nomination democratica? Il 15% degli elettori di Sanders risponde di no, si rifiuterebbe di votare per Biden contro Trump. L’11% degli elettori di Biden dice la stessa cosa nello scenario opposto. Queste percentuali vanno prese con beneficio d’inventario perché non tengono conto del clima arroventato e della polarizzazione estrema che si verificherà nello scontro finale. Però il 2016 insegna che i travasi da Sanders a Trump ci furono davvero. La sinistra americana non è mai stata disciplinata quanto la destra. Non è un caso se quest’ultima riesce a vincere pur essendo minoritaria. Se Biden dopo la sua spettacolare rimonta sarà in grado di conquistare la nomination democratica, e in seguito magari di battere Donald Trump, ricordiamoci di chiamarlo col suo vero nome: Obama III. La fortuna politica di questo 77enne si spiega così: una parte della base democratica sostiene il suo ex vicepresidente perché ha nostalgia di Barack Obama, vuole una «restaurazione» della sua presidenza. E lo avrebbe votato per un terzo mandato nel novembre 2016, se la Costituzione non lo vietasse. Il Supermartedì con la resurrezione politica di Biden porta le impronte di Obama per tante ragioni. L’ex vicepresidente era partito male nelle primarie dell’Iowa e New Hampshire. Mostrava più della sua età, sembrava più anziano di Bernie Sanders che ha 78 anni. Scarseggiavano i fondi dei donatori privati, al punto che diversi analisti già scommettevano su un ritiro precoce di Biden. Invece a ritirarsi sono stati gli altri. In particolare due defezioni dell’ultima ora, quelle di

Pete Buttigieg e Amy Klobuchar, hanno colpito: per la tempistica alla vigilia del Supermartedì, per il perfetto coordinamento, per la disciplina con cui immediatamente i due hanno espresso un endorsement a favore di Biden. Lo stesso aveva fatto un altro ex candidato, Beto O’Rourke, molto popolare nel Texas. Senza l’appoggio compatto di quei tre è difficile immaginare che Biden avrebbe inanellato una serie di successi così importanti come quelli di martedì 3 marzo. Una manovra pro-Biden così ben orchestrata chiama in causa il ruolo del partito. E poiché nella tradizione americana non esistono capi partito come in Europa, il leader morale più importante che ci sia è un ex presidente. Obama finora non ha dato il suo endorsement a Biden, però ha fatto qualcosa di più. L’ex presidente ha espresso più volte, in pubblico e in privato, la sua preoccupazione per l’ascesa di Bernie Sanders e più in generale per la radicalizzazione di una parte della sinistra. Obama è convinto che le proposte più estreme di Sanders o della sua giovane sostenitrice Alexandria Ocasio-Cortez – per esempio l’abolizione della polizia di frontiera, la depenalizzazione dell’immigrazione clandestina, l’estensione del Welfare e della sanità pubblica agli stranieri senza documenti – porterebbero a una rielezione di Donald Trump. Sulla sanità, l’idea di nazionalizzare l’intera assistenza medica passando a un sistema di tipo europeo, è perfettamente razionale ma Obama la scartò nel 2008 perché ritenne che non avrebbe avuto la maggioranza al Congresso e nel Paese. Perciò, quando oggi ascolta i comizi di Sanders e i duri attacchi al sistema sanitario, Obama ha l’impressione che il senatore socialista del Vermont stia facendo campagna contro di lui (e la sua parziale riforma sanitaria), non contro Trump. In generale tutto ciò che Sanders va dicendo contro il capitalismo americano, contro l’establishment democratico, contro i poteri forti che vogliono sbarrargli la strada, a Obama suona come una critica del riformismo moderato più che di Trump. Anzi all’ex presidente, Sanders e

Trump sembrano due facce della stessa medaglia: un populista di sinistra contro un populista di destra. Un Jeremy Corbyn contro un Boris Johnson. E si sa chi vince alla fine, se la Gran Bretagna è un test significativo (lo fu nel 2016, quando la vittoria di Brexit precedette di pochi mesi l’elezione del turbosovranista alla Casa Bianca). Obama si è detto preoccupato anche per le nuove forme di intolleranza «politically correct» che si manifestano tra i Bernie Boys (and Girls), la caccia alle streghe, i metodi da Santa Inquisizione di estrema sinistra (via social media) per demonizzare chiunque non mostri una purezza ideologica esemplare. Obama ha un grande capitale politico da spendere perché finì il suo secondo mandato con un livello di popolarità elevato. Una parte di quel capitale è già andato in eredità a Biden: il forte consenso di cui gode Joe tra i neri è legato al fatto di aver lavorato per otto anni come il numero due del presidente afroamericano. Nei confronti di Biden, l’ex presidente ha anche una punta di rimpianto. Fu Obama a implorare Biden perché non si presentasse nel 2016, per non ostacolare Hillary Clinton. Quello potrebbe essere stato un errore fatale. Forse il vecchio Joe per la sua storia personale e le sue origini avrebbe saputo arginare l’emorragia di voti operai nel Michigan, Wisconsin, Pennsylvania, decisivi per la vittoria di Trump. Quest’ultimo proprio alla vigilia del Supermartedì ha incassato la riduzione dei tassi d’interesse da parte della Federal Reserve. Una mossa robusta – ben mezzo punto – e decisa in anticipo sul calendario previsto, proprio come accadeva dopo la crisi del 2008. I mercati però non si sono lasciati incantare. La natura della frenata economica da coronavirus non si presta alle tradizionali cure monetarie. Perciò Trump è arrivato a proporre l’estensione di un’assistenza medica a carico dello Stato: una proposta tipica del partito democratico. Questo la dice lunga sulla preoccupazione del presidente, che l’epidemia e le sue conseguenze economiche diventino l’evento dominante da qui all’elezione di novembre.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 marzo 2020 • N. 11

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Prove di accordo su Idlib Medio Oriente Decisa la tregua fra Turchia e Russia per frenare l’escalation militare

in Siria e fermare la crisi umanitaria. L’incontro, definito «storico» da Erdogan, rischia solo di rimandare la resa dei conti fra Ankara e Mosca Secondo le Nazioni Unite circa 900mila persone sono in fuga e cercano salvezza in Europa. (AFP)

Anna Zafesova Tregua dalla mezzanotte del 5 marzo e zona di «de-escalation»: all’ultimo minuto, un vertice al Cremlino tra Vladimir Putin e Recep Tayyip Erdogan ferma, o almeno interrompe, la battaglia di Idlib, e quella che le Nazioni Unite considerano la più grave crisi umanitaria in nove anni di guerra in Siria. Dopo più di sei ore di negoziato, i presidenti russo e turco hanno annunciato di aver raggiunto un compromesso: «Non condividiamo sempre il punto di vista dei partner turchi su quanto accade in Siria, ma ogni volta che la situazione si fa critica riusciamo a trovare un terreno comune, e una soluzione accettabile, grazie all’elevato livello delle nostre relazioni bilaterali», è stata la formula di insolita cortesia usata da Putin nei confronti di Erdogan. Il memorandum congiunto prevede la cessazione delle ostilità, la creazione di una zona di de-escalation e di un corridoio di sicurezza largo 12 chilometri lungo l’autostrada strategica M4, che dal 15 marzo verrà pattugliata da russi e turchi. Un compromesso, appunto: Ankara ha rinunciato alla condizione di far rientrare le truppe di Damasco alle linee stabilite dall’accordo raggiunto a Sochi nell’ottobre scorso, riconoscendo di fatto le nuove conquiste territoriali del regime di Assad, la Russia ha fermato l’offensiva e si è ritirata da parte delle zone occupate nei giorni scorsi. Erdogan si è comunque riservato il diritto di reagire a nuovi attacchi siriani, ed entrambi i presidenti hanno promesso aiuto ai profughi e assistenza a chi vorrà tornare nelle proprie case nella provincia di Idlib, senza specificare però le condizioni per la soluzione dell’emergenza umanitaria. La tregua è stata raggiunta dopo giorni di escalation militare e verbale, con i militari russi e turchi arrivati a un passo dallo scontro diretto. Dopo aver perso, il 27 febbraio scorso, 33 uomini in un raid aereo siriano, il 1. marzo Ankara ha lanciato una controffensiva con l’uso di droni, aviazione e contraerea, abbattendo due caccia siriani, nonostante l’ammonimento del comando

russo che non avrebbe potuto «garantire la sicurezza» agli aerei turchi. Intanto, gli aerei russi hanno sostenuto dal cielo l’avanzata dell’esercito di Assad, seguito da corpi speciali e polizia militare di Mosca. I russi hanno accusato i turchi di non aver garantito il disarmo dei «terroristi» della resistenza antiDamasco, i turchi hanno rimproverato Mosca di aver assecondato l’avanzata siriana in violazione degli accordi e di aver attaccato obiettivi civili. Ma la maggior parte degli esperti russi erano convinti che Erdogan stava soltanto alzando la posta: «Non può permettersi un conflitto grave con la Russia, è impossibile», ha detto alla BBC Russia Irina Zvyagelskaya, dell’Istituto di orientalistica dell’Accademia delle scienze russa. «Idlib non vale la rottura delle relazioni bilaterali, né per Putin, né per Erdogan», ha dichiarato a Radio Liberty Leonid Isaev, politologo ed esperto di Medio Oriente della Scuola superiore di economia di Mosca.

L’esercito turco è presente nell’enclave di Idlib dal 2016. Lo spiegamento di forze di Ankara è stato negoziato con la Russia durante i frequenti colloqui tra Putin e Erdoğan In questa ottica, anche la retorica della diplomazia russa – qualche giorno prima il ministro degli Esteri Sergey Lavrov aveva dichiarato che qualunque accordo di tregua a Idlib avrebbe significato una «capitolazione di fronte ai terroristi» – è stata in buona parte un bluff a poker, e ha funzionato. Erdogan ha ottenuto lo stop all’avanzata siriana, nonostante la promessa di Bashar Assad di riconquistare «ogni centimetro» di territorio, inclusa l’ultima roccaforte di resistenza al suo regime a Idlib. Putin si è visto riconfermare come colui che decide le sorti della Siria: è sintomatico che ha stretto un accordo di tregua

per conto di Damasco. Il vertice con Erdogan gli ha anche permesso di tornare a parlare con l’Europa, preoccupata dallo scoppio di una nuova crisi di migranti, e di farlo alle proprie condizioni: il presidente russo ha avuto nei giorni scorsi colloqui telefonici con Angela Merkel e altri esponenti europei, ma si è rifiutato di coinvolgere nel negoziato la cancelliera tedesca e il presidente francese Emmanuel Macron, come avrebbe voluto il leader turco. E ha evitato lo scontro militare con la Turchia, che avrebbe messo Mosca in difficoltà non meno di Ankara. L’asse Putin-Erdogan, nonostante numerosi momenti di tensione, si riconferma quindi ancora forte, nonostante nei giorni scorsi a Mosca si fosse ricominciato a parlare di una nuova rottura con tanto di sanzioni, come dopo l’abbattimento di un caccia russo da parte dei turchi in Siria nel novembre 2015. Sul piatto della bilancia ci sono un imponente interscambio commerciale, il gasdotto Turkish Stream inaugurato dai due presidenti soltanto due mesi fa, il turismo (la Turchia accoglie 7 milioni di russi l’anno). Le merci e i prodotti alimentari Made in Turkey sono un’importante risorsa per la Russia che ha imposto sanzioni all’Occidente, e bloccare la principale destinazione di turismo low cost non farebbe che aumentare il già diffuso scontento della popolazione. E poi c’è la partita libica, dove Putin ed Erdogan giocano in squadre opposte – Mosca sostiene Haftar, al quale ha inviato, stando al presidente turco, centinaia di contractor, i turchi stanno con Sarraj – ma stanno collaborando a livello diplomatico. Infine, la Turchia ha molta influenza nelle repubbliche del Causaco russo e nei Paesi dell’Asia Centrale ex sovietici: i numerosi musulmani della Federazione Russa sono sunniti come i turchi e molti di loro parlano lingue vicine al turco. Se però i due leader di Russia e Turchia sembrano condannati a un compromesso, le parti in causa in Siria sono più di due, e non è chiaro quanto potrebbe durare la tregua che hanno voluto. La situazione potrebbe sfuggire

di mano. Per Bashar Assad rimane la necessità di soffocare l’ultimo focolaio di resistenza, missione che non può portare a termine senza l’aviazione russa, e non è chiaro come reagirà a un accordo che Putin ha stretto come se il presidente della Siria fosse lui. Inoltre, l’offensiva contro Idlib è stata voluta soprattutto dalle fazioni proiraniane del regime siriano, e a comandarla è il fratello del presidente, Maher al-Assad, considerato il politico di Damasco più vicino a Teheran. Il giornale russo «Novaya Gazeta» ha pubblicato un’inchiesta che di fatto accusa la fazione proiraniana della morte dei quattro agenti delle truppe speciali dei servizi segreti Fsb in Siria: a quanto pare, sono caduti in un’imboscata mentre stavano preparando una trattativa segreta tra siriani e turchi. Il «partito della guerra» non vuole compromessi con i ribelli e con Erdogan, e considerato che anche Putin ha il problema di «non perdere la faccia», per non parlare del presidente turco incalzato dagli alleati nazionalisti che lo accusano di subire troppo le pressioni di Mosca, il margine di manovra si presenta abbastanza stretto. Il «partito della guerra» esiste anche a Mosca. Pavel Felgengauer, ex consulente militare di Gorbaciov, sostiene sulle pagine di «Novaya Gazeta» che i militari russi considerano la «bromance» di Putin ed Erdogan una perdita di tempo. Tifano per Assad e sono convinti che la Turchia non possa essere un partner, ma solo un nemico, soprattutto alla luce della possibilità che Erdogan punti contro gli aerei russi la contraerea S-400 che gli è stata venduta dagli stessi russi, o chiuda il Bosforo alle navi russe. Al Cremlino, scrive Felgengauer, qualcuno sognava di spaccare il fronte meridionale della Nato attirando Erdogan dalla parte di Mosca e conquistando grazie a lui il controllo sugli stretti, un sogno della geopolitica russa dai tempi degli zar. Ma la Turchia resta nella Nato e ha già chiesto aiuto agli alleati americani. E Mosca ha mandato rinforzi navali e aerei in Siria, forse per scoraggiare Erdogan, o forse per prepararsi a un’escalation che appare soltanto rinviata.

Politica e Economia Fra i libri di Paolo A. Dossena RoNaN FarroW, Predatori, Solferino 2019 «Ovviamente hanno parlato male di me e adulato il mio stupratore. È ora di un po’ di sincerità in questo mondo». Questo tweet del 2016 dell’attrice Rose McGowan si riferisce a Harvey Weinstein: tutti conoscono il suo «ignobile segreto», ma nessuno parla. Dopo essersi servito, a McGowan Weinstein ha detto: dopo quel film che hai fatto nessuno ti crederà. I giornalisti che si occupano di Weinstein, come David Carr, diventano paranoici: si sentono spiati. A Ronan Farrow (figlio di Mia Farrow) autore di questo libro, un amico suggerisce di procurarsi «un’arma». Un giorno riceve decine di messaggi anonimi da Instagram: qualcuno gli scrive: «Ti tengo d’occhio, ti tengo d’occhio, ti tengo d’occhio». Tutti sono terrorizzati da Weinstein, e le attrici, come Ambra Gutierrez, che ne rivelano i vizi, vengono descritte dalla stampa come prostitute. Weinstein è il potente produttore cinematografico di Hollywood che ha faccia e fama di bullo fin da piccolo. Farrow lo descrive così: «famoso per gli atteggiamenti prepotenti o addirittura minatori», è fisicamente violento ma «si sentivano in giro delle storie di un tipo di violenza più cupa nei confronti delle donne, e di certi sforzi per mettere a tacere le donne». Weinstein ha degli amici nell’editoria (come Howard e Pecker, capi del «National Enquirer») e fa parte dell’establishment del partito democratico, per il quale «era da tempo un procacciatore infaticabile di finanziamenti». Fa «parte del trust di cervelli che» si occupa di Hillary Clinton, per la quale raccoglie «centinaia di migliaia di dollari». Quando una modella denuncia Weinstein alla polizia, Howard fa in modo che la notizia non venga diffusa. Quando l’attrice Ashley Judd dichiara che un produttore l’ha molestata, i giornali scrivono che deve farsi ricoverare per disintossicarsi. Dopo l’uscita del tweet di McGowan, Weinstein viene contattato da Black Cube tramite Ehud Barak, ex primo ministro di Israele e capo dell’esercito del suo Paese. Black Cube ha uffici a Tel Aviv, Londra e Parigi, è un’agenzia d’élite che offre ai suoi clienti le competenze di agenti segreti «esperti e altamente addestrati all’interno delle migliori unità di intelligence e dell’esercito e del governo israeliano». Weinstein paga una prima tranche di 100’000 dollari e Black Cube entra in azione. Wallace, un giornalista che studia il caso Weinstein, è avvicinato da un giornalista anglo-israeliano (Seth Freedman del «Guardian») e da una signora che passa da atteggiamenti da vittima di Weinstein a quelli da seduttrice. La stessa signora e Freedman (due agenti di Black Cube, avanguardia di un esercito di spie) si introducono nella vita di McGowan. I bersagli successivi della signora sono Farrow e altri: la donna si presenta come Anna, Adriana, Eva, Diana, Maja, ma è un’israeliana di nome Stella Penn Pechanac. Inutile: oltre 80 donne molestate da Weinstein (incluse attrici come Thurman, Jolie, Paltrow, Hajek, Judd, Arquette, ecc.) escono allo scoperto, mentre la pubblicazione di questo libro e il processo a Weinstein sigillano il fallimento di Black Cube. Una storia scritta come un romanzo e più romanzesca di un romanzo, imperdibile.


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Politica e Economia

L’impossibile pace con i Taliban

Afghanistan Dopo 18 anni di guerra, con l’accordo di pace firmato a Doha gli Usa si ritirano lasciando praticamente

tutto come all’inizio: le forze islamiste continuano a controllare e a combattere in gran parte del territorio del Paese

Francesca Marino I fatti, prima di tutto. Lo scorso 29 febbraio, il governo degli Stati Uniti, per mano dell’inviato speciale Khalilzad, ha firmato due differenti trattati: uno a Kabul, con la Repubblica Islamica dell’Afghanistan (e cioè con il governo ufficiale del Paese); il secondo a Doha, in Qatar, con l’Emirato Islamico dell’Afghanistan: con i Taliban, cioè. Mettendo fine a quasi vent’anni di guerra e negoziando finalmente il tanto agognato accordo di pace. Tutti felici? Non proprio. Nemmeno un consistente numero di alti dignitari di Washington, a cominciare dal Segretario di Stato Mike Pompeo che, come aveva in precedenza annunciato, pur essendo presente non ha materialmente firmato l’accordo. Perché, più che di accordo di pace, si tratta anzitutto di una ritirata con appena un velo di frasi diplomatiche e di circostanza a nasconderne la sostanza. E i Taliban, difatti, subito dopo, si sono affrettati a cantare vittoria, a festeggiare in molte piazze afghane e pakistane in compagnia dei jihadi loro alleati come la Jaish-e-Mohammed e a emettere trionfali comunicati stampa che annunciano «la fine dell’occupazione straniera». I Taliban hanno praticamente dettato le condizioni: ritiro delle truppe americane, con esclusione di 8600 soldati che rimarranno in Afghanistan, entro il 15 luglio. Entro la stessa data, gli americani dovranno abbandonare cinque basi militari. Il ritiro di tutte le truppe, americane e alleate, dovrà essere completato entro aprile 2021. Gli Stati Uniti si sono impegnati, per conto del governo afghano, a rilasciare cinquemila prigionieri Taliban: mille entro il 10 marzo, il resto in tre mesi. Gli Stati Uniti si impegnano a far cancellare le sanzioni delle Nazioni Unite contro i Taliban il 29 maggio e a cancellare le sanzioni imposte da Washington entro la fine di agosto. In cambio, Mullah Baradar e i suoi

Il presidente afghano Ashraf Ghani (destra) stringe la mano al segretario generale Nato Jens Stoltenberg. (AFP)

si impegnano a rilasciare un migliaio di prigionieri in mano loro e a «non permettere che il suolo afghano venga adoperato per minacciare la sicurezza degli Stati Uniti e dei loro alleati». Si impegnano anche a non espellere gli elementi che potrebbero minacciare la sicurezza degli Usa e a «mandare un messaggio chiaro» ai loro combattenti e ai loro alleati perché vengano «istruiti» a non collaborare con chi potrebbe minacciare la sicurezza dei suddetti Stati Uniti. I Taliban si impegnano quindi a mantenere in Afghanistan la pletora assortita di jihadi che in questo momento combatte nel Paese e a non «rilasciare documenti di viaggio» ai suddetti. Al Qaida non è chiaramente

menzionata, così come non è menzionata l’Isis. Così, gli Usa riconoscono implicitamente il cosiddetto «governo» dei Taliban come entità politica, pur se negli accordi ripetono più volte il contrario. I Taliban si impegnano inoltre a cominciare entro il 10 marzo le negoziazioni con l’attuale governo afghano, contestato da molti, guidato dal presidente Ghani. L’accordo è stato firmato senza dichiarare nemmeno un cessate il fuoco ufficiale, e senza garanzie reali. I Taliban hanno annunciato il cessate il fuoco in occasione della firma del contratto e, a partire dal giorno dopo, hanno ricominciato in grande stile a combattere. Nella sola giornata di martedì ci sono stati 41 attacchi, tanto che gli americani sono stati costretti, «per

difendere l’esercito afghano» a bombardare postazioni Taliban. Gli ex «studenti di teologia» non riconoscono l’attuale governo, lo considerano figlio dell’occupazione e considerano i parlamentari tutti burattini dell’Occidente. Il loro scopo, mai nascosto, non è l’«unirsi al processo democratico» tanto caro al linguaggio ipocrita della diplomazia, ma instaurare, appunto, un Emirato di stampo integralista. Quello, tanto per rinfrescare la memoria a qualcuno, che lapidava adultere e omosessuali, tagliava le mani ai ladri e distruggeva i Buddha di Bamyan perché blasfemi. È ormai inutile discutere sull’opportunità di aver combattuto dal 2001 in poi una guerra che, nei discorsi e nelle giustificazioni raffazzonate e ipocrite di chi quella guerra ha voluto, era anche una «guerra di civiltà». Il cerchio si chiude perfettamente come era iniziato, con i Taliban al potere, e tutti fanno finta di credere che nel frattempo le cose siano cambiate. Non lo sono. Basta sbirciare appena oltre confine, in Waziristan, dove i Taliban da mesi sono tornati a spadroneggiare con la benedizione dell’esercito pakistano. Che, in tutta questa storia, è uno dei vincitori assoluti. I capi Taliban sono tornati in Waziristan, dunque, e gli sono state regalate terre e zone di influenza. Non solo, sono stati messi a capo di cosiddette «Commissioni di Pace» volte a sanare i rapporti con i cittadini comuni che li odiano. Cito a caso: le Commissioni di Pace hanno ordinato di bruciare vivi cinque abitanti di un villaggio che si erano rifiutati di obbedire agli ordini. Non solo: sono dappertutto comparsi manifesti che vietano le solite buone, vecchie cose a cui ci aveva abituato il regime dei Taliban: le donne non possono uscire da sole, agli uomini è vietato tagliarsi la barba, non si può ascoltare musica e via dicendo. Intanto, sono già incominciati i primi problemi: il governo di Kabul, quello ufficiale, si rifiuta di liberare sen-

za garanzie cinquemila Taliban, altri cinquemila individui pronti a combattere contro l’esercito ufficiale. E prontamente interviene il Pakistan, invitando Ghani a stare zitto e fare quello che è stato deciso per lui dagli americani e, ovviamente, dal Pakistan. Che di tutta questa storia ha tirato i fili da dietro le quinte. Arrestando prima e liberando poi al momento opportuno il mullah Baradar, proteggendo i membri delle rete Haqqani a cui gli Usa, tanto per sancire la disfatta anche morale, hanno permesso di scrivere un articolo sul «New York Times» a firma di Sirajuddin Haqqani. Il Pakistan ha mosso le sue pedine in modo brillante, dosando sapientemente ricatto e blandizie. Invocando ufficialmente un processo di pace «condotto e capeggiato dagli afghani», dove gli unici afghani presi in considerazione sono evidentemente quelli membri di organizzazioni terroristiche, visto che al governo ufficiale, eletto dal popolo pur se tra polemiche e brogli, non è stato dato il diritto di decidere praticamente nulla. Dopo vent’anni di guerra, l’Afghanistan della cosiddetta pace diventa, di fatto, un paradiso per jihadi guidato da jihadi e controllato dalla mano lunga di altri jihadi. In Siria, non è un segreto per nessuno, combattono jihadi pakistani e afghani. In Afghanistan, alle spalle del Pakistan ma nemmeno tanto, i cinesi cercano di stabilire il loro personale dominio mascherato da accordi commerciali ed economici. La Russia ha la sua agenda geopolitica, così come l’Iran e la Turchia che, per motivi diversi, stringono entrambe la mano al Pakistan. La «pax americana» rischia di costare cara, molto cara a tutto il mondo nei prossimi anni. Noi, l’Occidente, voltiamo le spalle a una polveriera che abbiamo creato e nutrito per anni. Una polveriera di fatto e una polveriera in senso geopolitico: il Grande Gioco ricomincia, con vecchi e nuovi giocatori, e sarà molto, molto più pericoloso del precedente.

Addio al poeta della liberazione

Paso doble È morto in Nicaragua Ernesto Cardenal a cui papa Francesco revocò

la sospensione a divinis che gli aveva comminato Wojtyla nei primi anni Ottanta Angela Nocioni Mentre, in una giornata assolata del marzo del 1983, Giovanni Paolo II, durante una tempestosa tappa del suo viaggio in Centro America, camminava tra due ali di folla nella strada principale di Managua, all’improvviso riconobbe un sacerdote che gli si inginocchiò davanti, il basco stretto sul petto e la mano tesa in un gesto di riconciliazione. Era Ernesto Cardenal, poeta molto popolare in America centrale, autore nel 1962 di uno scandaloso Omaggio a Marylin Monroe e altri poemi, appassionato militante della Teologia della liberazione e della necessità di attivo impegno sociale in favore dei più deboli che quella teologia predicava. Era allora convinto Cardenal (lo rimase per poco tempo ancora) che la rivoluzione sandinista del 1979, alla quale aveva partecipato per liberare il Nicaragua dalla quarantennale dittatura dei Somoza, potesse avere uno sbocco democratico. Di fronte al papa che gli aveva già intimato più volte da Roma di abbandonare la politica e quella teologia che Wojtyla aborriva, Cardenal si buttò in ginocchio perché Giovanni Paolo II,

suo nemico, era comunque anche il suo pontefice. E mentre la folla imbevuta di slogan gridava «entre cristianismo y revolución no hay contradicción» o «Bienvenido Juan Pablo II en la tierra liberada gracias a Dios y a la revolución» tese la mano in un gesto di pace. Wojtyla, col dito indice alzato e il mantello svolazzante, quella mano rifiutò lasciandola sospesa in aria insieme alle parole: «Prima ti devi riconciliare con la Chiesa» (foto). Era lo stesso papa che cinque anni dopo si affaccerà dal terrazzo della Moneda con Augusto Pinochet, con il nero corteo di Stato cileno attraverserà Santiago e pronuncerà un lungo discorso senza un solo accenno agli orrori commessi dal dittatore suo ospite. Ernesto Cardenal è morto domenica primo marzo, a 95 anni, in un ospedale di Managua, da dove non ha mai smesso di denunciare i crimini del regime di Daniel Ortega tornato al potere nel 2007. Che di recente lo ha fatto condannare a una multa di 800 mila dollari sperando tacesse. Cardenas per 35 anni non ha potuto impartire i sacramenti. A quel monito lanciato da Wojtyla per strada nel 1983, seguì l’anno dopo la sospensione

a divinis. Mantenuta da Ratzinger. La riabilitazione è arrivata il 18 febbraio del 2019, firmata da papa Francesco e preannunciata da una visita di scuse del nunzio apostolico in Nicaragua che gli propose di celebrare messa insieme. Schiaffi peggiori che dalla sua chiesa, Cardenas ne ha presi solo dalla rivoluzione sandinista, di cui, subito dopo la vittoria sulla dittatura nel 1979, fu il provvidenziale ministro della Cultura che aiutava i novelli governanti, ancora fronte unito non immediatamente riconoscibile come la banda criminale che ha poi mostrato d’essere, a cementare le simpatie già fervide dei progressisti di mezzo mondo. Finché, quasi subito, Ortega s’è rivelato per quel che era. Le malefatte del sandinismo sono elencate nel libro di Cardenal La revolución perdida, del 2004. Ortega l’ha allontanato, perseguitato, bastonato come ha potuto. Usando i tribunali che, dopo il ritorno al potere per via elettorale dei sandinisti redivivi nel 2007, sono nelle mani del regime. «Ortega e sua moglie Rosa Murillo sono padroni di tutti i poteri in Nicaragua. Hanno un potere assoluto, infinito, che esercitano senza limiti e senza controlli, un potere che è diretto anche

contro di me» si era lamentato Cardenal di recente. È stato lui a offrire in questi anni le denunce più dettagliate della repressione del dissenso nel Nicaragua, più degli altri dirigenti storici sandinisti che da Ortega hanno preso le distanze. È stato lui a dire in Europa e in America, continuando a vivere a Managua, che il regime ha trasformato in reato le proteste di piazza, con la pena prevista dell’arresto immediato. È stato lui a dire che il Nicaragua degli ultimi 13 anni è stato governato, su esempio cinese, da una mescolanza di autoritarismo in politica e liberismo spinto in economia. L’ha fatto per suo conto, lontano dalla chiesa cattolica che negli ultimi due anni s’è schierata a fianco delle proteste studentesche anti regime, dopo essere stata per un decennio in silenzioso temporeggiare di fronte ad Ortega, dal quale ha ottenuto un fondamentale sostegno per una legge ferocemente contraria all’aborto, la più restrittiva del continente. Rosa Murillo, «primera dama» e numero due del regime, è una modesta poetessa con una passione per lo spiritualismo esoterico e ha dimostrato negli anni di avere una grande e crescente

influenza su Ortega che, per dirne una, convinto da lei della magica potenza del color fucsia nel contrastare i malefici, ha lasciato il rosso e nero della bandiera sandinista e avvolto di fucsia le sue campagne elettorali. È dell’inconfondibile stile misticheggiante di Rosa Murillo anche il comunicato che accompagna il decreto di tre giorni di lutto imposti dal governo Ortega per la morte di Cardenal definito «fratello», «gloria» e «orgoglio». Nell’eccesso di entusiasmo celebrativo post mortem del suo fervente critico che ha cercato in ogni modo di piegare, il regime gli ha anche attribuito un Premio Cervantes per la letteratura che Cardenal, da vivo, non ha mai vinto.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 marzo 2020 • N. 11

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Politica e Economia

5G: quo vadis?

Politica&tecnologia L’introduzione del 5G ha acceso un intenso

dibattito nell’opinione pubblica. Ma quali sono le opzioni in mano al Consiglio federale?

Stefano Castelanelli La telefonia mobile di quinta generazione, o 5G, ha il potenziale di trasformare la nostra società. Il 5G influenzerà ogni settore e permetterà di creare nuovi prodotti e servizi, di supportare il crescente numero di dispositivi connessi, di introdurre nuovi processi industriali, di eseguire analisi di dati avanzate e di favorire l’uso di nuove tecnologie. Si prevede che il 5G porterà considerevoli benefici economici. A livello globale, gli analisti stimano che le tecnologie 5G potrebbero creare 22 milioni di posti di lavoro entro il 2035. Per tutti questi motivi c’è un forte interesse nell’implementare il prima possibile questa nuova tecnologia. E la Svizzera non sta a guardare. Nella sua strategia Svizzera digitale lanciata nel 2016, il Consiglio federale ha sottolineato l’importanza di realizzare reti 5G in Svizzera. Per dar seguito alle intenzioni del Governo, nella primavera del 2019, la Commissione federale delle comunicazioni (ComCom) ha assegnato nuove frequenze agli operatori mobili per implementare la tecnologia 5G. La costruzione delle prime antenne 5G ha però incontrato in tutta la Svizzera una forte resistenza popolare. Diversi Cantoni hanno introdotto una moratoria per bloccarne la costruzione a causa di possibili effetti negativi sulla salute. Il governo dal canto suo, in una dichiarazione congiunta dell’Ufficio federale dell’ambiente (UFAM) e dell’Ufficio federale delle comunicazioni (UFCOM) rilasciata nel maggio 2019, ha sottolineato come la competenza di valutare gli effetti sulla salute delle radiazioni spetti alla Confederazione e non ai Cantoni. Ma quali sono questi effetti sulla salute? Come tutte le tecnologie di comunicazione mobile anche il 5G usa onde radio per comunicare. Le onde radio hanno frequenze molto basse. L’effetto negativo scientificamente provato delle onde radio è l’aumento della temperatura corporea. Le onde radio possono penetrare nel corpo e causare vibrazioni che creano calore. Il corpo può gestire un piccolo aumento di calore, in modo simile all’aumento della temperatura corporea durante le attività sportive. Tuttavia, oltre un certo livello l’aumento della temperatura provoca gravi ustioni e colpi di calore. Per questo motivo la legge prevede dei valori limite d’immissione, sotto i quali non

sussistono problemi di surriscaldamento del corpo. Questi valori limite devono essere rispettati in ogni luogo in cui possono soggiornare le persone. Essi sono equivalenti ai valori applicati in buona parte dei paesi limitrofi. Non è da escludere però che le radiazioni della telefonia mobile possano causare altri effetti negativi oltre a quelli termici. Secondo il rapporto del gruppo di lavoro istituito dal Governo per discutere sul futuro del 5G pubblicato nel novembre 2019, ad oggi non sono stati dimostrati altri effetti consistenti sulla salute. Tuttavia, il rapporto sottolinea come ci siano ancora lacune nelle conoscenze soprattutto per gli effetti delle radiazioni a frequenze maggiori, le cosiddette onde millimetriche. Proprio per minimizzare i rischi di possibili effetti negativi non ancora provati scientificamente, la legge ambientale, secondo il principio di precauzione, stabilisce che le emissioni devono essere limitate nella misura massima consentita dalla tecnica e dalle possibilità economiche. Seguendo il principio di precauzione, la legge vigente fissa una seconda categoria di valori limite più severi, i valori limite dell’impianto. Essi sono circa 10 volte inferiori agli altri e devono essere rispettati in luoghi in cui le persone soggiornano regolarmente per un periodo prolungato, come abitazioni, scuole, ospedali, posti di lavoro o parchi giochi. Il 5G può essere implementato in tutte le frequenze radio. In Svizzera, al momento, le frequenze rilasciate per la tecnologia 5G sono comparabili a quelle per il 4G e la rete WLAN. L’utilizzo delle onde millimetriche per la telefonia mobile non è al momento consentito in Svizzera. Quindi il problema delle onde millimetriche non si pone per ora. Il nocciolo della questione è l’interpretazione del principio di precauzione e cioè dove fissare i valori limite dell’impianto. Il gruppo di lavoro istituito dal Governo ha dibattuto sull’interpretazione del principio di precauzione senza però arrivare ad una risposta condivisa da tutti. Il rapporto presenta infatti diverse opzioni per realizzare una rete 5G performante su tutto il territorio nazionale elaborate dai diversi gruppi d’interesse. Ogni opzione dà un peso diverso al principio di precauzione proponendo differenti valori limite dell’impianto. Una prima soluzione mantiene i valori limite al livello attuale. Que-

Cablaggio di un’antenna 5G allo stadio Balexert a Ginevra, il mese scorso. (Keystone)

sto scenario richiede la realizzazione di nuove antenne per un investimento complessivo di circa 8 miliardi di franchi e il tempo di realizzazione è di 20-30 anni. Una seconda soluzione presentata dall’Associazione svizzera delle telecomunicazioni (asut) propone di uniformare i valori limite a 6 V/m (oggi varia tra 4 e 6 V/m) e richiede meno impianti nuovi, il costo totale si aggirerebbe intorno a 3.2 miliardi di franchi e il tempo di realizzazione scenderebbe a 10-20 anni. Un altro gruppo di soluzioni mira ad innalzare i valori limite. Nel caso i valori limite venissero raddoppiati per ogni operatore rispetto al livello attuale come proposto dalla Commissione federale della comunicazione (ComCom) non sarebbero necessari nuovi impianti, il costo degli investimenti scenderebbe a 0.9 miliardi e i tempi di realizzazione sarebbero di 10 anni massimo. Mentre se i valori limite venissero aumentati di un fattore 5 come proposto in una seconda soluzione elaborata dall’asut si potrebbe realizzare una rete 5G nel giro di pochi anni, senza la necessità di costruire nuovi impianti e il costo sarebbe circa un miliardo di franchi. L’ultima proposta presentata dall’associazione Medici per l’ambiente (MpA) propone invece di mantenere i valori limite invariati e prevede requisiti più severi per le antenne di nuova generazione in modo da garantire anche in futuro un elevato livello di protezione dall’elettrosmog. Per questo scenario si dovrebbero costruire un numero elevato di nuovi impianti, il costo totale salirebbe a 13 miliardi di franchi e la realizzazione della rete mobile richiederebbe oltre 30 anni. Le cifre e i tempi d’implementazione riportati nel rapporto sono probabilmente un po’ gonfiati visto che ad oggi il 90% della popolazione svizzera è già servito dal 5G (seppur con una velocità di connessione solo leggermente superiori al 4G) e più di 200 comuni sono già allacciati al 5G veloce. Alla fine, comunque, la decisione è politica: Meglio una maggiore prudenza con tempi di realizzazione più lunghi e costi più elevati, oppure una minore prudenza con tempi di realizzazione più brevi e costi più contenuti? La soluzione auspicata non dovrà solo tenere in considerazione i vantaggi e i rischi di ogni proposta ma anche evitare che il problema si ripresenti di nuovo tra qualche anno a causa dell’aumento del consumo digitale. Ma l’arte della politica è proprio questa: governare l’incertezza.

Portogallo, la festa è finita

Economia Eliminati i privilegi fiscali

per i pensionati stranieri, uno dei volani per la «miracolosa» ripresa economica

Il monastero di Sao Vicente de Fora, Lisbona, città scelta da molti pensionati stranieri. (Keystone)

Marzio Minoli Per parecchi anni il Portogallo è stato meta dei pensionati di mezza Europa, attirati dalla prospettiva di un’esenzione fiscale totale sulle loro pensioni. E questo per dieci anni. Poi, il 5 febbraio scorso ecco arrivare la doccia fredda, perlomeno per chi aveva già pianificato un trasferimento in riva all’Atlantico. Il Parlamento portoghese, durante le discussioni per il budget 2020, ha approvato la fine dell’esenzione fiscale. I pensionati pagheranno il 10% di tasse. Ma non solo, oltre a questo è stato rivisto anche il cosiddetto «Golden Visa», uno strumento particolare che permetteva di ottenere la residenza, senza dover soggiornare nel paese, a patto di acquistare immobili per almeno 500’000 euro di controvalore. Ora, nelle regioni di Porto e Lisbona, questa regola non varrà più, anche per raffreddare un mercato immobiliare fuori controllo. Dal 2012 al 2019 sono stati rilasciati circa 8000 Golden Visa per un totale di investimenti immobiliari pari 4 miliardi e 500 milioni di euro. Oltre a questo, sono stati trasferiti nelle banche portoghesi altri 465 milioni di euro. Per quel che riguarda le pensioni, a far pendere la bilancia a favore di un’abolizione del regime privilegiato sono state le pressioni dell’Unione Europea, che riteneva questa pratica discriminatoria nei confronti di altri paesi. Ma perché il Portogallo aveva introdotto queste misure? Ricostruiamo brevemente la storia recente del paese lusitano, perlomeno dal punto di vista economico. Fino a qualche anno fa il Portogallo era famoso soprattutto per i campioni che sfornava nel mondo del calcio. Figo e Rui Costa prima, Ronaldo e José Mourinho in seguito. Poi, alla fine degli anni 2000, ecco che il paese diventa uno di quelli che potrebbero far crollare l’Euro. PIGS, un acronimo che letto in inglese forma la parola «maiali», un’espressione poco simpatica per definire quei paesi fortemente indebitati e a rischio bancarotta. Portogallo, Italia, Grecia e Spagna. La storia greca sappiamo come andò a finire, con aiuti a ripetizione e salvataggio in extremis, mentre Italia e Spagna, due economie piuttosto importanti sono uscite dalla crisi. Di questi tre paesi si era parlato molto sui media. Il Portogallo invece era meno sotto la luce dei riflettori, ad immagine anche della natura dei suoi abitanti, gente piuttosto riservata. Nel 2011 a Lisbona arrivarono aiuti per 78 miliardi di euro dalla cosiddetta «troika», ovvero Commissione Europa, Banca Centrale Europea e Fondo Monetario Internazionale. Assieme ai soldi però arrivarono anche precise condizioni per risollevare il paese: ridurre il deficit di Stato che a fine 2010 era dell’11,2% e l’obiettivo imposto era il 3% entro il 2013.

Che il paese fosse in gravissime difficoltà lo si toccava con mano. I negozi, anche nelle località più prestigiose, chiudevano uno dietro l’altro. Le infrastrutture mostravano i segni dell’incuria, i prezzi crollavano e addirittura anche nei supermercati l’aria condizionata era stata messa al minimo. I portoghesi però non sono gente che si lamenta molto e la percezione, nel parlare con le persone, era sì di preoccupazione, ma anche di forte dignità. Il Portogallo si è dunque rimboccato le maniche, e oggi il suo deficit è allo 0,4%. A titolo di paragone il deficit italiano è al 2,2%, quello spagnolo al 2,5% mentre la Grecia ha fatto addirittura un surplus dell’1%. La disoccupazione è passata dal 17% del 2013, al 6,7% del 2019. Il debito pubblico dal 131 al 122% del PIL, e la crescita economica è tra lo 0,5% e l’1% annuo. Ma quali sono stati gli elementi che hanno portato alcuni a gridare al «miracolo portoghese»? Qui si entra in un ambito controverso. A governare il paese dal 2015 c’è una coalizione di sinistra, guidata dal socialista Antonio Costa, che ha vinto grazie ad una campagna centrata sulla lotta all’austerità, un termine ben conosciuto anche in altri paesi. Anche se dalle opposizioni arrivano accuse di aver approfittato anche di misure prese dai governi precedenti e di non aver eliminato del tutto l’austerità. Di chi sia il merito e quali siano state le misure più efficaci difficile dirlo, perché quando si entra in ambito di contrapposizione politica, ognuno porta le sue cifre. Una cosa è sicura: il fatto di attirare i pensionati ha sicuramente aiutato, e molto. Senza dimenticare un boom turistico impressionante, una ripresa delle esportazioni, grazie anche ad un periodo economico favorevole a livello europeo e a tassi d’interesse da pagare sul debito pubblico molto bassi. E per confermare questo non ci sono bisogno numeri o statistiche. Basta guardarsi attorno. I negozi, anche di un buon livello, riaprono. C’è molto fermento edilizio, ma un fermento ragionato, fatto di ristrutturazioni di abitazioni fatiscenti che hanno ritrovato il loro splendore. Nelle strade e sui marciapiedi sono scomparsi i buchi e anche di rifiuti abbandonati non se ne vedono più. Insomma, sono tornati i servizi. Il rovescio della medaglia? I prezzi degli immobili sono aumentati molto, così come gli affitti. In alcuni casi, nelle zone più pregiate, si è arrivati ad aumenti del 30%. e non di rado nelle famiglie si è costretti a lavorare in due per poterli pagare. Il Portogallo sta bene, ma rimane un paese fragile, con un debito alto che frena gli investimenti pubblici e l’economia mondiale non offre più molte garanzie per le esportazioni. E ora anche i pensionati potrebbero decidere di disertarlo.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 marzo 2020 • N. 11

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Prepariamoci a un mondo di centenari Un paio di anni fa, alla stazione di Zurigo, in un caldo pomeriggio domenicale di fine estate, fui avvicinato da un signore anziano che mi chiese se gentilmente potevo leggergli l’ora che segnava l’orologio del marciapiede in cui ci trovavamo. «Sa – aggiunse, sorridendo – ho 106 anni e, da qualche tempo, la vista mi si è abbassata». Questo signore doveva prendere un treno per una delle tante cittadine nell’agglomerato zurighese dove si trovava la casa per anziani nella quale risiedeva da qualche tempo. Ancora trent’anni fa, un incontro di questo genere non sarebbe stato possibile. Allora i centenari erano pochi e venivano festeggiati ricevendo la classica poltrona da parte del comune nel quale risiedevano. Ne vedevamo le fotografie sui quotidiani e sui settimanali. Qualche volta li inter-

vistavano anche alla televisione. Di rado, però, perché i centenari di allora non avevano di sicuro la prestanza del vecchietto di cui riferisco qui sopra. Nel frattempo la speranza di vita è aumentata e le condizioni di salute delle persone anziane pure. Ancora non si parla di introdurre un campionato di calcio per 70+, ossia per persone con più di 70 anni di età, ma già ci sono squadre di «senior» che contano nelle loro file anche qualche settantenne. Per chi ci arriva, insomma, l’età avanzata non ha solo aspetti negativi. Fosse anche solo per il continuo allungarsi del periodo in cui potrà godere la pensione. Purtroppo però, come mette in evidenza una recente pubblicazione di Avenir Suisse, che propone scenari per quando la speranza di vita dovesse salire a 110 anni, l’invecchiamento della

popolazione induce cambiamenti nelle relazioni fra generazioni che stanno facendo sorgere problemi seri. Per esempio il fatto che si diventa eredi in età sempre più avanzata. Non è raro il caso, oggi, che gli eredi siano già pensionati quando entrano in possesso della loro eredità. Ma i bisogni finanziari di una famiglia sono al loro massimo quando i genitori si trovano nell’età matura e i figli sono adolescenti o iniziano l’apprendistato o gli studi superiori. Evidentemente si possono trovare soluzioni a questo problema. Ma occorre pensarci e, soprattutto, occorre modificare abitudini radicate in materia di successioni. Un altro cambiamento, del quale si parla ormai molto frequentemente, è quello che si sta manifestando nel rapporto tra la popolazione anziana e la popolazione

attiva che continua ad aumentare e rimette in discussione il sistema di finanziamento delle pensioni. Lo studio di Avenir Suisse ricorda poi che, oggi, il periodo della vecchiaia può essere suddiviso in due parti. Nella prima, tra i 65 e gli 80 anni, gli anziani sono ancora in buona salute e potrebbero continuare a garantire prestazioni di lavoro o, per lo meno, essere di servizio alle giovani generazioni, impegnate nell’attività lavorativa, facendo del volontariato. La seconda parte, dopo gli ottanta, è quella nella quale le condizioni di salute peggiorano e nella quale la quota degli anziani che necessitano di assistenza aumenta. Ora, nel prossimo futuro, è proprio la classe di età degli ottanta e più quella che verrà i suoi effettivi crescere più rapidamente. Di conseguenza aumenterà anche il

fabbisogno di posti-letto in case di cura e in case per anziani e la domanda di personale sanitario specializzato per l’assistenza agli anziani. Anche il sistema sanitario generale conoscerà un aumento della domanda di prestazioni in seguito all’invecchiamento della popolazione. Il messaggio che viene lanciato dai ricercatori di Avenir Suisse è chiaro: l’invecchiamento non è un fenomeno che si può arrestare. Altrettanto chiara è la sequela di problemi che l’aumento della speranza di vita solleverà. Né meno chiara è la conclusione alla quale arrivano gli specialisti: così non si può più andare avanti. È venuto il tempo delle riforme drastiche e il costo delle stesse non potrà essere riversato solo sulle generazioni più giovani! Parola di ottantenne.

Ci sono anche la rabbia e la protesta. Quasi nessuno crede che l’Italia sia il Paese più colpito solo perché è l’unico che fa i tamponi, peraltro quasi finiti. C’è chi considera demagogica la scelta di bloccare i (pochi) voli diretti dalla Cina, rinunciando a controllare chi arrivava dopo aver fatto scalo. Chi fa notare che l’Europa avrebbe dovuto concertare provvedimenti comuni, che avrebbero ridotto il rischio e l’impatto dell’epidemia. Chi sostiene che il virus sia stato sottovalutato, come se il problema fosse fare pubbliche scorpacciate di riso cantonese per rassicurare i cittadini, anziché metterli in sicurezza. Chi invoca un’autorità unica e protocolli unici, che avrebbero forse evitato il fatale errore commesso all’ospedale di Codogno, dove il paziente 1 è stato prima rimandato a casa con l’antibiotico, poi ricoverato in medicina dove – ovviamente senza colpa – ha infettato medici, infermieri, pazienti. Ma c’è anche chi teme che le misure siano forse eccessive e di sicuro depressive per l’economia.

Molti italiani esprimono sofferenza. La sofferenza del prete che non può dire messa, dell’artista rimasto senza pubblico, del medico e dell’infermiere che si ritrovano in prima linea come e più di sempre. E la sofferenza dell’anziano che vede la morte dei suoi coetanei declassata a evento inevitabile, talora salutato con ingiusto sollievo. Non a caso tra gli articoli più dolorosamente belli letti sui quotidiani ci sono le interviste ai figli dei primi morti, che ribadiscono: non era il paziente zero o il paziente uno o il paziente X; era mio padre, e aveva diritto anche solo di sperare in una fine più serena, non intubato, circondato da gente in tuta e mascherina, impossibilitato a vedere per l’ultima volta i suoi cari. Non è mai il momento giusto di dire addio a un genitore. Anche quando è molto anziano, è sempre troppo presto. Figurarsi nell’atmosfera plumbea di questi giorni, magari con esequie frettolose, e il timore di essere rimasti a propria volta contagiati. La verità è che la paura ispira

talora comportamenti poco nobili. Cui fa da contraltare uno spirito di resistenza e di umanità testimoniato da migliaia di storie di ricercatori, medici, infermieri. Quasi tutti gli italiani hanno afferrato il punto: è iniziata la battaglia contro un nemico ancora poco conosciuto. La battaglia non poteva che cominciare nell’area più dinamica del Paese, quella più aperta alla Cina e al mondo, anche se il nemico ha colpito non nel cuore ma nelle aree periferiche di quella grande metropoli che è la pianura padana. La battaglia non potrà che essere vinta, sia pure a un prezzo che oggi non siamo in grado di valutare. Quando il peggio sarà passato, servirà un grande piano di rilancio dell’economia; senza star lì a fare i calcoletti pensati a Maastricht in un contesto ben diverso. Siccome pure la Germania ha visto la sua economia rallentare e il virus arrivare, stavolta la musica in Europa sarà diversa. Altro che austerity. È il momento degli investimenti e di una politica economica espansiva.

fuga o alternative perché accerchiato da micro-penalità assurde quando non anti sociali. In tempi insospettabili (quasi cinque anni fa) dopo un servizio del «Corriere del Ticino» dedicato all’inarrestabile ascesa dell’e-payement, avevo avuto la possibilità di esporre sullo stesso giornale la mia contrarietà verso queste «conquiste» digitali. Lo avevo fatto segnalando come questi «progressi», resi inevitabili da ragioni di comodità e da risparmi (ottimizzazioni, li chiamano) garantiti dalle tecnologie digitali, in realtà potessero nascondere motivazioni non sempre trasparenti, anzi: spesso subdole e pericolose soprattutto sotto il profilo sociale e della legalità. Credo sia utile riprendere alcuni punti di quel mio intervento, visto che alla luce dell’iperindebitamento segnalato dalla Finlandia conservano tutta la loro validità. L’intonazione contraria era affidata all’avvertimento lanciato da economisti del Mises Institute, organizzazione accademica liberale di orientamento liberista: «l’obiettivo reale (…) è quello di forzare il grande pubblico a effet-

tuare pagamenti attraverso il sistema finanziario al fine di sostenere le instabili banche a riserva frazionaria e, cosa ancora più importante, per espandere la capacità dei governi di spiare e tenere traccia delle operazioni finanziarie private dei loro cittadini». A rendere più chiaro il peso di quelle strategie citavo poi Willem Buiter, ex funzionario della Banca d’Inghilterra, secondo il quale l’abolizione totale della moneta fisica era fortemente voluta per mitigare la preoccupazione delle Banche centrali nel gestire la leva dei tassi negativi sui depositi, misura che stava per essere avviata in quei momenti e che oggi funziona da perno delle politiche bancarie occidentali. Quasi cinque anni dopo giunge la prova provata che anche l’e-payement, proprio come le monete, ha un rovescio: un’inattesa quanto pericolosa spinta all’indebitamento individuale. Non era però difficile immaginare che questo potesse verificarsi in scenari in cui governi e amministrazioni, dimenticando tranquillamente crisi, colpe e pericoli di un passato non proprio

remoto, hanno consegnato all’industria finanziaria il controllo di prelievi diretti e limiti di spesa, con libertà di decidere e imporre costi aggiuntivi «ad libitum» e di lasciare che i risvolti sociali e morali del problema rimanessero in seconda linea. Il fenomeno del superindebitamento non è prettamente finlandese o scandinavo. Lo ha ricordato, a metà febbraio, l’ultima indagine sui redditi e sulle condizioni di vita dell’Ufficio federale di statistica (UST), secondo dati raccolti nel 2017 (quindi con i pagamenti digitali ancora all’inizio). Oltre agli arretrati di pagamento cronici (imposte e premi cassa malati), gli altri tipi di debito cui è stata soggetta la popolazione sono leasing per veicoli, piccoli crediti o crediti al consumo, acquisti a rate ecc. Se si tiene conto di tutti questi sette tipi di debito, nel 2017 il 42,5% della popolazione viveva in un’economia domestica con almeno un debito, in Ticino la quota era addirittura oltre il 50%. E tre anni fa con i pagamenti elettronici eravamo solo all’inizio.

In&outlet di Aldo Cazzullo Ferragosto d’inverno Non è vero che gli italiani, e in particolare i milanesi, siano nel panico. L’altro giorno ho fatto una lunga passeggiata nel centro di Milano, dal Duomo alla stazione centrale. Ne ho tratto una sensazione di inquietudine ma soprattutto di tenuta. La capitale del Nord è in effetti semideserta, ma non è in ginocchio. Questo surreale ferragosto a fine inverno provoca un senso di spaesamento, una doverosa preoccupazione per l’economia, un legittimo timore per il contagio; ma dà anche il senso di una città e di un Paese che reagiscono. Il Duomo non è mai stato chiuso; è sempre rimasto aperto per chi entra a pregare, che è poi il principale motivo per cui si va o si dovrebbe andare in chiesa; ora è stato anche riaperto ai turisti. Le farmacie non sono sguarnite; qualcuna assicura che sta finalmente arrivando pure l’amuchina. I supermercati non sono presi d’assalto; in quello di piazzale Baiamonti ho trovato una coda normale, certo con una tendenza all’accaparramento, che svela

abitudini alimentari e stili di vita (il signore in coda davanti a me ad esempio si è portato a casa cinque vaschette di salsiccia e cinque panetti di burro). Piazza Gae Aulenti era spazzata da un vento che non ha disperso il set di un fotografo di moda: una modella cinese stava posando – «togliti gli occhiali da sole», «non guardare in camera» – sotto gli sguardi insospettiti dei rari passanti. Quasi vuoti i ristoranti, frenetico invece l’andirivieni dei rider che consegnano i pasti a casa. L’unico luogo di assembramento nei giorni scorsi è stata la stazione centrale: senza preavviso è stata bloccata la linea che congiunge i due più importanti nodi ferroviari del Paese, Milano e Bologna; quella dell’alta velocità è stata a lungo sequestrata dall’autorità giudiziaria e solo pochi giorni fa è tornata disponibile, quella tradizione è stata interrotta a Casalpusterlengo; visti passeggeri in lacrime nel tentativo ovviamente vano di chiamare l’apposito numero di Trenitalia per cambi prenotazione e rimborsi.

Zig-Zag di Ovidio Biffi L’altra faccia dell’e-money A sentire di primo mattino i colleghi della trasmissione «Modem» di Rete Uno, la notizia giungeva dalla Finlandia, «più precisamente dalla sua banca centrale». In realtà già due giorni prima era stata riportata anche da agenzie italiane (Adnkronos), tanto che Andrea Tarquini l’aveva subito e sapientemente commentata in un editoriale su «Repubblica». La notizia venuta a galla era questa: a fine anno i finlandesi si sono ritrovati con un indebitamento delle famiglie e di privati cittadini pari al 127% del proprio reddito, ovvero in pieno iperindebitamento, termine tecnico che indica chi non riesce più a sostenere i propri impegni economici e rimborsare finanziamenti o debiti. Le cause di questo fenomeno, assai più grave del debito pubblico che bolla politiche economiche poco virtuose, vengono ricondotte dagli esperti al progressivo abbandono del denaro contante e alla parallela crescita nell’uso fra la popolazione dei pagamenti elettronici. E questo capita non sulle rive del Mediterraneo sempre tartassate dai tecnici di Bruxelles, ma nel paese

che all’interno dell’Ue e unitamente alle altre nazioni scandinave figura come modello nell’adozione e nell’uso di sistemi di pagamento elettronici, e di riflesso anche nella lotta totale all’evasione fiscale, grazie alla tracciabilità dei pagamenti e alle limitazioni dei prelevamenti in contanti. Quindi i propositi per privilegiare i pagamenti elettronici nascondono inaspettate e gravi insidie come l’iperindebitamento delle fasce più deboli (anziani, giovani e indigenti) della popolazione. Tanto da spingere la Suomen Pankki, la banca centrale finlandese e il governo finlandese retto da Sanna Marin, la più giovane primo ministro del mondo, a intervenire d’urgenza con un programma di corsi, educazione e informazione per cercare di portare soccorso alle fasce di cittadini maggiormente colpiti. Ho già avuto modo di spiegare la mia avversione non tanto ai pagamenti digitali in sé, ma piuttosto alla irrefrenabile spinta del mondo finanziario per favorirne l’uso, sino a renderli indirettamente obbligatori, nel senso che il semplice cittadino non ha vie di


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Cultura e Spettacoli Gli amici di papà Silvia Sereni, figlia del poeta Vittorio, ha raccolto i preziosi incontri della sua infanzia

Gabriela e l’arte Breve incursione nel lavoro dell’artista di origini argentine Gabriela Spector pagina 39

Un concerto senza concerto Cronaca surreale della preparazione di un concerto jazz che non avrà mai luogo pagina 40

pagina 38

Grazie per Perry Mason Esattamente cinquant’anni fa moriva E.S. Gardner, colui che diede i natali a Perry Mason

pagina 41

Stimato Mago le scrivo Letteratura Uscito per i tipi di Dadò

il carteggio tra Hermann Hesse e Peter Weiss

Luigi Forte Tra Peter Weiss, autore di drammi politici come La persecuzione e l’assassinio di Jean-Paul Marat o L’istruttoria e il romantico Hermann Hesse la distanza sembra incolmabile. Eppure i due scrittori, come ci ricorda il volume pubblicato da Dadò editore Stimatissimo Signor Mago. Corrispondenza 1937-1962 a cura di Mattia Mantovani, furono in contatto per anni. Li divideva più di un’intera generazione. Lo svevo Hesse era nato infatti nel 1877 a Calw, mentre Weiss era del 1916 e veniva da Babelsberg nei pressi di Berlino, sede del principale studio cinematografico tedesco dell’epoca di Weimar. Vuoi l’età, vuoi la fama acquisita fin dal suo primo romanzo, Peter Camenzind (1904), dove il protagonista rifiuta il mondo per dedicarsi completamente all’arte, facevano di Hesse il maestro ideale a cui chiedere consigli. Per di più il romanziere e poeta era anche un ottimo pittore di acquerelli, quindi il mentore perfetto per quel giovane ventenne finito con la famiglia a Warnsdorf, un paesino al confine boemo, dove amava soprattutto dipingere e sognare un futuro d’artista. Non era facile stanare Hesse dal suo buen retiro di Montagnola vicino a Lugano dove da anni viveva con la moglie Ninon. Eppure la prima lettera di Weiss del gennaio 1937, che dispensa ammirazione e cerca sostegno ai suoi progetti, ebbe una pronta risposta. Forse per la breve prosa Skruwe, che vi aveva accluso, in cui emerge l’idea di un nuovo romanticismo e del «sentimento mistico del mondo» ben presente in tante pagine del romanziere svevo. Weiss fa centro: il maestro lo esorta a continuare studi ed esercizi, specie nei disegni a penna, e gli consiglia di inviarne alcuni per un’eventuale collaborazione a G. Bermann, il genero del suo vecchio editore S. Fischer. Non se ne farà nulla, tuttavia l’entusiasmo cresce: il giovane spedisce non di rado riproduzioni fotografiche dei suoi dipinti e s’immagina all’inizio di un lungo percorso con molte possibilità. L’incoraggiamento di Hesse lo aiuta altresì a convincere i genitori che il suo futuro è legato all’arte. È un momento magico. Deve assolutamente incontrare il suo idolo, così nel luglio del 1937 parte da

Warnsdorf e in treno, a piedi o in autostop raggiunge il Ticino. Dirà più tardi in un’intervista del 1979: «Andai a cercare Hesse, che mi accolse in maniera molto amichevole, e trascorsi l’intera estate su a Montagnola, nella vecchia casa, la “Casa Camuzzi”, nella quale Hesse aveva abitato a suo tempo e aveva scritto L’ultima estate di Klingsor (…) Mi invitò spesso a pranzo, potei stare con lui quando si suonava musica nella sua biblioteca e rimanere con lui in giardino quando giocava a bocce». L’allievo e il maestro si intendono a meraviglia: Hesse apprezza il modo di inventare storie del giovane e un certo tocco inattuale nella compresenza di pittura e scrittura. Weiss, dal canto suo, percepisce originali fermenti nella propria generazione che sembrano scaturire dall’anticapitalismo romantico del Mago: «Forse è soltanto la volontà di sottrarsi – come scrive nel dicembre del 1937 – alla terribile meccanizzazione, all’appiattimento per trovare nuovi valori…». Chiuso nel suo atelier a Praga, dove frequenta l’Accademia d’arte, Weiss cerca riparo nel suo mondo d’immagini, mentre Hesse nel maggio del 1938 gli ricorda che di fronte a un mondo più ostile che mai esiste un rifugio solo «nella sfera magica del nostro lavoro». Ha sempre più l’impressione di un progressivo smantellamento di tutto quanto ha costruito nel corso degli anni, mentre aumenta la sua preoccupazione di fronte agli inquietanti eventi europei che coinvolgono i parenti ebrei della moglie costretti alla fuga da Czernowitz. Anche Weiss, la cui nonna paterna era ebrea, dal Ticino, dove soggiorna di nuovo nell’ottobre del 1938, è in ansia per i genitori dopo l’occupazione nazista dei Sudeti, mentre cerca a fatica di sopravvivere con la sua attività artistica. Finirà per seguire i genitori in Svezia nel gennaio del 1939, dove suo padre aveva ottenuto un posto di dirigente in una fabbrica di tessuti. Per un certo periodo vi lavorerà lui stesso, un senza patria «visto dappertutto come un estraneo, come uno straniero molesto e fastidioso», confessa nell’aprile del 1939. Eppure non tarderà a imparare lo svedese trasferendosi a Stoccolma all’inizio del 1941, dove proprio in quei mesi avrà luogo una grande esposizione dei suoi ritratti e disegni. Ma il suc-

Lo scrittore della ex DDR Peter Weiss in un’immagine degli Anni Sessanta. (Keystone)

cesso tarda a venire e lui pensa allora di emigrare negli Stati Uniti. Però anche stavolta Hesse, afflitto da forti dolori e con una salute assai precaria, non potrà aiutarlo non avendo conoscenti americani che offrano garanzie per l’emigrante. Sono tenere queste lettere, talvolta un po’ fuori del tempo, sullo sfondo di una tragedia epocale. Due voci in esilio, lontane e pur così fuse in un comune sentimento: la testarda volontà di ridare un senso alla vita tra immagini e parole nell’utopia dell’arte. Poi la corrispondenza in quegli anni di guerra si fa sempre più rada limitandosi spesso a semplici saluti e auguri di compleanno. Ma non manca qualche bella notizia. Weiss ha conosciuto la pittrice Helga Henschen, che sposerà nel 1943 andando ad abitare in una piccola casa in mezzo a un bosco. Un raggio di luce che pur non fuga la sensazione che «questo

mondo paralizzi – come scrive a Hesse nel dicembre del 1942 –. Si affonda lo sguardo in questa terribile notte, non si riesce più a lavorare, e ci si vorrebbe gettare in mezzo alla rovina». Ma a un anno di distanza, ricordando i suoi trascorsi soggiorni in Ticino, è colto da un fremito d’entusiasmo e sogna di dipingere su grandi pareti. Mentre Hesse termina con successo il suo ultimo romanzo, Il gioco delle perle di vetro pubblicato a Zurigo nel dicembre del 1943, Weiss ritrova in un gruppo internazionale di scrittori e pittori l’entusiasmo per guardare con nuovi progetti al futuro, come confessa nel giugno del 1944. Farà ancora in tempo a inviare al maestro il suo libro autobiografico Congedo dai genitori del 1961 che Hesse definisce «tanto magnifico quanto terribile» e di cui elogia la maestria della lingua. Ma ormai l’allievo distoglie lo sguardo dalla provin-

cia pedagogica di Castalia evocata da Hesse, consapevole com’è – confessa in una delle ultime lettere nel novembre del 1961 – che «la situazione dell’epoca pretende che lo scrittore non si perda mai nei recessi poetici del crepuscolo». Lo attende un futuro lontano dalla pittura, proiettato verso il teatro e la scena del confronto politico. Con una consapevolezza artistica che forse il Signor Mago, premio Nobel per la letteratura, gli aveva trasmesso con affettuosa amicizia. Bibliografia

Hermann Hesse-Peter Weiss, Stimatissimo Signor Mago. Corrispondenza 1937-1962, a cura di Beat Mazenauer e Volker Michels, traduzione e cura dell’edizione italiana di Mattia Mantovani, Armando Dadò editore, Locarno, p. 180.


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Cultura e Spettacoli

Mentori prestigiosi

Editoria Silvia Sereni, figlia del grande poeta Vittorio, ha avuto il privilegio di crescere

tra i maggiori esponenti della letteratura italiana del Novecento Manuel Rossello Mario Soldati la portava ai giardinetti, Fruttero & Lucentini le correggevano i temi di scuola, Attilio Bertolucci le insegnava i nomi dei fiori e Franco Fortini l’aiutava a costruire castelli di sabbia. Chi non vorrebbe avere dei precettori come quelli che ebbe Silvia Sereni? Il fatto poi che l’ultimo dei prestigiosi mentori citati si sia col tempo rivelato un ospite insopportabilmente irritante, non diminuisce l’eccezionalità di una giovinezza che l’autrice, da poco scomparsa, tratteggia con garbo e leggerezza. Il volume, imperdibile per tutti i cultori d’italianistica, è una ricca galleria di scrittori, poeti e letterati del Novecento visti, per così dire, en déshabillé. L’autrice è una delle tre figlie del poeta Vittorio Sereni, il quale fu a lungo direttore letterario della Mondadori. Proprio grazie al ruolo rivestito da suo padre, Silvia Sereni ha avuto il privilegio di poter frequentare fin dalla più tenera età molti tra i maggiori nomi della letteratura italiana d’allora. È una carrellata prestigiosa, i cui nomi più significativi sono quelli di Attilio Bertolucci, Anna Banti, Fernando Bandini, Giovanni Raboni, Dante Isella, Fruttero & Lucentini, Lalla Romano, Piero Chiara, Giuseppe Pontiggia, Franco Fortini e Mario Soldati. Il volume fa parte di quella particolare categoria di libri che danno l’illusione di colmare il desiderio di conoscere più intimamente un autore. E sono

molte le pagine in cui si coglie la capacità di porsi empaticamente rispetto a figure così eminenti e non di rado spigolose. Come non provare simpatia, allora, per le «distrazioni» di Mario Soldati, che era solito accludere nella nota spese per la RAI l’acquisto di graziosi maglioni di cachemire? O per la modestia e insieme per la profonda bontà di Giuseppe Pontiggia, sempre cortesissimo con qualunque scocciatore si presentasse alla sua porta? O ancora per l’accenno ad alcune poetesse che talvolta apparivano come d’incanto a Bocca di Magra sperando di agganciare il direttore editoriale della Mondadori per farsi pubblicare i loro sospiri poetici? Ma non tutti i personaggi hanno superato il filtro degli anni. Molte sono le figure che il tempo ha sbiadito o cancellato. Tra i «sommersi», un personaggio che meriterebbe d’essere riscoperto è sicuramente la poetessa Daria Menicanti. Il lettore si aspetterebbe che il cuore del libro fossero le pagine dedicate dalla figlia a suo padre. Ma per una sorta di pudore filiale, Silvia Sereni non ha tracciato un compiuto ritratto di Vittorio. Tuttavia la figura paterna affiora quasi a ogni pagina in controluce ai personaggi descritti. Sono due invece le figure che rappresentano, per ragioni opposte e di cui diremo più sotto, i punti focali del libro: Giovanni Raboni e Franco Fortini. Mentre due sono i luoghi in cui si concentrano i ricordi: la casa di Milano e

Silvia Sereni con il padre Vittorio in un’immagine del 1964. (Ugo Mulas/Archivio Vittorio Sereni)

Bocca di Magra, l’allora bucolica località di pescatori eletta a luogo di villeggiatura da una folta schiera di letterati, con le famiglie appresso. Ecco allora, d’estate, gli Einaudi, i Vittorini, i Bertolucci, Montale con «la Mosca», Bianciardi, la Duras, Garboli, (che, noblesse oblige, alloggiava nell’unico albergo). Franco Fortini, invece, si isola sull’altra sponda del fiume con la moglie svizzero-tedesca. Un piccolo mondo antico di letterati, in parte imparentati fra loro. Ogni visita di Bertolucci, che a

Bocca di Magra vive come un novello Walden e compone i versi della Capanna indiana, è una festa per le tre sorelle: l’affascinante affabulatore le intrattiene a tavola con i suoi racconti. Loro lo ascoltano rapite, con le forchette sospese a mezz’aria. Il caso volle che a Milano Giovanni Raboni e la famiglia Sereni abitassero nello stesso palazzo di via Paravia. Raboni, uno degli ultimi intellettuali per cui l’epiteto non suona vuoto o parodistico, era una presenza assidua in casa

loro. Purtroppo l’autrice del libro era troppo giovane per poter seguire le loro lunghe e quasi quotidiane conversazioni. Si può solo immaginare quale scintillio d’intelligenza dovesse scaturire dall’incontro dei due poeti. La domenica (rito a cui si univa Maurizio Cucchi) era dedicata all’Inter, loro comune passione, con immancabile presenza sugli spalti di San Siro. Franco Fortini, invece, onorava Sereni della sua presenza sia d’estate che d’inverno. Fortini, purtroppo per Sereni, era affetto da coazione a pontificare (un fenomeno che andrebbe classificato tra le patologie, vista la quantità di coloro che ne mostrano i sintomi). Questo suo tono fastidiosamente oracolare, l’autore della Verifica dei poteri lo accompagnava al dito indice simbolicamente sempre alzato ad ammonire, additando a sé e a gli altri l’itinerario da percorrere. Sempre lucido, voleva instancabilmente distinguere gli amici dai nemici ed era costantemente proteso a combattere, ovunque ne scoprisse le tracce, «l’antiideologismo avanguardistico». Alla lunga, questo perpetuo sentenziare dell’ospite (verrebbe da dire: l’ospite ingrato) finì per scocciare Sereni, che gli ingiunse, pur con mille cautele, di interrompere i loro incontri e di frequentarsi solo per lettera. Bibliografia

Silvia Sereni, Un mondo migliore. Ritratti, Milano, Bompiani, 2019, p. 216. Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli

Nell’intreccio di arte e vita Mostre Un incontro con le opere della scultrice e pittrice Gabriela Spector

Alessia Brughera Un uomo e una donna si abbracciano con trasporto, i loro corpi così vicini quasi a formarne uno solo, i loro sguardi così fiduciosi quasi a cancellare ogni dolore pregresso. Il ricongiungimento tra le due figure è stato faticoso, lo si capisce da quella base inclinata su cui poggiano ancora non del tutto saldamente i loro piedi. È nel reciproco sostegno che, adesso, entrambi trovano l’equilibrio. Alta tre metri e realizzata in bronzo è questa una delle sculture più recenti di Gabriela Spector, da poco collocata nel giardino della Residenza Senago Cappella a Pazzallo. L’opera è particolarmente significativa del lavoro dell’artista argentina di origine e ticinese d’adozione, rappresentando da un lato una delle tematiche da lei predilette, le relazioni e i sentimenti umani, dall’altro il suo linguaggio espressivo che fa di materiali nobili quali il bronzo, appunto, il mezzo attraverso cui rendere tangibile le proprie visioni. Nata a Tucumán e là formatasi alla Facultad de Bellas Artes, la Spector approda poco più che ventenne in Europa. Dapprima è Milano ad accoglierla, dove lavora presso la storica Fonderia Artistica Battaglia, poi è la volta di Carrara, patria della pregiata pietra bianca amata da molti grandi maestri, dove all’Accademia di Belle Arti l’artista affina la propria tecnica. Sebbene fin da subito individui nell’arte plastica la pratica più indicata a manifestare la sua creatività, il disegno e la pittura sono presenti da sempre nel percorso della Spector. Lo schizzo diviene tappa imprescindibile all’interno del processo scultoreo per portare a maturazione un concetto e per rendere con spontaneità la crescita di un’impressione. Il lavoro pittorico diviene invece un ambito ulteriore in cui l’artista può traslare le sue idee con un approccio completamente diverso da quello utilizzato in scultura, un modus operandi più immediato capace di trasmettere l’energia del suo pensiero in continua evoluzione.

Quella della Spector è un’arte pienamente figurativa che scaturisce da una profonda immersione nella realtà, dall’inevitabile confrontarsi con il mondo circostante. Le sue opere sono racconti di emozioni e di legami, storie di viaggi, poesie di piccoli gesti. Ed è interessante come nella prima mostra dell’artista, a Milano, anno 1994, nei pezzi esposti comparissero già molti dei soggetti che sarebbero poi stati sviluppati nel corso del suo cammino artistico, così come quella propensione alla narrazione e quella resa dell’opera come manufatto pienamente leggibile che mai sarebbero venute meno. In quei primi anni Novanta la Spector guarda all’arte italiana del dopoguerra. I lavori di Fausto Melotti, ad esempio, sublimi modelli di sintesi espressiva sospesi tra gioco e filosofia, le insegnano quanto la scultura possa creare spazi al contempo relativi e infiniti. Altre figure, poi, sono per lei fonte d’ispirazione. Come quella di Floriano Bodini, di cui ammira la capacità di partire da sensazioni e sentimenti per dare forma alla materia. E proprio l’intima conoscenza della materia è il fondamento su cui la Spector costruisce il suo universo artistico. Vengono scelti il gesso e la terracotta, ma ancor più il bronzo e il marmo, materiali che appartengono a una tradizione alta e che l’artista rispetta a tal punto da cercare di tutelarne sempre le intrinseche qualità. È una sorta di inno al passato, il suo, e un modo per ancorare la propria attività al mestiere inteso come lavoro manuale appreso con tenacia e migliorato quotidianamente con l’esercizio. Nel dialogo tra l’idea che prende vita e il gesto che la concretizza la Spector esplora così il rapporto tra materia e spazio, riscoprendo ogni volta le potenzialità della forma e del volume. Le sue sculture, fragili e solide allo stesso tempo, ci parlano del rapporto tra uomo e donna, fatto di attese e di lontananze, di vincoli e di separazioni; ci parlano del legame tra madre e figlio e della maternità, piena espressione della forza generatrice (nella serie in-

Gabriela Spector L’abbraccio, 2019 bronzo, parco della Residenza Senago Cappella, Pazzallo.

titolata Voglia di pancia realizzata nel 2002, l’artista crea delle opere ricorrendo alla tecnica del calco dal vero, immortalando nel gesso i grembi di alcune gestanti); ci parlano, ancora, della famiglia, perno da cui il cammino di ognuno ha inizio e costante punto di ritorno di reminiscenze e suggestioni. I lavori pittorici della Spector, poi, ci parlano spesso della ricerca delle proprie radici, del peregrinare fisico e

mentale tra luoghi atavici e nuove destinazioni. Ne sono un esempio le sue carte geografiche umanizzate, dove corpi dipinti a olio si fondono con i dettagli di antiche mappe usate come tele: l’intrico di linee, tratti, forme, ombre e colori dà origine a territori vissuti, a paesaggi dell’anima da rivisitare o scoprire. Ecco che la Spector matura così una concezione dell’arte come elemento che fluisce nelle trame dell’esistenza

divenendo uno strumento per decodificare esperienze, memorie e aspirazioni, per riferire la propria vicenda personale ineluttabilmente mescolata agli accadimenti della storia umana. Dove e quando

Un mostra permanente dell’artista è visitabile su appuntamento presso la Chiesa San Sisinio a Mendrisio.

Bryan il dandy

Musica L’irresistibile leggerezza dell’eleganza: le eccentriche cover version anni 70 di Bryan Ferry

rivivono nel suo nuovo (ma datato) album dal vivo Benedicta Froelich A volte, in tempi convulsi come quelli attuali, in cui l’eleganza formale degli interpreti musicali di spicco potrebbe sembrare un semplice ricordo del passato, appare legittimo e benefico rivisitare un artista quale il britannico Bryan Ferry, irrimediabilmente legato a doppio filo a quell’immagine da crooner un po’ old-fashioned su cui ha costruito una carriera ormai cinquantennale. E chissà se proprio questo è lo spirito con cui la BMG ha appena dato alle stampe uno storico documento live come il concerto tenuto presso la Royal Albert Hall di Londra nel 1974 – giusto all’apice della popolarità di Bryan, all’epoca sulla cresta dell’onda grazie al patinato, eppure travolgente, repertorio della band dei Roxy Music, da lui capitanata tra il 1970 e il 2011: una forma di soft-rock melodico tipicamente «seventies», eppure anche personale, in quanto caratterizzata dal gusto di Ferry per l’eleganza demodé e per una raffinatezza musicale e stilistica che, lungi dall’infiacchirne il materiale, ne pervadeva e valorizzava ogni studiatissimo arrangiamento. Non deve quindi stu-

pire che un performer tanto elegantemente «vintage» abbia sempre coltivato un’intima passione per gli standard del Great American Songbook degli anni d’oro; passione peraltro già ben nota ai suoi fan, avendo Bryan pubblicato, proprio tra il 1973 e il ’74, i due notevoli album di cover These Foolish Things e Another Time, Another Place – ai quali, anni dopo, sarebbe poi seguito un terzo capitolo (As Time Goes By, 1999). È da questa branca del repertorio dell’artista che nasce Live at the Royal

Cover imperdibili in un lavoro dal sapore decisamente vintage.

Albert Hall 1974, tratto da quello che è stato il primo tour nella carriera solista di Ferry, di fatto inaugurata proprio dai due dischi sopraccitati. Così, a rendere unica questa particolare serata – oltre alla presenza sul palco degli altri membri dei Roxy Music come backing band – è il fatto che la scaletta è quasi interamente costituita da cover versions; e il desiderio di seguire le tracklist dei dischi di Bryan fa sì che ai classici del songbook jazz e americano si affianchino brani pop-rock risalenti a pochi anni prima – tutti accomunati dal fatto di essere stati scelti in base a una più o meno dichiarata preferenza personale di Ferry, indipendentemente dal sound o dal genere d’appartenenza. E i risultati, bisogna dirlo, sono ben più che semplicemente creativi – in effetti, quasi sconcertanti. Del resto, «geniale» è l’unico termine che sia possibile applicare a cover versions di altissimo livello come quella – irriverente e provocante, eppure, nel contempo, estremamente rispettosa dello spirito dell’originale – di un brano complesso e, di fatto, «difficile», come l’amaro e post-apocalittico A Hard Rain’s A-Gonna Fall, a firma di

Bob Dylan: una scarna e minimalista ballata folk, che nelle mani di Bryan diventa un esercizio di stile a dir poco destabilizzante. Lo stesso approccio caratterizza anche la traccia d’apertura del CD, una rivisitazione incendiaria di Sympathy for the Devil, cavallo di battaglia dei Rolling Stones che Ferry sceglie saggiamente di non alterare più di tanto; proprio come accade con You Won’t See Me, uno dei pezzi meno noti dei Beatles prima maniera. In effetti, questa setlist si differenzia in modo marcato dallo stile ben più «refined» dei Roxy Music, essendo composta da brani per molti versi più spontanei, suonati e interpretati con foga a tratti perfino cruda, come se il cantante in questione fosse un arrabbiato teddy boy appena ventenne, magari immortalato sul palco di un club underground londinese e posseduto dall’urgenza di mostrare ciò che sa fare (si vedano gli ammiccanti e sfrontati Fingerpoppin’, The «In» Crowd e It’s My Party). Certo, il rischio insito in una simile scelta stilistica è quello di rimuovere gran parte delle sfumature emotive di cui gli originali sono intrisi per «uniformarli» nel calderone di un

unico delirio rock dai toni spesso un po’ egocentrici – e in effetti, i pezzi originariamente più lenti e delicati, quali le «oldies» These Foolish Things e Don’t Worry Baby, finiscono per risentire di questa immersione un po’ anacronistica nel glam-rock più sfrenato; per fortuna, la combinazione funziona meglio nel caso di pezzi più ritmati – su tutti, The Tracks of My Tears, I Love How You Love Me e Smoke Gets in Your Eyes, qui distinti da una fusione perfetta tra ironia e sentimento, proprio come si addice allo stile innato di Bryan. Così, anche in questo caso, il Nostro non può che riuscire comunque ad ammaliare il pubblico con la collaudata affabilità di sempre: e la disinvoltura e sicurezza che pervadono l’intero set live sono sufficienti a fare di Live at The Royal Albert Hall 1974 un documento imperdibile per ogni ammiratore di quest’artista, certo definibile come l’imperturbabile «gentleman britannico» per eccellenza del rock: un performer che, avendo sempre scansato la facile visibilità garantita dal gossip e dall’egocentrismo più spicciolo, non è mai venuto meno al (geniale) personaggio da lui stesso creato.


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Cultura e Spettacoli

Sette ottoni per un progetto fantasma Jazz Salta il festival di Chiasso e, con esso, l’interessante progetto

di collaborazione tra docenti della SMUM e il quartetto di Andy Sheppard Alessandro Zanoli Il pezzo era già pronto e chi scrive ne era già moderatamente fiero. Capita raramente di poter partecipare in prima persona alla messa in opera di un progetto musicale tra un grande sassofonista e un nucleo di strumentisti di casa nostra. Al Festival Jazz di Chiasso, che quest’anno aveva come filo conduttore il tema «BRASS erie», era stato previsto infatti di presentare in prima assoluta la composizione Em Lisboa di Andy Sheppard. Gli esecutori avrebbero dovuto essere il quartetto del sassofonista inglese (composto da Eivind Aarset alla chitarra, Michel Benita al contrabbasso, Mario Costa alla batteria) coadiuvato, e questa era la notizia più interessante, dagli ottoni della SMUM: Danilo Moccia, Francesco Negrisolo, Enrico Dal Prato, tromboni: Marco Gadda, trombone basso; Emilio Soana, Alessio Camino e Silvio Pontiggia alle trombe. Grazie alla disponibilità di Danilo Moccia e alla simpatica tolleranza dei suoi colleghi, avevamo avuto la possibilità di partecipare alla prima prova in cui i musicisti di casa nostra si misuravano con gli spartiti di Sheppard, qualche settimana fa. Un’occasione interessante per raccogliere le opinioni e le impressioni su questo progetto che si inserisce in un filone ormai sempre più collaudato di «collaborazioni a distanza» tra gruppi musicali. I brani originali composti dal sassofonista nascono da un desiderio di mettere in musica la sua esperienza vissuta percorrendo le strade di Lisbona. Em Lisboa può quindi essere ritenuto un paesaggio sonoro, in cui immagini e sensazioni vengono riprodotte attraverso una musicalità molto vivace e ritmicamente stimolante. Alcuni titoli stessi dei sei brani previsti rendono conto di questa loro componente documentaria: Riding to Alfama; Love Song Of Santo Isidoro, Dreamkeepers of Barrio Alto. Tutti, possiedono un carattere piuttosto diverso a quanto Sheppard ci ha abituati. Da quanto abbiamo avuto modo di ascoltare in fase di prova, i pezzi possiedono un suono rotondo e solare, che sfrutta in modo particolarmente efficace le voci degli ottoni, creando un’atmosfera molto nitida e «latina» grazie al timbro e alla compattezza del loro apporto ritmico-armonico. «Non è un jazz complicato» ci ave-

Il gruppo del sassofonista inglese Andy Sheppard. (Facebook)

va spiegato Danilo Moccia. Dall’alto della sua esperienza di leader in formazioni di ottoni (si vedano i suoi bei dischi con la band Slidestream) il trombonista ticinese è stato un po’ il maestro di cerimonie del gruppo: «E anzi» ha precisato «in certi momenti potrebbe anche non sembrare jazz». I pezzi infatti disegnano atmosfere «impressionistiche», di sottofondo, su cui si immagina il sax di Sheppard recitare la parte del leone, come è logico, eseguendo temi e improvvisazioni. «Per questa sua nuova creazione Sheppard recluta a distanza la necessaria sezione di ottoni nel luogo in cui viene chiamato a suonare, di volta in volta. Poi invia al gruppo prescelto la partitura e alcuni files audio, con cui la sezione può provare l’arrangiamento. Si vede che la composizione è recente: gli spartiti sono ancora in una forma quasi di bozza, “in elaborazione”». Una volta ascoltati i pezzi, pare di capire che il ruolo degli accompagnatori sarà tutto sommato abbastanza semplice; i maestri lo confermano. Eppure per noi è stato particolarmente interessante assistere a questa prova «di sezione». Ai momenti di musica di insieme si alternavano numerose parti di silenzio, in cui l’unica cosa «da sentire» era lo schioccare metronomico delle dita di Moccia. Erano le parti riservate al nucleo originale del gruppo, il cui contributo in quella serata di prova diventava un’ossatura fantasmatica, immaginaria e per questo ancora più affascinante. All’interno della grande sala da concerto della SMUM, tra strumenti e attrezzature musicali disseminate un po’ ovunque, la prova dei musicisti (di-

sposti in sezione proprio come quando suonano nell’orchestra) assumeva una fisionomia informale, rilassata, ma molto «operativa». A pensarci con il senno di poi, si trattava di una vera anteprima «invisibile» del Festival di Chiasso, a cui chi scrive ha avuto il privilegio di assistere, seppure in forma embrionale. E del resto è sempre bello vedere la «meccanica del jazz» da dietro le quinte e osservare questi maestri affrontare una partitura certo ritmicamente e armonicamente complessa con grande souplesse e facilità. È una chiara dimostrazione di come, alle nostre latitudini, la cultura musicale in questo contesto specifico sia perfettamente all’altezza con esperienze musicali di rilievo internazionale. Una conferma in più della spiccata vocazione jazzistica del Ticino e del suo patrimonio didattico. Prima del concerto, ormai annullato, del 13 marzo, gli ottoni della SMUM avrebbero avuto ancora la possibilità di tenere due prove a Chiasso con Sheppard e con gli altri musicisti. Sarebbe stato il momento in cui mettere a punto i dettagli finali dell’esecuzione. «Per ora non sappiamo se ci sarà per noi la possibilità di eseguire qualche assolo, durante il concerto. Saranno cose decise in quel momento e discusse con Sheppard» ci aveva spiegato Moccia, nutrendo però un certa sicurezza sulla disponibilità del compositore a lasciare spazio ai suoi partner ticinesi. Ora invece si tratterà di vedere se il Festival di Chiasso, nel momento in cui l’emergenza da Coronavirus sarà rientrata, potrà trovare il modo di ripresentare agli spettatori il suo cartellone dedicato agli ottoni. Lo speriamo vivamente.

Arabella e la decadenza Opera All’Opernhaus di Zurigo

un allestimento firmato Robert Carsen

Marinella Polli Vi è certo qualche analogia fra il Rosenkavalier e l’Arabella di Richard Strauss. Quest’ultima opera in tre atti, spesso anche definita una conversazione in musica, per quanto non certo sublime come Il Cavaliere, è comunque una briosa commedia lirica e una delle più incantevoli del Novecento. Anch’essa, come il Rosenkavalier lascia trapelare in maniera delicata la nostalgia del passato. Varata nel 1933 dopo parecchie peripezie e, in particolare, dopo la morte avvenuta nel 1929 del librettista-coautore, Arabella era la sesta creata in collaborazione con Hugo von Hofmannsthal, da tempo stretto collaboratore di Strauss. E l’elegante penna del grande poeta austriaco aveva cesellato anche qui un ottimo libretto, ancorché non del livello dei precedenti. In questa nuova produzione zurighese, il regista canadese Robert Carsen traspone trasgressivamente l’azione dalla Vienna dell’incertezza politica del 1860 all’epoca nazista, poco dopo il famigerato «Anschluss» dell’Austria, e con tanto di «heil Hitler!» rappresentati però solo coreograficamente. Una trasposizione comunque non corrispondente ai molti riferimenti culturali evidenziati nel libretto e ancor meno a quanto gli autori si erano prefissi, e cioè di ironizzare sulla decadenza della società viennese nella seconda metà del XIX secolo con una trama da teatro leggero e rigorosamente a lieto fine. La scenografia unica per le due ore di spettacolo di Gideon Davey – hall/ cortile interno su cui si affacciano i quattro piani di un grande albergo viennese, e dove neanche le svastiche mancano – è solo apparentemente sbrigativa; i dettagli sono infatti curatis-

simi, come lo sono i costumi, dello stesso Davey. Fabio Luisi conduce la Philarmonia Zürich lungo l’innovativa partitura straussiana, dirigendola in maniera più cesellata nei languidi e nostalgici ritmi di danza (temi di valzer e polacche), ma spesso anche all’insegna di un fortissimo che procura qualche difficoltà ai cantanti. Il difficile ruolo di Arabella era in origine affidato a Julia Kleiter, la quale si è però ammalata un giorno prima della première ed è stata sostituita da Astrid Kessler. Scenicamente non del tutto sciolta, il tempo per provare era poco, la Kessler si è tuttavia dimostrata un’interprete eccellente: intonazione ineccepibile, ottima estensione, un bellissimo timbro e grande espressività vocale. Valentina Farcas nel ruolo di Zdenko/ Zdenka, esuberante Hosenrolle o ruolo en travesti (soprani e mezzosoprani in travestimenti maschili con obbligato gioco degli equivoci) è al suo livello vocalmente, ma migliore nell’espressione scenica, sia quando si veste da ragazzo perché costretta dai genitori indebitati fino al collo e che non possono permettersi di far sposare adeguatamente due figlie femmine, sia quando rivelerà le sue grazie di amabile fanciulla. Josef Wagner è il rustico ma ricco croato Mandrika: physique du rôle e un potente strumento vocale, però spesso coperto dall’orchestra e costretto a gridare. Convincente Judith Schmid nei panni della Contessa Adelaide, ottima Aleksandra Kubas-Kruk come Fiakermilli o Milli la sciantosa, di ordinaria amministrazione il resto del cast. Rimane ancora da dire del teatro tutt’altro che stracolmo, e ciò per il limite al numero di spettatori in luogo chiuso imposto in seguito al coronavirus, e delle repliche che si protrarranno fino al 31 marzo.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 marzo 2020 • N. 11

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Cultura e Spettacoli

E.S. Gardner, chi era costui?

Anniversari L’11 marzo di mezzo secolo fa moriva Erle Stanley Gardner, padre del celebre

avvocato-investigatore Perry Mason

Teatro Una

commedia gustosa in tempi assai incerti

Giovanni Medolago Erle Stanley Gardner è un nome sconosciuto o quasi. Ma se appena aggiungiamo che fu il padre di Perry Mason, ecco che di sicuro gli occhi di numerosi lettori s’illumineranno. Protagonista di 271 episodi e 26 film, sempre destinati alla TV, l’invincibile avvocato e i suoi assistenti (la segretaria Della Street e l’investigatore Paul Drake) hanno alimentato un culto di massa che ha coinvolto più di una generazione.

Giorgio Thoeni

Nella creazione del personaggio di Perry Mason Gardner restò fedele al suo spirito garantista E.S. Gardner è stato un autore prolifico come pochi: ha al suo attivo oltre 350 romanzi, quasi tutti ambientati in ambito forense/processuale. I delitti e le susseguenti schermaglie in tribunale hanno uno straordinario fascino narrativo – da sempre, non solo in quest’epoca in cui giallisti e racconti polizieschi nascono come funghi – perché soddisfano il bisogno ancestrale di mettere ordine nel caos dell’esistenza e dei diversi punti di vista sul male, sul bene e sulla colpa. Il tribunale, agli occhi del pubblico televisivo, diviene facilmente un palcoscenico primario in cui va in onda, in forma rituale, popolare e spesso consolatoria, l’eterno conflitto tra legge e giustizia. E.S.G. si spinse ancor oltre, proponendo un principe del foro animato dall’imprescindibile principio garantista secondo il quale ogni imputato, emarginati e derelitti in particolare, debba aver diritto a un processo equo. Poco importa se poi, pur di vedere assolto il proprio assistito che «sa» essere innocente, Perry Mason violi a sua volta il codice penale e l’etica

E.S. Gardner in un’immagine degli Anni Cinquanta. (Keystone)

professionale, cancellando le prove che sfortunatamente depongono a sfavore dell’imputato e talvolta creandone artificiosamente altre a favore di quest’ultimo. A dargli man forte in queste discutibili mosse è soprattutto Paul Drake, fascinoso e assai tranquillo nei telefilm, ma che nei romanzi rasenta pericolosamente il ritratto dell’avanzo di galera! Gardner (nato in Massachusetts nel 1889 e scomparso l’11 marzo 1970), laureato in legge a Palo Alto nel 1909 pur essendo figlio d’un minatore, confessò d’essersi dedicato alla narrativa per riequilibrare, in favore della difesa, un sistema giudiziario distorto e tutto schierato dalla parte dell’accusa. Alternava la pratica legale alla boxe, ma fuori dal ring dimenticava le norme della

noble art e portava con nonchalance parecchi colpi bassi pur di veder scagionati – da accuse sovente inventate da procuratori frettolosamente desiderosi di offrire un colpevole in pasto all’opinione pubblica – i suoi primi clienti, soprattutto immigrati messicani e cinesi che molte volte difese gratuitamente. Negli Stati Uniti degli Anni 30 permeati da un cinico giustizialismo a prescindere – il primo episodio Perry Mason e le zampe di velluto apparve nel 1933 – E.S.G. rischiò parecchio. Ottenne però e paradossalmente un clamoroso successo proprio perché Mason, «figlio di buona donna che rugge sotto il suo doppiopetto, alla fine conquide, sia pure grazie ai suoi metodi più che discutibili. Si scatena un duello estetico nel quale non conta tanto la verità, ma la

vittoria. E tutto questo è molto americano, visto che da quelle parti è solo quella che conta» (Giancarlo De Cataldo). Da sempre interessato alle condizioni dei detenuti, ESG nel 1948 fondò «The Court of the last Resort» con lo scopo di aiutare gli innocenti vittime di errori giudiziari talvolta clamorosi e far riaprire indagini ormai concluse. Per questo suo impegno che fece uscire di galera più d’un innocente e che lui stesso riassunse in un saggio, nel 1952 gli fu attribuito il Premio Edgard Allan Poe: unico exploit letterario per lui, che aveva a lungo collaborato con la rivista pulp «Black Mask» senza tuttavia ottenere i riconoscimenti che andarono poi ai suoi illustri colleghi di redazione Dashiell Hammett e Raymond Chandler.

La verità sulla fascetta

Pubblicazioni Fascette, sovraccoperte e «soglie» del libro in un volumino curato dall’editore

Marco Cassini per l’editrice di pregio Italo Svevo Stefano Vassere «La fascetta è, per usare le metafore dell’abbigliamento, una specie di minigiacca ridotta al terzo inferiore dell’altezza del libro, i cui mezzi di espressione sono in generale puramente verbali, anche se sembra avanzare l’abitudine di introdurvi un’illustrazione, o un ritratto dell’autore». In quel sistema complesso che è un libro cartaceo, la fascetta ha la sua funzione esclusiva, che la rende unica nella famiglia di soglie di accesso al nudo testo portato dal volume. È «una striscia di carta sovrapposta trasversalmente alla copertina delle novità librarie, su cui gli editori sogliono stampare poche parole»; si tratta di «piccoli urli di carta arrotolati attorno al libro, strilli pubblicitari con ambizioni critiche che quasi sempre la sparano grossa, la sparano enorme». L’editore Marco Cassini, direttore della casa editrice SUR, dedica alla fascetta un nuovo breve volume (Fascette oneste. Se gli editori potessero dire la verità), che si apre con quella che si potrebbe definire gustosa introduzione, con la storia e la definizione del piccolo supporto, seguita da una specie di stupidario che raccoglie fascette di tipo inusuale, risultato di un notturno gioco tra amici di creazione di una serie

Divertirsi con il dialetto e Flavio Sala

La fascetta non è solo una striscia di carta sovrapposta alla copertina.

aperta di blurb con la patente di onestà (cose del tipo «È una pizza e costa meno di una pizza», «In tutti i cestoni degli Autogrill, dopo il Toblerone», «Avrete sicuramente letto di peggio»). Ora, ci perdonerà Cassini se indirizziamo il lettore verso la lettura puntuale nella sua abbondante rassegna e ci soffermiamo sull’attenzione per il piccolo supporto. Perché parlare di

queste materie ci richiama, con struggente operazione di memoria, le stagioni della critica letteraria del tempo che fu, che ancora oggi muovono qualche sentimento. E così, nella memorabile schiera dei Roland Barthes, dei Claude Lévi-Strauss, dei Foucault, dei Roman Jakobson, dei Lacan e di molti altri, il posto a capotavola degli studi sul paratesto spetta a Gérard Genette. Di lui può succedere di tornare a leggere e apprezzare quanto disse a proposito delle bandes, delle jaquettes, delle liseuses (qui l’originale francese, con rispetto per la traduzione italiana d’autore affidata a Camilla Cederna, si impone con determinazione metaforica impareggiabile), illuminandone il carattere virtuosamente precario, episodico ed effimero (la fascetta dura il tempo della novità in libreria). E quando disse, richiamando quel fascino argomentativo, che tutto questo materiale ha un carattere di transizione (tra testo e fuori testo) ma anche, e forse ancora di più, di transazione, «luogo privilegiato di una pragmatica e di una strategia, di un’azione sul pubblico al servizio di una migliore accoglienza del testo e di una lettura più pertinente, agli occhi dell’autore e dei suoi alleati». Dunque, tra i pregi del libro di Cassini c’è quello di costringerci ad avvicinarci alla libreria di casa, prelevare quelle antiche

letture e infondere in noi un po’ di nostalgia. Un libro dedicato al costume di avvolgere i libri in fascette non poteva non portare su di sé una fascetta; questo libro, in omaggio al suo carattere «metalibrario» (il libro che parla di libri), ha una fascetta stampata e non effimera che dichiara il titolo sulla prima di copertina e allude, nella quarta, alle pagine intonse tipiche della casa editrice che lo ospita. In una mirabolante vertigine di rinvii di primo, secondo, enne livello, l’editore si chiama Italo Svevo e accoglie raffinati scritti sull’amore per la lettura. Alle pagine intonse, si accompagnano pregi in grande numero: la carta Fabriano Palatina dell’interno, la Fabriano Palatina Brizzato della copertina, il carattere ITC New Baskerville, una direzione artistica, uno studio grafico per impaginazione e redazione, date e luoghi separati per la stampa (novembre 2019, a Vicenza) e la pubblicazione (dicembre 2019, a Trieste). Evviva. Evviva, il libro di carta.

L’asso nella manica della commedia dialettale consiste nella sua straordinaria valenza popolare grazie a una drammaturgia semplice e immediata come l’uso del vernacolo, dunque di chiara lettura grazie a meccanismi di complicità rassicuranti (spesso prevedibili) accanto a un uso dello spazio teatrale e della macchineria scenica non sofisticati: tutti ingredienti che costituiscono la chiave di un successo che vuole lasciare spazio al divertimento puro. A ciò occorre assolutamente aggiungere la bravura e la simpatia degli interpreti, senza dubbio un dato imprescindibile e fra i più determinanti. In questo senso la sa lunga La Compagnia Teatrale Flavio Sala che ha aggiunto un nuovo tassello al suo palmares con il debutto al Teatro Sociale di Bellinzona di Se la va la gh’a i röd, commedia scritta da Gionas Caldelari e diretta dallo stesso Flavio Sala, protagonista principale. Lo zampino del poliedrico attore ticinese si rivela determinante sin dall’inizio, con il sipario che si apre per richiudersi poco dopo su una scena che si rivelerà centrale nella trama. Un moderno trailer, un appetitoso ammiccamento che anticipa senza svelare. La commedia si propone come sequel di Un altro bel garbüi, ambientato nell’officina del garage Pistoni (scenografia di Mario Del Don) con gli stessi personaggi che hanno ormai conquistato la simpatia del pubblico. Dai meccanici scansafatiche Nando, Federer e Lac à Poche alla vulcanica e avvenente Toyota, dalla coppia di proprietari Stella e Orazio ai personaggi che fanno da contorno a una vicenda dai risvolti farseschi e concepiti come un giallo fatto in casa. La storia fra Nando e Toyota sta per trasformarsi in una cosa seria e l’impenitente tombeur de femmes intravede all’orizzonte la fine di un eterno scapolone. In questa prospettiva si insinua un’indagine poliziesca a caccia di un misterioso spacciatore e finto autista a cui si aggiunge la sparizione del proprietario del garage alla vigilia di una viaggio ai Caraibi con l’esuberante moglie. Quando tutto sembra volgere al peggio… insomma, ancora una volta la tavola della commedia è imbandita a dovere per liberare la fantasia a dialoghi, battute, situazioni divertenti e spesso esilaranti verso un lieto fine, dove vince la forza comunicativa del dialetto e l’intesa fra gli interpreti premiate da numerosi applausi a scena aperta. Un insieme di elementi positivi a cominciare da Flavio Sala in perfetta simbiosi con collaudati partner come John Rottoli, Moreno Bertazzi e la spumeggiante Rosy Nervi-tacco12, i veterani Leonia Rezzonico, Mileti Udabotti, Orio Valsangiacomo con Beppe Franscella, Gian Paolo Caligari ed Enea Fonti. Lunghi applausi per uno spettacolo che, nonostante i tempi cupi, regala un paio d’ore di sano passatempo.

Bibliografia

Marco Cassini (a cura di), Fascette oneste. Se gli editori potessero dire la verità, Trieste-Roma, Italo Svevo, 2019.

Sala insieme ad alcuni attori della pièce. (Compagnia teatrale Flavio Sala)


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 marzo 2020 • N. 11

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Cultura e Spettacoli Rubriche

In fin della fiera di Bruno Gambarotta Pavese, compagno di strada Il 27 agosto saranno trascorsi 70 anni da quando Cesare Pavese mise fine alla sua vita. Nato a Santo Stefano Belbo il 9 settembre 1908, 12 giorni dopo avrebbe compiuto 42 anni. Totalmente immerso nel suo mestiere di scrittore, tanto da non lasciare margini alla vita, Pavese è più vivo che mai. Mentre quell’intellighenzia romana che negava il suo valore, Moravia per primo, è morta per sempre. Noi, avendo iniziato a leggerlo durante l’adolescenza, siamo stati stregati dalla sua parola miticoevocativa, in bilico fra la pagana vitalità della campagna vissuta nell’infanzia e la laica ma costrittiva vita cittadina, schiacciati dal senso del dovere. Se in questi 70 anni la sua opera ha continuato a generare studi, traduzioni, mostre e convegni in tutto il mondo e ha ispirato musica, pittura, teatro, cinema, performance, lo si deve a Franco Vaccaneo. Nato anche lui a Santo Stefano Belbo nel 1955, era in prima elementare quando ha assistito all’inaugurazione del monumento a Pavese, a cui ha

dedicato 44 anni della sua vita, dal 1975 al 2019, fondando la Biblioteca e il Centro Studi dedicato allo scrittore diventato in seguito Fondazione. Leggendo le cronache di un’interminabile sequenza, tuttora in corso, di mostre e convegni dedicati allo scrittore non solo in tutti i paesi d’Europa ma anche al di là dell’Atlantico, viene spontaneo riflettere sul fatto che Pavese non è mai salito su un aereo, non ha mai varcato un confine, di sua iniziativa si è spinto solo da Torino fino a Roma, obbligato dalla condanna al confino per attività antifascista ad arrivare scortato a Brancaleone Calabro. Una spiegazione ce la fornisce il sociologo Franco Ferrarotti, amico di Cesare e felicemente arrivato ai 93 anni: «Pavese riteneva il viaggiare uno spreco inutile». Da una prima sede in un locale inutilizzato del municipio, si passa a una struttura edificata su un campo da tennis che si trovava in riva al Belbo. Il 4 novembre 1994 è un sabato e piove da giorni; alle 20 e 30 il fiume esonda e invade i locali.

Con uno sforzo immane e con l’aiuto di tutti i compaesani si riesce a salvare i manoscritti immersi nel fango, compreso il messaggio d’addio vergato sul frontespizio di una copia de I dialoghi con Leucò, il libro più amato dal suo autore. Diceva: «Perdono a tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi». (Pavese conosceva i suoi amici, non dice non fate pettegolezzi ma non fatene «troppi»). Lascia in quella stanza dell’albergo Roma anche l’ordinatissimo manoscritto del suo diario, provvisto del titolo Il mestiere di vivere e di esergo, una citazione dal Re Lear, «La maturità è tutto», un controcanto per uno rimasto adolescente e immaturo per tutta la breve vita. I manoscritti inviati al centro del restauro ritornano intatti. Perché sono così importanti? Risponde colui che li ha voluti in mostra: «Dai manoscritti si può osservare l’officina di uno scrittore che alla pagina affidò tutto se stesso, senza infingimenti e senza finzioni. Scrivere è parlare da soli e parlare a

una folla». Con l’avvento della scrittura digitale scompare il fascino dei manoscritti, lo studio delle varianti, dei ripensamenti, delle cancellazioni. Tutti gli scrittori di questo nostro tempo provvedono a memorizzare l’ultima versione senza preoccuparsi di salvare o di stampare la precedente. Primo Levi è stato fra i primi ad adottare la scrittura elettronica, perché gli dava un enorme fastidio sapere che qualcuno sarebbe andato a frugare nella sua officina creativa. Nel Centro Studi si dà conto anche del grande lavoro svolto da Pavese come colonna della casa editrice Einaudi. In quella stagione di ferro, mentre gli altri dirigenti erano allineati sul fronte marxista leninista, Pavese dà vita alla «Collana Viola» avendo come compagno d’avventura Ernesto De Martino, pubblicando studi sul folklore, sulle tradizioni popolari, sul sacro, con autori non allineati come Carl Gustav Jung, Karl Kerényi. Con la distruzione della sede del Centro Studi un altro al posto suo si sarebbe arreso,

ma Franco Vaccaneo è di fibra langarola e convince l’amministrazione comunale a destinare la chiesa sconsacrata dei Santi Giacomo e Cristoforo dove il piccolo Cesare era stato battezzato, a nuova sede del Centro Studi diventato Fondazione nel 2006. Tutti coloro che sono stati ospiti per poco o per tanto tempo nella foresteria, concordano nel testimoniare che in quel luogo si respira un’aria speciale che stimola senza sosta idee e progetti che trovavano in Franco Vaccaneo un sostegno entusiasta. In quelle stanze regna sovrano un sentimento di inossidabile amicizia. Questa storia esemplare è ora raccontata nel libro Cesare Pavese e gli altri sotto forma di una lunga intervista fatta dalla studiosa e traduttrice rumena Mara Chiritescu. Franco Vaccaneo si congeda dal lettore con queste parole: «La vita che ho vissuto con Pavese e per Pavese è stata la mia unica vita e non saprei immaginarne altre. Per me è stato un maestro ma anche un compagno di strada».

si accendono quando ci sia un’anomalia? O ancora più semplicemente: se il dolore deve fare star fermo l’individuo finché non guarisce, si poteva pensare a un congegno che lo metteva in blocco, uno cade da un ponte e rimane addormentato finché gli organi non si sono rigenerati. Sì, direte, ma allora laggiù nella voragine sarebbe stato in balia dei carnivori e delle formiche. Ma anche un’auto in panne è in balia della ruggine e dei ladri. E così per l’umanità, uno che si è buttato e sta laggiù mentre circolano iene e sciacalli, beh l’individuo potrebbe però emettere un grido intermittente, che funzioni da geolocalizzatore per il carro attrezzi, e il suo corpo potrebbe produrre una sudorazione repellente che tiene lontano le iene e le formiche. Sarebbe allora il migliore dei mondi possibili? Beh, se non morisse mai e non provasse dolore si toglierebbero due gravi preoccupazioni. Però la morte a volte risolve problemi difficili: se Hitler

o Stalin fossero stati immortali, chi ce li levava di torno? Certo se l’umanità fosse immortale non servirebbe più fare la guerra o opprimere il popolo con le esecuzioni. Hitler potrebbe al massimo promuovere l’Unione Europea. E Stalin? Beh, Lenin e Stalin avrebbero tentato di prendere il potere, ma lo zar non lo si poteva uccidere, non avrebbero potuto affamare l’Ucraina, la guerra civile ci dovevano rinunciare, i contadini se ne sarebbero fregati della collettivizzazione, Stalin avrebbe potuto minacciare, chiedere l’abolizione della proprietà, qualcuno l’avrebbe seguito, ma come costringere la maggioranza? Con i gulag, mi si risponderà. Va bene. Ma se i prigionieri fossero immortali non avrebbero fretta, prima o poi ci libereranno, 25 anni di gulag sarebbero una frazione insignificante di tempo; Stalin si stancherà; quindi anche il gulag non farebbe paura, a parte il fatto che non essendo uccidibili, li dovrebbero tenere

dentro con la forza, dovrebbero essere più le guardie dei prigionieri, perché farebbero a chi spinge di più. Quindi uno Stalin non sarebbe esistito, sarebbe diventato prete come voleva sua madre; e poi neppure, perché l’aldilà nessuno l’avrebbe potuto promettere, i preti sarebbero inutili. Forse Stalin avrebbe fatto il ciabattino nel Caucaso, per tutta l’eternità; e Lenin non avrebbe scritto Che fare? perché non avrebbe avuto niente da fare; avrebbe forse protestato contro l’immortalità, perché senza la morte l’uomo è difficile da comandare (idem per Hitler). Ma poi la protesta non gli conveniva, meglio vivere in eterno che comandare per 4 anni e poi restare al Cremlino imbalsamato, con Stalin di fianco, imbalsamato anche lui. Non ci fosse la morte dovremmo cambiare istituzioni e abitudini, forse ci annoieremmo, vorremmo spegnere lo spettacolo; però il mondo forse, dico forse, sarebbe leggermente migliore.

terrorizzata lei ed è terrorizzato messer Giovanni, che si mette a scrivere il suo capolavoro ispirandosi a quella sofferta vicenda dove propone un rimedio alla psicosi generale: la lettura. Anche se temo che l’amica ottimista esageri nell’ottimismo, a chi vuol darle ragione consiglio la recente, straordinaria biografia di Boccaccio scritta da Marco Santagata (Boccaccio. Fragilità di un genio, Mondadori, 5½ per la capacità di racconto e per la notevole messe di documenti in nota e nelle annotazioni finali). L’amica ottimista non ha torto almeno su un aspetto: sono cresciute le vendite (on line) di alcuni classici. Non il Decameron e neanche I promessi sposi, che pure sull’epidemia, sul contagio, sui lazzaretti e sugli untori avrebbero parecchio da dirci, anche se Manzoni non ne fu testimone diretto visto che narrò una storia avvenuta nel 1630, due secoli prima di lui. I due romanzi entrati in classifica al tempo del Covid19 sono: Cecità di José Saramago e La peste di Albert Camus. Due classici novecenteschi

dell’epidemia. Il primo romanzo (5+) si apre con un uomo che, fermo al semaforo sulla sua auto, di colpo non vede più nulla se non uno schermo bianco. È il primo segno di un morbo a cui il medico non riesce a dare alcuna spiegazione, salvo scoprire ben presto che ne è stato colpito anche lui esattamente come i pazienti seduti in sala d’attesa. Non appena la cecità bianca coinvolge la popolazione, gli ammalati vengono messi in quarantena dentro vecchi manicomi da cui non potranno uscire pena la fucilazione come fossero prigionieri di un lager: e qui scatta la genialità di Saramago, che immagina come una società intera possa reagire di fronte a un’epidemia di cecità e soprattutto a un potere che di colpo, nell’angoscia, rivela il suo volto brutale e totalitario. Distopia orwelliana, in cui nessun personaggio ha un nome proprio. E camusiana. La peste di Camus (6–) è decisamente il modello di Saramago: ogni volta che abbiamo a che fare con un flagello, finisce che ci interroghiamo sulle grandi

questioni. Potrebbe accadere anche per il coronavirus, chissà. Il male di Camus è un’allegoria: raccontando quella peste immaginaria, lo scrittore francese allude all’Europa caduta sotto il nazismo e, di conseguenza – come ha scritto Carlo Bo – vuole «illustrare il comportamento degli uomini, quando la storia li chiama a dare delle risposte assolute e insuperabili». Sempre una faccenda di etica, pur avendo a che fare con i topi (il governatore del Veneto, che ha accusato i cinesi di mangiare topi vivi, avrà mai letto La peste?). Il dottor Bernard Rieux, che trova un ratto morto davanti alla soglia di casa, decide di impegnarsi a combattere il male in scuole e ospedali. Quando gli chiedono che cos’è l’onestà, non ci pensa due volte: «Cosa sia in genere, non lo so: ma nel mio caso, so che consiste nel fare il mio mestiere». Se davvero La peste sarà un bestseller nelle prossime settimane, Rieux diventerà un eroe del nostro tempo. Vuoi vedere che aveva ragione la mia amica ottimista?

Un mondo storto di Ermanno Cavazzoni Il mondo migliore Diceva il filosofo Leibniz che viviamo nel migliore dei mondi possibili. Beh, direi che il guaio è che si muore. Uno vive, si agita, matura delle convinzioni, arriva a capire qualcosa delle regole di questo pianeta, poi muore, e tutto quello che ha capito va in fumo. Non era possibile fare un mondo dove non si moriva? Sì, si poteva. Ma chi ha fatto il mondo, o comunque la legge biologica, ha preferito farci morire. Il problema dell’immortalità è che a lungo andare uno si usura, come si usurano tutte le cose dell’universo. Un’auto fa anche trecentomila chilometri poi è da buttare. E un uomo, anche durasse, prima o poi ha un incidente; o si lancia da un ponte attaccato a un elastico ma l’elastico non era agganciato e si sfracella sul fondo della voragine. Supponendo sia immortale, resterebbe però gravemente offeso, senza contare le inevitabili malattie; un uomo dopo tanti chilometri, come un’auto è da buttare; ma essendo

immortale continuerà malamente a funzionare. Ma, si obietterà, si possono cambiare i pezzi, nuovo fegato, nuovi polmoni; anzi, si poteva concepire l’uomo con la capacità di rigenerarsi: perde un occhio e l’occhio ricresce, ogni cellula ha il progetto completo di quell’individuo, non ci voleva molto a renderlo autoriparabile. Precipita dal ponte, e dopo qualche mese si è richiusa la testa, fegato e milza riformate. Sarebbe una buona immortalità. Quindi che sia il migliore dei mondi possibili è discutibile. E in questa prospettiva si poteva evitare il sistema nervoso che trasmette dolore. In un’automobile si accende una spia quando non funziona qualcosa. Trovo che aver congegnato il dolore come segnalazione di un guasto sia stata un’idea pessima, per non dire sadica; oltre al danno uno deve sopportare anche la sofferenza; non si poteva più semplicemente mettere dei segnalatori acustici, o dei peli rossi che

Voti d’aria di Paolo Di Stefano Uomini e topi Un’amica ottimista mi ha detto: almeno la gente comincerà finalmente a leggere… Ottimista, appunto. Le librerie sono al collasso. Come se non bastasse il normale malessere, dovuto soprattutto all’invadenza dell’e-commerce, si è aggiunto il virus. Nessuna «onesta brigata» decameroniana si ritirerà in collina a raccontarsi novelle (e tanto meno a leggere libri) per ammazzare il tempo, come accadde ai dieci giovani di Boccaccio: «impaurisco e tutti i capelli addosso mi sento arricciare», disse Pampinea invitando tutti, per «la conservazione della nostra vita», a «prendere quegli rimedi che noi possiamo». Siamo nel 1348 e l’Europa viene investita dalla «mortifera pestilenza» partita da un focolaio orientale e diffusa via mare attraverso le città portuali: in Italia, pare, da Messina, risalendo lungo lo Stivale, poi da Genova era sbarcata a Marsiglia, da dove aveva invaso la Francia, mentre da Venezia era giunta in Emilia e a Firenze. Nell’arco di cinque anni l’epidemia

era diventata una delle più disastrose pandemie della storia, estesa all’intero continente europeo, dal Mediterraneo alla Scandinavia ai Balcani, uccidendo un terzo della popolazione. A Firenze iniziò in primavera e rimase fino al tardo autunno. Per Boccaccio quella «pestifera infermità» fu «da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata». «Il tempo, come si suol dire, ci è scivolato tra le dita: le nostre antiche speranze sono sepolte con gli amici. È il 1348 che ci ha resi poveri e soli», scriverà Petrarca a bilancio di quella catastrofe umana. Nell’introduzione alla prima giornata del Decameron, Pampinea dice di non sentire altro che frasi tipo: «I cotali son morti» e «Gli altretali sono per morire». Infatti Boccaccio vide morire la matrigna Bice, lo zio Vanni e suo padre Boccaccino, restando solo con Iacopo, il suo fratello minore, di otto o nove anni. Tutti i suoi sentimenti funesti li avrebbe messi in bocca alla stessa Pampinea, la quale dice di vedere ovunque «l’ombra di coloro che sono trapassati». È


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