Azione 14 del 1 aprile 2019

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Cooperativa Migros Ticino

Società e Territorio Gravidanza, parto, allattamento: non sempre le testimonianze sono realistiche e sincere perché attorno alla maternità sopravvivono pregiudizi e tabù

Ambiente e Benessere Petra Donati-Genet, pediatra neonatologa e Cari Platis Roberti, anestesista specializzata in ostetricia, parlano di neonatologia perinatale, di sfide e nuovi orizzonti: fra etica, diagnostica e terapia

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXII 1. aprile 2019

Azione 14 Politica e Economia Il viaggio di Xi in Europa è un esempio di come la Cina giochi la sua partita geopolitica nel veccchio Continente

Cultura e Spettacoli A Palazzo Reale un imperdibile omaggio al grande Maestro Antonello da Messina

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di Luigi Baldelli pagina 36

Luigi Baldelli

Quel che resta di L’Aquila

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È l’ecologia, bellezza... di Peter Schiesser Il risultato delle elezioni cantonali zurighesi ci dice che è cambiato qualcosa in questi ultimi mesi, probabilmente qualcosa di importante: clima e ambiente sono oggi, improvvisamente ma non troppo, temi politici determinanti. In questo caso in Svizzera, ma non solo. È la realtà a suggerircelo: estati lunghe e roventi, siccità e tempeste, continui sbalzi di temperatura non fanno che confermare le previsioni degli studiosi (quelli che davvero si occupano della materia specifica). Lo si sapeva da anni, ma oggi evidentemente l’inconscio collettivo è pronto a manifestare una reazione, un’espressione meno vaga. Lo fa come altre volte nella storia, lasciando emergere delle figure carismatiche che si ergono a simbolo, molto diverse le une dalle altre – come lo erano Hitler, Gandhi, Lenin, Mandela, Trump, Obama, Mussolini, Stalin... Oggi il bisogno collettivo di salvezza e purezza, onestà e lucidità, un impulso forte di un inconscio collettivo che si sente minacciato nella sua esistenza, è incarnato da Greta Thunberg, la ragazzina svedese che con il suo esempio ha spinto centinaia di migliaia di persone, perlopiù giovani alunni e studenti,

a scioperare per protestare contro lo scarso impegno di politici e governanti nella lotta per la salvaguardia del clima. Certo, potremmo anche scuotere la testa di fronte all’ingenuità insita in alcune proposte delle giovani generazioni. Ma sarebbe fuorviante, poiché significherebbe guardare la pagliuzza e non vedere la trave: la trave di un sos lanciato dalla generazione che domani, assieme a quelle successive, si troverà alla guida di un mondo con un ambiente destabilizzato dalle generazioni precedenti. Se permettete, un’esigenza molto vitale, quella di poter continuare a vivere su questo pianeta godendo di una certa qualità di vita, che la nostra e le precedenti generazioni hanno ben conosciuto e altrettanto ben sprecato. Quindi: non sono le soluzioni che vengono al momento gridate da una Greta e dai suoi discepoli a contare, bensì è la volontà profonda di salvaguardare il filo di vita che lega una generazione umana alla prossima a dover esser tenuta in considerazione. Ed ecco che Greta Thunberg, a sua insaputa, poiché lei stessa non è che l’eco di tanti altri, fa risuonare qualcosa anche a distanza, in una domenica elettorale nel canton Zurigo. Sarà pure il cantone più popoloso della Svizzera, ma se partecipa alle elezioni solo un citta-

dino su tre non sarà davvero plausibile che questa tendenza – verde e marcatamente donna, non dimentichiamolo (con il 41 per cento degli eletti in parlamento e una maggioranza di 4 a 3 in governo) – possa applicarsi pari pari alle prossime elezioni federali, fra mezz’anno. Come scrive Marzio Rigonalli a pagina 37, gli scenari sono tanti, pochi verranno confermati, in mezzo ad una confusione di posizioni contraddittorie. E forse ciò che è successo a Zurigo si rifletterà nel resto della Svizzera soltanto fra una legislatura. Ma in realtà ci vorrebbe poco perché il mood politico federale di ottobre gli assomigli quel tanto che basta per modificare, dopo quelli cantonali, anche gli equilibri politici nazionali. Molto dipende, quando a votare va uno su tre, dalla capacità dei partiti di mobilitare il proprio elettorato, e in questo contesto i partiti borghesi sembrano in seria difficoltà, in particolar modo l’Unione democratica di centro, che non si è mai profilata a favore dell’ambiente, anzi ha contribuito ad affossare la legge sul CO2. E qualcosa potrebbe influire ancora pure il meteo: un’altra estate con temperature da primato e calamità ambientali mobiliterebbe nuovamente chi ha a cuore l’ambiente. Come avvenne nel 2011 dopo il disastro nucleare di Fukushima.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 1. aprile 2019 • N. 14

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Attualità Migros

Sulla buona strada

Bilancio 2018 Nonostante un anno e un contesto difficile, il Gruppo Migros ha aumentato

la propria quota di mercato e migliorato il risultato operativo chi, il Gruppo Migros ha affermato il suo ruolo leader nell’e-commerce svizzero. «L’esempio Digitec Galaxus come mercato interattivo dimostra che la Migros è un attraente luogo d’incontro anche online», ha dichiarato Fabrice Zumbrunnen. La Migros vuole affermare e ampliare ulteriormente la propria leadership sul mercato. «Continueremo a essere presenti in loco e con servizi personali. Le offerte correlate a livello stazionario e digitale sono molto apprezzate dai nostri clienti», ha aggiunto Fabrice Zumbrunnen, come dimostra il servizio di ritiro PickMup, il cui uso è raddoppiato l’anno scorso. «Quando parliamo di cifre, dimentichiamo spesso il nostro capitale più importante, ovvero le nostre collaboratrici e i nostri collaboratori. A loro vanno i miei ringraziamenti più sentiti. Sono loro infatti che forniscono ogni giorno con la loro simpatia il meglio a tutti i nostri clienti», ha proseguito Fabrice Zumbrunnen. Alla fine del 2018, la Migros impiegava, quale maggiore datore di lavoro in Svizzera, 89’671 collaboratori (+155); in tutto il mondo sono 106’622 (+1166). Per quanto concerne i prodotti, la Migros proseguirà nel trend di crescita degli articoli regionali e sostenibili, sempre più apprezzati. Con un totale di 4,2 miliardi di franchi, la cifra d’affari relativa ai prodotti con marchi sostenibili e regionali nonché al marchio di qualità «aha!» è aumentata del 5,3%. I clienti hanno acquistato prodotti del marchio regionale (in Ticino, i «Nostrani del Ticino») per quasi un miliardo di franchi (+3,5%). Quasi la metà della cifra d’affari con marchi sostenibili è stata realizzata con il label «Terra Suisse» e l’assortimento bio, la cui domanda è aumentata dell’11%. Il programma di sostenibilità della Migros – Generazione M – lanciato nel 2012 comprende finora 67 promesse vincolanti. Alla fine del 2018 ne erano già state soddisfatte 44. Per quanto con-

L’usignolo amico del Re

Tutti a bordo!

Concorso Biglietti

con una festa multisensoriale lunga tutto il weekend

in palio per lo spettacolo del Teatro Pan

La rassegna teatrale Home, in collaborazione con il Percento culturale di Migros Ticino, proporrà domenica 14 aprile alle 18.00 al Foce di Lugano una pièce ideata e prodotta dal Teatro Pan. Prendendo l’ispirazione da una fiaba di Andersen il collettivo luganese, sotto la regia di Lorenzo Bassotto, mette in scena L’usignolo: o dell’amicizia, uno spettacolo adatto a un pubblico dai 6 anni. La fiaba vuole far riflettere sul contrasto tra la bellezza naturale e quella artificiale e sul valore dell’amicizia. «Azione» mette in palio alcuni biglietti gratuiti per lo spettacolo. Per partecipare all’estrazione seguire le istruzioni contenute nella pagina del sito web www.azione.ch/concorsi. Buona fortuna!

Azione

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

FCM L’assemblea dei

delegati la preferisce alla candidata ufficiale

Il Gruppo Migros ha alle spalle un anno movimentato, durante il quale è riuscito ad incrementare la propria quota di mercato nel commercio al dettaglio e ad espandere il ruolo di leader nell’e-commerce svizzero. La cifra d’affari del Gruppo è aumentata dell’1,4% a 28,5 miliardi di franchi, il risultato operativo è migliorato rispetto all’anno precedente del 7,8%, a 651 milioni di franchi, l’utile netto è sceso a 475 milioni, a causa di rettifiche di valore. Sempre più persone fanno i propri acquisti alla Migros. Con 2’215’194 soci nel 2018, il numero dei proprietari della Migros ha toccato un nuovo record. «Ciò dimostra che, nonostante la necessaria trasformazione, siamo sulla buona strada», ha dichiarato Fabrice Zumbrunnen martedì scorso, in occasione della conferenza stampa di bilancio della Federazione delle cooperative Migros (FCM). Con il leggero miglioramento del risultato operativo, il Gruppo Migros è sulla buona rotta, anche se non ha ancora raggiunto il livello auspicato, ha dichiarato il presidente della Direzione generale. «Dobbiamo continuare a impegnarci e dare ancora maggiore importanza all’esperienza d’acquisto dei clienti, sia online, sia nei supermercati e mercati specializzati. Stiamo quindi migliorando la nostra efficienza. Continueremo a trasmettere i vantaggi ai nostri clienti in forma di prezzi competitivi e qualità elevata», ha spiegato Fabrice Zumbrunnen. Il Gruppo Migros continua nel contempo a investire nell’economia. Nel 2018 ha dedicato oltre 1,5 miliardi di franchi in nuove e moderne superfici commerciali e nel settore online. Con 26 filiali di nuova apertura (totale 727), lo scorso anno la Migros si è avvicinata ancora di più alla gente. La quota di mercato della cifra d’affari al dettaglio del Gruppo Migros è così salita dal 21,8 al 22,1%. Grazie all’incremento della cifra d’affari del 6,9% a 2,1 miliardi di fran-

Fabrice Zumbrunnen: «Dobbiamo continuare a impegnarci e offrire prezzi competitivi ai nostri clienti». (Keystone)

cerne la protezione del clima, il Gruppo Migros ha ridotto il suo consumo energetico (–2,4%) nonché le emissioni di gas serra (–2,8%). Dal 2018 la Migros compensa le emissioni di CO2 per tutti i trasporti di merce per via aerea e, con uno speciale fondo per la protezione del clima, sostiene progetti di tutela dell’ambiente nella propria catena di fornitura. L’azienda ha nuovamente effettuato un 3% in più di trasporti su rotaia ed è la principale utente di trasporti ferroviari in Svizzera e, grazie a misure quali l’ottimizzazione degli imballaggi, ha potuto risparmiare 270 tonnellate di plastica. Fabrice Zumbrunnen ha annunciato che nel corso di quest’anno la Migros intende raddoppiare la vendita sfusa di frutta e verdura bio. Il comparto salute della Migros continua a crescere. «Con offerte che vanno dalla prevenzione alle prestazioni ambulatoriali fino alla riabilitazione ci impegneremo con maggior forza a favore dei clienti», ha dichiarato ancora Fabrice Zumbrunnen. La crescita dell’offerta medica di Medbase e delle offerte di fitness dimostra come ci sia

Ursula Nold, eletta presidente

una grande esigenza di servizi e prodotti convenienti nel settore della salute. La vasta offerta medica e terapeutica di Medbase/santémed ha messo a segno una crescita della cifra d’affari del 7,9% a 150 milioni di franchi. Nel settore del fitness e del wellness, la Migros ha incrementato la propria offerta di nove centri per un totale di 130. Queste sane fondamenta costituiscono la base affinché la Migros possa continuare a investire in settori innovativi nonché, attraverso l’istituzione unica al mondo del Percento culturale, nel bene comune. Nel 2018 la Migros ha promosso, tramite il Percento culturale, progetti nei settori cultura, società, istruzione, tempo libero ed economia per 120 milioni di franchi. Il fondo di sostegno Engagement Migros ha inoltre sostenuto 60 progetti nei settori cultura, sostenibilità, economia e sport, per un totale di 16,5 milioni di franchi. «L’impegno sociale caratterizzerà anche in futuro l’unicità della Migros, nonostante i cambiamenti del mercato e le trasformazioni nella Migros», ha concluso Fabrice Zumbrunnen.

Alla 186.esima assemblea, svoltasi a Zurigo il 23 marzo 2019, i delegati delle 10 cooperative regionali hanno eletto Ursula Nold alla presidenza della Federazione delle cooperative Migros. Ursula Nold, 50 anni, è presidente dell’Assemblea dei delegati FCM dal 2008, è membro di diversi consigli d’amministrazione e fondazioni, e docente all’alta scuola pedagogica di Berna. A commento della sua elezione, Ursula Nold, che sostituirà il ticinese Andrea Broggini, ha dichiarato: «Dobbiamo diventare più rapidi, più agili e più efficienti, ossia dobbiamo collaborare di più assieme. E ci riusciremo solo se procederemo tutti insieme. Mi rallegro di affrontare questo compito assieme all’Amministrazione, alla Direzione generale e alle cooperative regionali». Ursula Nold ha ottenuto 73 voti, la sua concorrente Jeannine Pilloud 27 voti.

La neo-presidente Migros. (S. Novacki)

Monte Generoso Il Fiore di pietra sulla vetta riapre il 6 e 7 aprile

Dopo il grande successo della festa di chiusura del 5 e 6 gennaio scorso che ha visto la partecipazione di oltre 1.200 persone, il 6 e 7 aprile si riapre con un weekend multisensoriale per tutti. La stagione 2019 sarà ricca di eventi culturali, artistici, enogastronomici, musicali e sportivi, per tutti i gusti e per tutte le età. La giornata di sabato 6 aprile è affidata alla bacchetta del Mago Andrea. Grandi e piccini potranno divertirsi e vivere la magia tra giochi di prestigio, tiro a segno e uno stand di luna park con il tiro al bersaglio, il campo da calcetto gonfiabile e molto altro ancora. I bambini potranno entrare nelle bolle di sapone giganti, mangiare lo zucchero filato e, nelle mani di un’esperta truccatrice, trasformarsi in variopinte farfalle, fate turchine, pirati o supereroi. Domenica 7 aprile sarà tutta dedicata alla musica e all’arte ticinese. Oltre Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

Giochi e attività per tutti, in un finesettimana di divertimento. Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31

Tiratura 102’022 copie Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch

agli immancabili Corni dal Generus con la musica dei miti e delle leggende delle Alpi, verrà aperta al pubblico la mostra Nel Fiore e nella Pietra della giovane pittrice ticinese Serena Maisto. Una piccola ma preziosa collezione di sette opere, di cui alcune dipinte proprio in vetta, dinanzi allo spettacolo delle montagne e alla bellezza del Fiore di pietra. In occasione della giornata sarà previsto un biglietto speciale A/R Capolago-Vetta valido tutto il giorno: Adulti: 27.– CHF; Ragazzi 6-15 anni: 13.50 CHF; Bambini 0-5 anni: gratis. Il ristorante Self Service prevede inoltre gustose proposte a prezzo speciale. Il sito www.montegeneroso.ch, nella sezione «Offerte» contiene i dettagli di promozioni speciali per «Over 60», famiglie, Business lunch, Weekend di famiglia, speciale volo parapendio e viaggio gratis il giorno di compleanno. Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 1. aprile 2019 • N. 14

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Società e Territorio Tiratori del Gaggio Un giorno con i giovani tiratori nella sede della storica società, fondata nel 1898

Dalla Bibbia alla banconota Il Landesmuseum di Zurigo ospita una mostra che ripercorre i 500 anni di storia della tipografia Orell Füssli pagina 7

I centri extrascolastici In Ticino sono 28 e aiutano i genitori a conciliare l’orario lavorativo con quello scolastico, nel frattempo a livello svizzero si è creata la federazione Kibesuisse pagina 15

pagina 6 C’è chi non riesce a considerare la gestazione «il periodo più bello della vita». (Marka)

Un nuovo dibattito sulla maternità

Donne Gravidanza, parto e allattamento sono temi ancora difficili da affrontare in maniera critica. Qualcosa però

sta cambiando: dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna arrivano voci che iniziano a scardinare tabù radicati Stefania Prandi Gravidanza, parto, allattamento, e più in generale l’esperienza della maternità, sono temi ancora difficili da affrontare in maniera critica. Non è semplice trovare testimonianze pubbliche realistiche e sincere, che includano oltre alla gioia e alla soddisfazione, le fatiche, il malessere, i sentimenti ambivalenti che questi aspetti della vita possono comportare perché ci sono pregiudizi che impediscono alle donne di parlare liberamente e di essere ascoltate. Qualcosa però sta cambiando: dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna arrivano voci che trovano spazio su giornali, blog e libri e che scardinano tabù radicati; un vero e proprio filone di racconti che sembra solo all’inizio. Viene contestata, ad esempio, la rappresentazione della gravidanza, non per tutte idilliaca, a causa delle nausee che possono essere non solo mattutine e dei disturbi di stomaco (per alcune pesanti) che si protraggono anche oltre i canonici tre mesi. Un articolo sulla rivista americana «Bust» spiega che rispetto al vomito continuo mancano dati certi e non esistono cure efficaci perché fino ad ora non sono stati fatti molti studi. Se ne discute soltanto quando capita a perso-

naggi famosi: Amy Schumer, scrittrice e attrice, di recente ha postato su Instagram una sua foto con la flebo. «Sono più malata nel secondo trimestre rispetto al primo. Ho l’iperemesi e mi devasta», ha commentato. Marlena Fejzo, ricercatrice associata alla David Geffen School di Medicina dell’Università della California di Los Angeles (UCLA) sta studiando due geni che potrebbero essere la causa delle nausee e dei rigetti debilitanti. Non si tratterebbe, stando alle sue ricerche, di un problema legato agli ormoni, con l’unica soluzione di sopportare in silenzio perché non c’è rimedio, e soprattutto «non è tutto nella testa delle donne e basta». C’è chi non riesce a considerare la gestazione «il periodo più bello della vita», per usare uno slogan diffuso: come viene ripetuto dal «Washington Post» a «Quartz», si può essere assalite da scontentezza, più o meno intensa. Per l’American College of Obstetricians and Gynecologists (ACOG) e l’American Psychiatric Association (APA), tra 14 e il 23 per cento delle donne ha esperienza di sintomi di depressione durante la gravidanza e non tutte hanno una storia clinica alle spalle. Sul «Guardian» l’editorialista Suzanne Moore ha scritto di recente del fenomeno diffuso ma ancora sottaciu-

to della violenza ostetrica, termine che include abusi, mancanza di rispetto e altri eventi traumatici nelle sale parto, sostenendo che sarebbe ora di un movimento di denuncia internazionale sul modello del Metoo. Riportando la sua esperienza e quella di altre puerpere, fa anche riferimento alle difficoltà dell’allattamento al seno. «A Londra, in ospedale, sono stata sgridata perché la mia neonata piangeva. Dopo che tutto il giorno una volontaria della Lega del latte ha cercato di farmi attaccare al seno la piccola, alle due di notte un’infermiera stanca per il troppo lavoro mi ha urlato che ero incapace di produrre latte e che avrei dovuto ficcare nella bocca di mia figlia il biberon perché stavamo svegliando tutti». Nel libro Push Back, Guilt in the Age of Natural Parenting, Amy Tuteur, ostetrica e ginecologa con formazione ad Harvard e alla Boston University School of Medicine, che da una decina d’anni cura un blog con ampio seguito dedicato ai falsi miti della «naturalità», spiega che sull’allattamento al seno c’è una pressione sociale e medica, nonostante sia qualcosa che può rivelarsi faticoso. Lo dicono i dati (relativi agli Usa): inizia il 75 per cento delle donne in ospedale e va avanti meno del 38

per cento fino ai tre mesi e solo il 16 per cento in maniera esclusiva a sei mesi. Tuteur, che ha avuto quattro figli, tutti attaccati al seno, scrive: «Iniziare è spesso doloroso, frustrante e certe volte gravoso. E continuare è difficile e non sempre pratico, soprattutto per le madri che lavorano. Non è qualcosa di perfetto, esattamente come la gravidanza». Senza contare che ci sono donne che non producono abbastanza latte, e per questo vengono colpevolizzate. «Andrebbe considerato che rispetto all’allattamento ci sono delle mode» spiega ad “Azione” Patrizia Romito, professoressa di Psicologia sociale all’Università di Trieste, che ha insegnato in Svizzera, Francia, Québec e Stati Uniti e ha scritto diversi libri su violenza di genere, minori e maternità. «Negli anni Cinquanta e Sessanta veniva reso impossibile allattare al seno e si usava il biberon e il latte artificiale. Gli esperti cambiano idea periodicamente. L’allattamento al seno è sicuramente prezioso per la salute del bambino, ma viene spesso fatto passare il messaggio che deve essere per forza anche un piacere per le donne, mentre non è sempre così. Se si dicesse la verità, e cioè “signora faccia uno sforzo, almeno per qualche tempo, e tenga duro”, ci troveremmo di

fronte a un atteggiamento più onesto e costruttivo». Secondo Romito a pesare sull’esperienza della maternità ci sono ancora condizionamenti sociali e culturali che cercano di mascherare la realtà: nella pratica mettere al mondo un figlio è un passaggio che cambia la vita delle donne che si ritrovano in gran parte dei casi sole ad affrontare responsabilità che possono diventare insostenibili e magari a dovere sacrificare il lavoro e la carriera. A questo proposito Jessica Valenti, scrittrice bestseller e opinionista statunitense, sostiene che non sono i bambini a danneggiare la carriera delle donne, ma i compagni e i mariti che si sottraggono alle loro responsabilità. Infatti, il lead parent, il genitore guida, è considerato ancora da tutti la mamma. Natasha Pearlman sull’«Observer» si chiede perché ci sia tutta questa insistenza sull’idea di conciliazione femminile quando la parola chiave dovrebbe essere condivisione. Sempre più donne, secondo Pearlman, faticano a ricalcare il ruolo previsto e non sopportano il fatto che la società non preveda che i padri debbano bilanciare lavoro e cura dei figli: «Perché nessuno ha mai chiesto a mio marito: come riesci a gestire la grande pressione al lavoro con un bimbo piccolo?».


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 1. aprile 2019 • N. 14

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Idee e acquisti per la settimana

Che i golosi gioiscano

Novità Quest’anno la Jowa, oltre ai suoi classici e già apprezzati dolci pasquali San Antonio, vuole prendere

per la gola i buongustai anche con la nuova colomba artigianale

Pronti per la Pasqua? Dopo aver decorato la casa a tema, colorato le uova per la tradizionale caccia in giardino dei più piccoli e allestito i menu del brunch o del pranzo della domenica, è arrivato il momento di gustarsi una bella fetta di colomba, dolce tradizionale per eccellenza della ricorrenza e simbolo di pace e prosperità. Secondo una delle diverse leggende, si ritiene che il dolce sia nato ai tempi della battaglia di Legnano, nel 1176, quando i Milanesi sconfissero Federico Barbarossa. Un condottiero del carroccio, vedendo due colombi posarsi sul carro, fece preparare dei pani dolci a forma di colomba per incoraggiare le truppe. Una golosa tradizione

Grazie all’ottima qualità, le colombe della Jowa di S. Antonino sono diventate negli anni in tutta la Svizzera dei prodotti irrinunciabili per la tavola festiva, e non solo. Sono disponibili in differenti varianti, con o senza canditi, nei formati più disparati, dalla colombella da 120 grammi, passando per le varianti da 300 e 500 g, fino a quelle da 1 kg. L’ultima nata, che va a completare con originalità e delicatezza l’assortimento, è la colomba artigianale. Imballata in una confezione regalo con tanto di nastrino verde in bella vista, renderà ancora più piacevole l’attesa della Pasqua. Rispetto alla classica colomba con scorze d’arance candite, la colomba artigianale viene generosamente arricchita con albicocche sciroppate, pezzetti di noci e fichi secchi, ingredienti che le conferiscono un gusto del tutto particolare. Le materie prime utilizzate sono accuratamente selezionate affinché si possa ottenere un impasto di perfetta tenuta e stabi-

lità in fase di lavorazione e un ottimo sviluppo in fase di cottura. La classica glassa in superficie e le mandorle intere leggermente tostate, regalano un sapore più intenso e creano un interessante contrasto tra il croccante della copertura e l’interno morbido e aromatico della colomba. Infine, ricordiamo che tutte le colombe Jowa si caratterizzano per la lavorazione a partire da pregiato lievito madre. Tra preparazione dell’impasto, lievitazione e cottura in forno passano quasi due giorni prima che il prodotto possa partire da S. Antonino alla volta di tutti i supermercati Migros della Svizzera. Infine, segnaliamo che per Pasqua la Jowa propone anche altre dolci bontà, quali il cake nougat coniglietto, il coniglio di pasta alle nocciole e i colorati cupcake pasquali.

La colomba artigianale 500 g Fr. 17.50

Il guanciale di maiale

Novità Una specialità indispensabile in alcuni tipici piatti della cucina romana e altre sfiziose preparazioni

Impossibile resistere di fronte ad un saporito piatto di pasta all’amatriciana, alla carbonara o alla gricia. Forse non tutti sanno che uno degli ingredienti indispensabili per una ricetta rigorosamente fedele alla tradizione romana, è il guanciale. Ricavato, come lo dice il nome medesimo, dalla guancia del suino, visivamente si presenta a forma di triangolo con una o due venature trasversali di carne magra e una componente di grasso pregiato. Il taglio possiede una consistenza più dura rispetto alla classica pancetta ed è considerato più nobile rispetto ai classici pancetta o lardo. La lavorazione prevede che venga dapprima leggermente strofinato con sale e pepe nero, eventualmente anche peperoncino e aromi, per poi subire una stagionatura di almeno tre mesi prima di poter essere consumato. Oltre ad essere un must nelle ricette di primi citate prima, il guanciale è naturalmente una bontà anche da solo, per esempio tagliato a fettine sottili su crostini di pane caldo, focacce, per arricchire un tagliere di salumi misti, oppure accostato a verdure e addirittura ad alcune varietà di pesce. Altre gustose alternative per apprezzare l’aromatico taglio sono per esempio con pasta e fave, polenta con guancia-

le, tagliato a dadini in una zuppa di lenticchie, in una frittata con cipolle, guanciale e pomodoro oppure ancora è particolarmente apprezzato nella cucina italiana come ripieno per il pollo arrosto. Voglia di un appetitosissimo piatto di spaghetti alla carbonara? Per sei persone tagliare a dadini 250 g di guanciale e rosolarlo in padella in poco olio fino a quando comincia a dorarsi. In una ciotola sbattere tre uova intere, aggiungervi 50 g di pecorino romano grattugiato e pepe macinato di fresco. Cuocere al dente 600 g di spaghetti in acqua poco salata e scolarli. Trasferire la pasta nello stesso tegame usato per la cottura e aggiungere l’uovo sbattuto e il guanciale dorato. Cuocere brevemente il tutto a fuoco vivo, mescolando sempre in modo energico, alfine di far amalgamare bene gli ingredienti. Se la preparazione dovesse essere troppo asciutta, aggiungere un poco di acqua utilizzata per la cottura della pasta. Fare le porzioni e servire immediatamente e, a piacere, insaporire ancora con un poco di pecorino e pepe. Guanciale di maiale 100 g Fr. 3.80 In vendita a libero servizio nelle maggiori filiali Migros


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Idee e acquisti per la settimana

Soffice delizia

Attualità Il Pane Trentino TerraSuisse arricchisce di gusto e varietà la tavola primaverile

efficace e sostenibile

Il già apprezzato assortimento di prodotti ecocompatibili Winni’s di Migros Ticino si arricchisce di un nuovo prodotto realizzato con materie prime di origine vegetale provenienti da fonti rinnovabili e completamente biodegradabili: il detergente per pavimenti. Questo efficace prodotto pulisce, igienizza e profuma in modo efficace non solo i pavimenti, ma anche tutte le altre superfici lavabili della casa. Utilizzabile sia diluito in acqua che puro, la sua formula è studiata per ridurre al minimo le possibili allergie ed è Vegan OK, ossia non contiene sostanze di origine animale. Come tutti i prodotti Winni’s, è fabbricato utilizzando il 100% di energia autoprodotta e il flacone è completamente riciclabile. Infine, non contiene fosfati ed è nichel, cromo e cobalto tested.

Azione 20% Pane Trentino TerraSuisse 300 g Fr. 1.90 invece di 2.40 dal 2.4 all’8.4

Incontro con la scrittrice

Il sushi del mese

Una gioia per gli occhi e un piacere per il palato! Ad aprile i fan del sushi avranno la possibilità di gustare una creazione culinaria davvero speciale: l’Uzuki. Si tratta di una vaschetta di prelibato sushi composta da nigiri al salmone e gamberetti, hoso-maki ai cetrioli e chumaki al tonno e al salmone teriyaki. Naturalmente acclusi alla confezione

Novità Pulizia

Winni’s Pavimenti 1 l Fr. 3.50

Flavia Leuenberger Ceppi

Gli ottimi cereali indigeni TerraSuisse permettono ai competenti panettieri Jowa di panificare un prodotto particolarmente indicato per la primavera: il pane trentino. Si tratta di pane bianco che attira subito l’attenzione grazie alla forma allungata composta da due filoni attorcigliati a mano. Il suo aroma genuino e la mollica morbida si addicono bene per accompagnare – tra l’altro – croccanti insalate di stagione, taglieri misti di salumi e formaggi, oppure per preparare sandwich farciti in mille modi diversi per uno spuntino veloce ma appetitoso. Ma per ottenere un buon pane, servono innanzitutto delle farine derivate da cereali di prima qualità. Come di fatto lo sono i cereali svizzeri ottenuti secondo le norme del marchio TerraSuisse. I contadini che aderiscono a questo programma della Migros coltivano i loro prodotti nel rispetto della natura, secondo le severe direttive di IP-Suisse relative alla produzione integrata. La loro produzione si basa su un uso efficiente delle risorse, sulla tutela della biodiversità nelle colture, come pure sull’utilizzo di sostanze fitosanitarie solo in caso di reale necessità.

Nel rispetto dell’ambiente

non possono mancare i tradizionali accompagnamenti quali wasabi, salsa di soia e zenzero a lamelle. L’Uzuki è un’idea perfetta per una pausa pranzo leggera ma gustosa, così a casa, come in ufficio oppure al parco. Come tutti i sushi della Migros è prodotto in Svizzera nel rispetto della tradizione giapponese e delle più severe norme igieniche.

Sushi Uzuki 290 g Fr. 15.90

In vendita nelle maggiori filiali Migros

Sabato 6 aprile, dalle ore 10.00 alle 14.00 ca., presso la filiale Migros di Locarno (primo piano, reparto Melectronics), i visitatori avranno l’occasione di incontrare la scrittrice locarnese Chiara Pelossi Angelucci. Autrice di successo non solo in Ticino ma anche nella vicina Penisola, grazie ai suoi libri di qualche anno fa «Di Pancia, di cuore… da ridere» 1 e 2 , a Locarno presenterà la sua ultima fatica

letteraria, «Un’improbabile cacciatrice di indizi – lettere misteriose», libro pubblicato lo scorso mese di novembre. L’appassionante e divertentissimo racconto narra delle avventure di una ultra trentenne un po’ incasinata, improvvisatasi investigatrice. Il libro, ben scritto e coinvolgente, è uscito per l’editore mendrisiense Gabriele Capelli. L’autrice sarà a disposizione per autografi e foto.


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Società e Territorio

Apprendisti in armi

Reportage La società Tiratori del Gaggio di Cureglia è stata fondata nel 1898, abbiamo visitato la sede

durante una giornata dedicata ai corsi dei giovani tiratori

Didier Ruef, testo e foto Marco Castelli aveva 17 anni nel 1988, quando per la prima volta varcò la soglia del poligono della società Tiratori del Gaggio a Cureglia. Aveva ricevuto una lettera in cui gli si proponeva di seguire i corsi dei giovani tiratori (GT). Poco sportivo e senza tradizioni di famiglia nel tiro a segno, Marco decideva comunque di tentare l’esperienza, incoraggiato da un compagno di scuola. Così, dal 1989 al 1991 seguì i corsi GT II, III e IV. In seguito iniziò ad allenarsi assiduamente nel poligono di Cureglia e, nel frattempo, con i Tiratori del Gaggio ha sparato negli stand di mezza Svizzera. Marco si è totalmente infatuato di questo sport atipico. In effetti, il tiro a segno richiede disciplina, capacità di gestire un’arma in completa sicurezza, rispetto delle procedure, conoscenze di balistica e, quando si preme il grilletto, concentrazione e tranquillità assolute. Nel lontano 1988, il giovane non avrebbe mai immaginato che sparare sarebbe diventata la passione di una vita. E da allora ha fatto a sua volta alcuni proseliti, tra cui sua sorella Sonia, che non è solo diventata un’eccellente tiratrice, ma è anche impegnata attivamente nel club come monitrice. Marco Castelli è tutt’oggi un tiratore attivo, coinvolto nella gestione dei Tiratori del Gaggio, società fondata nel 1898 che porta con orgoglio e passione i sui 121 anni. Sin dalla sua fondazione è impegnata nelle attività di tiro, addestramento, organizzazione di competizioni e partecipazione ai tiri militari obbligatori. E da diversi anni è anche impegnata nell’organizzazione dei corsi annuali GT.

Il tiro richiede concentrazione, disciplina e conoscenze di balistica (una galleria fotografica è pubblicata su www.azione.ch).

Il corso GT è un’istruzione gratuita all’uso del fucile che vuole avvicinare i giovani al tiro sportivo Il Dipartimento federale della difesa, della protezione della popolazione e dello sport (DDPS) promuove questa disciplina prendendosi a carico ogni anno i corsi dei giovani tiratori. Questi, la cui organizzazione è delegata alle varie società di tiro locali, si tengono generalmente nella prima metà dell’anno e sono aperti ai giovani, maschi e femmine, tra i quindici e i vent’anni. Lo scorso febbraio i Tiratori del Gaggio hanno organizzato un corso GT al quale hanno partecipato due

Preparazione al tiro.

ragazze e quattro ragazzi. I partecipanti hanno imparato le regole teoriche e pratiche riguardanti la sicurezza e il funzionamento del fucile d’assalto Fass 90, sotto la guida di Paolo Grassi, direttore GT della società. Le sessioni di pratica si sono svolte durante tre

La nuova legge federale sulle armi Il prossimo 19 maggio, gli Svizzeri saranno chiamati a decidere se riprendere la direttiva europea sulle armi nel quadro degli accordi di Schengen. La nuova legge federale sulle armi che integra questa direttiva inasprisce le condizioni per detenere un’arma semiautomatica. Essa deriva dalle nuove misure antiterrorismo dell’UE che, specie dopo gli attentati di Parigi del novembre 2015, ha rafforzato la legislazione in materia. La Svizzera deve allinearsi entro maggio se vuole rimanere nel gruppo degli Stati Schengen. La modifica di legge prevede di vietare in Svizzera le armi da fuoco semiautomatiche «da braccio» dotate di caricatore con almeno dieci colpi. Per le armi «da pugno», il divieto si applica a partire dalle venti cartucce. Il fucile d’assalto non sarà classificato in que-

ste categorie di armi vietate nel caso in cui il milite vorrà tenerselo alla fine del servizio militare. Ma lo sarà se sarà trasmesso in eredità o venduto. I proprietari di un’arma da fuoco inclusa nell’elenco delle armi vietate dovranno semplicemente denunciarla ai servizi cantonali entro un termine di tre anni. L’acquisto di un’arma del genere e il suo uso a scopi sportivi restano consentiti, con riserva di un’autorizzazione straordinaria in mancanza di un permesso d’acquisto. Gli interessati, inoltre, dovranno provare – dopo cinque o dieci anni, a seconda del tipo di arma – che sono membri di una società di tiro o che praticano regolarmente questa disciplina. Per i cacciatori non cambierà niente ed esenzioni sono previste anche per i collezionisti e i musei.

Il corso GT insegna a gestire un’arma in completa sicurezza.

sabati, interrotte solo da una pausa pranzo. Queste giornate intense hanno permesso di portare a termine il programma obbligatorio: tiro d’introduzione 1-3, tiro di precisione, tiro principale, tiro di concorso per GT e tiro federale in campagna. L’esercito svizzero fornisce il fucile d’assalto Fass 90, mentre le relative munizioni calibro 5,6 mm, chiamate anche CP90, sono messe a disposizione gratuitamente durante i tre sabati di corso. In seguito, invece, gli apprendisti tiratori devono comprare le cartucce al poligono. I Fass 90 restano di proprietà dell’esercito e non escono dallo stand. Le uniche eccezioni contemplate ricadono sotto la responsabilità di Paolo Grassi, in occasione dei tiri cantonali o dei concorsi di tiro dei giovani. I Fass 90 sono immagazzinati in permanenza nella camera blindata del poligono di Cureglia. La culatta, invece, viene tolta e conservata in un altro luogo. Le munizioni, infine, vengono contate esattamente durante ogni sessione di sparo, per ogni singolo tiratore. È vietato formalmente portare fuori dallo stand delle munizioni, come pure dei bossoli esplosi. Questi ultimi vengono raccolti sistematicamente e quindi venduti per essere fusi. Il corso GT è un’istruzione premilitare gratuita all’uso del fucile d’as-

salto Fass 90 e costituisce una sorta di preparazione al tiro e alla scuola reclute. Ha anche lo scopo di risvegliare la passione per il tiro sportivo, uno svago che favorisce lo spirito cameratesco e di competizione. Oltre al programma di tiro, i monitori GT organizzano attività durante tutto l’anno allo scopo di favorire l’integrazione dei giovani nelle società di tiro. Ad esempio, il 18 maggio i Tiratori del Gaggio parteciperanno con il gruppo GT alla Giornata cantonale di tiro presso il poligono del Monte Ceneri e il 28, 29 e 30 giugno alla Festa federale di tiro dei giovani a Frauenfeld (TG). Giulia ha quindici anni. Il suo stile di abbigliamento è ispirato ai video della cultura hiphop americana. A giugno finirà la scuola dell’obbligo ed è interessata alla medicina. Perciò si iscriverà a una scuola professionale di Bellinzona che la condurrà alla maturità professionale. Oltre ad andare a scuola suona l’arpa, ma le piacerebbe passare alla chitarra elettrica, giusto per poter cambiare repertorio. Suo padre ha praticato il tiro con la pistola dopo il servizio militare, ma non ne ha mai parlato a casa, perché la moglie è refrattaria alle armi. Giulia, però, si è sempre interessata al tiro a segno e quando ha ricevuto la famosa lettera del corso GT, inviata a tutti i giovani

svizzeri, ha deciso di iscriversi. Coscienziosa e applicata, apprezza l’intensità e la concentrazione richieste da questa disciplina e ammette di aver percepito un’immensa scarica di adrenalina in occasione del primo sparo. Anche Tommaso ha quindici anni, ma sembra più giovane. È un patito dei robot e in autunno intende proseguire gli studi di robotica e informatica al Centro Professionale di Trevano. Da anni, durante il tempo libero, è attivo come scout ed è già stato capo gruppo. È stato subito attratto dall’aspetto sportivo del tiro a segno, lontano dagli sport tradizionali come il calcio o la pallacanestro. È affascinato dalla meccanica del Fass 90, dal suo funzionamento, dall’intensità del momento, dall’emozione percepita al suo contatto e dalla potenza che si sprigiona, tutti fattori che lo invogliano a continuare questa nuova attività sportiva. In questa stagione le giornate sono ancora corte e si smette di sparare al crepuscolo. I giovani tiratori puliscono accuratamente le loro armi per garantirsi un buon funzionamento durante le prossime sessioni. Alla fine tornano a casa con la mente zeppa di emozioni e nuove sensazioni, ma nel contempo hanno preso coscienza della gestione di un’arma da fuoco e dei pericoli potenziali ad essa connessi.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 1. aprile 2019 • N. 14

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Società e Territorio

500 anni nella nostra quotidianità Mostre La storia della tipografia Orell Füssli al Landesmuseum di Zurigo

Luciana Caglio È in circolazione, dal 13 marzo, il nuovo biglietto da 1000 franchi, «il viola», com’è chiamato popolarmente. Rispettando la tradizione, di serie in serie, e siamo alla nona, il colore dei singoli tagli rimane invariato. E così, la nostra più alta banconota è sempre contrassegnata dal viola, mentre sono cambiati il formato, più maneggevole, il materiale, dotato di sofisticati dispositivi anticontraffazioni, e, naturalmente, l’aspetto grafico con immagini che ben riflettono lo Zeitgeist, nell’estetica e nei contenuti, ispirati a comunicazione e cultura e affiancati alla politica: su una facciata compare il simbolo delle mani e del globo, sull’altra l’emiciclo del parlamento. Ora, a questa banconota elvetica è spettata una particolare attenzione, nei media internazionali. Sia, innanzitutto, per l’entità monetaria, che rappresenta un primato sul piano mondiale, Brunei a parte, dove circola un biglietto da 10’000 dollari locali. Sia per il valore aggiunto di una moneta che testimonia stabilità: malgrado inevitabili svalutazioni, questo 1000 franchi rimane una cifra di tutto rispetto. Sia, non da ultimo, per le prerogative materiali ed estetiche di una banconota, prodotto accurato, resistente al logorio, che testimonia il culto del lavoro ben fatto. Una prova di gran mestiere che porta la firma Orell Füssli. Nel 1914, infatti, la Banca Nazionale, incaricata dal Consiglio federale di emettere le banconote elvetiche, affidò il compito all’impresa

zurighese, che aveva alle spalle un’esperienza in ambito tipografico, addirittura secolare. Proprio quest’anno, cade il 500.mo della sua nascita, strettamente legata alla nomina di Zwingli al Grossmünster. La concomitanza doveva rivelarsi decisiva. Siamo nel 1519 e, due anni dopo, il riformatore zurighese, che aveva tradotto in tedesco la Bibbia, assegna la stampa della storica primizia alla tipografia, avviata nel 1514 dal bavarese Christopher Froschauer, l’unico a esercitare questo mestiere a Zurigo, di cui otterrà la cittadinanza. E dove farà fortuna, come stampatore, e in pari tempo editore e libraio, secondo una regola allora vigente in Europa. In un’epoca in cui la maggioranza della popolazione era analfabeta, quest’attività si rivolgeva, per forza di cose, alle élite, e concerneva trattati di scienze naturali e opere teologiche. Ma la Bibbia in tedesco di Zwingli e la riforma ecclesiale aprirono una nuova stagione editoriale all’insegna della divulgazione: una fioritura di pubblicazioni che contribuì all’incessante sviluppo della tipografia Froschauer. L’azienda, passata successivamente in altre mani, venne rilevata nel 1798 dagli Orell Füssli, dal nome di un insigne antenato, lo storico dell’arte e politico Hans Conrad von Orelli. Due anni dopo, fiore all’occhiello, pubblicava il primo quotidiano della città, «News Unpartheyssche Zeitung», la futura «NZZ». E, con ciò, confermava uno spirito imprenditoriale in grado di muoversi con i tempi.

In Svizzera, come in Germania, la scolarizzazione stava creando una nuova categoria di lettori, e quindi un mercato librario allargato. Occorreva offrire pubblicazioni più accessibili, legate all’informazione locale, ai fermenti politici del liberalismo, allo svago. A sua volta, la lettura crea nuove forme di socialità: la Orell Füssli apre biblioteche e club, in cui incontrarsi e discutere, in particolare su temi emergenti. A partire dalla fine del XVIII secolo, le scoperte geografiche e archeologiche ampliano gli orizzonti incrementando la curiosità per paesi e civiltà lontane. Si è alla vigilia dell’era turistica che, per Orell Füssli diventerà un’inesauribile fonte di specializzazioni. Da qui le prime cartoline illustrate e, in seguito, le carte geografiche e topografiche, gli atlanti, i mappamondo destinati alle scuole, all’esercito, agli escursionisti. Il bisogno di conoscere e di confrontarsi si accentua in concomitanza con la nascita, nella seconda metà dell’800, delle nazioni e delle democrazie moderne. I cittadini sono chiamati a diventare un’opinione pubblica sempre più acculturata. Il libro, in tutte le sue varianti, rappresenta uno strumento determinante, a disposizione di ogni categoria di lettori. Bambini compresi, ai quali l’Orell Füssli dedica un filone, ispirato al gioco educativo. Nel XX secolo, mentre il turismo assume connotati planetari, si assiste, per contro, al risveglio d’interesse per la realtà storica e culturale di casa propria. Ecco che, fra altri, Orell Füssli pubblica, per conto della Società di sto-

Una sala dell’esposizione. (Schweizerisches Nationalmuseum)

ria dell’arte, i sei volumi dell’Inventario svizzero di architettura, preziosa opera di consultazione. D’altro canto, non si trascurano la narrativa e i bestseller. Il mercato librario, sfidando la concorrenza dei media elettronici, continua a estendersi. Dai 700 volumi, nel 1564, oggi quest’impresa editoriale propone 80’000 titoli, venduti in Svizzera e in Germania, nelle librerie e online. In pari tempo, l’impresa zurighese prosegue l’attività nell’ambito delle carte valore e di sicurezza. Oltre ai nostri franchi, stampa banconote per l’Ungheria, la Turchia e l’Afghanistan. E, già agli inizi dell’800 ha fatto da bat-

tistrada producendo titoli bancari per la cassa di risparmio di Uznach. Un settore, quello dei documenti e della sicurezza, entrato nel novero delle necessità attuali. Dal 1959, stampa i passaporti svizzeri e si specializza nelle carte di credito e tesserini vari. In altre parole, oggetti che abbiamo tutti fra le mani. Dietro ai quali c’è una lunga storia. La racconta, con scrupolo scientifico e abilità scenografica, la mostra, in corso al Landesmuseum di Zurigo fino al 22 aprile che s’intitola, simbolicamente, «Dalla Bibbia alla banconota»: cioè due aspetti, diversi e indispensabili, nella nostra quotidianità. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 1. aprile 2019 • N. 14

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Foto: Stefan Kluempen, Gerald Schilling Fotodesign, zVg

Dal 6 aprile l’Europa-Park è pronto ad accogliere i visitatori con tante nuove attrazioni.

Il Colpo di fortuna

Il concorso La domanda vincente: Come si chiama il nuovo albergo a tema dell’Europa-Park? Come partecipare? · Per telefono: chiama il numero 0901 560 019 (1 fr./chiamata su rete fissa) e comunica la tua risposta, assieme a nome e indirizzo. · SMS: invia un SMS al numero 920 (1 fr./SMS) con la parola VINCERE, la risposta, nome e indirizzo. Per esempio: VINCERE, la risposta, Maria Rossi, Via Maestra 1, 9999 Località · Cartolina postale: invia una cartolina (posta A) con la risposta, nome e indirizzo a «Azione», «Europa-Park», Casella postale, 8099 Zurigo

Novità all’Europa-Park

«Azione» e Famigros estraggono a sorte 6 soggiorni per 4 persone all’Europa-Park del valore di 850 franchi ciascuno, con pernottamento ed entrata al parco per 2 giorni. In palio ci sono anche 100 entrate singole del valore di 60 franchi ciascuna Nel cuore della «triplice frontiera», tra Svizzera, Germania e Francia, l’Europa-Park accende l’entusiasmo di grandi e piccini con ol-

tre 100 attrazioni e spettacoli. Su una superficie di 95 ettari, 15 aree tematiche con l’architettura, la gastronomia e la vegetazione tipiche di vari paesi, invitano a un percorso di scoperta unico nel suo genere.

Durante la stagione 2019 i visitatori potranno divertirsi con molte novità: nel «Traumzeit-

Dome» (il duomo dei sogni) va in scena il film d’avventura «Mission Astronaut», uno sguardo spettacolare a 360° nello Spazio cosmico. Nel corso della stagione sarà inaugurato il nuovo quartiere scandinavo con offerte gastronomiche e proposte per lo shopping. La «Stanza del

tesoro» sul Viale Tedesco offre un primo assaggio del percorso tematico «Pirati della Batavia», che sarà completato nel 2020. Già da questa estate, l’«Europa-Park JUNIOR CLUB Studio» nel quartiere olandese garantisce ai più piccoli tanta azione e divertimento. Negli hotel a tema del parco o nel Camp Resort, gli ospiti potranno ritemprare le forze in vista di nuove spedizioni. Il 31 maggio sarà inaugurato il nuovo EuropaPark Hotel «Krønasår». Questo sesto albergo tematico si ispira a un elegante museo di storia naturale. Orari d’apertura: dal 6 aprile al 3 novembre ogni giorno dalle 9 alle 18 (orario prolungato in alta stagione). Infoline: 0848 37 37 37; www.europapark.de/it

· Online: www.migrosmagazine. ch/concours (in francese) Termine d’invio: 7 aprile 2019 I vincitori saranno informati per iscritto. I premi non saranno corrisposti in denaro. Si esclude il ricorso alle vie legali. Non si tiene alcuna corrispondenza inerente al sorteggio. I collaboratori della Federazione delle cooperative Migros non possono partecipare al concorso. Eventuali partecipazioni multiple non sono consentite e saranno invalidate. I premi non riscossi dai vincitori entro tre mesi dall’estrazione scadono senza possibilità di sostituzione.


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Società e Territorio

L’accoglienza extrascolastica in Ticino Famiglie Negli ultimi anni sono aumentati i centri dove i bambini delle scuole dell’infanzia e elementari

possono giocare e apprendere quando i genitori sono al lavoro. E a livello svizzero si è creata la federazione Kibesuisse

Sara Rossi Guidicelli Un angolo dell’edificio delle Scuole Comunali di Agno è aperto, nonostante sia martedì grasso. Sono le vacanze di Carnevale e vado a trovare un gruppo di bambini che hanno appena finito di costruire una meravigliosa nave pirata. Non solo non chiude durante le pause scolastiche, ma apre anche prima dell’inizio delle lezioni, resta aperto quando finiscono e anche il mercoledì pomeriggio. Si chiama Centro extrascolastico «sfera Kids», i bambini della scuola dell’infanzia e di quella elementare vi convivono, come in una casa, e serve per aiutare le famiglie a conciliare i propri orari di lavoro con quelli della Scuola. Se qualcuno storce il naso, spieghiamogli subito: non è un parcheggio, non sono bambini abbandonati, non ci sono i sorveglianti, ma personale qualificato che differenzia le attività a seconda dell’età, dei bisogni, del momento del giorno o dell’anno; togliamoci dalla mente i collegi dove i genitori mandavano i bambini perché erano troppi in casa o perché dovevano imparare la disciplina. Non pensiamo a luoghi di puro studio ma nemmeno di puro gioco libero. È anche più evoluto che trent’anni fa, quando i bambini come me andavano al doposcuola e in colonia, perché le nostre mamme lavoravano e perché così sciavamo, stavamo nel bosco e scoprivamo il Ticino con altri bambini. Da allora questi complementi alla famiglia si sono ampliati e raffinati, stanno sotto il cappello di «centri extrascolastici», e in Ticino ce ne sono 28. Per avere questo nome ed essere sussidiati dal Cantone devono offrire un’apertura almeno di 220 giorni l’anno e stare a disposizione di chi ne ha bisogno dalle 7 del mattino alle 7 di sera. Nessuno ne usufruisce a tempo pieno, ma moltissime famiglie ne beneficiano in certe fasce orarie e per alcune settimane durante l’anno (3137 bambini nel 2018, in costante aumento rispetto agli anni passati). Sono in generale ubicati all’interno delle sezioni scolastiche o nelle loro vicinanze. Se un centro serve più comuni, in generale organizza anche il trasporto dei bambini dalla scuola al centro e viceversa. A fianco di questi centri ci sono le famiglie diurne (200 famiglie per 1400 bambini circa), gli asili nido (3500 bambini), altri tipi di offerta come colonie e campi di vacanza diurni o residenziali. Molti Comuni si sono dotati di strutture o gruppi di genitori si sono attivati per chiedere al proprio territorio di aprire un centro extrascolastico o di offrire una parte degli aiuti complementari alla famiglia di cui avevano bisogno. Da cinque anni esiste in Svizzera una federazione che include tutte le strutture di accoglienza per l’infanzia, come asili nido, centri extrascolastici, famiglie diurne. Si chiama Kibesuisse e suddivide il paese in sette regioni (l’ultima è il Ticino, in cui Kibesuisse è presente da solo due anni); nelle altre sei, ogni offerta per l’infanzia extrascolastica e parascolastica complementare alla famiglia è inserita nel contesto di questa federazione. «Il nostro scopo è che in ogni quartiere urbano e in ogni piccolo paese della Svizzera, ogni famiglia abbia la possibilità di lasciare i suoi bambini in mani sicure quando i genitori lavorano», spiega Serena Giudicetti, responsabile di Kibesuisse nella Svizzera italiana. «I vantaggi sono molteplici. Noi fungiamo da centro di competenza e consulenza, offriamo formazione continua, diamo marchi di qualità, mettiamo in rete, promuoviamo lo sviluppo della qualità di ogni offerta. Effettuiamo inoltre un lavoro di sensibilizzazione e sostegno degli

In Ticino ci sono 28 centri extrascolastici e il loro numero è in crescita. (Keystone)

enti pubblici, affinché le famiglie siano sgravate e non debbano pagare rette troppo elevate. Siamo un partner a livello nazionale per il mondo politico ed economico e lavoriamo per potenziare, laddove c’è bisogno, le strutture di accoglienza per l’infanzia». Kibesuisse è infatti il cappello delle strutture di accoglienza extrascolastica e parascolastica complementare alla famiglia. Il suo potenziamento nel nostro Cantone ci dà l’occasione di fare il punto della situazione riguardo l’offerta extrascolastica sul nostro territorio. Il centro che visito martedì grasso ad Agno è gestito da Agape, uno degli enti gestori di attività extrascolastici sul territorio. La direttrice Susy Poletti, che mi accompagna, mi spiega che Agape gestisce anche centri a Gravesano, a Sorengo e a Comano mentre altri progetti sono in fase di sviluppo; inoltre l’associazione gestisce sette mense scolastiche e si occupa di ulteriori aspetti legati ai bisogni delle famiglie, come l’ascolto, il diritto di visita sorvegliato e così via. Per tornare a chi si occupa di infanzia e conciliazione lavoro-famiglia in Ticino, oltre ad Agape c’è la Federazione ticinese Famiglie Diurne, l’Atan (Associazione Ticino Asili Nido) e Tipì, piattaforma territoriale a cui partecipano regolarmente tutti i partner istituzionali, le associazioni e gli enti formativi attivi nel settore dell’infanzia, nata da un quadro di orientamento e formazione promosso da Supsi con il sostegno dell’Unesco. A queste si aggiunge il Forum della genitorialità, un progetto che raggruppa enti e associazioni della Svizzera italiana che offrono un sostegno mirato alle esigenze delle famiglie e Kibesuisse, che abbiamo già presentato. E naturalmente l’Ufag, l’Ufficio cantonale del sostegno a enti e attività per le famiglie e i giovani. Non sono tanti interlocutori per il nostro cantone? Anche solo a livello di quante riunioni debba fare un operatore responsabile del suo settore in questo ambito, che deve partecipare agli incontri e le messe in rete di quattro o cinque associazioni mantello o di coordinamento? Non la pensa così Marco Galli, capoufficio dell’Ufag: «Tutte queste piattaforme sono molto importanti, perché consentono di migliorare ognuna il coordinamento dei rispettivi settori. Attraverso queste associazioni mantello si svolgono importanti progetti di formazione rivolti al personale ai quali diamo grande importanza». A questo proposito alla Supsi è nato da poco un corso di formazione apposito per i responsabili pedagogici e organizzativi dei centri extrascolastici; il corso è scaturito da una collaborazione dell’Ufag (Dss) con la Sezione Scuole comunali (Decs) e ha il fine di individuare le migliori pratiche di lavoro per

dare continuità al bambino che si confronta con più contesti (luoghi, persone, regole...). Un’altra questione che riguarda i centri extrascolastici è la loro ubicazione: se nel Mendrisiotto e nel Luganese l’offerta è capillare e soddisfa gran parte del fabbisogno delle famiglie sul territorio del Sottoceneri, il Sopraceneri soffre, in particolare nelle valli dell’Alto Ticino. «Il numero dei centri extrascolastici da anni è in costante crescita ed è destinato ad aumentare ancora dappertutto», spiega ancora

Marco Galli. «Il bisogno di posti reali è solo parzialmente soddisfatto. La proiezione fa emergere la necessità di ulteriori centri per il futuro in particolare coinvolgendo i Comuni. Nelle zone più discoste dalle città lavorano maggiormente le famiglie diurne, che possono occuparsi anche di numeri più piccoli e le mense scolastiche. Ma il settore, come detto è in fase di espansione ovunque». Un altro dato interessante, fa notare Galli, è che da ottobre dell’anno scorso ci sono degli aiuti soggettivi in più per chi affida il

figlio durante l’esercizio di un’attività lucrativa o durante l’assolvimento di una formazione o per scopi di carattere sociale per almeno 16 ore al mese. Tutte queste famiglie ricevono fino a 200 franchi del cosiddetto «aiuto universale» al momento di pagare la retta alla struttura a cui fanno capo, e quelle che beneficiano anche dell’aiuto Ripam (riduzione dei premi di cassa malati) avranno uno sconto ulteriore del 33%. Un terzo aiuto riguarda chi riceve un assegno di prima infanzia e corrisponde al totale della retta (esclusi i pasti, i costi di trasporto e così via) fino a 800 franchi mensili. È l’ora di pranzo. Le educatrici invitano me e Susy Poletti a mangiare con loro. C’è l’insalata mista, gli gnocchi alla romana e carne secca. È tutto buono e l’ambiente è calmo, sereno. Mi rendo conto che niente qui è lasciato al caso. Il gruppo è già omogeneo al secondo giorno, conosce le regole e i momenti della giornata. C’è l’angolo tranquillo per i più piccoli che andranno a riposare dopo pranzo e ci sono gli spazi ben attrezzati per le varie attività: manuali, di gioco simbolico, di movimento, e così via. Tutto è rivolto a mettere il bambino al centro dei centri, come ha scritto una delegazione di Cemea Ticino nel 2012 in un documento valido ancora oggi sulle pratiche dei centri extrascolastici, che sono luoghi di educazione, gioco e apprendimento, come è giusto che sia piena la vita di tutti i bambini. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 1. aprile 2019 • N. 14

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 1. aprile 2019 • N. 14

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Società e Territorio Rubriche

Lo specchio dei tempi di Franco Zambelloni Che tempo farà? Lo scorso venerdì 15 marzo più di 4000 studenti hanno disertato la scuola per andare a Bellinzona a manifestare in difesa del clima. Ovviamente viene naturale pensare che la manifestazione avrebbe anche potuto svolgersi di domenica, ma in tal caso avrebbe forse contato meno adesioni. Comunque, nella forma dello «sciopero», l’iniziativa – oltre ad essere più attrattiva per molti giovani – ha probabilmente avuto un maggiore impatto sull’opinione pubblica. Se poi si considera che si è trattato di una «giornata mondiale» in difesa dell’ambiente (centinaia di migliaia di giovani si sono mobilitati dalla Russia all’America, dall’Europa all’Asia), si può magari sperare che qualcosa possa cambiare, non solo nel clima, ma nella mentalità della gente e nelle iniziative dei politici. Ma è difficile essere ottimisti al riguardo, considerando le non poche delusioni precedenti. Il fallimento

del «Vertice mondiale sul clima» di Copenaghen, del dicembre 2009, è dovuto principalmente al fatto che molti politici – Obama in primo luogo – non presero vere iniziative, ma elargirono solo qualche frase di circostanza. Il «protocollo di Kyoto» risale al 1997 e fu sottoscritto da più di 180 nazioni, con lo scopo di ridurre le emissioni ritenute responsabili dell’effetto serra. Ma si sa, aderire alle iniziative e manifestare buone intenzioni è relativamente facile; molto più difficile è metterle in atto. Quando, nel 2012, il Protocollo di Kyoto cessò di valere, risultò chiaro che l’obiettivo di far nascere una politica climatica vincolante era stato mancato. Peraltro, almeno a parole resta condiviso l’Accordo di Copenaghen, che ha ratificato l’intenzione di contenere il riscaldamento della Terra a non più di due gradi Celsius rispetto ai livelli precedenti all’industrializzazione. Ad aumentare i dubbi e le perplessità

c’è però anche il fatto che non abbiamo certezze circa i fattori che determinano il riscaldamento globale. Il clima non è mai stato stabile. Più di 10’000 anni fa ebbe termine l’ultima Era glaciale, e dobbiamo a quel riscaldamento climatico l’inizio della civiltà: cominciarono le coltivazioni, ne derivò l’urbanizzazione ed ebbe così inizio la nostra storia. Poi ancora, dal 1000 al 1300 circa si ebbe un nuovo innalzamento della temperatura, che successivamente ridiscese soprattutto tra il XVII e il XVIII secolo, per poi tornare ad innalzarsi. In un libro dal titolo Storia culturale del clima, Wolfgang Behringer ha indagato gli effetti di questi cambiamenti climatici e le ripercussioni che hanno avuto sulla storia e sulle civiltà; ma ha anche indicato numerose «bufale» e provate inesattezze di studi recenti sul clima. Che cosa ha determinato quei capricciosi sbalzi di temperatura del passato? In realtà si possono solo fare

ipotesi, così che anche per il surriscaldamento attuale non possiamo avere la certezza che l’unico fattore determinante sia l’emissione di gas serra. In ogni caso, trovo positivo che la gioventù si mobiliti a salvaguardia dell’ambiente e a tutela del futuro. Non so che impatto possa avere la loro manifestazione di protesta: nei Paesi democratici, qualche peso forse lo avrà; dopotutto questi giovani sono l’elettorato di domani e il politico deve pure annaffiare il suo orto. Ma quello del clima è un problema mondiale e servirebbero, per affrontarlo decisamente, accordi internazionali e una volontà politica comune: cose che al momento non ci sono. Ciononostante, la protesta giovanile mi sembra utile, per lo meno ai giovani. Perché? Perché in un’epoca come questa, dove si vive alla giornata, consumando il tempo nel divertimento e nella noia, imparare a

pensare al futuro è importante. E poi la gioventù ha bisogno di ideali, di cause per le quali combattere: i giovani s’infiammano più facilmente per una causa e s’entusiasmano per un sogno. La storia lo prova: Saint-Just e Robespierre erano quasi adolescenti quando assunsero la guida della prima grande rivoluzione dei tempi moderni; dopo di allora furono ancora le giovani generazioni all’avanguardia dei movimenti rivoluzionari, nelle rivolte francesi del 1830, 1848, 1871, nell’ottobre polacco e nella rivolta ungherese del 1956, nel ’68 di Daniel Cohn-Bendit e Rudi Dutschke. Poi i tempi sono cambiati, è cambiata anche la gioventù: forse perché, quando hai già tutto, non c’è più niente per cui combattere, niente da conquistare. Ora è possibile che il rischio ecologico possa far nascere nuovi ideali: non per un mondo migliore, ma semplicemente per un mondo da salvare.

finire di dipingere come si deve quelle montagne, e la cioccolata da Hanselmann – non trovo neanche così male, anzi. Meno gente dell’altra volta, vado a colpo sicuro: un tavolino libero alla finestra, rosa rossa in boccio nel vaso di cristallo. Tovaglia bianca da ristorante vero di una volta, sedie di legno e pelle martellata color lampone che fodera anche i divanetti, quercia palustre dappertutto alle pareti e pure per rivestire le due colonne che ritmano la grande sala da tè. E vista terapeutica sul lago ancora ghiacciato e spolverato di neve verso la fine di marzo, il bosco misto di cembri e larici che sale su verso la montagna innevata. Immancabile la cioccolata calda servita nel bicchiere di vetro contenuto nel portabicchieri d’argento. Tre tavoli più in là, mamma e figlia idem con panna. La sua fama precede di molto quella contenuta nel bel titolo del bestseller insipido di Rosetta Loy, anche se di sicuro Cioccolata da Hanselmann (1995) l’ha amplificata. Per le torte si va da soli nella parte pasticceria all’entrata e si torna al

tavolo con la propria preda nel piattino. L’ultima volta ho preso la sacher ma non è un granché, niente a che vedere con quella dell’Hotel Sacher o del Café Demel a Vienna o da Cucchi a Milano. Il mio vicino di tavolo ha fatto fatica come me a picconare con la forchettina la glassa impossibile. In realtà, al di là delle torte in sé, si dovrebbe sorseggiare la cioccolata calda in purezza, senza interferenze. La cameriera, con una coppia chiacchierona di Monza, si vanta di essere «la regina della pesteda». Specialità di Grosio, in Valtellina, a base di sale, pepe, aglio, timo serpillo, achillea nana, spacciata un tempo a tutto spiano ai clienti dell’Hanselmann finché non l’hanno richiamata all’ordine. Ora ne regala ogni tanto, sottobanco, un vasetto; dice che ha anche provato, ovviamente invano, a farla mettere in qualche cioccolatino. Finita la cioccolata calda, cedo alla fetta di torta. Alle fragole, onesta ma niente di speciale. Non c’è niente da fare, le torte non sono all’altezza dei cioccolatini che valgono invece la pena. Nel tragitto

per andare a prendere una fetta di torta, perlomeno, si passa via dall’angolo dove ci sono incorniciati i due ritratti a olio dei fondatori. Fritz e la moglie Theresia, emigrati entrambi dal sud della Germania: Crailsheim e Langenargen. Per fare prima il panettiere al Kulm Hotel e la cameriera in una famiglia di Coira. Oggi, questa pasticceria-confiserie e caffè storico in stile viennese, soggetto di un reportage del «New York Times» nel febbraio 1986 dove come cavallo di battaglia si identificavano anche – solita nusstorte a parte – i praliné, è alla quarta generazione. Oltre al sorriso sotto i baffi di Fritz Hanselmann ne rimane il monogramma, sul bordo dorato del piattino, con in mezzo il logo tratto dalla fontana di San Maurizio qui vicino, nella piazza. Da lì la prospettiva inquadra anche la facciata laterale sempre decorata tutta a sgraffito con tanto di bovindo e stambecco scolpito. Un corgi gallese in grembo a una moglie dimenticata lì dal marito pokerista, assaggia entusiasta la panna della cioccolata.

aiutarci a gestire meglio questa complessità digitale a due livelli: un primo deterministico e chiuso nel quale delle reti neurali artificiali risolvono problemi operazionali sulla base di algoritmi e di un apprendimento automatico in situazioni e condizioni predicibili; un secondo livello che lavora con sistemi complessi adattivi che operano in condizioni non predicibili e incerte. In questo ambito un sistema di multi agenti software, attraverso un metodo di apprendimento di tipo ontologico, si evolve e si adatta alle diverse situazioni riprogrammandosi a seconda delle esigenze e del contesto. Se ad esempio chiediamo ad un IA del primo tipo: dove è George? Per rispondere passerà al setaccio tutti i nomi contenuti nel suo database andando per esclusione finché incontra George. Nel secondo, chiederà ai suoi agenti: sapete se qui c’è un George? Prepariamoci, il XXI secolo sarà sem-

pre più tecnologico, connesso (oggi il 55% della popolazione mondiale è connesso e il numero dei cellulari per persona supera quello degli spazzolini), complesso e, soprattutto, incerto. Dovremo essere in grado di evolvere, adattarci e riprogrammarci velocemente. Una delle parole chiave di George Rzevski è coevolvere in un ambiente sociale, professionale e digitale nel quale l’IA è al servizio dell’uomo e nel quale non ci sarà un posto per tutti in egual misura. Non spaventatevi, già Ilya Prigogine, padre della teoria della complessità, nel secolo scorso disse «Il futuro non è predeterminato». Grazie al professore russo per avermi contagiato con la sua sete di conoscenza e voglia di vivere e all’Executive Forum – per chi è interessato ce ne saranno altri – organizzato al LAC da JuPantaRhei (www.jupantarhei.com) per aver ampliato i miei orizzonti in un campo cruciale nel prossimo futuro.

A due passi di Oliver Scharpf Hanselmann a St. Moritz Preda dell’Engadina da mesi, ossessionato per anni dalla ricerca del tearoom ideale, a caccia della cioccolata calda perfetta da una vita, inevitabile raccontarvi oggi qualcosa di Hanselmann. Dal 1894 in via Maistra otto, è un’istituzione di rinomanza mondiale la cui facciata fiabesca cattura già da una certa distanza. Color vinaccia, è decorata tutta a sgraffito. Tranne l’affresco al centro, sopra il portale neorinascimentale a tutto sesto, con quattro figure in stile hodleriano legate al ciclo stagionale del grano. Predomina il motivo circolare, ipnotizzante quando i cerchi s’intersecano tra loro in un movimento geometrico continuo, mentre scorrono sequenze di più piccoli rosoni misti e rosette varie. Databile al 1913, dicono sia opera di Emil Weber (1872-1956). Leza Dosch, storico dell’arte autore di Arte e paesaggio nei Grigioni (2001), attribuisce però tutto a Ernst Thommen (1891-1976). Artista morto ad Ascona e nato a Giebenach, Basilea Campagna, del quale, l’altro giorno, per caso, ho

visto un Paracelsus gigante affrescato dietro l’angolo della farmacia in piazza a Samedan. E comparando le pieghe dei pantaloni del Paracelso, spada in una mano e arnica montana nell’altra, con queste due coppie di contadini, sono molto simili. Comunque, non va preso sottogamba, il ruolo, nell’effetto d’insieme, dell’insegna in stampatello a foglie d’oro su vetro laccato nero: Conditorei Hanselmann. Partecipa anche molto al colpo d’occhio, la parte subito sotto che sormonta le vetrine ed è forse il dettaglio che preferisco: tendaggi cesellati nel legno chiaro dove il motivo della rosetta è ripreso e intagliato settantacinque volte. In un attimo entro così, attraverso la porta automatica a vetri, per la quinta volta negli ultimi due mesi, da Hanselmann a St. Moritz (1845 m). Località snobbata da sempre che negli ultimi tempi – tra la fonte curativa ultramillenaria, il Trittico della natura di Segantini nella cupola fatta su misura con la luce engadinese che entra dall’alto ed è orientata verso lo Schafberg dove morì per

La società connessa di Natascha Fioretti Sapete se qui c’è un George? La buona notizia è che il nostro cervello è così complesso che nulla di uguale potrà mai essere prodotto artificialmente. L’altra buona notizia è che se l’intelligenza artificiale ve la racconta George Rzevski finirà per piacervi. D’altronde è vero che la materia da sola non conta, per piacere ed essere compresa davvero non c’è niente di meglio che un buon professore capace di interessare i suoi studenti anche agli argomenti più complessi e meno amati. Se poi, umanamente, si instaura una certa affinità, imparare non solo diventa una passione ma un processo spontaneo che provoca un sottile senso di piacere misto a leggerezza grazie alla consapevolezza di aver compreso qualcosa di nuovo, qualcosa che un attimo prima era pura nebulosa. Insomma, non vi nascondo che ascoltando le parole di George Rzevski, professore emerito di Design and Complexity alla Open University di Londra, non

ho potuto fare a meno di lasciarmi conquistare e pensare «Wow, che figata l’intelligenza artificiale!» dimenticando per un attimo le migliaia di posti di lavoro che scompariranno nel prossimo futuro e le rivoluzioni sociali che vivremo. E, devo dirvi, che al di là della competenza e della profonda conoscenza della materia ad affascinarmi è stata la genuina passione e la fiducia di quest’uomo nelle potenzialità dell’intelligenza artificiale all’alba dei suoi 86 anni. Avete capito bene, non è stato un giovane nativo digitale, un professore fresco di laurea uscito dall’Università di Utrecht o dall’Università Politecnica della Catalogna ad appassionarmi in nemmeno due ore al mondo dell’IA. Il merito è di un instancabile ricercatore che a 86 anni non ha la minima intenzione di smettere di essere curioso e di fare ciò che più gli piace. Tra l’altro, e qui per me c’è il grande valore aggiunto, George

Rzevski non è soltanto un accademico ma anche un imprenditore e un consulente per importanti aziende a livello mondiale e questo gli permette di offrire una visione che esula dai massimi sistemi e dai costrutti teorici e si china su questioni molto specifiche e concrete. Cosa ho imparato? L’IA ci riguarda tutti, sia nel privato sia nel professionale, non illudetevi di potervi chiudere in una conchiglia, i cambiamenti che porterà riguarderanno anche voi. Ad ascoltare il professore di origini russe c’era un nutrito gruppo di persone di età – dai 22 fino ai 60 anni – e ambiti professionali diversi. L’IA non arriverà mai ad essere una macchina efficiente e completa come e quanto il cervello umano. Ma, è inevitabile che sempre di più entrerà a far parte delle nostre vite e di quello che a ritmi vertiginosi sta diventando un villaggio globale digitale e complesso. Nello specifico l’IA può


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 1. aprile 2019 • N. 14

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Ambiente e Benessere È graziosa ma puzza Profuma d’aglio, la Tulbaghia violacea, ma non scoraggia chi vuole seguire la moda

Il vecchio quattro zampe A differenza degli altri celacanti del Monte San Giorgio, appartiene al genere Heptanema, sinora sconosciuto nel giacimento oggi Patrimonio Unesco

Nonostante i backpacker A Goa gli hippie non sono ancora scomparsi del tutto ma già si inizia a rimpiangerli

Dall’Hornussen al curling Non solo sport tradizionali: gli svizzeri si sbizzarriscono in più discipline, antiche e non pagina 31

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Venire al mondo: fra etica e diagnostica Ostetricia La neonatologia perinatale

in aiuto del percorso non sempre lineare che porta alla nascita

Maria Grazia Buletti Ogni giorno in tutto il mondo nascono circa 365mila bambini. Il tempo di dare un’occhiata a questa frase, e in un secondo sono nati 4 bambini. «Sono felice di condividere questo momento con voi, venite pure», in una sala parto della Clinica Sant’Anna di Sorengo ci accoglie una neomamma. Il neonato ha appena un’ora e mezza di vita: un maschietto di tre chili e 950 grammi che dorme pacifico fra le sue braccia. È sempre un miracolo, la nascita di un bambino, che oggi abbiamo gioiosamente condiviso. Ma talvolta le cose non vanno come si spera e ancora prima della nascita bisogna farsi carico di situazioni patologiche della futura madre o del nascituro, che devono essere diagnosticate, valutate attentamente e seguite. Se ne è parlato il 23 marzo scorso all’ottavo Simposio di perinatologia dell’Unità di Neonatologia della Clinica Sant’Anna di Sorengo. Riservato a medici, infermieri e ostetriche, l’evento è stato organizzato dalle due presidenti dottoresse Petra Donati-Genet (pediatra neonatologa) e Cari Platis Roberti (anestesista specializzata in ostetricia). Un importante convegno all’insegna dell’interdisciplinarietà, che ha permesso di toccare differenti aspetti. Con le due specialiste parliamo della neonatologia perinatale fra nuove sfide e nuovi orizzonti: fra etica, diagnostica e terapia. «Ancora oggi, nel terzo Mondo, la seconda causa di morte riguarda l’emorragia post parto e fino a 100 anni fa la mortalità in ostetricia era elevatissima anche in Occidente, dove abbiamo però vissuto un’ottimizzazione della presa in carico, che oggi fa sì che da noi non si muoia più di questo», esordisce la dottoressa Cari Platis Roberti alla quale chiediamo lumi sulle problematiche della donna in gravidanza, dato che negli ultimi anni i progressi della

medicina hanno permesso di individuare precocemente parecchie patologie: «Parliamo ad esempio del diabete, della sindrome metabolica legata all’obesità, dell’ipertensione, di quei casi più specifici dove abbiamo una donna trapiantata di rene, e via dicendo». Ad oggi, la nostra interlocutrice considera un fattore delicato l’età: «Più la donna è avanti con l’età, e più dovremo considerare altri fattori come l’ipertensione e le cardiopatie, ad esempio. È pur vero che oggi l’ottimizzazione della presa a carico di tante patologie permette a donne non più giovani di portare a termine una gravidanza, anche se considerata a rischio». Proprio in questi casi la figura del medico anestesista specializzato in ostetricia assume un ruolo importante, in nome dell’interdisciplinarietà medica, concetto che ricorrerà lungo tutto il discorso: «Questo lavoro complesso e condiviso fra gli specialisti permette una presa a carico ottimale e a 360 gradi di madre e nascituro; ciò fa sì che anche donne con gravi patologie arrivano a partorire (pensiamo a patologie polmonari, al cuore, ai polmoni, con malattie autoimmuni, donne trapiantate e quant’altro)». Se l’anestesista è spesso coinvolto nella presa a carico, fungendo da tramite fra ginecologo e gli altri specialisti, il neonatologo è fondamentale per quanto attiene alle patologie perinatali, per le quali possiamo affermare che oggi la diagnostica ha pure fatto passi da gigante, permettendo di individuarle in fase precoce. Ce lo conferma la responsabile del Reparto di neonatologia, la dottoressa Petra Donati-Genet: «Oggi la diagnostica pre natale permette di determinare parecchie patologie del nascituro già durante la gravidanza. Pensiamo a tutte quelle anomalie cromosomali come la Sindrome di Down, la Sindrome di Turner o altre ancora più rare». Per quanto attiene a una fase

Petra Donati-Genet, pediatra neonatologa e Cari Platis Roberti, anestesista specializzata in ostetricia. (Cammarata)

più avanzata della gravidanza vi sono ulteriori possibilità: «Attorno alla ventesima settimana, con gli ultrasuoni è possibile visualizzare la morfologia degli organi del feto; ciò permette di scoprire eventuali cardiopatie congenite, ad esempio, e decidere, secondo il caso, se occorrerà disporre la nascita in un centro specializzato». La presa a carico interdisciplinare fra i diversi specialisti è tema ricorrente, e per questo essenziale. Grazie a «questo tipo di diagnostica, il quadro pre natale risulterà molto chiaro, e quindi più capillare la visione d’insieme delle problematiche con cui dovremo essere pronti a confrontarci alla nascita». Una diagnosi implica sempre la valutazione di un’eventuale terapia. Ciò vale anche per la perinatologia, quando si pone la questione della scelta terapeutica: «Più la malformazione riscontrata è grave, e più complessa sarà la presa a carico». Per questo, la dottoressa Donati-Genet è categorica: «Siamo agli albori della chirurgia fetale per la quale esistono centri di competenza ed eccellenza dove è possibile eseguire

interventi che, già in utero, correggono determinate malformazioni». La specialista ribadisce che ci sono patologie che richiedono un’altissima specializzazione che solo alcuni centri possono assicurare: «Un bambino operato in utero deve essere fatto nascere nel miglior setting: si tratta di una complessa presa a carico che dovrebbe avvenire solo in centri di altissima competenza, proprio per la gravidanza estremamente a rischio». Questione di umiltà nella valutazione della situazione da parte dell’équipe medica che la dottoressa mette in evidenza: «La scelta di inviare le situazioni complesse ai centri specializzati per grandi prematuri, con chirurgia pediatrica in grado di gestire le malformazioni, è una scelta di consapevolezza e grande umiltà che fa la differenza per mamma e nascituro». Non da ultimo, le questioni etiche in cui le dottoresse concordano: «Portare o meno avanti una gravidanza in cui si è confrontati con gravi patologie fetali è una decisione che solo la famiglia può prendere». Impossibile definire a priori cosa sia giusto e cosa no: «Informia-

mo i genitori con elementi scientifici e obiettivi, che permettono di ragionare su base medico-scientifica, coscienti di essere solo da supporto alle decisioni ultime riguardo al nascituro che spettano a mamma e papà». Nella speranza che, come ha detto lo scrittore inglese William Macmeile Dixon: «La nascita sia l’improvvisa apertura di una finestra, attraverso la quale ci si affaccia su una prospettiva stupenda che permette di scambiare il nulla con la possibilità del tutto».

Video intervista Sul canale Youtube di «Azione» e su www.azione.ch la videointervista alle dott.sse Donati-Genet e Platis.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 1. aprile 2019 • N. 14

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Ambiente e Benessere

Relitti dell’evoluzione

Paleontologia Dal Monte San Giorgio emerge un nuovo fossile di celacanto mentre ricorre l’ottantesimo

anniversario della cattura del primo esemplare vivente di questi pesci enigmatici

Rudolf Stockar Il 22 dicembre 1938 era una calda giornata d’estate, accarezzata da un debole vento. Tre miglia al largo del porto sudafricano di East London, il peschereccio Nerine issa la rete a strascico svuotandola sul ponte. Sotto tre tonnellate di pesci ne giace uno che attira l’attenzione del capitano Hendrick Goosen. Ha un colore blu metallico, è lungo un metro e mezzo, pesa una sessantina di chili. Il capitano non aveva mai visto niente di simile. Il pensiero andò subito a Mergie. Lei, la sua amica Marjorie Courtenay-Latimer, sette anni prima era divenuta curatrice del Museo di East London, la cui sezione naturalistica comprendeva in realtà solo «sei uccelli impagliati infestati da coleotteri e un maialino a sei zampe in formalina». Da allora Mergie era alla continua ricerca di materiale rappresentativo della regione; quello strano pesce le sarebbe senz’altro interessato, pensò il capitano. Inconsapevolmente, Goosen era appena divenuto parte della maggiore scoperta zoologica del XX secolo. Sul molo, Mergie si trovò di fronte un pesce «con quattro pinne simili a zampe e una coda da cagnolino». Incurante del suo direttore che le intimava di sbarazzarsi di quel puzzolente «merluzzo di scoglio» – nel frattempo giunto al museo nel bagagliaio di un taxi – il giorno seguente scrive all’ittiologo James Smith della Rhodes University a Grahamstown. Acclude uno schizzo tanto essenziale quanto famoso. Smith racconterà che, vedendolo «gli esplose una bomba in testa e una serie di creature vissute in ere passate gli passò davanti». Nonostante gli sforzi di Smith, la notizia finì alla stampa: il 20 febbraio 1939, L’«East London Daily Dispatch» annunciava la cattura nelle acque locali di un «pesce preistorico». Il 18 marzo 1939 Smith pubblicò sulla rivista Nature la prima descrizione del pesce, chiamandolo Latimeria chalumnae, in omaggio a Marjorie Courtenay-Latimer e al fiume Chalumna, presso la cui foce avvenne la cattura. Il capitano, il grosso pesce, la curatrice del museo, il professore… quella che sembra la trama di un romanzo è la storia della scoperta del primo esemplare vivente di celacanto, un pesce appartenente a un gruppo noto ai paleontologi come fossile ma dato per estinto da 70 milioni di anni. E non uno qua-

Il nuovo fossile di celacanto scoperto sul Monte San Giorgio: è il primo dal Calcare di Meride e appartiene al genere Heptanema. (Rudolf Stockar)

lunque, perché i celacanti sono in realtà più affini ai tetrapodi che ai pesci dalle pinne raggiate (gli attinotterigi, come la trota per esempio) che oggi dominano le acque con oltre 32mila specie. Siccome i tetrapodi comprendono tutti i vertebrati terrestri a quattro arti (uomo incluso), i biologi evolutivi hanno sempre avuto un occhio di riguardo per questi enigmatici pesci, alla ricerca, tra essi, dei pionieri che sbarcarono alla conquista della terraferma. Un passo che, tuttavia, i celacanti non intrapresero mai, sebbene le loro pinne sostenute da ossa che si estendono dal corpo rappresentino un preadattamento per uscire dall’acqua e sostenerne il peso. Solo nel 1952 fu catturato un secondo esemplare, cui ne seguirono altri pescati lungo le coste orientali dell’Africa e soprattutto presso l’arcipelago vulcanico delle Isole Comore. In realtà, i pescatori locali li conoscevano da sempre quali prede occasionali e, a dire il vero, poco ambite: se non seccate e salate, le carni del pesce da loro chiamato Gombessa sono infatti disgustose e solo le scaglie, ornate da fini denticoli, godevano di apprezzamento quale sostituto della carta vetrata. Una seconda specie di Latimeria apparve il 18 settembre 1997, in modo altrettanto fortuito: al mercato del pesce di Manado sull’isola indonesiana di Sulawesi, fu notata da una coppia in

Heptanema paradoxum da Perledo, Lago di Como. (Da Giulio de Alessandri 1910)

Lo schizzo inviato da Marjorie Courtenay-Latimer a James Smith il 23 dicembre 1938. (Immagine cortesemente fornita dal South African Institute for Aquatic Biodiversity)

Latimeria chalumnae, francobollo dell’Unione delle Comore. (Rudolf Stockar)

luna di miele, Arnaz e Mark Erdmann, quest’ultimo ricercatore dell’Università della California. Oggi la scienza chiama quest’altra specie Latimeria menadoensis, un nome certo asettico se paragonato a raja laut, il re del mare, con cui lo conoscono i pescatori indonesiani. Non sappiamo quanti siano gli esemplari di Latimeria oggi viventi. Stime parlano di 500 esemplari per la colonia delle Comore, per le altre, i dati sono più scarsi. Latimeria è, infatti, un pesce dal comportamento elusivo. Vive negli anfratti di ripidi pendii sottomarini, a profondità spesso superiori a 200 m ed è notturno. Le prime riprese nel suo ambiente naturale, avvenute solo nel 1987, mostrarono coppie di pinne azionate nella stessa sequenza alternata con cui i tetrapodi muovono gli arti. Con la stessa coordinazione, per esempio, delle zampe di un gatto: anteriore sinistra sincronizzata con la posteriore destra, anteriore destra con la posteriore sinistra. Tuttavia, non lo fa per camminare sul fondale marino, come predisse Smith ancora nel 1956, intitolando la sua autobiografia «Old fourlegs» («Vecchio quattro zampe»). Latimeria usa gli arti per bilanciarsi nelle correnti, spostandosi alla ricerca di cibo: pesci, seppie, e probabilmente tutto quanto finisce nel raggio della sua bocca che, grazie a un peculiare giunto intracranico, riesce a spalancare in modo spropositato. La maestria con cui domina le correnti ci testimonia come questo relitto dell’evoluzione rifugiatosi nelle profondità marine sia in realtà un animale quanto mai vivo e vegeto. Un’occasione

unica per interpretare direttamente dal punto di vista funzionale la struttura anatomica delle forme fossili, diffuse non solo in settori marini meno profondi ma persino nelle acque dolci. Nel 2016, gli scavi paleontologici sul Monte San Giorgio, condotti nel Calcare di Meride dal Museo cantonale di storia naturale, portarono alla luce un «vecchio quattro zampe». È il primo esemplare di celacanto in oltre 160 anni di ricerche in questa formazione che risale al Ladinico (Triassico Medio) e a qualcosa come 240 milioni di anni or sono. Il ritrovamento è stato pubblicato nel novembre 2018 sulla «Rivista Italiana di Paleontologia e Stratigrafia». L’esemplare di Meride non può non richiamare subito alla mente Miss Courtenay-Latimer e il suo schizzo di Latimeria fatto ottant’anni or sono. Dimensioni a parte – il nuovo fossile ticinese è lungo solo 8 cm – il «modello corporeo» è, infatti, in sostanza lo stesso. In fondo, era già quello 400 milioni di anni or sono, e ciò ha indubbiamente permesso a Smith di identificare subito il pesce di East London sulla base del solo disegno di Miss Courtenay-Latimer ma è pure valso a Latimeria l’epiteto di «fossile vivente». Un corpo tozzo, da cui si staccano pinne dotate di un robusto lobo carnoso sorretto da articolazioni ossee e muscoli propri (eccettuata la prima dorsale, da pesce «normale»), e una singolare pinna caudale a tre lobi. Quest’ultimo è il carattere più vistoso. Allungato a forma di ciuffo, fu proprio il lobo centrale della pinna caudale a ricordare a Miss Courtenay-Latimer la coda di un cagnolino.

L’esemplare di Meride costituisce anche una sorprendente (ri)scoperta. A differenza degli altri celacanti del Monte San Giorgio, tutti provenienti dalla più antica Formazione di Besano, appartiene al genere Heptanema, sinora sconosciuto nel giacimento oggi Patrimonio Unesco. Il nome (hepta=sette, nema=filo) si riferisce al caratteristico numero di raggi nella prima pinna dorsale. Rinvenuto a inizio Ottocento nelle cave di Perledo sul Lago di Como, Heptanema fu dapprima descritto nel 1857 dall’ittiologo milanese Cristoforo Bellotti, ma in realtà solo nel 1889 identificato come celacanto dal paleontologo tedesco Wilhelm Deeke. L’ultima descrizione risale al 1910 e la dobbiamo a Giulio di Alessandri, professore a Pavia. In conseguenza del bombardamento angloamericano del Museo di storia naturale di Milano (13-14 agosto 1943) l’esemplare fotografato da De Alessandri, appartenente al Senckenberg Museum di Francoforte, è l’unico sopravvissuto fino ai giorni nostri. Il Calcare di Perledo e quello di Meride risalgono entrambi al Ladinico e la coesistenza di questo piccolo «vecchio quattro zampe» avvalora l’ipotesi che si siano depositati nelle acque tropicali dello stesso bacino marino. Una congettura che l’attuale ingombrante frapporsi tra le due regioni delle rocce più giovani del massiccio giurassico del Monte Generoso ha sempre impedito di confermare direttamente. Bibliografia

Cristoforo Bellotti, Descrizione di alcune nuove specie di pesci fossili di Perledo e di altre località lombarde. In: Antonio Stoppani, Studii Geologici e Paleontologici sulla Lombardia, Carlo Turati Tipografo Editore (Milano), 1857, 419-438. Giulio de Alessandri, Studii sui pesci triasici della Lombardia, Memorie della Società Italiana di Scienze Naturali, VII, 1910, 145 pp. Wilhelm Deeke, Über Fische aus verschiedenen Horizonten der Trias. Palaeontographica, XXV, 1889, 97-138. Silvio Renesto & Rudolf Stockar, First record of a coelacanth fish from the Middle Triassic Meride Limestone of Monte San Giorgio (Canton Ticino, Switzerland), Rivista Italiana di Paleontologia e Stratigrafia, 124, 2018, 639-653. James L. B. Smith, A living fish of mesozoic type, Nature, 143, 1939, 455-456. James L. B. Smith, Old Fourlegs: the Story of the Coelacanth, 1956, 284 pp.


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Ambiente e Benessere

La moda della Tulbaghia violacea Mondoverde Una bulbosa molto graziosa, ma anche molto maleodorante

Anita Negretti Piantereste mai accanto alla vostra porta d’ingresso delle cipolle o degli agli? Benché possano essere decorativi, quando in primavera i loro capolini si aprono in fiorellini bianco-lilla, l’odore non risulta essere certo gradevole e nemmeno un bel biglietto da visita per gli eventuali ospiti che venendoci a trovare si faranno una sniffatina dal potente aroma agliato. Eppure, anche nei fiori, la moda detta le regole e così da una decina di anni a questa parte si assiste alla colonizzazione in vasi, aiuole e bordure di piantumazioni di Tulbaghia violacea, una bulbosa molto graziosa, a manutenzione quasi zero, ma dal forte e caratterizzante odore di aglio. Di origini peruviane e sudafricane, appartiene alla famiglia delle Alliaceae, si presenta come un’erbacea perenne con lunghe foglie erbose e aromatiche, dal bel colore verde sfumato di grigio, radici ricche di bulbilli (quindi facilmente riproducibili) e fiori riuniti in infiorescenze a ombrella dal colore viola intenso. Alta 30-35 centimetri, la piantina incomincia a fiorire in maggio e fino alla fine di ottobre continua imperturbabile la sua emissione di nuovi steli fioriti, incurante del sole caldo e dell’aridità estiva. Lasciata indisturbata, anno dopo anno tenderà ad allargarsi, creando cespi ampi fino a 50-60 centimetri, mentre se coltivata in vaso è bene dividere le radici nel mese di ottobre, per

garantire nuova terra e ottenere altre piantine. Dopo averla svasata, basterà tagliare con un coltello affilato alcune porzioni verticali di radici (a metà, se la pianta è giovane, o in più parti se la pianta è da alcuni anni nello stesso vaso), rinvasarla in nuovi contenitori con terra morbida e concimata, bagnarla ogni 8-10 giorni fino all’arrivo della primavera e aspettare l’emissione delle nuove foglioline. In inverno, se coltivata in zone fredde e poco riparate, tenderà a perdere tutte le foglie, che andranno tolte in primavera, mentre i fiori che via via diventano bruttini vanno recisi alla base durante la lunga stagione di fioritura. Le sue scarse esigenze la portano a richiedere solo due leggere concimazioni, a marzo e a settembre, con un concime granulare a lenta cessione, elargito con parsimonia, mentre le malattie che possono disturbarla sono legate all’attacco di lumache (eliminabili con esche lumachicide o più magnanimamente con sottovasi pieni di birra), marcescenza radicale se troppo bagnate (create sempre un fondo di ghiaione o argilla espansa nei vasi o nella buca del terreno) o crescita stentata in primavera per via di un ritorno di freddo improvviso quando la pianta è già in vegetazione. In questo ultimo caso ritagliate bassa la pianta e tenetela coperta con una pacciamatura di foglie secche, paglia o uno strato di torba. Per via dell’odore vi consiglio di

I fiori di una Tulbaghia violacea in primo piano. (Wouter Hagens)

piantarla non troppo vicino alle zone di passaggio, in barba alla moda e agli attacchi di vampiri, ma a qualche metro di distanza dalla porta d’ingresso, accompagnandola con delle gramina-

cee perenni, anch’esse molto in voga in questi ultimi anni. Ciuffi di Pennisetum alopecuroides, miscanthus, festuche e stipe, potranno accompagnare le intense fio-

riture malva della Tulbaghia, mentre se metterete alcuni esemplari ai piedi delle rose, riusciranno a tener lontani gli afidi, contenendone così gli attacchi sui nuovi boccioli. Annuncio pubblicitario

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Ambiente e Benessere

Insalata piccante di carne macinata con mais

Migusto La ricetta della settimana

Piatto unico Ingredienti per 4 persone: 2 limoni · 2 peperoncini · 1 dl d’olio di colza · 500 g di carne macinata mista, ad es. manzo, maiale · 2 c di mix di peperoncino · sale · 2 mazzetti di prezzemolo · 2 scatole di chicchi di mais da 200 g · 2 c di senape · 3 c di yogurt al naturale · 6 c d’aceto balsamico bianco · 350 g di mini lattuga romana · 1 mazzetto di ravanelli · 20 g di crescione.

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1. Spremete i limoni. Dimezzate i peperoncini per il lungo, privateli dei semi e tagliateli a striscioline. 2. Scaldate circa 2 cucchiai d’olio in una grande padella. Rosolate la carne e il mix di peperoncino per circa 5 minuti a fuoco medio. Unite il succo di limone e condite tutto con il sale. Continuate la cottura per 5 minuti a fuoco basso. 3. Tritate il prezzemolo e unitelo, poi togliete la padella dal fuoco. Scolate il mais e lasciatelo sgocciolare. Mescolate la senape con lo yogurt, l’aceto balsamico e l’olio rimasto. Condite la salsa con il sale. Se la salsa risulta troppo densa, allungatela con un po’ d’acqua. 4. Sminuzzate le mini lattughe, affettate i ravanelli. Disponete nei piatti la lattuga, il mais, i peperoncini a striscioline, la carne, i ravanelli e il crescione. Irrorate con la salsa e condite.

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Ambiente e Benessere

Dimenticare Goa

Non solo tanta bellezza

Viaggiatori d’Occidente L’ultimo rifugio degli hippie in India sta rapidamente cambiando

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Claudio Visentin Negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, migliaia di giovani occidentali, in fuga da famiglie troppo conformiste e dalla società dei consumi, guardarono verso l’Oriente e le sue filosofie in cerca di un’illuminazione. Alla guida di veicoli di fortuna, a cominciare dai celebri Volkswagen Kombi, questi disertori dell’Occidente tracciarono la «Rotta hippie« (Hippie Trail): seimila miglia attraverso sei Paesi e tre grandi religioni. Si partiva da Istanbul per poi attraversare la Turchia, l’Iran, l’Afghanistan, il Pakistan e l’India. Il punto d’arrivo era Kathmandu, nel romantico e medievale Nepal. A quel punto la maggior parte degli hippie prendeva la via del ritorno e dopo mesi di libertà senza limiti cercava un nuovo spazio nella società. Altri, come Tony Wheeler e la moglie Maureen, si spinsero sino in Australia, senza sapere che vi sarebbero rimasti tutta la vita fondando la più importante casa editrice di guide turistiche al mondo, Lonely Planet. Qualcuno però non se la sentiva di tornare e preferì tagliare tutti i legami con il passato rifugiandosi a Goa, un piccolo Stato dell’India occidentale affacciato sul Mar Arabico. Goa era stata per secoli l’avamposto dell’impero coloniale portoghese e solo nel 1961 fu riconquistata dall’esercito indiano. A Goa gli hippie trovarono lunghe spiagge sabbiose, un clima piacevole e una popolazione amichevole, anche grazie alla lunga consuetudine con gli occidentali. I giorni, i mesi e gli anni scorrevano lenti e sempre uguali tra vita di spiaggia, meditazione, piccoli commerci, amore libero. Il personaggio più noto di quella generazione fu Cleo Odzer, una giovane hippie americana: «Un giorno vidi il cartello di un bus che andava da Atene a Goa. India! Non avevo mai sentito parlare prima di Goa ma salii su quell’autobus senza pensarci un attimo». Cleo era la ricchissima figlia del presidente di un’importante industria tessile, ma la famiglia era per lei più un problema che un’opportunità. Dopo una gioventù come groupie e modella, alla fine degli anni Settanta si trasferì a Goa, dove tornò ancora negli ultimi anni della sua vita, sino alla morte nel 2001.

«Dove siamo? Siamo al centro. Dove siamo? Siamo ad ovest. Dove siamo? Siamo a Capo Boeo, estrema punta occidentale della Sicilia. Qui c’è il mare grande, mica quelle isolette lì. Pochi chilometri di distanza, finalmente l’orizzonte. Che però sembra una prigione. Cosa ti aspettavi… So cosa significa abitare nell’ovest che più ovest non si può del gomito di Sicilia. Significa abituarsi ai tramonti, cioè ad un lento rincorrersi di epiloghi…».

A Goa, l’Anjuna Hippie Markt. (Klaus Nahr)

Di Goa e dei suoi hippie si tornò a parlare alla fine degli anni Ottanta. Per qualche tempo la Psychedelic trance, la musica cadenzata e ipnotica dei Full moon party nella spiaggia di Anjuna, spopolò nelle discoteche di tutto il mondo. Proprio queste feste – insieme all’uso delle droghe, il nudismo e il sesso libero – crearono una divisione tra i pur tolleranti abitanti di Goa e i loro ospiti. Inoltre, tra le due comunità c’era un equivoco di fondo. Gli hippie, stanchi della società dei consumi, apprezzavano la semplicità e la frugalità di vita degli indiani, ma questi invece cercavano disperatamente di uscire dalla povertà: insomma gli uni volevano essere gli altri. Anche per questo negli ultimi anni gli spazi d’azione degli hippie si sono ristretti: per esempio si è cominciato a chiedere loro licenze regolari e il pagamento delle tasse per i piccoli commerci nei mercati delle pulci. Ad ogni modo il tempo risolverà tutti i problemi. La «Rotta hippie» è chiusa ormai dal lontano 1979, quando

l’Ayatollah Khomeini prese il potere in Iran bloccando le frontiere e l’Afghanistan venne invaso dai sovietici. Gli hippie, nati negli anni Cinquanta, invecchiano e i loro eredi, i viaggiatori «zaino in spalla» (backpacker), hanno altre mete (Thailandia, Laos, Vietnam, America centrale) e altri stili di viaggio (per esempio Gap Year). Al chiudersi della lunga stagione hippie, durata mezzo secolo, gli abitanti di Goa speravano in un sempre maggiore afflusso di ricchi turisti internazionali ma, con loro disappunto, è cresciuto invece soprattutto l’invadente turismo interno indiano. In un Paese con un miliardo e trecento milioni di abitanti, basta un aumento dell’1% della classe media per creare tredici milioni di nuovi potenziali turisti. Tuttavia, anche se l’economia indiana cresce a ritmi del 7% all’anno, la maggior parte delle famiglie del ceto medio ha bassi stipendi e non può quindi permettersi viaggi all’estero. Sceglie dunque luoghi come Goa, dove già oggi i turisti superano di cinque volte i residenti, con

conseguenze facilmente immaginabili. E al mercato il posto delle bancarelle degli hippie è stato preso da indiani di altre regioni. I nuovi turisti sono famiglie o giovani yuppie rampanti in cerca di divertimento. Molti di loro vengono dal nord dell’India, dove i costumi sono più tradizionali. E quindi vengono in spiaggia vestiti ma poi scattano foto alle donne in bikini. Inoltre, sono ostili al turismo LGBT, in forte crescita da quando, lo scorso anno, la Corte suprema indiana ha smesso di considerare l’omosessualità un reato. Di recente il ministro della pianificazione di Goa ha definito i turisti provenienti dal nord dell’India «la feccia della terra»: non proprio un esempio di accoglienza. La morale della storia? Gli hippie non sono ancora scomparsi del tutto e già un poco si comincia a rimpiangerli. Ma soprattutto il turismo si rivela sempre più capace di mettere in mostra le trasformazioni (e le contraddizioni) del nostro tempo, in un continuo gioco di immagini allo specchio.

Un proverbio siciliano dice: «cu nesce, arrinesce», ovvero «Chi esce, riesce». Come dire che solo chi parte può avere successo, essendo precluso ai siciliani, sulla loro isola, lo spazio per azioni positive; ma anche, con nascosto orgoglio, che in fondo, ogni siciliano, se solo partisse, vedrebbe riconosciute le sue qualità. Giacomo Di Girolamo, giornalista esperto di criminalità organizzata e corruzione, ha scelto di restare e ora prova a raccontare la sua terra. Luoghi che conosco, per averci tanto viaggiato negli anni passati, e so bene quanto sia difficile parlarne. È una questione di proprietà transitiva. La Sicilia è uno dei posti più interessanti del mondo e questo suo angolo potrebbe essere a sua volta la parte più interessante dell’isola. Ho detto interessante. Non bella, anche se di bellezza ce n’è davvero tanta, accanto ad altrettanta desolata bruttezza: per esempio le coste, un tempo splendide e ora devastate da costruzioni abusive. Interessante per mescolanze di uomini, là dove sono passati fenici, greci, cartaginesi, romani, bizantini, arabi, normanni, svevi, angioini, aragonesi... Affascinante per la sottigliezza arguta dei suoi abitanti, cinici e disincantati. Commovente per la sua cucina, con il liquore Marsala alla fine del pasto. E poi quella luce, così particolare, a evocare altri mondi al di là del Canale di Sicilia. / CV Bibliografia

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 1. aprile 2019 • N. 14

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Ambiente e Benessere

Da skipper a skip il passo è breve

Sport In un paese come la Svizzera, in cui le tradizioni sono sacre, nello sport c’è spazio per tutto: per le novità,

e anche per discipline antiche, sepolte, e poi risorte

e Campionati Mondiali, le attenzioni che le varie TV gli hanno dedicato sono andate in crescendo. Non ha il dinamismo dell’hockey su ghiaccio, non offre la lotta contro il tempo dello sci alpino, e manca pure il confronto uomo contro uomo di biathlon e sci di fondo. Eppure piace. Da un lato si può ipotizzare che ovunque ci sia in campo o in pista uno sportivo svizzero a caccia di gloria, il pubblico risponda «presente», a prescindere dall’ambito in questione. D’altro canto, chi ama e promuove il curling, sostiene che si tratti di un’attività adatta a tutti, giovani e anziani, uomini e donne. E proprio le donne hanno regalato le migliori soddisfazioni alla Svizzera, con cinque titoli mondiali negli ultimi sette anni. Il più recente è quello conquistato pochi giorni fa a Silkeborg, in Danimarca, dal team guidato dalla Skip Silvana Tirinzoni. Già la «Skip», il «Clean», lo «Sheet», il «Pebble» e il «Curl». Un gergo che non riuscirà mai a soppiantare «Dribbling», «Corner», «Power play» e «Box Play», ma che ci farà sentire tutti partecipi di un evento in cui la bandiera rossocrociata sventola spessissimo sul pennone più alto. E non importa se Silvana Tirinzoni non raccoglierà la gloria con la G maiuscola, quella che si traduce in visibilità e denaro. Bastano le emozioni, la festa, il Salmo svizzero. Poi, una volta bevuto l’ultimo sorso di spumante, lei proseguirà la sua attività di Project Manager presso Banca Migros. E immagino lo farà con piacere, altrimenti avrebbe scelto di tentare la fortuna con golf, tennis o sci alpino.

Giancarlo Dionisio C’è chi sostiene che lo svizzero sia tendenzialmente conservatore e immobilista. Su quali basi lo affermi, non saprei. So tuttavia che questo concetto non può essere applicato al rapporto che il cittadino medio costruisce, stagione dopo stagione, con lo sport, anche se nessuno rinnega nulla. Se, ad esempio, vi capitasse di girare per le campagne centrosettentrionali del paese, fra i cantoni di Berna, Soletta e Argovia, potreste vedere decine e decine di persone muoversi stranamente sulle ampie distese verdi, fra alberi da frutta, e altre intente a fermare una specie di pallina con delle pale di legno. Stanno giocando a Hornussen, una sorta di antenato del baseball, risalente al Seicento, magistralmente descritto da Jeremias Gotthelf in Ueli der Knecht. Accanto a queste manifestazioni ancestrali, e ci metto ovviamente anche la Festa federale di lotta svizzera, con tanto di lancio della pietra di Unspunnen, si affacciano con sfrontatezza anche le nuove discipline Fun, di cui già abbiamo scritto tempo fa. Siamo diventati dei fenomeni sulla Mountain Bike e siamo tra i migliori al mondo nel Free Style, tanto con gli sci, quando con lo snowboard. Inoltre siamo abili nel fiondarci, con attitudine tutt’altro che immobilista, in quelle attività sportive che gravitano tra l’antico e il nuovo, tra la tradizione e l’innovazione. Prendete ad esempio l’America’s Cup di vela. Risale a metà Ottocento, quando regattare era un’avventura dai

La skip della squadra femminile svizzera di curling, Silvana Tirinzoni, e il suo team. (Keystone)

risvolti romantici e drammatici al tempo stesso. Col passare dei decenni si è trasformata in terreno ideale per la ricerca tecnologica. E proprio negli anni della digitalizzazione, e della sperimentazione a oltranza, siamo arrivati noi, a dominare la scena, con Alinghi e con il know how delle nostre Scuole politecniche federali. Noi, alpinisti e alpigiani, capaci di veleggiare meglio di pirati e marinai. Noi che in poche settimane abbiamo assimilato il lessico da barca. Anche il curling, sia pure dieci

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ry, e nel 1992 ad Albertville, come sport dimostrativo. Quindi, misteriosamente, è uscito di scena in occasione dei Giochi di Lillehammer del ’94. Altrettanto misteriosamente è tornato a pieno titolo quattro anni dopo a Nagano, dove gli svizzeri Patrick Hürlimann e compagni hanno conquistato il primo oro del nuovo corso. Quella medaglia e quelle lacrime hanno coinciso con il decollo del curling sulle nostre piste. È rimasto uno sport di nicchia, tuttavia, col passare delle edizioni di Giochi Olimpici

Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku

Cruciverba L’albero della foto, secondo gli studiosi, sarebbe il più antico d’Europa. Dove si trova e come si chiama? Scoprilo a cruciverba ultimato, leggendo le lettere nelle caselle evidenziate. (Frase: 7 – 8, 3, 5, 7)

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pianeti più sotto dal profilo finanziario, rientra nel novero delle discipline sportive che stanno riconquistando il mondo. Di origini antiche (due quadri di Bruegel il Vecchio ne raffigurano un suo antenato), ufficialmente il curling ha visto la luce nel 1795 a Edimburgo, in Scozia, dove fu fondato il primo club. Il suo rapporto con i Giochi Olimpici è stato maledettamente sfilacciato fino a pochi decenni fa. Inserito nel programma sin dalla prima edizione invernale, a Chamonix, nel 1924, vi è rimasto fino al 1932, per riapparire nel 1988 a Calga-

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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch

I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.

ORIZZONTALI 1. Aperti, leali 7. Possono essere essenziali… 8. Il signor Dei Tali 9. Le iniziali dell’attore Amendola 10. Desiderio ardente... 11. Può essere precoce 12. Stato monarchico 13. Virtù, pregio 17. Sono di controllo e di lancio 18. Un numero 19. Collezionate in un film con Denzel Washington 20. Vi si estraggono marmi 21. I raggi del vate 22. Passa… in cucina 23. Diede i natali ad Amedeo Modigliani (sigla) 24. Risolvere un contrasto VERTICALI 1. Sono tesserati 2. Più piccola della rana 3. Tredicesima lettera dell’alfabeto greco 4. Sono senza tempo 5. Rapido, veloce 6. Parte dell’intestino 10. Festa paesana 11. L’Iran d’altri tempi 12. Un fiore 13. La contea di Plymouth 14. Primo cardinale inglese 15. Le iniziali del conduttore Timperi 16. Isole del Tirreno 17. Una costellazione 18. Stretta insenatura costiera 20. Preposizione articolata 22. Le iniziali di Pisacane 23. Le iniziali dell’attrice Ranieri Partecipazione online: inserire la

soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-

Sudoku Soluzione:

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Scoprire i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.

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LA TELEFONATA – Un operatore telefonico chiama: «Signora lei ha una rete fissa?» Un’anziana signora risponde: «NE HO DUE, UNA NEL LETTO GRANDE E UNA NEL PICCOLO». N O V E L L O

E D I T T I

L L A I O U N P A E R E E T O R S E U R O A N S E L S P O S A V I C O L O

H O R N E A L T A N E M O I L

R E T T O

R O R U M A T O A E G M D E P L E N A N E T C E R I I B I A

luzione, corredata da nome, cognome, indirizzo, email del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 1. aprile 2019 • N. 14

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Politica e Economia Rapporto Mueller Il Russiagate si conclude con un verdetto ambiguo, ma è pur sempre un’assoluzione per Donald Trump

Ultimo appello Il leader serbo Radovan Karadzic è stato condannato in appello all’ergastolo dal tribunale olandese dell’Aja per i massacri di Srebrenica e l’assedio di Sarajevo

Fotoreportage L’Aquila, 10 anni dopo il terribile terremoto, le ferite sono ancora aperte

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Zurigo si tinge di verde Sorprendente successo di Verdi e Verdi liberali alle cantonali di Zurigo. I primi tornano anche in governo

Roma fa da tramite fra Usa-Cina

La via di Pechino in Europa L’Italia è diventata un tassello rilevante nella competizione tra Stati Uniti e Cina

dopo la firma a Roma del memorandum di adesione alla Belt and Road Initiative

Lucio Caracciolo Il viaggio del presidente cinese Xi Jinping in Italia, Principato di Monaco e Francia, tra il 21 e il 26 marzo scorsi, è stato un esempio di come la Repubblica Popolare giochi ormai una partita geopolitica a tutto campo, Europa inclusa. Obiettivo: controbattere la percepita aggressività di Washington e penetrare l’impero americano dall’interno, in vista dell’affermazione della Cina come prima potenza mondiale entro il 2049, centenario della Repubblica di Mao. Per questo progetto di lungo termine Xi ha battezzato nel 2013 la Belt and Road Initiative – o Nuove vie della seta – che mira a promuovere la connessione fra Europa, Africa e Asia. Si tratta di una strategia a più facce. In primo luogo quella economico-commerciale, di dimensioni inedite: fra 2014 e 2018 la Cina ha finanziato 448 miliardi di dollari di investimenti e contratti di costruzione in 64 paesi

che hanno aderito all’iniziativa. Per quest’anno se ne prevedono altri 117. La maggior parte dei soldi sono finiti in Estremo Oriente (51%), una quota rilevante in Asia occidentale (29%), in Europa solo il 10%. Si tratta di porti, retroporti, ferrovie, strade, aeroporti e quant’altro contribuisca allo scambio di merci lungo percorsi transcontinentali. L’Italia è stata da subito un obiettivo delle nuove vie della seta, grazie alla sua posizione di molo naturale al centro del Mediterraneo. Le inefficienze e lo scarso coordinamento politico hanno impedito all’Italia di essere subito oggetto di investimenti nei suoi porti, come avrebbero voluto i cinesi. Sicché Pechino ha scelto il Pireo, in Grecia, come hub mediterraneo orientale. Ma ha continuato a puntare anche gli scali dell’Alto Mediterraneo, tra cui Trieste e Genova, quest’ultimo principale approdo italiano che via Svizzera e Germania ambisce a erigersi a sottohub di

Rotterdam, il grande porto olandese cui ancora oggi punta la maggior parte delle navi in transito fra Asia ed Europa. I servizi e le attrezzature di Rotterdam e degli altri porti del Nord Europa permettono una connessione diretta al mercato tedesco che li rendono tuttora convenienti, malgrado i 5 giorni di navigazione in più richiesti alle navi in provenienza da Suez o dirette da quello strategico canale verso l’Asia. Ma per Pechino la strategia non è solo commerciale. Si tratta di tessera la tela di una vera e propria sfera d’influenza geopolitica, anche con la costruzione di basi militari e di centrali d’intelligence in territorio estero, compreso l’impero europeo dell’America formato dall’insieme Nato-Ue. Alla notizia del viaggio di Xi in Italia Washington ha reagito minacciando rappresaglie contro Roma. Per almeno tre ragioni: il Memorandum of Understanding poi firmato dai governi italiano e cinese ha un evidente sapore geo-

politico, financo ideologico, malgrado non sia un trattato vincolante; la penetrazione di compagnie cinesi come Huawei, leader nel 5G, nelle reti italiane espone un paese Nato nel quale la presenza militare americana resta visibile e rilevante allo spionaggio del principale rivale; il porto di Trieste, formalmente italiano, è per gli Usa uno snodo strategico in chiave di contenimento dell’influenza russa e ormai anche cinese nell’area adriatico-balcanico-mitteleuropea. Alla fine, gli Stati Uniti hanno ottenuto una riduzione degli accordi economici italo-cinesi, già non di formidabile entità (forse 2-3 miliardi di dollari), e un annacquamento del Memorandum of Understanding. Ma la crisi con Roma resta. Future rappresaglie sono possibili, via riduzione dello scambio di intelligence o addirittura una revisione al ribasso da parte delle agenzie di rating di marca Usa della credibilità dei titoli di Stato italiani.

La visita di Xi avrebbe dovuto comprendere anche un incontro informale con papa Francesco, probabilmente a Palermo, ma è saltato, anche qui per le combinate pressioni di una parte della Curia e di Washington. L’Italia è incorsa anche negli strali della Commissione Europea, che ha stabilito come la Cina sia da considerare un «rivale strategico». L’incontro di Xi Jinping con Emmanuel Macron, in Francia, ha avuto infatti un tratto molto più pragmatico. Senza sbandierare inesistenti solidarietà strategiche, i due leader hanno parlato di intese economiche e commerciali utili ad entrambi. Germania, Francia, Inghilterra e Svizzera sono state oggetto in questi anni di investimenti cinesi ben superiori rispetto a quelli ottenuti dall’Italia, ma hanno evitato, ed eviteranno sempre più, di vestire con colori geopoliticoideologici le rete finanziaria e commerciale tessuta con Pechino. Per la maggiore tranquillità di Washington.


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Politica e Economia

Verdetto ambiguo

Parliamo europeo di Paola Peduzzi

Russiagate Il Rapporto Mueller non dimostra che il presidente Trump è colpevole,

ma non stabilisce nemmeno la sua innocenza Federico Rampini «Il Rapporto Mueller non dimostra che il presidente ha commesso dei crimini; ma non stabilisce la sua innocenza». Il Russiagate si conclude con un verdetto ambiguo, una sorta di assoluzione per mancanza di prove. Ma è pur sempre un’assoluzione. Che ci piaccia o no, Donald Trump ne esce bene. Anzi: trionfalmente. La misura del suo successo è proporzionale alle aspettative esagerate che intorno a quell’indagine furono alimentate a lungo da una parte della sinistra, da una parte dei media, e da una parte delle agenzie d’intelligence (sì, quel Deep State obamiano sul quale Trump e Steve Bannon hanno costruito le loro teorie del complotto). Il presidente è stato veloce nel proclamarsi «riscattato, vendicato» dall’esito di quell’inchiesta. La sinistra americana e i suoi media di riferimento, sono sotto shock. Alcuni hanno tentato di arrampicarsi sugli specchi (vedremo come e perché). Altri hanno più ragionevolmente voltato pagina, e si sono occupati d’altro (era ora). Per fortuna le opportunità per fare opposizione su temi validi non mancano: per esempio i rinnovati attacchi del presidente contro la riforma sanitaria di Obama. Ci vorrà un po’ di tempo, però, per digerire la grande delusione sul Russiagate, e metabolizzare gli errori che furono compiuti da chi aveva investito aspettative eccessive su quella strategia di attacco «giudiziaria».

Di certo la democrazia americana ne esce malconcia. Invece il dato positivo è la coraggiosa autocritica dei media Dopo quasi due anni di un’inchiesta che ha tenuto l’America col fiato sospeso, con una parte della sinistra speranzosa di trovarvi materia da impeachment, l’esito non è proprio di un immacolato candore, sia chiaro. Mentre scrivo, il Rapporto Mueller nella sua interezza è in poche mani: il contenuto integrale lo conoscono i vertici del Dipartimento di Giustizia. I quali, pur dovendo agire con la massima indipendenza ai sensi della Costituzione, sono pur sempre nominati dal presidente. Il Congresso (mentre scrivo) ancora non è riuscito a ottenere quel documento integrale. Ne conosciamo solo le «conclusioni» riassunte appunto da un ministro dell’Amministrazione Trump. È altamente improbabile che nelle carte integrali ci siano sorprese clamorose, tali da contraddire la sintesi ufficiale. Anche se il non pubblicare il Rapporto integrale continuerà ad alimentare teorie del complotto, dietrologie, «verità alternative» e leggende varie. Di certo la democrazia americana ne esce più malconcia che mai, sfiduciata, intrappolata nelle delegittimazioni reciproche. Il presidente e il suo partito possono celebrare la fine della «caccia alle streghe». Secondo l’autorevole e stimato Robert Mueller (ex-magistrato, ex-capo dell’Fbi) che ha condotto le indagini, né Trump né la cerchia dei suoi collaboratori hanno attivamente congiurato col governo russo per manipolare l’elezione presidenziale del 2016. La barra era molto alta, su questo sospetto di collusione. Non bastava dimostrare – com’è stato fatto – che ci fu un intervento russo per danneggiare Hillary Clinton. Occorreva dimostrare la complicità attiva, il do ut des. Quale contropartita ha ottenuto Putin dalla vittoria del «suo» candidato? Le relazioni tra Washington e Mo-

La bandiera americana sventola fuori dal Dipartimento di Giustizia a Washington. (AFP)

sca non sono migliorate dai tempi di Barack Obama. Le sanzioni Usa contro la Russia rimangono. Vi si è aggiunta la sospensione di un trattato sulla limitazione degli arsenali nucleari. Dunque Putin non ha incassato nulla, almeno in apparenza. L’altro possibile reato da impeachment è «l’ostruzione alla giustizia». Qui la conclusione di Mueller è più ambigua: «mancano le prove» che Trump abbia sabotato l’azione del super-magistrato. A rigore l’inchiesta dovrebbe proseguire su questo terreno, ma affidata al Dipartimento di Giustizia cioè al ministro William Barr nominato dallo stesso Trump. Prima ancora che venisse consegnato il Rapporto Mueller, molti americani avevano già deciso cosa doveva contenere. I democratici erano determinati a darne una lettura colpevolista, i repubblicani quella opposta. Questa è la vera patologia che corrode la qualità della democrazia americana, e non nasce con Trump. La cerchia del malaffare di cui questo presidente si circondò per scalare la Casa Bianca, e che Mueller ha già ripulito cacciando un po’ di lestofanti in galera, è solo la risultante. Il vero successo di Putin non fu tanto quello di influenzare nel 2016 qualche fascia marginale di elettori, bensì di capire che costoro non aspettavano di meglio: volevano essere confermati nella loro delegittimazione dell’avversario, quindi nella loro sostanziale sfiducia verso le regole del gioco democratiche. Putin non ha installato un «candidato manciuriano» alla Casa Bianca, un docile servitore degli interessi di Mosca. Però ha fatto progredire un’equivalenza che corrode l’intero Occidente: l’idea che tutti i sistemi politici sono marci fino al midollo, e dunque non c’è tanta differenza tra il nostro Stato di diritto, la «democratura» putiniana, l’autocrazia di Xi Jinping. Con l’autostima ridotta ai minimi storici, l’Occidente è sempre meno temibile per gli uomini forti che governano le potenze rivali. Questa disaffezione dalla liberaldemocrazia è un processo lento, viene da lontano: come minimo bisogna risalire all’elezione «rubata» di George W. Bush e ai dubbi profondi che seminò sull’onestà del sistema. O forse più indietro ancora: la vicenda dell’impeachment tentato contro Bill Clinton. Perciò l’attesa messianica del Rap-

porto Mueller come un evento liberatore, una catarsi, era viziata fin dall’inizio: ciascuna delle due Americhe ha già precostituito la lettura degli eventi. La realtà – quella che dovrebbe uscire dall’onesto lavoro di un inquirente all’antica, professionale e nonpartisan – è secondaria, manipolabile nel gioco delle «interpretazioni». L’assedio a Trump non finisce. La Camera dei deputati, a maggioranza democratica, ha già avviato le sue indagini su molti terreni, dalle tasse del presidente ai suoi business opachi. La magistratura ordinaria si è svegliata; dopo decenni di distrazione a dir poco sospetta, si è accorta che c’era del marcio a New York, all’ombra dei grattacieli costruiti dal tycoon con esenzioni fiscali e donazioni ai politici di turno (molti dei quali, però, sono democratici). Per molti americani, sentire che «non ci sono prove che il presidente sia un criminale», non è sufficiente per ritrovare fiducia. Volendo trovare a tutti i costi qualcosa di positivo nella catastrofe io direi questo: mi sono un po’ riconciliato col «New York Times». Ero cresciuto da ragazzo nell’ammirazione del giornalismo anglosassone: la sua indipendenza, serietà, sobrietà; gli investimenti costosi nel «fact-checking» (verifica dei fatti) delle redazioni. L’ho visto degenerare sotto i miei occhi, con sgomento. Scusate se sono brutale: si è «italianizzato». Certo una parte della colpa è dei media di destra, a cominciare dalla televisione Fox News di Rupert Murdoch, che si è distinta ai tempi di Barack Obama per una faziosità disgustosa, dando spazio agli attacchi più infami: per esempio, fu la cassa di risonanza della campagna che Trump lanciò molto prima di candidarsi, la calunnia su Obama nato in Kenya quindi ineleggibile perché africano. E tuttavia, soprattutto nell’èra Trump, i media progressisti sono sprofondati a loro volta nella faziosità. Dalla Cnn al «New York Times» al «Washington Post», sono diventati strumenti di battaglia più che di informazione. Raramente, attingendo a queste fonti, riesci a capire un’America di provincia che ha votato e continua a sostenere questo presidente. Apri il «New York Times» e ogni giorno trovi quattro, cinque, sei editoriali contro di lui. Oltre a perdere credibilità e autorevolezza, un giornale fatto così diventa prevedibile, perfino noioso.

Lo shock dell’indagine conclusa da Mueller ha provocato almeno una coraggiosa autocritica. Ecco all’indomani dell’assoluzione di Trump uno dei commenti del «New York Times», a firma di un Premio Pulitzer, Brett Stephens: «È un disastro che i media si sono inflitti da soli, paragonabile a quello sulle armi di distruzione di massa (la bugia dell’Amministrazione Bush su Saddam Hussein a cui abboccarono in molti nel 2003, «New York Times» incluso, ndr). Ci impone un’autocritica approfondita. … Trump ha incassato un’importante vittoria su quelli che considera i suoi nemici politici, incluso questo giornale. Che lui ci sia riuscito per genialità o per fortuna, converrà che smettiamo di trattarlo da stupido. Questo è il momento, invece, di esaminare la nostra stupidità». Onore alla trasparenza di cotanta autocritica. Oltre ai media, anche una parte della sinistra americana è sotto shock. Si era illusa – e tutto ciò suona orrendamente familiare agli italiani – di regolare i conti con questo presidente imboccando una scorciatoia giudiziaria. Un bell’impeachment per liquidare il mascalzone, e non se ne parli più. In Europa poi, vista la generale ignoranza sulle cose americane, mi capitò per mesi d’incontrare persone che l’impeachment lo davano quasi per scontato. Ma fin dall’inizio qualche problemino era evidente. Non c’è mai stato un solo impeachment andato in porto, non uno in due secoli. Non solo perché ci vuole una maggioranza di due terzi al Senato, ma anche perché i reati da interdizione di un presidente sono pochi e difficili da dimostrare. «Collusione» con una potenza straniera, è uno di questi, appunto. Ma bisogna ricordarsi il clima del 2016: Putin odiava Hillary Clinton ma come tutti anche lui non pensava che avrebbe perso. Né Trump credeva di vincere. Immaginarlo mentre a tavolino negozia con Putin («tu mi fai vincere, io ti do questo e quello») è fantapolitica scadente. Una vecchia volpe della politica come Nancy Pelosi, la presidente della Camera e la più alta carica del partito democratico, lo disse fin dall’inizio: non voglio parlare d’impeachment. Se le chance di rielezione di Trump sono leggermente risalite, lo si deve a un’opposizione presuntuosa e autoreferenziale: si è auto-convinta delle favole che si raccontava.

IL GiArDiNO SeGreTO Di NATHALie LOiSeAU «Sono contento, hai preso peso», le ha detto Emmanuel Macron alla fine di un consiglio dei ministri e lei, Nathalie Loiseau, ministro dimissionario per gli Affari europei, ha fatto un sorriso di circostanza: non suonava benissimo, in effetti, quella frase. Ma era un complimento, il presidente francese faceva riferimento al peso politico, non ad altro: la Loiseau si è dimessa dal suo dicastero per iniziare la sua avventura come capolista del partito République en Marche alle elezioni europee del 26 maggio prossimo. Ha preso peso, insomma, influenza, potere, questa signora di 54 anni, precisa e a volte «soporifera», come dice qualcuno malizioso: la competenza sa di sonno in questa nostra stagione in cui ogni cosa è capovolta. In realtà in questi giorni la Loiseau è stata molto citata per un aneddoto che rivela molto più spirito di quanto le riconoscano: ha chiamato il suo gatto Brexit, «mi sveglia miagolando ininterrottamente perché vuole uscire. Quando apro la porta resta lì, nel mezzo, indeciso, e quando poi lo metto fuori mi fa lo sguardo della morte». L’indecisione è ormai dominante per gli inglesi, la Loiseau invece vuole chiarezza e determinazione: la battaglia, la sua battaglia, è quella contro i populismi e i sovranismi, in versione rinascimentale, come direbbe Macron, con un occhio non soltanto alla battaglia in corso ma anche a quello che vuole essere, diventare, questa nostra Europa. Si è a lungo parlato in passato della possibilità di un ingresso del partito presidenziale francese nell’Alde, il gruppo che al Parlamento europeo raccoglie i partiti liberaldemocratici dell’Ue: non se n’è fatto nulla, per molte ragioni che hanno a che fare con le persone (ci si scontra sempre un po’, in queste faccende di liste elettorali) e anche con le strategie. Meglio unirsi prima del voto o fare squadra dopo? In generale – vale per tutti, non soltanto per i liberali – per ora si è scelto di non fare troppe alleanze pre-elettorali, «si va divisi e si colpisce uniti», come dice Emma Bonino, ex commissaria europea oggi candidata tra le teste di punta dell’Alde. La Loiseau, struccata e decisa, guida i marcheurs francesi, dall’alto di una carriera diplomatica che l’ha portata in giro per il mondo, cresciuta all’ombra di Alain Juppé, ex gollista affascinato dalla macronia, ed ex direttrice dell’Ena, la scuola di formazione dell’élite di Francia. Il suo slogan mette insieme le parole chiave della politica francese di questo momento: vogliamo un’Europa «rispettata» e «che protegge», dice, aggiungendo che ci vuole anche un’attenzione «sociale» e rivendicando la sua storia da cattolica moderata. L’obiettivo primo è sconfiggere il Rassemblement national, ex Front national, di Marine Le Pen, assieme a tutte le derive troppo nere e troppo rosse che in tutta Europa sognano di mettere in difficoltà i processi europei, generando quella frammentazione che è lo spettro vero dell’Ue. La Loiseau ha anche una particolare sensibilità sulla costruzione del popolo europeo, fin da quando è piccolo. Mobilitare il voto giovanile sì, ma soprattutto creare consapevolezza e memoria, ricordarsi da dove veniamo e perché senza l’Ue saremmo tutti completamente diversi (meno pacifici, meno ricchi anche). A metà aprile esce il suo libro, L’Europe en BD (BD sta per «bande dessinée», fumetto) un manuale a fumetti su quanto è utile il progetto europeo: si è fatta fotografare mentre corregge le bozze del libro insieme a uno dei suoi quattro figli: lo chiamano il «giardino segreto» della Loiseau, questo piccolo spazio educativo, ma è un posto in cui dovremmo entrare tutti.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 1. aprile 2019 • N. 14

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Politica e Economia

L’Aja condanna Karadzic all’ergastolo

Stallo senza fine Venezuela Maduro si difende

con la propaganda mentre militari disertori denunciano di essere stati abbandonati Ex Jugoslavia Il leader serbo-bosniaco era stato condannato in primo dal governo colombiano e da Juan Guaidó grado nel 2016 a 40 anni di reclusione per genocidio e crimini contro l’umanità durante l’assedio di Sarajevo e il massacro di Srebrenica Angela Nocioni

Alfredo Venturi Voleva sbarazzarsi dalla condanna a quarant’anni di carcere per genocidio e crimini contro l’umanità che aveva rimediato in primo grado, per questo Radovan Karadzic aveva fatto ricorso in appello. Ma rispetto a quella dura sentenza i giudici internazionali dell’Aja hanno rincarato la dose: ergastolo. Sul piano strettamente pratico non fa molta differenza: l’uomo che fu a capo dello Stato serbo ritagliato all’interno della Bosnia musulmana ha settantatré anni, e dunque in ogni caso vivrà dietro le sbarre quel che gli resta da vivere. Tuttavia il nuovo verdetto, emesso tre anni dopo la sentenza di primo grado, ha un grande significato storico e politico. Non a caso è stato salutato con gratitudine e commozione dalle «madri di Srebrenica», le donne che videro i loro figli, i padri e i mariti trucidati a migliaia quei terribili giorni dell’estate 1995, quando nella piccola enclave musulmana incastonata nella parte orientale della Bosnia la guerra che divampava ormai da tre anni conobbe il suo culmine più atroce. Fu anche un colpo durissimo al ruolo e all’immagine delle Nazioni Unite, che avevano dichiarato Srebrenica «zona di sicurezza». C’erano infatti sul posto i caschi blu dell’Onu, un contingente di 450 soldati olandesi, incaricati di proteggere la minoranza assediata. Ma quando arrivarono le milizie del generale Ratko Mladic, rafforzate da un reparto paramilitare dei cosiddetti Scorpioni, le truppe internazionali si ritirarono, e così gli uomini di Mladic poterono entrare nella cittadina e impadronirsi dei suoi abitanti. Come è risultato al processo, Karadzic aveva ordinato di «portare i prigionieri da qualche parte». Le truppe serbe presero gli abitanti di sesso maschile, più di ottomila persone fra i dodici e i settantasette anni di età, li condussero nei boschi circostanti e li sterminarono tutti. La pratica mostruosa della pulizia etnica conobbe in quei giorni di luglio il suo culmine, non si era mai visto niente di simile dopo le camere a gas e i forni crematori dei Lager nazisti. Naufragò miseramente l’illusione che dopo Auschwitz nulla del genere potesse più accadere nella vecchia Europa. A Potocari nei pressi di Srebrenica, dove sul luogo della carneficina è stato allestito un cimiteromemoriale, le donne che quel giorno furono lasciate sole a piangere i loro uomini hanno salutato abbracciandosi in lacrime la nuova sentenza dell’Aja. Ci sono state anche reazioni di tutt’altra natura. È un verdetto «cinico e arrogante», sostiene il capo della comunità serbo-bosniaca Milorad Dodik. Il tribunale dell’Aja fu istituito dalle Nazioni Unite per perseguire i crimini commessi durante le convulsioni che hanno segnato il collasso della Jugoslavia: ebbene, secondo l’opinione prevalente a Belgrado applica una giustizia selettiva. Analoghi accenti a Mosca, sul filo di una tradizione che affonda la sua antica radice nella comune fede ortodossa: la Russia protettrice dei correligionari serbi. La valutazione critica si riferisce al fatto che la giustizia internazionale, regolando i conti dopo il conflitto, ha colpito soltanto la parte serba. Il rilievo non è del tutto campato in aria, perché anche gli altri attori di quel dramma, musulmani e croati, si resero responsabili di soprusi e atrocità. Ma nulla di simile al massacro di Srebrenica né al tragico assedio di Sarajevo, la capitale circondata per più di tre anni dalle milizie serbe dove i bombar-

Karadzic nell’aula del tribunale olandese lo scorso mese di marzo. (AFP)

damenti e l’implacabile tiro dei cecchini diretto contro chiunque si mostrasse alla vista uccisero diecimila persone. Nel rendere pubblica la sentenza di appello il presidente della corte ha precisato che Karadzic è stato condannato anche per l’assedio di Sarajevo oltre che per i fatti di Srebrenica e per molte altre violazioni del diritto. In tutto sono undici i capi d’imputazione che la corte d’appello ha riconosciuto fondati, fra i quali due per genocidio e cinque per crimini contro l’umanità. Per alcuni altri episodi denunciati dall’accusa la corte ha invece accertato la mancanza di prove che possano farne risalire la responsabilità a Karadzic. Ce n’era comunque abbastanza per arrivare alla conclusione che la condanna di primo grado, sia pur pesantissima, era del tutto inadeguata rispetto alla straordinaria gravità dei fatti accertati. Le colpe di colui che fu l’indiscusso detentore del potere politico nella Repubblica serba di Bosnia non sono certamente inferiori a quelle dello spietato comandante militare, il generale Mladic, anche lui catturato dopo una lunga latitanza e condannato all’ergastolo dai giudici dell’Aja. Karadzic ha ascoltato impassibile la sentenza, più tardi il suo difensore Goran Petronjevic ha riferito la sua prima reazione: tutto questo, ha detto, «non ha alcun legame con la giustizia». L’avvocato non esclude la possibilità di richiedere una revisione del processo, sulla base di elementi che a suo dire non sono ancora stati presi in considerazione: ma la prospettiva appare improbabile, e il verdetto definitivo. Si chiude così la vicenda dell’uomo che nei primi anni Novanta, durate l’implosione della Jugoslavia, si propose alla ribalta di quella cruenta attualità con un’immagine paradossalmente sfaccettata. Era uno psichiatra e un poeta, suonava volentieri la balcanica gusla, un rustico violino monocorde, e si dilettava a comporre canzoni popolari. Alla fine degli anni Ottanta era stato fra i fondatori del Partito democratico serbo. Più tardi, quando i serbi boicottarono il referendum per l’indipendenza della Bosnia-Herzegovina, fu al vertice della nuova autoproclamata entità statale che sognava di allargarsi a tutte le parti del territorio bosniaco in cui vivevano minoranze serbe. Karadzic godeva dell’appoggio politico e militare di Slobodan Milosevic, presidente prima della Serbia e successivamente, in seguito alla disgregazione jugoslava, della Repubblica federale composta da Serbia e Montenegro. Anche Milosevic finirà sotto processo all’Aja per crimini di guerra e genocidio, ma morirà prima

che venisse pronunciata la sentenza. Divampata per quasi quattro anni, la guerra provocò la morte di oltre centomila persone. In quei lunghi anni Karadzic compariva spesso davanti alle telecamere a Pale, una piccola città sulle colline di Sarajevo che fungeva da capitale provvisoria del suo Stato, e difendeva il diritto della sua gente a ritagliarsi la propria autonomia. Ma preferiva sorvolare quando gli chiedevano con quali mezzi quel diritto venisse perseguito. Il confronto armato durerà fino al dicembre del 1995, quando la pace faticosamente elaborata a Dayton sotto l’egida del presidente americano Bill Clinton e sottoscritta a Parigi, chiuderà finalmente la parentesi bellica. L’accordo cerca di conciliare ciò che a lungo è apparso inconciliabile. La regione diviene uno Stato federale costituito dalla Federazione di BosniaHerzegovina (che comprende croati e musulmani), e dalla Repubblica serba di Bosnia, rispettivamente con il 51 e il 49 per cento del territorio. Poiché la distribuzione etnica è quanto mai frammentata, il trattato prevede libertà di movimento per chiunque voglia trasferirsi altrove e meccanismi di tutela delle minoranze, oltre a un sistema di presidenze a rotazione dell’organo collegiale collocato al vertice dell’assetto istituzionale. Karadzic non è fra i partecipanti al negoziato di Dayton, è Milosevic a rappresentare i serbo-bosniaci. Più tardi sparisce dalla circolazione, perché la comunità internazionale intende giudicare lui e gli altri responsabili delle atrocità commesse durante la lunga guerra civile. Inseguito da un mandato di cattura, con l’aiuto di personaggi di alto livello politico si rifugia nell’amica Belgrado. Cerca di scomparire nel nulla: si fa crescere una barba da santone e cambia nome, diventa Dragan David Dabic e si guadagna da vivere praticando una specie di medicina alternativa. Lavora presso due ospedali privati della capitale serba, pare che abbia ideato e applicato con successo un metodo di cura della sterilità maschile. Nascosto dietro la sua lunga barba bianca vive modestamente, appare addirittura male in arnese, frequenta un locale in cui passa il tempo giocando a scacchi davanti a una grande fotografia che ritrae proprio lui, l’eroe nazionale Radovan Karadzic. Ma non tutti cedono al fascino della leggenda, qualcuno lo riconosce e lo denuncia, nel 2008 lo arrestano e lo portano all’Aja. Ora gli tocca di affrontare, dopo quella armata, la guerra giudiziaria: che non gli lascerà scampo e lo porterà all’ergastolo.

Senza acqua, senza benzina, senza energia elettrica. La routine del Venezuela è ormai da tempo un’emergenza senza fine, un girovagare di singole persone alla ricerca dei servizi basilari funzionanti, difficili da trovare perché quasi tutti sospesi per assenza di elettricità. Scuole chiuse, trasporti paralizzati. Massima allerta negli ospedali, impossibilitati a dare assistenza in assenza di acqua e luce. I malati cronici migrano da una clinica all’altra sentendosi rispondere sempre «scusate, non abbiamo le condizioni minime per accogliervi». Questa settimana Caracas è tornata al buio. Il black out riguarda la maggioranza degli Stati del Venezuela. Difficoltà anche nelle comunicazioni: non funziona internet, non si possono ricaricare le batterie dei telefoni. Il regime di Nicolás Maduro nega il collasso del sistema e si difende con la propaganda. «Il black out è stato causato da gruppi di delinquenti al servizio della destra» dice il ministro delle comunicazioni Jorge Rodríguez. Gli risponde una serie di tecnici del settore elettrico, quelli rimasti, quelli che non sono ancora espatriati. Sostengono che la ragione dei frequenti blackout dipenda dall’assenza di mantenimento degli impianti, da incuria e dal sovraccarico di alcune centrali che per questo prendono fuoco, incendiate non da malintenzionati ma da un carico di lavoro che non sono in grado di sostenere. «Quel che sta succendendo non è prodotto da sabotaggio» dice Alexis Rodríguez, dirigente della federazione nazionale dei lavoratori del sistema elettrico. Fetraelec. «I trasformatori hanno una durata di vita, non sono eterni e non sono stati cambiati in tempo». A Caracas c’è di nuovo una processione constante di persone che sale lungo le pendici del Aquìla, la montagna che domina la capitale dall’alto, per andare a rifornirsi di acqua con le taniche in cima al monte. Dagli Stati periferici arrivano notizie di continui assalti, di ondate di saccheggi propiziati dall’oscurità. Si teme che possano nei prossimi giorni ripetersi gli episodi successi a Maracaibo durante il lungo black out iniziato il 7 marzo, il primo di questa serie. Lì gruppi di persone hanno assaltato non solo negozi, ma interi alberghi, devasatandoli. «Sembra che un aspiratore umano sia passato per queste stanze – ha raccontato un testimone – stucchi, specchi, pannelli di compensato, hanno portato via tutto. Non è stato un assalto per fame, è stato un saccheggio per sfregio». Mentre da Mosca il governo Putin ammette che militari russi sono stati inviati a Caracas, come rivelato giorni fa da un giornalista venezuelano che aveva rilevato strani movimenti attor-

no a due aerei russi atterrati all’aeroporto internazionale di Maquetìa, dalla Colombia arriva la denuncia dei militari venezuelani abbandonati a se stessi oltre frontiera. Musica per le orecchie di Maduro, che infatti fa rilanciare in continuazione in televisione la notizia usandola come arma di dissuasione e di propaganda. Almeno un centinaio di militari venezuelani lo scorso 23 febbraio, nel mezzo della grande kermesse avvenuta sul lato colombiano della frontiera con il Venezuela per accompagnare l’entrata di camion con cibo e medicine inviate dagli Stati Uniti (operazione non riuscita, impedita da regime che l’ha considerata un’operazione ostile), hanno risposto all’invito dell’autoproclamatosi presidente ad interim Juan Guaidò ad abbandonare Maduro e a schierarsi con l’opposizione. Salutati come esempi di coraggio, nell’arco di 24 ore questi militari hanno ricevuto il plauso di mezzo mondo e sono stati ringraziati da almeno tre presidenti della repubblica stranieri. Si aspettavano chissà cosa in cambio del loro gesto. Ora schiumano rabbia perché, passato più di un mese da allora, si ritrovano sbattuti fuori dagli ostelli colombiani in cui erano stati ospitati come primo alloggio e non sanno dove sbattere la testa. Si lamentano perché, dicono, l’Acnur, l’organizzazione delle Nazioni Unite che si occupa di rifugiati, avrebbe messo in mano a ciascuno di loro cento dollari, una mappa della Colombia e l’invito a rimboccarsi le maniche e a mantenersi da soli in attesa che le pratiche per il riconoscimento del loro status di profughi siano smaltite. Sono oltre tre milioni i venezuelani scappati oltre frontiera. Un milione duecentomila dei quali in attesa di asilio in Colombia. È inevitabile che i tempi siano lunghi. I militari disertori dicono d’essere stati illusi, hanno problemi pratici davvero grandi perché la base dell’esercito venezuelano è di origine molto umile, nessuno di loro ha i soldi da parte per mantenersi in attesa di un lavoro. D’altra parte la situazione è difficilmente risolvibile, dar loro la precedenza rispetto a civili in attesa da mesi sarebbe impensabile. Guaidò continua a formulare costanti appelli alle forze armate perché abbandonino il regime. Una rottura nel sostegno militare che tiene in piedi Maduro è necessaria all’opposizione per uscire dalla pericolosissima fase di stallo nella quale è entrata dopo i primi giorni di effervescenza seguiti alla mossa a sorpresa dell’autoproclamazione alla presidenza ad interim del presidente del Parlamento. Le laconiche dichiarazioni dei soldati disertori, opportunamente trasmesse con ossessiva ripetizione da tutte le tv del regime, piovono ora come pietre sugli appelli di Guaidò.

Soldato dell’esercito venezuelano viene scortato da un militare in Colombia. (AFP)


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 1. aprile 2019 • N. 14

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Politica e Economia

L’Aquila, le ferite restano aperte Fotoreportage Il 6 aprile si commemorano le vittime del terribile terremoto che dieci anni fa

sconvolse l’Abruzzo e dal quale non si è ancora ripreso Luigi Baldelli 6 aprile 2009, ore 3.32, 6,3 della scala Richter. Sono passati ormai 10 anni dal tremendo terremoto che ha colpito l’Aquila e i paesi intorno causando 309 morti. Oggi, in città, ci sono ancora molti cantieri aperti. Nella zona rossa, il centro storico della città, quella che è stata la parte più colpita del capoluogo, molti palazzi sono stati ricostruiti più belli di prima, ma tanti ancora hanno le impalcature

Il sisma oltre alla distruzione fisica dei palazzi ha portato a una vera disgregazione del tessuto sociale e lavori in corso, mentre altri mostrano ancora le loro ferite. Sono solo puntellati per evitare che possano crollare, i portoni sbarrati da catene, le finestre rotte o chiuse da tavole, buchi nel muro che permettono di intravvedere l’interno. Per questi, il tempo, non sembra proprio passato. Alzando lo sguardo si vedono terrazzi e balconi con ancora gli oggetti abbandonati 10 anni fa: un passeggino, vestiti, una vecchia bicicletta. Camminando per i vicoli vuoti del centro, si sente solo il rumore dei martelli pneumatici e delle gru, si respira polvere e odore di muffa. «I ricordi che ho della mia città erano l’odore del pane e il colore rosa», mi dice Barbara, che lotta per far rinascere la sua città da subito dopo il sisma. «Il centro storico, la piazza del Duomo – continua Barbara – era il cuore di questa città. La vita scorreva lungo queste strade e piazze, gli anziani sedevano intorno alle fontane della piazza, i bambini giocavano nei vicoli e potevi vedere negozi di abbigliamento accanto a quelli degli artigiani. Gli studenti universitari riempivano di voci e risate le strade. Adesso non c’è più niente». Dopo 10 anni, di giorno, si incontrano solo operai, che per la

maggior parte vivono qui dal lunedì al venerdì. Alcuni bar il pomeriggio chiudono alle 5 quando gli operai vanno via. Ed il rischio è che quando tutto sarà ricostruito, il centro dell’Aquila sarà una bella bomboniera, però vuota. Perché gli aquilani non stanno tornando a vivere nelle case ricostruite del centro della città. È quello che mi dice anche Maria, che ha aperto una pizzeria proprio dietro al Duomo: «Gli Aquilani non tornano a vivere qui in centro perché non ci sono servizi, non trovi un negozio di alimentari, una farmacia, non ci sono le scuole, niente. Per comprare qualcosa devi prendere l’auto e andare fuori, in periferia. Speriamo in futuro, che qualcosa cambi». La piazza della Fontana Luminosa è uno dei pochi posti con un po’ di vita, trovi l’edicola, la farmacia e i pub, dove la sera si ritrovano gli studenti. Ma camminando da questa piazza verso il Duomo, lungo il Corso Vittorio Emanuele, con i portici ancora chiusi, aumenta il senso di solitudine. «Dopo il terremoto c’è stato una forte voglia di aggregazione e solidarietà – continua ancora Barbara – ma adesso, dopo 10 anni, tutti sono più egoisti e hanno abbandonato la città: gli aquilani sono stanchi». Indicando davanti a noi, mi fa notare che accanto ai palazzi storici ricostruiti ci sono ancora macerie, palazzi abbandonati e da ricostruire, strade chiuse. Sembra una trappola per topi. Il terremoto oltre alla distruzione delle case ha portato anche alla disgregazione sociale. Si sono perse amicizie, perché molti sono stati costretti ad andare ad abitare lungo la costa, a cambiare il luogo di lavoro, e quindi i luoghi d’incontro. Qui non ci sono realtà produttive. Voci non confermate dicono che prima del terremoto a L’Aquila vivevano 75mila persone, mentre oggi sono circa 48mila. All’ora di pranzo la Piazza del Duomo si riempie di operai con tute da lavoro sporche di calcinacci. Bisogna aspettare la sera, per incontrare gli aquilani, nei vicoli intorno alla Fontana Luminosa. Oppure andare in periferia, dove il terremoto

L’Aquila 10 anni dopo: l’intera galleria fotografica può essere visitata sul nostro sito online. (Luigi Baldelli)

ha causato meno danni e i palazzi sono stati ricostruiti secondo le nuove leggi antisismiche. «A me non piace – racconta Paolo, un infermiere di 40 anni – è diventato un posto asettico, non mi sembra la vera città dell’Aquila. Il motto di noi aquilani, subito dopo il sisma era: dove era e come era. Cioè ricostruire tutto come prima di quella tragica notte del 6 aprile. Ma ci vorrà ancora molto tempo». Passando sopra al ponte del Belvedere, ancora chiuso, si può guardare, lì sotto, la città, un immenso cantiere, con le sue numerose gru mobili che ne segnano il profilo. E sembra di respirare e sentire addosso un senso di ineluttabile impotenza di cui non si riesce a percepire la fine e una crisi

che esaurisce le speranze di chi vuole rialzare la testa. Uscendo dalla città, si possono vedere i nuovi palazzi moderni ricostruiti e più fuori ancora si incontrano quelle che furono chiamate le «new town», le «casette», costruite subito dopo il terremoto. Palazzine antisismiche a tre piani o bungalow in cui alloggiavano gli sfollati prima dell’arrivo dell’inverno. Posti tranquilli dove ad oggi vivono circa 10mila persone che hanno scelto di aspettare a tornare nella città cantiere. Decido di arrivare fino a Tempera e Onna, due paesi simbolo del terremoto. Tempera è un piccolo paese con ancora l’intero centro storico distrutto «e qui va tutto a rilento, chissà quando

potremmo tornare a calpestare le nostre strade», mi dice un anziano seduto su una panchina mentre fissa il fiume Vera. Mentre Onna, piccolo paese di circa 350 anime, raso al suolo per più dell’80% e dove ci furono 41 morti per la violenta scossa, anche se in parte ricostruito, sembra la scenografia abbandonata di un film: le facciate nuove delle case accanto alle macerie, ma nessuno per la strada. Rientro a L’Aquila e intorno alla Chiesa di San Bernardino incrocio di nuovo solo operai che vanno via, hanno finito la giornata di lavoro. Resta il deserto. L’Aquila è ancora più vuota, quasi spettrale, in attesa di una rinascita che non si sa se arriverà. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia

L’onda verde travolge Zurigo

Elezioni cantonali 24 marzo A sorpresa Verdi e Verdi liberali conquistano ognuno 9 seggi in più e i primi entrano

in governo con Martin Neukom – Il blocco borghese UDC-PLR-PPD perde la maggioranza in parlamento

Marzio Rigonalli Le elezioni cantonali zurighesi del 24 marzo hanno dato una scossa al quadro politico di quel cantone ed anche al contesto politico nazionale. Siamo a sette mesi dalle elezioni federali. Zurigo è il cantone più popoloso e, tradizionalmente, i suoi risultati elettorali rappresentano l’ultimo importante test regionale e nello stesso tempo una sorta di barometro di quello che potrebbe essere l’esito della prossima consultazione nazionale.

Clima e ambiente sono stati i temi dominanti della campagna. Ora Verdi e Verdi liberali hanno 45 seggi su 180 Ricordiamo brevemente i principali dati del voto zurighese. Due partiti sono emersi vincitori in modo sorprendente e schiacciante: i verdi liberali ed i verdi. I primi hanno aumentato di 9 seggi la loro presenza nel parlamento cantonale (portandola a 23); i secondi hanno ottenuto lo stesso successo numerico (raggiungendo 22 seggi) e sono riusciti anche ad entrare nel governo cantonale con l’elezione del loro candidato, Martin Neukom, un ingegnere di 32 anni, specializzato nell’energia solare. Il fronte degli sconfitti è più numeroso. I primi due posti sono occupati dalla destra tradizionale, ossia dall’UDC e dal PLR. L’UDC rimane il partito più forte (45 deputati, ma ha perso ben 9 seggi. Conferma il trend negativo che aveva registrato nelle elezioni comunali nella primavera del 2018. Il PLR ha perso uno dei due seggi che deteneva in governo, con la non elezione di Thomas Vogel, e due seggi nel parlamento. La tendenza negativa vien illustrata anche dal fatto che

questo partito fino ad oggi aveva sempre avuto almeno due rappresentanti nell’esecutivo, nonché dalla non rielezione in parlamento del suo presidente cantonale, Jakob Boesch. Dietro alle due principali formazioni di destra, conviene citare anche l’indebolimento che ha registrato il centro, con il PPD che ha perso un seggio e con il PBD che ha perso tutti i suoi cinque seggi, perché non è riuscito a raggiungere la quota del 5% in nemmeno un circolo elettorale. Infine, anche il PS ha perso un seggio in parlamento, ma può consolarsi con la rielezione dei suoi due rappresentanti in governo, Mario Fehr e Jacqueline Fehr, con i due migliori risultati. Il successo dei verdi è riconducibile ad una ampia fetta di elettorato che ha preso coscienza dei problemi che stanno ponendo, e che porranno in un futuro molto ravvicinato, i cambiamenti climatici e l’erosione dell’ambiente. Una presa di coscienza che si è tradotta in manifestazioni e marce per chiedere ai politici una risposta alle sfide ambientali e che, nelle urne, ha dato spazio a quelle forze politiche che sembrano maggiormente in grado di affrontare le nuove sfide. Un «effetto Greta», che ha visto scendere in molte piazze del mondo ed in Svizzera centinaia di migliaia di persone, che ha eretto la giovane svedese ad un simbolo della lotta contro i cambiamenti climatici e che ricorda un po’ le conseguenze politiche del disastro nucleare di Fukushima del 2011. Le tematiche legate al clima hanno tolto carburante ad altre tematiche, ritenute pur sempre importanti, come i premi delle casse malati, la buona salute delle assicurazioni sociali, o la lotta contro l’immigrazione clandestina ed il terrorismo. Temi, almeno in parte, cari alla destra. Se adesso proiettiamo lo sguardo verso le elezioni federali del 20 ottobre, forte è la tentazione di affermare che la strada che porterà a Berna sarà tinta di verde. Può darsi che sarà così,

I due neo-eletti nel Consiglio di Stato di Zurigo. Natalie Rickli (UDC) e Martin Neukom (Verdi). (Keystone)

soprattutto se vivremo un’estate torrida. Rimangono però ancora quasi sette mesi, durante i quali possono intervenire nuovi fatti, nuovi cambiamenti, provenienti dall’esterno, dal mondo, o generati dall’azione politica che svolgeranno tutti i partiti. Fatti e cambiamenti che possono modificare la situazione attuale. Lo sguardo verso il futuro, dunque, contiene ancora molte incognite. Lo possiamo comunque tentare, partendo dal voto di Zurigo e tenendo conto anche delle elezioni cantonali che sono avvenute negli ultimi tre anni, nonché dello stato di salute dei partiti riscontrato in questo periodo. L’UDC è il partito che sembra maggiormente in difficoltà. Rimarrà probabilmente il primo partito, ma dovrà far fronte a delle perdite. Nei prossimi mesi porterà con sé l’immagine di un partito perdente non solo a Zurigo, ma anche in quasi tutte le altre elezioni cantonali. Le ultime in data sono state la sconfitta all’elezione complementare nel governo vodese, lo scorso 17 marzo, quando il candidato UDC,

Pascal Dessauges, venne nettamente battuto dalla socialista Rebecca Ruiz, e la caduta di consensi nell’elezione cantonale dell’Appenzello esterno, pure il 17 marzo, con la perdita di 5 dei suoi 12 seggi in parlamento. Negli ultimi tre anni, l’UDC ha perso 27 seggi nei legislativi cantonali. I suoi temi preferiti, l’immigrazione ed i nostri rapporti con l’Unione europea, non fanno, almeno per ora i titoli d’apertura. Sarà dunque difficile invertire la tendenza e poco potrà fare anche Oscar Freysinger, chiamato a dirigere la campagna elettorale dell’UDC in Romandia. Il PLR ha registrato numerosi successi cantonali. Negli ultimi tre anni ha guadagnato ben 33 seggi nei parlamenti cantonali. La sconfitta di Zurigo è giunta inaspettata. La svolta ecologica decisa dalla direzione del partito all’inizio di febbraio non ha portato risultati elettorali e non è sicuro che riuscirà a convincere gli elettori entro il prossimo mese di ottobre. Un eventuale passo avanti del PLR è possibile, ma è poco probabile che riuscirà a compen-

sare le previste perdite dell’UDC. Il centro-destra rischia di perdere la maggioranza di 101 seggi che detiene oggi al Consiglio nazionale grazie anche all’apporto della Lega. Abbastanza problematico appare il futuro del PPD e del PBD. Il primo ha perso ben 31 seggi nelle elezioni cantonali degli ultimi tre anni. I sondaggi lo danno in continuo calo e tallonato ormai dai verdi. L’ultima inchiesta realizzata in febbraio da Tamedia assegnava 9,9% al PPD e 9,6% ai verdi. Il PBD è confrontato con una forte perdita di consensi ed è probabile che riesca a mantenersi soltanto in tre cantoni: Berna, Grigioni e Glarona. Una base probabilmente non sufficiente per poter formare un gruppo parlamentare a Berna. Il successo dovrebbe dunque sorridere ai verdi ed ai verdi liberali. I primi potrebbero togliere un po’ di terreno ai socialisti, ma nel suo insieme la sinistra potrebbe uscire rafforzata. Il sogno del presidente del PS, Christian Levrat, è di infrangere la maggioranza di centrodestra al Nazionale. I verdi liberali potrebbero svolgere con più forza il loro ruolo di sostegno alla destra od alla sinistra, a seconda delle tematiche che vengono affrontate. I possibili scenari sono dunque tanti e, probabilmente, pochi verranno confermati. Nei prossimi mesi vivremo momenti intensi e cambiamenti di rotta analoghi a quelli che abbiamo appena vissuto, con l’UDC che boccia la franchigia variabile dopo averla sostenuta, con il PS che decide un parziale sostegno all’accordo istituzionale con l’UE dopo averlo ampiamente criticato e con il PLR che approva una svolta ecologica dopo aver affossato la legge sul CO2. Sono cambiamenti che le direzioni dei partiti decidono per potersi attirare le simpatie di gruppi di elettori. Toccherà a noi distinguere le promesse elettorali senza futuro dalle intenzioni realistiche che un giorno possono venir applicate.

Perché gli affitti medi aumentano costantemente La consulenza della Banca Migros

Irina Martín è economista presso la Banca Migros

In fondo sono buone notizie per le persone in cerca di abitazione: alla luce del dinamismo dell’edilizia l’offerta di nuovi appartamenti in affitto è fortemente cresciuta. Gli affitti di questi oggetti pubblicati negli annunci (prezzi delle offerte) sono finiti sempre più sotto pressione. Anche se le differenze regionali sono ancora molto accentuate, in caso di trasloco gli inquilini di abitazioni ubicate in luoghi molto apprezzati risentono ben poco della riduzione dei prezzi. A livello nazionale, tuttavia, i canoni offerti sono in calo da tre anni. Nel complesso, ossia tenendo in considerazione tutti gli oggetti esistenti che in parte sono affittati da molto tempo, le abitazioni in affitto diventano comunque sempre più costose: dall’inizio dell’indagine l’indice degli affitti, che riflette i costi medi degli affitti in Svizzera, è costantemente aumentato. Come si spiegano questi andamenti divergenti? Negli ultimi anni sono stati costruiti numerosi nuovi appartamenti con standard edilizi elevati. Nonostante l’aumento delle superfici sfitte e il calo dei prezzi delle offerte, i loro affitti sono ancora nettamente superiori a quelli degli appartamenti non più nuovi. A seconda della regione, la maggiorazione è compresa tra il 10% e l’80%. Un

L’indice dell’offerta e quello degli affitti evolvono in direzioni opposte dal 2015 105

100

95

90

Indice degli affitti Ufficio federale di statistica Indice dei prezzi dell'offerta per gli appartamenti in affitto Wüest Partner, indicizzato al 2015 = 100

85

80

2008

2009

2010

cambio di appartamento può dunque risultare costoso per gli inquilini. Dato che sul mercato vengono continuamente immessi oggetti nuovi (e più costosi), i canoni di affitto medi

2011

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subiscono un rincaro. Tuttavia, non aumenta solo il prezzo, ma anche la qualità dell’oggetto locato medio. Inoltre, nonostante il continuo calo del tasso ipotecario di riferimento, gli

2015

2016

2017

2018

Fonti: Wüest Partner, Ufficio federale di statistica, BNS, Banca Migros

Irina Martín

affitti medi degli oggetti esistenti non hanno subito un calo significativo, poiché i cambi di inquilini e le ristrutturazioni sono stati spesso utilizzati per aumentare gli affitti.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 1. aprile 2019 • N. 14

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Appartamenti in affitto: un mercato poco flessibile In economia, la teoria tradizionale dei prezzi sostiene che i prezzi variano a seconda delle modifiche della domanda e dell’offerta. Così, se l’offerta aumenta e la domanda no, i prezzi dovrebbero diminuire, per consentire al mercato di raggiungere di nuovo una situazione di equilibrio. Se il mercato non è flessibile, e i prezzi non si riducono, ecco che sul mercato si manifesta un’eccedenza di offerta. I lettori di una certa età si ricorderanno ancora le monumentali montagne di burro invendute che, lo scorso secolo, animavano i nostri consiglieri nazionali a formulare interrogazioni e mozioni da una legislatura all’altra per implorare un aiuto finanziario dallo Stato. Le montagne in questione erano dovute alla poca, per non dire nessuna, flessibilità dei prezzi sul mercato del burro. Un altro mercato nel quale i

prezzi sono abbastanza rigidi di fronte a eccedenze di domanda è quello degli appartamenti in affitto. Questo è almeno quanto possiamo osservare attualmente in Ticino. Da anni la domanda di appartamenti in affitto sul mercato delle abitazioni ticinese è in diminuzione. Questa diminuzione è dovuta a diversi fattori, in particolare al colpo di freno subito dalla crescita della popolazione nel corso degli ultimi anni e alle misure di contenimento delle residenze secondarie. L’esistenza di un’eccedenza di offerta in materia di appartamenti si rileva abbastanza facilmente, nel caso ticinese. Per far questo sarà sufficiente confrontare, per il periodo 2010-2017, l’aumento percentuale del parco di abitazioni (9,6%) con l’aumento percentuale della popolazione residente (6,2%). Pur tenendo conto che sul mercato ticinese delle

abitazioni si riversa anche una domanda supplementare costituita dalle persone che vorrebbero comperarsi una residenza secondaria, la sproporzione tra l’aumento del parco di abitazioni e l’aumento della popolazione residente è tale da far pensare che, nel corso degli ultimi anni, si sia accumulata un’importante eccedenza di offerta. La presenza di questa eccedenza ha naturalmente determinato un aumento delle abitazioni vuote. Tenendo conto solo delle abitazioni con 3 e con 4 locali, che sono quelle maggiormente ricercate, ci accorgiamo che il numero degli sfitti, sempre dal 2010 al 2017, si è più che raddoppiato, aumentando da 917 a 2044. In termini di rapporto tra offerta e domanda la situazione esistente da qualche anno sul mercato ticinese delle abitazioni è di quelle che dovrebbero determinare, se il mercato funzionasse

in modo perfetto, una diminuzione dei prezzi delle case e degli affitti. Sappiamo però che sul mercato delle abitazioni i prezzi tardano a convergere verso il basso. Di fatto, specie quando i tassi ipotecari sono bassi, possono passare diversi anni, con un contingente di abitazioni vuote sempre in aumento, prima che si verifichi una riduzione significativa dei prezzi delle case e degli affitti. Constatiamo così che, dal 2010 al 2017, nonostante l’eccedenza di offerta, l’affitto medio per un 3 locali in Ticino è cresciuto ancora del 2,3%, mentre nel caso del 4 locali non vi è stato praticamente nessuna variazione. In parte, però, questa viscosità del mercato delle abitazioni è un artefatto statistico dovuta al fatto che – in Svizzera – per varie ragioni che sarebbe troppo lungo voler elencare in questo articolo, l’offerta di abitazioni è costituita pra-

ticamente solo dalle abitazioni nuove, appena terminate, mentre quando si parla dell’equilibrio del mercato vengono citati i dati relativi all’intero parco di abitazioni, indipendentemente dalla loro data di costruzione. Se, invece di tutto il mercato, consideriamo solo la fetta relativa alle nuove abitazioni troviamo una situazione differente. Dal 2010 al 2017, per il tre locali non si è verificato nessun aumento dell’affitto, mentre per il 4 locali l’affitto si è ridotto del 3,2%. Non sarà molto, ma queste variazioni di prezzo indicano che, limitatamente almeno al mercato degli appartamenti disponibili, ossia quelli di recente costruzione, di fronte al continuo accumulo di offerta, il meccanismo dei prezzi ha cominciato a funzionare in modo da consentire un lento riequilibrio del mercato.

30% la notte del 26 maggio. Ma chi è veramente questo personaggio che sta prendendo in mano il Paese? A me Salvini pare un arcitaliano, per citare una definizione cara a un grande giornalista, Giorgio Bocca. Che ebbe un iniziale interesse per Umberto Bossi (più che il celebre «grazie barbari», mi piace ricordate l’incipit della sua intervista al Senatur: «Umberto, è vero che nei primi anni ti facevi i tuoi centomila chilometri l’anno in auto?». «Anche i centocinquanta, i duecento»). Ma Bossi piaceva a Bocca (che su di lui avrebbe poi cambiato giudizio) in quanto nordista, e probabilmente non avrebbe apprezzato la svolta nazionale della nuova Lega. Salvini rappresenta una nuova forma di arcitaliano, adeguata al tempo della rete. Mi colpisce come sappia dialogare facendo leva sul narcisismo altrui: «Il mio Santo Stefano comincia con pane e nutella, e il vostro?». E i follower gli rispondono, convinti che stia veramente parlando con ognuno di loro: «Io invece mangio i pan di stelle…». Abile con le parole, capace di fiutare l’aria,

non esita a spararle grosse. Dieci anni fa ero con lui in tv quando propose di introdurre i vagoni della metro a Milano per soli bianchi. Feci una tirata sulla mia eroina, Rosa Parks, la cameriera di colore che rifiuta di alzarsi per cedere il posto agli uomini bianchi. Non avevo capito che Salvini parlava per celia, per propaganda, mica sul serio. E forse, più che di apartheid e Rosa Parks, stavamo discutendo anche noi di nutella e pan di stelle. Ma cosa farà Salvini del grande consenso di cui dispone? Quale sarà la sua strategia nei prossimi mesi? Se dipendesse da lui, continuerebbe a governare con Di Maio. Impone i propri temi alla discussione pubblica, porta via voti all’alleato, insomma sta vincendo la partita; perché dovrebbe cambiare lo schema di gioco? Purtroppo per Salvini – e più ancora per gli italiani –, le condizioni del Paese sono drammatiche. Dopo una fase di debole ripresa, si è ripiombati a crescita zero, con un netto calo della produzione industriale. Questo significa che pure il Nord si è fermato, e che gli investitori

esteri sono più prudenti che mai. In queste condizioni, la prossima legge di bilancio rischia davvero di essere durissima, e stavolta non basteranno le doti di Azzeccagarbugli del premier per trovare un escamotage giuridico; serviranno tagli veri, entrate vere. Mi pare molto difficile che questo governo sia in grado di scrivere una seconda legge di bilancio, dopo quella discutibilissima del 2018. È possibile che l’amaro compito sia lasciato a un governo tecnico, tenuto in piedi dalle astensioni; ma sarebbe un sentiero molto stretto. È possibile che si torni a votare presto. Altrimenti Salvini e Di Maio dovrebbero rinunciare alla propaganda e tentare una manovra economica coraggiosa, basata sugli investimenti e quindi sulla crescita, da concordare con una Commissione europea che guardasse l’Italia con un occhio diverso. Ma quest’ultima prospettiva sembra per ora più un sogno che una chance concreta. Insomma Salvini è chiamato a capitalizzare il consenso. Tenendo a mente che i cicli politici sono sempre più brevi. La parabola di Renzi insegna.

za di ognuno al fine di correggere o mutare lo stile di vita: meno viaggi inutili, meno sprechi, meno imballaggi; no all’economia dello scialo e sì all’economia circolare basata sul riciclaggio. I prossimi mesi ci diranno se questi movimenti metteranno radici o si risolveranno in un fuoco di paglia. Spesso, negli anni post ’68, tanti militanti seriamente intenzionati a cambiare il mondo hanno poi indossato il completo grigio dei notai e dei banchieri. E veniamo alla campagna elettorale che si avvia alla conclusione. È stata definita «piatta» e «fredda», priva di passioni, di slanci, di originalità. Non c’è da stupirsi. Sono i sentimenti e gli umori che imbevono il nostro tempo dopo il crollo delle grandi narrazioni ideologiche che miravano, appunto, a ribaltare l’ordine esistente. Ora gli obiettivi sono più circoscritti e anche più vaghi. Si ha come l’impressione che le questioni che più angustiano la cittadinanza – sanità, scuola, traffico,

remunerazione del lavoro – non siano risolvibili con semplici slogan o con ricette cantonalistiche, come se il Ticino vivesse in un regime di semi-autarchia e non dovesse fare i conti con i suoi più potenti vicini. Si intuisce che il quadro è mutato, che Berna e Bruxelles hanno col tempo guadagnato terreno e intaccato, restringendolo, il raggio d’azione dei poteri locali. Un’ultima osservazione: questa è anche la prima campagna senza il «Giornale del Popolo», quotidiano indipendente dai partiti ma non insensibile all’affermazione dei valori cristiani. Il GdP è stato a lungo il giornale più diffuso nelle valli, strumento nelle mani della Diocesi e dunque delle parrocchie. Ovvio quindi che finisse per appoggiare il partito che esibiva negli statuti e nei programmi i princìpi della Chiesa, il fattore «C», fondamento e faro del Partito cattolico-conservatore, oggi Ppd. Ora questo «endorsement» (va precisato: non sempre accordato

senza turarsi il naso, soprattutto dopo la lunga direzione di don Leber) è venuto meno. La flessione demografica delle valli, la mobilità, la secolarizzazione della società, la crisi della stampa hanno sottratto al Ppd una preziosa gruccia. Quello dell’informazione è un assillo costante per gli attori politici. La scomparsa delle testate di partito ha innescato un cortocircuito che ha provocato una generale afonia. I settimanali o i mensili politicamente schierati raggiungono solo gli iscritti, oltre questo perimetro non vanno. Le reti sociali non danno garanzie, e in ogni caso non mietono i consensi che la retorica sulle nuove tecnologie assicura (sovente trasmettono solo insulti). Speriamo che l’impoverimento della stampa (ormai ridotta al duopolio «Corriere del Ticino»-«La Regione», ovvero centro-destra – centro-sinistra) non incrementi la platea, già abbastanza folta, degli astensionisti.

In&outlet di Aldo Cazzullo Salvini, l’arcitaliano Gli italiani si sono innamorati di Matteo Salvini (nella foto). Al Sud il suo partito è passato da 0 voti a quote attorno al 20 per cento: i dati delle elezioni regionali sottostimano la Lega,

visto che il voto si frammenta tra liste personali e locali che alle Europee non ci saranno. Tutto lascia credere che la nuova Lega nazionalista e non più nordista sarà nettamente sopra il

Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti Venti globali nel voto locale L’otto aprile sapremo se la ripresa delle manifestazioni per la tutela del clima avrà premiato i Verdi e, più in generale, i candidati che hanno inserito nella loro agenda le questioni ambientali. In passato questo rimbalzo c’è stato. Nel 1986, l’anno nero della catastrofe di Chernobyl e del rogo di Schweizerhalle, tutto il paese ebbe un sussulto. Si ritenne che fosse giunto il momento di avviare l’abbandono dell’energia nucleare per puntare sulle rinnovabili; parecchi governi misero a punto programmi volti a limitare le fonti di inquinamento. Anche nel campo della scienza economica emersero ripensamenti e voci critiche, come quella del francese Serge Latouche che si fece apostolo di un modello alternativo, non più basato sulla crescita infinita ma sull’uso responsabile delle (scarse) risorse disponibili. Nell’opinione pubblica più avvertita fece breccia il termine «decrescita», ossia la proposta di invertire la marcia per far spazio ad

una disposizione mentale fondata sul rispetto e sulla frugalità. Pian piano la decrescita ha fatto proseliti, anche se rimane ai margini delle correnti dominanti. Le quali continuano a puntare sul Pil (Prodotto interno lordo) come misura del benessere di una determinata collettività. La mobilitazione per il clima ha come protagonisti i giovani. E questo è incoraggiante, un motivo di speranza. Le vecchie generazioni hanno lasciato in eredità ai discendenti un mondo sempre più deturpato e lercio, una cloaca di gas mefitici e di plastiche che la natura riuscirà a smaltire solo nel giro di secoli, se non di millenni. Le facce allegre che scendono in piazza non sono condizionate dalle dottrine dei loro padri e non intendono creare miti o erigere monumenti. Non ricorrono alla violenza, non agitano in aria libretti rossi, ma invocano una conversione che parte da ogni singolo individuo. Fanno appello insomma alla coscien-


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 1. aprile 2019 • N. 14

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Cultura e Spettacoli Da Aristofane a Muschg A colloquio con lo scrittore svizzero Adolf Muschg, che sarà ospite degli Eventi Letterari del Monte Verità in compagnia del commediografo greco Aristofane

E Palco ai giovani? Claudio Chiapparino racconta le novità musicali previste a Lugano per i giovani

Servono più visioni Lucrezia De Domizio Durini sarà ad Ascona per omaggiare Harald Szeemann

Immaginando il mondo Grande immaginazione e spasso nel romanzo Benevolenza cosmica di Fabio Bacà

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Grammatica fiamminga e sintassi italiana

Mostre Antonello da Messina a Palazzo

Reale di Milano Gianluigi Bellei

Di Antonello da Messina sono giunte sino a noi poche notizie, soprattutto dopo il catastrofico terremoto di Messina del 28 dicembre 1908 che, oltre a fare centomila vittime, distrusse quasi tutti i documenti d’archivio. Figlio di Giovanni de Antonio, Antonio de Antonio, conosciuto poi come Antonello, muore a Messina fra il 14 e il 25 febbraio 1479. Questo perché il 14 febbraio dello stesso anno magister Antonio de Antonio pictor detta il proprio testamento al notaio Antonio Mangianti. Vasari nelle Vite scrive che alla sua morte Antonello ha 49 anni e quindi si deduce che sia nato probabilmente intorno al 1430. Antonello è ricordato soprattutto per l’introduzione in Italia del metodo di pittura a olio imparata dai fiamminghi. È il solito Vasari a raccontarlo incappando in una serie di imprecisioni. La prima, dando la paternità della scoperta della pittura a olio a Giovanni da Bruggia (Jan van Eyck, 1390/1395-1441). È risaputo che già nell’antica Grecia come a Roma si usava l’olio di lino. Vitruvio scrive di olio a scopo pittorico misto a colle e cera. Anche Plinio ne parla e Teofilo nel Medioevo nel Diversis Artibus scrive di olio per lavorare su tavola. Così come Pietro di Sant’Andemario nel De coloribus faciendis. Anche Cennino Cennini nel Trattato di pittura parla del modo di trattare i colori a olio. Van Eyck, infine, ne è stato il perfezionatore. La seconda riguarda il viaggio di Antonello nelle Fiandre a imparare dallo stesso van Eyck la tecnica della pittura a olio. «Quest’arte condusse poi in Italia Antonello da Messina» scrive Vasari «che molti anni consumò in Fiandra, e nel tornarsi di qua da’ monti fermatosi ad abitare a Venezia la insegnò ad alcuni amici…». Orbene, se Antonello nasce nel 1430 e van Eyck muore nel 1441 appare evidente che il primo non può essere andato nelle Fiandre a 11 anni. Lo sviluppo dell’arte fiamminga avviene a Napoli e a Genova con Alfonso V d’Aragona che acquista opere di van Eyck e Roger van der Weyden. L’umanista Pietro Summonte (1453-1526) dice in una lettera del 1524 al Michiel sulle arti a Napoli che Antonello si forma presso la bottega napoletana di Colantonio, probabilmente fra il 1445 e il 1455, che è a contatto con la pittura fiammingo-

provenzale. Lo stesso Summonte scrive che Colantonio oltre a copiare un San Giorgio di van Eyck aveva «una gran destrezza in imitar quel che voleva, la quale imitazione ipso avea tutta convertita in le cose di Fiandra». Da qui probabilmente il confronto fra Antonello e Petrus Christus di Bruges (14101475/1476), allievo di van Eyck, la cui pittura è simile a quella del messinese. In che cosa consiste la rivoluzione fiamminga? Nel saper vedere le cose della realtà nella loro rappresentazione particolareggiata e attraverso l’utilizzo di più punti di fuga per rendere allo stesso livello visivo «l’infinitamente vicino e l’infinitamente lontano», come sostiene Panofsky. In più la luminosità creata con la pittura a olio diventa lo strumento per questo illusionismo spaziale. L’arte italiana al contrario ha la capacità di rendere la sintesi delle cose e «trarre dalle apparenze molteplici della realtà un’idea centrale», come scrive Claudio Stinati. Antonello è riuscito a fondere queste due caratteristiche e creare un nuovo linguaggio. A Palazzo Reale di Milano possiamo ammirare 19 sue opere delle 35 autografe. Fra queste molti ritratti, anche se Antonello è principalmente pittore di dipinti a soggetto religioso, pale d’altare e soprattutto stendardi. Opere delle quali poco si è conservato. La mostra, organizzata da MondoMostre Skira in collaborazione con il Comune di Milano e la Regione Siciliana, curata da Giovanni Carlo Federico Villa si presenta da subito eccezionale, anche se la sua gestazione è stata, diciamo, travagliata. L’anteprima doveva infatti tenersi a Palermo la scorsa estate. È stata inizialmente annullata per svolgersi più tardi, a fine anno. A Milano, poi, la presenza della famosa Annunciata, proveniente da Palazzo Abatellis di Palermo, è stata fino alla fine in forse per via delle richieste, esose e fuori dagli schemi classici di scambio, avanzate dalla Regione Siciliana. Alla fine la mostra è arrivata in porto. Da vedere assolutamente anche perché, al contrario di quasi tutte le altre, a ogni sala corrisponde un dipinto e quindi è decisamente leggibile senza stress. Attenzione, però, andateci quando ci sono pochi visitatori. I dipinti sono particolarmente piccoli e se davanti a voi ci sono 3 o 4 persone rischiate di non vedere nulla. La particolarità dell’espo-

Antonello da Messina, Annunciata, 1475-1476 olio e tempera su tavola, (45x34,5 cm). (Galleria Regionale di Palazzo Abatellis, Palermo)

sizione è che a ogni dipinto è affiancata una carta di Cavalcaselle con gli schizzi e i commenti relativi all’opera. Tutti i documenti – 19 disegni tratti da 7 taccuini e 12 fogli sciolti – provengono dal lascito del 1904 della vedova del Cavalcaselle conservato presso la Biblioteca nazionale Marciana di Venezia. Giovan Battista Cavalcaselle (1819-1897) è di formazione pittore ma soprattutto mazziniano. Durante il suo esilio a Londra conosce lo storico Joseph Archer Crowe con il quale scrive quasi tutte le sue opere. L’editore John Murray lo incarica di redigere un aggiornamento delle Vite del Vasari. In quegli anni viene pubblicata l’edizione dei fratelli Milanesi ritenuta carente nei riscontri visivi. Fra il 1857 e il 1863 Cavalcaselle gira la penisola italiana, spesso a piedi, con i suoi taccuini. Qui troviamo la sua metodologia di lavoro di conoscitore attraverso «una lettura minuziosa degli aspetti tecnici e dello stato di conservazione, per l’utilizzo del disegno alfine di indagare le particolarità stilistiche e gli elementi morfologici (occhi, nasi, piedi ecc.)», scrive Susanne Adina Meyer.

Questa pratica viene usata, come sottolinea Raphael Rosenberg, per illustrare, imparare e comprendere. Il progetto vasariano diventa di impossibile realizzazione e il materiale gli è però servito per la New History. Cavalcaselle si trova in Sicilia fra il 1859 e il 1860, e la sua analisi si rivela il primo tentativo di catalogazione dell’opera di Antonello. Fra i dipinti esposti troviamo il San Gerolamo nello studio del 1475 proveniente dalla National Gallery di Londra. Opera fino al Settecento di Albrecht Dürer; è Cavalcaselle che la attribuisce ad Antonello come dipinto capitale e capolavoro assoluto. Intensa la Crocifissione del 1465 proveniente da Sibiu; manca però quella di Anversa più drammatica nello spasmo dei due compagni di dolore. L’Ecce Homo del 1475, proveniente dal Collegio Alberoni di Piacenza, ci dà l’esatta percezione dell’abisso nella figura dolente con quei dettagli significativi dell’ombra della corda sul petto e dell’intensità delle lacrime che sembrano vere. Giorgio Montefosco scrive che Antonello dipinge Cristo seguendo il vangelo di

Giovanni e che i quattro evangelisti non lo hanno mai descritto fisicamente. Non conosciamo la forma e le dimensioni del suo corpo, il colore degli occhi, quello dei capelli ma «se il suo volto è quello che ha dipinto Antonello – il volto della sofferenza e degli ultimi – è lui che vogliamo amare, e amiamo». Seguono altri bellissimi ritratti e, come detto, quell’Annunciata che è la vera e propria icona della mostra e capolavoro del Quattrocento, così semplice, intima, ieratica e distante. Bello il catalogo, assolutamente da comprare anche se contiene tutte e 35 le opere autografe di Antonello e non solamente quelle in mostra. Il che può generare un po’ di confusione. Più che un catalogo sembra un volume a sé, adatto anche a esposizione finita. Dove e quando

Antonello da Messina. Dentro la pittura. A cura di Giovanni Carlo Federico Villa. Palazzo Reale, Milano. Fino al 2 giugno 2019. Catalogo Skira, euro 40. www.mostraantonello.it


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 1. aprile 2019 • N. 14

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Cultura e Spettacoli

Le domande immortali di Aristofane Incontri A colloquio con il grande scrittore svizzero Adolf Muschg, che sarà ospite agli Eventi Letterari

del Monte Verità, in scena dall’11 al 14 aprile Simona Sala Da una parte c’è lui, Adolf Muschg professore di letteratura in pensione, considerato, alla stregua di Frisch e Dürrenmatt, uno degli ultimi grandi intellettuali e scrittori (anche critici, basti pensare al suo Wenn Auschwitz in der Schweiz liegt del 1997, uscito per la traduzione di Michele Sisto su «Limes» nel 2011) del nostro Paese. Dall’altra abbiamo Aristofane, l’irriverente commediografo ateniese nato nel 450 a.C. e di cui ci sono pervenute undici opere complete, alcune delle quali di un’attualità sconcertante. Ed è proprio da questo greco, che utilizzava il palcoscenico per le sue tirate contro la guerra, come in Lisistrata, o contro certe manie di protagonismo di alcuni anziani, come in Le vespe, divertendo e stuzzicando il pubblico, che Adolf Muschg ha deciso di farsi idealmente accompagnare al Monte Verità in occasione degli imminenti Eventi Letterari. La scelta di Adolf Muschg è in linea con un’edizione (la settima) che ha chiesto a ognuno degli ospiti di portarsi appresso un Maestro di vita e di scrittura, un gigante insomma, sulle cui spalle sedersi per avere una visione più completa e anticonvenzionale del mondo. Grazie a questa formula dell’«accompagnamento», al pubblico degli Eventi quest’anno sarà regalato una sorta di viaggio nel viaggio: spettatrici e spettatori saranno portati nel Settecento di Antonio Vivaldi grazie allo scrittore tedesco Peter Schneider, nei meandri horror di Stephen King con la giovane belga Adeline Dieudonné e – solo per citarne qualcuno – alla profondità di Primo Levi e Bruno Schulz, letture imprescindibili per il grande israeliano David Grossman. Muschg, classe 1934, con il suo impermeabile e la borsa a tracolla, ha quasi il piglio del reporter, impressione immediatamente confermata quando si informa sul reale stato di salute della

Concorso «Azione» mette in palio dei biglietti per ciascuna delle tre serate degli Eventi Letterati del Monte Verità (www.eventiletterari.swiss). Per partecipare all’estrazione seguire le indicazioni sulla pagina web www.azione.ch/concorsi. Buona fortuna!

politica italiana, e sulla percezione della stessa che hanno i ticinesi. Ammette di avere preso le distanze dalla produzione letteraria contemporanea e di avere sviluppato un interesse e un amore sempre più grandi per la letteratura antica (luogo dove si trovano davvero le risposte alla vita), e in particolare per quell’Aristofane che sapeva leggere nel cuore degli uomini con profondità e grande ironia. Adolf Muschg, perché Atene?

Negli ultimi anni ho letto molte cose di Euripide, Eschilo e Sofocle, apprezzandoli in quanto vi ritrovo modelli di comportamenti sociali e umani applicabili a qualsiasi epoca e cultura. Dobbiamo immaginare la città di Atene nel V secolo a.C.: in alto nell’acropoli troviamo la religione, con il Partenone e Pallade Atena, rappresentata da una statua scolpita da Fidia. Più a sud, su una collina, si trova invece il teatro, che non rappresenta un passatempo o una mera espressione artistica, ma è obbligatorio tanto quanto la partecipazione all’assemblea popolare. Poi troviamo l’agorà, luogo in cui si decide il destino della città, ma dove c’è anche il mercato, che insegna a riconoscere il valore delle cose, oltre che il loro prezzo. Cosa la affascina tanto del V secolo, periodo d’oro della produzione teatrale ateniese?

Attraverso quello che succede in scena gli spettatori si rendono conto che per la condizione dell’essere umano non vi sono soluzioni. Inoltre vi sono molte divinità. Pensiamo all’Oreste (nella trilogia Orestea, 458 a.C.) di Eschilo, che uccide la madre per vendicare il padre: culturalmente siamo davanti a uno spartiacque, abbiamo una madre contro il padre. Il padre rappresenta il diritto paterno ispirato da divinità maschili come Apollo; da parte della madre ci sono le Erinni (o Euminidi), divinità femminili della vendetta, che puniscono il matricida con la follia. Sull’Aeropago viene convocata un’assemblea per decidere delle sorti di Oreste. La giuria è presieduta da Atene, che gli è favorevole, e scatena così le ire delle Erinni. Al fine di placarle, Atene decide di intitolare loro un tempio, convincendole a diventare divinità della giustizia, anziché della vendetta.

In che modo rapporta questa vicenda alla situazione politica dell’epoca, che vedeva Atene impegnata in una sanguinosa guerra con Sparta per il controllo del Peloponneso?

Il quadro è più ampio: il popolo di Atene

Lo scrittore svizzero Adolf Muschg nella sua casa di Männedorf. (Keystone)

seppe organizzarsi – in forma democratica, seppur limitata – in modo da sconfiggere una potenza come la Persia. Ma ciò che mi interessa è come gli ateniesi svilupparono un senso comune più grande dell’interesse privato; proprio per questo motivo erano obbligati ad andare a teatro, per confrontarsi con quanto non corrispondesse alle loro idee e convinzioni. In questo modo scoprivano entrambi gli aspetti di una questione, imparando a partecipare alle discussioni e ad ascoltare. Per me il fatto che nella storia dell’umanità, sebbene per un lasso di tempo di appena quarant’anni, un popolo sia riuscito a raggiungere tutto questo, ha dell’incredibile. Il rapporto con la divinità era molto diverso rispetto al nostro.

Le divinità erano immortali, ma presentavano le stesse debolezze di carattere degli uomini. Non potevano dunque essere il punto di partenza per le azioni degli uomini: ogni persona doveva sviluppare il proprio spirito critico. Aristofane ci mostra come una società, in particolare la polis di Atene, abbandonata dagli spiriti che avevano guidato i romani o i persiani, cercasse di comportarsi come una comunità adulta, fosse anche solo per il proprio interesse. Il grande merito di Aristofane però, è quello di spingersi ancora più in là, mostrando come si possa ridere di determinate situazioni senza diventare disumani. Degli dèi si poteva anche ridere (anche se era obbligatorio crederci, l’ateismo era un reato, basta pensare a

cosa capitò a Socrate), come dimostra Dioniso, il dio protettore del teatro, che a un certo punto diventa un giullare con un grande fallo finto. Il pubblico sicuramente rideva e come, si fa oggi allo stadio, magari urlava quando dal palcoscenico venivano criticati o interpellati i notabili di allora... Aristotele camminava dunque sul filo del rasoio, accettando il rischio delle sue parole.

ricatto, ma poi alla fine cede, rendendo le cose difficili al suo uomo: è una figura così umana… Ricordiamoci però che tutte le pièce, anche nelle parti femminili, erano recitate esclusivamente da uomini. Non è incredibile che gli uomini si divertissero a guardare altri uomini che recitavano ruoli di donne più forti di loro? Le donne infatti erano forti, come dimostra Antigone.

Le nostre società stanno diventando sempre più fasciste: quando le si mette in questione si trasformano in tribunali identitari; ad Atene invece si attendeva la domanda più robusta. Le pièce premiate erano quelle che ponevano le domande migliori. Rapportandomi al presente mi viene in mente La visita della vecchia signora di Dürrenmatt, una pièce che si presterebbe benissimo a delle domande, ad esempio sul ruolo della Svizzera nella Seconda guerra mondiale: saperne di più sarebbe bello.

Al momento sto scoprendo il «passato mai passato» (unvergangene Vergangenheit), cerco cioè delle risposte a domande legate alla contemporaneità e le trovo nella memoria collettiva dell’essere umano registrata nella grande letteratura. Ci sono molte più cose sull’essere umano in Shakespeare che non nella maggior parte dei libri di psicologia. Le opere del passato mi permettono di capire la mia natura animale più di quanto possa fare qualsiasi manuale. Per questo esse sono diventate per me fonti irrinunciabili. La letteratura è matematica di alto livello, vi si possono riconoscere le operazioni del cervello, le alternative e soprattutto – cosa che gli algoritmi ancora non sono in grado di fare, poiché funzionano secondo un sistema binario – aiuta a gestire l’ambiguità.

Cosa le manca di tutto ciò nella nostra società?

La lettura di questi autori ha un lato incredibile: ci rende più indulgenti con il genere umano, poiché si capisce che passano i secoli ma non cambiano i problemi e gli argomenti di discussione. A questo proposito penso a Lisistrata, dove alcune donne, guidate dalla vivace Lisistrata, decidono di negarsi agli uomini finché non ci sarà tregua con Sparta. Una sorta di protofemminismo?

In Lisistrata c’è la bellissima figura della donna che non vuole partecipare al

Chi avrebbe portato agli Eventi se non fosse stato Aristofane?

Dove e quando

Adolf Muschg, Perché Aristofane ci può salvare, 14 aprile 2019 (ore 11.00) Monte Verità.

La danza della complessità di Nijinski

Danza Il carismatico Nijinski visto da Marco Goecke – Si replica fino al 6 aprile all’Opernhaus di Zurigo Marinella Polli Dopo John Neumeier, Maurice Béjart e altri coreografi, anche il tedesco Marco Goecke, artista in residenza in due compagnie d’eccellenza quali lo Stuttgart Ballett e il Nederland Dans Theater e futuro direttore del balletto dell’Opera di Hannover, ha varato nel 2016 a Stoccarda con la Gauthier Dance Company un balletto in cartellone all’Opernhaus fino al 6 giugno in una nuova versione, che affronta quella leggenda della danza che è Vaslav Nijinski. Vero e proprio mito nei cieli dell’arte, ricordato anche in cinema, teatro, letteratura e nelle arti figurative, Nijinski nasce a Kiev nel 1889/90 e attraversa le scene proprio come una meteora regalando al mondo le sue interpretazioni in Giselle, Petrushka, Sheherazade e Spectre de la Rose, non-

Jan Casier ha incantato il pubblico zurighese. (Carlos Quezada)

ché coreografie rivoluzionarie quali Après-midi d’un faune e Sacre du printemps. A partire dal 1908 il meraviglio-

so «clown de Dieu» che salta più in alto di tutti fa parte dei Ballets Russes di Diaghilev, padre-padrone e suo amante fino al 1913, quando questi, accecato dalla gelosia dopo aver saputo del matrimonio di Nijinski con la contessa ungherese Romola de Pulszky, lo scaccia dalla sua compagnia, forse acuendone la schizofrenia che lo accompagnerà sino alla morte nel 1950. Marco Goecke disegna nel suo Nijinski non tanto una serie di aneddoti, bensì una perfetta biografia dell’anima e del corpo dell’uomo e artista che rivoluzionò l’immagine stessa del ballerino, realizzando, sul filo di un espressionistico flusso di immagini, una sorta di balletto psicologico. La sua cifra stilistica è una sintesi delle correnti della danza europea degli ultimi trent’anni passate al setaccio di una forte personalità di coreoautore. Facendo danzare ora soltanto il prota-

gonista Vaslav ora tutti i ballerini, Goecke dà via via spazio a Terpsichore, la musa della danza, quindi alle persone, ai ruoli e ai fatti cruciali nella vita dello sfortunato artista: la madre, Diaghilev, la moglie, il Fauno, la Rosa, Petrouska, l’identità sessuale, la psiche disturbata. Ma più di tutto la sua danza, i fulminei, turbinosi movimenti di braccia e mani, gli spasmi delle spalle, le drammatiche espressioni del volto; la danza che verrà praticamente azzerata nel finale, nel comunque trascinante decimo quadro con un Nijinski perso a disegnare cerchi all’infinito, in un ultimo barlume di creatività. All’avvincente parte visiva si giustappone il romanticismo malinconico dei Concerti per piano e orchestra 1 e 2 di Chopin, inoltre una suggestiva ninnananna russa, nonché la musica dell’Après-midi d’un faune di Debussy, quando in scena si assiste a un sensualissimo dialogo con un

doppio. Da ricordare anche il colpo magnifico dei petali di rosa che cadono dall’alto con uno scoppio, un eloquentissimo accenno a quello Spectre de la Rose di Fokine che aveva tanto infiammato e diviso il pubblico d’inizio Novecento. Di grande intensità ed espressività l’interpretazione di Jan Casier nel ruolo in titolo: erotico Fauno nel passo a due maschile, toccante nel parossismo mentale e fisico. Il folto pubblico gli ha riservato giustamente una standing ovation. Bravi altresì William Moore nei panni di Diaghilev, Yannick Bittencourt in quelli di Isajef, Katja Wünsche quale Terpsichore, Mélanie Borel quale Romola e tutti gli altri ballerini del Ballett Zürich. Battimani anche per Marco Goecke, per la scenografa e costumista Michaela Springer, per Pavel Baleff alla testa della Philarmonia Zürich e per il pianista Adrian Oetker.


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Cultura e Spettacoli

Chi ha ucciso Palco ai Giovani? Musica A colloquio con Claudio Chiapparino e il team musicale della Città di Lugano

Zeno Gabaglio Aprire un articolo a tema musicale con un’inquietante domanda in stile spy story è particolarmente gratificante. Poco importa se poi si scoprirà che un colpevole non c’è, e che anzi l’omicidio non è mai avvenuto: è gratificante già solo suggerire la possibilità di un dramma intricato e appassionato. E la morte di Palco ai Giovani – per certi versi, per certe persone, per certe idee – potrebbe effettivamente costituire un simile dramma. Ma per capirne le ragioni bisogna fare un passo indietro, a prima del 1993. Fino a quell’anno nessuna delle città del Canton Ticino aveva mai affrontato organicamente la questione delle politiche giovanili, nemmeno si era mai immaginato che in questo campo potessero servire idee chiare, persone competenti e risorse conseguenti. Una situazione ristagnante che aveva relegato alla marginalità – perlomeno istituzionale – una lunga serie di temi sociali e culturali: certi generi musicali, per la gestione pubblica, semplicemente non esistevano. Come pure certe problematiche integrativeespressive-ricreative: non pervenute. Nel 1993 la Città di Lugano – l’unica ancora oggi, un quarto di secolo più tardi, ad aver davvero affrontato la questione – si dotò di un Ufficio attività giovanili, affidandone la direzione a Claudio Chiapparino. «Il primo passo fu quello di analizzare ciò che già esisteva – su base privata o associativa – e di provare a interagirvi secondo i tre

principi sussidiari della promozione: offrire degli spazi, collaborare, organizzare». Un inizio apparentemente soft – nel senso della comprensione aggregativa – ma che presto diede riscontri importanti, con il tasso d’occupazione del Teatro Foce che passò dal 20% del 1993 a circa il 100% del 1996. E le sfide, a quanto pare, non bastavano, sicché già al secondo anno di operatività si provò a scardinare una delle più solide certezze musicali del vivere cittadino. «All’epoca le manifestazioni musicali open air a Lugano erano due: Estival Jazz e Blues to Bop. Per l’utilizzo del salotto buono, cioè Piazza Riforma, ci immaginammo una prospettiva diversa e ulteriore, per una sfida al tempo stesso cultuale, estetica, sociale. E con una certa sorpresa la Città accettò». Era il 1994 e nasceva Palco ai Giovani: la prima e unica manifestazione ticinese dedicata alle band emergenti. Nel corso degli anni ha cambiato volto, dimensioni, collocazione e forma, rimanendo però sempre un punto di riferimento per pubblico e musicisti giovani: tutto questo fino al 2019. I più attenti – soprattutto i gruppi che trepidanti attendono le scadenze per le iscrizioni – avranno infatti notato che per quest’anno non sono state annunciate né selezioni né finali. Cos’è successo? Che fine ha fatto Palco ai Giovani? «La formula del concorso dal vivo a giugno in piazza, con delle selezioni pure dal vivo in inverno, aveva ormai mostrato alcuni limiti. Sia di contenuto sia di contesto, perché il panorama

Il team musicale del Dicastero cultura, sport ed eventi della città di Lugano, da sinistra Filippo Corbella, Michela Poretti e Claudio Chiapparino.

attorno è sensibilmente cambiato». E di vera e propria evoluzione (se non addirittura di rivoluzione) si è trattato, soprattutto a partire da quando – con la creazione dello Studio Foce – Lugano si è finalmente dotata di una casa per quell’amplissimo ventaglio di proposte musicali popular che costituiscono la spina dorsale della cultura contemporanea. Una sede che d’estate si allarga fino a comprendere il Parco

Ciani e il lungolago, per una proposta ormai declinata su più rassegne e festival – Raclette, Open Mic, Fresh, ROAM, Buskers Festival – cui prestissimo si aggiungerà La Quairmesse. «Proprio il nuovo appuntamento raccoglie una parte dell’eredità di Palco ai Giovani: non è un concorso ma le band ticinesi possono iscriversi e venir valutate dalla direzione artistica». Per magari figurare – chi lo sa – nel pri-

mo cartellone di questo mini-festival, dal richiamo perlomeno nazionale. E gli altri – quelli non ammessi, ma che forse a Palco ai Giovani ce l’avrebbero fatta – potranno trovare spazio a Open Mic o nella futura rassegna Locals. Perché Palco ai Giovani non è stato davvero ucciso: il suo spirito è vivo e veglia affinché ci si possa continuare a rappresentare e riconoscere attraverso la musica. Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli

Profondamente Hozier

Musica L’attesissimo secondo lavoro dell’intrigante rocker irlandese Hozier ripropone la carta vincente

offerta da una visione artistica spregiudicata quanto anticonformista

Benedicta Froelich Sarà forse stata la crescente ed entusiastica aspettativa dei sempre più numerosi ammiratori – o, magari, semplicemente la propria, improvvisa ansia creativa – ma ecco che, appena pochi giorni fa, il geniale cantautore irlandese Hozier ha infine dato alle stampe il suo secondo, attesissimo album, inaspettatamente giunto nei negozi a meno di sei mesi dall’uscita dell’apprezzato EP introduttivo Nina Cried Power. Uno sforzo, questo Wasteland, Baby!, in cui, ancor più che nell’eponimo esordio del 2014, l’artista oggi definibile come il più «americano» tra i cantanti anglosassoni rivolge un sentito omaggio alle proprie radici musicali – da sempre affondate nel miglior gospel d’annata, e in tutto ciò che ruota attorno all’universo popolare statunitense nella sua declinazione più raffinata e vintage. Al punto che uno dei pezzi migliori del CD, l’irresistibile Almost (Sweet Music), costituisce, dal primo all’ultimo verso, un tributo al songbook jazz e swing a stelle e strisce, sapientemente imperniato su di un continuo gioco di citazioni e riferimenti a celeberrimi standard d’epoca e agli eroi di allora, da Duke Ellington a Chet Baker. E se la grande passione di Hozier per quel mondo ormai démodé brilla soprattutto in Nina Cried Power, già travolgente title track del recente EP – in cui i vocals della leggendaria Mavis Staples evocano la lotta per l’emancipazione dei grandi performer «ribelli» del

passato – anche quest’album costituisce un’orgogliosa riaffermazione dell’amore per le sonorità gospel, le quali trovano ampio respiro nei travolgenti To Noise Making (Sing) e in Be. Senza dimenticare un pezzo da brivido come l’epico Movement – idealmente dedicato a Sergei Polunin, straordinario quanto tormentato ballerino ucraino che, dopo aver rilanciato la propria carriera grazie a una meravigliosa interpretazione danzata della prima hit di Hozier (Take Me to Church), ha graziato con il suo talento anche il videoclip di questo stesso brano, volteggiando su versi del calibro di «quando tu ti muovi, riesco a ricordarmi di qualcosa che ormai non esiste più in me»; mentre pezzi come Nobody e Dinner & Diatribes (quest’ultimo prescelto come più recente singolo promozionale) offrono una commistione da manuale tra rock alternativo, folk e spiritual, e perfino un po’ di sano R’n’B. Tuttavia, la tracklist conferma come il vero punto di forza di Hozier risieda tuttora nella sua invidiabile (e tutt’altro che scontata) capacità di sorprendere l’ascoltatore, conducendolo verso sentieri inaspettati, ben lontani da qualsiasi «comfort zone»; e del resto, la passione del cantante per le tematiche ambigue (e, per certi versi, inquietanti) si è palesata fin dal già citato Take Me to Church, in cui l’atto di ribellione implicito nell’impulso liberatorio della sessualità veniva utilizzato come antidoto a un giudicante perbenismo di matrice religiosa. Non stupisce quindi

Wasteland, Baby! è il nuovo lavoro di Hozier.

che anche Wasteland, Baby! sia contraddistinto dal coraggio anticonformista dei testi, spesso incentrati sulla curiosa commistione tra un drammatico rigore e la più vibrante sensualità. Suggestioni più che evidenti in un pezzo arguto quale Sunlight, in apparenza coinvolgente brano romantico («il tuo

amore è come la luce del sole»), in cui, tuttavia, l’arguta metafora del volo di Icaro – con cui il narratore si identifica – finisce presto per sottolineare come, in realtà, simili immagini possano presentare una connotazione assai diversa dalla loro interpretazione più scontata e istintiva. In tal senso, anche

l’aspra tensione narrativa di As It Was e Talk richiama da vicino le atmosfere disturbanti tanto care a Hozier; e in effetti, uno dei pezzi più efficaci del disco è proprio la ballata Would That I, che riprende un tema già esplorato dall’autore, ovvero la fascinazione quasi morbosa per il fuoco e per il suo potere distruttivo, metafora dell’irrazionalità spesso autolesionista del desiderio. E se l’impressione di alcuni ascoltatori è stata che, a tratti, Wasteland, Baby! non presentasse la medesima forza espressiva trasmessa dall’esordio del 2014, basta tuttavia ascoltare brani ad alto voltaggio emotivo come la title track e la straziante ballata Shrike per rendersi conto della forza e dinamicità espressive di cui Hozier è dotato – caratteristiche che, insieme alla sfrontatezza del suo impulso creativo, lo distinguono da molti coetanei, troppo impegnati a seguire il «manuale» della perfetta hit da classifica per dare davvero voce ai propri pensieri, e, soprattutto, ai turbamenti e profondi conflitti interiori tanto ampiamente documentati dall’artista irlandese. Perché, sotto questa luce, l’eccentrico Hozier potrebbe definirsi come un «vero» cantautore, inteso secondo l’accezione più nobile del termine: qualcuno che, in un’epoca fortemente incline all’omologazione creativa, insiste nel proporre una visione artistica personale e ben poco convenzionale, in più impreziosita da un’introspezione sempre vivace – e, tuttavia, libera da qualsiasi pedanteria o forma di giudizio. Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli

Occhi che brillano nell’oscurità

Incontri La Baronessa Lucrezia De Domizio Durini sarà al Monte Verità per presentare la ristampa

di Harald Szeemann. Il Pensatore Selvaggio

Natascha Fioretti «Un ricordo non si conserva. Un ricordo va ricostruito sempre insieme ad altri» ripete come un mantra la Baronessa Lucrezia De Domizio Durini nella sua opera Harald Szeemann. Il Pensatore Selvaggio, edita per la prima volta nel 2005 e ora ristampata per l’editore Lindau di Torino. Una ristampa che è divenuta una preziosa occasione per pensare un evento in omaggio al curatore indipendente Harald Szeemann che nel Monte Verità aveva scoperto un luogo sacro e in Ascona «un’enclave dello spiritualismo laico Mitteleuropeo». A ricordarlo il 6 aprile alle 17.00, in quello che sarà un evento a più voci scandito da diversi momenti culturali, saranno la Dr.ssa Pilar Parcerisas, storica dell’arte, il compositore artista Emanuel Dimas de Melo Pimenta con una pièce musicale per l’occasione e, naturalmente, la mente di tutto questo, la Signora italiana dell’Arte internazionale, Lucrezia De Domizio Durini, grande estimatrice e amica di Harald Szeemann, profonda conoscitrice e ambasciatrice della filosofia beuysiana nel mondo, insignita nel 1993 a Parigi dell’Onorificenza di Cavaliere dell’Ordine delle Arti e della Letteratura. Con il suo Harald Szeemann. Il Pensatore Selvaggio, di cui la Baronessa ci racconta in questa intervista, si apre in grande stile la nuova stagione culturale al Monte Verità. Come è nata l’idea di questo evento e quali sono i punti aggreganti dei diversi momenti culturali?

Con l’occasione della ristampa ho voluto creare un evento in ricordo e in omaggio ad Harald Szeemann, uno tra i più emblematici e significativi personaggi della critica mondiale del secondo dopoguerra. Critico dell’intensità, profondo storico dell’arte, curatore indipendente, per l’intera sua vita ha creato mostre di intenso spessore cambiando la storiografia e i sistemi della metodologia critica ed espositiva internazionale. Szeemann amava les finesses della cultura, come lui soleva definire le ricerche minime di analisi comparata, che mirabilmente innesca-

va nelle sue atipiche mostre internazionali. Con Harald Szeemann ho avuto un rapporto di lavoro costante e ho sempre condiviso i principi fondamentali dell’uomo: indipendenza, libertà, creatività, solidale collaborazione e professionalità che sono insiti nel pensiero e nell’opera del mio maestro Joseph Beuys del quale, Hary, come lo chiamavano gli amici, amava molto il pensiero e l’opera. Nel realizzare questo evento ho sentito il dovere etico di chiamare a collaborare quelle persone che hanno conosciuto e condiviso la filosofia di Szeemann.

A ricordare Harald Szeemann saranno le parole, la musica ma anche la fotografia, non è vero?

Nel pensare l’evento la mia creatività ha preso il sopravvento e ho desiderato comporre un corpo unico fotografico che ho chiamato Oltre l’immagine – formato da 93 fotografie tratte dall’obiettivo magico di Buby Durini dell’immane Archivio storico De Domizio Durini e farne donazione alla Fondazione Monte Verità. Un Remember di anni vissuti con Harald Szemmann nel pubblico e nel privato, con la famiglia e gli amici, testimonianze uniche e rare.

Nella sua nota biografica si definisce «una collezionista di rapporti umani» ricordandomi il clown di Heinrich Böll, collezionista di attimi. Cosa significa collezionare rapporti umani?

Heinrich Böll, Premio Nobel per la letteratura nel 1972, era un pacifista e ha collaborato con Joseph Beuys alla creazione del Free College for Creativity and Interdisciplinary Research e alla Free International University, la creatura di Beuys presentata per la prima volta nei 100 giorni della Conferenza Permanente a Documenta 6 di Kassel nel 1977 cui io e il mio defunto marito Buby Durini abbiamo partecipato. Ho avuto la fortuna di conoscerlo, grazie a Beuys. Erano uomini speciali, antesignani, precursori attivi che parlavano innanzi tempo di uguaglianze e di tutte le problematiche che oggi dilaniano il nostro pianeta. Amo definirmi collezionista di rapporti umani poiché il mio lavoro è una missione: non sono interessata al

business ma a comprendere me stessa attraverso gli altri.

Lei definisce Szeemann in vari modi: pensatore selvaggio, visionario, curatore indipendente e lavoratore atmosferico. Chi era Szeeman?

Harald Szeemann è il Pensatore Selvaggio, titolo che ho preso in prestito dal libro del famoso Lévi-Strauss. Come l’antropologo, con il suo spessore cognitivo di profondità analitica, costituisce uno degli assi cardinali delle scienze umane contemporanee. Nel campo della cultura del XX secolo lo considero una figura chiave per lo sviluppo e la ricezione dell’arte contemporanea in Europa e nel mondo intero.

Per lui ha solo parole di elogio ma Szeemann un difetto lo aveva?

Nei grandi uomini i difetti sono pregi e gli incontri non sono mai casuali, ma vivono una traiettoria prestabilita dal cosmo dalla quale nessuno può esimersi o creare. Harald Szeemann è uno dei Quattro Punti Cardinali della mia esistenza che insieme a Joseph Beuys, a Pierre Restany e a Buby Durini mi proteggono dal cosmo.

Lei è una grande protagonista del mondo dell’Arte a livello internazionale. Perché è stata definita un «personaggio atipico»?

Sono contro ogni sistema. Ho lottato molto per esserne fuori. La libertà, l’indipendenza, la determinazione, la volontà, l’energia creativa sono gli elementi che formano l’essere umano, essi costituiscono il sale della vita.

Nella sua premessa scrive «Oggi più di ieri la condizione dell’Arte ha bisogno di occhi che brillino nell’oscurità, di spiriti visionari». È un momento buio per l’Arte e più in generale per l’uomo?

Stiamo vivendo un momento storico in cui il virus del potere ha formato un esercito di uomini che tentano di compiere il genocidio di miti, fantasie sogni e utopie, ma principalmente cerca di trasformare la libertà in una specie di autorità democratica, dove l’obbligo della corruzione parte dalla vanità del pensiero e si estende al buon gusto, alle buone maniere invadendo dispoticamente anche l’Arte e il sistema dell’Arte. Sulle istituzioni e sui governi mondiali

Harald Szeemann assieme a Lucrezia De Domizio Durini in una scherzosa immagine scattata nel 1992 al Kunsthaus di Zurigo. (Keystone)

grava la responsabilità di aver contribuito, attraverso un comportamento obsoleto e compromissorio, alla perdita dell’etica, della cultura, della dignità dell’uomo, del rispetto di madre natura. Ci troviamo in uno stato di crisi profonda, una crisi intellettuale, etica e spirituale che tocca ogni aspetto della vita umana. Come individui, come società, come civiltà e come ecosistema stiamo raggiungendo il punto di svolta.

Dove e quando

Harald Szeemann. Il pensatore selvaggio. Evento dedicato al curatore con una conferenza, una proiezione, una mostra fotografica e un concerto; interverranno Lucrezia De Domizio Durini, Pilar Parcerisas, Giorgio D’Orazio e Emanuel Dimas de Melo Pimenta. Ascona, Monte Verità, 6 aprile ore 17.00; in italiano.

Questione di lingua

Pubblicazioni Una rassegna delle questioni e delle discussioni che hanno interessato la lingua italiana

in tutta la sua storia in un saggio del presidente dell’Accademia della Crusca Stefano Vassere «Sotto il nome “questione della lingua” si indicano tutte le discussioni e le polemiche svoltesi da Dante ai nostri tempi relative alla norma linguistica e ai temi connessi. La storia della lingua non può prescindere da questi dibattiti, per i loro rapporti con il divenire reale della forma linguistica». L’italiano è stato «in questione» da subito, praticamente da quanto si è cominciato a dare un nome alla nostra lingua. Certo, le discussioni hanno assunto forme e modalità nei secoli anche profondamente diverse; e pure gli argomenti a proposito dei quali queste polemiche ebbero combustioni improvvise e virulente non furono sempre gli stessi. Se nel Medioevo una prospettiva di tipo quasi sociolinguistico vide a lungo gli autori agitarsi in merito a quanto terreno potesse guadagnare, nello scritto ma anche nelle situazioni comunicative, il volgare di fronte al latino, via via si affacciarono i dibattiti sulle figure letterarie da

prendere a modello, sulla promozione delle varietà locali cittadine, sul valore nazionale della lingua dopo l’Unità. E se si vuole ancora, in prospettiva, la po-

Una questione di importanza vitale per la lingua italiana.

litica linguistica del Ventennio, l’amministrazione linguistica delle zone di frontiera, la gestione delle minoranze linguistiche storiche e delle geografie di contatto linguistico. Insomma, dice bene Claudio Marazzini, presidente dell’Accademia della Crusca, in questo suo Breve storia della questione della lingua quando dice che seppur non tracciata per intero da una questione della lingua, la storia della lingua italiana ne fu (forse addirittura virtuosamente) abitata in modo significativo. E ciò da una certa prospettiva non priva di qualche grado di stranezza, perché nel confronto con altre realtà nazionali, all’Italia è spesso rimproverata poca attenzione al proprio patrimonio linguistico: là dove Spagna, Gran Bretagna e Francia brillano per la tradizione delle loro accademie e dei loro istituti nazionali (per non parlare dei moderni certificati linguistici), l’Italia pare ai più piuttosto restia nel riconoscere alla propria lingua il valore di un patrimonio nazionale.

Il libro di Marazzini (che, va detto, riprende spunti e contenuti di sue opere precedenti, ma aumentandoli e aggiornandoli) ha un bel capitolo finale dedicato alle attuali «questioni» che animano il dibattito attuale; allo stesso Marazzini va dato atto di una certa sagacia nel leggere certi fenomeni in corso d’opera e nel prevederne il probabile significato storico. Oggi, la nostra lingua ha qualche match non secondario in corso, il quale, senza rappresentare un pericolo per la sopravvivenza concreta della nostra lingua, ne configura però qualche pericolo sul piano della considerazione sulla scena internazionale. I campi non sono secondari, e sono tra gli altri quello della ricerca o quello dell’importanza relativa negli organi istituzionali per esempio europei. Rileva giustamente il presidente della Crusca le esemplari (anche nello stile testuale, vale la pena di andare a leggerle) sentenze del Consiglio di Stato e della Corte costituzionale in merito al più clamoroso dei temi, quello

dell’insegnamento esclusivo in inglese in taluni corsi di laurea. Questi fatti «travalicano ormai il confine dell’uso linguistico nella scuola e nell’università, e si trasformano in una scelta di campo nella politica linguistica, con effetti sociali e civili di vasta portata». Il discorso è insomma ormai chiarissimo nei suoi termini principali: concedere insegnamenti universitari, pubblicazioni scientifiche e vocabolari specialistici al potere spesso anche solo di costume modaiolo dell’inglese potrebbe avere conseguenze sui repertori linguistici a disposizione della società per comunicare in ambiti primari per la comunità: le scienze, la medicina, l’ambiente. Non si tratta insomma di una questione di qualche parola usata a sproposito. Questa, per l’italiano, è una questione. Bibliografia

Claudio Marazzini, Breve storia della questione della lingua, Roma, Carocci, 2018.


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Cultura e Spettacoli

Scoprire la natura umana, da casa Narrativa Un ottimo esordio letterario, quello di Fabio Bacà, uscito per la prestigiosa Adelphi

con la sua Benevolenza cosmica Mariarosa Mancuso Come fanno gli scrittori a sapere cosa passa nella testa delle persone? Il problema si pone per i romanzi fabbricati alla maniera classica, la maggior parte di quelli che abbiamo letto finora. Vuol dire: storie dove i maschi possono entrare nella testa delle donne, raccontando le fantasie di Madame Bovary (e ovviamente storie dove le donne possono entrare nella testa degli uomini, magari Mr Darcy o Rochester). Storie che vanno a curiosare nella testa dei marziani o degli animali. Storie immaginate senza muoversi da casa, ma ambientate in paesi lontani, vale per tutti l’esempio di Emilio Salgari che l’esotismo lo trovava nelle enciclopedie. Tutto il contrario dell’autofiction. O di quel che sta succedendo nel cinema: ai bianchi è vietato (o vivamente sconsigliato) girare film con personaggi neri o asiatici. Se un attore senza handicap ha il ruolo di un handicappato (è successo a Joaquin Phoenix in Dont’ Worry) si scatenano le proteste. La correttezza politica sta cancellando l’idea che recitare significhi «fare finta» – se arriva anche al romanzo, sarà vietato inventare. Prima del disastro, c’è il metodo di Elizabeth Brooks. Il suo agente le riconosce «un talento perverso per l’intreccio». Purtroppo non è altrettanto brava nella caratterizzazione dei personaggi, leggere non basta a colmare la lacuna. Da qui lo stratagemma: per procurarsi

conoscenze sulla natura umana mette in scena piccole commedie. Visita «architetti, ornitologi, presidenti di associazioni benefiche, sacerdoti vudù, attori in disarmo, anarchici, parenti di vittime di disastri epocali» (ne abbiamo lasciati fuori parecchi, per motivi di spazio). Si presenta come cliente, esperta, o collega, e incamera informazioni. Elizabeth Brooks sta nel romanzo di Fabio Bacà, Benevolenza cosmica, appena uscito da Adelphi. Un record, per uno scrittore con un paio di racconti all’attivo, neppure dichiarati nel risvolto di copertina, che lo presenta come «insegnante di ginnastiche dolci a Alba Adriatica». Letto il romanzo che scorre via magnificamente, con una scrittura e una capacità di invenzione rari nel panorama italiano, viene da chiedersi se il metodo Elizabeth Brooks non sia un po’ anche il metodo Fabio Bacà: uno che ambienta il suo romanzo a Londra, e a Londra dichiara di non essere mai stato. Probabilmente non ha neanche mai visto una piscina a sfioro in cima un grattacielo, dove ambienta una scena – abbastanza paurosa – del romanzo. Kurt O’ Reilly è il protagonista, trentenne consorte dell’aspirante romanziera Elizabeth Brooks (il metodo letterario vampiresco viene illustrato a margine della terapia di coppia, fasulla anche questa). Lo incontriamo dal medico, e già ci aspettiamo il peggio. Sbagliato: ha una lesione che nel 96 per cento dei casi è maligna. Ma il dottore aggiunge: «La sua no, lei sta nel restante

Bacà: grande inventiva e divertimento.

quattro per cento». Poche pagine, e siamo già al centro della storia. Kurt nella vita si occupa di statistiche, e ha notato da un po’ che le cose gli stanno andan-

do molto bene. Troppo bene, in tutti i campi: compra azioni spazzatura e ci guadagna, i tassisti lo accompagnano a casa gratis, il dottore gli dice «sta be-

nissimo», le donne lo corteggiano apertamente, il sedile della metropolitana davanti a lui è sempre vuoto. Da statistico provetto, Kurt prende nota di tutto. Fino a contare, in un giorno, 18 eventi favorevoli. Troppo, per essere considerati pura coincidenza. Quindi si preoccupa, vuole capire cosa gli sta succedendo, e perché l’universo mostra tanta benevolenza verso di lui – dovesse consultare, per riuscirci, una cartomante o uno sciamano. Sul fascino che le statistiche esercitano su di noi, la sa lunghissima. Ha clienti convinti che una statistica favorevole sia «l’incantesimo che li affrancherà da angosce metafisiche» (ripensate all’ultima volta che avete letto una statistica medica, e dite che non è vero, se ne avete il coraggio). Lui sa come accontentarli: «Se li torturi abbastanza a lungo i numeri confesseranno qualsiasi cosa». Una nota segnala che in Benevolenza cosmica la metà delle statistiche sono inventate di sana pianta, quindi non usatele per sostenere tesi azzardate. Trattasi di romanzo, non di prontuario per arrampicarsi sui muri dell’argomentazione. Tutto da godere, come si godono i romanzi ben scritti, pieni di fantasia e di sorprese, che sanno raccontare una pornostar dal tatuatore, un incidente aereo che sfida tutte le statistiche, un attentato terroristico. Trascinati dal pensiero di una cosmica benevolenza verso il lettore, vorremmo trovare subito un altro romanzo tanto divertente. Annuncio pubblicitario

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