MONDO MIGROS
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SOCIETÀ
L’impegno di Helvetiarockt per una maggiore presenza femminile nel settore musicale svizzero
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TEMPO LIBERO
È partito il conto alla rovescia per prepararsi alla faticosa e mitica Patrouille des Glaciers
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Reportage dalla Norvegia, dove il suicidio assistito è illegale, e cosa succede in Svizzera
ATTUALITÀ Pagina 25
Tra le lune ghiacciate di Giove
CULTURA Pagina 35
In occasione dei cinquant’anni dalla morte, mostre ed eventi internazionali ricordano Picasso
Trump incriminato, è tutto vero ma sembra finto
La notizia dell’incriminazione di Donald Trump ci è giunta poche ore prima che questo giornale entrasse nei rulli della rotativa per la stampa. È una tempesta mediatica, a partire dal nomignolo della pornostar che a quanto pare ha avuto la sua lucrosa avventuretta con l’ex presidente americano (tre minuti di sesso, secondo l’interessata, e sotto sotto questo è il dettaglio più imbarazzante per il super macho col ciuffo giallo). Lucrosa non tanto per il compenso della prestazione, ma per i soldoni – 130 mila dollari – sganciati diversi anni dopo da Trump per salvarsi la campagna elettorale, un finanziamento in nero per tacitarla e far sparire dalla propria biografia l’intemperanza coniugale. Si faceva chiamare Stormy (in italiano «tempestosa») Daniels, e a pensarci oggi sembra un nome inventato per una sceneggiatura di film di serie B o C tendente al trash.
In realtà non dovremmo stupirci: il trash è uno dei tratti caratteristici della cultura o subcultura trumpiana. Non sappiamo ancora in che modo questa clamorosa notizia si svilupperà nei prossimi giorni, ma a caldo proviamo un forte senso di straniamento. Perché l’ex presidente americano ci aveva abituati fin da subito a clamorosi colpi di scena, trasmettendoci sotto pelle l’impressione costante di trovarci sul set di un filmone hollywoodiano. Forse è questo il suo talento maggiore, la capacità di farci sentire come dentro un film, appunto. Da questo punto di vista, l’uomo di spettacolo Donald Trump non delude mai. Lo straniamento, tuttavia, dipende anche dalla fattispecie della vicenda. Se un presidente americano deve proprio finire incriminato, ci si aspetterebbe un genere di reato più impressionante. Nixon, per
dire, si era dimesso nel 1974 per uno scandalo, il Watergate, di natura assai più raffinata (le famose intercettazioni illegali nel quartier generale dei democratici a Washington). In realtà non è così, già Clinton aveva rischiato l’impeachment nel 1998 per i rapporti, diciamo così impropri con la stagista Monica Lewinsky. L’America, o almeno una parte di essa, resta piuttosto bigotta. Ma non facciamoci distrarre dal sesso (che fa sempre spettacolo). Sul piano dell’immagine – e del diritto – ciò che negli Stati Uniti non viene perdonato, non è la scappatella extraconiugale con l’avvenente tentazione di turno, è la menzogna. Nella mente semi puritana di molti americani più del comandamento che esige di non commettere adulterio, qui è stato violato quello che impone di non dare falsa testimonianza. In questo senso, Trump è caduto nella trappola dantesca della pena del
contrappasso. Proprio lui, che aveva lanciato il tema filosoficamente aberrante della post verità, lui, il campione mondiale delle fake news ad uso politico, è stato giudicato colpevole di bugia o almeno incriminato in quanto tale dal Gran Giurì di New York. Non sappiamo come andrà finire questa storia, anche se non ci sono dubbi che inciderà in modo assai significativo sulla campagna presidenziale del 2024, ma ci sentiamo ancora un po’ intontiti, come quando usciamo da una sala di un cinema dopo un film pieno di effetti speciali e di trame e sotto trame surreali. Trump incriminato sembra vero e finto allo stesso tempo. L’intelligenza artificiale lo aveva già mostrato a tutto il mondo in manette, e con la tuta da carcerato. Fino a venerdì pensavamo che fossero solo bizzarri scherzi della tecnologia di ultimissima generazione. Oggi sappiamo che a volte questi film diventano realtà.
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 3 aprile 2023 Cooperativa Migros Ticino
G.A.A. 6592 San t’Antonino
edizione 14 ◆ ●
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Loris Fedele Pagina 23
Carlo Silini
Keystone
«Una Migros senza marchi propri è impensabile»
L’intervista ◆ Il direttore di Migros Industrie Armando Santacesaria racconta come nasce gran parte dell’assortimento dei negozi
Kian Ramezani
È svizzero ma di origini italiane (Piacenza) ed è responsabile del dipartimento Migros Industrie, che produce gran parte dell’assortimento di Migros. Armando Santacesaria ci spiega i meccanismi della struttura che dirige.
Signor Santacesaria, per cominciare, di cosa si occupa alla Migros?
Dirigo Migros Industrie. I nostri impianti di produzione realizzano oltre 20’000 prodotti propri di Migros. Tè freddo Kult, Jowa-Bürli, dentifricio Candida, Frey-Risoletto e molti altri.
Ma alla Migros conviene produrre direttamente questi prodotti?
Assolutamente sì. Controlliamo l’intera catena del valore, dall’acqui-
Dati personali
Età: 51 anni.
Nato a: Piacenza, Italia.
Formazione: Economia aziendale presso l’Università Bocconi.
Esperienze professionali:
Gillette, Procter & Gamble e Kellogg.
Luogo di residenza: Risch, ZG.
Famiglia: moglie, due figli (21 e 19 anni), un gatto di nome «Jäger».
Un giorno nell’Industria Migros (quantità prodotte)
Croissant: 160’000 pezzi.
Risoletto: 20’000 pezzi.
Detersivo liquido Total: 11 tonnellate.
Blévita: 50’000 confezioni.
Tè freddo Cult: 150’000 litri.
Dentifricio Candida: 19’000 tubetti.
Detersivo per rigovernare
Handy: 7000 bottiglie.
I quattro stabilimenti Migros
Industrie in Ticino:
• Delica a Stabio (caffè).
• Delica a Taverne (riso).
• FFB Group a San Antonino (pane, panettone, ecc.).
• Merat/Tipesca a Sigirino (lavorazione carne e pesce).
sto delle materie prime allo sviluppo delle ricette, fino alla produzione e al confezionamento. Ad esempio, se Migros decide di utilizzare per il suo pane solo farina di qualità almeno IP-Suisse, possiamo iniziare a lavorarci immediatamente.
Quali sono i vantaggi per i clienti?
Lo dimostra la situazione attuale: anche Migros Industrie risente degli effetti dell’inflazione. Le materie prime, l’energia, i materiali di imballaggio, tutto è diventato più costoso e l’anno scorso ci ha causato costi aggiuntivi per diverse centinaia di milioni di franchi. Ma siamo in grado di ammortizzare almeno in parte l’aumento dei prezzi. Perché il nostro obiettivo non è mai quello di massimizzare i profitti, ma di offrire ai clienti Migros il miglior rapporto qualità-prezzo. L’importanza della nostra industria è stata dimostrata anche durante la pandemia di Covid, quando con i nostri stabilimenti abbiamo dato un importante contributo alla sicurezza dell’approvvigionamento della Svizzera.
Oltre all’inflazione, attualmente si legge molto sulla carenza di lavoratori qualificati. L’Industria Migros ne risente?
Ne risentiamo a tutti i livelli, dalla direzione alla produzione. Oggi ci sono oltre 350 posti di lavoro vacanti nell’Industria Migros. Invito i professionisti alla ricerca di una nuova sfida a dare un’occhiata al mercato del lavoro di Migros Industrie: produzione, ingegneria, IT – abbiamo molte posizioni interessanti da offrire.
Lei sottolinea l’importanza dell’Industria Migros per i marchi propri. Ma in realtà Migros aggiunge regolarmente marchi esterni al proprio assortimento.
Una Migros senza marchi propri è impensabile. Allo stesso tempo, vogliamo che i nostri clienti trovino nei negozi tutti i loro prodotti preferiti. Questo include anche marche esterne selezionate. La quota dei marchi propri nell’assortimento totale è stabile da anni intorno all’80%, perché
anche l’industria Migros lancia regolarmente sul mercato nuovi prodotti. Tra questi, molti prodotti a base vegetale del nuovo marchio proprio V-Love. O novità mondiali come CoffeeB, il sistema a capsule senza capsule con le sue palline di caffè completamente compostabili.
Oltre ai marchi esterni, c’è anche la pressione dei discount. Come pensate di crescere ancora come Industria?
Per noi la crescita non è mai fine a sé stessa. Vogliamo avere successo con i nostri prodotti e ispirare i clienti Migros con il miglior rapporto qualità-prezzo. La crescita riguarda soprattutto l’estero, dove esportiamo la «Swissness» con formaggio, caffè, cioccolato e prodotti cosmetici e per l’igiene.
Quanto è importante il mercato estero per l’Industria Migros?
Nel 2022 abbiamo raggiunto per la prima volta un fatturato di un miliardo di franchi all’estero. Questo corrisponde a uno dei sei miliardi che generiamo complessivamente all’anno. L’attività di esportazione influisce indirettamente anche sul
mercato svizzero, perché più vendiamo all’estero, meglio vengono utilizzati i nostri impianti di produzione. Questo, a sua volta, riduce i costi unitari per tutti.
Cosa tirerà fuori dal cilindro la prossima volta l’industria Migros? Stiamo lavorando su diversi temi di innovazione. Ad esempio, la «carne coltivata», prodotta da cellule staminali. Siamo convinti che questi prodotti possano contribuire a risolvere i cambiamenti climatici e la sicurezza alimentare globale nel lungo periodo. Tuttavia, una parte considerevole della nostra innovazione avviene lontano dai prodotti veri e propri, ad esempio nel settore degli imballaggi. Qui siamo stati i primi a lavorare il PET a partire dalla CO2
Lei è cresciuto in Italia. Ci sono prodotti che le mancano in Migros?
Sono arrivato in Svizzera 25 anni fa. Associo il caffè italiano alla mia giovinezza. Oggi è un viaggio in Italia e nel mio passato ogni volta che bevo un espresso con un alto contenuto di Robusta. È meravigliosamente terroso e nocciolato. In Svizzera è più
Il primo grande evento della stagione riparte dal Walking Mendrisiotto
Domenica 16 aprile 2023 ◆ Quattro splendidi percorsi immersi nel verde partendo dal Mercato Coperto
Tra poco meno di due settimane l’appuntamento con BancaStato Walking Mendrisiotto, il primo grande evento walking e nordic walking in Ticino della stagione. L’evento è in programma domenica 16 aprile 2023 presso il Centro Manifestazioni Mercato Coperto di Mendrisio e proporrà 4 splendidi percorsi immersi nel verde, pranzo offerto a tutti gli iscritti, area kids (con servizio gratuito di babysitting) e pomeriggio fitness dalle ore 13.30 alle 16.30. Info e iscrizioni su www. walkingmendrisio.ch.
Tante sono le novità in programma per 7a edizione di BancaStato Walking Mendrisiotto, sostenuto dallo sponsor principale BancaStato e dai co-sponsor Amag, Allianz
Suisse e Migros Ticino e con il sostegno della Città di Mendrisio.
Le principali novità dell’edizione 2023
La prima novità riguarda la location; l’evento torna infatti a svolgersi presso il Centro Manifestazioni Mercato Coperto di Mendrisio, situato a pochi minuti a piedi dalla stazione FFS. La seconda novità riguarda i percorsi, che oltre a proporre nuovi tratti, potranno essere scaricati sullo smartphone, e grazie alla geolocalizzazione attiva, ogni partecipante potrà sapere in tempo reale la posizione esatta sul tracciato. Per coloro che desiderano partecipare con il proprio amico a quattro
zampe è possibile selezionare la categoria «Walk&Dog » che permette di ricevere, oltre al pacco gara classico, anche una ciotola-ricordo per il cane e il pettorale con stampato il nome sia del padrone che del cane. Infine vi sono due importanti novità che riguardano il villaggio dell’evento: sarà proposta un’area kids gratuita con servizio di baby-sitting incluso e dalle 13.30 alle 16.30 si svolgerà la prima edizione del «Pomeriggio fitness» (aperto anche agli esterni) dove gli interessati potranno partecipare a sessioni dei seguenti corsi: Boot camp / Pilates matwork / Pilates reformer / Corsi posturali / Pancafit di gruppo / Spinning / Kids gym. Il costo per il pomeriggio fitness è di CHF 10 per gli iscritti ai percorsi walking e CHF 20 per gli esterni.
diffusa la varietà Arabica, dal sapore fruttato e solo leggermente amaro. A volte mi manca il caffè italiano della mia giovinezza.
Perché l’Industria Migros non produce caffè Robusta allora? Produciamo quello che piace ai nostri clienti, non quello che piace a me personalmente.
Lei ha lavorato in passato per grandi aziende statunitensi. Qual è la differenza maggiore con Migros? La motivazione. Migros ha un obiettivo superiore e prioritario: dare un contributo positivo alla società. Per i miei colleghi di Migros questo senso di responsabilità è chiaramente più importante di quello che ho sperimentato in queste aziende americane.
L’Industria Migros vuole che almeno un terzo delle donne occupi posizioni dirigenziali. Riuscirà a raggiungere questo obiettivo?
Ogni dipendente che fa capo a me ha questo obiettivo. Nelle assunzioni cerchiamo esplicitamente donne, organizziamo opportunità di coaching e networking. Questo sta già avendo effetto: ci sono cinque donne nel consiglio di amministrazione della nostra azienda di lavorazione della carne Micarna. Lo sviluppo di CoffeeB è stato guidato da una donna. Anche Jowa a Gränichen, in Argovia, la più grande panetteria della Svizzera con 800 dipendenti, ha un capo donna.
Quindi siete fiduciosi?
Siamo sulla buona strada e credo fermamente che raggiungeremo questo obiettivo nel breve termine e lo supereremo nel medio termine.
Ha mai avuto una donna come capo?
Diverse, e da tutte ho imparato molto. Alcune di loro sono state i miei mentori che mi hanno sostenuto nelle decisioni di carriera. Ma ho avuto donne forti nella mia vita fin da bambino: mia madre era una farmacista e mia nonna era l’unica insegnante del villaggio, e la cosa mi ha formato.
Iscrizioni
La quota d’iscrizione include: t-shirt, buono pasto per la zona ristorazione dell’evento, pettorale con il proprio nome, carta giornaliera per i mezzi pubblici Arcobaleno (2a classe, tutte le zone, valida il giorno dell’evento, codice inviato via email), rifornimenti e servizio sanitario lungo il percorso. Per la categoria «Walk&Dog » è inoltre prevista una ciotola-ricordo per il cane e il pettorale con nome del cane e del padrone.
Informazioni e iscrizioni www.walkingmendrisio.ch
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 3 aprile 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino MONDO MIGROS 2
«Controlliamo l’intera catena del valore, dall’acquisto delle materie prime allo sviluppo delle ricette, fino alla produzione e al confezionamento», spiega ai lettori di Azione Armando Santacesaria. (Nik Hunger)
Walking e nordic walking per tutti nel Mendrisiotto. (FotoGarbani)
SOCIETÀ
«ici. insieme qui.»
Angela Zumbrunn ci parla del programma di Impegno Migros che sostiene iniziative locali a favore dell’integrazione
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Figli, istruzioni per l’uso
Il pediatra Andreas Wechsler ha da poco pubblicato un manuale allegro e appassionato rivolto a chi ha figli dai 3 ai 16 anni
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Medici e industria farmaceutica
Tra le parti è il Codice etico dell’Accademia
Svizzera per le Scienze Mediche lo strumento che cerca di evitare i conflitti di interessi
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Helvetiarockt ◆ L’associazione si batte per l’uguaglianza di genere nel settore musicale svizzero, da un anno è presente anche in Ticino con diversi workshop
Seppure calchino sempre più palchi e suonino sempre di più, le donne continuano a essere sottorappresentate in tutti gli ambiti dell’industria musicale svizzera. Lo dice uno studio preliminare condotto dal Centro per gli studi di genere dell’Università di Basilea per conto di Pro Helvetia e del Centro svizzero di ricerca sociale. Basti pensare alle osservazioni mosse dalla cantautrice bernese Sophie Hunger rispetto alle programmazioni di festival musicali che vedono in scaletta solo formazioni maschili. E se è difficile per le musiciste già affermate ritagliarsi uno spazio, emergere, immaginate come deve essere arduo anche solo sognare una carriera simile per le ragazze che stanno iniziando a muovere i primi passi nel mondo della musica.
Per questo motivo, dodici anni fa, è nata l’associazione Helvetiarockt, che si batte per una maggiore diversità nel settore della musica svizzera. Obiettivo dell’associazione, promuovere l’uguaglianza tra i generi, ma come? Attraverso workshop e attività di sensibilizzazione. Dove? Su tutto il territorio svizzero, a partire dai 9 anni e per ragazze, donne e persone non binarie.
Attraverso i corsi e i laboratori, i momenti di tutoring, le giovani acquisiscono e sviluppano competenze musicali, sociali, tecniche e metodologiche e imparano a sviluppare reti di contatto. Trovano spazi sicuri nei quali è possibile sperimentare, scoprire novità e sfruttare sinergie su scala nazionale. Il ventaglio di offerte di Helvetiarockt è sempre più ampio e viene continuamente aggiornato. Da un anno poi, anche in Ticino c’è una persona responsabile a cui fare riferimento, Muriel Rhyner. L’ho incontrata all’indomani dell’apertura di un laboratorio a Losone incentrato sulla scrittura di canzoni e dedicato alle ragazzine dai 9 anni via.
Com’è andata? «Benissimo! C’erano solo due partecipanti ma possiamo lavorare molto bene, questi laboratori sono liberi, si viene quando si vuole e quando si può, servono come sostegno e danno sicurezza».
Originaria dalla svizzera interna, Muriel lavora per Helvetiarockt da 10 anni ormai: «Avevo iniziato come coach per le band quando vivevo a Zugo, poi ho iniziato ad avere idee più definite su come poter ampliare il sostegno e ho sviluppato i Songwriting camps». L’associazione è cresciuta negli anni a livello nazionale, e due anni e mezzo fa si è deciso di istituire dei management locali, due per la Svizzera centrale e dell’ovest, uno per la Svizzera romanda e uno per quella italiana.
«Io sono musicista – continua Muriel – suono il basso, canto e scrivo canzoni per il mio gruppo, i Delilahs. Ora siamo quattro, due donne e due uomini, ma 15 anni fa eravamo solo 3 ragazze. Facevamo punkrock. Ho conosciuto il mondo della musica in Svizzera, non era sempre facile per noi, mancava l’esempio. Mancano le donne sui palchi».
La stessa motivazione aveva portato tre jazziste, nel 2009, a creare Helvetiarockt, «erano attive – spiega Muriel – e hanno notato anche loro che mancavano le donne anche dietro ai palchi. C’è qualcosa che non va nel sistema, perché nelle scuole di musica la metà sono studentesse, ma poi una volta terminate le accademie nel mondo professionale le donne spariscono». Perché? E dove vanno a finire? «Buona domanda, personalmente credo che la musica possa essere qualcosa di molto intimo. Puoi imparare a scrivere le canzoni, farlo bene, affinare la tua tecnica, ma questo è un mondo dove a un certo punto devi iniziare a lottare per salire sul palco, presentarti di fronte a un pubblico, essere cool, essere forte. In adolescenza questo non è scontato, soprattutto per le ragazze. Io per esempio, mi sono chiusa. Mi sono nascosta dietro, mi sono fermata e ho lasciato andare avanti i ragazzi. Più tardi però ho iniziato a
suonare con mio fratello e mia madre mi ha sempre supportato, ma in generale una grande parte parte delle ragazze non segue più la strada della musica».
Mi viene alla mente però un movimento nato a metà anni Ottanta negli Stati Uniti e poi arrivato da noi nei Novanta, a opera di giovanissime, rivoluzionarie adolescenti femministe punk, le Riot grrrl. «Certo, c’erano loro, ma era un unicum, un solo movimento rispetto all’oceano musicale. Piccolo, anticommerciale e superpunk. Quello che si lamenta è che ci sono pochi modelli di ruolo visibili, mainstream. La prima volta per esempio che ho visto un gruppo formato unicamente da donne è stato lo shock più bello della mia vita, avevo 14 anni, e su MTV suonavano le The donnas, una sorta di seconda ondata Riot ma mainstream. Se non hai un modello, come puoi sognare di arrivare lì?».
Certo, ora la società sta cambiando. Sempre più donne stanno prendendo posti di grande visibilità: politiche, artiste, sportive; e sempre più professioniste possono essere abbracciate dallo sguardo delle bambine, tanto che forse queste ultime non si porranno nemmeno questi problemi in un futuro dove tutto sembra possibile.
«Sono cambiate molte cose – conferma Muriel Rhyner – anche nel panorama della musica svizzera. Noi abbiamo fatto rete certo, e sensibilizzato». Scopro così l’esistenza della piattaforma musicdirectory.ch a opera di Helvetiarockt, dove si possono registrare donne e persone non binarie attive nel settore musicale svizzero. Così da essere visibili, raggiungibili e collaborative. Una piattaforma che è anche luogo d’incontro e collaborazione per band, strumentiste, deejay, tecniche del suono, produttrici, fotografe.
Tornando alle proposte per le ragazze, le future professioniste di domani: «i cambiamenti li notiamo nei corsi che diamo. Durante i Summer writing camp le ragazze erano prima chiuse e molto timide, ora invece conosco persone più forti che hanno coraggio. Quello che accade poi alla fine di questi corsi è l’emancipazione, il rafforzamento. Anche con la conoscenza minima di uno strumento. Succede, si può quasi toccare con mano!».
Concretamente, l’offerta per tutte le ragazze, giovani donne, e persone non binarie, è organizzata su quattro livelli che partono dal primo, regionale, di bassa età, all’ultimo per musiciste affermate a livello nazionale. In Ticino ci sono diversi workshop:
Tra le proposte di Helvetiarockt c’è anche il «bandworkshop» rivolto a musiciste di giovani gruppi musicali che possono sperimentare e provare brani sotto la guida di professioniste di grande esperienza. (Danielle Liniger)
songwriting per conoscersi e scrivere canzoni, dai 9 ai 13 anni, dal 19 al 22 giugno al Centro Giovanile di Losone con le coach della Svizzera italiana, le musiciste Camila Koller e Francesca Lago, ma anche il laboratorio che propone diversi pomeriggi a cadenza mensile da febbraio a dicembre sempre a Losone con Camila Koller e Muriel Rhyner, sempre dai 9 anni. Poi il bandworkshop che permette di sperimentare e raccogliere esperienze con altre musiciste, con Francesca Lago all’Helvetic Music Institute di Bellinzona, sempre nel corso dell’anno (da aprile a ottobre) dai 14 ai 25 anni di età.
In questo caso il corso è rivolto a musiciste che fanno parte di una band appena creata e si tratta di provare i brani sotto la guida di professioniste che vantano esperienze pluriennali sui palchi. A fine percorso, in autunno, le band si potranno esibire in concerti appositamente organizzati da Helvetiarockt, sia in Ticino che oltregottardo. Oltre all’esperienza e alla fiducia in sé stesse quello che va conquistato è anche «la tecnica! È molto importante che non venga messa da parte anche per le donne» conclude Muriel Rhyner.
● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 3 aprile 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 3
Informazioni www.helvetiarockt.ch
«Vogliamo più donne sui palchi»
Valentina Grignoli
Pranzo festivo succulento
Attualità ◆ Con i preziosi suggerimenti e consigli dei nostri macellai qualificati, la preparazione del menu pasquale sarà un successo. Tra i piatti più classici serviti per l’occasione alle nostre latitudini, il capretto la fa da padrone
La ricetta Capretto al forno
Ingredienti per 4 persone
• 2 kg di capretto tagliato
• 2 cucchiai d’olio d’oliva extravergine
• 4 rametti di rosmarino
• 2 foglie di salvia
• 4 spicchi d’aglio
• 100 g di burro
• ½ litro vino bianco secco • sale e pepe
Preparazione
1. Preriscaldare il forno a 170-180 °C.
2. In una pentola, rosolare per bene il capretto nell’olio d’oliva.
3. Dimezzate l’aglio, privatelo del germoglio verde e tagliatelo a fettine. Staccate gli aghi dai rametti di rosmarino e uniteli al capretto, assieme all’aglio.
4. Salate la carne. Unite il burro a tocchetti e mescolate il tutto.
5. Cuocete il capretto nel forno per ca. 90 minuti.
6. Bagnate con il vino e continuate la cottura per ca. 20-30 min.
7. Regolate di sale e pepe.
Azione
25% Capretto, Francia, al banco a servizio, per 100 g Fr. 2.70 invece di 3.60 dal 4.4 all’8.4.2023
Ingredienti di qualità, consigli competenti degli esperti e una buona pianificazione sono i presupposti imprescindibili per un pranzo di Pasqua ben riuscito e che possa accontentare pienamente tutti gli ospiti. I reparti macelleria dei supermercati Migros rappresentano l’indirizzo giusto a
cui rivolgersi per trovare la specialità adatta a celebrare l’importante festività. Dal gigot d’agnello all’entrecôte di manzo irlandese, dal maialino da latte al capretto, senza dimenticare gli sfiziosi antipasti composti, per esempio, dai paterini al tartufo, coniglio, noci o Gin Bisbino… ce n’è per ogni gusto.
Il pesce del Venerdì Santo
Il classico capretto
Il capretto è una delle pietanze pasquali della tradizione nel nostro cantone. La sua carne possiede un sapore dolce e delicato, una consistenza tenera e fondente ed è relativamente povera di grassi. La sua preparazione è semplice ed è cucinato soprattutto al forno.
Si abbina particolarmente bene a erbe aromatiche quali rosmarino, timo, basilico, salvia, origano e coriandolo; come pure a condimenti come aglio, olive, aceto balsamico, pesto e salsa di soia. Gli accompagnamenti ideali sono patate al forno, polenta e verdure miste di stagione saltate in padella.
Attualità ◆ Per molti il venerdì che precede la Pasqua è tradizione consumare del pesce. I banchi del pesce fresco Migros propongono un’ampia scelta di specialità ittiche sostenibili, tra cui il salmone biologico
Il salmone è sicuramente uno dei pesci più apprezzati dai consumatori. Oltre ad essere un alimento versatile, dal gusto delicato e facile da cucinare in molti modi, contiene anche importanti vitamine, sali minerali, proteine e acidi grassi omega 3, grassi considerati benefici per la nostra salute.
Ampia scelta di pesce
sostenibile nelle pescherie
Migros
Coloro che, accanto al gusto, sono particolarmente sensibili anche alla sostenibilità, alla Migros trovano l’ottimo salmone biologico, sia al banco che a libero servizio. Questo pesce proviene da piscicolture norvegesi o irlandesi gestite in modo responsabile. Ciò significa che i pesci sono alimentati solo con cibo biologico e dispongono di ampie vasche in cui muoversi liberamente. Inoltre, sono vietati ormoni e OGM.
Consigli e idee
Il salmone si presta bene a qualsiasi tipo di cottura, in padella, alla griglia, al vapore oppure al forno. Non cuocere il filetto di salmone troppo a lungo onde evitare che la carne si secchi troppo e diventi stopposa. L’interno del pesce può anche rimanere leggermente rosato. Per verificare la cottura, pungere la parte più spessa con una forchetta: se la carne risulta di colore opaco e si sfalda facilmente il pesce è cotto al punto giusto. Pasqua è un’occasione perfetta per portare in tavola un bel filetto di salmone al forno poiché permette di approntare un menu raffinato e saporito in poco tempo, lasciando più spazio da dedicare ai propri ospiti. Per un piatto completo in sentore di primavera, servire il pesce accompagnato per esempio da asparagi, riso selvatico al burro, una salsina all’aneto o al limone e una croccante insalata di stagione.
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 3 aprile 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino MONDO MIGROS 4
Azione 10% Su tutto l’assortimento di pesce fresco al banco a servizio dal 4.4 all’8.4.2023
Filetti di salmone al forno su letto di asparagi: un piatto primaverile gustoso e leggero che incanta chiunque.
Il responsabile della macelleria del nuovo supermercato Migros di Losone, Ruben Teixeira, vi invita a gustare il capretto fresco.
Flavia
Leuenberger Ceppi
Un must del periodo pasquale
Attualità ◆ La colomba prodotta nel panificio Migros di S. Antonino non può mancare sulla tavola delle feste
Il panificio ticinese della Migros come ogni anno sforna per tutta la Svizzera colombe per ogni gusto e palato. «La nostra gamma vuole soddisfare ogni goloso del dolce pasquale per eccellenza», afferma Graziella Rizzi, responsabile della sede di S. Antonino dell’azienda Migros Industrie FFB-Group (ex Jowa). «Alla clientela offriamo una varietà di scelta che
comprende la colomba classica con canditi in diversi pesi e formati, sia in sacchetto che in scatola; la colomba senza canditi; la colombella da 120 grammi perfetta per la merenda dei bambini o per soddisfare la voglia di dolce fuori casa e, fiore all’occhiello della nostra produzione, la colomba artigianale, facente parte della linea premium Sélection». Ma in co-
sa si distingue dalle altre quest’ultima variante? «Si tratta di un prodotto a lenta lievitazione naturale sostanzialmente più ricco di ingredienti e che richiede maggiore attenzione nella sua lavorazione artigianale», aggiunge Graziella Rizzi. «Oltre all’utilizzo di pregiato lievito madre nel suo impasto – componente che conferisce al prodotto un gusto e un profu-
Azione 40%
Gerani ticinesi vaso da 10.5 cm Fr. 2.35 invece di 3.95 dal 4.4 all’8.4.2023
mo particolari, un’ottima freschezza e una migliore conservabilità – la colomba non contiene arancini ma viene arricchita con varie tipologie di frutta secca, come noci, albicocche e fichi». Insomma, un prodotto esclusivo che regala momenti di piacere e convivialità esclusivi e che ben si presta a sottolineare degnamente la ricorrenza della Pasqua.
Tripudio di colori con i gerani ticinesi
Attualità ◆ Nei reparti fiori e Do it + Garden Migros ti aspettano i gerani di produzione locale. Approfitta questa settimana dell’offerta speciale su questi bellissimi fiori
I gerani trasformano balconi, terrazze e giardini in un’oasi di colori e profumi che si protrae fino a estate inoltrata. Nei reparti fiori e nei Do it + Garden Migros sono appena arrivati i gerani di produzione ticinese, coltivati con passione e pluriennale esperienza dall’azienda a conduzione familiare Rutishauser di Gordola. Rossi, rosa o bianchi, i gerani sono i fiori più amati dagli svizzeri. Al fine di ottenere un risultato soddisfacente, gli esperti della Rutishauser consigliano di trapiantare i fiori appena acquistati in un vaso o in una fioriera più capiente, oppure
in piena terra, aggiungendo dell’apposito terriccio universale per fiori. I gerani devono essere annaffiati regolarmente, al mattino o alla sera, ma senza esagerare: il terreno deve essere umido ma non fradicio. Altro aspetto importante è quello di aggiungere un fertilizzante liquido specifico per gerani, regolarmente durante il periodo vegetativo, su terreno umido, da una a due volte alla settimana. Così facendo, le piante assorbono in modo ottimale le sostanze nutritive contenute nel concime. I fiori appassiti o marci vanno eliminati.
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 3 aprile 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino MONDO MIGROS 5
Colomba Artigianale Sélection 500 g Fr. 18.60
Anche noi viviamo qui
Integrazione ◆ A colloquio con Angela Zumbrunn, responsabile del programma «ici.insieme qui.» di Impegno Migros
Simona Sala
Qui viviamo e qui siamo destinati a restare. Qui è dove avviene la vita e qui è anche dove può svilupparsi il futuro. È questo in sintesi il leitmotiv che sta alla base dell’iniziativa «ici.insieme qui.» Il programma di sostegno nasce da un’iniziativa di Migros Impegno, della Stiftung für Sprach- und Bildungsförderung SSUB (Fondazione per la promozione linguistica e formativa, ndr) in collaborazione con la Commissione federale della migrazione CFM, con la Conferenza Svizzera dei delegati all’integrazione CDI, con Kofi-cosi (KoFI, Conferenza svizzera dei servizi specializzati nell’integrazione) e con la Conferenza tripartita CT.
L’iniziativa viene sviluppata e messa in pratica da Migros Impegno, che ogni anno si mette a disposizione della società con un importo di 150 milioni di franchi.
Il gruppo Migros, maggior datore di lavoro privato del nostro Paese, nel 2022 impiegava 97’727 dipendenti provenienti da ben 170 nazioni diverse. Una prova, casomai ve ne fosse bisogno, della diversità culturale del nostro Paese. Ed è proprio a questa diversità culturale, la quale in fondo rappresenta anche la ricchezza della Svizzera, che si rivolge il nuovo programma di sostegno «ici.insieme qui.». Poiché le diversità vanno vissute, comprese e valorizzate attraverso momenti aggregativi di natura varia, le persone devono avere modo di incontrarsi, così da crescere insieme e dare il proprio prezioso contributo per una società più coesa. E obiettivo di «ici.insieme qui.» è proprio quello di sostenere le persone che su base volontaria si impegnano nella promozione della coesione e delle pari opportunità in Svizzera.
Il primo bando di concorso della campagna «ici. insieme qui.» (autunno 2021) ha avuto un successo enorme: 233 richieste di sostegno pervenute da tutta la Svizzera, 92 progetti scelti e sostenuti (oltre che finanziariamente anche con dei coach) per un arco di due anni per un totale complessivo di 1,1 milioni di franchi. Nel giugno del 2022 è stato organizzato anche un primo evento di networking cui hanno partecipato ottanta persone da tutta la Svizzera: l’idea era di fare conoscere tra di loro i protagonisti dei progetti sostenuti da «ici. insieme qui.», così da dar loro modo di sostenersi a vicenda e di mettere a disposizione le proprie competenze.
Alla luce di questo successo e riconoscendo la necessità di ulteriori sforzi tesi a migliorare la convivenza sociale, Impegno Migros, ha lanciato un secondo bando (vedi box) che scadrà nel mese di maggio.
Responsabile della selezione dei progetti del nuovo bando di concorso, nonché curatrice di questa importante iniziativa, è Angela Zumbrunn, che dopo numerose e arricchenti esperienze lavorative istituzionali in Svizzera e all’estero, del suo nuovo posto di lavoro apprezza soprattutto la possibilità di esprimersi ed entrare in contatto con i lati creativi dei progetti. L’abbiamo incontrata nei luminosi uffici dell’ex birrificio Löwenbräu di Zurigo, sede della Direzione Società e cultura della Federazione delle Cooperative Migros, che costituisce il centro di competenza dell’impegno di Migros nell’ambito della società.
Angela Zumbrunn, qual è il «background umano» che si porta appres-
so per affrontare queste importanti sfide sociali?
Io sono nata in Sri Lanka e sono stata adottata quando ero molto piccola. Sono dunque cresciuta in un’economia domestica svizzera, sono sta-
Cercasi iniziative
ta socializzata da svizzeri e mi sono formata qui. In questo senso il mio background non è paragonabile a un background migratorio. Eppure la mia esperienza di coloured person mi lega a chi ha un vissuto migratorio.
Quando ho cominciato a viaggiare per il mondo, diventando più indipendente, è cresciuta in me la consapevolezza delle reazioni della società nei confronti di chi è diverso dalla norma: ho quindi cominciato presto a pensare a cosa avrei potuto fare per combattere le discriminazioni che si vivono nella quotidianità. Uno dei miei target principali è diventato l’abbattimento dei pregiudizi, che esistono un po’ ovunque.
Quale è invece la sua formazione?
Cosa pensa di potere integrare nel nuovo lavoro partendo dalla sua esperienza professionale e di vita? Sono consapevole che il mio percorso di vita non è lontanamente paragonabile alla vita di persone costrette a lasciare il proprio Paese, poiché io sono stata socializzata e formata qui. Ho però potuto rendermi conto di quanto sia stata fortunata, e penso quindi che sarebbe bello potere restituire qualcosa a chi questi privilegi non li ha. Il progetto che curo per Impegno Migros ruota intorno all’integrazione sociale. Noi non facciamo integrazione al lavoro, poiché è compito dei cantoni, ed è proprio per questo che nel progetto sono coinvolti molti enti: vogliamo evitare una sovrapposizione dell’offerta. Quello che offriamo noi alle persone immigrate è un accesso alla società, indipendentemente dal loro status giuridico, e questo è un aspetto che amo molto.
Ha avuto modo di portare un po’ della sua esperienza nel nuovo progetto?
Certo, qui posso dare degli input personali. Per me è molto importante abbattere gli eventuali ostacoli di accesso al programma. Abbiamo quindi facilitato i moduli di ammissione e fatto in modo che il bando di partecipazione potesse essere disponibile in ben diciassette lingue diverse, dal macedone alla lingua tigrina, passando per il croato, il turco, l’ucraino, l’arabo, e così via. Speriamo in questo modo di raggiungere un numero ancora maggiore di persone. Trovo importante rendere visibili le persone che godono di poca visibilità e di poco ascolto.
Ci illustra un esempio di progetto premiato nel primo bando di «ici. insieme qui.»?
Migros Impegno offre un importante sostegno finanziario a progetti che favoriscono l’integrazione in Svizzera.
Si cercano dunque progetti che permettano a persone provenienti da culture diverse di incontrarsi nella vita quotidiana e promuovano la crescita multilingue dei bambini prima che inizino la scuola dell’infanzia. Possono richiedere un sostegno i team interculturali di volontari che re -
alizzino progetti o iniziative a livello locale: a partire da autunno 2023 i progetti selezionati dalla giuria saranno finanziati con contributi da 1000.–a 25’000.– franchi e riceveranno assistenza e consulenza tecnica per un anno. I progetti possono essere inviati a partire dal 3 aprile 2023.
Per maggiori informazioni www.ici-insieme-qui.ch/sostegno
Proprio in virtù di quanto dicevo prima, ho studiato antropologia sociale a Berna e a Londra. Dopo lo studio ho lavorato al consolato generale di New York per un praticantato in ambito culturale: il mio compito era quello di accompagnare gli artisti sostenuti da Pro Helvetia. Ho poi lavorato all’Ufficio federale per la migrazione, l’odierna Segreteria di Stato della migrazione (SEM), dove mi occupavo di asilo politico e mi confrontavo con i destini dei rifugiati. Dopo oltre dieci anni di esperienza nelle amministrazioni federale e cantonale, ho cominciato a sentire il desiderio di svolgere un lavoro che mi desse maggiori libertà creative, pur restando in ambito migratorio. Qui a Impegno Migros ho trovato esattamente ciò che cercavo, e mi sono resa conto di potere smuovere molte cose, oltre ad apprezzare il senso profondo del progetto a cui sto lavorando.
Trovo molto bello il lavoro della Integrationsbrücke Bern (ponte per l’integrazione, Ndr): in quell’associazione lavora Farhad, un rifugiato siriano curdo giunto in Svizzera con il fratello nel 2015. In pochissimo tempo Farhad ha imparato il tedesco, e oggi può offrire ai suoi connazionali un servizio gratuito di accompagnamento alle istituzioni e ai vari uffici. In fondo Farhad non fa altro che trasmettere il proprio know how e le sue esperienze. Grazie al contributo finanziario di Impegno Migros ora Integrationsbrücke Bern può coprire almeno le spese vive e Farhad potrà raggiungere e aiutare ancora più gente. Questa è una cosa che vediamo spesso: molte persone con un passato migratorio si impegnano per rendere meno complessa l’integrazione di altri mettendo a disposizione la propria esperienza.
Cosa si auspica per la nostra società?
Vorrei che tutte le persone che vivono in Svizzera possano partecipare alla costruzione della società con gli stessi diritti. Mi piacerebbe inoltre che nella vita pubblica, ad esempio nei mass media e nel mondo della politica, vi fossero più persone con un senso di appartenenza a comunità cultural-identitarie diverse tra di loro. È questo che auguro alla Svizzera ed è questo che amo del mio lavoro: faccio qualcosa di molto sensato a livello personale e che spero possa dare frutti tangibili.
6 Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 3 aprile 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino SOCIETÀ
L’allegro manuale di biologia che spiega ai genitori lo sviluppo infantile
Pubblicazioni ◆ Esce per Casagrande il secondo libro del pediatra Andreas Wechsler che rassicura:
«Genitori, non sbagliate mai e adesso vi dico il perché»
Sara Rossi Guidicelli
«Il bambino si sviluppa, non viene sviluppato. Cresce, non viene cresciuto. È questa la buona notizia che vorrei dare a voi genitori: non preoccupatevi troppo, divertitevi con i vostri figli, perché se vi rilassate va tutto meglio e i bambini diventano comunque adulti, che voi vi agitiate o no». Stiamo parlando con Andreas Wechsler, uno dei pediatri svizzeri più amati, lavora a Lugano, e quello che è appena uscito è il suo secondo libro. Di formazione biologo, il dottor Wechsler ha scritto dapprima Genitori per divertimento, figli per passione, rivolto a chi ha figli tra 0 e 3 anni; ora, Casagrande Editore ha pubblicato il «sequel»: Infanzie calzanti per piccoli e grandi. Istruzioni per l’uso dai 3 anni all’adolescenza
Si tratta di un manuale con parti narrative che espongono il punto di vista del pediatra, del genitore e del figlio (l’autore dichiara subito che per questioni di semplicità usa la forma maschile e l’esempio della famiglia tradizionale mamma-papà, ma che ovviamente ogni coppia e ogni bambino o bambina è incluso nel suo discorso). Con tono ironico e allegro, in meno di 140 pagine affronta le leggi dello sviluppo dei piccoli cuccioli di umano dal momento (circa) in cui prendono la parola al momento in cui (adolescenti) ce la tolgono o ce la tirano contro. «Leggerezza però non significa superficialità», ci tiene a ribadire. «Desidero che i genitori si gustino di più i momenti con i figli, e questo è un discorso profondo anche se uso un tono lieve. Quello che più mi preme dire è: una mamma, un papà, non sbagliano mai. Non sbagliano perché le intenzioni sono buone, quindi al limite c’è un malinteso. Spiegare alcuni punti dello sviluppo infantile serve a ridurre questi malintesi, con lo scopo finale di divertirsi di più».
Quello che un genitore dovrebbe fare è dunque: non prendere mai niente sul personale di ciò che arriva
dai figli; cercare gioia anche in ambiti in cui i propri pargoli non c’entrano niente; non fingere né cercare di avere più pazienza di quella che si ha.
Quindi, se è una giornata no, meglio dirlo subito. Il dottor Wechsler lo ha capito quella volta che ha preso per il collo suo figlio. «Mentre lo sollevavo e le sue gambe penzolavano, pensavo che questo non era affatto il mio modello educativo. Dopo tale episodio ho imparato a dire: Oggi non è giornata». I figli stranamente capiscono all’istante, filano in camera e fanno quello che vogliono senza dare disturbi.
È bene anche dire loro esplicitamente quando non si ha voglia di giocare. È ottimo anche far sapere che si ha proprio voglia di uscire con i propri amici o andare a fare un’attività solo per adulti. I figli non devono sentirsi responsabili della felicità dei genitori e gli fa un gran bene sentirsi dire che alla mamma e al papà piacciono tante altre cose al mondo oltre a loro.
La parte più difficile, per molti, soprattutto con adolescenti per casa, sarà il non prenderla sul personale. E allora il pediatra suggerisce un allenamento: imparare a distinguere il disagio dalle parole espresse. E poi: rispondere a quel disagio e non alle parole. Per esempio se il bambino mi chiama befana, o il ragazzo elenca tutti i miei difetti posso semplicemente rispondergli: «Che peccato».
E così, di consiglio pratico in consiglio pratico, questo libro si legge con facilità, persino ridendo. Per ogni età (3-6 anni; 7-11; 12-16) si affrontano i temi del linguaggio e della comunicazione, per esempio: «Ai bambini piccoli cercate di parlare come parlano i nonni, cioè senza spiegare ma raccontando». Oppure: togliete dal vostro vocabolario la parola perché e puntate di più sul concetto di fiducia. A uno di quattro anni che fa il balordo sul marciapiede dite «Siamo in strada, ci diamo la mano». A uno di sette che non
L’immagine di copertina del libro Infanzie calzanti per piccoli e grandi
vuole uscire di casa proprio quando la macchina è caricata per due settimane al mare: «Oggi è il giorno giusto per andare in vacanza». E a un adolescente depresso non chiedete niente. Però state bene in ascolto.
Un altro tema è quello dell’autoregolazione e le cose, a detta dell’autore, sono piuttosto semplici. Dai 3-7 anni se noi genitori ci comportiamo bene, il nostro piccolo ci imiterà. A casa sarà anche un diavoletto ma fuori tutti ci diranno che è bravo, educato, dice per favore e saluta… cosa che non gli avete mai visto fare ma che lui vede fare a voi. Idem per la dieta: i bambini vengono su benissimo anche se non mangiano tutta la verdura e la frutta che si è soliti consigliare. Ma è importante che vedano i genitori mangiare frutta e verdura, perché devono poterli imitare quando saranno più grandi.
Se poi il bambino, nella fase in cui si sente un supereroe decide che vuole partire di casa, aiutatelo a fare la valigia. Tornerà di certo, e invece
di filosofeggiare con lui sul concetto di famiglia, solitudine e pericoli della strada, voi aiutatelo a disfare la valigia. Meglio sempre restare sul concreto, secondo Wechsler.
Gli altri temi sono lo sviluppo cognitivo, quello neuromotorio, l’arrivo del fratellino e la coppia di genitori che si separa o l’entrata di qualche variazione importante nella composizione famigliare.
Il libro è costellato di chicche, come per esempio: «I genitori devono solo esserci, proporre il meno possibile, strutturare ancora meno. Siamo arrivati ai tre anni? Bene, il più è fatto. Io sono la mamma, lui è il papà. Basta così. Il resto lasciamoglielo scoprire da solo». Sembra molto rilassante, ma se a dirlo è un esperto dello sviluppo infantile diventa subito galvanizzante, non trovate?
Con i fratelli, l’importante è creare alleanza fra loro. Quindi, se un figlio fa una marachella, è sempre meglio dare la colpa a tutti i figli, dicendo:
«Mi avete scocciato» e mandarli fuori dalla porta. Wechlser addirittura ai suoi figli di solito raccomandava di «menarsi come si deve in modo che almeno uno dei due cominci a sanguinare» poi si appostava alla finestra e vedeva come si mettevano a giocare sereni e coalizzati.
Poi arriva l’epoca scolastica e la scuola, va ricordato, è «quella cosa inutile intorno alla ricreazione». Provate a dire a vostro figlio: «Chi se la cava durante la ricreazione, se la caverà tutta la vita» e vedrete i benefici, anche sul piano scolastico. E per le birichinate: non dimenticate che ci vuole cervello, inventiva e coraggio a farle, quindi gioite, genitori, gioite!
Alla fine, c’è la fase del distacco, l’adolescenza, quando la mamma e il papà si appendono un grande bersaglio sul petto con scritto «sparate qua» e i figli obbediscono come mai avevano fatto. Il genitore diventa vittima consenziente e sta all’erta: se il figlio ce la fa a continuare un’attività extrascolastica come per esempio uno sport, possiamo stare tranquilli che non si autodistruggerà: saprà fermarsi prima, come siamo riusciti noi. È normale che alla sera i ragazzi non dormano, perché siamo stati cacciatori per decine di migliaia di anni ed è al crepuscolo che si esce a caccia, «non importa se nella foresta, in discoteca o su un dispositivo elettronico». Quindi il fatto di non prendere sonno la sera è un fenomeno biologico e il dottor Wechsler dà dunque qualche consiglio per attenuare le conseguenze negative che ne derivano.
Il nostro ruolo è quello del tassista che porta il figlio a fare attività interessanti con altra gente. E alla fine, la natura prevede il distacco; «emancipazione significa giovani adulti liberi da una parte, genitori abbandonati dall’altra. Se tutto va bene, dunque, i genitori devono essere salutati, e rimanere solo quello che sono: una mamma e un papà».
Viale dei ciliegi di
Il razzismo. Il libro dei perché
Usborne (Da 5 anni)
Ha gli angoli stondati, è fatto in robusto cartonato, ha più di sessanta alette da sollevare per scoprire cosa c’è sotto, ha tantissime illustrazioni, proprio come si conviene a un libro destinato ad essere maneggiato da piccoli lettori, sin dalla scuola dell’infanzia. Eppure, in questa veste vivace e apparentemente leggera, parla di un tema serio e profondo, e lo fa con serietà e profondità. Serietà e profondità che non significano pedanteria, ma – essendo questo un libro fatto con intelligenza – immediatezza, semplicità, chiarezza. Questo è un libro che parla ai bambini di razzismo. Ne parla attraverso tante domande, le domande che si porrebbe un bambino: cos’è il razzismo? Perché non tutti capiscono il razzismo? Cosa c’entro io con il razzismo? Sono razzista se imito i gesti di altri popoli? Come posso fermare il razzismo? E molte altre, ognuna con una linguetta da sollevare per scoprire le risposte, ed è qui che emerge l’intelligenza degli autori, per-
ché sono risposte che riescono ad essere articolate ed esaustive senza perdere limpidezza e semplicità. C’è calore, c’è empatia, grazie anche al fatto che spesso queste risposte sono formulate attraverso esempi pratici, espressi in prima persona da personaggi bambini, in situazioni e contesti immediatamente comprensibili. Del resto, la capacità di produrre libri davvero per bambini è una prerogativa della casa editrice Usborne. E non è una cosa scontata, perché non di rado l’editoria per l’infanzia propone libri – magari con illustrazioni anche molto raffina-
te, o tematiche che vorrebbero essere alte – non rivolti davvero all’infanzia. Ci si potrebbe chiedere a chi: ai genitori? Agli insegnanti? O forse piuttosto ai critici, agli esperti, agli studiosi? Ma qui si aprirebbe un discorso lungo… Torniamo a questo libro, che potrà avere una lunga vita sullo scaffale dei bambini, nel senso che è fatto per essere letto e riletto, ogni volta approfondendo nuovi aspetti, a più livelli di comprensione, a seconda dell’età dei bambini (e anche degli adulti). E concludiamo con un invito a scoprire anche le altre proposte di questa casa editrice, che festeggia il mezzo secolo, essendo stata fondata in Inghilterra nel 1973 da Peter Usborne, ancora attivo in azienda, con la sua famiglia.
Walter Fochesato Raccontare la guerra. I libri per bambini e ragazzi che bisogna conoscere Interlinea
Questo è un saggio rivolto agli adulti, su un tema purtroppo sentito come sempre più urgente da chi vive ac-
canto ai bambini. Come raccontare loro la guerra, a maggior ragione oggi che l’aggressione russa dell’Ucraina ha reso questo tema di drammatica attualità, oltre che di quotidiana presenza su tutti i mezzi di comunicazione? L’urgenza di tale domanda ha certamente contribuito alla riedizione di questo saggio, uscito per la prima volta nel 2011, e già allora di importanza fondamentale come apporto storico-letterario e bibliografico. L’edizione attuale è rinnovata, aggiornata e integrata, in particolare in merito alle nuove uscite di questi undici an-
ni e a una sezione, a cura di Enrico Macchiavello, sul graphic novel Sono pagine di grande interesse e ricchezza, che ci conducono dalle piccole vedette lombarde deamicisiane e dai piccoli alpini gottiani su su per tutto il Novecento (mostrando bene come l’ideologia dominante penetri nella letteratura per l’infanzia, che tuttavia riesce sempre a mantenere spiragli di resistenza), fino ai giorni nostri, di cui si sottolineano alcune tendenze importanti, come il deciso aumento sia di testi su Shoah e Lotta di Liberazione, sia di albi illustrati, che raccontano la guerra –spesso in chiave metaforica – anche ai più piccoli.
La premessa che sottende tutto il lavoro di Walter Fochesato è che «la consapevolezza attorno alla vera natura della guerra e agli orrori che porta con sé» debba passare «attraverso la narrazione della guerra stessa». Giacché «ogni discorso attorno alla pace e al suo valore non può semplicemente risolversi, come sovente accade, in una magari sincera e accorata difesa della pace».
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 3 aprile 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 7 SOCIETÀ
Letizia Bolzani
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Jordan Akpojaro-Ashley Evans
Carburanti «normali» o «speciali»?
Motori ◆ Non è solo una questione di costi, ma anche di performance
Mario Alberto Cucchi
Benzina o gasolio. A questo si riduceva una volta la scelta alla pompa di servizio quando era il momento di rifornirsi di carburante. Anche se il «New York Times» ha ricordato in un articolo che, negli anni Sessanta, una catena di distributori americana forniva ai suoi clienti otto tipi di benzina diversa.
Oggi, in Svizzera, ad ogni pompa spesso abbiamo almeno tre alternative. I carburanti cosiddetti «normali» e quelli «speciali» che sono più costosi. Siccome quelli normali sono utilizzati da sempre, e vanno bene, in molti non si chiedono neppure quale sia la differenza e vanno sul sicuro. Vediamo però di fare chiarezza.
La benzina con il numero di ottani ottimale migliora la combustione ma non garantisce minor consumi o l’andare più veloce
La benzina a 98 ottani di elevata qualità è caratterizzata da un alto potere antidetonante mediamente superiore di cinque punti rispetto alle benzine standard. Grazie alla presenza nella sua formulazione di un pacchetto di additivi detergenti, l’utilizzo determina la rimozione dei depositi accumulati su vetture alimentate in precedenza con altre benzine commerciali. Insomma più efficienza, più
chilometri e più pulizia del motore. Normalmente, il carburante che si trova in commercio ha un valore di ottani pari a 95. Una benzina con un numero di ottani ottimale sicuramente migliora la combustione del carburante. Quindi con più ottani, si consuma meno e si va più forte? Dipende, potrebbe essere. Ma, limiti di velocità a parte, va detto che ogni motore ha le sue caratteristiche e da queste dipende il miglioramento ottenibile dall’utilizzo di «super carburanti». Diciamo che tendenzialmente l’utilizzo può essere vantaggioso su motori turbocompressi e oggi con il downsizing delle cilindrate molti costruttori adottano proprio una turbina per tirare fuori più potenza. Una cosa è certa: i «cavalli» erogati dai motori termici hanno sete.
Non molti sanno, infatti, che a quelli che corrono sulle piste di Formula Uno danno da «bere» una benzina davvero speciale denominata E10, composta al 10% da etanolo per ridurre l’impatto ambientale delle gare. Quanto costa? Alcune stime parlano di un costo di 15-20 franchi per litro. Eppure questo «super super» carburante potrebbe essere probabilmente nocivo per un’auto standard. Un’estremizzazione per spiegare che ogni auto ha il carburante giusto per il suo motore.
Quindi se da una parte è vero che i carburanti «speciali» hanno caratte-
ristiche superiori a quelli tradizionali, dall’altra si può tranquillamente continuare a fare il pieno con la benzina tradizionale. E infatti la maggior parte delle Case automobilistiche prescrivono per i loro modelli stradali l’uso di benzina senza piombo 95 ottani, cioè quella normalmente in vendita presso tutti i distributori. Solo per i modelli dotati di motori molto
Mini-Migros: Il più grande negozietto della Svizzera.
3 – 15 aprile 2023
Serfontana, Morbio Inferiore
Per i bambini da 4 a 12 anni.
Maggiori informazioni su: famigros.ch/mini-migros
prestazionali si consiglia l’uso di benzina 98-100 ottani.
Secondo uno studio pubblicato da «Scientific American», una delle più antiche e prestigiose riviste di divulgazione scientifica, alimentare con benzina a 100 ottani un motore pensato per carburante a 95 ottani non produce alcun vantaggio.
Ma veniamo al portamonete. In-
tanto per sapere dove costa meno far benzina si può utilizzare il «radar prezzo della benzina» messo a punto dal TCS. Lo si trova seguendo il link https://benzin.tcs.ch/it/map/SP95. Decisamente comoda anche l’app dedicata dei distributori Migrol scaricabile sul cellulare che fornisce i prezzi delle sue stazioni in tempo reale e molto altro.
8 Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 3 aprile 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino SOCIETÀ
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Farmaceutica, medicina e conflitti d’interesse
Salute ◆ Ci sono situazioni che possono interferire con l’indipendenza di azione del medico: un Codice etico dell’Accademia Svizzera per le Scienze Mediche fa luce sul problema
Sergio Sciancalepore
L’industria farmaceutica moderna si è sviluppata intorno agli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, con le caratteristiche tipiche della produzione industriale: i farmaci non sono solo rimedi per curare o prevenire le malattie, ma hanno lo status di vera e propria merce, sottoposti quindi anche a logiche di mercato e di profitto. Di pari passo, si è intesificata la collaborazione tra l’industria farmaceutica e i medici, essenziale per l’interesse della salute e il progresso delle conoscenze scientifiche. Tuttavia, questa collaborazione può presentare aspetti critici riguardanti l’indipendenza di giudizio del medico e i possibili conflitti di interesse.
Per questo motivo, l’Accademia Svizzera per le Scienze Mediche ha redatto un Codice di comportamento rivolto non solo ai medici ma a tutti i professionisti che – a qualsiasi titolo – operano nel campo della salute. Il Codice aggiorna quello del 2002, incorporato nel 2005 in quello della Federazione dei Medici Svizzeri (FMH): tiene conto delle numerose leggi e ordinanze federali varate in un trentennio, riassumendole in forma organica per una migliore e chiara applicazione nella pratica professionale sanitaria (il Codice è pubblicato integralmente in https//www.sams.ch).
Consideriamo due aspetti che riguardano direttamente il rapporto tra il medico e il paziente, quello del conflitto di interesse e quello della ricerca e sperimentazione clinica.
Le decisioni e i comportamenti del medico o professionista della salute devono sempre essere guidati dalla preoccupazione per la salute del paziente e, in generale, della società. Nel rapporto con l’industria farmaceutica, possono sorgere conflitti d’interesse tali da influenzare l’indipendenza di giudizio del medico, giudizio che si deve basare su prove ed evidenze scientifiche.
Che cosa si intende per «conflitto d’interesse» nel campo sanitario? Il Codice fa riferimento a una definizione (2009) dell’Istituto statunitense di Medicina. Il conflitto d’interesse è un insieme di circostanze tali che il giudizio e l’operato del medico può essere influenzato da un interesse secondario e non da quello primario della salute del singolo o della collettività: il conflitto d’interesse può riguardare anche l’istituzione (per esempio un ospedale) alla quale il professionista appartiene («conflitto di interesse istituzionale»). Non necessariamente è di tipo economico (un profitto materiale), può riguardare lo status o il prestigio personale – un miglioramento o un peggioramento –, la partecipazione a una prestigiosa ricerca da pubblicare su una importante rivista scien-
Settemila nuove isole
Terre emerse ◆ Il Giappone ha aggiornato la mappatura del suo arcipelago, l’ultima catalogazione risaliva al 1987
Marco Cagnotti
Una volta, nemmeno tanto tempo fa, ché parliamo di un secolo pressappoco, per trovare nuove terre bisognava imbarcarsi su una nave di esplorazione e partire alla ventura per mari quasi sconosciuti. E ogni avvistamento era una scoperta. Poi arrivarono le fotografie aeree. Poi i satelliti. Infine Google Maps, che dello sterminato patrimonio di dati satellitari ha fatto tesoro e ci dà l’impressione che ogni metro quadrato del pianeta sia stato, se non calcato da un piede umano, almeno mappato e quindi alla portata del nostro smartphone. Dunque sempre nelle nostre tasche, a disposizione per soddisfare qualsiasi curiosità. Perciò scoprire quante sono le isole di un arcipelago dovrebbe essere facile. Prendiamo il Giappone, per dire. Basta googlare un po’ e si trova il risultato: 6852. Giusto?
tifica, un avanzamento nella carriera accademica.
Il Codice indica i criteri utili a riconoscere se c’è un conflitto di interesse, ad evitarlo se questo può danneggiare il singolo o la collettività, ma anche a gestirlo in modo trasparente e «proattivo»: se al medico viene proposta la partecipazione a una ricerca sponsorizzata da un’industria, eventuali benefit di qualsiasi genere devono essere dichiarati pubblicamente. Inoltre, essi devono essere proporzionati al ruolo e all’impegno del professionista: naturalmente, nel rapporto personale tra il medico e il paziente, ogni potenziale conflitto d’interesse deve essere assolutamente evitato, dato che il paziente si trova in una condizione svantaggiata.
Lo sviluppo di nuovi farmaci o tecniche d’intervento di vario genere si basa sia sulla preliminare ricerca di laboratorio, sia sulla successiva sperimentazione clinica. Nel caso di un farmaco, per esempio, si propone a un certo numero di persone – volontarie e adeguatamente informate – di assumere un nuovo farmaco: la sperimentazione permette di confrontarne l’efficacia (o la non-efficacia) rispetto a un farmaco già utilizzato per quella malattia. In questo campo, l’industria farmaceutica gioca un ruolo importante, soprattutto quando sono coinvolte molte migliaia di pazienti, magari in più di una struttura sanitaria e in più Paesi.
In Svizzera, la sperimentazione clinica umana è regolata da due atti federali (1992 e 2011), tuttavia il Codice richiama altri princìpi ai quali il medico sperimentatore si deve attenere, quelli della buona pratica clinica (Good Clinical Practice) e della buona pratica di laboratorio (Good Laboratory Practice). L’industria farmaceutica può sponsorizzare in vari modi la ricerca clinica: con finanzia-
menti per coprire i costi, con la fornitura del farmaco oggetto della ricerca o della strumentazione scientifica. Anche in questo campo, l’esistenza di potenziali conflitti d’interesse deve essere accuratamente valutata e, se esistono, dichiarata in modo esplicito nel resoconto della sperimentazione. Un ruolo importante è svolto dai Comitati etici istituiti presso ospedali e Cantoni.
Il Codice sottolinea in particolare due aspetti che devono guidare la condotta nella sperimentazione clinica. Il primo, è quello che nessuna interferenza ci deve essere nella pianificazione della sperimentazione: il secondo, è che la valutazione dei risultati della sperimentazione deve essere oggettiva e non «compiacente».
Numerosi sono i temi affrontati dall’Accademia nel suo codice di comportamento: dalle modalità di organizzazione e partecipazione dei medici e di altri sanitari ai congressi sponsorizzati dall’industria farmaceutica (benefit e agevolazioni ai partecipanti), al ruolo dei professionisti nelle industrie e nelle cosiddette «start up» cioè quelle industrie che nascono come sviluppo pratico e commerciale di scoperte fatte in ambito accademico. La partnership pubblico-privato in progetti di ricerca e sviluppo industriale è sostanzialmente utile a entrambi i partner: tuttavia, il Codice raccomanda di vigilare circa potenziali conflitti di interesse e perdita di prestigio e indipendenza scientifica.
Non è trascurata nemmeno la questione dei «campioni» di farmaci forniti soprattutto a medici specialisti o di famiglia. La materia è regolata dall’ordinanza sui farmaci: il Codice promuove questa pratica perché utile al medico a familiarizzare con nuovi preparati, sempre a patto che non ci siano pressioni da parte di chi li fornisce. azione
Redazione
Silini (redattore responsabile)
Sbagliato. Infatti proprio in Giappone la revisione dell’arcipelago sulla base delle mappe digitalizzate ha prodotto un aumento del numero di isole. Un aumento bello sostanzioso: un raddoppio. Con tanti saluti a Zio Google. Ma da dove saltano fuori tutte le nuove isole?
Alcune, in effetti, prima non c’erano proprio e nel frattempo sono uscite dal mare: il Giappone, terra di terremoti e vulcani nella «cintura di fuoco» che circonda l’Oceano Pacifico, non è nuovo a questi fenomeni. Per esempio nel 2021 ne è emersa una con un diametro di un chilometro a sud del gruppo insulare delle Ogasawara, una regione dove già ne comparvero nel 1904, nel 1914 e nel 1986, per poi sparire. Infatti, così come appaiono, altrettanto facilmente le isole nipponiche scompaiono, erose dalle onde. Fra gli ultimi, l’isolotto Esanbe Hanakita Kojima, sparito sotto i marosi nell’indifferenza degli abitanti del villaggio di Sarufutsu, a poche centinaia di metri di distanza. Ovvio quindi che mantenere un registro aggiornato non è facile, sebbene – per usare le parole di un parlamentare liberal-democratico giapponese – sia una questione «di interesse nazionale». Anche perché l’ultima catalogazione risaliva al 1987. Perciò l’Autorità nipponica sul-
le informazioni geospaziali ha rimesso mano all’impresa ed è appunto dei giorni scorsi la notizia del raddoppio del numero di isole dell’arcipelago. Raddoppio che però non va attribuito tanto all’attività vulcanica, quanto piuttosto al progresso della tecnologia. La prima difficoltà con la quale ci si imbatte in un’impresa del genere è la definizione: che cos’è un’isola? Per la Convenzione delle Nazioni unite sul diritto del mare, le isole sono «aree di terra formatesi naturalmente che sono circondate dall’acqua e che rimangono sopra il livello dell’acqua anche durante l’alta marea». Quindi va contato come tale anche uno scoglio isolato? Non per il Giappone, che ha deciso di catalogare come «isola» ogni superficie emersa con un perimetro di almeno 100 metri. Qui però compare un secondo problema, almeno teorico. Infatti una linea di costa ha sempre una dimensione frattale, perciò la lunghezza dipende dall’unità minima usata per misurarla. Dunque, per il «paradosso delle coste», ogni rilevamento di un perimetro insulare è sempre un’approssimazione.
Detto questo, sebbene con tutte le approssimazioni inevitabili, i geografi giapponesi hanno aggiornato il catalogo di 36 anni fa: un’epoca in cui la tecnologia non permetteva di distinguere facilmente fra gruppi di piccole isole e masse di terra più compatte. Pur mantenendo il criterio dei 100 metri perimetrali, usando i dati delle nuove mappe satellitari digitalizzate e incrociandoli con le più recenti mappature aeree i ricercatori sono giunti al nuovo numero: 14’125. Più del doppio, insomma.
Superfluo osservare che le oltre 7000 nuove isole sono comunque piccoline. Non solo: non cambieranno né la superficie totale del Paese né l’estensione delle acque territoriali. Un aspetto importante, considerato il nuovo trattato internazionale firmato il 4 marzo scorso dai Paesi membri dell’ONU per garantire la protezione del 30% delle acque internazionali entro il 2030. Come diceva quel parlamentare giapponese? Una questione «di interesse nazionale». Appunto.
Le isole Ogasawara a sud di Tokyo. (Wikimedia)
12 Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 3 aprile 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino SOCIETÀ
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Approdi e derive
tutti responsabili!»
Sono parole di papa Francesco, pronunciate con grande intensità nello splendido film-documentario di Wim Wenders trasmesso dalla nostra televisione in occasione dei dieci anni del suo pontificato. Già nell’intervista che lo ha preceduto, il Santo Padre ha offerto il suo sguardo sul senso della vita e sui problemi del mondo, sulle immani sofferenze dei poveri, degli scartati, dei dimenticati, dei bambini deprivati di pane e conoscenza. Ma anche sulle sofferenze della terra, la sora nostra matre terra , lodata dal suo santo ispiratore, diventata ormai la creatura più povera, il simbolo cosmico della povertà che infliggiamo al mondo.
Non quella povertà che è il valore cristiano di purezza del cuore, mitezza e misericordia e che si contrappone all’ingordigia della ricchezza («il diavolo è nelle tasche» ha esclamato nell’intervista) ma, al contrario, quella povertà inflitta a molti
Terre Rare
esseri umani oppressi, sfruttati, diseredati e condannati all’esclusione da coloro che hanno fatto di consumi e ricchezza il proprio dio. Di questa dolorosa condizione che affligge il nostro mondo, ha detto il Papa, siamo tutti responsabili: nessuno può dire «io non c’entro».
Le parole di papa Francesco non lasciano indifferenti. Ci interpellano in prima persona, ci invitano a metterci allo specchio della nostra coscienza del vivere, ci interrogano sul senso del nostro stare al mondo. Davanti a questo richiamo etico mi rendo conto che il sentimento di impotenza, che quasi sempre ci invade di fronte alla potenza dei potenti, non è più sufficiente. Non basta più.
Non basta più riflettere sul sentimento di responsabilità con cui scegliamo di agire bene nel nostro piccolo mondo, coltivando con cura il nostro personale giardino dell’etica. Rispetto dell’ambiente, raccolta dif-
Parlare con il computer
«Computer, a che distanza si trova il prossimo pianeta abitabile?».
«Computer traccia una rotta per Alpha Centauri, evitando il campo di asteroidi». «Computer, prepara un tè cardassiano, con molto zucchero». Nessuno, credo, si è mai posto quesiti etici e morali di fronte a queste normalissime richieste, così come per anni ci sono state proposte dalla serie televisiva di Star Trek. Il dialogo, l’interazione «vocale» con un apparato informatico, in queste condizione fantascientifiche, sembra una semplice normalità quotidiana. Anzi, una delle condizioni di base dell’interazione tra uomo e macchina. Evidentemente a un modello di collaborazione così naturale deve sottostare una componente di intelligenza artificiale molto sviluppata, in grado non soltanto di interpretare i comandi ma di eseguire una serie di operazioni matematico/ingegne-
ristiche di grandissima complessità. Quello che i realizzatori di Star Trek non si sono mai poste, credo, sono le preoccupazioni etiche attorno a un apparato di queste dimensioni e potenza. Il computer di bordo dell’Enterprise, insomma, è per definizione «buono». Anzi, sono rari i casi in cui può rivelarsi inaffidabile, impazzire, tanto da far diventare l’evento un ulteriore spunto per alcune puntate della serie. Perché noi oggi, quindi, siamo tanto spaventati dall’intelligenza artificiale? Persino la fantascienza ci prospetta forme di interazione pacifica e utili tra uomo e macchina (la fantascienza che, bisogna dirlo, molto spesso ha indovinato sulla nostra evoluzione tecnologica). In questi giorni, invece, su varie testate gli articoli allarmanti si moltiplicano. Come già detto, ho il dubbio che questo sia indizio di una preoccupazione corrente tra i pub-
Le parole dei figli
Multiverso
«Il Multiverso è un concetto di cui sappiamo spaventosamente poco», è la risposta che mi arriva quando chiedo il significato del termine che impazza nei video di TikTok con frasi del tipo: «Se esiste davvero un Multiverso spero che l’altra me non abbia mai dovuto affrontare il tuo tradimento che le avrebbe rovinato il modo di vivere qualsiasi relazione posteriore a te e sia rimasta con quell’immagine fiabesca dell’amore».
Perché è tanto faticoso decifrare banali post? Partiamo dall’inizio. «Il Multiverso è un concetto di cui sappiamo spaventosamente poco», è una citazione che gli Gen Z (come Marta, la mia adorata giovane stagista) usano moltissimo quando devono definire che cos’è il Multiverso. La prendono dal film Marvel 2021 Spider-Man no way home, quasi 2 miliardi di incassi. La dice il co-protagonista, il dot-
ferenziata, acquisiti a chilometro zero; correttezza nei rapporti privati e professionali; attenzione e disponibilità ad aiutare coloro che ne hanno bisogno: tutto questo agire bene, questo adempiere alle nostre responsabilità, non ci sottrae alla provocazione di Papa Bergoglio. Il suo monito squaderna davanti a tutti noi l’orizzonte più ampio del Creato e la presenza dell’umanità intera, chiedendoci di capire più in profondità il senso e il valore del vivere e del convivere. Anche per chi non si riconoscesse nella fede che nutre le parole del Pontefice, quel «siamo tutti responsabili» non può non risuonare come apparizione inattesa di un’eccedenza dell’umano, come il mostrarsi imprevisto di un supplemento di umanità, di una trascendenza, di un altrove che abita la nostra vita e ci invita ad una percezione più piena della nostra umanità. A noi, uomini delle risposte da esibire
di Lina Bertola
sulla superficie del tempo, queste parole suggeriscono il tempo delle domande in cui la vita si rivolge verso sé stessa. È un invito a continuare ad interrogarsi per cercare di capire il significato ulteriore di responsabilità, di una responsabilità direi metafisica. Per cercare di illuminare questo orizzonte di senso ho pensato a Emmanuel Lévinas, il grande filosofo lituano di origine ebraica, vissuto nel Novecento. La sua visione della responsabilità è un’interessante chiave d’accesso alla comprensione del messaggio che papa Francesco ha voluto ribadire con forza anche in questa sua recente apparizione. Per Lévinas la responsabilità è il valore che sta alle radici della esistenza, il fondamento etico della condizione umana. Il che significa una cosa molto importante, ovvero che la nostra identità, l’essere di ogni persona, si costituisce nella relazione con l’altro.
L’apparire del volto dell’altro è un’esperienza costitutiva, originaria e inaugurale nell’esistenza di ciascuno di noi. Il volto non è semplicemente il viso, non è la fisionomia di chi mi sta fisicamente di fronte, ma è l’espressione di ogni presenza possibile, il suo manifestarsi che mi interpella o potrebbe interpellarmi, anche con la sua sofferenza e con le sue fragilità. Da questo incontro con la presenza del suo volto nasce la mia responsabilità verso di lui. La responsabilità, insomma, è la radice del senso del vivere e del convivere, fa della vita un’esperienza etica in cui il destino di ognuno è segnato dalla presa su di sé del destino dell’altro. «Se non rispondo di me chi risponderà per me? Se rispondo solo per me sono ancora io?». Nell’accogliere queste domande di Lévinas sta forse il primo gesto di responsabilità: imparare a convivere con la loro ineludibile presenza.
blicisti, i primi che temono di veder messi in discussione il loro profilo professionale e le loro skill… Di fatto, come spesso succede, la realtà è andata già ben oltre le preoccupazioni più o meno giustificate. L’intelligenza artificiale è tra noi da tempo, e si muove già quasi con la stessa naturalezza con cui dialoga con il capitano Kirk o con Jean Luc Picard (i motori di ricerca che utilizziamo cento volte al giorno ne sono l’esempio più semplice e meno appariscente).
Al di là di ChatGPT, che sembra essere in questi giorni il mostro più spaventoso, la strumentazione digitale intelligente ha raggiunto una pervasività e però anche un’utilità pratica a cui sarà difficile rinunciare, d’ora innanzi. Il punto curioso ma filosoficamente interessante è, ci sembra, che ricercatori e programmatori stanno facendo di tutto per
sviluppare una possibilità di rapporto verbale, diretto, con il computer. Come se si volesse a tutti i costi trasformare una macchina elettronica in un interlocutore affidabile. Il prossimo passaggio di ChatGPT, potremmo scommettere, sarà l’implementazione di una capacità dialogica «a voce».
Un esempio che riguarda il campo di attività di chi vi scrive qui: negli ultimi mesi, sto usando in modo assolutamente massiccio una piattaforma per il riconoscimento vocale, offerta gratuitamente sul web, grazie alla quale posso dettare ad alta voce i miei articoli al computer, mentre «lui» (uso un pronome che lo dà già per umanizzato) li trascrive istantaneamente su un elaboratore di testi. Un aiuto ormai difficilmente sostituibile, per me e, penso, per chi fa questo mestiere. È un primo passo perfettamente riuscito che apre la
strada a quella interazione tra intelligenze naturali e artificiali, che sembra tutti si stiano aspettando dai computer.
Costruire l’essere perfetto, che sappia superare tutte le nostre defaillances e possa prendersi cura delle nostre debolezze, è un’aspirazione atavica dell’uomo. Grazie al progredire della tecnologia ci stiamo avvicinando alla meta. Forse è inevitabile provarci: il punto è che non sembriamo capaci di gestire il passaggio (varie esperienze mostrano che di fatto l’intelligenza artificiale non è necessariamente «buona» né intelligente, e ciò per colpa dei programmatori, evidentemente), né sappiamo se potremo permetterci i costi energetici che tale scoperta comporta: ChatGPT, tra l’altro, consuma un sacco di elettricità. Sull’Enterprise sono riusciti a risolvere il problema, noi siamo ancora lontani.
tor Steven Strange, dopo che fallisce la sua magia per far scordare a tutti che la vera identità di Spider-Man è Peter Parker. L’incantesimo non andato a buon fine ha come esito l’esatto opposto: da ogni parte del Multiverso arrivano coloro che sanno chi è Spider-Man e con i quali lui dovrà vedersela.
A sua volta la Marvel attinge a un termine usato dagli scienziati per descrivere l’idea che al di là dell’universo osservabile possano esistere anche altri universi. Ma se la scienza non è ancora riuscita a rispondere a che cosa c’è oltre i confini dell’universo osservabile e se è possibile che il nostro Universo sia solo uno dei tanti in un Multiverso molto più vasto, di certo c’è che sui social il Multiverso è già realtà. Attenzione boomers: Multiverso non va confuso con Metaverso. È un errore che nessun Gen Z potrebbe perdo-
narci. Come abbiamo visto di recente ne Il caffè delle mamme (28 novembre 2022), il Metaverso sta a indicare una dimensione al di sopra del mondo reale, che è poi quella che frequentano i nostri figli quando giocano con videogame tipo Adopt me! su Roblox, oppure a Fortnite, Minecraft o sulla piattaforma italo-svizzera The Nemesis, ecc. In sintesi, il Metaverso è un mondo virtuale in 3D frequentato con avatar. Invece il Multiverso nella versione social è una realtà parallela che co-esiste con la nostra concettualmente senza bisogno di videogame o visori. Gli Gen Z lo utilizzano prevalentemente in due modi. Uno: usano il termine nei video per immaginare un loro altro io in un mondo parallelo in cui una certa situazione potrebbe andare diversamente da come va nella realtà e spesso decisamente meglio. È un po’ come se da qualche parte del cosmo ci fossero
altre versioni di noi che vivono realtà diverse. Tu cosa speri per le altre versioni di te nel Multiverso? Una volta li avremmo chiamati sogni o desideri e ci saremmo potuti andare solo con il pensiero o confidandoli agli amici del cuore. Oggi sono post su TikTok condivisi con migliaia di utenti. A colpi di like. Per esempio: «Se il Multiverso esiste spero che l’altra me non abbia bisogno di trattenere le lacrime ogni volta che qualche adulto mi risponde male», oppure «Se il Multiverso esiste spero che tu sia mia sorella in ognuno di essi» e ancora «Se la teoria del Multiverso esiste allora spero che esista una versione di noi due che ce l’ha fatta».
Due: il Multiverso è anche una tecnica di costruzione dei video che usano i tiktoker per unire realtà tra loro lontane. Per farmelo capire Marta mi parla della canzone Bellissima di Annali-
sa. In un video, sotto la finestra dove lei s’affaccia cantando «E poi senza avvisare sei qui/Oddio però tu mi piaci», appaiono dei giovani che ballano. Inizialmente i video sono due distinti: uno (diventato virale) con il balletto, l’altro quello della canzone. Il Multiverso li unisce: Annalisa canta la sua canzone con la coreografia del balletto. Anche stavolta per capire le Parole dei figli ho dovuto scervellarmi, ma con una soddisfazione in più. Stasera andrò a vedere Everything everywhere all at once che ha vinto 7 Oscar: Evelyn Wang, un’immigrata cinese sulla cinquantina, gestisce una lavanderia a gettoni, ha una figlia adolescente che non riesce più a comprendere, un padre un po’ rintronato e il suo matrimonio è da tempo giunto a conclusione, finché si ritrova a vivere un’avventura nel Multiverso. Bene, forse, adesso il film lo capirò.
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 3 aprile 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 13 SOCIETÀ / RUBRICHE ◆ ●
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TEMPO LIBERO
Il cioccolato di Antoine
Dalla coltivazione in Costa d’Avorio, alla consegna del cacao in Europa, il dolce viaggio
Pagine 16-17
Notte musicale al Generoso
Un concorso di «Azione» per l’evento del 14 aprile: «Country Night con Cris Mantello»
Pagina 18
Buoni non solo a Pasqua Sembrano delle uova al tegamino, grazie a una glassa bianca e gialla, ma sono dei biscotti, i milanesini
Pagina 19
Una collezione che arricchisce Da quelle d’argento, Francesco Rossiello oggi ha un armadio pieno di monete d’ogni genere
Pagina 21
Patrouille des Glaciers, la corsa delle corse
Adrenalina ◆ La competizione di sci alpinismo forse più sfiancante in assoluto, e pure la più spettacolare
Settimana più, settimana meno, manca un anno al grande giorno. Ma il conto alla rovescia per la ventiquattresima edizione della Patrouille des Glaciers è già lanciato. E per non farsi trovare impreparati al prossimo appuntamento, questo conto alla rovescia è pure scandito sulla home page della competizione.
C’è anche un pizzico (anzi, una buona manciata) di storia nelle radici di questa competizione di sci alpinismo. Non una gara qualsiasi, ma «la gara». Perché la Patrouille des Glaciers è forse la più sfiancante in assoluto, e pure la più spettacolare.
Gli imprevisti sono sempre in agguato, pronti a giocare qualche brutto scherzo alle pattuglie della competizione
Una prova per molti, ma non per tutti. A condizione però che questi «molti» siano fisicamente ben messi, perché altrimenti è meglio cambiare aria: troppo impegnativo e rischioso sarebbe tentare la scalata delle montagne vallesane per poi ridiscenderle dall’altro versante con gli sci ai piedi. Sì, perché, essenzialmente, la Patrouille des Glaciers è questo: un’attraversata fatta a forza di gambe, braccia e sci da Zermatt a Verbier (o fino ad Arolla, per chi opta per il percorso «corto»). In mezzo a tutto questo però ci stanno una marea (o, per restare in tema, una montagna) di incognite e insidie.
Gli imprevisti sono sempre dietro l’angolo, in agguato, pronti a giocare qualche brutto scherzo a una delle pattuglie impegnate nella competizione. Come quel crepaccio che nel 1949 inghiottì un’intera pattuglia, provocando la morte di tutti e tre i suoi membri, ritrovati otto giorni più tardi. E proprio quell’episodio segnò la storia della corsa, provocandone un lungo stop. Giunta appena alla sua terza edizione, la Patruille des Glaciers fu infatti costretta a… ibernarsi per quasi quarant’anni.
Facciamo però qualche passo a ritroso, e torniamo agli albori della gara. Anzi, agli antefatti che hanno portato alla sua nascita. L’ambiziosa idea di mettere in piedi la Patrouille del Glaciers risale al periodo immediatamente precedente lo scoppio della Seconda guerra mondiale (19391945). Promotori di questa iniziativa furono due capitani della brigata: Roger Bonvin (in seguito divenuto pure Consigliere federale, carica che ricoprì tra il 1962 e il 1973) e Rodolphe Tissières (pure lui poi approdato al parlamento, come Consigliere nazionale, dal 1967 al 1975).
Lo scopo della prova allora era
antizutto quello di testare il grado di prontezza della truppa, e segnatamente la Brigata 10, che nelle sue mansioni aveva il compito di difendere la Patria sul fronte sud-occidentale delle Alpi svizzere. Proprio per
La gara in cifre
Rispetto al suo tracciato originale, la corsa ha subìto qualche lieve ritocco. La gara principale, da Zermatt a Verbier, ora si disputa sulla distanza di 57,5 km, per un dislivello complessivo di 4386 m. A detenere il primato di velocità è il team italiano 2544 formato da Roberto Antonioli, Matteo Edaillin e Michael Boscacci, che nel 2018 tagliarono il traguardo in 5 ore 35 minuti e 27 secondi.
A fianco della gara principale, è pure stata creata la gara Arolla-Verbier, di «soli» 29,6 km per un dislivello di 2200 m, nella quale il miglior tempo è detenuto dallo Swiss Team Cas (Déborah Chiarello, Marianne Fatton e Florence Buchs): 3 ore 32 minuti e 7 secondi, stabilito pure nel 2018.
questo la truppa, secondo gli ideatori della prova di resistenza, avrebbe dovuto dimostrare di essere in grado di coprire una marcia di resistenza tra Zermatt e Verbier (percorso già noto a quei tempi con il nome di «Haute Route», per il quale venivano calcolati quattro giorni di marcia), e di riuscirci in un’unica tappa. Lo scoppio della Seconda guerra mondiale, però, congelò il progetto per qualche anno: era infatti il 1943 quando finalmente andò in scena la prima edizione della corsa, ancora oggi organizzata con la regia dell’esercito ma aperta anche ai civili.
Per completezza di cronaca, a quell’edizione – disputata a cavallo tra il 23 e il 24 aprile 1943 – vi presero parte 18 pattuglie, che si sfidarono sul tracciato completo di 63 km per un dislivello complessivo di 7600 m, con partenza dalla capanna Schönibel, poco sotto Zermatt, per raggiungere Verbier. Il primo a tagliare il traguardo fu il terzetto composto dagli appuntati Ernest Stettler, René Fellay e Adrien Morend. Ci riuscì nel tempo di 12 ore e 7 minuti, precedendo di 12 minuti il trio (l’unico equipaggiato con una bussola) formato dal sergen-
te Basile Bournissen e dagli appuntati Julien e Victor Mayoraz. L’entusiasmo e il clamore suscitato da quella «prima» fecero subito scuola, al punto che l’anno successivo, ai nastri di partenza della gara, riproposta su un percorso ulteriormente allungato, le formazioni che si presentarono furono più del doppio: 44.
Gli sforzi e soprattutto gli stenti con cui la popolazione fu confrontata durante il periodo bellico imposero alla Patrouille des Glaciers il primo stop. Di cinque anni: il rischio di andare incontro a malumori popolari era infatti troppo elevato. Tornò nel 1949, il 10 aprile per la precisione, ma quello, come detto, fu solo un breve ritorno, oltre che tragico, con la pattuglia des Dranses, composta da Maurice Crettex, Robert Droz e Louis Thétaz a trovare la morte in un crepaccio del ghiacciaio del Mont Miné. Lo strascico polemico che innescò quella funesta edizione impose al Dipartimento federale di revocare l’autorizzazione a disputare la competizione.
Restò tutto fermo fino al 1986, anno in cui la Patrouille des Glaciers fece il suo grande ritorno: sotto l’insistente pressione, iniziata già sette
anni prima, del tenente-colonnello René Martin e del capitano Camille Bournissen (figlio di quel Basile che aveva preso parte alla prima edizione della gara, chiudendola al secondo posto), l’allora comandante di corpo e responsabile dell’istruzione dell’armata Roger Mabillard decise di togliere il veto alla gara.
Fu un ritorno col botto, visto che per l’occasione al via si presentano ben 190 pattuglie. Da quell’anno in poi, fu anche deciso di proporre l’appuntamento con cadenza biennale.
Tra le altre tappe importanti nella storia di questa competizione, va di certo segnalata la prima vittoria di una formazione straniera, correva l’anno 2004, e l’affiancamento di un percorso alternativo, all’originale, con partenza da Zermatt, nel 2006.
Spetta invece un podio d’onore alla meteo, giacché: nel 1986 a vincere furono le condizioni climatiche proibitive che costrinsero gli organizzatori a interrompere la gara in pieno svolgimento; nel 2012 la spugna fu invece gettata ancora prima della partenza a causa del forte vento; e nel 2022, sempre a causa della meteo, la partenza fu posticipata di 24 ore.
● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 3 aprile 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 15
Juerg Kaufmann
Moreno Invernizzi
Alle origini della dolcissima
Reportage ◆ Prima puntata del nostro viaggio nella lunga filiera del cioccolato, a partire dalle coltivazioni in Costa D’Avorio
po l’altra, con due o tre colpi di machete ben assestati. Poi si estraggono i chicchi insieme alla polpa e si versa il tutto in una buca. Quando è piena, la si copre con una coltre di foglie di banano. Saranno poi il calore e i batteri lievitanti del luogo a compiere il miracolo della natura, la fermentazione, e a dare ai chicchi del cacao, nel giro di una settimana, il loro inconfondibile sapore.
Due raccolte l’anno
Dietro a ogni tavoletta di cioccolato c’è il lavoro di tanti uomini e donne. La Migros è andata a documentarlo, partendo da una piantagione di cacao che si trova in una regione subsahariana.
Costa d’Avorio: il viaggio del cacao comincia in Africa occidentale. Qui il coltivatore Antoine Kramoh-Kouadio si dà da fare letteralmente a piene mani: la raccolta del cacao è un lavoro al cento per cento manuale.
Ancor prima di vederlo, il cacao si sente. Nei villaggi, dove fermentato fresco, essicca al sole. O sulla strada che attraversa la regione, quando si superano i tanti camion, ognuno con trenta tonnellate di chicchi sul pianale. Per non parlare dei grandi depositi sulla costa, dove si è sopraffatti dall’aroma dolce e insieme acidulo che ne promana. È il momento culminante del raccolto in Costa d’Avorio e sua maestà il cacao è onnipresente.
Dove tutto ha inizio
Solo qui, dove tutto ha inizio, non lo si sente; le piantagioni di cacao offrono uno spettacolo per la vista: alberi colmi di bizzarre fave che brillano nelle gradazioni del giallo, del rosso e del verde. Il coltivatore Antoine Kramoh-Kouadio sa che sono in particolare quelle gialle ad aver raggiunto il grado di maturazione perfetto. Quelle più in alto, le raccoglie con una specie di falcetto telescopico, quelle in basso con un machete. Poi le prende da terra e le accatasta fino a formare un grande cumulo.
Attorno ad esso, Antoine chiama quindi a raccolta i suoi collaboratori per il «cabossage» (dal francese «cabosse», «baccello, fava»), cioè l’apertura delle fave e l’estrazione dei chicchi di cacao, che sarebbero i semi del frutto del cacao. Ci si siede insieme in cerchio e si rompono le fave, una do-
Qui nel sud-est della Costa d’Avorio, poco lontano dalla piccola località di Guiré, la famiglia e i parenti di Antoine possiedono quarantaquattro ettari coltivati a cacao. A lui spetta la responsabilità della gestione di questo appezzamento di dimensioni superiori alla media. La raccolta si fa due volte all’anno ed è un lavoro del tutto manuale. Qui non ci sono rumori di motori né macchine e neppure vere e proprie strade. C’è solo la quiete della foresta tropicale. Idilliaco, certo. Ma altrettanto faticoso. Il duro lavoro fisico è ciò che tocca a questo padre di famiglia di trentadue anni, quando si mette al servizio delle misere strutture e dei poco efficaci mezzi dell’agricoltura su piccola scala dell’Africa occidentale, da cui provengono i due terzi della produzione mondiale di cacao. «Vorrei dei metodi produttivi più moderni», dice. «Per l’essiccazione, trasportiamo i chicchi al villaggio sulla testa, e questo fino a notte fonda». Ciononostante, Antoine è contento di sé e del proprio lavoro. «Il cacao è la mia vita», sentenzia. La scelta del mestiere non è stata proprio volontaria. Per la verità avrebbe voluto lavorare in ufficio, ma suo padre, all’epoca già in là con gli anni, gli disse: «Chi si occuperà della piantagione se tu te ne vai? Il tuo posto è qui». Oltre a regolare la successione, prima di morire il padre ha stabilito un altro importante lascito per il futuro dell’azienda di famiglia: insieme ad alcuni sodali, nel 2009 ha fondato la cooperativa del cacao Necaayo, che tre anni dopo ha inaugurato un partenariato con la Migros. Oggi attorno alla cooperativa gravitano 1400 famiglie della regione, di cui 650 riforniscono di cacao grezzo l’impresa industriale Migros Delica, nel cui stabilimento a Buchs, in Argovia, nasce a sua volta il cioccolato Frey. Non a caso, tra le linee del cioccolato Frey c’è anche «Côte d’Ivoire» (Costa d’Avorio, in francese).
Il progetto agroalimentare
Nel frattempo la collaborazione continua a funzionare da più di dieci anni e ne beneficiano entrambe le parti: i coltivatori di cacao come Antoine sanno che ogni anno la Migros acquisterà da loro una parte del raccolto
stabilita contrattualmente. Al prezzo regolamentato sul mercato mondiale si aggiungono i premi per la certificazione Rainforest Alliance e ora pure i 50 centesimi per ogni tavoletta «Côte d’Ivoire» venduta. Nel 2020 è poi partito un progetto agroforestale finanziato dal Fondo climatico della Migros. Applicando tale progetto,
le aree coltivate a cacao vengono integrate con alberi da ombra aggiuntivi che incidono positivamente sul microclima per le piante del cacao e le rendono più resistenti ai cambiamenti climatici e alle malattie. Ciò consente tra l’altro ai coltivatori di generare un reddito supplementare poiché gli alberi danno frutta o legname commerciabile. E in più assorbono CO2 dall’aria, migliorando il bilancio climatico del cacao.
Ma anche l’acquirente è ben ripagato dallo stretto rapporto con i coltivatori in Costa d’Avorio, che con tali premesse rappresentano ben più che meri fornitori di cacao di qualità: la Migros, infatti, non solo sa precisamente da dove proviene, ma anche da chi e in quali condizioni viene prodotto. Invece di limitarsi a mettere a disposizione denaro per contrastare problemi strutturali come lavoro minorile, povertà o danni ambientali, qui ogni anno si può verificare sul posto il quadro della situazione. I progressi si vedono, ma c’è ancora molto da fare.
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 3 aprile 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 16
Kian Ramezani testo, Flurina Rothenberger, foto
COSTA D’AVORIO
GHANA Yamoussoukro
OCEANO ATLANTICO
TOGO
BURKINA FASO LIBERIA
GUINEA SIERRA LEONE
tavoletta –
L’agricoltore Antoine: «Il cacao è tutta la mia vita»
Nel porto di Amsterdam
Il primo approdo ◆ Il cacao africano arriva in Europa via battello
Thomas Meyer
Essiccati al sole
I chicchi di Antoine hanno trascorso gli ultimi giorni a essiccare al sole e ora sono pronti per il loro lungo viaggio verso la Svizzera. Per prima cosa Antoine li imballa in sacchi da 60 chili e li carica su un furgoncino
– veicoli più grossi non avrebbero alcuna possibilità sulle stradine di campagna non asfaltate. Nel magazzino centrale della cooperativa a Guiré vengono prelevati dei campioni per il controllo della qualità, sotto il profilo tra l’altro delle dimensioni, del grado di fermentazione e dell’umidità residua. Se il lotto è a posto, si carica
L’agricoltore e fornitore di Migros Antoine KramohKuadio, 32 anni, raccoglie i baccelli di cacao maturi.
Sotto (da sinistra a destra): occorrono sette giorni di fermentazione nelle foglie di banano.
Sembra incredibile: è dal cuore bianco dei baccelli maturi del cacao che nasce la scura delizia del cioccolato.
Donne davanti ai camion con i preziosi sacchi.
tutto su un grande camion. Quest’ultimo, dopo un viaggio di cento chilometri, raggiunge San Pedro, il porto del cacao sulla costa dell’Atlantico. Dopo un ulteriore controllo di qualità, i chicchi vengono lavati, inseriti in appositi sacchi per l’esportazione e impilati su palette che una volta messe nei container vengono stivate su una nave: in due settimane scarse di navigazione approdano in Europa (vedi articolo a destra).
Con il trasporto finisce il lavoro del coltivatore di cacao, lavoro che però nella piantagione è già ricominciato da capo e da un pezzo: raccolta, apertura, fermentazione, essiccazione scandiscono il ritmo della vita durante la stagione produttiva più intensa, che va da ottobre a marzo. Prima però che una tavoletta «Côte d’Ivoire» bella e finita (foto a pag. 16) sia disposta sullo scaffale di una Migros, molte altre persone dovranno dare il proprio contributo. Tutto, comunque, inizia nelle foreste tropicali dell’Africa occidentale e con la fatica di persone come Antoine e i suoi famigliari.
In Europa il cacao arriva via nave ad Amsterdam. Qui i chicchi vengono preparati per il successivo trasporto verso la Svizzera, ma solo dopo essere stati approvati un’ultima volta.
Una peculiarità della Svizzera è che qui da noi non c’è nulla di veramente enorme, ad eccezione delle montagne. Allora, quando una persona che viene dalla Svizzera finisce nel porto container di Amsterdam, strabuzza gli occhi perché lì tutto è gigantesco: l’area occupata, i capannoni, i veicoli chiamati «kalmar» che con i loro tentacoli meccanici movimentano i container. Si viene presi da un profondo timore reverenziale della vastità del mondo di fuori. Per vederlo, si deve lasciare la propria patria. E, per esempio, visitare la «Handelsveem» Steinweg, un’azienda di stoccaggio fondata nel 1847 e con una sede nel distretto «Westpoort» di Amsterdam.
Tutti ben visibili
Michael Warmerdam ci riceve con i disinvolti modi olandesi e distribuisce gilet catarifrangenti affinché tutti siano ben visibili dai «kalmar». A causa delle considerevoli distanze, per visitare l’azienda serve un’automobile. Lungo il percorso, il 59enne spiega che Steinweg non stocca solo cacao ma anche metalli, spezie, noci e tanto altro. Il porto di Amsterdam è infatti un po’ piccolo, ci dice, troppo piccolo per le grandi navi portacontainer. «Le navi grandi attraccano a Rotterdam». Anche quelle con i semi di cacao che vengono da San Pedro, in Costa d’Avorio. Dopo una traversata di circa 4000 miglia marine, ossia 7400 chilometri, i semi vengono scaricati a Rotterdam e nuovamente caricati su chiatte per il trasporto fino ad Amsterdam. «Possono reggere solo centocinquanta container alla volta», dice scherzando.
Uno di questi container sta proprio davanti a un capannone, sollevato a mezz’aria in obliquo: lo stanno svuotando. I sacchi di iuta pieni di semi di cacao scivolano placidamente fuori. Ognuno di essi pesa 65 chili. Il logo di Steinweg è un uomo piegato in avanti che porta sulle spalle un enorme sacco: un simbolo di un tempo passato. Oggi infatti, qui, a differenza che in Costa d’Avorio, nessuno deve più sfacchinare così: per questo ci sono le macchine.
Come avvenuto nel Paese d’origine, anche qui, da ogni sacco di iuta, si preleva un campione che va alla Delica SA a Buchs. L’affiliata Migros decide quindi se acquistare la merce. «Analizziamo i chicchi nel nostro laboratorio e ne valutiamo la qualità con voti da 1 a 5», spiega Bruno Pfenniger, manager Gruppi di articoli alla Delica. «Tutto quello che non arriva al 4 non soddisfa i nostri requisiti». Tocca a Pfenniger fare in modo che la Migros disponga in qualsiasi momento di sufficiente cacao di buona qualità.
Dopo il prelievo dei campioni, un macchinario dispone con precisione i sacchi di iuta l’uno contro l’altro su palette di legno che poi vengono portate nel magazzino e lì impilate per formare alte torri. Qui aspettano fino alla consegna settimanale alla Delica. «Poi prendiamo i chicchi dai sacchi di iuta e li setacciamo per eliminare sassi, polvere e fibre di iuta», spiega Michael Warmerdam. «Dopo li insacchiamo nei cosiddetti Big bag». Questi enormi sacchi hanno una capacità di 1000 chili e partono su camion alla volta di Colonia, che dista 260 chilometri, da dove proseguono su rotaia verso Aarau. Per gli ultimi 23 chilometri fino alla Delica, a Buchs nel canton Argovia, si usano di nuovo i camion.
Tra le 6000 e le 8000 tonnellate
Ogni anno arrivano ad Amsterdam via mare 100’000 tonnellate di cacao, principalmente da Ecuador, Ghana e Costa d’Avorio. La Delica, per il suo cioccolato, ne usa tra le 6000 e le 8000 all’anno. «E altrettante ne lasciamo stoccate in uno dei nostri capannoni ad Amsterdam come riserva permanente», spiega Bruno Pfenniger. «A volte interi raccolti vanno perduti a causa di carestie o di inondazioni, oppure accade che le turbolenze politiche interrompano gli itinerari di trasporto».
Dal cacao che Pfenninger fa consegnare ogni anno da Amsterdam, la Migros produce 30’000 tonnellate di cioccolato. Tra le 6000 e le 8000 tonnellate di cacao a fronte di 30’000 tonnellate di cioccolato: è evidente che dentro ci devono essere anche altri ingredienti. Per esempio zucchero e latte. Che a differenza del cacao vengono dalla Svizzera. (Continua)
TEMPO LIBERO
Lo stoccaggio dei sacchi provenienti dall’Africa nel distretto «Westpoort» di Amsterdam. (Flurina Rothenberger)
Ribes Josta: facile e squisito
Mondoverde ◆ In aprile e maggio compaiono i suoi piccoli fiori autofertili
Anita Negretti
Una zona del mio giardino è dedicata alla coltivazione dei frutti minori: lamponi, fragole, more, mirtilli, ribes e uva spina. È divertente sperimentare varietà nuove, sempre più produttive, ed è per questo che lo scorso anno ho messo a dimora un ribes Josta, il cui nome botanico è Ribes x nidigrolaria: produce grosse bacche ovali, dal color nero opaco e dal gusto misto tra il dolce e l’acidulo, che maturano dalla fine di giugno e per tutta l’estate.
Si tratta di un ibrido ottenuto in Olanda all’inizio del Novecento, ma entrato in commercio solo verso la metà degli anni Settanta. I suoi due genitori sono il classico ribes nero (Ribes nigrum) e l’uva spina (Ribes grossularia). La pianta risultante si presenta come un piccolo-medio arbusto caducifoglio, in grado di arrivare al massimo all’altezza di due metri. Ha rami diritti e marroni, sprovvisti di spine, accompagnati da foglie verde scuro, che al contrario del ribes comune, sono immuni agli attacchi di insetti e funghi; in aprile e maggio compaiono i piccoli fiori autofertili. Due sono le varietà disponibili: «Early Josta» più precoce e «Jogrand» dalla dimensione della pianta più ridotta ma con frutti di dimensioni maggiori.
Piantate in posizioni soleggiate e con terreni concimati, le sue varietà si sviluppano velocemente sia nella classica forma naturale ad arbusto, sia nella più seguita forma a spallie-
ra. Benché sia una pianta autofertile, è consigliabile mettere a dimora almeno un altro esemplare accanto alla prima pianta, tenendo la distanza di 120-140 centimetri, per avere una produzione più abbondante.
La facilità di coltivazione riguarda anche le cure colturali che consistono in una potatura di svecchiamento durante i mesi freddi (si tagliano i rami più vecchi e quelli che crescendo si
Una notte country
Concorso ◆ Il 14 aprile, al Fiore di pietra del Monte Generoso con Cris Mantello
Monte Generoso: tutti in vetta per una serata da trascorrere ascoltando dal vivo quella stessa musica americana che, negli anni Cinquanta-Sessanta, animò la Music Valley e la famosa città di Nashville nel Tennesee. Note trascinanti che saranno riproposte il 14 aprile all’evento «Country Night con Cris Mantello».
Per l’occasione, «Azione» mette in palio 1 premio comprensivo di 2 biglietti che permetteranno l’accesso alla serata – compresi andata e ritorno Capolago-Monte Generoso Vet-
ta a bordo dell’unica cremagliera del Canton Ticino – del valore di CHF 29 a persona. Il programma prevede l’apertura delle casse per il ritiro dei biglietti alle 18.15; partenza da Capolago, alle 18.45; arrivo, alle 19.20. La band di musica country si esibirà dal vivo al terzo piano. Alle 20.40 sarà offerto un assaggio di risotto da ritirare al bar. Mentre la serata terminerà alle 23.00, con la partenza dalla vetta (arrivo previsto per le 23.40).
Il «party a tema country» è organizzato in modo da poter assistere al concerto in piedi; per cui non ci saranno tavoli assegnati. Musica e tramonto mozzafiato, ai quali si potranno aggiungere aperitivi con sfiziosità di stagione, cocktail, vino, à la carte (ovvero non compresi, che saranno da pagare in loco).
sovrappongono agli altri); una buona concimazione con sostanza organica ben decomposta tra febbraio e marzo e una pulizia del colletto dalle erbe infestanti.
Tutto quello che rimarrà da fare dopo questi facili e veloci lavori sarà il piacere della raccolta dei frutti di ribes Josta per poter fare succhi, marmellate, macedonie o decidere di mangiarli appena raccolti.
La routine per la pelle impura
Per partecipare al concorso inviare una mail a giochi@azione.ch (oggetto: «Monte Generoso») entro domenica 10 aprile 2023, ore 24.00. I vincitori, che ne riceveranno comunicazione un paio di giorni prima della serata, dovranno comunque annunciarsi e prenotare.
Informazioni
www.montegeneroso.ch
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Fiori di Ribes x nidigrolaria. (Paul Adam)
Ricetta della settimana - Milanesini pasquali
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Ingredienti
Vegetariano
Ingredienti per 25 pezzi
120 g di burro, morbido
80 g di zucchero
1 busta di zucchero vanigliato
1 presa di sale
180 g di farina bianca
150 g circa di zucchero a velo qualche goccia di succo di limone qualche goccia di colorante alimentare giallo
Preparazione
1. Montate il burro a spuma con lo zucchero, lo zucchero vanigliato e il sale per 3-4 minuti. Incorporate la farina e impastate velocemente poi mettete in frigo la pasta a riposare per 30 minuti.
2. Spianate la pasta su poca farina in una sfoglia di circa 5 mm di spessore. Con la punta di un coltellino ritagliate biscotti dalla forma di un uovo al tegamino. Accomodateli su una teglia foderata con carta da forno e metteteli in frigo per 15 minuti.
3. Scaldate il forno statico a 190 °C. Cuocete i biscotti al centro del forno per 10-12 minuti e sfornateli chiari. Lasciate raffreddare.
4. Per la glassa, mescolate lo zucchero a velo con qualche goccia di succo di limone fino a ottenere una pasta densa. Mettete un terzo circa della massa in un altro contenitore e coloratelo di giallo tuorlo con il colorante alimentare. Trasferite la glassa gialla in una piccola tasca da pasticciere senza beccuccio.
5. Ricoprite i biscotti con la glassa bianca e lasciateli asciugare. Con la glassa gialla spruzzate in seguito un punto giallo al centro del biscotto (come tuorlo).
6. Lasciate asciugare bene. Conservate i biscotti in un luogo fresco fino al momento di servirli.
Consigli utili Ritagliate i biscotti a mano libera per ottenere dei dolcetti molto simili alle uova al tegamino. Se invece preferite biscotti più uniformi, disegnate delle forme su carta e usatele come modello per ritagliare i vostri biscotti. La glassa gialla potrebbe col tempo penetrare nella glassa bianca. Meglio quindi consumare i biscotti nel giro di un giorno.
I biscotti cotti ma non glassati in una scatola si conservano per 1-2 settimane.
Preparazione: circa 40 minuti; refrigerazione: circa 45 minuti; cottura in forno: 10-12 minuti.
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Le ricche monete di un «topo da mercatino»
Collezionismo ◆ Dai pezzi d’argento a quelli commemorativi provenienti da tutto il mondo
Maria Grazia Buletti
«Già da giovane avevo quella passione che mi spinge ancora oggi a raccogliere qualsiasi cosa: essere un accumulatore seriale è proprio nella mia natura». Così esordisce Francesco Rossiello, di Bedano, che a casa conserva francobolli di tutto il mondo, armi bianche e da fuoco, macchine fotografiche, orologi da tasca e da polso, materiale chirurgico (che racconta gli fu lasciato dalle suore della clinica in cui ha prestato servizio quarant’anni), libri antichi fra i quali spicca un manoscritto del Settecento che ci mostra orgoglioso: «Non ricordo se l’ho scovato in un mercatino o in un solaio; ma ho visto che si trattava di un manoscritto di ricette del Settecento e, da appassionato di libri, l’ho subito acquistato».
Ogni collezione ha una storia tutta sua: ci basta osservarne un pezzo, e lui subito inizia a raccontarne la genesi con un entusiasmo incontenibile. Gli chiediamo come è cominciata la passione per la collezione di monete: quella che, fra le tante, ci ha maggiormente incuriosito: «Quando nel 1960 sono arrivato in Svizzera mi sono reso subito conto che qui i soldi erano d’argento. Allora, mi sono immediatamente innamorato delle monete da 1 franco, del 2 franchi, del 5 franchi e del 50 centesimi, e ho cominciato piano piano a conservarle perché mi sembrava che avere dell’argento mi facesse diventare ricco».
Un po’ alla volta, Francesco le «metteva da parte»: «A quei tempi inviavo gran parte della paga alla mia famiglia in Italia, per sostenere i miei fratelli più piccoli. Ma quando potevo conservavo per me qualche moneta d’argento».
Il tempo passa e Francesco comincia a collezionare tutte quelle d’argento che gli sembrano «le più belle», finché incontra un cappellano che presta servizio sulle navi da crociera, e che darà alla collezione una grande svolta: «Diventò un mio carissimo amico: lui girava il mondo sulle navi da crociera. Condividevamo la grande passione per le monete che lui raccoglieva durante questi viaggi, e spesso ce le scambiavamo, come i collezionisti, quelli veri!».
Accadde poi che il suo amico cappellano, più anziano di Francesco, prima di andare a vivere in casa di cura decise di regalargli le sue due grandi collezioni, sia quella di monete sia quella di francobolli: «Ho unito tutto quanto ricevuto alle mie collezioni e ne ho fatto una grande raccolta. Ma anch’io, nei miei quattro viaggi missionari in India, e in quelli fatti in Nepal, ho raccolto e portato a casa, oltre alle monete, pure altri oggetti che trovavo e decidevo di collezionare».
Francesco continua imperterrito e per lungo tempo «a cercare dove ci fosse qualsiasi mercatino dove poi andavo, in vacanza e in tutte le Nazio-
Giochi e passatempi
Cruciverba
Che la capra…
Termina la frase leggendo a cruciverba ultimato le lettere nelle caselle evidenziate.
(Frase: 2, 2, 7, 12)
ORIZZONTALI
1. Saluto inglese
5. Ci si fa l’olio
9. Fu abitato per primo
10. In favore
11. Un pò di umorismo
12. Nobili etiopi
13. Per l’appunto
14. Genere musicale
15. Un numero
17. Proteggono i trapezisti
19. Plurale maiestatico
20. Un testimone dei «Promessi Sposi»
21. La schiava di Sara
ni europee che ho visitato: a Roma, al mercatino di Porta Portese, mi sono caricato di così tante monete e tanti oggetti che poi ho portato a casa».
L’appassionato collezionista che non manca un’occasione pur di arricchire la sua collezione di monete decorative di tutto il mondo, Francesco, oggi si definisce proprio così: «Ero un topo di mercatini».
Ma qualche moneta l’ha pure ricevuta in dono, oltre a quelle del cappellano: «Quando ero Consigliere comunale a Sorengo, mi è stata regalata la moneta commemorativa dei 600 anni del Comune. Poi, sempre il mio amico don Eraldo mi ha regalato la medaglia commemorativa dell’arrivo di papa Giovanni Paolo II a Lugano». Fra tutte quelle che ci mostra, dice di non ricordare quella che a suo tempo ha reputato «la più originale»: «… forse una 500 lire italiana in argento». E ci mostra quelle portate dall’India, raffiguranti la regina Elisabetta II, mentre l’ultima acquisita risale a cinque o sei anni or sono: «È quella di Marzabotto, dove abita la mia sorella gemella».
Chissà se gliene manca ancora qualcuna che va cercando… «Al momento penso di no, sono contento di quelle che ho perché sono talmente tante! Però ho anche tanta carta moneta di tutto il mondo!». Così riprende a raccontare l’inverosimile: «Ho una collezione di carta moneta delle
ultime lire italiane: la serie completa di carta di quando c’è stato il cambio con l’Euro, dalle 1000 alle 500 mila lire». Naturalmente non manca di mostrarci tutto questo ben di Dio di collezioni e gli chiediamo dove le conserva: «In un armadio cassaforte in ferro, anche se devo ammettere che il valore è per lo più affettivo e non effettivo».
Collezioni, quella di monete e tutte le altre, dalle quali Rossiello dice di non volersi mai separare: «Ci tengo troppo, e il mio intento resta quello di lasciarle ai miei due figli, anche se fra i
due, il maschio è quello più interessato (soprattutto alla collezione di monete), mentre mia figlia non è troppo per queste cose: è molto più razionale, pragmatica e ha già detto di non essere interessata al mio museo».
Con questo desiderio, Francesco Rossiello esprime quella che definisce «la mentalità antica» di lasciare le proprie cose care agli eredi. Naturalmente dopo averle conservate tutte, le sue incredibili collezioni! Ivi compresa, ovviamente, quella di monete di tutto il mondo della quale ci ha deliziato anche coi suoi racconti.
Vinci una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una carta regalo da 50 franchi con il sudoku
Sudoku Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.
23. Ci... seguono in cucina
24. Signore trasteverino
25. Si segna a calcio
26. Sciolte, liberate
28. Due vocali
29. Aspetto, sembianza
VERTICALI
1. Suo in inglese
2. L’attore Sandler
3. Risparmiare, economizzare
4. Nella colonna e nelle linee
5. Importante quella «X»
6. Un articolo
7. Spazi privi di materia
8. Esteso, vasto
10. Timorate di Dio
13. Articolo per studenti
14. Penna a Liverpool
16. Pronome davati a signori
17. Nel ramo e nel tronco
18. Non è all’altezza
20. Frammento di pianta che ne genera un’altra
22. Angusto anfratto montano
23. Famosi
25. Poco garantito
27. Le iniziali dello stilista Armani
Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch
Soluzione della settimana precedente «Come mai oggi Aldo non è venuto al lavoro?» – «È all’ospedale!» –«Ma se ieri l’ho visto con una bella bionda...» risposta del collega:
«L’HA VISTO ANCHE SUA MOGLIE PURTROPPO!»
LEG HE A VAR IA
E SAN T OM
I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell ’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 3 aprile 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino TEMPO LIBERO 21
A N C H INNO BI E CA STE D UO AG ARTI MI O G L I R EO PIO DIAZ DM S U R TONNI A R O ACER IA POMO OSSO N SENA PE TORD O ’ ai167664421327_13_Soluzione.pdf 1 17.02.2023 15:30:13 153 9 47 8 1 7 2 2 954 1 25 5 6 3 82 9 7251 849 63 1639 275 48 9486 531 72 8 9 2 7 3 5 6 1 4 5172 463 89 6348 197 25 3 7 6 4 9 2 8 5 1 4513 682 97 2895 714 36
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Francesco Rossiello, di Bedano, con una parte della sua collezione. (Vincenzo Cammarata)
Per un gran finale goloso.
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ATTUALITÀ
Morire con dignità
Reportage dalla Norvegia dove il suicidio assistito è illegale, ecco come funziona in Svizzera
Pagina 25
Se l’America si ritira La profonda crisi di identità degli Stati Uniti provoca importanti conseguenze su scala planetaria
Pagina 27
I nazionalisti religiosi Quarta puntata del nostro viaggio tra i volti dell’ebraismo ortodosso contemporaneo
Pagina 29
Politica bancaria e nuvole
La BNS aumenta il tasso di sconto mentre continua l’incertezza legata al caso Credit Suisse
Pagina 31
Alla conquista delle lune ghiacciate di Giove
Spazio ◆ JUICE – che partirà il 13 aprile – è la prima missione esclusivamente europea diretta ai pianeti esterni del Sistema solare
Non è un caso che l’abbiano denominata JUICE, la missione dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA) il cui lancio è previsto per il prossimo 13 aprile. «Juicy», in inglese, vuol dire succoso e anche interessante. Nel giustificato ottimismo per quello che potrebbe uscire da una missione densa di significati nell’ambiente del pianeta Giove e dei suoi satelliti, si è voluto giocare su un acronimo evocativo, come quasi sempre succede nelle imprese spaziali. JUICE sta per «JUpiter ICy moons E xplorer», l’esploratore delle lune ghiacciate di Giove, cioè dei suoi satelliti Ganimede, Europa e Callisto. Si tratta della prima missione esclusivamente europea diretta ai pianeti esterni del Sistema solare. La sonda orbiterà intorno a Giove per studiare la sua atmosfera e magnetosfera e in particolare attorno alle sue tre lune appena ricordate. La quarta luna, che porta il nome di Io, vulcanicamente molto attiva, sarà evitata sia perché non è ghiacciata ma soprattutto perché si trova troppo vicino a Giove, che ha un forte campo magnetico e le cui radiazioni potenti potrebbero danneggiare gli strumenti di bordo della missione.
La realtà di Giove rappresenta agli occhi dei ricercatori un sistema solare in scala ridotta che vale la pena studiare
Giove è il più grande pianeta del Sistema solare, che per dimensioni e composizione qualcuno ha definito una stella mancata; ha numerosi satelliti naturali. Le sue lune più grandi e interessanti sono le quattro che abbiamo ricordato. Perché chiamiamo lune i satelliti di un pianeta è facilmente comprensibile, dato che il satellite della Terra è appunto la Luna. Proprio il sistema di Giove con i suoi quattro satelliti rappresenta agli occhi dei ricercatori un sistema solare in scala ridotta, che vale la pena di essere studiato. Attraverso la sua indagine JUICE cercherà di capire quali siano state le condizioni per la formazione dei pianeti, come funzioni il sistema solare e come possa comparire la vita su un corpo celeste. Per questo andrà a visitare Callisto, che è il pianetino maggiormente ricco di crateri del Sistema solare, poi misurerà lo spessore della calotta ghiacciata di Europa, cercando anche di identificare dei siti che possano essere adatti per una eventuale futura esplorazione sul terreno. Infine indagherà sulla struttura interna di Ganimede, che è l’unica delle lune gioviane dotata di un proprio campo magnetico. Si ha ragione di pensare che sotto le superfici ghiacciate, che sono già sta-
te viste e studiate, si possano trovare immensi bacini d’acqua salata, addirittura oceani.
Nella conferenza stampa che ha presentato JUICE, il francese Olivier Witasse, uno dei responsabili scientifici della missione, ha dichiarato che se si trovassero oceani all’interno delle lune di Giove si potrebbe anche cercare la presenza di ambienti adatti a ospitare forme di vita. Una volta lanciata dalla base europea di Kourou, nella Guiana francese, la sonda JUICE dovrebbe arrivare a Giove nel 2030/31, dopo aver sfruttato per quattro volte la spinta gravitazionale della Terra e di Venere in altrettanti passaggi ravvicinati attorno ai due pianeti. È una pratica sempre usata nei voli indirizzati verso i pianeti esterni. Il veicolo spaziale aumenta di velocità a causa dell’accelerazione dovuta all’attrazione del pianeta di grande massa per poi essere rilanciato dall’effetto fionda verso la sua destinazione. Con Giove parliamo di un obiettivo che dista mediamente dalla Terra oltre 700 milioni di chilometri. Nel viaggio non solo bisogna prendere la rotta giusta, ma bisogna anche poter scambiare segnali con la Terra
(verrà utilizzata un’antenna di 3 metri) con messaggi o comandi che possono metterci più di un’ora ad arrivare e quindi il veicolo deve essere il più autonomo possibile.
La missione è dedicata a Galileo Galilei che per primo, nel 1610, vide e descrisse questi quattro satelliti di Giove
Un’altra difficoltà saranno gli sbalzi termici dovuti alla temperatura esterna, che si prevede andrà dai +125 gradi centigradi ai –230 gradi, mettendo a dura prova la strumentazione. Poi il rifornimento di energia: la distanza di Giove dal Sole fa sì che i pannelli solari della sonda ricevano appena il 4 per cento di quello che raccoglierebbero sulla Terra. Ce ne sono per una superficie di 75 mq. Naturalmente la sonda è anche dotata di due serbatoi col propellente e di motori per le manovre. Gli strumenti scientifici esclusivi montati sulla sonda sono dieci. Una missione impegnativa, dal contenuto sicuramente «succoso», che dopo l’arrivo a Giove dovrebbe prose-
guire per altri 3 anni. Una volta studiato il pianeta e dopo parecchi sorvoli di Europa e Callisto si prevede che la sonda JUICE, nel 2034, si posizioni in orbita attorno a Ganimede per restarvi un altro paio d’anni. Prima d’ora nessun satellite artificiale ha mai orbitato intorno alla luna di un altro pianeta che non sia la Terra. Sul corpo della sonda è montata una placca commemorativa dedicata a Galileo Galilei che per primo, nel 1610, col suo cannocchiale vide e descrisse questi quattro satelliti di Giove, il cui nome sarebbe stato dato loro pochi anni dopo da un astronomo tedesco. JUICE sarà l’ultima missione dell’ESA a essere lanciata con un razzo Ariane 5. Dal prossimo autunno per le missioni con carichi importanti si userà il nuovo lanciatore Ariane 6, che avrà due diverse configurazioni per poter portare nello spazio carichi rispettivamente di 5 e di 10,5 tonnellate.
Nel corso di questo anno l’Europa spaziale conta anche di lanciare un nuovo satellite Sentinel del programma di osservazione terrestre Copernicus e di spedire un satellite scientifico (Euclid) a esplorare l’Universo oscuro, creando una mappa 3D dove
il tempo è la terza dimensione, osservando miliardi di galassie fino a 10 miliardi di anni luce di distanza. Pensando al futuro, l’ESA ha già reso noto un programma strategico chiamato «Terrae Novae» che a partire dal 2030 dovrebbe condurre idealmente e concretamente nel Sistema solare la popolazione europea, soprattutto attraverso i robot e i voli strumentali. È la nostra specialità, per la quale l’Europa spaziale è leader mondiale.
Nel prossimo decennio si intendono spedire più astronauti europei sulla Stazione Spaziale Internazionale (ISS), sempre che funzioni ancora e se saranno risolti i problemi di convivenza con la parte russa. Ancora sulla ISS si vuole dimostrare il nostro impegno nei riguardi della diversità e dell’inclusività preparando la prima missione in assoluto di un astronauta, uomo o donna, con disabilità fisica. Inoltre vi sarà la partecipazione attiva, con il coinvolgimento dell’industria europea, nei programmi NASA di ritorno sulla Luna e nell’esplorazione di Marte. La Conferenza ministeriale dell’ESA del prossimo novembre prenderà decisioni in proposito.
● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 3 aprile 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 23
Giove e i suoi satelliti: Io, Europa, Ganimede e Callisto. (Keystone)
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Qui bisogna morire con gli stivali ai piedi
Prospettive ◆ Reportage dalla Norvegia dove il suicidio assistito è illegale
Angelo Ferracuti
Dal quartiere di Majorstuen arriviamo a piedi al Vigeland Park, il parco con le statue sul ciclo della vita, insieme ad Antonio Trivilino, il presidente del Circolo degli italiani di Oslo. «Per otto anni ho fatto parte del Consiglio degli anziani», ci racconta mentre passeggiamo. «Ogni anno si tengono degli incontri aperti al pubblico; non sono mai riuscito a organizzare una conferenza sul tema dell’eutanasia perché, nonostante la Norvegia sia sempre più laica, resta fondamentalmente una società cristiana protestante. L’idea che la vita possa essere tolta mette paura, e ancora di più perché ci troviamo in un Paese dove il numero dei suicidi è abbastanza alto rispetto alla media mondiale». Più volte Trivilino ha raccontato di un modo di dire della tradizione norvegese: «Morire con gli stivali ai piedi». Significa che fino all’ultimo istante sei vigile, autosufficiente. «Alcuni mi hanno confessato che vorrebbero morire facendo l’amore, c’è una paura fortissima in loro della decadenza fisica». E questo è legato a una cultura profonda: «Un norvegese medio cammina, va nel bosco, scia, nuota, ha una attività sportiva molto intensa».
Il giorno seguente andiamo allo Storting, il Parlamento norvegese sulla Karl Johans gate. In una stanza al secondo piano ci aspetta Bård Hoksrud, uno dei leader del Partito del progresso, di orientamento liberale, quello più a destra del Parlamento. Nel suo programma il suicidio assistito è previsto solo per malattie come il cancro, la SLA, per le quali non c’è una possibilità di guarigione. «Noi liberali pensiamo che ogni individuo ha diritto di poter scegliere il momento in cui uno desidera morire», ci spiega.
In Norvegia il suicidio assistito è illegale, ma è prevista una riduzione di pena per chi l’ha praticato per ragioni umanitarie a una persona affetta da una malattia incurabile, mentre è permessa l’eutanasia passiva, cioè l’interruzione di cure mediche. Hoksrund dice che in Parlamento non c’è mai stato un vero dibattito sul tema ma, secondo un sondaggio, il 70% dei norvegesi sarebbe favorevole al suicidio assistito e alcuni cittadini vanno a morire in Svizzera. «Bisogna tener conto della religiosità, del rispetto per la vita, della paura di uccidere un’altra persona», afferma. «Che questa cosa possa farla addirittura lo Stato turba i norvegesi: nel profondo del cuore sono cristiani. Io sono combattuto, da una parte la mia formazione cristiana prevale, ma sono anche un politico che rispetta l’orientamento di maggioranza del suo partito, poi capisco umanamente chi desidera morire poiché soffre in modo atroce e vuole porre fine ai suoi giorni».
Durante il nostro soggiorno in Norvegia incontriamo anche Ole Martin Moen, docente di Etica pratica, in una saletta della Oslo Metropolitan University. Giovanissimo, il viso florido con al centro un paio di occhiali in metallo. Con il collega Aksel Braanen Sterri ha scritto il libro Eutanasia attiva, etica del fine vita, decisamente favorevole all’autodeterminazione. «Nelle democrazie liberali occidentali – dice – si dà un grande peso alla libertà di scelta dell’indivi-
Per poter decidere la fine della storia
Svizzera ◆ Le regole, la voce di Exit e Dignitas
Romina Borla
duo, anche se poi molte volte viene limitata». Secondo lui, comunque, ci devono sempre essere tre condizioni: quando i pazienti sono gravemente malati e sofferenti, senza prospettive realistiche di guarigione, e hanno fatto una scelta cosciente di morire.
«La vita, per alcuni, può essere molto dolorosa. La morte allora è un bene rispetto a una vita simile, e proprio perché è difficile sapere se sia giusto o sbagliato porre fine a un’esistenza, non siamo giustificati a prevalere sulla scelta dell’individuo».
«Preservare la vita è giusto, ma non è il bene supremo, il bene supremo che investe tutta la cristianità è l’amore per gli altri»
Il saggio di Moen e Sterri contiene 80 pagine di controargomentazioni del principale oppositore all'eutanasia, Morgen Magelssen, professore associato di Medicina etica che è stato consulente per il libro. Siamo riusciti a fissare un appuntamento con lui al Center for Medical Ethics. Moen e Magelssen erano «amati nemici» e partecipavano uno alle lezioni dell’altro con tesi contrapposte. «Il libro di Moen e Sterri è fondamentale per lo studio dell’eutanasia in Norvegia», ammette Magelssen, «anche se io sono contro la legalizzazione del suicidio assistito. Come cristiano sono contro l’interruzione della vita, invece credo che le cure palliative siano ormai talmente efficaci che non c’è un bisogno di morire legato all’insopportabilità del dolore; inoltre in Norvegia si possono limitare i trattamenti medici per legge, in questo modo si ottiene una morte più rapida». Magelssen sottolinea anche un aspetto legato alla professione medica, che ha un’etica legata al salvare le vite, «dargli invece il ruolo di toglierla creerebbe una situazione inaccettabile, dando un segnale negativo alle persone che stanno soffrendo».
Qualche giorno dopo, insieme a Trivilino, andiamo in treno ad Halden per incontrare Trond Enger, un
prete della chiesa protestante favorevole al suicidio assistito di cui hanno parlato tutti i quotidiani norvegesi. Alla fine di una strada sterrata c’è la casa del sacerdote, l’ultima prima di una valle. Apre la porta un uomo anziano dai capelli argentati, ci fa accomodare in un piccolo salotto. «La vita è un regalo di Dio», dice, «ma la persona deve partecipare a questa vita, uno nasce anche per la volontà umana dei suoi genitori, nel Vecchio Testamento si racconta che Abimelech, il figlio del giudice Gedeone, si fece uccidere dal suo scudiero, e non fu criticato per questo». Enger ha assunto questa posizione anche leggendo le tesi del teologo svizzero Hans Küng. Sostiene che molti all’interno della Chiesa accettano l’idea del dolore come necessario «perché è lo stesso che ha provato Gesù Cristo», ma il teologo dice: «Che idea di Dio è? Non è che se soffri sei più cristiano». «Gesù Cristo in tutte le sue azioni – continua Enger –ha dimostrato in modo pratico di far diminuire i dolori. È la mia visione di Dio che mi permette di accettare l’eutanasia. Da un punto di vista religioso preservare la vita è una cosa giusta, ma non è il bene supremo, il bene supremo che investe tutta la cristianità è l’amore per gli altri».
Poi il religioso ci racconta la storia di un cappellano militare il quale si era trovato di fronte a un soldato che aveva una scheggia di ferro nel petto e gli creava un dolore enorme: «La ferita era talmente grave che non sarebbe sopravvissuto. Allora il soldato pregò il prete di ucciderlo, e questi esaudì il suo desiderio. È stato l’atto più grande di carità. Non sarebbe comunque sopravvissuto, avrebbe solo sofferto inutilmente. La vita è sacra, ma l’amore e la pietà in situazioni speciali ed estreme vengono prima». Enger precisa che, all’interno della Chiesa protestante norvegese, lui appartiene a un gruppo minoritario. E non ha ricevuto nessun anatema dai suoi «superiori»: «Quello che pensa un piccolo prete di campagna non ha molto peso, se fossi stato un vescovo probabilmente ci sarebbero state delle reazioni negative, invece solo silenzio».
In Svizzera l’eutanasia attiva diretta o «omicidio mirato a ridurre le sofferenze di un’altra persona» – per esempio somministrando un’infusione letale – non è legale. L’eutanasia attiva indiretta (l’impiego di mezzi per alleviare il dolore, ad esempio la morfina, i quali possono abbreviare la vita) e l’eutanasia passiva (la rinuncia ad avviare o la sospensione di terapie di supporto vitale) non sono regolate dal Codice penale e sono in linea di massima consentite (vedi il sito dell’Ufficio federale di giustizia). La legge prevede inoltre la possibilità dell’aiuto al suicidio. Sul territorio sono attive diverse organizzazioni che si offrono di accompagnare chi decide di percorrere questa via. Ne abbiamo interpellate due – Exit e Dignitas – ma ne ricordiamo altre: Lifecircle, EX International, Pegasos. Dignitas sottolinea: chi ricorre al suicidio assistito deve dimostrare di essere capace di intendere, di volere ed essere in grado di compiere personalmente l’atto finale. «La persona viene sostenuta durante tutto il processo di preparazione, fino alla fine, sia in maniera professionale dall’associazione, sia dalla famiglia e dagli amici. Non si tratta solo di un atto assistito». Si tratta di un percorso che non sempre arriva a compimento. Questa soluzione – ci dice l’organizzazione – rimane comunque una pratica scelta da pochi: in Svizzera circa il 2% dei decessi annuali totali.
Nel 2022 Exit Svizzera tedesca, di cui fa parte anche il Ticino, ha seguito verso la morte 1125 soci, il 15% in più rispetto al 2021 (973) e il 23% in più rispetto al 2020 (913). Le richieste di assistenza sono state 1567 (2022). «L’aumento dei suicidi assistiti – afferma Ernesto Streit di Exit Ticino – si spiega con il crescente invecchiamento della società e il conseguente incremento di malattie o disabilità gravi. Chiedono il nostro aiuto più donne che uomini, soprattutto a causa di patologie quali il cancro oppure invalidanti disturbi multipli». C’è qualche resistenza da parte della popolazione o delle autorità nei confronti di questa soluzione? «Polizia e magistratura non osteggiano il nostro operato, ritengono possa prevenire casi di suicidi violenti», risponde l’intervistato. «Per quello che riguarda i medici: chi non collabora è l’eccezione e lo fa tipicamente per motivi etici-religiosi. A livello di certificati: di solito per le diagnosi/prognosi non ci sono problemi, c’è più difficoltà nel prescrivere il medicinale letale (all’incirca il 50% dei medici non se la sente di ordinare una sostanza che porta alla morte del paziente). Exit comunque non si limita ad accompagnare la persona
al suicidio ma illustra anche le alternative, che spesso vanno in direzione della medicina palliativa (cancro) ma anche di ricoveri e cure specifiche (malati psichiatrici)».
A differenza di Exit, che segue solo residenti in Svizzera o elvetici all’estero, Dignitas accompagna alla morte circa 200-220 persone l’anno in maggior parte provenienti dall’estero (nel 2022 erano 195, in prevalenza da Francia, GB, Israele, Italia, USA; 11 i residenti nella Confederazione). «Lo scopo dell’associazione è soprattutto quello di garantire il diritto di ogni persona – capace di giudizio – di determinare la propria vita e la sua fine in modo autonomo. Questo dovrebbe valere in tutto il mondo, non solo in Svizzera». Al momento otto Paesi europei permettono una forma di aiuto alla morte volontaria. Svizzera, Germania, Austria e Italia consentono il suicidio assistito. Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo e Spagna sia il suicidio assistito sia l’eutanasia. «Nessuno dovrebbe essere obbligato a recarsi in Svizzera per esercitare un diritto di cui dovrebbe godere a casa propria», sostiene Dignitas. «Il diritto per le persone sofferenti di porre fine alla propria vita in modo autodeterminato e accompagnato, là dove vivono, è stato confermato nel 2011 dalla Corte europea dei diritti dell’uomo in una sentenza relativa a un caso legale condotto da Dignitas. Fa parte dell’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Diritto al rispetto della vita privata e familiare)».
L’organizzazione ha prestato consulenza in vari Paesi, nonché avviato e condotto numerose cause legali. «Ad esempio in Germania il lavoro giuridico di Dignitas ha contribuito all’annullamento del divieto dell’aiuto professionale al suicidio da parte della Corte costituzionale federale (26 febbraio 2020). L’11 dicembre 2020, in un’azione legale da noi commissionata, la Corte costituzionale austriaca ha dichiarato anticostituzionale il divieto totale dell’aiuto al suicidio. Una legge ad hoc è entrata in vigore nel gennaio 2022. Invece in Francia l’associazione ha avviato due procedure presso il Conseil d’État contro il divieto dell’aiuto al suicidio. A fine 2022 l’organo ha tuttavia deciso di non accogliere le nostre argomentazioni. Benché la legalizzazione di una forma di morte volontaria assistita venga ampiamente discussa nel Paese, è tutt’altro che certo che un’eventuale bozza di legge contempli l’effettiva libertà di scelta in merito al fine vita e che ottenga la maggioranza in Parlamento. Dignitas sta considerando ulteriori azioni legali».
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 3 aprile 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino ATTUALITÀ 25
Trond Enger, il prete norvegese favorevole al suicidio assistito. (Ferracuti)
Dominik Lange / Unsplash
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Vivere senza l’America
L’analisi ◆ La profonda crisi di identità degli Stati Uniti provoca conseguenze su scala planetaria, vediamo quali
Lucio Caracciolo
Poco si capisce delle convulsioni geopolitiche che papa Francesco ha felicemente battezzato «guerra mondiale a pezzi» senza considerarne il fattore scatenante. Questo consiste nella profonda crisi di identità degli Stati Uniti d’America e nelle conseguenze che provoca su scala planetaria. Siamo stati abituati a vivere dopo la Seconda guerra mondiale in una sorta di impero americano, tanto informale quanto effettivo. Certamente benedetto da chi aveva la fortuna di esserne parte. Sistema prima in cogestione asimmetrica con l’impero sovietico, poi disperatamente solo, dal 1992. È da questa solitudine, e dai riflessi che comporta, che nasce la crisi americana. E da essa l’inevitabile disintegrazione di quell’ordine globale che pareva essersi consolidato dopo le due guerre mondiali.
L’Alleanza atlantica sopravvive a sé stessa, senza uno scopo e un modo di esistere condivisi da chi ne fa parte
L’impossibilità di reggere il mondo da un punto solo, insieme all’irrinunciabilità del principio universalistico della Repubblica imperiale a stelle e strisce, ha compromesso la capacità americana di gestire i conflitti che si espandono nel mondo. Lo si vede molto chiaramente nella crisi dell’Alleanza atlantica. Concepita per contenere l’impero sovietico e legittimare l’egemonia americana sull’Europa, questa struttura militare a guida americana è ormai fatiscente. Sopravvive a sé stessa, senza uno scopo e un modo di esistere condivisi da chi ne fa parte. La NATO senza guida americana non ha senso. È questo che noi oggi dobbiamo constatare. Gli americani
non hanno più né il tempo né la voglia di portare a fattor comune i diversi soggetti della comunità atlantica. Da un punto di vista strettamente militare, poi, la NATO si è dimostrata quanto meno inefficace. Alla prova della guerra di Jugoslavia, prima, nella guerra di Ucraina, oggi.
Nel decennio delle guerre di successione jugoslava, quando alcuni europei privi di senso dell’umorismo annunciavano «l’ora dell’Europa» (Jacques Poos, ministro degli Esteri lussemburghese), il tentativo di affidare ai Paesi europei della NATO la gestione delle turbolenze balcaniche si rivelò fallimentare. Quell’esperienza portò poi, dopo l’11 settembre, l’America a stabilire – secondo il famoso detto del ministro della Difesa Rumsfeld – il postulato per cui non è la coalizione che stabilisce la missione ma l’opposto. Modo di definire la libertà di scelta americana dei partner atlantici servibili, e per conseguenza degli inutili. Fra i primi, restano permanentemente convocati i britannici, i francesi (quando vogliono) e alcuni altri scelti per l’occasione.
Oggi l’unica NATO che, oltre all’Inghilterra, interessa agli americani è quella del Nord-Est europeo. In primo luogo la Polonia, presto anche i Paesi scandinavi in entrata (Svezia e Finlandia) e, più indietro, la Romania. Questa selezionata compagnia ha il compito di presidiare la frontiera con l’impero russo in velleità espansiva. Il resto della NATO, fra cui le gloriose potenze occidentali o sedicenti tali (Francia, Germania e Italia) sono considerate, se non proprio inutili, quanto meno inadatte al contrasto sia della Russia che della penetrazione cinese in Europa.
Lo stesso vale, oggi, per il teatro prioritario dal punto di vista di Washington, ovvero l’Indo-Pacifico. Qui
l’America convoca, in posizione comunque secondaria, solo Regno Unito e Francia. Il primo per storica affidabilità, la seconda in quanto potenza del Pacifico. Ma si tratta di appendici di un sistema lasco di intese incentrato sul cosiddetto Quad: India, Giappone e Australia ad affiancare l’America. In parole povere, a qualunque crisi ci si voglia riferire, Washington tende a esporsi il meno possibile e a concentrarsi solamente sulle missioni principali. Su tutto, il contenimento della Cina. Se ne accorgeranno probabilmente presto – ammesso
che non l’abbiano già fatto – anche gli ucraini, cui difficilmente l’attuale amministrazione continuerà a garantire il supporto finora assicurato, decisivo per la loro resistenza all’aggressione russa. La conseguenza di questa ritrosia americana è la crescente entropia nei rapporti internazionali. Il rischio che la guerra mondiale a pezzi diventi effettiva e globale è insito nello scadimento dell’ordine internazionale. Questo implica infatti l’emersione di potenze regionali più o meno velleitarie, come il Giappone e l’India in
Dalla Russia in Argentina per partorire
Asia, la Polonia e la Turchia in Europa, le quali possono certamente scatenare crisi nei rispettivi «esteri vicini» ma altrettanto certamente non sono in grado di gestirle. Quasi automaticamente si rivolgeranno a Washington, che farà finta di non sentire. C’è un’alternativa visibile a tale entropia? Parrebbe proprio di no. A meno di non considerare la Cina come una effettiva alternativa all’egemonia americana. Per quanto Washington dipinga Pechino come minaccia strategica, siamo ancora molto lontani dal poter immaginare un mondo cinese.
Via da Putin ◆ Chi nasce nel Paese sudamericano acquisisce la cittadinanza: una prospettiva allettante per molte donne incinte
Angela Nocioni
C’è un passaporto blu con un’esile riga argentata nel mezzo che per una donna russa può voler dire un futuro possibile, e si spera sereno, altrove per sé e per suo figlio. Un futuro dall’altra parte del mondo, in Argentina, lontani da Mosca, lontani da Putin e dalla guerra. Non c’è quindi soltanto la storia terrificante dei bambini ucraini deportati in Russia perché diventino russi. C’è anche la storia dei bambini russi che diventano argentini per volere dei loro genitori. È ormai un fenomeno sociale, a Buenos Aires, l’ondata di donne russe incinte che arrivano all’aeroporto internazionale di Ezeiza perché vogliono che i loro figli nascano lì.
In Argentina vige la legge che concede la cittadinanza argentina ai bambini nati in terra argentina, dà ai loro genitori il diritto alla residenza permanente nel Paese e a una strada facilitata per ottenere a loro volta la cittadinanza. I russi inoltre non necessitano di un visto per entrare in Argentina. Con il passaporto argentino si entra in oltre 170 Paesi. Con quello russo in poco più di 80. Ecco perché ogni volta che sulla pista dell’aeroporto di Buenos Aires si apre il portellone di un aereo in arrivo dal-
la Federazione russa, gli addetti allo scalo sanno che tra i passeggeri in fila ci saranno quasi certamente donne in gravidanza, molto spesso con marito al seguito.
C’è una sala, agli arrivi internazionali, dove vengono fatte sedere su comode poltrone in attesa che passi un ufficiale di Migraciones, la polizia di frontiera, a controllare i loro documenti. Poi un timbro e la porta si apre sotto il celeste totale del cielo australe: «Benvenute in Argentina! Terra di speranza, terra di nuova vita». Molte di queste donne però non si fermano a lungo, sono di passaggio. La meta finale è l’America, dove possono contare in tempi non lunghissimi di ottenere documenti per permessi di lavoro e residenza.
È talmente cresciuto il numero di arrivi di donne russe in stato di gravidanza in cerca di passaporto argentino, per loro stesse e per i loro figli, che stanno sorgendo in Argentina agenzie specializzate in pacchetti a loro dedicati che propongono viaggio, soggiorno in clinica, sostegno «burocratico» fino all’ottenimento degli ambiti documenti. Soltanto a gennaio sono arrivati 4500 russi all’aeroporto di Ezeiza e due grandi ospedali di
Buenos Aires hanno fatto sapere che tra dicembre 2022 e gennaio 2023 il 35 per cento dei bambini nati nelle loro sale parto sono di madre russa. Addirittura nei reparti di ostetricia e neonatologia di alcuni nosocomi della città ci sono cartelli di informazioni scritti in cirillico. La maggior parte delle coppie o delle donne sole che arriva in Argentina per partorire è benestante, questo perlomeno risulta dalle statistiche redatte finora. I nuovi cittadini russi in Argentina vivono
a Recoleta, un quartiere rinomato per le residenze in stile parigino, i palazzi signorili e le boutique eleganti, oppure a Palermo, un’area esteticamente ancorata a standard europei sotto vari (ed onerosi) punti di vista.
Alle tante perplessità sollevate dai numeri delle presenze di neonati russi in Argentina, risponde con saggia sincerità la funzionaria di Migraciones, Florencia Carignano, italiana di origine: «È evidente che la stragrande maggioranza delle famiglie russe appena arrivate qui in Argentina non ha la minima intenzione di fermarsi.
Punta perlomeno agli Stati Uniti del sud, se non a New York». Questa è la ragione per la quale lei e i suoi collaboratori stanno passando al setaccio tutte le richieste di documenti russi per fermarsi a vivere da residenti lavoratori nel Paese. Ha detto Carignano facendo sobbalzare sulla sedia i suoi sottoposti: «Non so se avete capito, ma quello che è in gioco al momento è il valore del passaporto argentino».
E i cultori del nazionalismo argentino, che risiedono a sinistra e a destra dell’emiciclo parlamentare, hanno sussultato alla frase «dobbiamo poter escludere con margini decenti di credibilità che i nostri passaporti possa-
no essere utili ad azioni illegittime». Il riferimento, nemmeno troppo oscuro, è alla possibilità che passaporti argentini coprano attività illecite che vanno dal lavaggio di denaro sporco a vari tipi di traffici illegali internazionali.
Un altro fenomeno preoccupa molto gli addetti ai lavori. La polizia argentina si sforza in particolar modo per escludere la possibilità che tra le pratiche di riconoscimento di diritto alla cittadinanza si nascondano oscuri business ben pagati capaci di procurare un passaporto argentino (quindi un passepartout per gli Stati Uniti almeno per dieci anni) a qualcuno che quel diritto non ce l’ha.
Christiano Roubliar, avvocato argentino esperto in questioni migratorie, spiega l’essenziale: «Non c’è bisogno di aggrapparsi a casi estremi. Anche se l’essere stato partorito in terra argentina solleva i genitori del neonato dall’obbligo di aspettare due anni per vedersi riconosciuto il diritto alla cittadinanza (negata in Europa, non ce lo dimentichiamo) questo non vuol dire che i genitori del bambino non siano comunque tenuti a dimostrare la continuità dell’effettiva residenza sul territorio di loro stessi e del piccolo».
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 3 aprile 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino ATTUALITÀ 27
Keystone
Juan Encalada/Unsplash
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Il nazionalismo religioso delle kippà a uncinetto
Israele
puntata ◆ Dopo aver conosciuto le comunità ultraortodosse, ecco un altro grande gruppo di ebrei osservanti
Nelle scorse puntate (vedi «Azione» del 13 febbraio, 27 febbraio e 20 marzo) abbiamo parlato delle comunità ebraiche ultraortodosse, tuttavia vi è un altro grande gruppo di ebrei osservanti che è costituito dai cosiddetti nazionalisti religiosi. Pur conducendo una vita rispettosa dell’osservanza, questi ultimi si distinguono per la kippà a uncinetto (a differenza di quelle nere dei charedìm) e per l’inserimento attivo nella società allargata. Questo settore, che costituisce circa il 10% della popolazione ebraica israeliana, è sostanzialmente diviso in due gruppi: uno più integralista sia dal punto di vista dell’osservanza che da quello politico, e un altro liberale, più moderno e moderato, e maggiormente integrato nella società laica.
Le donne propendono per il servizio civile, gli uomini lo svolgono eventualmente integrandolo con studi talmudici
Le radici della corrente risalgono al 1800 e il leader spirituale il cui pensiero ne ha influenzato e forgiato l’identità è stato il rabbino Abraham Isaac Kook (1865-1935), primo rabbino capo ashkenazita sotto il Mandato. Già prima della fondazione dello Stato, il movimento ha contribuito al sionismo di Hertzel e all’emigrazione in Palestina che esso vede come parte del disegno religioso. Si associano a loro tra gli altri il movimento giovanile Bne’ Akiva e il partito Mafdal, così come una fitta rete di istituzioni scolastiche di ogni grado e scuole rabbiniche, tra cui le famose yeshivòt Merkaz Harav e Hakotel.
Con il passare degli anni i nazionalisti religiosi si sono allineati politicamente sempre più a destra, facendosi portatori dell’ideologia della «Terra d’Israele intera». Per tale motivo, a partire dagli anni ’70 in poi, molti si sono trasferiti nei territori creando colonie sul Golan, in Giudea, Samaria e nella Striscia di Gaza. Il ritiro da quest’ultima, imposto loro con la forza da Ariel Sharon nel 2005, è stato uno degli eventi più drammatici che li ha visti come protagonisti e il processo di riabilitazione degli sfollati è ancora in
corso. Mentre le donne propendono per il servizio civile, gli uomini svolgono quello eventualmente integrandolo con studi talmudici. Tuttavia la presenza crescente dei nazionalisti religiosi nelle unità da combattimento continua a suscitare dubbi e timori nella società laica, per la preoccupazione che ciò possa compromettere determinate operazioni come appunto quelle nelle colonie.
Tra i temi più dibattuti all’interno del settore tra posizioni conservatrici e liberali troviamo questioni etiche, politiche, sociali e di diritto ebraico. In discussione sono la sovranità sul territorio, la conservazione dell’identità ebraica, lo status delle donne, il rapporto con il mondo accademico e con la società laica.
Negli ultimi decenni dalle loro schiere sono uscite interessanti personalità dall’indubbio spessore intellettuale e creativo. Uno di questi è il rabbino Shimon Gershon Rosenberg, meglio conosciuto come Shagar (1949-2007), il quale, pur partendo da
La tensione resta alta – Il ruolo chiave dei militari
Lo scorso lunedì sera, al termine di una lunga giornata di sciopero generale che ha paralizzato persino l’aereoporto, il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha finalmente congelato l’approvazione della riforma della giustizia. Il culmine delle proteste era stato infatti raggiunto domenica sera, quando migliaia di manifestanti si erano riversati nelle strade infuriati a causa del licenziamento del ministro della Difesa Yoav Gallant, provocando tensioni e scontri violenti con la polizia, senza precedenti nella storia del Paese. Messo con le spalle al muro dalla pressione dell’opposizione, nonché dal dissenso emerso nel suo stesso partito, il primo ministro ha fatto un passo indietro motivato dal timore dell’insorgere di una guerra civile.
Benché molti abbiano tirato un sospiro di sollievo all’apertura di un dialogo di compromesso, la realtà israeliana si riconferma nella sua problematicità. Innanzitutto si tratta solo di una sospensione. Inoltre, per tenersi buo -
una rigida osservanza dei precetti, ha instaurato un prolifico dialogo con il pensiero postmoderno di matrice europea, proponendo un approccio innovativo alla fede basato sulla scelta del singolo di fronte alle tante alter-
native possibili offertegli dal mondo contemporaneo. Un’altra figura interessante è quella del rabbino Menachem Fruman (1945-2013) promotore di un dialogo interconfessionale tra ebrei e musulmani che fa leva sul-
la religione come strumento e fonte di riconoscimento di umanità e pari dignità per tutti i popoli. I ministri Smotrich e Ben-Gvir fanno entrambi parte delle correnti più estreme del nazionalismo religioso.
Azi one
na l’ala di estrema destra ed evitare la caduta del Governo, Netanyahu ha immediatamente ceduto alla richiesta del ministro della Sicurezza Itamar Ben-Gvir che gli ha strappato la promessa di creare un corpo di guardia nazionale, una vera milizia privata che rieccheggia inequivocabilmente le dittature del passato.
Infine, il ruolo chiave della disobbedienza dei militari nella pressione esercitata su Netanyahu non fa che dimostrare ancora una volta la centralità dell’esercito nella società israeliana militarizzata la quale, anche nelle componenti cosiddette liberali, persiste nel voler mantenere uno status quo che istituzionalizza la colonizzazione dei territori e legalizza la discriminazione dei palestinesi, complice la magistratura. Insomma, anche l’elite che ha guidato le proteste è interessata a mantenere i privilegi dell’etnocrazia, mentre l’Europa a sua volta finanzia l’occupazione e i primi a fare le spese della nuova milizia saranno naturalmente i palestinesi.
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La politica monetaria e il «mostro» UBS
Il punto ◆ La BNS aumenta il tasso di sconto per contrastare l’inflazione mentre continua l’incertezza legata al caso Credit Suisse
Ignazio Bonoli
Anche la Banca Nazionale Svizzera (dopo la FED americana, la Banca Centrale Europea e altre banche centrali) ha deciso di aumentare il tasso di sconto di un mezzo punto percentuale portandolo all’1,5%, come di regola ben al di sotto di altri tassi guida. La misura – contrariamente a quanto di solito avviene – non era per nulla scontata. Infatti la BNS si è di colpo trovata a metà marzo in una situazione particolarmente delicata: frenare l’inflazione, ma senza pesare troppo sulla crescita economica, nonché finanziare un’operazione eccezionale come quella del caso Credit Suisse. Il tutto senza dimenticare che, per il 2022, la BNS ha chiuso il bilancio con una perdita di una cinquantina di miliardi di franchi.
Con l’aumento del tasso di sconto, la BNS ha voluto dare al mercato (e anche ai mercati internazionali) un segnale molto chiaro delle intenzioni di contenere nella miglior misura possibile il tasso d’inflazione. L’evoluzione dei prezzi in Svizzera è a un livello molto più basso che altrove: oggi il rincaro è al 3,4%, cioè al di sopra dell’obiettivo di un massimo del 2%. L’aumento di mezzo punto percentuale è piuttosto consistente per le abitudini elvetiche, ma sottolinea appunto la volontà dell’autorità monetaria di lottare efficacemente contro l’inflazione. La BNS tiene comunque conto del fatto che ciò significa un aumento dei tassi d’interesse, cosa che, per il momento, è ben vista dalle banche, ma magari un po’ meno dall’industria e dal turismo, nonché dai numerosi debitori ipotecari. La banca aveva però bisogno, in questi frangenti, di una significativa solidità del franco svizzero nei confronti delle altre valute principali. Cosa che si è puntualmente verificata.
La BNS prevede un tasso d’inflazione del 2,6% nel 2024 e del 2% nel 2025. I tassi di crescita dell’economia, secondo la Segreteria di Stato dell’economia (SECO) saranno dell’1,1% nel 2023 e dell’1,5% nel 2024. Questo non esclude però che ci possano esse-
re altri interventi, con rialzi dei tassi d’interesse da parte della BNS, ma soprattutto da parte di altre banche centrali, confrontate con tassi d’inflazione ben superiori. La situazione è comunque ricca di incertezze e aggravata dalle difficoltà di alcune banche, compreso il Credit Suisse. Come noto, il colpo di grazia al Credit Suisse è venuto da parecchie fonti, a cominciare dal fallimento della banca americana Silicon Valley, seguita da altre piccole banche regionali, ma con influssi pesanti su tutto il mercato finanziario. Al Credit Suisse è costata parecchio anche la dichiarazione del presidente, ora dimissionario, della Saudi National Bank che non avrebbe più sostenuto finanziariamente il CS, malgrado si trattasse dell’azionista di maggioranza. Nel frattempo si sono anche intensificate voci di altre difficoltà bancarie, tra cui quelle della grande Deutsche Bank.
È in questo contesto di generale mancanza di fiducia che Consiglio federale e Banca Nazionale hanno cercato una soluzione ai problemi del Credit Suisse. Probabilmente è stata la più drastica possibile, dato che ha comportato la scomparsa pura e semplice della seconda grande banca svizzera. Si poteva fare diversamente? Si poteva salvare il Credit Suisse? Queste e molte altre domande che sono sorte subito dopo la decisione, di domenica sera 19 marzo, di fare assorbire il Credit Suisse dall’altra grande banca svizzera UBS. I fatti sono noti, poiché la stampa scritta e parlata di tutto il mondo ne ha ampiamente riferito. Non bisogna però nemmeno dimenticare che, alla vigilia del tracollo, sia il Credit Suisse stesso, sia la FINMA e la Banca Nazionale affermavano che la banca era sana e corrispondeva a tutti i criteri i una banca «sistemica». Erano, però, molto grandi i timori che un crollo di una simile banca (determinato essenzialmente dalla fuga precipitosa di molti clienti), in Svizzera, potesse dare l’avvio a una crisi generale del sistema finanziario internazionale.
Sono infatti essenzialmente questi timori che hanno indotto il Consiglio federale a prendere una decisione drastica e sicuramente eccezionale nel sistema economico e giuridico svizzero. Tant’è vero che il Consiglio federale ha dovuto ricorrere al diritto d’urgenza, per quanto attiene agli aspetti giuridici, e all’aiuto di UBS per gli aspetti economici. A posteriori e dopo i primi stanziamenti di due volte 50 miliardi di franchi, si è saputo che l’operazione potrebbe costare 259 miliardi di franchi. Un terzo del PIL svizzero, per usare un termine di confronto.
A questo punto sono parecchie altre le domande che il mondo politico e finanziario si pongono, soprattutto nella Confederazione. All’estero l’operazione è stata valutata in termini positivi, forse anche perché ha permesso di evitare interventi di altre banche centrali o delle autorità monetarie internazionali. Era la soluzione giusta? Non si poteva salvare al-
meno la banca svizzera che ha chiuso il bilancio 2022 in attivo? Non si sono così creati altri problemi, con una soluzione che potrebbe avere grandi conseguenze sul mercato elvetico?
Tutte domande che sorgono a vari livelli e alle quali si potrà forse dare una risposta fra un anno o, come qualcuno valuta, solo fra tre o quattro anni. Per il momento il presidente della direzione della Banca Nazionale ha escluso che l’intervento sia dovuto a pressioni dall’estero. Direttamente no, ma indirettamente sì. Oltre a quanto appena detto sopra, si sa che Governo e Banca Nazionale sono stati in contatto con la Federal Reserve (la banca centrale degli Stati Uniti) e con la Banca Centrale Europea per evidenti motivi, soprattutto economici. Dei riflessi politici si parlerà, probabilmente troppo e con poco senso, nella sessione parlamentare che l’Ufficio del Consiglio nazionale ha, infine, deciso di convocare, con l’aggiunta di una Commissione parlamentare d’in-
chiesta. Tra tutti i commenti seguiti all’intervento, un titolo della «Neue Zürcher Zeitung» sembra riassumere bene la situazione creatasi: «È morto uno zombie, è nato un mostro». Il «mostro» è l’UBS che, ovviamente, farà pagare questo suo improvviso ruolo di banca «quasi statale».
Non solo, ma per la prima volta la Banca Nazionale Svizzera si è esposta senza chiedere – almeno temporaneamente – solide garanzie. In altri termini, la BNS ha ridotto la sua indipendenza dal potere politico e ha aiutato il Consiglio federale a risolvere una situazione dalle molte implicazioni politiche e finanziarie. In ogni caso si avrà a breve termine una situazione parecchio strana per la Svizzera. Una sola grande banca, per la quale lo Stato dovrà garantire il «to big to fail», ma che potrebbe operare in una situazione di quasi-monopolio. E questo, in un Paese finora rimproverato di avere troppe banche, è perlomeno curioso.
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Riflessione sulla distanza
Buona la prima di Raffaele
Donnarumma in libreria con il suo romanzo La vita nascosta
Pagina 37
Roads not Taken
Al Deutsches Historisches Museum una mostra riflette sulla Storia e le nostre responsabilità
Pagina 38
Musica e cioccolato insieme
Il maestro Ernst Knamm ci racconta il suo progetto con l’Orchestra Sinfonica di Milano
Pagina 39
Eliza Hittman
Per la serie sulle registe presentiamo il cinema dell’autrice americana legata a Locarno
Pagina 41
L’uomo e l’artista che tutto dava e tutto pretendeva
Anniversari ◆ A cinquant’anni dalla morte una serie di mostre e di appuntamenti internazionali celebrano Pablo Picasso
L’8 aprile del 1973 Pablo Picasso moriva a Mougins, all’età di 91 anni, stroncato da un edema polmonare acuto. Si spegneva colui che aveva rivoluzionato l’arte del Novecento e che aveva dipinto l’opera di denuncia più famosa della storia.
Carismatico, impegnato politicamente, generoso, ironico, ma anche testardo, dispotico ed egocentrico, Picasso è stata una figura tanto determinante quanto contraddittoria. Spigoloso il più delle volte, riusciva però a risultare amabile e di una simpatia dirompente tante altre, come quando, con un sorriso beffardo incapace di nascondere la piena consapevolezza del proprio talento e del proprio successo, chiedeva agli altri se sapessero come mai a casa sua non erano appesi suoi dipinti, rispondendo poi che il motivo era che non poteva permetterseli.
Nel bene e nel male l’artista spagnolo era estremo sia nell’arte sia nell’amore. E per lui l’arte e l’amore erano irrimediabilmente mescolati
La sua lunga e intensa vita, durante la quale ha condiviso gli orrori e le speranze di un secolo complicato senza mai nascondere le proprie idee estetiche e politiche, è una fonte inesauribile di aneddoti. Forse non tutti sanno, ad esempio, che nell’agosto del 1911, quando la Gioconda di Leonardo scomparve improvvisamente dal Louvre, l’artista andaluso e il suo amico scrittore Apollinaire furono arrestati perché sospettati del furto del quadro. Molto più conosciuto, invece, è l’episodio che narra di quando, nella Parigi occupata dai nazisti, un ufficiale della Gestapo entrò nell’atelier del pittore, vide una cartolina raffigurante Guernica e, domandando a Picasso se avesse fatto lui quell’orrore, ricevette per risposta un «No, questa è opera vostra».
Artista tra i più prolifici al mondo (si parla di oltre centoventimila lavori tra dipinti, disegni, schizzi e ceramiche), Picasso è sempre stato all’altezza di sé stesso, riuscendo a mantenere un elevatissimo standard qualitativo. Imprevedibile nell’animo quanto nell’arte, non si è mai accontentato di approdare a uno stile specifico, mostrando di essere costantemente alla ricerca di nuove sfide.
La sua produzione sterminata è anche una delle più varie del Novecento: se tutti i suoi dipinti presentano grande equilibrio compositivo, solide volumetrie e potenza espressiva, quanto sono però diversi tra loro i lavori del periodo blu e del periodo rosa da quelli della stagione cubista o da quel-
li della fase classicista? Tele ora malinconiche popolate da suonatori di strada e da acrobati, ora costruite attorno a quell’intuizione senza precedenti che frammenta le forme per produrre una moltitudine di punti di vista, ora evocative della pittura dei grandi maestri del Rinascimento.
A cinquant’anni dalla sua scomparsa, Picasso è al centro di un’iniziativa congiunta sostenuta ufficialmente dai governi della Spagna e della Francia, le due nazioni che da sempre si contendono la sua eredità, la prima in qualità di Paese natale del pittore, la seconda come meta prediletta dei suoi viaggi nonché luogo di soggiorno durante lunghe parentesi della sua vita. L’omaggio è di quelli davvero grandiosi: un programma espositivo internazionale che coinvolge una cinquantina di istituzioni tra Europa e Stati Uniti.
Tra le numerose mostre progettate per l’importante anniversario citiamo in questa sede la rassegna dal titolo Picasso. L’artista e la modella – Gli ultimi lavori, ospitata alla Fondazione Beyeler di Basilea fino all’1 maggio, e quella che il Museo Picasso di Malaga, città natale del maestro, dedica alla produzione scultorea, con particolare attenzione alla rappresentazione del corpo umano (9 maggio – 10 settembre). Oltreoceano segnaliamo la promettente esposizione sui primi anni parigini dell’artista organizzata al Guggenheim di New York (12 maggio – 7 agosto) e costruita attorno al celeberrimo dipinto Moulin de la Galette. Nella capitale francese, invece, che tanto fu d’ispirazione al pittore, ricordiamo la mostra autunnale del Centre Pompidou, la più grande retrospettiva sull’opera grafica picassiana.
Gli eventi espositivi delle celebrazioni trattano la figura di Picasso-artista a trecentosessanta gradi, raccontando le diverse tappe della sua densa carriera, la sua influenza sui colleghi, la sua padronanza dei diversi mezzi espressivi restituendo il ritratto di un individuo dalla creatività smisurata.
A essere approfondita, però, è anche la figura di Picasso-uomo. E questo ha creato qualche problema alla fulgida immagine che di lui avevamo sinora. Certo il suo carattere rude è sempre stato di dominio pubblico. Ma se fino a poco tempo fa gli eccessi del maestro erano visti come una sorta di inevitabile conseguenza del suo straordinario talento, oggi che quei comportamenti vengono vagliati da occhi più critici, la sua aura pare incrinarsi non poco. A partire dal complicato rapporto con le tante donne della sua esistenza.
A pungolare una rivisitazione più consapevole di Picasso è stata l’artista statunitense Michelle Hartney, che nel 2018, in una delle sue azioni
di guerrilla art, ha attaccato una didascalia accanto all’opera The Dreamer, esposta al Metropolitan di New York, in cui criticava aspramente il pittore, portando a fondamento del suo gesto non solo la relazione che Picasso, già quarantenne, ebbe con una ragazzina di soli diciassette anni, ma anche la frase che spesso gli si sentiva ripetere: «Ogni volta che lascio una donna, dovrei bruciarla. Distruggendo la donna, distruggo il passato che rappresenta». Proprio queste tematiche saranno al centro di una mostra in programma dal 2 giugno al 24 settembre al Brooklyn Museum di New York intitolata Picasso e il femminismo, allo scopo di affrontare alcune questioni che il pubblico più giovane e diversificato sta sollevando con urgenza.
Nel bene e nel male Picasso tutto dava e tutto pretendeva, sia nell’arte sia nell’amore. E per lui l’arte e l’amore erano irrimediabilmente mescolati: l’ineguagliabile creatività del pittore simbolo del Novecento è andata sempre di pari passo con il viaggio
tormentato nell’universo femminile. Le donne per Picasso erano una vera e propria fissazione. Le sposava e le tradiva, le manipolava e le lasciava, le adorava e le disprezzava, stregandole e travolgendole con la sua personalità soverchiante.
Pare che non ci sia stato essere femminile che sia uscito indenne da una relazione con l’artista: la modella Fernande Olivier venne abbandonata all’improvviso; la nuova amante Marcelle Humbert ebbe con lui una storia breve e disperata; la ballerina russa Olga Khokhlova fu tradita, poco dopo il matrimonio, con Marie-Thérèse Walter, una minorenne incontrata da Picasso mentre passeggiava per i boulevard parigini: l’una morì pazza, l’altra si suicidò impiccandosi; la colta
Dora Maar ebbe con l’artista un rapporto burrascoso durante il quale lui la costrinse ad abbandonare la fotografia e dal quale lei riuscì a liberarsi sottoponendosi a cure psicoanalitiche ed elettroshock; Françoise Gilot (nella foto con lo sguardo attento rivol-
to a Picasso, 1952), avvenente ventiduenne che frequentò Picasso quando lui di anni ne aveva sessantatré, dopo avergli detto che lo avrebbe lasciato a causa dei suoi continui tradimenti, per tutta risposta ricevette una sigaretta spenta sulla guancia; Jacqueline Roque, giovane divorziata incontrata in Costa Azzurra, andò a vivere con il pittore nello splendido Castello di Vallarius per poi suicidarsi anni dopo con un colpo di pistola.
L’unica donna con cui l’artista ebbe sempre un comportamento ineccepibile fu la madre. Il legame di Picasso con lei fu al limite dell’ossessione tanto che fin da giovanissimo il pittore decise di firmare le sue opere con il cognome materno.
Come per molti altri grandi personaggi ci troviamo di fronte all’eterno, forse insolubile, quesito se si possa e si debba separare l’artista dalla sua arte. Quel che è certo è che mezzo secolo dopo la sua morte il grande genio spagnolo incomincia a fare i conti con i propri lati oscuri.
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CULTURA
Keystone
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Un esordio letterario tra distanze e vite nascoste
Romanzo ◆ Con uno stile e una profondità lontani dalle logiche mainstream Raffaele Donnarumma ci regala una prima notevole
Roberto Falconi
L’esordio narrativo di Raffaele Donnarumma, sin qui noto soprattutto come uno dei più attrezzati studiosi di cose contemporanee, andrà senza indugio iscritto a quella che Gianluigi Simonetti ha definito «la letteratura di una volta». Il suo è infatti un romanzo sideralmente lontano da quanto oggi si scrive per la maggiore: lo è per la lingua e per lo stile; lo è per la caratterizzazione dei personaggi; lo è per la profondità e la finezza con cui sono trattati alcuni topoi o alcune situazioni di lunga tradizione; lo è per la relazione dialettica tra narrazione e riflessione saggistica, in un inesauribile movimento tra l’esperienza individuale dell’ io, narrata al passato, e la legge universale del noi, espressa al presente. Insomma: per misurare lo scarto rispetto a ciò che scala le classifiche delle vendite, basterà il confronto con un romanzo di uscita quasi contemporanea, della stessa lunghezza e con un titolo analogo, come La vita intima di Niccolò Ammaniti; e sarebbero semmai meritevoli di qualche riflessione le diverse collocazioni editoriali dei due libri.
Il libro può essere letto come un’ampia e variamente declinata riflessione sul concetto di distanza
La trama è presto raccontata. Arrivato alla soglia della mezza età, R., professore di letteratura all’università e narratore della storia, deve fare i conti con il fallimento di una lunga relazione. Lasciato dal suo compagno S. per un gioco di tradimenti reciproci, R. cerca di riappropriarsi di una vita che lo spaventa. Si fa prendere dalla ossessione prima per la cura del corpo, poi per i siti di incontri. Proprio in Rete conosce L., un ragazzo di cui si innamora e con il quale vivrà una lacerante storia.
Il libro può essere letto come un’ampia e variamente declinata riflessione sul concetto di distanza. Anzitutto quella che separa R. dagli altri personaggi, e in particolare dai tre uomini con cui ha delle relazioni affettive. Svuotata di passione appare ormai, dopo quindici anni, la relazione con il perennemente insoddisfatto S.; stancante l’avventura con l’eccessivamente entusiasta G.; lacerante la storia con lo scostante e depresso L. Distante è anche Anna, l’amica dei tempi dell’università trasferitasi a Berlino con cui R. si confronta alla ricerca di consigli: lo è fisicamente (i due si sentono solo via Skype), e lo è emotivamente (Anna assume il ruolo di una madre castratrice che finge di preoccuparsi dell’amico per non affrontare i propri fantasmi). E andrà inoltre almeno marginalmente notato come il romanzo renda incolmabile anche la distanza rispetto ai padri (al plurale), non foss’altro che per il fatto che «un omosessuale è anzitutto un uomo che ha deciso di non essere padre». Distanti, infine, appaiono i colleghi di università di R. (quello di Donnarumma è anche un romanzo sull’accademia).
Anche l’interiorità del protagonista appare lacerata da una serie di conflitti, e il dolore si dà proprio nel campo di tensione tra elementi difficilmente conciliabili. C’è una vita nascosta che si consuma nella profondità di R. e le opposizioni che emergono mi paiono essenzialmente tre. La prima è quella tra pulsione alla trasgressione e funzione normalizzante del Super-io, tanto più problematica per un personaggio che dice di doversi sempre assumere le proprie responsabilità di fronte agli altri, e che tende a reprimere il desiderio riportandolo «dal buio della vita psichica al giorno della responsabilità morale». Desiderio che al protagonista appare a tal punto indispensabile da portare all’autoinganno, alla faticosa forzatu-
Le nuove povertà
ra della realtà affinché questa coincida con l’idea; con conseguente delusione nel momento della presa di coscienza della loro più o meno ampia discrepanza, come accade quando egli scopre che l’L. reale non coincide con quello a lungo vagheggiato. Un dolore che non potrà tuttavia mai eguagliare quello determinato dalla scoperta di non essere amati, poiché «per quanto duro e ostinato possa essere il nocciolo dei nostri desideri, niente riesce a frantumarlo quanto il bisogno di essere desiderati» (desiderio e derivati occorrono peraltro cinquantanove volte nel testo).
Il secondo conflitto è quello tra re-
altà e virtualità, sviluppato in pagine indagabili anche alla luce dell’esergo pascaliano (Bisogna amare solo Dio e odiare solo sé stessi). Da una parte, Internet è lo spazio privilegiato per la costruzione del desiderio e della dipendenza dal desiderio, il luogo «che apre davvero ai paradisi» (non so se i paradisi di Raffaele Donnarumma siano sitianamente Troppi, ma l’uso del plurale pare significativo). D’altra parte, Internet permette di smorzare proprio le pulsioni più inconfessabili.
I comportamenti nell’immaterialità della Rete possono inoltre rimodellare profondamente la realtà, sottraendole spazi e attenzioni.
Il terzo motivo di dissidio è quello tra realtà e tentativo di definirla (in particolare attraverso l’ipertrofico ricorso al paragone e alle strutture elencative), il cui scacco è peraltro esplicitamente ammesso dal protagonista quando dice che ogni narrazione, essendo falsa, «è incapace di rendere gli sbalzi aritmici e i vuoti di cui siamo fatti».
Un’altra distanza è quella, incalcolabile, che separa il tempo dell’esperienza del personaggio R. dal tempo del resoconto che ne fa il narratore R., e che apre alla cruciale riflessione sul ruolo della memoria, le cui possibilità sono quasi sistematicamente rimesse in discussione dalla presenza di un tratto dissonante, per cui, sulla scorta del libro di Giobbe, «non sono gli anni a dare la sapienza, né sempre con l’età si distingue ciò che è giusto».
La vita nascosta è un romanzo che non teme di essere letterario, anche attraverso la presenza dei nomi e delle opere che compongono la vasta musico-biblioteca di R., ma senza che ciò determini l’esibizione snobistica del professore (personaggio e autore) che guarda dall’alto al basso i propri interlocutori (personaggi e lettori). Andranno semmai indagate le relazioni tra quei nomi (Svevo, Roth, Houellebecq, Pasolini, Siti; Wagner, Händel,…) e il modo di agire e di pensare del protagonista R.; così come sarà premura di chi si dedicherà compiutamente al romanzo identificare i modelli musicali e letterari che determinano le strutture profonde del testo e non solo quelli che ne increspano la superficie.
Bibliografia
Raffaele Donnarumma, La vita nascosta, ll ramo e la foglia, Roma, 2022.
Informazioni
L’autore presenterà il suo libro mercoledì 19 aprile alle 18 al Liceo cantonale di Bellinzona.
Feuilleton ◆ Il romanzo a puntate di Lidia Ravera per «Azione». Sul nostro sito www.azione.ch sono disponibili quelle precedenti
Lidia Ravera
Il piacere viene a noia prima di qualsiasi altra esperienza umana. E allora devi alzare la posta, si tratti di cocaina di sesso di cibo o di qualsiasi altra passione terrena o religiosa, compresa l’estasi mistica, se non sei in grado di sostituire, ad un certo punto, il piacere vecchio con un piacere nuovo, ti tocca aumentare la dose del piacere vecchio.
Rischioso: se assunta in quantità eccessiva, ogni gioia è una droga, di questo era certo.
E questa era la ragione per cui era sparito con la piccola Betta.
L’aver percepito l’imprevedibile senso di vuoto che quella parziale disintossicazione gli era costata, era la ragione per cui stava viaggiando in direzione dell’eremo dove si era ritirata Fanny.
La strada saliva ripida e piccoli cumuli grigi di neve ghiacciata orlavano l’asfalto lucido di umidità.
La luce era crollata di colpo, oscurando il fianco della montagna, mentre la cima affondava in un cappuccio di nebbia.
Won Arnim rabbrividì.
«Ci vorrebbe qualcosa di forte, il crepuscolo fra i monti è lucubre».
«Apri bracciolo, signor Paolo. La trovi qualcosa di forte».
Won Arnim aprì il cassetto contenuto nel bracciolo che divideva in due il sedile posteriore: c’erano dodici bottigliette bonsai, ordinate e intonse.
Ne prese una, senza scegliere, e bevve due profonde sorsate.
Vide che Thomas lo stava osservando dallo specchietto retrovisore e alzò il liquore in direzione della sua nuca, come per dedicargli un brindisi.
«Vuoi essere così gentile da avvisare Fanny che stiamo arrivando? Vorrà sicuramente cambiare palandrana e truccare al meglio quegli occhi da strega per il mio arrivo. Non le va di essere colta di sorpresa».
Thomas obbedì e il telefono squillò a vuoto.
Won Arnim sospirò, come un padre abituato alle intemperanze di una figlia adolescente.
Poi disse.
«D’accordo, non importa, non oserà buttarmi fuori. Sa che soffro il freddo».
Thomas sorrise. «Ne vuoi un sorso?», chiese Von Arnim, finendo la bottiglietta. «C’è
un intero bar, qua dentro. Bourbon vodka grappa Southern confort gin… Tu lo sai chi l’ha fornito questo campionario di veleni? Non io… a meno che non abbia incominciato a dimenticare i miei crimini…»
«Signora Fanny», disse Thomas.
«L’ha fatto quando l’hai riaccompagnata al suo eremo, l’ultima volta che è scesa a valle, quando è stato… sei mesi fa, sette?»
«No sei mesi, due anni. Signora Fanny mi ha dato soldi e lista. Poi ha detto: metti le bottiglie in macchina soltanto quando signor Paolo viene a trovarmi in montagna. Soltanto quando viene da me».
«E tu hai obbedito?»
«Chiesto giuramento».
«E per due anni questo minibar è rimasto in garage. Quella donna è micidiale».
Thomas annuì, incerto sul significato dell’aggettivo e accelerò leggermente.
La strada si stava coprendo d’un invisibile foglia di ghiaccio, saliva più ripida, con curve profonde e strette, incastrata com’era fra i fianchi di due
montagne ugualmente minacciose. Attraversarono il Paese di Comelico e la frazione di Padola.
Poi si lasciarono alle spalle gli ultimi tetti sfarinati di neve e continuarono fino alla fine della strada e poi del viottolo in cui si era trasformata, le tracce degli pneumatici incise nel fango.
Il bianco si era insediato, compatto e severo, su quello che d’estate era un prato verdissimo e freddo. La baita era ingabbiata in un cono d’ombra, ai piedi di una parete scura di pini che le razionava la luce del sole, conservando il ghiaccio fino a primavera inoltrata. Ghiaccio, candore, buio. Un inverno quasi perenne. E le orme degli animali a illustrare il tipo di solitudine che Fanny aveva scelto.
Volpi lupi stambecchi.
La Mercedes si fermò che La Baita era già visibile, ma ancora lontana.
Con un sospiro Won Arnim si lasciò infilare da Thomas un paio di stivali da astronauta che trovava detestabili, un giaccone impermeabile e un passamontagna (mai nome fu più azzeccato). Accettò di buon grado due racchette a cui appoggiarsi e, Thomas
al seguito, si mosse in direzione del filo di fumo azzurro che disegnava curve lente fra il comignolo e il cielo stellato.
Il campanello riproduceva un fracasso di mucche al pascolo.
La porta non si aprì subito e Won Arnim sentì il freddo salire verso la bocca dello stomaco.
Fanny sapeva bene che lui sarebbe arrivato, e lo stava aspettando, ma non sapeva rinunciare a imporgli quel balzello, una piccola attesa, sempre, anche quando si sentivano al telefono. Dunque era da due anni che non si vedevano, anche se era convinto che fossero sei mesi.
Il tempo aveva preso un passo talmente veloce….
Lei non lasciava mai La Baita e lui lasciava malvolentieri la città, ma lui era più adattabile, malleabile, morbido. Lei viveva accoccolata nel rigore delle sue scelte estreme. Won Arnim suonò ancora e sentì, alla fine dello scampanare, la voce roca alzarsi appena di tono per rassicurarlo.
«Sto arrivando sto arrivando vuoi buttare giù la porta?»
(35 – Continua)
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Dettaglio di copertina.
«La storia europea dipende da noi»
Incontro ◆ Intervista allo studioso Dan Diner, docente di storia moderna a Gerusalemme e a Lipsia, e curatore di una mostra in corso al Deutsches Historisches Museum di Berlino
Stefano Vastano
«Dal punto di vista antropologico siamo molto conservatori. Il passato non ci interessa, ma siamo maledettamente legati al presente perché il futuro invece ci spaventa».
Con questo quadro del rapporto umano con la Storia inizia il nostro dialogo con Dan Diner, storico raffinato per anni docente di storia moderna all’università di Gerusalemme e di Lipsia. E il quadro che Diner ci da delle idee più diffuse sulla Storia non è dei più entusiasmanti. «Ma è un profondo bisogno umano immaginare i momenti della storia come dei fatti in fila, con una linearità teleologica, che seguono cioè una meta precisa». Purtroppo, o per fortuna, la Storia non si cura dei nostri pii desideri e si muove in modo a volte bizzarro, spezzato o persino casuale. «Cerchiamo di proteggerci con mille assicurazioni sul futuro, insiste Diner, ma al centro della storia c’è tanta contingenza, e più che di “fatti” è fatta di eventi probabili che sarebbero anche potuti andare diversamente».
Per questo la mostra che Dan Diner ha curato per il Deutsches Historisches Museum di Berlino, e che sarà aperta sino al novembre 2024, si intitola Roads not Taken. Sottotitolo della mostra a dir poco originale: Ossia, come tutto sarebbe potuto svolgersi anche altrimenti. Basta entrare nella prima stazione della mostra, dedicata ai famosi
eventi dell’autunno 1989, ossia all’improvviso crollo del Muro di Berlino, per accorgersene. Da un lato infatti Diner ha predisposto documenti e foto – i pacifici cortei di protesta a Lipsia o Berlino; una fascia di un manifestante con la scritta Keine Gewalt, nessuna violenza. Ma nella parte opposta della prima stazione ecco le immagini orribili di Tienanmen, i panzer schierati dal regime di Pechino per schiacciare la rivolta degli studenti. «I Bonzi della ex DDR, spiega Diner, avevano già distribuito le munizioni all’esercito per reprimere i cortei di protesta».
È mancato poco insomma perché anche quella «svolta» tedesca nel meraviglioso 1989 si tramutasse in tragedia.
«Con la mostra, continua Diner, voglio spiazzare il senso della storia del visitatore, e mostrare che la storia non si muove in linea retta e secondo finalità prefissate». Dagli eventi dell’89 infatti scendiamo alle proteste del Sessantotto e dell’era Brandt; e poi in quattordici tappe all’indietro giù sino ai moti rivoluzionari (falliti) del 1848. Ogni «passaggio» della mostra è articolato in due momenti: il primo, con foto e documenti che ricordano l’accaduto, di fronte quel che per l’appunto sarebbe ancora potuto accadere se…
I due punti più intensi della storia tedesca del Ventesimo secolo sono concentrati da Diner – di cui Bompia-
ni ha di recente pubblicato Tutta un’altra storia, la Seconda guerra mondiale vista dalla Palestina ebraica – al centro dell’esposizione. E sono l’8 maggio 1945, con la firma della capitolazione incondizionata dei tedeschi il 20 luglio 1944, data dell’attentato ad Hitler organizzato, ma purtroppo fallito, dal colonello von Stauffenberg. «Nei piani degli americani, ricorda Diner, era già previsto di sganciare la prima bomba atomica sulla zona industriale di Ludwigshafen, al centro della Germania. Per questo sino ad oggi i tedeschi temono tanto il nucleare». Per loro e nostra fortuna, anche grazie al passaggio degli Alleati sul ponte di Remagen, nel maggio del 1945 si è giunti alla capitolazione, e non all’inferno nucleare in Germania. «Nella mostra non si vedono, spiega Diner, molte immagini dell’Olocausto».
Su una grande parete però leggiamo, a lettere cubitali: Zu Spät Too Late. Anche se l’attentato di Stauffenberg contro Hitler fosse in effetti riuscito, nell’estate del 1944 era davvero «troppo tardi» per fermare la tragedia già perpetrata della Shoah. Ma è un altro evento della mostra di sicuro il più nero e sciagurato dei 150 anni di storia tedesca, ed evidenzia tutta l’imprevedibilità della storia: quello del 30 gennaio, funesto giorno in cui Hitler sale al potere a Berlino. «Sino a tutto il
Di chi sono le spine della rosa?
1929, ricorda Diner, Hitler era solo una curiosa attrazione bavarese, di cui nessuno in Germania si interessava». Poi però, come rivediamo nella mostra, si è arrivati nell’ottobre del 29 al crac della Borsa di New York. Riguardiamo così le foto dell’esercito di sei milioni di disoccupati che riempiono le strade della Germania. Le valuta tedesca e i risparmi del ceto medio bruciati di colpo. E il partitello d’estrema destra ed antisemita di Hitler che inizia a decollare alle elezioni. «Ma sino al dicembre del 1932, puntualizza Diner, il partito nazista era dilaniato da crisi interne e finanziarie, ed Hitler minacciò di suicidarsi con un colpo di pistola». La storia, come sappiamo, è purtroppo andata diversamente. Nella mostra leggiamo quel che Göbbels annotò la sera in cui Hitler salì al potere: «ein Wunder», un miracolo. Cosa sarebbe accaduto, ad esempio, se il generale von Hammerstein, al comando dell’esercito, avesse schierato in quei giorni la sua guarnigione di Potsdam contro le «camicie brune» dei nazisti salite di colpo al potere? Ma al di là di questa opzione mancata è sicuro che nel dopoguerra, a partire dall’era Adenauer, i tedeschi e la Germania – almeno quella dell’Ovest – si sono trasformati in tutta un’altra nazione e in un popolo democratico. Un altro incredibile «miracolo» politico, insieme a quello eco-
nomico, avvenuto nel Paese più grande al centro d’Europa. «La disfatta del nazismo e i decenni della Guerra fredda, riassume Diner, hanno forgiato la Repubblica federale trasformandola in un laboratorio di democrazia parlamentare, ed hanno educato i tedeschi al pragmatismo americano». Roads not Taken ci ricorda dunque che la storia non è solo un incubo o un’accumulazione di catastrofi, come se l’immaginava Walter Benjamin nel suo Angelus Novus. Ma una scena teatrale in cui gli uomini, volendo, possono intervenire a mutarne le trame, i protagonisti e l’intera coreografia. «Al centro della contingenza della storia, ricorda Diner, c’è la nostra libertà, e la responsabilità a cui la storia ci chiama per decidere del nostro futuro». Ed è questo il vero, profondo insegnamento della mostra berlinese anche in riferimento all’immane catastrofe che si sta verificando sotto i nostri occhi in Ucraina. «Siamo noi, conclude Diner, a decidere se nel Ventunesimo secolo la storia europea riprecipiti nel più gretto razzismo e nazionalismo, o no».
Dove e quando Roads not Taken, Deutsches Historisches Museum, Berlino. Fino al 24 novembre 2024, aperto tutti i giorni dalle 10.00 alle 20.00. www.dhm.de
Poesia ◆ Una raccolta lirica che solleva interrogazioni e ci parla di colori e dove le pagine somigliano a frame in movimento
Nel libro nero della storia, lo sappiamo, veniamo sfogliando da sempre le sue agghiaccianti crudeltà e queste dell’oggi non sono altro che quelle di prima e alcuna nemesi risolutoria sembra materializzarsi per lo scempio che naviga nei secoli dei secoli. E proprio in questo tempo arriva, chissà quanto per caso, il libro di Daniele Piccini Per la cruna a dir di no a tutto questo con i suoi metafisici accenti; come un leggero ramo d’ulivo sospinto da un alito, sembra ammantare le ricorrenti pagine nefaste, iscritte con caratteri sempre più involuti e parlarci invece di significati altri e sottesi al tempo secolare: «… / Ti prego, lasciami tornare dove / si sospese il meriggio / e la sua adolescenza e quella mia / intrecciavano fili / di un disegno terreno, / una biacca castissima. / Quell’ostia luminosa nel silenzio / fa’ che non sia perduta e che riprenda, / ch’io riprenda da lì, / il filo della vita /».
E certo dalla cruna, termine di origine simbolica plurimillenaria, può passare l’uomo ma prima e chissà per quanto ancora, eccolo di qua, navigare nel quadro d’ombra, in quei colori andanti in tenebra; una tela diremmo che occupa, non solo lo spazio innanzi ai suoi occhi ma anche quello che è a lui dietro e di sotto. Ognuno vi galleggia ma taluni per grazia, sono più vicini a quel piccolo pertugio an-
zidetto, rispetto ad altri così lontani invece. Allora, avverso al libro nero, atono, afono dell’oggi, Piccini oppone il libro della fonè, della voce, che ricercando gli altri, incontra se stessa ed ancor di più della koinè, intesa come comunità di donne e uomini, che si sente tale perché fragile, ontologicamente mancante: «Presto di me non resteranno altro / che ipotesi insicure: / termometri non sapranno più dire / la febbre, né le analisi / misurare, saremo / al riparo dai rovi delle more / così importuni e dolci a fine agosto. /…». Somigliano talvolta le pagine, a frame in movimento; tutto, dalla natura all’uomo che ne è parte, sembra partecipe di questo continuo, cieco accadere, ma sottotraccia ad esso ecco camminare, se si legge bene, un’attesa e nel libro vi sono molti messaggeri di questo tempo nuovo. Angeli dai lineamenti duri ma come comprensivi, quanto quelli rilkiani, sembrano oltrepassare la cruna all’inverso, aleggiando nelle nere e grevi nuvole di qua, non sempre rassicuranti. Hanno visi pieni d’interrogazione, che caricano ancor più d’apprensione gli interlocutori su una salvezza tutt’altro che vicina: «… / Ebbi la folle assenza di speranza / della Furia che agita le braccia, / … / Vienimi a prendere –gli dissi – / il petto si sconforta fino a farsi / essenza che desidera esser niente. / Anche l’angelo piano lacrimava /
senza parlare, fisso con lo sguardo / nel punto inconoscibile del cosmo /». Certo, potremmo chiamare questo libro, il libro delle interrogazioni: sulla natura, col suo parlare per enigmi e crudeltà, sull’essere stato rispetto al non essere mai stato, sulla luce che verrà, visibile secondo il puro e sconvolgente messaggio evangelico, più a colui che ha penuria che a quello che ha. E poi l’immensa riflessione sui morti, quasi distesi luzianamente, sull’orizzonte celeste. Ed allora anche in questo tetro teatro umano, ci suggerisce Piccini, sprazzi di quella luce a venire, possono essere captati, se davvero si è attenti ad ascoltare il mondo. Eccoli inverarsi in alcune memorabili forme, come quelle della fanciullezza, che è purezza o dell’a-
more vero e fortunato, che sente oltre ogni possibile egoismo ed egotismo o anche della discendenza, che è retaggio dalle forme da cui si viene ma al tempo anche estrema possibilità di non più appartenervi, per tentare la libertà di uno spazio altro. Tutto si disegna nei versi come in un geroglifico lontano: la volta celeste e il movimento di sotto dei volatili, che è passaggio di un tempo celeste più che terreno, bruciano negli occhi del lettore rendendolo così sgomento ma anche testimone di una epifania, che come dice il poeta, attende ancora il suo compimento. Ma questo è anche e soprattutto il libro dei colori: ecco i toni della speranza inverarsi nel lapislazzulo, nel blu, nel celeste e turchese, quasi nello
zaffiro dantesco e poi giù a far da contraltare, il buio dell’ampio sottosuolo, che sa di smorto grigio, sino al nero oltre tenebra. Ecco forse condensarsi in questa raccolta, la prova più acuta di Daniele Piccini, poiché in essa sembra traboccare un amore remoto e primitivo, non filtrato, non edulcorato dalle culture sempre in movimento di ogni tempo; granitico, aspetta e guarda e sembra più avvicinarsi nelle pagine, così spoglio ma anche fragile, alle cose umili e povere del creato, vicine prima delle altre, a quell’orizzonte destinale che è lì ad attenderci: «/ Nella stanza in penombra si quietava / il respiro a fatica dell’anziana, / che riposava in mezzo a campi gialli / di un’estate sbiadita. / … / Di chi sono le spine della rosa, / fiorita anni lontano, evi fuori / da lì, da quella casa / che si fa ancor più piccola a pensarla? / un’arca con gatti e le creature, / alla deriva, nel tempo che viene… /». Sì, questo del poeta è un lungo vento amoroso che spira incessante e testardo anche sulla tenebra, sulla speranza talvolta rattrappita di ognuno, quasi voglia appunto di questi tanti amori così profondamente toccati ed esperiti nelle pagine, dedurne uno e darne testimonianza e sospirare infine.
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 3 aprile 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino CULTURA 38
Guido Monti
Bibliografia Daniele Piccini, Per la cruna Crocetti editore, Milano, 2022.
Pixabay
© Deutsches Historisches Museum –David von Becker
Variazione di note dolci
Musica ◆ Ernst Knam e l’iniziativa milanese che unisce spartiti e cioccolato Enrico
Dante mise in terzine le «dolenti note», con Ernst Knam le sette note non sono mai state così dolci. E per gustare le sue nuove creazioni ispirate alla settima sinfonia di Beethoven non si rischia la condanna al girone dei golosi, semmai un viaggio in una sala da concerto. Tedesco, ma ormai italiano d’adozione (il suo laboratorio è a Milano), tra i più popolari «maestri del cioccolato» grazie anche alla fortunata trasmissione Bake Off, è stato coinvolto dall’Orchestra Sinfonica di Milano in una serie di concerti in cui vengono eseguiti alcuni grandi capolavori della letteratura classica e lui presenta e fa gustare al pubblico alcuni suoi cioccolatini che ha appositamente creato lasciandosi ispirare dalle note.
Herr Knam, oltre che maestro cioccolataio è anche musicista?
Zero assoluto. Quando ero un bambinetto avevo iniziato con la chitarra, ma non sono andato avanti e ormai ho dimenticato tutto.
Eppure ogni anno è invitato al Festival di Sanremo.
Però non so nemmeno cantare: mi facessero intonare qualsiasi canzone, credo che la platea dell’Ariston si svuoterebbe entro la terza nota. In casa cantano i miei due figli, di dieci e dodici anni; ogni mattina, il viaggio in auto a scuola ha come colonna sonora sempre le stesse tre canzoni, tra cui quella vincitrice di Mengoni; ma cantano loro, a squarciagola, io ascolto in silenzio.
Ma le piace la musica?
Tantissimo! Sono onnivoro, ascolto qualsiasi genere, dalla classica al metal. Mi hanno educato così fin da bambino e non mi sono mai fossilizzato su un singolo settore.
Preferenze?
Nel mio laboratorio, mentre lavoro, amo ascoltare soprattutto rock, punk e metal: mi pompano, mi danno quell’energia giusta per elaborare, inventare, lavorare le materie.
Stupisce pensare che una raffinatissima pralina sia concepita sui ritmi tambureggianti di una canzone punk o sugli acuti graffianti di un cantante metal.
Invece il genere che sto ascoltando è indipendente dalla tipologia di cioccolato a cui sto dedicandomi; la musica mi dà energia, la concezione è a sé stante; per questo la proposta dell’Orchestra Sinfonica mi è piaciuta così tanto: qui invece deve esserci una correlazione precisa tra idea musicale e idea del cioccolato. Avevo già creato un cioccolatino per Emis Killa, ma Beethoven…
Ci può essere invece una correlazione inversa? Il cioccolato può avere una sua identità musicale?
Questo sì. Ad esempio, per essere rock un cioccolato deve essere almeno al 70%, il punk supera il 90 e il metal sfiora il 100.
La settima sinfonia di Beethoven a quale percentuale corrisponde?
A due percentuali, del 70 all’inizio e poi del 72, ricavate da due particolari varietà di cacao peruviano, il
Perù Pachiza al 70% e il Frau Knam
Signorita al 72%. Questa seconda tipologia è unica al mondo, ce l’ho so-
Rap a tinte forti
Musica/2 ◆ KimBo racconta il suo nuovo album
Natascha Fioretti
«Mi dicono che sono una Boss Bitch » canta Kim Bollag in arte KimBo in uno dei brani che preferisco contenuto nel suo nuovo Ep Twerkaholic uscito per l’etichetta Clithit (Clit sta per clitoride), disponibile su tutte le piattaforme di streaming e sugli store online. «È un gioco di parole – mi dice – in cui si fondono i concetti twerk – ballare shakerando il sedere – e workaholic. Ho l’impressione che viviamo in tempi in cui c’è un’ostentazione eccessiva del nostro corpo e una sollecitazione eccessiva della nostra mente. Ci viene chiesto di lavorare sempre di più, di consumare di più online e non solo … stiamo consumando anche il pianeta. A queste preoccupazioni accosto l’idea di divertimento, il ritmo e la musicalità dell’album mettono addosso la voglia di ballare mettendo al tempo stesso in discussione l’ipercapitalismo in cui al momento ci troviamo. Nella mia musica propongo altri valori, altri atteggiamenti che magari sono poco mainstream».
lo io: non volevano produrla perché i frutti sono troppo piccoli e quindi commercialmente non è conveniente, ma è straordinaria perché il cacao peruviano ha sempre un po’ di acidità mentre questa no; così ho stipulato un accordo col governo peruviano e sono riuscito a ottenere una produzione esclusiva di tre tonnellate di questo cacao.
Altre sorprese dolciarie per Beethoven?
Il rosmarino di Alassio, il sale Yukishio, preso nel mare del Giappone a tremila metri di profondità.
Quante spezie ha nel suo laboratorio?
Più di trecento. Solo di pepe ne ho più di ottanta varietà.
Veniamo allo specifico della sinfonia. Quali corrispondenze ha pensato?
Il primo cioccolatino, che ho chiamato Preliminare, è composto dal
Perù Pachiza al 70%, caramello croccante, che il palato non si aspetta, e il rosmarino ligure. All’inizio le orecchie dell’ascoltare sono fresche e curiose, sia di scoprire una musica se non la conoscono, sia di sentire come suonerà l’interpretazione proposta se si tratta di avventori dei concerti, così ho optato per una combinazione che sorprenda.
Dopo il luminoso, disteso primo movimento, l’atmosfera cambia, diventando lenta, assorta, intrisa di nostalgia, che evoca sentimenti profondi.
E dalle profondità del mare giapponese arriva il sale Yukishio, combinato col cioccolato fondente Signorita e il caramello, che questa volta non è croccante; Coccola è il nome
che ho scelto per questo secondo cioccolatino.
Il terzo?
Racchiude l’umore del terzo e del quarto movimento. Due tempi scoppiettanti, un crescendo dinamico di energia, guizzi e sussulti; e il Vertice racchiuderà nel cioccolato Signorita la sorpresa: le Frizzy Pazzi, le caramelline in busta che scoppiavano quando le mettevi in bocca.
Quindi il quarto e ultimo cioccolatino non corrisponde a nessuno dei quattro movimenti?
Li riassume tutti e vuol essere una sintesi dello spirito della sinfonia intera, per questo l’ho chiamato L’insieme ; sarà un cioccolatino di dieci grammi in cui troviamo tutti gli ingredienti utilizzati negli altri tre: una somma che sta armoniosamente e golosamente insieme.
Sta iniziando a parlare da vero musicista; d’altronde anche lei è un maestro, è il titolo che danno ai migliori cioccolatai.
Iniziai a lavorare 34 anni fa da Gualtiero Marchesi, che diceva: «Io sono il direttore, voi le pentole».
A Mozart hanno dedicato le famose «Palle»; per chi lei creerebbe un cioccolatino evocativo?
Renato Zero: mi piacciono la sua musica, i suoi testi, il suo stile; farei sicuramente una camicia scura di cioccolato fondente, e userei un frutto raro, il chinotto.
Se dovesse chiedere a un musicista la colonna sonora di un suo cioccolatino a chi si rivolgerebbe?
Agli ACDC: mi basta ricordare i loro concerti a Londra e ne sento ancora l’adrenalina.
Classe 1990, nata a Zurigo, cresciuta a Gordola, oggi di casa a Basilea, KimBo calca da tempo la scena svizzera del rap indipendente. Studi in Gender Studies e sociologia a Basilea, ha sempre visto nella musica uno strumento di Empowerment femminile e si è sempre impegnata per le pari opportunità. Nel 2019 insieme ad un collettivo ha scritto e cantato Mir Streiked, il brano ufficiale per lo sciopero femminista in cui si alternavano le tre lingue nazionali. Questa è sicuramente una delle cifre della rapper svizzera, cantare i testi alternando italiano e svizzero tedesco con forti contaminazioni anche dall’inglese. Proprio come in Boss Bitch di cui vogliamo sapere di più Intanto non è da intendersi come un insulto ma come «un complimento che fai alle altre donne per dire che hanno in mano la loro vita e le loro ambizioni. In questo caso l’immagine che sta dietro alla Boss Bitch è quella di una diva che
la mia identità multilingue e multiculturale». KimBo è entusiasta mentre mi racconta del suo album e delle musiche che lo abitano, «c’è il rap, il reaggaeton, l’influenza trap nel rap, quella giamaicana nel reaggaeton». Non è solo la sua musica ad elettrizzarla ma anche il lavoro che sta dietro all’album che – guardando al suo percorso – ha un significato particolare «Nel 2020 ho debuttato con il mio album Pangolin che è stato un po’ il compendio del percorso artistico che ho fatto interamente self made sempre in giro sui vari palchi. Twerkaholic invece è il risultato di un team di produttori e per me, come artista, è stata una grande crescita professionale». Scopriamo Gira, altro brano dell’album, che racconta del disagio provocato dai social (in particolare nei giovani), della nostra costante presenza online e inizia così: «Yeah / Haha / You ready? / Hai letto nel giornale di sto rullo virtuale? / Instagram e face-, tiktok, gira mica male / Dicon fan cambiare il nostro mondo neuronale / Perché come al casinò continuamo a scrollare /». Le riflessioni sulla società, sulle questioni ambientali e femministe sono una costante nella musica di KimBo che – se da un lato fa ballare – dall’altro non è mai scontata. «Come persona mi pongo le grandi domande, rifletto sulla società che mi circonda e cerco di andare in profondità. Mi sento una femminista per il fatto che voglio infondere forza e coraggio alle altre donne, dire loro che insieme possiamo creare progetti stupendi, che siamo forti».
comanda e non deve dimostrare nulla perché sa quanto vale e se vuole qualcosa se la prende. Non si fa prendere dall’ansia di prestazione o dal dubbio di essere adeguata, di essere la più veloce o la più brava». Nella parte italiana il testo recita: «Posso correre ma non devo / se vuoi fallo /ma io non devo / e me ne fotto di sta gara /». Per essere una rapper – pensando ad alcune delle voci internazionali più in voga del momento come Nicki Minaj o Cardi B – KimBo è parecchio vestita. Sulla copertina dell’album dal sapore vintage persino il viso è coperto da un paio di occhialoni e non si vede neanche l’ombelico. «Una boss bitch non ti devi svestire. Mi rifiuto di svestirmi per avere successo e mi fa piacere se posso essere d’ispirazione ma non cerco il consenso della massa o la visibilità da social a tutti i costi». Dicevamo del fatto che nei suoi testi mischia più lingue: «Rispecchia
Per molto tempo la scena rap è stata di dominio maschile, ora c’è una nuova generazione di donne alla ribalta, qualcosa è cambiato? «In particolare negli ultimi cinque anni la scena è molto cambiata e molto evoluta. In poco tempo è successo tanto, c’è stato il movimento #MeToo, la protesta Women’s March e tante altre iniziative che a livello nazionale e globale hanno unito le donne e sensibilizzato la società. Le giovani rapper, rispetto alla mia generazione, grazie alle piattaforme digitali e ai social hanno più possibilità di farsi conoscere. Ma c’è un altro aspetto importante. Quando ho iniziato le donne rapper erano più delle Einzelkämpferinnen (combattenti solitarie) ora invece hanno capito la forza della collaborazione». Tra queste ci sono sicuramente Garbi B e Nicki Minaj che ostentano il loro corpo puntando più sull’esagerato lato B che sulla musica, volutamente eccentriche vestono in multicolor e condiscono i loro testi con riferimenti sessuali ed espressioni volgari. Cosa ne pensi? «Non mi dispiace usare parole volgari, trovo sia una cosa molto viscerale nel mondo del rap. Il fatto che siano le donne a prendere in bocca la parola pussy (vagina) o espressioni come they own it ( la possiedono), con tanta naturalezza ed energia mi piace perché la parola vulva, vagina, ecc. è stata per molto tempo tabuizzata». Insomma si legge in questo una forte emanicipazione femminile, dunque davvero un passo un avanti? «Sì. Poi magari bisognerebbe evitare di eccedere come la rapper Saweetie che in Back to the Streets mette l’uomo al guinzaglio («Metto il mio nuovo uomo al guinzaglio / Ho dato in permuta il mio ex, era solo in leasing»). Ci vedo un atto violento e spregiativo all’inverso e mi chiedo: quanto serve al progresso, alla causa?».
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 3 aprile 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino CULTURA 39
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L’adolescenza nei film di Eliza Hittman
Cinema ◆ Ritratto della regista americana molto legata al Film Festival di Locarno
Nicola Mazzi
Dopo aver iniziato questo percorso dedicato alle registe più interessanti del momento con Ursula Meier (Azione nr. 45) vogliamo approfondire una seconda autrice di valore che ha con il Film Festival di Locarno un legame profondo: Eliza Hittman (nella foto).
Nata a Brooklyn nel 1979, ha iniziato con alcuni cortometraggi a cavallo tra il primo e il secondo decennio del Duemila, ed è poi passata al lungometraggio con It Felt Like Love (2013) a cui sono seguiti Beach Rats (2017) e Mai raramente a volte sempre (Never Rarely Sometimes Always –2020). Tre opere che hanno già mostrato la bravura di Hittman, tanto che prima il Sundance e poi il Festival di Berlino le hanno attribuito dei premi importanti.
Il legame con Locarno, dicevamo, si concretizza in due occasioni e cioè quando Beach Rats viene inserito nella sezione Cineasti del presente nel 2017, ma soprattutto quando viene scelta come presidente della giuria principale nel 2021. Un esempio, forse tra i più lampanti degli ultimi anni, di quanto il nostro festival sia vicino e intuisca il valore dei nuovi registi. E ora cerchiamo di approfondire il cinema di Eliza Hittman attraverso i suoi film.
L’attenzione della Hittman è focalizzata sugli adolescenti. Sono loro i protagonisti dei tre film, mentre gli adulti fanno da contorno e se non sono assenti fisicamente lo sono affettivamente. Quindi i temi sono quelli tipici dei ragazzi: il rapporto con il proprio corpo, con il sesso e la scoperta del mondo (anche la sua durezza) fuori dai confini familiari. Il tono tipico del cinema di Eliza Hittman è invece particolare e originale in quanto non segue i tipici sbalzi d’umore dei giovani. Non ci sono urla, né scenate, né slanci amorosi: non è presente il melodramma nel senso classico del termine. I suoi film han-
no un tono malinconico, dove anche il colore (il grigio e il blu) e la meteo (piove sovente) sono parte integrante della narrazione. E questo malgrado storie dure: nell’ultimo Never Rarely Sometimes Always seguiamo Autumn (una giovane diciassettenne) che dal suo paese della Pennsylvania – all’insaputa di tutti e accompagnata solo dalla cugina – decide di andare ad abortire a New York. In Beach Rats è Frankie il protagonista, un adolescente che vaga senza meta nella periferia di Brooklyn alla ricerca di una sua identità sessuale e di un suo posto nel mondo. Infine (e torniamo al primo film), con It Felt Like Love, siamo immersi nel mondo di Lila, un’introversa quattordicenne, che esplora la sua sessualità con un ragazzo più grande, durante una calda estate nella spiaggia di Rockaway, nel Queens.
Lo stile con il quale Eliza Hittman gira i suoi film è simil-documentaristico. Come detto non c’è spazio per l’esaltazione di un sentimento, ci si concentra invece sui fatti. E la camera segue i ragazzi come se fosse un giornalista che raccoglie le testimonianze e poi le trascrive. Se nell’ultimo film siamo di fronte alla cronaca di una difficile decisione durante il viaggio nella metropoli, nel primo, la macchina da presa è attaccata alla ragazza (quasi fossimo in un film di Ken Loach o dei fratelli Dardenne), mentre cerca di emulare le gesta sessuali dell’amica più disinibita. E infine, in Beach Rats, il vagare del ragazzo tra uomini e donne è seguito senza pregiudizi né moralismi.
Nessuna condanna, solo fatti raccontati attraverso i corpi in mutamento (spesso nudi ma sempre filmati con rispetto e senza morbosità) e gli sguardi dei protagonisti verso punti indefiniti e lontani, a simboleggiare l’angoscia di una generazione che vive un presente senza solidi punti di riferimento e guarda al futuro impaurita.
Di ceneri e di comicità
Una delle ultime opere di Harold Pinter (1930-2008), Ashes to Ashes debutta al Royal Court Theater di Londra nel settembre del 1996 con la regia dell’autore. Un anno dopo dirigerà anche la versione italiana al Biondo di Palermo con una strepitosa Adriana Asti. Il Teatro Foce di Lugano lo scorso fine settimana ha accolto la prima di Ceneri alle Ceneri del Teatro di Emergenza con la regia di Luca Spadaro e l’interpretazione di Silvia Pietta e Sebastiano Bottari. Ebreo di nascita, il drammaturgo londinese (scrittore, poeta, sceneggiatore e Nobel per la Letteratura) viene spesso descritto come il padre di quella drammaturgia dell’assurdo caratterizzata da dialoghi fulminanti, ironici, dal linguaggio inibitorio, drammatico, dall’importante carica sociale e impegno civile. Ma non aveva mai scritto opere che facessero riferimento all’Olocausto come Ashes to Ashes. Il titolo inglese dell’atto unico si ritrova in una canzone di David Bowie dove il Duca Bianco riflette sul passato aprendo una speranza per il futuro: ma è solo una citazione in comune tratta dal libro della Genesi. In Ceneri alle Ceneri Pinter allude alla Shoah senza mai nominarla, abbandonando lo spettatore in un contesto arido di sentimenti ma suscettibile di profonde emozioni, nel dubbio fra una dimensione di vittima e carnefice. È l’architettura di un dialogo fra lui e lei che costruisce il luogo della memoria mascherato in un confronto coniugale che sussulta nell’incedere fulminante di una tremenda allusione.
In scena, il quadro di un’intimità dalla quiete apparentemente irreale per la dinamica di uno scontro nella prospettiva di una vicinanza quasi morbosa, a tratti distante, impersonale, straniante.
Non c’è trama fra presunti coniugi ma il disincanto di vaghi ricordi da parte di lei. Un amante o un aguzzino? L’ombra di una bambina scomparsa: è la figlia? Lui la incalza con le domande, affiorano immagini rimosse in un dialogo serrato che fanno emergere testimonianze di un passato sconvolgente, violento, crudele, frammisto a desideri inconfessabili e un’infedeltà non dichiarata. Gli orrori appaiono come svelati nel complesso intreccio di parole, fra confessioni e profondi silenzi, slanci d’affetto e di rabbia. Pinter, insomma. Magistrale e grandioso. Alla sua terza prova dopo Il custode e Il calapranzi, con Ceneri alle Ceneri Luca Spadaro firma una delle sue regie più mature e convin-
centi cesellando l’ossatura del dialogo con esemplare perfezione. Un’efficacia restituita anche grazie all’ottima prova degli interpreti, dall’intensa espressività di Silvia Pietta al misurato contraltare di Sebastiano Bottari.
A Verscio non solo clown
Un fitto programma fra conferenze e spettacoli ha recentemente caratterizzato il convegno internazionale dedicato alla Comicità organizzato dall’Accademia Dimitri di Verscio.
Nato da un progetto di Anna Stoll Knecht (Music and Clowning in Europe) del settore della Ricerca e sostenuto dal Fondo Nazionale, l’appuntamento ha permesso di esplorare l’argomento sotto molteplici aspetti, dai più classici e tradizionali ai più contemporanei, setacciando mecca
stagliato si è così affacciato in veste accademica con una formula che ha permesso un approfondimento senza certi inutili stereotipi ma offrendo contenuti particolareggiati e indagini di livello. Dai meccanismi dei lazzi comici della Commedia dell’Arte all’analisi dell’umorismo nel pensiero di Kierkegaard fino alle analogie e differenze fra comicità verbale, sonora e gestuale nella relazione fra commedia, farsa, improvvisazione al linguaggio universale del Mistero Buffo di Dario Fo, senza dimenticare il mondo del clown al circo e a teatro. Analisi interessanti, evidentemente incomplete, ma molto stimolanti per vastità e ricchezza. Una proposta che ha permesso un approccio differente a un mondo affascinante che non appartiene solo allo spettacolo e ai suoi personaggi più singolari ma che abbraccia l’essere e il suo divenire in tut
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Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 3 aprile 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino CULTURA 41
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Teatro ◆ Luca Spadaro al Foce dà prova di una regia matura e convincente
Giorgio Thoeni
I protagonisti di Ceneri alle Ceneri: Silvia Pietta e Sebastiano Bottari. (Mariasole Vinante)
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In fin della fiera
Un capotreno, un prete e una prostituta
Rai Storia ha in preparazione una serata dedicata a Nanni Loy. È l’occasione per rievocare l’avventura di Viaggio in seconda classe sopra un vagone delle ferrovie italiane agganciato a treni che nel 1976, in quanto «accelerati», sostavano in tutte le stazioni del loro percorso. Una trappola tesa agli ignari viaggiatori destinati a cadere nella rete di un rinnovato Specchio segreto.
I componenti della troupe, per mimetizzarsi, indossavano la divisa da ferrovieri. Io avevo quella di capotreno di prima classe. Toccava a me il compito di far firmare ai passeggeri, al termine delle riprese effettuate a loro insaputa, la «dichiarazione liberatoria» che autorizzava la Rai a mandare in onda gli episodi nei quali figuravano come protagonisti. Aspettavo che i miei polli scendessero dal treno per pedinarli sulla banchina della stazione. Impugnando la rigida cartellina con il modulo della dichiara-
Pop Cult
zione da far firmare, mi avvicinavo al passeggero e gli davo un leggero tocco sulla spalla. Lui (o lei) si voltava e, trovandosi di fronte un capotreno (di prima classe!) faceva il viso dell’allarme. «Non si preoccupi», lo rassicuravo. «Ha presente Nanni Loy? Era sul treno. Un operatore della Rai ha effettuato delle riprese su di lui. Per mandarle in onda abbiamo bisogno della sua autorizzazione. Mi bastano gli estremi di un suo documento d’identità e una firma, poi lei può andare». Il fascino della divisa! Solo chi l’ha provato può descriverlo. Firmavano tutti!
Di notte si sostava nelle città capolinea della tratta di quel giorno. All’alba la troupe saliva sul vagone quando ancora si trovava al deposito. Con noi salivano Nanni Loy e gli attori che prendevano parte alle provocazioni. La squadra era composta dall’aiuto regista e attore Fernando Morandi, Silvana Mangini e i giovani atto-
ri Anna Altomare e Pier Francesco Poggi. Siamo in partenza da Bologna, diretti a Padova. Lo spunto iniziale prevedeva che Silvana, vestita e truccata da prostituta in là con gli anni, alla vista di un prete (interpretato da Nanni Loy) seduto nel suo stesso scompartimento, scoppiasse a piangere e tra le lacrime dicesse al prelato: «Padre, sono una donna perduta! Ma se mi pento e cambio vita ci sarà ancora per me un posto in cielo?» E il prete, alias Nanni Loy, prima di fornire la sua risposta, avrebbe interpellato gli ignari passeggeri esortandoli a pronunciarsi e a dare il loro parere. In attesa che sul treno salissero i primi passeggeri, gli attori si chiudevano nella toilette per non svelarsi anzitempo. Il treno s’incammina e io scruto nei quattro scompartimenti attrezzati per le riprese finché non trovo una situazione promettente. A questo punto, usando il passe-partout, mi chiudo anch’io nella toilette.
Una certa idea di cultura popolare
Se si considera la storia del XX e XXI secolo, ci si rende conto di come, in un certo senso, nell’epoca della comunicazione di massa il termine «cultura popolare» sia sempre stato piuttosto controverso, nonché frainteso; in effetti, siamo abituati ad affibbiare a queste due parole una connotazione perlopiù denigratoria, prodotto di un’illusoria scissione tra quella che potrebbe essere considerata come high culture – esemplificata da letteratura, musica cosiddetta «colta» quale opera classica, ecc. – e forme meno «alte» di intrattenimento (fumetti, televisione, cinema commerciale, e così via).
Tuttavia, nel mondo attuale questa appare ormai come una definizione fin troppo legata a un ideale di stampo folcloristico che può, a volte, andare un po’ stretto; di fatto, oggi sono in molti a riconoscere come tale divisione sia inutile quanto fallace,
Xenia
di Bruno Gambarotta
Descrivo a Nanni e a Silvana i passeggeri presenti nello scompartimento prescelto. La provocazione può iniziare. Il lettore s’immagini le loro facce quando hanno visto aprirsi la porta della toilette e uscire in rapida successione un capotreno, un prete e una prostituta. Non tutti i soggetti ripresi firmavano la liberatoria; se la provocazione li rendeva troppo ridicoli, era impossibile convincerli. Siamo in viaggio da Messina a Trapani. La giovane Anna Altomare si affaccia alla porta di uno scompartimento dove già si trovano due giovanotti modello bagnino. Anna impugna una grande valigia vuota. La lascia in corridoio e domanda: «C’è un posto libero?». I due scattano come molle: «Ma certo! Si accomodi!». Anna si siede e tiene impegnati i due cavalieri che, a onor del vero, mantengono un comportamento più che corretto. Intanto sfiliamo la valigia vuota e la sostituiamo con un’al-
tra identica ma piena di blocchi di cemento. Anna può entrare in azione. Si guarda attorno ed esclama: «Ho dimenticato la valigia in corridoio». Uno dei giovanotti afferra il manico e fa per sollevare una valigia che resta incollata al pavimento: il ragazzo la guarda, poi soppesa Anna, poi la valigia, poi di nuovo Anna. Non si capacita. Riprova, niente da fare. Impegna entrambe le mani. La solleva sopra la testa e si rialza in piedi. È cianotico e il compare si alza per dargli una mano. Con un ultimo sforzo il blocco di cemento è issato sul portabagagli. Uno dei due domanda ad Anna: «Mi scusi, signorina, cosa c’è in quella valigia?» e lei, con una vocina esile: «Solo dei libri….» L’altro sbotta: «E che minchia di libri?». Quanto a firmare la liberatoria, è già tanto che non mi abbiano menato quando ho svelato che erano stati protagonisti inconsapevoli di uno sketch del grande Nanni Loy. Mi ha salvato la divisa.
poiché, in fondo, basata su una discriminazione: sull’idea che la cultura di massa non possa competere con quella «vera», nonostante l’influenza esercitata sulla maggior parte della popolazione – sicuramente su una sezione ben più ampia di quella che ha abitualmente accesso ai film di Bergman o alle opere di Umberto Eco. Allo stesso modo, si ignora il fatto che, nell’ambito del medesimo argomento, molte persone comuni si riconoscono molto più facilmente in un romanzo storico, magari acquistato all’edicola della stazione, che non in un lungo saggio accademico custodito in una biblioteca universitaria. Ma cosa significa davvero, oggi, occuparsi di cultura popolare? Forse significa anche rendersi conto dell’inganno che una certa altezzosità post-sessantottina ha imposto all’opinione pubblica; chi scrive è infat-
ti convinta che a fare davvero la differenza non sia il mezzo espressivo utilizzato, quanto piuttosto chi ne fa uso. È per questo che, a costo di suscitare scandalo, ammetto tranquillamente di non riuscire davvero a differenziare tra le migliori storie a fumetti di Carl Barks (noto come «l’uomo dei paperi», ovvero l’autore dietro la creazione del mondo di Donald Duck e compagni per conto della Walt Disney Company) e capisaldi della letteratura mondiale quali I Promessi Sposi o Guerra e Pace ; e, di conseguenza, affianco volentieri sullo stesso scaffale i libri di Emilio Salgari e di Dostoevskij.
Questo perché l’impressione più forte è che, infine, la maestria, il talento e la genialità dell’artista vadano ben oltre la mera professionalità da questi mostrata in un determinato ambito; di conseguenza, la grandezza di un autore sta nell’essere
Dieumerci e la sua fede granitica
Seduti nei banchi dell’unica navata, i fedeli, speranzosi, fremono di curiosità. Da due anni la parrocchia è vacante, la messa celebrata solo il sabato sera. Fino a vent’anni prima, in paese c’erano quattro chiese, sempre aperte. Ora una sola, part-time, come la guardia medica. Abitanti del resto un migliaio scarso, cattolici tutti, ma praticanti solo le anziane e le loro badanti bulgare, fra l’altro ortodosse. Ma finalmente il vicario introduce il nuovo prete. Abiterà nella canonica, verrà a cercarvi casa per casa, animato da spirito missionario. Il suo nome è una promessa: Dieumerci. È francese? si ringalluzzisce la vedova che fa le pulizie in chiesa. In un certo senso, asserisce il prelato. Dieumerci è un colosso da cento chili, voce tonitruante, occhi d’inchiostro. Un tornado di energia: la prima omelia la recita come un attore a teatro.
Chiede subito se qualcuno sa cantare e suonare: una chiesa non è un mortorio, è la casa della gioia. Ma ha due difetti. Ha trent’anni – pochi per un maschio votato al celibato. Ed è più nero della cappa del camino. Viene, infatti, dalla Repubblica democratica del Congo. Anche se l’ha lasciata a diciotto anni, per studiare teologia in Italia. E pure se sogna di rivedere la sua famiglia, non glielo hanno mai concesso. La sua fede però è granitica, il suo entusiasmo travolgente. In breve tempo, la chiesa risuona di cori, chitarre e percussioni. I suoi funerali emozionano come concerti gospel. Nessuno dei morti è mai stato pianto con tanta passione. Dopo il primo matrimonio, fastoso e festoso, si forma una timida lista d’attesa. Ai giovani piacciono le messe del prete nero accompagnate dalla rumba congolese, credere in Dio diventa quasi
una cosa moderna. Poiché i funerali, i matrimoni, i battesimi e le messe in memoria hanno un valore monetario, la soddisfazione della diocesi è massima. Dieumerci non ha mai visto la neve, patisce il freddo e la solitudine. Non capisce il dialetto locale e non riesce a impararlo. Le poche ragazze sono tutte fidanzate, il resto donne attempate, sole per disgrazia e quasi mai per scelta, o consorti di contadini bisbetici e gelosi. Senza contare i cinquanta ospiti della casa di riposo, cui va a dir messa alle 7 del mattino, nel gelo atroce dei monti della Laga. Afflitto, Dieumerci implora al vescovo il trasferimento. Perché? Ha ricevuto insulti, offese? Pregiudizi? I montanari sono gente chiusa, conservatrice. Non è questo, spiega Dieumerci. Alle battutine razziste è abituato. Ma i bianchi sono sostanzialmente tristi. E qui
in grado di superare i limiti (reali o presunti) presentati dal mezzo espressivo prescelto, per creare un capolavoro universale: non solo fruibile a tutti, ma in grado di travalicare qualsiasi classificazione o definizione di genere per divenire uno «specchio dei tempi» – il vero riflesso del mondo in cui viviamo. Perché questa, in fondo, è sempre stata la principale funzione della cultura popolare: fungere da cartina di tornasole per la società del proprio tempo. E benché molti si sentano oggi inclini a giurare che l’epoca attuale sia più che mai favorevole alla creazione di «miti pop» – a partire dagli assurdamente rilevanti influencer di YouTube e OnlyFans, fino ai più o meno appariscenti fenomeni da palcoscenico, invariabilmente tesi verso il totale autocompiacimento – non è esattamente l’invasione di figure pubbliche di riferimento a permet-
di Melania Mazzucco
intorno sono tutti bianchi. Il nero più vicino, il benzinaio della statale, abita a trenta chilometri, e fra l’altro è somalo e musulmano. Muore di nostalgia. Ha bisogno di fratelli, sorelle. Siamo tutti fratelli e sorelle in Cristo, gli risponde monsignore, serafico. Dieumerci deve portare la sua croce. Beve: ogni giorno, la domestica getta bottiglie nel contenitore del vetro. Ma è un vizio veniale fra i religiosi. Il defunto don Michele, che Dio lo perdoni, è morto di cirrosi. Il sabato Dieumerci va in un locale di sudamericani, alla periferia del capoluogo: è un ballerino provetto. Ma nessuno dei parrocchiani si lamenta per questo. Nessuno lo biasima perfino quando, dopo il terremoto che rade al suolo mezzo paese e abbatte il campanile della chiesa lui, terrorizzato, non partecipa ai soccorsi e si fa portare al sicuro dalla protezione civile. Lo perdonano
tere di ottenere un’autentica, significativa interpretazione della realtà contemporanea.
E allora, dove si colloca esattamente la linea di demarcazione tra l’odierna pop culture e la cosiddetta «cultura popolare» di un tempo – tra i fenomeni del passato e, più semplicemente, i cult di oggi?
Ciò che questa rubrica si propone di fare è proprio indagare a fondo questo interrogativo, così da diffondere un’idea di cultura popolare che riesca idealmente a dissipare in parte l’alone di preconcetti e pregiudizi aleggiante intorno a questo termine, spesso difficile da collocare con precisione all’interno del panorama attuale; nella speranza di rivalutare quella che, in fondo, è una componente imprescindibile della nostra vita quotidiana – qualcosa di cui, volenti o nolenti, noi occidentali non potremmo più fare a meno.
quando non partecipa alla consacrazione del container-chiesa, lo aspettano ansiosi nel villaggio prefabbricato. Ma Dieumerci non torna. Così si spargono strane voci. I superiori hanno punito per invidia il prete africano che aveva riempito la chiesa come un centro commerciale… È scappato con la proprietaria dell’agriturismo, che nemmeno lei si è vista più… La verità la dice lui stesso, due anni dopo. È stato in reparto psichiatrico e poi in ritiro. Assente, inebetito. Un crollo psichico. Si era spezzato dentro. Ma poi il Signore è tornato a cercarmi: le pecorelle attendono il pastore, e Dieumerci sono tornato. Per gratitudine, i parrocchiani procurano il visto, pagano il biglietto aereo alla sorella e alla nipote di sedici anni, e vanno a prenderle all’aeroporto. Loro sapranno guarire la sua nostalgia, perché Dieumerci deve essere felice.
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 3 aprile 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 43 CULTURA / RUBRICHE ◆ ●
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Girasoli vegani, pasta fresca o fiori al limone e al timo, in confezioni multiple, per es. girasoli vegani, 2 x 250 g, 8.60 invece di 10.80
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Focaccia alsaziana originale 2 x 350 g o 2 x 240 g, per es. 2 x 350 g
Pacific Prawns, ASC, o frutti di mare misti Costa prodotti surgelati, in conf. speciali, per es. Pacific Prawns, ASC, 800 g, 19.95 invece di 29.90
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Tutti i succhi freschi e le composte Andros per es. succo d'arancia, 1 l, 4.– invece di 5.10
freschi
pronti Offerte valide solo dal 4.4 al 10.4.2023, fino a esaurimento dello stock.
Prodotti
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Migros Ticino
latticini Migros Ticino 5.–invece di 6.40 Feta bio 2 x 150 g conf. da 2 21% 6.–invece di 7.50 Caprice des Dieux in conf. speciale, 330 g 20% 3.10 Skyr-Alternative Alpro al naturale senza zucchero, 400 g 20x CUMULUS Novità 1.80 invece di 2.15 Formaggini freschi per 100 g 16% 2.–invece di 2.55 Formaggella Blenio «Ra Crénga dra Vâll da Brégn» per 100 g 20% 2.25 invece di 2.70 Sole del Ticino per 100 g, confezionato 15% 2.30 invece di 2.95 Le Gruyère piccante bio, AOP per 100 g, prodotto confezionato 21%
Il fior fiore (di latte) tra le offerte Formaggi e
LO SAPEVI?
Il Philadelphia non è solo ottimo da spalmare sul pane, ma è anche una versatilissima base per piatti dolci e salati. In una cheesecake alla utta, ad esempio, la sua consistenza cremosa è l'ideale. Scommettiamo che conquisterà le tue ospiti e i tuoi ospiti? Idee per ricette su: www.migusto.ch
Offerte valide solo dal 4.4 al 10.4.2023, fino a esaurimento dello stock. Migros Ticino
Ha il gusto di vacanze nel Mediterraneo 2.80 Philadelphia feta e cetriolo 175 g 20x CUMULUS Novità 15.10 invece di 15.80 Il Burro panetto, 4 x 250 g conf. da 4 –.70 di riduzione 3.75 Crème Caramel Sélection 2 pezzi, 180 g 20x CUMULUS Novità 4.45 invece di 5.60 Philadelphia Original, Balance o alle erbe aromatiche, per es. Original, 2 x 200 g conf. da 2 20% 4.80 invece di 6.–Panna per caffè Valflora 3 x 500 ml conf. da 3 20% 6.70 invece di 7.90 Mezza panna Valflora in bomboletta 2 x 250 ml conf. da 2 15%
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Zucchero fino cristallizzato Cristal M-Classic 1 kg e 4 x 1 kg, per es. 1 kg, 1.– invece di 1.30
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Tutti i tipi di caffè Caruso, in chicchi e macinato, UTZ per es. caffè Oro in chicchi, 500 g, 6.80 invece di 9.75
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Caffè Onesto, Fairtrade bio, miscela del Capitano o Seahall, 500 g, per es. miscela del Capitano, 13.90, in vendita nelle maggiori filiali
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Caffè Henauer, Fairtrade bio, El Laurel e Cocolense, per es. El Laurel, 250 g, 9.90, in vendita nelle maggiori filiali
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5.60 Delizio bio, Fairtrade Lungo ed Espresso, 12 capsule, per es. Lungo
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9.90 Caffè Turm disponibile in diverse varietà, 250 g, per es. India Monsooned, in vendita nelle maggiori filiali
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Caffè Black & Blaze disponibile in diverse varietà, 250 g, per es. Premium, 9.50, in vendita nelle maggiori filiali
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Caffè Tropical Mountains disponibile in diverse varietà, 250 g, per es. Mafioso, 10.40, in vendita nelle maggiori filiali
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2.90 Barrette proteiche Caramel Choco o Peanut Caramel Barebells
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20x CUMULUS Novità Tutto l'assortimento Kellogg's per es. Tresor Choco Nut, 620 g, 5.60 invece di 6.95 a partire da 2 pezzi 20%
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La pasta Da Emilio è prodotta per la Migros in Italia da una piccola manifattura. Diversamente dalla comune pasta, la Da Emilio viene trafilata al bronzo. Così la sua superficie si irruvidisce e cattura meglio il sugo.
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Maionese, senape dolce o Thomynaise Thomy per es. maionese à la française, 2 x 265 g, 4.70 invece di 5.90
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Tutta la pasta Da Emilio per es. gigli, 500 g, 3.10 invece di 3.90, in vendita nelle maggiori filiali
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Tutti i sughi per pasta Da Emilio per es. sugo aglio e peperoncino, 330 g, 3.40 invece di 4.30, in vendita nelle maggiori filiali
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Tutti gli oli di colza M-Classic e IP-SUISSE per es. IP-SUISSE, 500 ml, 2.85 invece di 3.60
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Salse Bon Chef disponibili in diverse varietà, per es. salsa al curry, 3 x 30 g, 3.10 invece di 4.65
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Tutte le tortine e gli strudel M-Classic prodotti surgelati, per es. tortine al formaggio, 4 pezzi, 280 g, 2.10 invece di 2.95
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Mini pizze Piccolinis Buitoni prodotto surgelato, in confezione speciale, al prosciutto o alla mozzarella, 40 pezzi, 1,2 kg
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Tutti i sofficini M-Classic surgelati, per es. al formaggio, 8 pezzi, 480 g
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Conserve di verdura svizzera o purea di mele M-Classic disponibili in diverse varietà, per es. piselli e carote, fini, 4 x 260 g, 5.40 invece di 6.80
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1.80 Insalata di tonno
Mexican M-Classic, MSC 160 g
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Da sgolosare e
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Praliné Frey in scatola disponibili in diverse varietà, per es. Pralinés du Confiseur, 149 g, 6.70 invece di 8.95
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4.95 Gelato alla vaniglia Bourbon bio prodotto surgelato, 450 ml
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5.95 Mochi al pistacchio
Little Moons prodotto surgelato, 6 x 32 g
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Tutti i biscotti Tradition per es. Petits Cœurs al limone, 200 g, 3.– invece di 3.60
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Gelato al cioccolato bio prodotto surgelato, 450 ml
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Bastoncini alle nocciole, zampe d'orso o schiumini al cioccolato in confezioni speciali, per es. bastoncini alle nocciole, 1 kg, 6.50 invece di 8.40
Le scagliette di cocco danno a questi mochi il tocco finale perfetto
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Mochi al cocco
Little Moons prodotto surgelato, 6 x 32 g
2.95 Sorbetto al limone Sélection bio, prodotto surgelato, 120 ml
Dolce e salato
In qualità Gemma BIO, fatto con latte e panna svizzeri
Gusto fruttato e rinfrescante Bevande Offerte valide solo dal 4.4 al 10.4.2023, fino a esaurimento dello stock. Per brindare con ospiti farlopreferisconoche senz'alcol Flûtes al sale o mini al formaggio, per es. al sale, 2 x 130 g, 4.95 invece di 6.40 conf. da 2 22% 6.40 Coca-Cola Classic o Zero, 12 x 150 ml conf. da 12 Hit 9.90 invece di 16.50 Succhi di frutta Sarasay, Fairtrade arancia o multivitaminico, 6 x 1 l conf. da 6 40% farlo Tutti gli spumanti analcolici (articoli Sélection esclusi), per es. Perldor Classic, 750 ml, 3.35 invece di 4.80 30% Premium Nuts e noci per aperitivo Sun Queen, tostate e salate per es. anacardi, 170 g, 2.95 invece di 3.70 20% Acqua minerale Aproz disponibile in diverse varietà, 6 x 1,5 l o 6 x 1 l, per es. Classic, 6 x 1,5 l, 3.10 invece di 6.20 conf. da 6 50% Sciroppi in bottiglie di PET 1,5 l e 750 ml, per es. ai lamponi, 1,5 l, 3.70 invece di 4.95 25%
Guarda un po’ che belle offerte! Bellezza e cura del corpo Oltre prodotti750 a prezzi bassi 4.80 invece di 7.25 Fazzoletti di carta Linsoft, FSC® 56 x 10 pezzi 33% Fazzoletti Tempo, FSC® in confezioni multiple o speciali, per es. sanft und frei, 30 x 9 pezzi, 9.– invece di 13.50 33% PIÙ RISPARMIO –.95 Bastoncini ovattati M-Budget 300 pezzi 3.60 Carta igienica M-Budget 12 rotoli 2.– Sapone fresco M-Budget in conf. di ricarica, 1 l Fazzoletti e salviettine cosmetiche Kleenex, FSC® in confezioni multiple o speciali, per es. Collection in scatola quadrata, 4 x 48 pezzi, 6.65 invece di 10.–conf. da 4 33%
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T-shirt da uomo disponibile in blu marino o verde, tg. S–XL, in vendita nelle maggiori filiali
Abbigliamento e accessori Offerte valide solo dal 4.4 al 10.4.2023, fino a esaurimento dello stock. Riequilibrano la pelle
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13.95 Rose M-Classic, Fairtrade disponibili in diversi colori, mazzo da 10, lunghezza dello stelo 50 cm, per es. bianco-rosa, il mazzo
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USB 3.2 Gen 2, resistente a cadute da un altezza
fino a 2 m, gancio in gomma per il fissaggio, velocità di lettura 520 MB/s, cavo da USB-C a USB-A, il pezzo
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Phalaenopsis Cascade 2 steli, con coniglietto disponibile in diversi colori, in vaso di ceramica, Ø 12 cm, per es. bianca, il vaso
Fiori e giardino Offerte valide solo dal 4.4 al 10.4.2023, fino a esaurimento dello stock.
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Spagna/Italia, vaschetta da 500 g, offerta valida dal 6.4 al 9.4.2023
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Cucina & Tavola e tutti i bicchieri per es. ciotola vintage, crema, Ø 17,5 cm, il pezzo, 3.– invece di 4.95, offerta valida dal 6.4 al 9.4.2023
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gli articoli M-Budget e quelli già ridotti. Fino a esaurimento dello stock.
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