Azione 14 del 2 aprile 2024

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Giovedì 5 ottobre 2023!

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Il primo amore...

Condivisione Affetto Sapori
Momenti autentici
Genuinità Passione

SOCIETÀ

Ambiente: in molti Paesi già ora è necessario adottare strategie per resistere al clima che cambia

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TEMPO LIBERO

Quattro amici bleniesi presto alle prese con la famosa Patrouille des Glaciers

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ATTUALITÀ

A bordo della Ocean Viking, nave affittata da Sos Mediterranée per salvare i migranti in pericolo

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edizione

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MONDO MIGROS

Pagine 4 / 6 – 7

CULTURA

Intervista alla filosofa femminista Adriana Cavarero autrice di Donne che allattano cuccioli di lupo

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Orazio Martinetti

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Un viaggio tra i corpi del Medioevo Il

trionfo della «gradassocrazia»

Carlo Silini

Ci si deve arrabbiare anche per i torti inflitti ai «cattivi». Solidarizzare con le vittime degli attentati a Mosca, dei naufragi nel Mediterraneo, delle bombe a Gaza è una reazione giusta e istintiva. Tutte le vittime sono innocenti. Per definizione e indipendentemente da qualsiasi azione abbiano commesso (nel bene e nel male) e da qualsiasi pensiero (buono o cattivo) abbiano elaborato prima della violenza che è stata loro inflitta. Da qualche parte, e giustamente, ci diciamo che «non meritavano» di morire o, se sopravvivono, di subire ciò che hanno subito.

Meno scontato farlo con chi sta dalla parte del torto e, nel comune sentire, «meriterebbe» eccome di pagare con la vita per le proprie colpe. Prendiamo i killer del Crocus City Hall, il Bataclan moscovita, che poco più di una settimana fa hanno ucciso quasi 140 persone che –come tutte le vittime del terrorismo – avevano

l’infausta colpa di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. Sono persone orribili. Non importa se sono stati manipolati, se hanno agito sotto l’influsso di droghe o stimolanti che ottundono le facoltà mentali, se erano semplicemente pazzi o se, ingenuamente, credevano di compiere un atto di giustizia divina, all’insegna dell’occhio per occhio, dente per dente. Restano freddi carnefici, non hanno mostrato un filo di pietà mentre seminavano proiettili e scintille tra i malcapitati che arrivavano a tiro, esattamente come in un videogioco sparatutto, più ne ammazzi e più punti fai. Nulla li scusa. Ma sbatterli davanti alle telecamere del pianeta, come hanno fatto le guardie russe nei giorni successivi al massacro, schiacciati a forza a novanta gradi verso terra, coi volti tumefatti, uno privo di un orecchio, l’altro senza un occhio, è il modo più stupido e certo per assicurarsi un ciclo infinito di future violenze.

«Gli sta bene», penseranno molti. Altri riterranno che, di fronte agli orrori di questi tempi, qualche pugno o qualche pedata in più a quattro assassini, siano l’ultimo dei nostri problemi. Non è affatto così.

Non difendo i tagliagole e le loro colpe, difendo il loro diritto a non essere torturati e ridotti a trofei di caccia. Siano giudicati con un regolare processo, senza che gli si torca un capello, e condannati a giusta pena. Non per «buonismo», termine esecrabile che di solito viene utilizzato per screditare chi cerca di agire con un minimo di umanità e correttezza.

Ma perché questa è la risposta più rigorosa e intelligente al terrorismo, la dimostrazione a chi ci odia (l’ISIS ci detesta tanto quanto i russi) che non siamo disumani come loro, che le leggi – da noi – tutelano i diritti anche dei peggiori, che la giustizia è il contrario della vendetta. Ma questa è la Russia di oggi, muscolare

e sprezzante, vessatrice e primaria. Comanda Putin, spadroneggiano i bulli e la loro logica intimidatoria, in cui non solo lo spietato terrorista va torturato, ma anche l’inerme dissidente. E giù botte. È la logica rediviva del manganello fascista, di cui abbiamo avuto esempi recenti anche nella vicina penisola. I danni collaterali di questa «gradassocrazia» sono il proseguimento sine die della guerra contro l’Ucraina, con gli effetti economici che conosciamo e il rischio di finire prima o poi dentro un conflitto mondiale, e il rafforzamento dell’astio dei fanatici islamici che, nella loro semplificazione del mondo, non vedono significative differenze tra l’Occidente e la Russia. Aggrappiamoci al nostro DNA culturale e non dimentichiamo Voltaire, secondo il quale «il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri». E dei suoi carcerati.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 2 aprile 2024 Cooperativa Migros Ticino
◆ ● G.A.A. 6592 San t’Antonino
© Museo nazionale svizzero

Il Gruppo Migros

Quel vecchio sogno di collegare il

la sua posizione di leader nel settore del commercio al dettaglio

Svizzera

Itinerario ◆ Un’escursione in terra vodese alla scoperta dei resti del canale d’Entreroches, via navigabile che avrebbe dovuto collegare le

Info Migros ◆ Nel 2023 il Gruppo Migros ha realizzato un fatturato di 32 miliardi di franchi, superando il record dell’esercizio precedente. Ha guadagnato quote di mercato nel suo core business, la vendita al dettaglio; l’utile del Gruppo è stato di 175 milioni di franchi e nell’ambito dell’impegno sociale sono stati messi a disposizione 140 milioni di franchi

Nel 2023 il Gruppo Migros ha ottenuto buoni risultati sul mercato e ha ampliato la sua posizione di leader nel settore del commercio al dettaglio svizzero, sia per quanto riguarda il commercio stazionario sia online. Tutti e quattro i pilastri strategici del Gruppo Migros hanno registrato una forte crescita: Food, Non-Food, Servizi finanziari e Salute. L’utile al lordo degli oneri finanziari e fiscali (EBIT) si è attestato a 286 milioni di franchi (esercizio precedente: 628 milioni). L’utile del Gruppo è stato di 175 milioni di franchi (esercizio precedente: 459 milioni). Il risultato dell’azienda è stato impattato dall’aumento dei costi delle materie prime, dell’energia e degli imballaggi. Inoltre, si è resa necessaria una rettifica di valore di circa 500 milioni di franchi. Questa riguarda gli immobili logistici, i progetti informatici e diverse altre voci patrimoniali che hanno un valore di bilancio inferiore a causa delle variazioni delle condizioni di mercato.

La già elevata quota di capitale proprio è aumentata ancora una volta

Migros rimane un’azienda finanziariamente solida. Il capitale proprio delle attività commerciali e industriali di Migros ammonta a 17,5 miliardi di franchi (esercizio precedente: 17,7 miliardi) e corrisponde al 72,8% del totale di bilancio (esercizio precedente: 72,5%). Nell’anno in esame, Migros ha investito complessivamente 1,5 miliardi di franchi, in particolare sulla piazza economica svizzera.

Fatturato del commercio al dettaglio e online: continua la forte crescita

Il paraît que l’idée fut à Luther, mi dice un ometto già in là con gli anni, quando gli chiedo se vado bene per il canale d’Entreroches. Lo incontro sulla stradina di campagna che sale verso il Mormont, la collina alle spalle di La Sarraz, nel canton Vaud.

Durante la Guerra dei

taglio delle cooperative, Migros ha nettamente superato la performance dell’esercizio precedente. Il fatturato consolidato è migliorato, attestandosi a 17,3 miliardi di franchi (+3,0%).

costituito dalla vendita di melectronics e di SportX.

franchi (+95,9%) grazie al successo dell’integrazione della farmacia online Zur Rose.

Hotelplan Group: tanta voglia di viaggiare dopo la pandemia

Dopo aver sfruttato la pandemia per consolidare la propria posizione di successo, Hotelplan Group ha raggiunto un fatturato record di 1,7 miliardi di franchi nel 2023 (+20,6%). Nonostante questo successo, Migros vede per l’azienda maggiori opportunità di sviluppo con un nuovo proprietario ed è attualmente alla ricerca di un acquirente.

Impegno sociale

Trent’anni, nel Seicento, gli olandesi erano alla ricerca di nuove rotte commerciali sicure verso il sud e l’Italia

Il fatturato del commercio al dettaglio in Svizzera è salito a 25,7 miliardi di franchi (+4,1%). Nell’e-commerce, Migros ha proseguito il forte trend di crescita degli ultimi anni, realizzando un fatturato di 4,1 miliardi di franchi (+10,2%). Il Gruppo Galaxus è stato uno dei principali motori di tale evoluzione. Il suo successo sottolinea la continua tendenza della clientela ad acquistare sempre più prodotti non alimentari online. Migros Online ha chiuso l’anno con un fatturato di 344 milioni di franchi (+4,7%) e ha difeso la sua posizione di leader sul mercato svizzero.

Commercio al dettaglio delle cooperative:

Poi passa ad altro e, accennando al vecchio Golden Retriever che tiene al guinzaglio, mi fa, lui è Scotch, e gli dà una grattatina sul muso. Piacere, mi scappa di bocca, e rinuncio a spiegargli che Lutero era troppo preso dai suoi grattacapi teologici per occuparsi di un’opera d’ingegneria idraulica, che, per di più, vedrà la luce solo un secolo più tardi.

freschezza e regionalità come fattori di successo Nel segmento del commercio al det-

azione

Fondato

A volerla tirare per i capelli, però, l’affermazione del padrone di Scotch non è poi così priva di fondamento, penso, riprendendo il cammino. Pater Martinus, quel giorno d’ottobre del 1517, affiggendo le sue novantacinque tesi al portone della chiesa del castello di Wittenberg, innesca un bel putiferio in tutta l’Europa occidentale e non solo. Le conseguenze di quella che sarà definita la Riforma protestante non si limiteranno alla religione, ma spazieranno in tutti

Le dieci cooperative regionali, comprese le società affiliate, hanno realizzato un fatturato di 16,3 miliardi di franchi (+2,5%). I fattori chiave del successo sono stati la freschezza e la regionalità dell’assortimento, nonché le marche proprie Migros, molto apprezzate dalla clientela. La crescita è stata in parte determinata anche dagli aumenti dei prezzi legati all’inflazione, che hanno raggiunto il 3,5% nel settore alimentare. Mentre le attività stazionarie dei supermercati (+3,6%) e della Gastronomia Migros (+10,2%) sono cresciute grazie, tra l’altro, a un maggiore afflusso della clientela, le vendite nei negozi specializzati Migros sono nuovamente diminu(-7,7%). Le mutate esigenze della clientela richiedono un riorientamento dei formati dei negozi specializzati e il prossimo passo in tal senso sarà

Commercio: crescita a due cifre per il Gruppo Galaxus

Le società commerciali hanno dato un importante contributo alla crescita del Gruppo Migros. Complessivamente, il loro fatturato è aumentato fino ad arrivare a 8,7 miliardi di franchi (+1,5%). Oltre al Gruppo Galaxus (+11,6%), anche Denner (+4,0%) continua a realizzare ottimi risultati. Per contro, il calo dei volumi e dei prezzi del petrolio ha avuto un impatto negativo sulle vendite di Migrol (-15,0%).

Industrie: inflazione con impatto sui prezzi

gli ambiti della società, dalla politica alla cultura, dall’economia alle dinamiche sociali.

Lo scisma del mondo cristiano produrrà dispute teologiche, odio, persecuzioni e guerre fratricide, come quella, lunghissima, dei Trent’anni (1618-1648). Ed è proprio durante quell’interminabile conflitto, che prende avvio la storia bizzarra che mi ha portato qui, a camminare in una giornata di sole in mezzo ai prati della campagna vodese.

Concorso

penisola iberica e incorrere negli assalti della flotta della cattolicissima e nemicissima Spagna.

Le aziende di Migros Industrie hanno aumentato il loro fatturato, raggiungendo i 6,0 miliardi di franchi

Italian Music Night – Vinci una serata in Vetta

I trasporti terrestri, all’epoca, sono troppo lenti e difficoltosi, inadatti ai carichi pesanti, l’alternativa è una via navigabile attraverso il continente, che colleghi il Mare del Nord al Mediterraneo, sfruttando il Reno e il Rodano e passando dal lago di Neuchâtel e dal Lemano.

(+3,9%). La crescita è dovuta principalmente agli adeguamenti dei prezzi legati all’inflazione. L’attività estera ne ha risentito in modo particolare. Questa tendenza è emersa chiaramente all’interno di Mibelle Group: l’azienda realizza il 70% del suo fatturato all’estero. La ricerca di un nuovo proprietario è stata avviata per migliorarne le opportunità di sviluppo.

Banca Migros:

il business degli interessi come motore di crescita

Nel 2023, i ricavi della Banca Migros sono aumentati, attestandosi a 827,8 milioni di franchi (+17,7%). L’utile operativo al netto degli ammortamenti e degli accantonamenti è ammontato a 383,0 milioni di franchi (+31,3%). Ne è conseguito un utile annuale di 313,4 milioni di franchi (+30,3%). Uno dei principali fattori di crescita è stato il settore dei tassi d’interesse, grazie alla svolta della Banca nazionale svizzera. La Banca Migros ha aumentato la sua base di clienti arrivando a 1,1 milioni di rapporti in essere (+10,9%), grazie anche alla continua crescita dell’attività delle carte di credito Cumulus.

Migros non è solo un importante motore economico, ma è anche da sempre fortemente impegnata a favore della società. Nel 2023, 140 milioni di franchi sono stati destinati al Percento culturale Migros, al Fondo pionieristico e al Fondo di sviluppo Migros. La seconda edizione dell’iniziativa partecipativa sul tema dell’amicizia, in cui diversi progetti sono stati sostenuti con i fondi del Percento culturale Migros, si è rivelata molto popolare. Migros continuerà a impegnarsi finanziariamente per la cultura, la formazione e gli scambi intergenerazionali.

Migros come datore di lavoro: cercasi personale

Gli Olandesi, di confessione riformata, sono alla ricerca di nuove rotte commerciali sicure verso il sud e l’Italia, per evitare di circumnavigare la

Che tu abbia vissuto gli anni 80 o che tu sia semplicemente un estimatore di questo genere musicale, questa è la tua serata! Rivivi la magia degli anni 80 in Vetta al Monte Generoso in occasione di una serata indimenticabile che ti porterà indietro nel tempo. Celebra i grandi successi che hanno segnato la migliore musica italiana, da quella pop passando per la disco, fino ai cantautori che hanno fatto la storia. L’appuntamento con Italian Music Night è per venerdì 12 aprile 2024. Si parte da Capolago alle ore 19, e il biglietto andata e ritorno com -

prende anche un assaggio di risotto e il dj set in Vetta. Per informazioni e prenotazioni www.montegeneroso.ch

Buona parte del lungo percorso acquatico è già utilizzata da secoli per il trasporto delle merci e alla realizzazione del sogno mancherebbero solo poco più di venti chilometri tra Orbe e Morges. Fattibile, si pensa allo-

«Azione» mette in palio 2x1 biglietti per l’Italian Music Night del 12 aprile. Per partecipare al concorso mandare una e-mail a giochi@azione.ch (oggetto: «Italian Music») entro domenica 7 aprile 2024 (estrazione 8 aprile). Buona Fortuna!

Il castello

Settore di attività Salute: successo nell’integrazione della farmacia Zur Rose

ra. Nasce così il progetto del canale d’Entreroches, che prende il nome dalla gola che attraversa il promontorio roccioso del Mormont, un’anomalia geologica del massiccio del Giura, che fa da esile spartiacque tra il nord e il sud dell’altopiano elvetico. I lavori iniziano nel 1638 e, due anni dopo, il tratto tra Yverdon e Entreroches è terminato. La seconda tappa si conclude nel 1648, raggiungendo Cossonay. A quel punto, rimane solo una dozzina di chilometri fino a Morges, dove il canale dovrebbe sfociare nel lago, ma è necessaria la costruzione di una quarantina di chiuse, un’impresa troppo onerosa, e il sogno

Anche nel 2023 i servizi di Migros nel settore della salute hanno guadagnato una quota di mercato significativa in tutti i segmenti di attività, conseguendo un fatturato di 1,3 miliardi di franchi (+74,4%). La crescita è stata particolarmente forte nel Gruppo Medbase, che ha generato un fatturato di 1,0 miliardo di

europeo s’interrompe lì. La via d’acqua sarà comunque utilizzata fino al 1829 per il trasporto di sale, grano, formaggio e vino vodese. A poco a poco, il canale d’Entreroches perde importanza, qua e là è interrotto da frane, i muri si sgretolano, il potenziamento delle strade e l’arrivo della ferrovia gli danno il colpo di grazia e, per finire, viene dimenticato. Alcune vestigia più o meno evidenti di questo progetto un po’ folle esistono però ancora nella campagna vodese. E così, eccomi qui, alla ricerca di questi muti testimoni di un’epoca turbolenta e oscura, animata al contempo da una nuova consapevolezza e dalla

Con una media di 99’175 collaboratori e collaboratrici in circa 90 aziende, l’organico è aumentato di 1448 posti (+1,5%) rispetto all’esercizio precedente. Anche il numero di posizioni a tempo pieno è aumentato nell’anno in esame (+1643). Migros rimane quindi il più grande datore di lavoro privato in Svizzera. La ricerca di forza lavoro rimane alta: circa 1300 posizioni sono attualmente vacanti nel Gruppo Migros. Il suo impegno per un’equa retribuzione dei propri collaboratori e delle proprie collaboratrici si è tradotto, tra l’altro, in un aumento medio dei salari nominali del 2,1%, leggermente al di sopra della media del settore retail svizzero (+2,0%). Con 3670 apprendisti e apprendiste in oltre 60 diverse professioni, Migros ha confermato al tempo stesso il suo ruolo di maggiore azienda formatrice della Svizzera.

Il sentiero di Randonature.

Informazioni

Federazione delle cooperative Migros, Servizio media, tel. 058 570 38 38, media@migros.ch

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 2 aprile 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino 16
di La Sarraz.
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 2 aprile 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino MONDO MIGROS 4
Settimanale
edito da Migros Ticino
nel 1938 Abbonamenti e cambio indirizzi tel +41 91 850 82 31 lu–ve 9.00 –11.00 / 14.00 –16.00 registro.soci@migrosticino.ch Redazione Carlo Silini (redattore responsabile) Simona Sala Barbara Manzoni Manuela Mazzi Romina Borla Natascha Fioretti Ivan Leoni Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Telefono tel + 41 91 922 77 40 fax + 41 91 923 18 89 Indirizzo postale Redazione Azione CP 1055 CH-6901 Lugano Posta elettronica info@azione.ch societa@azione.ch tempolibero@azione.ch attualita@azione.ch cultura@azione.ch Pubblicità Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino tel +41 91 850 82 91 fax +41 91 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino tel +41 91 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria – 6933 Muzzano Tiratura 97’925 copie ●
rafforza
in

I social media e la salute pubblica Eric Adams, sindaco di New York, denuncia gli effetti negativi dei social sui giovani. Le riflessioni dello psicoterapeuta Nicholas Sacchi

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A sostegno dell’industria delle auto Il CEO di Renault Group, Luca de Meo, ha scritto una lettera all’Europa perché sviluppi una politica industriale competitiva e decarbonizzata

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I corpi nel Medioevo

È in corso al Museo nazionale di Zurigo una mostra che indaga su questo tema da un punto di vista storico, culturale e sociale

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Noi e la Natura, strategie contro la vulnerabilità

Sviluppo sostenibile ◆ In sempre più Paesi è necessario imparare ad adattarsi trasformando l’ambiente per resistere al clima che cambia

Loris Fedele

Tutti dipendiamo dalla Natura e dai suoi prodotti. Per chi se li può comperare la vita risulta più facile, ma ci sono anche quelli, e al mondo sono tanti, che hanno bisogno di attingere direttamente a queste risorse per la loro sopravvivenza. Diverse indagini e studi ci dicono che almeno un terzo delle popolazioni nelle zone tropicali (cioè circa 1,2 miliardi di persone) sono fortemente dipendenti per soddisfare almeno 3 dei 4 bisogni primari essenziali, catalogati come: la casa, l’acqua, l’energia, l’occupazione. Circa 650 milioni abitano nell’Asia-Pacifico, 500 milioni in Africa, circa 50 milioni nel centro America. Nella loro vita, già difficile, sono pure entrati i cambiamenti climatici che, influendo sulle dinamiche naturali, mutano le situazioni e li costringono a cambiare abitudini. Il risultato sfocia in un’ulteriore pressione sull’ambiente naturale che, in un circolo vizioso, penalizza l’intero ecosistema, cioè sia l’uomo sia la natura.

Nelle Filippine, in Cambogia, Sud Africa, Kenia e Madagascar sono già in atto progetti di adattamento trasformativo

L’obiettivo politico e morale per lo sviluppo sostenibile impone di prestare la massima attenzione su queste popolazioni sfavorite e sui loro bisogni fondamentali. Fare star meglio loro farà star meglio tutta la popolazione mondiale, migliorerà i commerci, ridurrà i conflitti e le emigrazioni forzate. Nell’ultima Conferenza mondiale delle Parti sui cambiamenti climatici, la COP28 tenutasi lo scorso dicembre a Dubai, uno, se non l’unico, dei pochi risultati apprezzabili è stato l’accordo che rende operativo il «Fondo per le perdite e i danni» destinato ad assistere le comunità degli Stati in via di sviluppo colpiti dai disastrosi eventi meteorologici e da altri danni alimentati dal riscaldamento globale. C’è chi ha subito bollato l’accordo come insufficiente, giudicato comunque un passo positivo nella giusta direzione. Il fondo avrà almeno 100 miliardi di dollari all’anno entro il 2030 a fronte di un bisogno effettivo già vicino ai 400 miliardi denunciato dai Paesi in via di sviluppo. Come vediamo sono cifre importanti, legate ai danni, alle ricostruzioni, alle misure di risanamento, agli aiuti per gli agricoltori e gli sfollati.

Quando si parla di «Mitigazione» si parla di misure per rendere meno gravi gli effetti del cambiamento climatico, prevenendo o diminuendo le emissioni di gas a effetto serra (CO2 in primis) nell’atmosfera: una misura ritenuta essenziale da tutti gli scienziati. Però un esame di realtà, visto che il

riscaldamento globale sta avvenendo adesso, suggerisce di rispondere anche con l’«Adattamento», che prevede aggiustamenti a livello sociale, strutturale e nei processi ecologici. L’adattamento può essere: 1) immediato e riparatore, 2) integrato e progressivo, per far fronte all’impatto senza cambiare troppo le abitudini delle popolazioni, 3) trasformazionale (o trasformativo) con l’adozione di strategie che rinforzano la capacità della gente e della natura di adattarsi a lungo termine e capire le cause alla base della vulnerabilità.

Quest’ultima strategia trasformativa implica cambiamenti fondamentali. Gli approcci possono mischiare le metodologie. Per esempio: nel centro delle Filippine, nel 2013, un tifone distrusse molte case e uccise 6000 persone. Per far fronte all’innalzamento del mare e alle prossime tempeste si procedette al ripristino della barriera naturale creata dalle mangrovie, usate come prima linea di difesa, affiancate da nuovi argini e da frangiflutti tipici dell’ingegneria convenzionale. Le mangrovie sono alberi fondamentali per proteggere le coste, riescono a vivere semisommerse nell’acqua salata, affondano le loro grandi radici nella sabbia e nei suoli, sono un ostacolo fisico naturale allo sgretolamento del terreno. L’adattamento applicato nelle Filippine nel gergo operativo è definito «green-gray», cioè verde-grigio. Le azioni di tipo infrastrutturale e tecnologico sono definite grigie. Sono invece verdi quelle azioni basate su un approccio sistemico, quello che cambia le cose: per esempio ridurre i pesticidi, migliorare la gestione delle acque, difendere la biodiversità, sono tutte azioni di adattamento trasformativo. Dato che l’impatto dei cambiamenti climatici è differente a seconda del luogo che lo subisce, vanno scelte diverse strategie di adattamento, specifiche di ogni contesto, settore o regione, o capacità di risposta degli abitanti. Tornando alle mangrovie, sono la miglior soluzione per fronteggiare le piene stagionali, come sul Mekong, in Cambogia e Vietnam, il grande fiume soggetto a forti variazioni della portata d’acqua. Le popolazioni rivierasche talvolta vivono su palafitte in prossimità di fiumi o specchi d’acqua: una strategia per far fronte ai cambiamenti climatici potrebbe arrivare a farle indietreggiare e spostarsi rispetto alla riva, ricostruendo le case in aree più sicure, ripristinando le pianure alluvionali che si erano degradate e mettendosi a coltivare piante locali resistenti al cambiamento.

L’adattamento deve spingere la gente a reagire alla vulnerabilità climatica in modo proattivo. Ma ci vogliono abilità, conoscenze, soldi e tempo, oltre alla fondamentale volontà politica degli Stati coinvolti, chiamati

a tenere in considerazione i bisogni e le aspirazioni delle popolazioni locali nelle loro strategie di conservazione. Per esempio, in Sudafrica si trovano importanti popolazioni che con i loro armenti hanno operato una eccessiva pressione sui pascoli, impoverendoli e addirittura desertificandoli. Programmi di aiuto stanno insegnando loro a gestire meglio le zone di pascolo, con rotazioni e piantagioni di nuove erbe. In Kenia invece ci sono indigeni Masai che praticano una tradizionale pastorizia nomade, soprattutto coi bovini. Con aiuti finanziari esterni stanno mettendo in comune varie estensioni di terreno, che una volta apparte-

nevano allo Stato, e le gestiscono in comunità spostandosi con le mandrie in modo da non degradare i pascoli, che possono rigenerarsi e continuare a fornire l’erba di cui hanno bisogno. Quindi un adattamento trasformativo può anche basarsi su misure sociali.

Nella parte orientale del Madagascar i cambiamenti climatici hanno portato a una recrudescenza di cicloni, inondazioni, e precipitazioni mutevoli, tutti eventi estremi che hanno ridotto i campi di riso e manioca, dimezzando la produzione di cibo. Un adattamento basato sulla natura sta già introducendo pratiche agricole intelligenti, con colture resistenti al-

la siccità, irrigazione programmata e drenaggio, riso fuori stagione, pacciamatura, terrazzamento e pratiche agroforestali. L’adattamento trasformativo intrapreso invita le popolazioni a diversificare i mezzi di sussistenza per renderle più resilienti cambiando i piani di gestione locale e regionale a seconda delle peculiarità climatiche. Inoltre si spinge affinché non taglino la foresta solo per creare nuove fattorie, invitandoli a passare invece a pratiche agricole più performanti e alla fine più redditizie sul mercato. In Madagascar beneficiano del programma quasi 150mila contadini in 73 municipalità.

SOCIETÀ ● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 2 aprile 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino 5
Nelle Filippine per far fronte all'innalzamento del mare si sono ripristinate le barriere naturali di mangrovie. (Pixabay.com)

Prelibatezza della regione

Attualità ◆ Il prosciutto cotto nostrano si caratterizza per il suo sapore incomparabile e proviene da produzione locale Una bontà a cui è difficile resistere

Azione 30%

Prosciutto cotto nostrano per 100 g, al banco Fr. 3.80 invece di 5.45 dal 2.4 all’8.4.2024

Prodotto con maestria dal salumificio I Salumi del Pin di Mendrisio, l’aromatico prosciutto cotto dei Nostrani del Ticino viene ottenuto esclusivamente da cosce fresche selezionate di suini allevati in Ticino. Quest’ultime giungono in azienda ogni settimana e vengono accuratamente controllate affinché rispecchino tutti i requisiti che garantiscano l’idoneità alla lavorazione, nella fattispecie a livello di temperatura e ph. Una volta raffreddate una notte in celle frigorifere a temperatura controllata, si passa alla fase di lavorazione vera e propria, che prevede la disossatura e la mondatura manuale al fine di escludere il grasso superfluo e gli eventuali nervetti. Successivamente le cosce sono aromatizzate, attraverso un procedimento che permette, tramite un’apposita siringatrice multiaghi, di iniettare nella carne una soluzione a base di aromi naturali, sale e vino. Questa fase permette di distribuire gli aromi in modo più omogeneo. Tra gli additivi non figurano i polifosfati.

A questo punto si passa alla cosiddetta zangolatura, dove la carne viene massaggiata a lungo in modo che gli ingredienti vengano assorbiti in modo ottimale. In seguito, le cosce vengono inserite in apposite pentole, detti stampi, e poste in forni a vapore a temperatura controllata per la cottura finale.

Quest’ultima, della durata di diverse ore, si protrae fino al raggiungimento della temperatura al cuore deside-

Cracker di culto

Blévita ◆ I biscotti che accontentano tutti i gusti!

I mitici cracker Blévita esistono alla Migros dal 1969. Che si tratti di grandi o piccini, a scuola, sul lavoro, durante una gita, nello sport, in viaggio, così come anche a casa, i biscotti Blévita rappresentano lo spuntino ideale in ogni occasione grazie alla grande varietà di gusti, alla buona fonte di fibre e alle poche calorie che contengono. Alcune curiosità e consigli su questi prodotti di culto a base di farina di farro o farina ai cinque cereali.

I cracker Blévita devono essere conservati in un luogo asciutto e al riparo dal calore, per esempio nella dispensa della cucina. Se li trasportate nello zainetto, fate attenzione a non rompere la confezione, per evitare che si deteriorino velocemente. Per gli spostamenti e gli spuntini spezzafame, consigliamo le confezioni piccole di otto biscotti. Conservati adeguatamente, i Blévita si conservano fino a sei mesi.

rata, vale a dire 69 gradi, che permette non solo di ottenere un prosciutto dalla giusta consistenza, ma anche di sanificare il prodotto. Infine, le cosce vengono lasciate raffreddare, estratte dagli stampi e confezionate per la vendita.

Il prosciutto cotto nostrano è un prodotto molto versatile che trasforma

ogni momento in una vera esperienza gustativa. È un grande classico come ingrediente di ogni panino imbottito o toast che si rispetti; arricchisce con gusto e delicatezza taglieri di affettati misti della nostra tradizione; ma sa dare quel tocco in più anche sulla pizza, con la pasta oppure abbinato a un insalata di stagione per un piatto

I biscotti rotti si possono per esempio utilizzare come guarnizione croccante per zuppe e insalate, oppure anche come topping per gelati, mescolandoli con un po’ di burro fuso e dello zucchero.

fresco e nutriente. Per gustare appieno il suo sapore unico, si consiglia di servirlo a temperatura ambiente.

Per uno spuntino più ricco e consistente, i Blévita si abbinano bene ai vostri ingredienti preferiti, come formaggio da spalmare, salmone, mozzarella, prosciutto o verdurine grigliate. Richiudete con un altro cracker ed ecco bell’e pronto un mini sandwich tutto da gustare.

I Blévita rimasti aperti possono diventare un po’ duri. In questo caso potreste farne del pangrattato, macinati grossolanamente, per una panatura croccante per nuggets di pollo o pesce, oppure anche per legare delle polpettine di carne macinata o degli hamburger fatti in casa.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 2 aprile 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino MONDO MIGROS 6
Da provare: Blévita Mini Paprica 130 g Fr. 3.–; Blévita al Gruyère DOP 6 x 8 cracker Fr. 3.95; Blévita Timo-Sale marino 6 x 8 cracker Fr. 3.95; Blévita style Tarte flambée 6 x 8 cracker Fr. 4.10

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Il celebre marchio svizzero Sula approda nei negozi specializzati Micasa con la collezione limitata SOLE, composta da oltre 40 prodotti dal design inconfondibile e senza tempo ispirato alla vita quotidiana e all’estate, per portare gioia, vivacità e funzionalità dentro e fuori casa. Dopo la collezione Picto creata in collaborazione con le FFS e il Museum für Gestaltung di Zurigo, SOLE è la seconda prestigiosa collaborazione lanciata da Micasa nei suoi nego-

zi della Svizzera, tra cui quello di S. Antonino. Il marchio Sula nasce una decina d’anni fa grazie all’estro creativo della fondatrice Nadja Stäubli, affermandosi in poco tempo come poliedrico studio di design specializzato nella creazione di tessuti, mobili e oggetti per la casa dallo stile mo-

derno e senza tempo. La collezione presente da Micasa propone oltre quaranta articoli funzionali che si adattano a qualsiasi ambiente rendendolo unico, grazie anche a tonalità vivaci e delicate quali acquamarina, rosa, verde menta, azzurro intenso fino al rosso che ricorda il tramonto. La selezione spazia da-

gli accessori per la casa come caraffe, bicchieri, ciotole, tovagliette, cuscini, tende da doccia, biancheria da letto; fino ai prodotti indispensabili per le giornate all’aperto, tra cui teli e borse da spiaggia, coperte da picnic, borse; come anche lettini e ombrelloni. Il tutto all’insegna della qualità e della gioia di vivere.

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Gli effetti dei social sulla salute pubblica

Tempi moderni ◆ Il sindaco di New York ha dichiarato pubblicamente guerra ai social che, a suo avviso, mettono a rischio la salute e la sicurezza dei giovani. Ne parliamo con lo psicoterapeuta Nicholas Sacchi

Nei mesi scorsi Eric Adams, sindaco di New York, ha dichiarato pubblicamente guerra ai social media – con tre cause a TikTok, Instagram, Facebook, Google e Snapchat – definendoli tossine ambientali per i giovani. Il Primo Cittadino non ha usato mezzi termini: «Non possiamo stare a guardare e consentire a Big Tech di monetizzare sulla privacy dei nostri figli e mettere a rischio la loro salute mentale». New York è la prima città degli Stati Uniti a prendere un’iniziativa simile nei confronti dei social media.

Di qualche giorno fa è poi la notizia chel’Autorità Antitrust italiana ha multato TikTok con 10 milioni di euro per controlli inadeguati sulla sicurezza dei minori. Il social è accusato di aver permesso che contenuti minacciosi per la sicurezza di minori e persone vulnerabili, come per esempio la sfida autolesionista conosciuta come «cicatrice francese», circolassero liberi e venissero sistematicamente riproposti agli utenti grazie all’algoritmo.

«Proibire senza educare non porta a risolvere la situazione. La proibizione genera curiosità, il social diventerebbe una sfida ancora più intrigante»

Queste notizie ci pongono di fronte a un bivio. Se è infatti ormai evidente che i social media possano avere effetti negativi per la salute pubblica, è anche vero che la soluzione non sta nel metterli semplicemente al bando: il rischio è quello di ottenere un effetto contrario, soprattutto nei più giovani. Ma è proprio a loro che vengono rivolte le maggiori preoccupazioni rispetto a un mezzo che è sempre più difficile controllare.

È da queste osservazioni che prende il via l’intervista allo psicoterapeuta ticinese Nicholas Sacchi, col quale abbiamo parlato del nostro rapporto coi social media e il mondo digitale.

Possiamo dare torto al sindaco Eric Adams, quando punta il dito contro i social media?

Va prestata maggiore attenzione ai social, ma soprattutto al loro utilizzo in completa autonomia da parte dei giovani. Sono mezzi funzionali, arricchenti, ma bisogna sapere che nascondono spesso situazioni difficili da gestire, in cui va abbassata la soglia di tolleranza rispetto a crude verità o spacciate per tali, che ci piombano addosso in maniera decontestualizzata, senza filtri. Quindi sì, è giusto suonare l’allarme, anche se va fatto con il dovuto distinguo dell’età e del mezzo.

La città di New York sembra reagire con il proibizionismo… È davvero la via migliore?

Sappiamo che proibire senza educare non porta a risolvere la situazione. La proibizione genera curiosità, il social diventerebbe una sfida ancora più intrigante contro l’autorità, e dato che il problema di fondo è l’assenza di controllo, in questo caso sarebbe controproducente. Ci vorrebbe invece sempre qualcuno che si sieda accanto ai ragazzi per imparare insieme come accedere a questi mezzi. Accompagnar-

li. Sui cellulari, attraverso i social, arriva del materiale assolutamente non curato, solo teoricamente scelto poiché in realtà tutto è in mano agli algoritmi. C’è un bellissimo volume, di Johann Hari, L’attenzione rubata (Nave di Teseo) che illustra come la predisposizione degli algoritmi sia catturare la nostra curiosità tendendola verso il polo negativo delle cose, mettendoci così in una situazione di attenzione morbosa: in questo modo non ci stacchiamo dallo schermo. Con il bambino questa tendenza è accentuata: vuole il bello, ne è attratto, ma se viene indotto a vedere temi che suscitano per esempio paura, avrà la tentazione di combatterla continuando a stare nel social per capirne di più e stigmatizzarla, sottoponendosi a ulteriori contenuti di terrore. Noi adulti sappiamo come funzionano gli algoritmi, siamo consapevoli che possono creare dipendenza, siamo responsabili. Ma non lo possiamo chiedere a un bambino, o a un adolescente!

Perché i social media possono nuocere ai ragazzi?

I ragazzi sanno fare un sacco di cose con lo smartphone, ma poi nell’incontro con l’altro si perdono, si sciolgono. Per esempio, mi capita sempre più spesso che giovani pazienti annotino gli appuntamenti per le mie sedute nelle Note del telefono. Esiste l’app calendario, ma forse per loro è un legame troppo stretto con la realtà. Fissano invece nel virtuale un appuntamento con il reale, lanciano nell’etere l’appuntamento, mettendo di fatto il reale nel virtuale, lasciandolo lì. È emblematico. Il virtuale poi continua a nutrirci. Anche se facciamo l’atto cosciente di aprire un social, ne siamo subito inondati. Inizia il meccanismo di assuefazione all’informazione, voyerismo sponsorizzato dallo scroll continuo. Dopo un’ora abbiamo la sensazione di non aver fatto niente, di essere stati appunto inondati. È una «nolontà»: ho fatto qual-

cosa che non volevo. Alla fine sono stanco, svuotato. Noi adulti abbiamo una diversa percezione del tempo che scorre e come usarlo, per questo discutiamo con i ragazzi sull’uso che ne fanno quando si fanno inondare da un social: hanno perso un’ora spostati da una corrente che non era di loro volontà.

Un mondo che però ha permesso ai ragazzi di creare una rete… Certo, la rete reale, la piazza, si può trasferire per esempio su Fifa. Se non posso giocare a pallone la sera, sposto lì il gioco, con gli amici veri. Diverso è quando ci sono persone che non conosco, altri «amici», un gruppo di lavoro, con un task preciso. Nasce l’illusione di essere in un gruppo, come quello delle vacanze estive. In questo «effetto Valtour» i ragazzi vivono in bolle che continuano, e lì si rifugiano. Con il Covid questo rifugio era una manna dal cielo. Per molti però una condanna, perché non sono più tornati nella realtà, imprigionati in quella bolla.

E questo continua ancora oggi? Sì, perché se alcuni hanno saputo giocare l’alterità in forma ibrida, altri l’hanno patita con grosse ansie. Come affrontare ora l’altro reale, una persona che va oltre la propria immaginazione o le proprie aspettative, che richiede un contesto, una narrazione continua che sceglie e può anche non esserci? L’altro virtuale, invece, appare e scompare a seconda della connessione e della mia volontà. Questo nega la possibilità che ci sia una storia, una memoria, di quella persona. È qualcosa di frammentato che viene e parte a ondate. Emozionante, ma non gratificante. A questo proposito è ispiratore il testo Le non cose di Byung-chul Han (Einaudi).

Un altro problema di salute legato ai social network è per i ragazzi la perdita di autostima derivata dal continuo confronto con un mondo

Lugano dai tavolini dell’Olimpia

Libri ◆ Lo storico gerente Guido Sassi racconta la sua Piazza

idealizzato, patinato, irreale. Nel mondo virtuale noi non siamo presenti nella nostra interezza, continuità e identità. Produciamo una precisa identità, mettiamo alla mercé degli altri la nostra vita, proponiamo sui social la sua versione ideale. Tutti lo fanno, e questo diventa uno stimolo per idealizzarla ancora di più.

E che fine fa l’immagine che noi possiamo avere di noi stessi in questo mondo ideale?

La rete è andata a cogliere il bisogno dell’essere umano di identificarsi per dare continuità al proprio io. Internet ci dà questa possibilità e noi aderiamo. Con i social avviene in maniera ancora più rapida.

E per quanto riguarda il bombardamento delle immagini?

L’arrivo degli smartphone ha cambiato il rapporto con la realtà. Un telefono che fa foto continuamente scompone il mondo in immagini immediate. La vista, che è il senso più accattivante, il primo che ci scatena pulsionalità o ribrezzo, reagisce all’immagine immediatamente. Con Instagram il fenomeno è esploso, non si condivide per relazionarsi. La fotografia arriva forte e vigorosa, ma non vuol dire nulla, è pornografica nel senso che assolve a un bisogno primario senza l’implicazione di una relazione.

Come possiamo convivere con tutto questo?

Non possiamo e non dobbiamo togliere i social dalle nostre vite. Al contempo non possiamo lasciare in mano un oggetto ai nostri figli senza saperlo usare anche noi. Dobbiamo essere curiosi come loro. Se lasciamo solo a loro la scoperta, senza rintracciare il bandolo della matassa, li perdiamo. Bisogna aprire quindi un canale, con i figli, confrontarsi reciprocamente sulle proprie preferenze. E mettere dei filtri, un genitore ha il dovere di filtrare quello che passa nella rete.

«È il 4 aprile 1981 quando durante una mite giornata primaverile, viene inaugurato il nuovo Olimpia. Un locale dallo stile sobrio e al tempo stesso elegante, con arredi che richiamano quelli tipici milanesi». Inizia così l’avventura di Guido Sassi al ristorante per antonomasia dei luganesi che lui stesso definisce «la mia università della strada» nel suo libro appena pubblicato dalle Edizioni San Giorgio e intitolato Come su un palcoscenico. La mia Lugano da Piazza Riforma. Ed è davvero un punto di osservazione privilegiato l’Olimpia dal quale per quarant’anni Sassi guarda la città passargli sotto gli occhi, non foss’altro perché il locale è all’interno di Palazzo Civico. Fu il sindaco Ferruccio Pelli, racconta Sassi, che fin dall’inizio ricordò all’allora giovane gerente «che quello non era un locale qualunque, mi disse: “Durante il giorno sopra ci siamo noi, alla sera sulla piazza ci sei tu”».

Molti gli aneddoti, i ricordi, le personalità, gli eventi e i progetti che Sassi descrive e ripercorre nel suo breve libro arricchito da molte fotografie che a parecchi luganesi stuzzicheranno la nostalgia, una su tutte quella del mercato in Piazza Riforma datata 1976. Ma quella di Sassi non è una pura e semplice «operazione nostalgia», né un amarcord che piagniucola sui bei tempi andati (certo, c’è anche la Lugano del bel viif !), nelle intenzioni dell’autore si coglie invece una forte tensione verso il futuro, una volontà propositiva e positiva che vorrebbe vedere i luganesi più attivi, che elabora idee, che sprona alla laboriosità e alla creatività perché «animare la città è un mestiere difficile». Anche se Sassi si rende conto della complessità dei problemi odierni ammette in tutta sincerità: «Ho difficoltà a contenere la mia veemenza quando parlo di Lugano, forse perché la amo troppo». Il libro è un flusso di ricordi e di emozioni che accomunano molti luganesi e che svelano a chi a Lugano non è nato uno scorcio di vita cittadina. Il ricavato della sua vendita sarà a favore del progetto di restauro dell’Oratorio di San Giorgio sulla collina tra Magliaso e Agno, un’antica chiesetta costruita attorno al 1650 – 1700 oggi in grave stato di degrado. / Red.

Bibliografia

Guido Sassi, Come su un palcoscenico. La mia Lugano da Piazza Riforma, Edizioni San Giorgio, 2024

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Una lettera all’Europa dall’industria delle auto

Motori ◆ Luca de Meo, CEO di Renault Group, lancia un appello alla politica perché favorisca una forte strategia industriale

«Dal 6 al 9 giugno, i cittadini dell’Unione Europea eleggeranno il loro Parlamento per i prossimi cinque anni e a Bruxelles si insedierà una nuova Commissione». Così inizia una «Lettera all’Europa» tradotta in una dozzina di lingue che Luca de Meo, CEO di Renault Group, ha inviato il 19 marzo ai principali protagonisti della politica europea mentre la condivideva con tutti gli organi di stampa mondiali. Anche se de Meo l’ha chiamata «lettera» in realtà si tratta di un dossier di venti pagine articolato su più punti in cui elenca alcune raccomandazioni all’Europa per ciò che concerne la mobilità a 360°.

Ma chi è Luca de Meo? Manager a cui sono riconosciute indubbie capacità, è passato per la prima volta agli onori della cronaca per essere stato uno dei «Marchionne Boys». Un ristretto gruppo di quarantenni rampanti di cui si era circondato l’italo-canadese Sergio Marchionne quando era Amministratore Delegato di Fiat Chrysler Automobile. Luca de Meo, milanese con genitori pugliesi è nato nel ’67 si è formato all’università Bocconi e ha lavorato in diversi Gruppi Automobilistici. Da Fiat a Volkswagen passando per Toyota. Dal 1° luglio 2020 è il numero uno mondiale del Gruppo francese Renault. Dal 2023 è presidente di ACEA, l’Associazione dei Costruttori Europei di Automobili. Ma torniamo alla «Lettera all’Europa» in cui il CEO di Renault spiega come «realizzare con successo e in modo sinergico la transizione energetica dell’industria automobilistica». «Attraverso le sue decisioni e i suoi regolamenti, l’Europa influenza l’economia, ed anche la nostra vita quotidiana – afferma de Meo –. Le sue scelte hanno un grande im-

patto su molti settori di attività, tra cui l’industria automobilistica». Il manager, che si definisce europeista convinto, ricorda che si sta parlando di investimenti dedicati alla transizione che richiedono la creazione di un quadro normativo di riferimento chiaro e stabile. «L’industria automobilistica – continua de Meo – occupa 13 milioni di persone in Europa. Queste cifre sono proporzionali al peso economico del settore, che rappresenta l’8% del PIL europeo. È un’industria che esporta più di quanto importa, generando un saldo commerciale positivo tra l’Europa e il resto del mondo di 102 miliardi di euro».

Ma che cosa preoccupa il manager? «Stiamo assistendo a crescenti segnali di indebolimento che, non

intervenendo, potrebbero essere motivo di reale preoccupazione». Spiega de Meo. «In primo luogo, il baricentro del mercato automobilistico mondiale si è spostato in Asia: il 51,6% delle automobili nuove viene venduto in questa parte del mondo. I modelli elettrificati (veicoli elettrici e ibridi plug-in) stanno aprendo la strada, e rappresentano il 14% delle vendite globali. La Cina è in rapida ascesa nel segmento dei veicoli 100% elettrici. Sostenuta dall’enorme mercato interno pari a 8,5 milioni di veicoli elettrici venduti nel solo 2023». Nella sua «Lettera» parla di sfide da affrontare simultaneamente. Inizia con la «decarbonizzazione» che prevede di azzerare le emissioni dei veicoli in Europa entro il 2035 con 252 miliardi di euro stanziati tra il

2022 e il 2024 dai costruttori automobilistici europei. Poi c’è la «rivoluzione digitale» che prevede che il software raddoppierà il suo valore all’interno delle auto entro il 2030 sino a raggiungere il 40%. E poi i «regolamenti» in continua evoluzione, «ne vengono introdotti da 8 a 10 nuovi ogni anno» e chiedono alle quattroruote di essere sempre più sofisticate ed efficienti in termini di consumi. Requisiti ambientali e sociali che comportano test e controlli da superare. Questo ha influito sul peso (+60% in vent’anni) e sul costo delle automobili (+50% in vent’anni) che è aumentato provocando come conseguenza l’invecchiamento del parco circolante. Ecco allora che l’età media è passata da 7 a 12 anni.

Michele Arnaboldi, architetto ticinese

Altra spina nel fianco è secondo de Meo la volatilità tecnologica. «La creazione di una “gigafactory” costa da 1 a 3 miliardi di euro, ma può risultare obsoleta pochi anni dopo, se non prima ancora di essere inaugurata. La tecnologia delle batterie, infatti, è tutt’altro che stabile: le innovazioni si susseguono a ritmo serrato». A non far dormire sonni tranquilli ai costruttori ci si mette anche la volatilità dei prezzi. «Il prezzo delle materie prime critiche (CRM) è soggetto a forti oscillazioni. Ad esempio, in due anni il prezzo del litio è aumentato dodici volte e poi si è dimezzato!».

A de Meo è chiaro che oggi «produrre auto in Europa è più costoso. Un’auto del segmento C “made in China” ha un costo di produzione inferiore di 6000-7000 euro (circa il 25% del prezzo totale) rispetto a un modello europeo equivalente». De Meo lamenta una concorrenza sbilanciata: «la Cina supporta l’industria automobilistica, gli USA incentivano gli investimenti e intanto l’Europa pensa solo a regolamentare». Il risultato? Nel 2023 il 35% dei veicoli elettrici esportati in tutto il mondo era di provenienza cinese. Ed entro il 2030 il 55% delle vendite sarà rappresentato da veicoli elettrici contro l’8% odierno.

Va dato merito a de Meo di aver proposto nella «Lettera» che lui stesso definisce «appello» una serie di dettagliate soluzioni che sommariamente si basano sulla cooperazione tra concorrenti e tra settori industriali e anche un po’ di protezionismo continentale. Conclude dicendo: «È in gioco la prosperità dell’Europa». C’è da credergli? Per quanto riguarda il settore automotive europeo e le circa 13 milioni di persone impiegate, probabilmente sì.

Un ricordo ◆ Il 20 marzo è scomparso il costruttore locarnese. È stato allievo di Snozzi e ha edificato molte opere rappresentative sul territorio del Cantone

La critica internazionale che, ancora nel secolo scorso, ha raccontato le idee innovative dell’architettura ticinese, considerava i giovani Michele Arnaboldi e Raffaele Cavadini come gli allievi di Luigi Snozzi che sono stati capaci di trasformare in architettura costruita e abitata i concetti elaborati dal maestro. Tra la fine degli anni 80 e la prima parte degli anni 90, sia Arnaboldi sia Cavadini hanno costruito alcune abitazioni collettive nella periferia dei centri urbani del Sopraceneri, che – per gli appassionati di architettura – era un obbligo visitare dopo le più note case unifamiliari di Snozzi, per capire la novità ticinese.

Le loro opere hanno cominciato a segnare il territorio, tentando di resistere alle vaste trasformazioni turistiche e alla diffusione insediativa conseguente allo sviluppo economico e sociale del dopoguerra.

A soli 71 anni, lo scorso 20 marzo Michele Arnaboldi ci ha lasciato. Era nato nel 1953 ad Ascona e, dopo avere lavorato alcuni anni con Snozzi, nel 1985 aveva aperto il suo studio a Locarno, realizzando numerosi edifici e sperimentando tipologie e modelli abitativi inusuali.

Da Snozzi, e anche da Livio Vac-

chini e da Aurelio Galfetti, ha ereditato l’uso del cemento armato, facendolo diventare il materiale per eccellenza della propria distinguibile poetica. Come è noto, il gruppo di architetti ticinesi nati nel corso degli anni 30, che avevano esposto le loro opere a Zurigo nel 1975 e che sono considerati i fondatori della modernità ticinese, avevano linguaggi e approcci tra loro diversi, ma alcuni caratteri comuni, oltre alla forte appartenenza al territorio. Uno di questi era l’adozione del cemento armato, che Le Corbusier aveva eletto a vera e propria cifra della modernità e che ha distinto le opere di molti di loro.

La coincidenza perfetta tra la forma dell’edificio e la sua struttura portante, prevalentemente realizzata in cemento armato, è stata il concetto che ha rivoluzionato l’architettura all’inizio del 900 e che ha travolto le tradizioni storiciste ottocentesche, che avevano di fatto relegato il mestiere dell’architetto a disegnatore di facciate. Nel lavoro di Arnaboldi, gli involucri di cemento armato sono diventati composizioni dalla geometria assoluta, con gli spigoli perfetti, e con le superfici eseguite e trattate come piani di un modello realizzato a scala reale.

Con il rilievo crescente della que-

stione energetica, con l’imperativo, cioè, di ridurre fino a cancellare le dispersioni termiche, la coincidenza tra forma e struttura è diventata un tema più complesso e più concettuale che direttamente percepibile nella materialità dell’architettura. La necessità di adottare strati di isolamento termico da combinare con le strutture in cemento armato in modo da non rinunciare alla forza espressiva di quest’ultimo ha favorito lo sviluppo di ricerche e l’affinamento di saperi pro-

gettuali e nuove tecniche nelle quali Michele Arnaboldi eccelleva. Il suo insegnamento all’Accademia di Architettura di Mendrisio, dove dal 2009 è diventato professore di ruolo, ha formato molti nuovi architetti con il metodo della «bottega», cioè con la trasmissione diretta del suo mestiere e con la riflessione sulla responsabilità civile che il mestiere comporta. Trasmissione che è stata favorita dalla sua generosità, dalla semplicità e trasparenza critica, con le quali illustrava le

sue convinzioni e dalla passione con la quale le sosteneva. La relazione del singolo edificio con il più vasto contesto territoriale, intesa come elemento decisivo della progettazione – che era il nucleo centrale del pensiero di Luigi Snozzi – è stato l’orizzonte all’interno del quale tutto il lavoro di Michele Arnaboldi è stato concepito. Con il suo impegno nella progettazione a grande scala ha realizzato il disegno di trasformare effettivamente la realtà governando le trasformazioni, come nella pianificazione territoriale della valle di Poschiavo, nei Grigioni. La comunità di questa valle, interamente dedicata all’agricoltura biologica, gli aveva affidato il compito di organizzare gli insediamenti e le infrastrutture in modo coerente con la sostenibilità ambientale che era realmente praticata. Pochi giorni prima di morire, Michele e il suo studio si sono aggiudicati (insieme a Michele Gaggini di Lugano) il concorso di progetto per il nuovo ospedale di Bellinzona. Un lavoro di grande importanza, che impegnerà il suo studio per molti anni e che lascerà a Giubiasco, al centro della valle del Ticino, il segno costruito del suo pensiero.

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Luca de Meo durante l’Assemblea generale degli azionisti del 2021. (© Olivier MARTIN-GAMBIER/Renault Group)
USI-ARC/Alberto Canepa

Le avventure del corpo nel Medioevo

Mostre ◆ Al Museo nazionale di Zurigo un percorso in sette tappe analizza la fisicità umana nelle sue varie forme e manifestazioni

Il Medioevo è sempre tra noi. Epoca lunghissima – mille anni di storia –ha lasciato tracce nella politica, nell’economia, nell’architettura e nell’arte, nella letteratura, nel cinema. All’esperienza comunale medievale si è rifatta ad esempio la Lega Nord per l’indipendenza della Padania sul finire del secolo scorso; il sistema delle corporazioni anima ancora la vita socio-economica di molte città nordiche («Zünfte »); il romanico delle nostre chiese di valle desta sempre ammirazione, così come la maestosità delle cattedrali gotiche… Suggestioni continue provengono poi dai romanzi (si pensi al successo del Nome della rosa di Eco) e dalla cinematografia, e finanche dalle feste e dai tornei che molti borghi mettono in scena ogni anno. Medioevo, età di mezzo a lungo condannata come tenebrosa e oscurantista, e ora reimmessa nel circuito dell’industria culturale come intreccio formidabile di «audaci imprese» e leggende, avventure cavalleresche e ascesi mistiche, battaglie epiche e castelli inespugnabili. Ma un conto è la rappresentazione, spesso fantasiosa, del periodo; un altro è la ricostruzione su base scientifica della vita reale delle persone, uomini, donne e bambini, nobili e plebei, sacerdoti e mercanti, la varia umanità che popolò l’Europa cristiana dalle invasioni barbariche fino alle soglie del Rinascimento.

A questo compito si dedica ora il Museo nazionale nella sua sede principale di Zurigo attraverso un’esposizione che pone al centro il corpo. Il corpo umano conteso, venerato oppure svilito, raffigurato con tratti realistici oppure trasfigurato come esigeva la patristica cristiana. Il Museo propone un percorso in sette tappe, che si apre con il trittico del Carro di fieno di Hieronymus Bosch e si conclude con l’Età dell’oro di Lucas Cranach. Tra questi due capolavori, sapientemente spiegati per mezzo di didascalie luminose, sfila il corpo nelle sue varie forme e manifestazioni, dalla nascita alla morte, dalla nudità iniziale fino alla decrepitezza dell’autunno della vita.

Viale dei ciliegi

Bruce Ingman-Ramona Reihill

Dick Bruna

Edizioni Lupoguido, collana «The Illustrators»

Si rivolge agli adulti la splendida collana «The Illustrators», nata in Inghilterra a cura di Quentin Blake e Claudia Zeff e disponibile in edizione italiana grazie alla sensibilità dell’editore Lupoguido, che ancora una volta dimostra di proporre libri di alta qualità e dalla parte dei bambini, sia quando, come nei vari volumi del loro bel catalogo, a essi direttamente si rivolgano, sia quando, come in questo caso, rendano onore agli artisti che all’infanzia hanno dedicato gran parte della loro carriera, affermando al contempo l’illustrazione come forma d’arte. Troviamo tra i titoli in collana, ad esempio, i nomi di Tove Jansson (autrice degli indimenticabili Mumin), Raymond Briggs (per il quale in copertina abbiamo il celebre Pupazzo di neve), o Judith Kerr (per lei in copertina si affaccia Una tigre all’ora del tè).

È invece la coniglietta Miffy (nijntje in originale), con i suoi occhi come pallini neri e la bocca a «ics», che si

Perfette sono le figure della Sacra Famiglia e dei martiri, che pur sottoposti a supplizi orrendi, risplendono circonfusi di luce divina; opposta è l’immagine che gli artisti offrono degli aguzzini: sgraziati e malvagi, posseduti dal demonio. Ecco, il diavolo è uno dei grandi protagonisti di questa mostra. Appare nel paradiso terrestre sotto le spoglie del serpente tentatore per poi insinuarsi perfidamente nelle fattezze di un caprone nell’anima umana, cercando di strapparla all’influenza di Dio. La mano del maligno è onnipresente, è all’origine di malattie e di epidemie come la lebbra e la peste, e guida le sue vittime sulla strada del vizio e della perdizione. Il corpo più ambìto è quello femminile, depositario della vita e oggetto del desiderio. Possederlo vuol dire catturarne l’anima e quindi impadronirsi del creato. Per questo l’influenza demoniaca va combattuta con ogni mezzo, lecito e illecito, dall’esorcismo al rogo. Ossessionati dal peccato, teologi e chierici, appoggiati dalle autorità temporali, predispongono un dispositivo difensivo centrato sulla sessualità. Controllare la sfera sessuale è fondamentale per la Chiesa, il cui biopotere è nel Medioevo potenzialmente totale: mondano e spirituale. Si è detto della durata del Medioevo: dieci secoli. È quindi arbitrario osservare questo ampio arco temporale da un unico angolo visuale. Pur essendo vigile e inquisitorio fin nelle camere da letto, lo sguardo ecclesiastico non riesce a governare le anime come vorrebbe. Qualcosa gli sfugge, soprattutto nel basso Medioevo e fino alle soglie del Rinascimento. I mutamenti non riguardano tanto le classi inferiori, il «volgo», i sudditi alle prese con le fatiche di una quotidianità che non concede tregua, quanto la nobiltà, la vita di corte, le case regnanti. Qui inizia a farsi strada un modo di vivere più libero che si prende cura delle membra, intervenendo sulle acconciature, sull’igiene, su vestiario e calzature dalle fogge stravaganti. Attraverso prontuari e stampe le classi superiori

apprendono il gioco della seduzione, abbandonandosi alla voluttà e riscoprendo i benefici delle acque termali e dell’esercizio fisico. Tutte pratiche che insospettiscono, condannate dalla Chiesa come anticamera della «concupiscenza della carne».

Ma al corpo, al suo funzionamento e alle sue patologie, s’interessa anche la scienza. All’inizio in modo superficiale ed empirico, attraverso l’esame del colore delle urine e del sangue, e poi in modo sempre più attento e pervasivo, sezionando cadaveri e scomponendo viscere. Nelle dimore signorili entrano portatori di saperi che al corpo malato dedicano un’attenzione sempre meno condizionata da superstizioni e credenze popolari: sono cerusici, chirurghi, levatrici, farmacisti.

Raccolgono e classificano informazioni che poi travasano in grossi manuali riccamente illustrati. Siamo dunque di fronte a «un autre Moyen Âge», come amava dire Jacques Le Goff, uno storico che al corpo ha dedicato un volume edito in italiano da Laterza. Una scena, quella medievale, sempre più gremita di figure, sia umane che animali, nonché di miti, congiure, crociate, invenzioni, monache e prostitute. Basta aprire i libri di Alessandro Barbero, Chiara Frugoni, Piero Camporesi per incontrare personaggi e momenti che ancora popolano il nostro immaginario che si vuole disinibito e post-moderno. Sappiamo invece quanta parte occupi la corporeità nell’odierno spazio mentale: il corpo esibito, levigato, mortifi-

cato, tatuato, scansionato in ogni sua sezione da apparecchi diagnostici sofisticati, per tacere della piaga dei corpi femminili violentati e uccisi. Ieri come oggi il corpo è un campo magnetico, in cui confluiscono tensioni e forze contrastanti, fisiche e spirituali: «Organismo da sanare, forza lavoro da impiegare, carne da redimere, inconscio da liberare» (Umberto Galimberti).

Dove e quando Desiderati, curati, martirizzati. I corpi nel Medioevo. Progetto espositivo ideato da Aaron Estermann e Rahel Grunder, Museo nazionale, Zurigo, fino al 14.7.2024. Didascalie nelle tre lingue nazionali + inglese.

stagliano sul muso bianco dallo spesso contorno nero, a portarci nel mondo del suo autore, l’artista olandese Dick Bruna. Ce ne raccontano la vita Bruce Ingman e Ramona Reihill, trasportandoci con calore e cognizione nell’Olanda (e nell’Europa) del Ventesimo secolo, attraverso le vicende storiche e storico-artistiche che più influenzarono l’artista, nato a Utrecht nel 1927 da una famosa famiglia di editori olandesi. Il suo temperamento creativo si manifestò sin da subito, poi nutrendosi alla fonte di pittori europei, prevalentemente francesi (cultura da lui prediletta, anche in ambito musicale), Matisse e Léger su tutti, che lo

influenzarono molto nelle sue opere. Opere che in questo volume possiamo ammirare in tutta la loro bellezza e varietà: disegni, dipinti, manifesti pubblicitari, programmi di concerti, murales, copertine per le celebri collane della casa editrice di famiglia, le quali gli valsero spesso gli elogi degli stessi autori dei libri: Georges Simenon ad esempio gli scrisse «la copertina che hai realizzato per il mio nuovo libro è persino più essenziale della precedente. Cerchi di raggiungere nel disegno quello che io cerco di ottenere nella scrittura». L’essenzialità, in effetti, come ben si vede nell’iconica Miffy, nata nel 1955 e proseguita nelle sue avventure per quasi sessant’anni (diventando anche marchio di merchandising, serie di francobolli, cartoline, e molto altro) è il tratto tipico di Bruna: colori pieni e vivaci ma non troppi, pagine ariose, libere, con i personaggi ben evidenziati dai contorni neri, pochi tratti a esprimere azioni e stati d’animo, testi sobri in sans serif, senza maiuscole: grande energia comunicativa nella semplicità. Come quel suono di «gong» con cui il suo amato Matisse voleva che i colori della sua cappella di Vence col-

pissero il visitatore, così Dick Bruna, con la sua coniglietta, ha lasciato un segno tenero, ma fortemente risuonante, nell’immaginario dei suoi piccoli lettori.

John Yeoman & Quentin Blake

Piume in libertà

Piume in libertà (Da 7 anni)

Torna in libreria una gran bella storia. Uscita in originale nel 1993, e pubblicata una prima volta in italiano da Mondadori nel 2000, col titolo Cervelli di gallina, viene ora riproposta dall’editore Camelozampa, con un nuovo titolo, una nuova traduzio-

ne e con il nome dell’illustratore opportunamente in copertina accanto a quello dell’autore, giacché i due artisti inglesi hanno pubblicato insieme molti libri di successo, in cui il talento narrativo dell’uno si integra perfettamente a quello pittorico dell’altro. Questa storia, a più di trent’anni di distanza, non ha perso nulla della freschezza e del trasognato humour che la pervadono, anzi in quanto a tematica è ancora più attuale, perché evidenzia (con la delicatezza che solo due grandi artisti come loro riescono ad esprimere) la drammatica, folle realtà degli allevamenti intensivi. «Flossi e Bessi abitavano alla “Radura Felice”. O almeno questo era il nome stampato sulle scatole delle uova. In realtà si trattava di un capannone molto lungo, con un corridoio al centro e gabbie per pollame impilate su entrambi i lati…». Alle nostre due galline si aprirà però, inaspettatamente, una via di fuga, che loro tuttavia faticheranno a intraprendere, ignare come sono che esista altro oltre alla misera realtà artificiale con cui hanno vissuto ogni giorno. Ma l’avventura avrà inizio. E sarà un’avventura di vita vera e libera.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 2 aprile 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino 11 SOCIETÀ
Cura termale e piacere. I bagni di Leuk (?), Hans Bock il Vecchio, 1597 circa, olio su tela. (Kunstmuseum Basel)

Approdi e derive

Nel deserto dei migranti

«Ho camminato diciannove ore, fino alle sei del mattino, montagne di sabbia, valli di sabbia, tutto di sabbia (…) Andrò avanti ancora un po’ (…) ho camminato tutto il giorno. A piedi nudi. (…) mi sono tolto i pantaloni e li ho arrotolati sulla testa per proteggermi dal sole (…) alla fine li ho abbandonati sulla sabbia. E sono andato avanti così, in mutande e maglietta. A piedi nudi, sulla sabbia bollente. A passi sempre più corti. Alle diciannove zero zero sono rimasto senz’acqua, e ho calcolato: “quest’uomo tra poco morirà”. Quando dico quest’uomo, quell’uomo sono io. Io e il deserto e il deserto è senza fine».

Ibrahima Balde è sopravvissuto anche a questo momento di disperazione. Durante la traversata del deserto, dalla sua Guinea alla Libia, alla ricerca del fratellino che sognava l’Europa, ha superato prove ancor più faticose, ripetute mortificazioni del corpo e dell’anima. Ferite

Terre Rare

indelebili che Ibrahima condivide con tanti altri ragazzi come lui, con un’intera umanità, fragile, disorientata, alla ricerca di qualcosa di sempre sfuggente, qualcosa a cui aggrapparsi per poter dare almeno un nome alla propria vita.

Il fratellino in Europa non è mai arrivato, lui invece, dopo un cammino estenuante, sempre sospeso tra la speranza di poter continuare a vivere e l’accettazione disincantata di un imminente morire – di sete, di fame, di torture – è arrivato in Spagna. Di questo suo interminabile deserto, ha raccontato tanti dettagli, uno per uno, a un giornalista e poeta popolare basco che ne ha trascritto le parole, con amorevole cura, una per una, senza interferenze (Fratellino, Feltrinelli, 2020).

Ibrahima mi ha ospitata dentro le sue parole-mondo. Parole che hanno camminato con lui, con i suoi passi nel deserto, fino a invadere il mio cuore in modo inatteso e sorpren-

Il diario elettronico

I nostri smartphone, per poco che si possa parlarne male, hanno il difetto dell’ambivalenza. Occorre dirlo. Sono in grado di mandarci messaggi contraddittori. Da un lato ci esortano a vigilare sulla nostra assiduità nell’uso. Chi scrive riceve, ad esempio, ogni lunedì mattina un rapporto sull’utilizzazione fatta nel corso della settimana precedente. («Attenzione, questa settimana hai usato il telefono per X ore: imposta ora una pausa di utilizzo che ti permetta di limitare le ore di uso»). D’altro canto, nel giro di qualche minuto riceviamo invece questo messaggio di tenore del tutto diverso: «Salve. Hai mai provato a compilare il tuo diario giornaliero? Prendi l’abitudine. Ricevi una notifica quando è ora di scrivere nel diario in base al tuo programma personalizzato».

Per gli utenti meno avvezzi alla scrit-

tura di un diario, attività impegnativa certo, ma la cui pratica va lasciata comunque all’istinto personale, il programma suggerisce alcuni spunti di grandissima banalità: «Descrivi una persona nella tua vita per la quale provi gratitudine»; «Pensa a un brano che ti piace molto. Che sensazione hai provato quando l’hai sentito per la prima volta?»; «Cosa rifaresti in modo diverso tra le attività che hai svolto oggi?». Ora, stupisce pensare che esista da qualche parte nel mondo un programmatore che seriamente creda nell’efficacia di questi suggerimenti. In primis anche per motivi di facilità d’uso. Avete mai provato ad articolare qualche riflessione appena un po’ elaborata e con un minimo di senso compiuto digitando sulla micro-tastiera di uno smartphone? Più la frase necessita di approfondimento e di respiro, più i pensieri si rincorro-

Le parole dei figli

«Gaslight, Gatekeep, Girlboss»

«Gaslight, Gatekeep, Girlboss!» è il motto di vita pieno di ironia delle Gen Z nato come parodia del nostro «Live, Laugh, Love », ossia «Vivi, Ridi, Ama». L’avete presente? È la frase motivazionale che all’inizio degli anni Duemila campeggia su tazze, cuscini e poster. Ovviamente le adolescenti di oggi la considerano cringe (imbarazzante) e ne Le parole delle figlie preferiscono una frase che indica un comportamento da baddie, che sta per cattiva ragazza. Dove essere una cattiva ragazza non ha una sfumatura negativa, ma sta a significare semplicemente la capacità di farsi rispettare, l’essere confident e lo stare bene con sé stessa.

Ma cosa vuol dire «Gaslight, Gatekeep, Girlboss!»? Prendiamo innanzitutto i tre termini a uno a uno. Gaslight letteralmente sta per luce a gas e indica quel tipo di illuminazione dove la

dente. Nelle sue parole mi sono sentita come coloro che stavano in ascolto delle parole di Socrate per cercare di capire dove fosse la vera realtà. Se torno a parlare dei disperati del mare è perché questo racconto, scoperto per caso qualche giorno fa, mi ha offerto un’esperienza preziosa, un altro sguardo sul mio abitare la vita assieme agli altri, un vissuto ulteriore rispetto alla consueta condivisione nel vedere le immagini dei barconi e nell’ascoltare le notizie dei naufragi di tanti ragazzi, donne e bambini. Ho incontrato tra queste pagine il valore e il senso di una possibilità forse più vera, più radicale, di fare esperienza del dolore dell’altro. Non solo quella condivisione che da lontano rende anche mio l’urlo di sofferenza di un mare ferito; non il malessere che mi prende nell’assistere impotente al moltiplicarsi delle ingiustizie del mondo. E nemmeno quella sofferenza empatica con cui possiamo avvicinarci all’altro e al suo dolore, né quel

sentimento che ci capita di sperimentare quando riconosciamo qualcosa di profondamente nostro nei protagonisti di opere letterarie. Tutte queste esperienze, per quanto intensamente vissute, lasciano sempre l’ io e l’altro al proprio posto. Sono io che lo vedo, lo guardo e lo accolgo; sono io che accolgo in me la presenza dell’altro, i suoi occhi in attesa che mi interpellano da lontano. Siamo abituati a guardarci intorno, a osservare il mondo e a comprenderlo secondo i criteri della razionalità che rende ogni realtà un oggetto conoscibile. Può accadere però che la realtà non si lasci addomesticare dal nostro sguardo e dal bisogno di contenerla. Tra le pagine di Fratellino mi è accaduto proprio questo: le cose guardate da Ibrahima sono diventate il mio sguardo, le sue emozioni, i suoi sentimenti, hanno cominciato a scandire i battiti del mio cuore. La percezione del dolore dell’altro era già oltre: un di più di realtà, e di verità, mi ha

gettata oltre la condivisione di tante tragedie raccontate, oltre le immagini e le parole. Tra queste pagine, il «tu » si è come dissolto: un’assenza di differenza, una pura presenza, stava forse a indicarmi anche un di più del mio esserci

Questa esperienza è stata infatti come un rivelarsi a me stessa di qualcosa di più grande. Qualcosa che scavalca ogni distinzione razionale per accogliere verità più radicali custodite nel sapere del cuore. Forse è proprio in questi vissuti che si esprime il tessuto più autentico della nostra comune appartenenza all’umanità, anche in situazioni meno dolorose, anche in attimi di felice condivisione. Il valore, la grazia di momenti in cui riusciamo a percepire l’assenza di differenza tra noi e l’altro, è un dono straordinario della mente e del cuore che ci aiuta a rimanere abbracciati alla nostra umanità e a resistere a tutto ciò che ci allontana da noi stessi, prima ancora che dall’altro.

no veloci e più gli errori di battitura vi obbligano ad acrobazie della motricità fine.

Ma il punto non è tanto questo: in fondo ognuno si complica la vita come meglio crede. La cosa che preoccupa un po’ è vedere come i programmatori delle app si addentrino in territori psico-sociologici, cercando di trasformare gli smartphone in supporti utili alla nostra vita interiore. Noi pensavamo che questi potenti apparecchi potessero semplicemente servire a rendere più agevoli e funzionali le necessità pratiche della nostra quotidianità. Pagare le fatture, cercare informazioni, leggere i giornali, mandare messaggi ad amici e parenti, alla peggio leggere qualche libro o passare il tempo con qualche giochino. Le ambizioni dei programmatori invece, sembrano voler spingere tutto questo ben oltre. Traslando diretta-

mente in forma elettronica conoscenze e tecniche mutuate probabilmente dal mondo del coaching, ecco che il nostro smartphone aspira a diventare il nostro consigliere, il nostro amico fidato, il nostro confidente intimo. Già si intravvedono le possibilità che l’uso dell’intelligenza artificiale aprirà a questa nuova confidenza digitale. Il nostro apparato tascabile si appresta a diventare il nostro principale consigliere e collaboratore quotidiano, in un dialogo virtuale che ricorda quello di molti film fantascientifici. Del resto lo è già: vi è capitato di notare come ormai il cellulare sia un commensale immancabile nelle nostre cene con amici? Non si riesce a non utilizzarlo per verificare la provenienza del vino che ci propongono, per mostrare le foto dell’ultima vacanza, per consigliare acquisti o suggerire destinazioni turistiche.

fuoriuscita del gas modula l’intensità della luce prodotta dalle lampade. Il significato che assume oggi è legato invece al titolo di un film – Gaslight appunto – del 1944 diretto dal regista statunitense George Cukor dove Ingrid Bergman, che per questa interpretazione vince l’Oscar, interpreta una sposa devota che il marito sta cercando di fare impazzire per rubarle dei preziosissimi gioielli: nel momento in cui la moglie nota il calo di intensità della luce a gas dovuto alle ricerche notturne del marito, lui le fa credere che sia tutto frutto della sua immaginazione e inizia a manipolare piccoli aspetti della vita quotidiana per farla uscire di testa. Da qui prende origine il termine gaslighting, usato comunemente per indicare una forma di manipolazione psicologica che porta la vittima a mettere in dubbio la validità dei propri pensieri e la percezione della realtà. Spesso il gaslighter provoca confusione distorcendo i ricordi e alla fine fa scattare una perdita di fiducia e autostima nella vittima e una dipendenza dall’autore del reato. Gatekeep invece è composto da gate che in inglese vuol dire ingresso e keeping che significa controllo. Chi tiene chiuso un cancello è colui che non fa filtrare le informazioni del tipo: «Dove hai preso la tua bella felpa?», «Non me lo ricordo». Girlboss infine indica una «donna con le palle» che non si fa mettere i piedi in testa. In un’accezione diversa da quella utilizzata dalle Gen Z può assumere una connotazione negativa: come esempio di girlboss viene indicata Elizabeth Holmes, la fondatrice ed ex amministratrice delegata della società di biotecnologie Theranos, considerata la Steve Jobs femminile, e la cui storia è diventata la serie tv The Dropout : Holmes sosteneva di avere messo a punto un rivoluzionario sistema di analisi del sangue che dava risultati affidabili prelevando una sola goccia di sangue al posto di due o tre fialette prelevate con un ago in vena. Il tutto poi si rivela una truffa. Le tre parole messe insieme negli ultimi mesi impazzano sui social e sono diventate un meme, cioè un’immagine, un video o una parte di testo, ecc., tipicamente di natura umoristica, che viene copiato e diffuso rapidamente dagli utenti di Internet. Se utilizzato dai coetanei maschi il motto può avere un risvolto negativo come critica a una cultura in cui le femmine sfruttano gli altri per raggiungere il successo o lo status o a chi usa metodi dubbi per andare avanti. Nel gergo delle Gen Z invece la frase è soprattutto una presa in giro. Un modo per scherzare sulla ragazza-capo che a volte è bene essere!

Un consiglio che ci verrebbe da inoltrare ai programmatori di cui sopra, sarebbe proprio quello di insistere nelle proposte di svezzamento dallo smartphone. «Sei a cena con gli amici? Spegni il cellulare e riaccendilo solo mentre stai tornando a casa». «Ti sei dimenticato come si chiama l’attore protagonista dell’ultimo film di Wes Anderson? Non importa, inventa: va bene lo stesso». «Vuoi scrivere un diario? Comprati un bel quaderno rilegato, una scatola di colori, pasticcia le pagine come ti viene e magari incollaci sopra le carte dei cioccolatini che preferisci».

Ecco: le app di cui sentiamo più la mancanza si dovrebbero chiamare «Resistenza umana: tutto quello che puoi fare senza aver bisogno che uno smartphone te lo suggerisca e, soprattutto, con il telefono spento». Qualche programmatore è disponibile?

La frase infatti è utilizzata quasi sempre con ironia. Viene usata soprattutto come esclamazione dopo che qualcuna fa qualcosa di impressionante. Non è una critica né un’aspirazione a un modo di essere, ma un atteggiamento che riflette un tipo di comportamento in un contesto divertente. Spesso in relazione con i ragazzi. Il corrispondente maschile è « Manipulate, Mansplain, Malewife » ossia uno che manipola, che vuole spiegare a una donna qualcosa di cui lei è esperta (con il sottinteso che l’uomo è sempre in grado di fare meglio) e che è la moglie-uomo: in una società in cui il valore di un uomo è ancora legato alla sua capacità di portare a casa soldi e di essere emotivamente distante, la moglie-uomo rappresenta il rifiuto di questa norma. Ma il malewife, mi sa, merita un’altra Parola dei figli

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 2 aprile 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino 13 SOCIETÀ / RUBRICHE ◆ ●
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Itinerari suggestivi

L’antico sogno degli olandesi di collegare il Mare del Nord al Mediterraneo passando dalla Svizzera romanda

Pagine 16-17

Per

La ricetta

Un ottimo spezzatino di vitello alle erbe con asparagi per un vero piatto gourmet

Pagina 18

Colpo critico

Ci sono giochi come Carcassone nei quali, una tessera dopo l’altra, si ha l’impressione di creare il mondo

Pagina 19

gli amici bleniesi il giorno X è dietro l’angolo, e

l’avventura corre lungo le creste vallesane

Adrenalina ◆ Il prossimo 17 aprile i «3 Blenio Tal» si cimenteranno con il programma della Patrouille des Glaciers

«Eravamo quattro amici al bar, che volevano cambiare il mondo». L’incipit è quello di Quattro amici, uno dei brani più celebri di Gino Paoli, in cui quei «suoi» amici si ritrovavano seduti a un tavolo a parlare del più e del meno, e tra una chiacchiera e l’altra facevano grandi progetti. Quelli che, appunto, almeno a parole, potrebbero pure cambiare il mondo.

Anche i protagonisti della puntata odierna di «Adrenalina» sono quattro amici (tre più uno, per essere precisi: il perché di questa precisazione lo leggerete nel resto dell’articolo). Si tratta di Graziano Gianora, Damiano Del Pietro, Enea Toschini e Paolo Pagani.

Dovranno correre lungo un profilo di montagne innevate per 30 km con un dislivello di 2200 metri

Quattro bleniesi Doc, che, guarda caso, hanno scelto come… nome di battaglia «3 Blenio Tal». Ma, diversamente dal contesto narrato dal cantautore italiano, quello del nostro racconto non è il bar, ma un profilo di montagne innevate, da percorrere su e giù, per un totale di 30 (trenta!) chilometri e un dislivello di 2200 metri.

Perché quello è il «menu» della Patrouille des Glaciers («Quella “breve”, che va da Arolla a Verbier, mentre quella completa collega Zermatt a Verbier, si sviluppa sulla distanza di 57,5 chilometri e un dislivello di 4’386 metri», tiene subito a precisare Graziano Gianora).

Ci siamo. Di lei, la Patrouille des Glaciers, la «corsa delle corse», avevamo riferito un anno fa (vedi il numero 14/2023 di «Azione»). Dodici mesi dopo è l’ora di… passare ai fatti: l’appuntamento con la 24esima edizione della gara che si tiene con cadenza biennale è dietro l’angolo, nella settimana che va dal 15 al 21 aprile. Il giorno «X» per Graziano e compagni d’avventura è quello del 17 aprile. Quel mercoledì per loro la sveglia suonerà decisamente presto: la loro partenza per questa avventura è infatti fissata per le 5 del mattino. «Una levataccia? Beh, benché siamo abbastanza abituati ad alzarci presto, è innegabile che quel giorno dovremo farlo ancora prima del solito», racconta il 35enne di Leontica. Che poi aggiunge: «Ma lo faremo volentieri, perché sai che lo fai per qualcosa di speciale. E alzarsi presto per mettersi in cammino di buon’ora, facendosi luce con la pila ha il suo fascino, come trovarsi sulle montagne innevate quando albeggia!».

La strada che li porta ad Arolla, almeno metaforicamente, l’hanno imboccata già da diversi mesi: «Da ap-

passionati di sci, e in particolare delle pelli di foca, la Patrouille des Glaciers è sempre stata qualcosa di affascinante, qualcosa che stimolava le nostre fantasie. Fascino alimentato anche dal racconto di nostri amici o conoscenti che già vi avevano partecipato (alcuni dei quali saranno al via anche nell’edizione 2024). Fra noi ne abbiamo parlato. Soprattutto con Damiano, con cui da diversi anni condivido la passione per le escursioni con le pelli di foca. Anno dopo anno, la Patrouil-

le ci stuzzicava sempre più, come una meta a cui ambire. Qualche volta durante il rientro dalle gite ci si scambiava qualche battuta per far riaffiorare quel pensiero che ci balenava in testa da una gita sulle nevi, non potevamo non pensarci. Così, un annetto fa, ho “promesso” a Damiano che l’avremmo affrontata e portata a termine, e abbiamo deciso di fare il grande passo e provarla in prima persona. O, almeno, di “tentare” la sorte, dato che, grazie alla fama che la prova si

è costruita in questi anni, per potervi partecipare occorre passare attraverso un’estrazione».

In questi anni, la Patrouille des Glaciers si è infatti costruita una fama andata ben oltre i confini nazionali, al punto da diventare un contesto ambito da sportivi provenienti da tutto il mondo. Non a caso, scorrendo la lista dei partecipanti all’edizione 2024, si ritrovano atleti provenienti, oltre che dalla Svizzera, da parecchi altri Paesi, fra cui Italia, Austria, Germania,

Belgio, Romania, Gran Bretagna, Polonia, Canada e Stati Uniti.

Chiuse le pre-iscrizioni a inizio settembre, a inizio dicembre ecco il sorteggio delle squadre partecipanti. Comprendente pure la «3 Blenio Tal». «Quella, se si vuole, è già stata la nostra prima vittoria, anche se la parte più impegnativa doveva (e deve) ancora arrivare. In sé, all’atto pratico sulle nevi vallesane saremo impegnati io, Damiano ed Enea, con Paolo come riserva, pronto a subentrare a uno degli altri membri qualora all’ultimo dovesse gettare la spugna. L’ufficializzazione della nostra partecipazione è stata come un punto di non ritorno per noi: da quel momento in poi avremmo dovuto prepararci, e farlo con la massima serietà, ma soprattutto anche con molta serenità. Non ci presentiamo al via con particolari ambizioni di classifica o per cercare un tempo eccezionale, ma anche così, affrontare una prova come la Patrouille des Glaciers impone una meticolosa preparazione, fisica per cominciare, ragion per cui ci siamo rimboccati le maniche e abbiamo iniziato la nostra marcia di avvicinamento». Fatta di ore e ore spese sui pendii innevati con gli sci ai piedi, spesso “vestiti” con le pelli di foca. «Ci siamo allenati parecchio, a volte individualmente, altre volte in gruppo, per mettere alla prova condizione e capacità di adattamento a situazioni particolari. Abbiamo macinato chilometri su chilometri: fortunatamente in alto Ticino l’innevamento quest’inverno è stato da un lato molto scarso, ma dall’altro ideale per ritrovare quegli scenari con cui saremo confrontati alla Patrouille. Durante i nostri allenamenti ci è anche capitato di incontrare altri ticinesi che vi prenderanno parte, con altre squadre: qualche volta ci siamo ritrovati sulle piste a parlare dell’appuntamento di aprile, scambiandoci magari anche qualche consiglio. Poi, va da sé, all’atto pratico della competizione, molto lo decideranno le condizioni atmosferiche che troveremo sul posto in quel determinato momento. Nel 2022, ad esempio, una buona parte della prima ascesa della prova “corta”, come pure di quella “lunga”, i partecipanti l’hanno fatta con gli sci in spalla, visto lo scarso innevamento, e idem per l’arrivo a Verbier…».

Con quale spirito vi presenterete al via? «Prevalentemente per vivere e condividere assieme un’esperienza unica, in un paesaggio che non ha eguali. Per questo ce la vogliamo gustare con mente e testa liberi, senza l’assillo di classifica e cronometro. Se poi riusciamo a tagliare il traguardo in un tempo tra le 5 ore e mezza e le 6 e mezza, tanto meglio».

● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 2 aprile 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino 15
TEMPO LIBERO
Una croce lungo il tragitto dove si allenano i quattro ticinesi in vista dell’importante appuntamento in programma fra pochi giorni.
Moreno Invernizzi
Paesaggi incantevoli immersi nelle coltri bianche. Il giorno della gara molto dipenderà dalle condizioni climatiche.

Quel vecchio sogno di collegare il mare

Itinerario ◆ Un’escursione in terra vodese alla scoperta dei resti del canale d’Entreroches, via navigabile che avrebbe dovuto collegare le

Il paraît que l’idée fut à Luther, mi dice un ometto già in là con gli anni, quando gli chiedo se vado bene per il canale d’Entreroches. Lo incontro sulla stradina di campagna che sale verso il Mormont, la collina alle spalle di La Sarraz, nel canton Vaud.

Durante la Guerra dei

Trent’anni, nel Seicento, gli olandesi erano alla ricerca di nuove rotte commerciali sicure verso il sud e l’Italia

Poi passa ad altro e, accennando al vecchio Golden Retriever che tiene al guinzaglio, mi fa, lui è Scotch, e gli dà una grattatina sul muso. Piacere, mi scappa di bocca, e rinuncio a spiegargli che Lutero era troppo preso dai suoi grattacapi teologici per occuparsi di un’opera d’ingegneria idraulica, che, per di più, vedrà la luce solo un secolo più tardi.

A volerla tirare per i capelli, però, l’affermazione del padrone di Scotch non è poi così priva di fondamento, penso, riprendendo il cammino. Pater Martinus, quel giorno d’ottobre del 1517, affiggendo le sue novantacinque tesi al portone della chiesa del castello di Wittenberg, innesca un bel putiferio in tutta l’Europa occidentale e non solo. Le conseguenze di quella che sarà definita la Riforma protestante non si limiteranno alla religione, ma spazieranno in tutti

gli ambiti della società, dalla politica alla cultura, dall’economia alle dinamiche sociali.

Lo scisma del mondo cristiano produrrà dispute teologiche, odio, persecuzioni e guerre fratricide, come quella, lunghissima, dei Trent’anni (1618-1648). Ed è proprio durante quell’interminabile conflitto, che prende avvio la storia bizzarra che mi ha portato qui, a camminare in una giornata di sole in mezzo ai prati della campagna vodese.

Gli Olandesi, di confessione riformata, sono alla ricerca di nuove rotte commerciali sicure verso il sud e l’Italia, per evitare di circumnavigare la

penisola iberica e incorrere negli assalti della flotta della cattolicissima e nemicissima Spagna.

I trasporti terrestri, all’epoca, sono troppo lenti e difficoltosi, inadatti ai carichi pesanti, l’alternativa è una via navigabile attraverso il continente, che colleghi il Mare del Nord al Mediterraneo, sfruttando il Reno e il Rodano e passando dal lago di Neuchâtel e dal Lemano.

Buona parte del lungo percorso acquatico è già utilizzata da secoli per il trasporto delle merci e alla realizzazione del sogno mancherebbero solo poco più di venti chilometri tra Orbe e Morges. Fattibile, si pensa allo-

ra. Nasce così il progetto del canale d’Entreroches, che prende il nome dalla gola che attraversa il promontorio roccioso del Mormont, un’anomalia geologica del massiccio del Giura, che fa da esile spartiacque tra il nord e il sud dell’altopiano elvetico. I lavori iniziano nel 1638 e, due anni dopo, il tratto tra Yverdon e Entreroches è terminato. La seconda tappa si conclude nel 1648, raggiungendo Cossonay. A quel punto, rimane solo una dozzina di chilometri fino a Morges, dove il canale dovrebbe sfociare nel lago, ma è necessaria la costruzione di una quarantina di chiuse, un’impresa troppo onerosa, e il sogno

europeo s’interrompe lì. La via d’acqua sarà comunque utilizzata fino al 1829 per il trasporto di sale, grano, formaggio e vino vodese. A poco a poco, il canale d’Entreroches perde importanza, qua e là è interrotto da frane, i muri si sgretolano, il potenziamento delle strade e l’arrivo della ferrovia gli danno il colpo di grazia e, per finire, viene dimenticato. Alcune vestigia più o meno evidenti di questo progetto un po’ folle esistono però ancora nella campagna vodese. E così, eccomi qui, alla ricerca di questi muti testimoni di un’epoca turbolenta e oscura, animata al contempo da una nuova consapevolezza e dalla Il castello

Il sentiero di Randonature.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 2 aprile 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino 16
di La Sarraz.

mare del Nord al Mediterraneo

due immense distese d’acqua, sfruttando il Reno e il Rodano e passando anche dalla Svizzera

fiducia nella scienza e nella tecnologia, che di lì a poco favoriranno la rivoluzione industriale. Il compito non è difficile, visto che Randonature, un’azienda specializzata nel turismo sostenibile e nell’educazione ambientale (www.randonature.ch), ha creato un sentiero didattico, che si snoda lungo l’antico percorso del canale 1)

L’inizio dell’itinerario è piuttosto panoramico e segue la stradina che da La Sarraz sale sul groppone del Mormont, in mezzo ai prati e a un ondeggiare lento di campi di grano. Del castello, che ho ammirato poco fa lasciando il paese, s’intravvedono laggiù le due torri incorniciate di verde, con, sullo sfondo, i primi contrafforti del Giura. A La Birette, un mostro primordiale ha addentato la collina, staccandone un morso smisurato. È

L’itinerario

Partenza: La Sarraz (VD) (503 mslm) Lasciata la vettura alla stazione e prima di incamminarci verso il Mormont, facciamo una capatina al bel castello (https://chateau-lasarraz.ch), edificato tra l’XI° e il XIII° secolo sullo sperone roccioso che domina la cittadina. Il maniero permetteva di controllare uno stretto passaggio, da cui viene il nome, Serrata (serratura), Sarra, La Sarraz. Prendiamo ora il panoramico Chemin du Mormont e seguiamolo fino a La Birette e al limite della cava, contorniamola verso nord fino ad una capanna per il picnic. Da lì possiamo salire sulla cima del Mormont e scendere sull’altro lato del promontorio su sentieri segnalati.

Dopo i grandi serbatoi, c’è l’imbocco della chiusa di Entreroches, il sentiero l’attraversa e sbuca nei pressi della Maison de l’éclusier e del tiglio secolare.

che ha intaccato le rocce del Mormont scavando questa faglia da dove passava il canale. E, infatti, eccolo lì, proprio sotto di me, ci sono ancora i muri di sostegno laterali, che fanno capolino dietro un groviglio di rami. Dell’acqua non vi è quasi traccia e il suo letto è invaso da canne palustri, giovani ontani e noccioli, erbe alte punteggiate dal giallo dei giaggioli acquatici. Fa un certo effetto pensare che, fino a duecento anni fa, di qui passavano barche lunghe venti metri, fabbricate su modello olandese a Thun e a Yverdon. Ognuna trasportava venticinque tonnellate di merci ed era trainata da due cavalli lungo l’alzaia che correva accanto al canale.

All’improvviso un fischio acuto mi fa sobbalzare, seguito da un rumore sordo e prolungato, che esce come un soffio da un buco nero, una decina di metri sotto il sentiero. Mi affaccio a un muretto e guardo giù, proprio mentre un treno sbuca da un tunnel, tagliando il canale che qui scompare, e s’infila ululando in un’altra galleria scavata sotto il Mormont. Eccola la causa ultima, che ha decretato la fine del sogno transeuropeo.

la tanto discussa cava della Holcim di Eclépens 2), che da settant’anni scava qui il calcare per la fabbricazione del cemento. La voragine che scende a gradoni è impressionante e richiama certe miniere a cielo aperto di africana memoria. Il bosco allarga ora le braccia ricoprendo con la sua coperta mimetica la cima del Mormont e tutto il versante orientale, da dove scendo verso la gola d’Entreroches.

Il sentiero la percorre puntando a nord-ovest e, all’improvviso, tutti i rumori si spengono come d’incanto e cammino immerso in un silenzio irreale rotto appena dal brivido di un battito d’ali o dal richiamo acuto di uccelli invisibili.

Le pareti rocciose, ricoperte dalla vegetazione e da un intrico di radici aeree, mostrano i segni dell’erosione,

Svoltiamo a sinistra sulla strada asfaltata e, dopo poco meno di mezzo chilometro, prendiamo la stradina sulla destra che s’inoltra diritta in mezzo ai prati e ai campi. Fatti circa 700 metri s’incontra il canale, seguiamolo fino all’incrocio con la Route du Vignoble, passiamo davanti alla fontana che ricorda i lavori di risanamento della pianura dell’Orbe (1941-1947) e da qui andiamo verso Bavois. Altri 900 metri e troviamo, sotto il cavalcavia, la stazione ferroviaria, da dove, con il treno torniamo a La Sarraz (treno per Cully, cambio a Eclépens e bus fino a destinazione).

Arrivo: La Sarraz

Dislivello positivo e negativo: ca. 100 m.

Lunghezza del percorso (a piedi): ca. 10 km

Tempo di percorrenza: ca 4 ore

Difficoltà: itinerario adatto a tutti

Poche centinaia di metri più avanti, uscendo dalla gola, incontro la vecchia «maison de l’éclusier», l’unica rimasta delle quattro costruite lungo il tracciato tra il 1640 e il 1650. Vi alloggiava il custode della chiusa e del porto d’Entreroches, il più importante per volume di merci, e fungeva anche da albergo per i battellieri e da sosta per i cavalli. Immagino ci fosse un bel trambusto da queste parti a quell’epoca, con i barcaioli indaffarati, i carrettieri che portavano le merci da trasportare, i contadini del posto con i loro cavalli da traino e poi ancora gli artigiani, che si occupavano della manutenzione delle chiuse e del canale. A far da spettatore, uno straordinario tiglio monumentale (pare sia stato piantato al momento della costruzione della «maison de l’éclusier»), che mi si para davanti, maestoso.

Lì vicino, ai bordi della strada, c’è un’antica pietra miliare scoperta con la costruzione della chiusa nel 1640. Eretta sotto il regno dell’imperatore Adriano (117-138 d.C), per indicare la distanza fino ad Avenches, ci rivela l’utilizzazione già in epoca romana del passaggio d’Entreroches. Riprendo il cammino verso Bavois, in mezzo a campi di colza e di grano, prati e torbiere. Del canale non vi è più traccia. Poi, all’improvviso, un gracidare di rane mi annuncia la presenza dell’acqua. E, infatti, rieccolo, che si fa strada tra una vegetazione un po’ soffocante. L’antico sogno di congiungere i mari è ormai ridotto in un sonnolento canale di drenaggio della pianura.

Note

1) L’itinerario è descritto anche nella pubblicazione di Heimatschutz, Historische Pfade/Sentiers historiques, una raccolta di 35 sentieri storici in tutta la Svizzera, con informazioni e cartine.

2) Per arginare le mire espansionistiche della Holcim, nel giugno 2022, è stata consegnata l’iniziativa «Salviamo il Mormont», promossa da Verdi, Associazione per la salvaguardia del Mormont, Pro Natura Vaud e diversi partiti di sinistra. Intanto, però, la ditta ha iniziato nel dicembre scorso ad abbattere il bosco di La Birette.

Prodezza tecnica tra l’acqua e il vino

Non si può dire che non avesse dimestichezza con l’acqua e la navigazione, Elie Gouret, progettista del canale d’Entreroches. Bretone trapiantato nei Paesi Bassi come quartiermastro generale dell’esercito francese, durante un viaggio a Ginevra al seguito della principessa Emilie di Olanda, si fa un’idea delle possibilità offerte dal territorio svizzero per essere attraversato da una via navigabile transeuropea. Elabora il progetto, trova i finanziatori, butta giù un memorandum e lo sottopone al Governo bernese, sotto il cui dominio sottostà a quei tempi tutta questa regione fino al Lemano. I costi elevati e l’indebitamento affossano il progetto che qualcuno ora vorrebbe fare rinascere in altro modo

I Bernesi fanno quattro calcoli, valutano i benefici del canale (riduzione dei costi dei trasporti, agevolazione dei rifornimenti per il loro esercito in caso di conflitto), negoziano un tracciato a loro conveniente e accordano i permessi necessari. E l’opera vede la luce, parzialmente almeno. La prima parte, da Yverdon a Orbe non presenta difficoltà, perché la Thièle è già navigabile, la seconda, fino a Entreroches, ha un dislivello di quattordici metri, superato con sette chiuse, mentre il tratto che raggiunge Cossonay, di otto

chilometri, viene realizzato con non poche difficoltà, tanto da essere definito una prodezza tecnica. Più in là non si andrà, costi elevati e indebitamento costringeranno la società che gestisce il canale a gettare la spugna. Seppur incompleta, la via d’acqua procura importanti ricadute economiche alla regione, contribuisce alla prosperità del porto di Yverdon, impiega manodopera e artigiani locali e facilita il trasporto delle merci (tonnellaggio massimo nel 1719-20, circa 6680 t, pari a 8352 carri), principalmente il sale di Bex e i vini vodesi destinati alla clientela bernese (85% del traffico).

Pare che i primi ad apprezzare le qualità della bevanda, fossero però i barcaioli, che abusavano del loro diritto a dissetarsi lungo il tragitto, attingendo a dismisura dalle botti trasportate, tanto da far coniare l’espressione «è sulla strada per Soletta» affibbiata agli impenitenti ubriaconi.

L’idea di collegare il Reno al Rodano, non muore però con la fine del canale d’Entreroches. Negli anni e nei decenni seguenti, è tutto un germogliare di nuovi studi che la ripropongono e oggi ancora ha i suoi difensori. Tra questi, l’Associazione svizzera per la navigazione interna (www.asnav.ch), la quale, riprendendo un progetto del 1954, caldeggia lo sviluppo di canali navigabili, ritenuti un mezzo di trasporto ecologico ed economico in grado di raccogliere le grandi sfide del ventunesimo secolo».

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 2 aprile 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino TEMPO LIBERO 17
Campi coltivati e vigneti ad Arbex-sur-Orbes. La collina del Mormont con la maison de l’éclusier e il tiglio monumentale. Il sogno transeuropeo ridotto a canale di drenaggio nella pianura.

Spezzatino di vitello alle erbe con asparagi

Ingredienti

Piatto principale

Ingredienti per 4 persone

1 cipolla

3 spicchi d’aglio

4 c d’olio per la cottura

800 g di spezzatino di vitello sale pepe

2 dl di vino bianco

4 dl di fondo bruno

500 g d’asparagi verdi

1 c d’amido di mais

2 dl di panna

1 mazzetto di dragoncello

2 rametti d’aneto

Preparazione

1. Tritate la cipolla e l’aglio. Scaldate l’olio in una brasiera e rosolate bene la carne su tutti i lati. Condite con sale e pepe, poi aggiungete il trito di cipolla e aglio; fate rosolare brevemente con la carne. Sfumate con il vino.

2. Aggiungete il fondo, mettete il coperchio e lasciate stufare a fuoco basso per 2 ore circa.

3. Pelate il terzo inferiore del gambo degli asparagi. Tagliateli a pezzetti di circa 5 cm e 5 minuti prima di fine cottura della carne aggiungeteli allo spezzatino e cuoceteli insieme.

4. Stemperate l’amido di mais con la panna. Sfogliate il dragoncello e tritate le foglie, poi aggiungetele allo spezzatino con la panna e lasciate sobbollire, finché la salsa leghi un po’.

5. Regolate di sale e pepe. Aggiungete l’aneto spezzettato.

Consiglio utile: lo spezzatino è ottimo servito con la polenta, il purè di patate o un piatto di tagliatelle.

Preparazione: circa 20 minuti; sobbollitura: circa 2 ore.

Per persona: 52 g di proteine, 42 g di grassi, 15 g di carboidrati, 700 kcal

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Il gioco del mondo visto dall’alto

Colpo critico ◆ Quando si gioca a Carcassonne, posando una tessera dopo l’altra, si ha l’impressione di compiere azioni simboliche, che danno forma alla varietà del pianeta. In Micromacro: Crime City bisogna invece risolvere un mistero

Qualche mese fa ho trovato me stesso in un dipinto di Jan Brueghel il Vecchio. L’opera s’intitola Il grande mercato del pesce. Si trova a Monaco, nella Alte Pinakothek, e ritrae un porto di mare: persone che vendono, comprano, caricano e scaricano casse di pesce. Io ero lì, in mezzo alla folla, con in mano un taccuino.

I giocatori si sfidano nella costruzione di un paesaggio, accostando tessere che rappresentano strade, campi, monasteri e pezzi di città

Il personaggio ha un grosso naso, una barba rossiccia, indossa un cappello, una maglia verde e un manto grigio. Non mi assomiglia molto, a dire il vero, tranne per la cura con cui annota qualcosa nel taccuino. Probabilmente sta conteggiando dei pesci, vista la circostanza. Tuttavia mi piace pensare che non sia guidato soltanto da uno spirito commerciale: l’azione di scrivere un dettaglio, strappandolo al fluire del tempo, implica un significato che va oltre la contabilità. Nel molteplice caos del mercato quell’uomo presta attenzione a una cosa, a una piccola cosa – il numero dei pesci – e con il suo gesto cerca, sia pure involontariamen-

te, un’armonia con il mondo: l’atto di prestare attenzione non è mai banale. Ero nella pinacoteca e, nello stesso momento, ero nel cuore di un mercato ittico del 1603: l’immedesimazione è uno dei prodigi dell’arte, così come la facoltà di guardare la vita dall’alto. Per questo ogni volta che gioco a Carcassonne, posando una tessera dopo l’altra, mi sembra di compiere azioni simboliche, che danno forma alla varietà del mondo. Creato da Klaus-Jürgen Wrede, Carcassonne (Hans im Glück 2000) è un classico: i giocatori si sfidano nella costruzione di un ampio paesaggio medievale, accostando tessere che rappresentano strade, campi, monasteri e pezzi di città, chiusi da mura che ricordano quelle dell’omonimo comune francese. È un ottimo punto di partenza per scoprire il gioco da tavolo moderno; infatti dall’edizione base è derivata una lunga serie di espansioni. Carcassonne seduce con l’ambiguità fra il comporre tutti insieme una mappa, mettendo ordine nel caos, e il cercare di accaparrarsi le posizioni migliori. Nel suo miscelare fortuna e opportunismo, piace anche ai giocatori inesperti. Il meccanismo è semplice: pesco una tessera e la poso dove mi pare opportuno; se voglio, posso appoggiare una pedina sopra la tessera. Se a fine partita le mie pedine si trovano in una città chiusa da mura, in una strada

Giochi e passatempi

Cruciverba

Come si chiama il faraglione più alto del mondo?

Dove si trova?

Lo scoprirai a soluzione ultimata leggendo le lettere evidenziate.

(Frase: 8, 2, 4, – 2, 9)

ORIZZONTALI

1. Si estende fra le alture

7. La katana e il tanbosono giapponesi

8. Le iniziali dell’attrice

10.

11.

12.

13.

14.

18. Risultato

20.

21.

con un inizio e una fine oppure in un monastero circondato dai campi, posso segnare dei punti. In genere per definire le «pedine» di legno, si usa il termine inglese «meeple», che è una contrazione delle parole «my» e «people». Ufficialmente, la parola venne inventata il 25 novembre 2000, durante una partita nella regione di Boston. Il gioco non era ancora uscito negli Stati Uniti, ma qualcuno aveva portato una copia dalla Germania. Fu proprio in quell’occasione che

Uomo con taccuino nel Grande mercato del pesce di Jan Brueghel il Vecchio (1603). L’uomo presta attenzione al numero dei pesci e cerca un’armonia con il mondo...

una certa Alison Hensel chiamò «meeple» i piccoli «ometti» che le regole del gioco definivano «Gefolgsleute» («seguaci»). Quando uscì la traduzione inglese, il termine era tradotto con «henchman» («scagnozzo»), ma presto in tutto il mondo i giocatori presero a dire «meeple», e lo dicono ancora oggi. Se Carcassonne rappresenta l’ampiezza del mondo, il gioco che più mi ricorda Brueghel è Micromacro: Crime City, di Johannes Sich (Spielwiese 2020). Nella scatola si trovano la vasta

mappa di una città (75x110 cm) e sedici casi da risolvere. Seguendo una serie di domande, i giocatori dovranno collaborare per svelare un mistero. Come capire ciò che è veramente accaduto? Sulla mappa c’è tutto: in un bruegheliano proliferare di personaggi e di piccole scene, le storie prendono vita. Si sovrappongono tempi diversi: in una parte della città scorgo per esempio due individui che litigano; in un’altra, uno dei due uccide l’altro; un po’ più in là l’omicida si libera dell’arma; in un quartiere periferico lo stesso noleggia un’automobile per fuggire, eccetera. Le vicende sono semplici, ma bisogna essere attenti per rintracciare le azioni, comprese quelle all’apparenza insignificanti. I personaggi hanno l’aspetto di animali antropomorfi, il che toglie crudezza ai delitti. Infatti è un gioco che piace molto pure ai bambini, i quali soccorrono gli adulti con l’acutezza del loro sguardo.

Davanti a un quadro di Brueghel mi piace immaginare le storie delle decine e decine di persone ritratte. Allo stesso modo, Micromacro: Crime City mi conduce dentro una città, in una miriade di incontri, di particolari, di azioni più o meno sconcertanti. Come le opere d’arte, anche i giochi sono specchi che ritraggono un frammento di mondo, in tutta la sua meravigliosa indecifrabilità.

6.

22.

in un paese meraviglioso

27. Avena in inglese e... boato in centro

VERTICALI

1. Lustrino

2. Nome femminile

3. Prende un pesce alla volta

4. Tredicesima lettera dell’alfabeto greco

5. Osso del braccio

del cantante di Attenti al lupo

17. Un figlio di Noè

19. Aggettivo possessivo

20. Indispensabile per la fotosintesi clorofilliana

22. Così in latino

24. Nei grassi e nelle proteine

25. Posta alla fine

Soluzione della settimana precedente

BUONA PASQUA – Che questa Pasqua porti a tutti voi … Frase risultante: … PACE NEI CUORI E SORRISI SUI VOLTI

Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell ’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera. Sudoku

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Rohrwacher
9. Tutt’altro che sommo
Sa scriverla il poeta
Le iniziali dell’Ariosto
Gabbia per polli
Un goccetto nel bicchiere
Isola della Sonda
Pulitissima
Un indumento
I «capitoli» del Corano
23. Quantità imprecisata 24. Formaggi freschi 26. Sogna di stare
Collocata
Lotto di terreno 10. Il suo quarto è due 12.
13. Impresa commerciale 14. Penna a sfera 15. Pianta aromatica 16. Le iniziali
Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate. O P A C O R E T I N A R O V I L E N I N R C S O M A S O C U I I T O O R A U L N A O R I S A A S I A O R M E D R I N S O S E A R O M E R O D I N S I R I A I S I D R U P I V O T I O L I E R A T A N I A 6 9 2 1 8 5 7 4 3 4 5 7 6 1 2 5 9 4 2 9 3 9 6 4 1 2 9 8 5 7 6 3 6 9 5 2 3 7 8 4 1 8 7 3 4 1 6 5 9 2 1 8 7 6 9 4 2 3 5 2 3 9 8 5 1 4 7 6 5 4 6 3 7 2 9 1 8 9 5 4 1 2 3 6 8 7 3 2 8 7 6 9 1 5 4 7 6 1 5 4 8 3 2 9
1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 O P A C O R E T I N A R O V I L E N I N R C S O M A S O C U I I T O O R A U L N A O R I S A A S I A O R M E D R I N S O S E A R O M E R O D I N S I R I A I S I D R U P I V O T I O L I E R A T A N I A
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ATTUALITÀ

Se l’atomica ritorna

Con la guerra in Ucraina si torna a minacciare l’uso di armi nucleari. Il tramonto dell’idea di deterrenza

Pagina 23

La lezione di Kate Middleton Nel rivelare la sua malattia la principessa ha riportato ordine e umanità nel discorso pubblico

Pagina 24

Tra naufraghi e cadaveri A bordo della Ocean Viking, nave affittata da Sos Mediterranée per salvare i migranti in pericolo

Pagina 25

I due gravi problemi del Cremlino

Pochi alloggi, affitti più cari La Confederazione presenta un piano d’azione per rimediare senza stravolgere il mercato

Pagina 27

L’analisi ◆ Mosca ha sottovalutato l’affacciarsi di alleanze scomode e nuovi nemici, come l’Isis-K, inoltre deve fronteggiare un’ondata di xenofobia interna contro gli immigrati dal Caucaso e soprattutto dall’Asia Centrale

Anna Zafesova

Sembra di rivivere il settembre nero del 1999, quando nella periferia di Mosca esplodevano i palazzi residenziali. Sembra di rivivere l’ottobre del 2002, quando per tre giorni tutta la capitale russa sperava, il fiato sospeso, che la presa degli ostaggi nel teatro sulla Dubrovka sarebbe finita con il loro rilascio. Erano tanti anni, quasi tredici, che il cuore della Russia non veniva colpito da un attacco terroristico, dalle bombe dei kamikaze caucasici nel 2011 all’aeroporto di Domodedovo e, pochi mesi prima, nella metropolitana. La Russia si era quasi abituata a quella sicurezza che Vladimir Putin le aveva promesso fin dall’inizio del suo regno.

L’attentato al Crocus City Hall, alle porte di Mosca, ricorda più la strage del Bataclan a Parigi che quella della Dubrovka

Era cresciuta una generazione di russi per la quale un attentato islamista veniva attribuito semmai ai rischi della vita in Occidente, a Parigi, a Bruxelles, a Nizza. Tutta questa sicurezza è andata in frantumi la sera del 22 marzo, cinque giorni dopo che Putin ha confermato, organizzando un 87% di sostegno alla sua quinta rielezione al Cremlino, di avere acquisito un controllo totale sul Paese che governa da un quarto di secolo.

L’attentato al teatro del centro commerciale Crocus City, alle porte di Mosca, ha risvegliato l’incubo della minaccia dell’Isis, ricordando più la strage del Bataclan a Parigi che quella della Dubrovka. I terroristi che hanno sparato agli spettatori del concerto non volevano negoziare, come i guerriglieri ceceni degli anni Novanta: volevano uccidere il maggior numero di persone nel minor tempo possibile. E ci sono riusciti. I soccorsi sono arrivati quando il commando era già scappato, ma per quasi un’ora i poliziotti e i vigili del fuoco non sono entrati nell’edificio in fiamme, mentre nei social apparivano i video degli spettatori terrorizzati che per salvarsi tentavano di spaccare le porte di vetro delle uscite di sicurezza, chiuse con il lucchetto. Una successiva indagine ha stabilito che il teatro – una sala che aveva ospitato negli ultimi anni eventi appariscenti, tra cui il concorso Miss Universo patrocinato da Donald Trump, partner d’affari dell’imprenditore Aras Agalarov, proprietario del Crocus – non risultava al catasto come luogo di raduni pubblici, quindi non era stato sottoposto a controlli e, a quanto pare, sprovvisto di un sistema antincendio.

Un fallimento clamoroso del sistema di sicurezza russo, in una città farcita di telecamere con riconoscimento facciale, e di poliziotti che arrestano in tre minuti chiunque osi srotolare un manifesto contro la guerra in Ucraina o depositare un fiore alla memoria di Alexey Navalny. Non stupisce che, dopo quasi 20 ore di attonito silenzio, Putin abbia deciso di incolpare della strage Kiev, sostenendo che i quattro terroristi – nel frattempo arrestati dalle forze speciali russe a 400 chilometri da Mosca e identificati come immigrati dal Tagikistan – fossero «attesi al confine ucraino». Una «pista» che aiuta anche a dimenticare come Vladimir Putin avesse respinto come «una provocazione» l’allarme di un attentato islamista diramato due settimane prima circa la possibilità di una strage dall’ambasciata americana in Russia. Il capo del Servizio federale di sicurezza (Fsb) Aleksandr Bortnikov non solo ritiene che siano stati gli ucraini a «manovrare e addestrare» i jihadisti dell’Isis, ma vede nella strage anche «tracce del coinvolgi-

mento dell’intelligence americana e britannica».

Dopo anni in cui tutto – diplomazia, sicurezza, propaganda – era rivolto a Occidente, alla «guerra esistenziale» come la definisce Putin contro l’Ucraina diventata filoeuropea e filoamericana, l’apparizione della minaccia da Oriente è qualcosa cui il Cremlino si rifiuta di credere.

Il ministro degli Esteri russo Lavrov ha definito la teoria della responsabilità degli jihadisti come «comoda per l’Occidente»

Nonostante le ripetute rivendicazioni dell’Isis, che ha anche pubblicato filmati atroci girati dentro il centro Crocus dagli stessi attentatori, il ministro degli Esteri Sergey Lavrov ha definito la teoria della responsabilità degli jihadisti come «comoda per l’Occidente», motivo per il quale – ha spiegato – Mosca ha rifiutato l’offerta di collaborazione dell’Interpol nel-

le indagini. Le inchieste si baseranno sulle confessioni dei terroristi, che sono stati torturati subito dopo l’arresto: all’udienza al tribunale uno degli attentatori aveva un’enorme fasciatura al posto dell’orecchio, e un altro è stato portato in aula in carrozzella, in stato di apparente coma, con il camice della terapia intensiva. È evidente che in queste condizioni gli indiziati confesseranno qualunque crimine a loro attribuito. Ma al di là del suo obiettivo di incolpare gli ucraini, il Cremlino ora ha due gravi problemi. Il primo è che la sua politica internazionale, spesso guidata dal desiderio di contrapporsi agli Usa anche in zone lontane dall’Europa, ha sottovalutato alleanze scomode e nuovi nemici: l’Isis-Khorasan, a quanto pare, ha messo Mosca nel mirino per il suo avvicinamento ai suoi avversari talebani, oltre che per l’intervento in Siria a fianco di Bashar al Assad. La Russia aveva pagato il prezzo del suo coinvolgimento a fianco di Damasco nel 2015, quando una bomba aveva fatto esplodere un aereo russo pieno di

turisti sopra il Sinai. Ma anche quella è stata una minaccia rapidamente dimenticata e ritenuta arginata. Il secondo problema è interno alla Russia. I volti insanguinati dei tagiki arrestati hanno alzato un’ondata di xenofobia già alimentata negli anni scorsi dalla retorica del «mondo russo» promossa dal putinismo, e le manifestazioni di ostilità nei confronti degli immigrati dal Caucaso e soprattutto dall’Asia Centrale – milioni di persone, clandestini e legalizzati, che compongono un esercito di sottopagati che svolgono lavori snobbati dai russi – si sono moltiplicate. Diverse regioni russe stanno aderendo all’ondata di odio e paura bloccando gli ingressi di nuovi immigrati, oppure organizzando raid negli ostelli e nei cantieri, mentre deputati della Duma e propagandisti televisivi invocano il ritorno della pena di morte. L’Isis-K intanto ha già promesso nuovi attentati per vendicare i confratelli, e se i servizi di Mosca insisteranno a cercare la «pista ucraina» potrebbero rimanere impreparati a una nuova strage.

● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 2 aprile 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino 21
Fiori davanti al luogo della strage. (Keystone)

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Lo spettro dell’atomica

Storia ◆ Gli elementi che hanno provocato il tramonto dell’idea di deterrenza

Alfredo Venturi

Nervi tesi e scenari poco meno che catastrofici nel tempo inquietante della guerra ucraina. La temuta escalation militare è preceduta dall’ulteriore inasprirsi della polemica. La strage della Crocus City Hall di Mosca, con le sue almeno 140 vittime, è diventata per le opposte propagande oggetto di speculazione, un reciproco rinfacciarsi di accuse sui mandanti. Raramente le relazioni russo-americane sono state così tese. Sembra un’altra era geologica, eppure non è passata più di una quarantina d’anni da quando il presidente americano Ronald Reagan accoglieva a Ginevra il segretario generale dell’Unione Sovietica, Mikhail Gorbaciov, con un’interminabile stretta di mano. Era il 1985, una brumosa giornata di novembre illuminata dal chiarore di un’epoca nuova carica di promesse. Negli anni immediatamente successivi quella atmosfera avrebbe rivoluzionato il sistema delle relazioni internazionali.

Il disgelo ginevrino

A Ginevra i due capi di Stato si accingevano a dare un colpo di acceleratore al processo di riduzione delle armi strategiche che si trascinava stancamente da anni. Ad aprire la strada verso lo sblocco dell’impasse diplomatica erano da una parte Gorbaciov, che aveva spalancato le porte dell’Unione Sovietica nel segno della Glasnost avviando le riforme della Perestroika, dall’altra Reagan che rinunciando finalmente all’armamentario dialettico dell’«impero del male» aveva saputo cogliere la grande occasione. Per la rimozione degli ultimi ostacoli e la firma dei trattati i due statisti s’incontreranno ancora tre volte: a Reykjavik, a Washington e infine a Mosca. Intanto la storia aveva ingranato le marce alte e camminava spedita: appena un lustro dopo il disgelo ginevrino cadeva il Muro di Berlino e crollava l’Unione Sovietica mentre un politologo americano, Francis Fukuyama, proclamava «la fine della storia».

In realtà la storia non era affatto finita, e mentre gli accordi sul disarmo atomico, frenati dai tecnici delle due parti, non tarderanno a rivelarsi poco più che palliativi, ben presto ripartirà la logica della guerra fredda che sembrava superata per sempre, in

un mondo ancora diviso da contraddizioni insanabili, gelosie nazionali, contrasto d’interessi, contenziosi ereditati dal passato. Non a caso i due sacri principi sui quali si regge la stabilità internazionale, diritto all’autodeterminazione dei popoli e inviolabilità delle frontiere, sono in evidente contrasto. E così si arriva al punto che, dopo decenni di equilibrio del terrore e dopo i trattati sul disarmo nucleare, si riprende a parlare di guerra atomica come possibile sviluppo delle situazioni di crisi. Non solo: le parti si accusano vicendevolmente di voler mettere le mani su quella fatale panoplia. E così gli eventi della guerra ucraina hanno portato a sdoganare l’arma nucleare, smentendo la sua funzione tradizionale che è sempre stata la deterrenza.

A Ginevra, nonostante il calore umano sprigionato dai due capi di Stato, era uscito qualche segnale preoccupante. Nelle lunghe giornate negoziali era sempre più diffusa la sensazione che i piani di limitazione e riduzione delle armi strategiche nascondessero nient’altro che il desiderio di rinnovare l’arsenale atomico, sbarazzandosi delle armi tecnicamente obsolete e sostituendole con i nuovi micidiali prodotti della ricerca militar-industriale. Eppure quei ferri vecchi, o quello che comunque ne sarebbe restato dopo la riduzione concordata, erano più che sufficienti per vetrificare il mondo intero. Ma almeno si diceva e si ripeteva quello che oggi sembra passato in sottordine: che quelli erano strumenti destinati a garantire la distruzione di chiunque li volesse impiegare, e proprio per questo ad assicurare quella che usavamo chiamare pace.

Ci si chiede che cosa abbia provocato il tramonto della deterrenza come elemento fondamentale ed esaustivo della disponibilità di simili strumenti militari, ma non è facile rispondere. Certo, prima di tutto bisogna considerare il progressivo deterioramento del clima politico fra le superpotenze e fra i blocchi contrapposti, che accompagna beffardamente il ben noto peggioramento della climatologia vera e propria. Inoltre pesano le molte instabilità seguite agli spettacolari assestamenti geopolitici degli anni Novanta del Novecento, dalla fine dell’Unione Sovietica alla frantumazione della Jugoslavia, che

Le origini dell’Isis-K

Terrorismo ◆ Occhi puntati sul Pakistan

si sono aggiunti a contenziosi storici come la questione di Taiwan, l’altra Cina che Pechino considera sua, o il contrasto frontaliero fra la Cina e l’India, le due massime potenze demografiche.

Potenza distruttiva

Contribuiscono in qualche modo a sdoganare la bomba anche i progressi della tecnologia che miniaturizzando le applicazioni le ha rese simili a strumenti chirurgici selettivi, capaci di agire su specifici obiettivi senza quell’immagine fatale che fece degli ordigni lanciati su Hiroshima e Nagasaki il simbolo della follia guerriera e del Novecento il secolo più cruento della vicenda umana. È vero che le due bombe impiegate alla fine della Seconda guerra mondiale hanno ben poco a che fare con l’apocalittica potenza distruttiva delle attuali testate multiple, capaci di recapitare una decina di ordigni in qualsiasi parte del pianeta. Stati Uniti e Russia dispongono di migliaia di queste armi che gli americani ospitano prevalentemente nei silos disseminati nel loro territorio, mentre i russi preferiscono gestirle sui sottomarini a propulsione nucleare.

Mentre i risultati raggiunti dalla diplomazia del disarmo atomico possono considerarsi soddisfacenti soltanto per quanto riguarda i missili di portata intermedia, è pur vero che il numero complessivo di queste armi ha avuto negli anni più recenti una costante tendenza al ribasso, Ma non per tutti: ci sono cinque Paesi – Cina, Russia, Pakistan, India e Corea del Nord – che hanno aumentato le loro scorte. Secondo i dati più recenti gli arsenali di nove Paesi contengono 12’512 testate nucleari. Russia e Stati Uniti ne hanno rispettivamente 5889 e 5244, gli altri sette Paesi (Cina, Francia, Regno Unito, Pakistan, India, Israele, Corea del Nord) controllano le rimanenti 1379. Un solo Paese, il Sudafrica, ha rinunciato nel 1989 all’avventura nucleare dopo che negli anni Settanta vi si era impegnato avviando la produzione di armi atomiche. Una bella lezione al mondo intero, simile a quella contenuta in una celebre dichiarazione di Reagan e Gorbaciov: «Una guerra nucleare non può essere vinta e non deve essere combattuta».

Il portavoce del Ministero degli esteri afghano Abdul Qahar Balkhi dichiara che il Governo di Kabul «condanna con la massima fermezza il recente attacco terroristico a Mosca (…) rivendicato da Daesh (il nome arabo per Isis-K) e lo considera una palese violazione di tutti gli standard umanitari». I talebani fanno sapere inoltre, tramite la loro agenzia stampa Al-Mersaad, che l’attacco di Mosca è riconducibile a terroristi allevati in Paesi «vicini dell’Afghanistan». E aggiungono, in un messaggio audio interno trapelato e diffuso da canali pro Isis-K, che le madrase di confessione salafita attive a Nangarhar, Kunar, Nuristan, Kabul e nel nord dell’Afghanistan sono altrettante basi per infiltrati dell’Isis-K. Dichiarano che autorizzare madrasa di confessione diversa da quella dei talebani (che sono Deobandi) è stato un grave errore, aggiungendo che «l’Emirato Islamico deve combattere l’Isis-K nei suoi rifugi sicuri in Pakistan dispiegando attentatori suicidi e infiltrandosi nelle sue fila» e che «i centri di addestramento dell’Isis-K, sostenuti dall’intelligence pakistana, sono situati nell’Agenzia Orakzai, a Yakatoot, a Peshawar, a Islamabad, a Krash Adda, a Quetta e ad Abbottabad». I primi opuscoli a firma Isis erano comparsi difatti per la prima volta nella regione una decina di anni fa, a Peshawar e dintorni. Gli opuscoli annunciavano la creazione dello Stato islamico e chiamavano alla jihad i gruppi locali invocando l’unità di tutti i musulmani e la creazione di un califfato che parte dal Pakistan per arrivare in Siria e in Iraq. La cellula Khorasan dello Stato islamico nasce dunque in principio dall’unione di combattenti dell’Isis vero e proprio più alcune fazioni di talebani e jihadisti assortiti compresi il Jundullah, gruppo anti-sciita che opera principalmente contro l’Iran, e il Ttp, i cosiddetti Taliban pakistani che combattono contro Islamabad e secondo il Pakistan sono manovrati in remoto da Kabul. Il gruppo, per semplificare al massimo, si propone come unico vero erede dei jihadisti che hanno combattuto in Afghanistan, dei mujahedin afghani antisovietici, del Mullah Omar e di Osama bin Laden: che vengono citati con rispetto, mentre si accusano Al Qaeda e i talebani di aver smarrito la retta via e di essere, in sostanza, traditori della causa. L’Iskp o Isis-K vero e proprio si forma in seguito ufficialmente dalla scissione dell’Isis Levante (Isis-L), divisosi in due fazioni: una guidata da Ustad Moawya e un’altra guidata da Aslam Faroqqi. Gli uomini di Farooqi erano principalmente pakistani e gestiti da remoto dall’Isi, i servizi segreti militari, che forniva supporto finanziario e logistico dan-

Operazione dei talebani in un nascondiglio dell’Isis-K alla periferia di Kabul.

(Keystone)

do rifugio ai combattenti nelle aree tribali del Pakistan.

L’Isis-K avrebbe legami con la Lashkar-e-Toiba, con il Tehrik-e-Taliban Pakistan, con i talebani e con la rete Haqqani. Il fior fiore della jihad pakistana, insomma, e anche un pezzo dell’attuale Governo afghano (al cui interno, è bene ricordarlo, è in corso una lotta nemmeno troppo sotterranea tra la fazione Haqqani e quella del leader supremo Hibatullah Akhundzada). Fino a qualche mese dopo il ritorno a Kabul dei talebani, l’Isis-K sarebbe stata adoperata dai servizi pakistani per compiere il lavoro sporco per conto dei talebani impegnati prima nei colloqui di pace di Doha e poi nel cercare di convincere l’Occidente della necessità di armarsi per evitare che l’Afghanistan ridiventasse (rimanesse, più plausibilmente) il campo giochi preferito della jihad internazionale.

Secondo il generale americano Michael E. Kurilla l’Isis-K è in grado di attaccare gli interessi occidentali all’estero in soli sei mesi

Negli anni il gruppo ha colpito forze di sicurezza e politici afghani, i talebani, le minoranze religiose, le forze statunitensi e della Nato e le agenzie internazionali, comprese le organizzazioni umanitarie. Gli attacchi compiuti nella regione tra il 2019 e il 2021 sarebbero frutto di una stretta collaborazione tra Isis-K, la rete Haqqani dei talebani e altri gruppi terroristici con base in Pakistan. Negli ultimi tre anni la strategia è cambiata: l’Iskp, oltre ad accusare ormai apertamente i talebani di tradimento, parla di «liberare» l’Afghanistan, il Pakistan e il Turkmenistan orientale (la regione cinese dello Xinjiang), di allearsi con l’Uzbekistan e il Tagikistan per combattere la Russia e la Cina, prima di unirsi agli altri eserciti dell’Isis contro il vituperato Occidente.

Uno degli aspetti più peculiari delle reti operative esterne dell’Isis-K è difatti il coinvolgimento di numerosissimi cittadini tagiki nei vari piani di attacco, finanziamento e reclutamento portati avanti, oltre che in Iran, in Turchia e perfino in Germania (dove lo scorso luglio sono state arrestate sette persone con l’accusa di pianificare attentati terroristici) e in altri Paesi europei.

Gli USA monitorano da mesi il gruppo e il generale Michael E. Kurilla, capo del comando centrale dell’esercito americano, lancia l’allarme dichiarando che l’Isis-K «possiede la capacità e la volontà di attaccare gli interessi occidentali all’estero in soli sei mesi».

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Il primo colloquio privato tra Gorbaciov e Reagan nel novembre 1985 a Ginevra. (Keystone)
Francesca Marino

La lezione di Kate Middleton

Gran Bretagna ◆ Nel rivelare la sua malattia la principessa ha riportato ordine e umanità nel discorso pubblico

Come l’imperatrice malata del regno di Fantasia ne La storia infinita, Catherine Middleton ha lanciato un autorevole appello a combattere l’avanzata del Nulla, che nel nostro mondo ha le sembianze dello sguaiato spettacolo che i social network danno ogni giorno e che, secondo alcuni esperti, nel caso della principessa del Galles hanno seguito l’imput nefasto di disturbatori vicini al Cremlino, gente che di professione cerca di seminare confusione, discordia, destabilizzazione nella società. Ha chiesto rispetto, umanità e li ha ottenuti, si spera, in modo durevole, dopo settimane in cui tutto sembrava andare alla deriva. Volto sofferente e sempre bellissimo, panchina di legno e prato fiorito, maglia a righe, tono lucido, autorevole e caldo e quindi per forza anche materno, regale: sto male, mi sto curando, devo pensare alla mia famiglia, grazie per la premura ma ho bisogno di spazio come tutti i malati. E a tutti i malati voglio dire che non siete soli e che non bisogna perdere la speranza, mai. In un momento difficile come l’annuncio pubblico (e forzato) di una malattia spinosa, ha parlato da vera regina, Catherine Middleton, facendo del personale qualcosa di molto, molto universale. Si è guadagnata la simpatia di tutti e, si spera, il rispetto di un mondo che era andato in panico per la sua assenza e che non le aveva perdonato di essersi sottratta senza preavviso allo sguardo pubblico che da quasi vent’anni la accompagna in ogni momento di una vita che, fino poco tempo fa, aveva il sapore di una favola.

Lontana da ogni vittimismo, decisa a non suscitare pietà, Kate ha parlato come la regina Elisabetta quando, ai tempi della morte di Diana, si convinse a fatica che il silenzio non funzionava più, che il Regno Unito e il mondo interno erano davanti

a uno «spaesamento» e che lei, con la sua funzione più simbolica dei leader, doveva guidare la reazione pubblica davanti a un dolore enorme, aiutare a contenere l’emotività della gente. La principessa del Galles ha fatto un passo in più: si è mostrata talmente al di sopra delle cose da «far vergognare» la Rete, come hanno commentato in tanti, e riportare un po’ di ordine nelle derive violente della vita pubblica. Non solo, ha tirato una riga netta tra quello che è pubblico e quello che è privato, certo, ma ha fatto qualcosa di più grande. Ha illuminato di una chiarezza nuova quella zona d’ombra che è la malattia, il «lato notturno della vita» come lo chiamava Susan Sontag, ancora avvolto da una serie incredibile di pregiudizi e di superstizioni, da uno stigma sociale che però, nel momento in cui la popolazione invecchia e per qualche ragione ancora oscura agli scienziati stessi le diagnosi sui giovani sono in aumento, sta diventando ancora più insostenibile che in passato. Il cancro esiste, si cura sempre meglio, non bisogna nasconderlo né viverlo come una condanna, e in questo la principessa di Galles, votata alle campagne simboliche come tutti i membri di una Royal Family senza più potere politico, ha segnato una pagina di storia della comunicazione della malattia, parlando alla luce del sole prima di uscire temporaneamente di scena. Il suo coraggio è stato davvero esemplare – ce ne vuole per non emozionarsi, per mostrarsi curata ma diversa dal solito – guardando il mondo negli occhi e pronunciando parole prive di qualunque ambiguità per raccontare al mondo quello su cui il mondo ha fantasticato in maniera spesso selvaggia da gennaio in poi: l’operazione all’addome è andata bene di per sé, ma ha portato alla scoperta che il problema è anche oncologico e che ci vuole

L’annuncio: sto male, mi sto curando, devo pensare alla mia famiglia.

una chemioterapia preventiva. Niente corna, divorzi, misteri insondabili, ma solo la difficile verità di cure che possono rendere un po’ irriconoscibili anche le persone molto famose e di una notizia che va data con cautela a tre bambini ancora piccoli come George, Charlotte e Louis. Con tutto il patrimonio di «coolness» che la sua bellezza e aura di perfezione le danno, Kate ha fatto molto anche contro le stanche metafore di battaglia e guerra che vengono usate per chi affronta le cure per il tumore e, chissà perché, molto meno spesso per chi ha altre malattie: sono offensive, alludono a un’intollerabile gerarchia tra vincitori e perdenti e mettono una pressione assurda su chi soffre, aggiungendo sensi di colpa al dolore.

Certo, che una quarantaduenne

Il Galles celebra le differenze

molto in forma e probabilmente salutista si sia ammalata è una notizia devastante per il morale del Regno Unito e di tutto il mondo. Anche perché ha qualcosa di tragicamente in linea con i tempi. L’osservazione empirica – ma è possibile che così tante persone giovani si stiano ammalando? –sta trovando riscontro nelle statistiche preoccupanti che dicono che effettivamente è così e che le ragioni non sono ancora chiare ma hanno origine qualche decennio fa. È qualcosa con cui fare i conti anche a livello di discorso pubblico. Anche re Carlo ha già iniziato la sua, di chemioterapia, e pur continuando a seguire l’ordinaria amministrazione ha dovuto rinunciare agli impegni pubblici che ha aspettato per una vita di svolgere: farsi vedere in pubblico in questo mo-

mento sarebbe sconsigliabile, almeno secondo i dettami classici dell’iconografia reale. La lezione di Elisabetta – «devo essere vista per essere creduta», frase ripetuta fino alla nausea in questo periodo – è una strategia momentaneamente indisponibile, che si può sostituire solo con una trasparenza sufficiente da mettere a tacere le curiosità. Quello che si perde con l'assenza si guadagna però mostrandosi compassionevoli, partecipi, presenti nella realtà delle famiglie, della gente normale. Per Pasqua re Carlo ha mandato una «preghiera speciale» e ha ribadito di voler essere al servizio del Paese «con tutto il cuore». Nei giorni scorsi aveva mandato un messaggio toccante per elogiare Kate, la sua «adorata nuora», per il suo coraggio «nel parlare come ha parlato».

Prospettive ◆ Vaughan Gething, il nuovo premier, è il primo leader nero di una nazione non solo britannica ma anche europea

Vaughan Gething (nella foto) è il nuovo premier del Galles e dunque il primo leader nero di una nazione non solo britannica, ma anche europea. Nato 50 anni fa in Zambia da padre gallese e madre zambiana, il politico ed avvocato afro-britannico prende il timone del partito laburista gallese e dell’Esecutivo di Cardiff, succedendo a Mark Drakeford, che era in carica dal 2018.

Si tratta di una svolta epocale che lo stesso Gething ha voluto sottolineare nel suo discorso di accettazione davanti ai membri del Senedd, l’assemblea legislativa gallese. «Il Galles diventa la prima nazione nel Continente europeo ad essere guidata da una persona nera», ha dichiarato il nuovo first minister. «È un punto di orgoglio per un Galles moderno, ma anche una responsabilità spaventosa che di certo non prendo con leggerezza», ha puntualizzato Gething. Non senza pungolare prevedibili detrattori e anticipando come la sua nomina sarà certamente foriera di scenari a lui tristemente familiari: attacchi sui canali social e «uscite razziste mascherate da un linguaggio educato». «C’è chi metterà in discussione le mie mo-

tivazioni e solleverà ancora dubbi o negherà la mia nazionalità, mentre altri dibatteranno sul perché io giochi la carta della razza», ha aggiunto. «A quelle persone, io dico che è molto facile non preoccuparsi della propria identità quando la propria non è mai stata oggetto di controversia o un ostacolo», ha precisato il neo-premier, concludendo che Parlamento e Governo dovrebbero rispecchiare il Paese e pertanto celebrare le differenze, nel nome di «un Galles pieno di speranza, ambizione ed unità».

Con il Galles, sono tre le Nazioni britanniche ad essere guidate in questo momento da un leader appartenente ad una minoranza etnica: se a Londra e nel resto del Regno governa il primo ministro britannico di origine indiana Rishi Sunak, ad Edimburgo il first minister è l’anglo-pachistano Humza Yousaf. Solo la premier nord-irlandese Michelle O’Neill è bianca. D’altronde la Gran Bretagna è uno dei Paesi più multiculturali di Europa. Ed in particolar modo la capitale inglese, dove ormai quasi la metà della popolazione (circa il 47%) è di etnia asiatica, medio-orientale o africana.

Gething ne ha fatta di strada. Figlio di un veterinario bianco e di un’allevatrice di polli nera, lascia la natia Africa all’età di 2 anni per trasferirsi nella terra paterna insieme ai genitori e ai suoi quattro fratelli. L’impatto con il Galles da subito non risulta dei più facili: il padre Humphrey riceve un’offerta di lavoro che viene prontamente ritirata non appena il datore di lavoro vede la sua variopinta famiglia, tanto da costringere il nucleo a trasferirsi nel Dorset in Inghilterra, dove finalmente il veterinario trova un impiego e può crescere con la moglie i suoi figli. Il giovane afro-britannico ritorna in Galles per gli studi universitari: si iscrive alla facoltà di giurisprudenza, dove si distingue diventando il primo presidente nero dell’Associazione nazionale degli studenti del Galles. Una bella rivincita, che prosegue con una carriera professionale ricca di successi. Specializzato in diritto del lavoro, lavora come avvocato presso lo studio legale Thompson di Cardiff, dove diventa partner nel 2007, mentre l’anno successivo è nominato presidente di Wales TUC, la confederazione dei sindacati gallesi, tagliando un altro traguardo come più giovane e ancora una volta primo presidente nero dell’ente. Iscritto al partito laburista dall’età di 17 anni, entra nel Parlamento gallese, il Senedd, solo nel 2011, dove scala i gradini della gerarchia politica e istituzionale fino ad entrare nel Governo gallese nel 2016 come ministro della Salute e dello Sport, trovandosi a gestire la pandemia Covid nella regione, e divenendo poi ministro dell’Economia nel 2021. Lo scorso 20 marzo Gething è stato

nominato primo ministro del Galles e quindi quinto leader della nazione britannica dall’istituzione nel 1999 dell’Assemblea legislativa del Galles, alla quale Westminster devolve da allora specifiche competenze, in particolare in materia di sanità ed istruzione.

Si è trattato di una vittoria di misura, ottenuta con il 51,7% dei voti dei membri del Labour gallese a fronte del 48,3% di quelli riscossi dall’avversario, Jeremy Miles. Il nuovo first minister ha avuto però l’intelligenza politica di affidare al valoroso contendente sconfitto un dicastero di peso nel suo nuovo Gabinetto, promuovendo Miles – ex titolare della Salute – a ministro dell’Economia dell’Energia, oltre a confermare la sue responsabilità in tema di promozione e tutela della lingua gallese. Una mossa che non solo si traduce in una mano tesa verso quanti nel partito non hanno forse accolto con entusiasmo la sua designazione, ma che sottolinea anche la sua attenzione per la forte identità culturale della nazione, dove lo storico idioma celtico è ancora la prima lingua per quasi il 20% della popolazione.

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Gallino Foto ufficiale / Wikipedia

«Stiamo tra cadaveri che galleggiano»

Reportage ◆ Saliamo a bordo della Ocean Viking, nave norvegese affittata da Sos Mediterranée per salvare chi tenta la via acquatica per fuggire da miseria e guerre. «I naufraghi sono in un’altra dimensione: c’è chi piange, chi grida, chi prega»

Angela Nocioni, testo e foto

«Non credo che queste persone siano nate per morire affogate mentre cercano di arrivare in Europa. Io, con il mio minuscolo contributo, sono qui a bordo perché voglio provare a salvarle», dice Aline. Parla sempre a bassa voce, ha grandi occhi neri. Seduto a poppa guarda il mare della Libia oggi senza onde. Siamo in acque internazionali al largo di Tripoli. Lui è algerino, vive nei Paesi baschi, non ha ancora trent’anni, è poliglotta. È uno dei mediatori culturali a bordo della Ocean Viking, nave norvegese affittata da Sos Mediterranée, una rete di organizzazioni umanitarie con sedi in Francia, Germania, Italia e Svizzera che ha come obiettivo la conduzione di operazioni di ricerca e soccorso in mare (www.sosmediterranee.fr). L’equipaggio si compone di 25 membri, molti sono giovani ragazzi e ragazze.

Questa nave di ferro rossa, dalla prima missione nel 2016 a oggi ha salvato oltre 40mila persone. Tra loro quasi duemila bambini

«Lavoravo in un hotel e un giorno, mentre ero a Praga, ho ricevuto la telefonata di un parente». A parlare, ai radar nel ponte di comando, è Luisa, piemontese, la capa missione. «Mi ha detto di una persona che aveva tentato la traversata su un gommone perché senza visto e non ce l’aveva fatta. Lì per lì ho solo pianto. Il giorno dopo ho deciso che tutte le lingue che parlo potevano essere più utili in mare che a terra». Il secondo di Luisa è napoletano, Lanfranco, una carriera in mare nelle navi civili. «Davo una mano sulle autoambulanze come volontario – dice – ma a 61 anni ho pensato che forse era meglio condurre le navi di soccorso».

Ci sono marinai della Bretagna e della Normandia. Un ex ufficiale di bordo, sempre civile, che ha fatto la scuola del mare a Venezia. Li riconosci da come si muovono. Con un balzo sono dalla scala al ponte, dal ponte ai gommoni. Ci sono mediche specialiste dell’emergenza, francesi e del Galles, tutte donne. Qualcuna viene da Medici senza frontiere, qualcuna da Doctors of the World. Qualcuno viene dalla scuola Bioforce di Parigi, la scuola delle specializzazioni uma-

nitarie, qualcuno dal molo di Marsiglia. Tra i soccorritori ci sono uno svedese, un londinese, un sudanese. Una mescolanza di mondo marinaio e mondo degli aiuti internazionali. E noi li accompagniamo in missione.

La mattina del 14 marzo scorso ci apprestiamo a calare in mare una scialuppa di salvataggio per soccorrere un gommone stracolmo avvistato col binocolo da prua. Otto metri di lunghezza e tossiche esalazioni di carburante. Trasporta una novantina di persone (lo scopriremo poi); tra loro una ventina di bambini, tra cui Oumar, 8 anni, del Mali, un bimbo bellissimo e molto intelligente che viaggia incredibilmente da solo. Da solo a 8 anni. Ma c’è uno stop, bisogna aspettare la luce verde dal ponte di comando. Che non arriva. Sospesi lì fuori bordo con i caschi e i giubbotti salvagente, i quattro soccorritori aspettano l’ok. Segue il dialogo: «Cosa aspettiamo?». «Che l’Italia ci dia l’autorizzazione a non lasciar morire in mare quelle persone laggiù». «E se non ce la dà ci andiamo a preparare un caffè mentre loro affogano?». Il via libera arriva e il salvataggio viene eseguito a gran velocità mentre arriva una motovedetta della Guardia libica. È la Fezzan, una delle motovedette date dal Governo italiano a Tripoli.

Durante il salvataggio sono i mediatori i primi a parlare con i naufraghi. Uno sta in piedi sulla prua del gommone e dice: «Siamo una nave di soccorso europea, vi veniamo

ad aiutare. Abbiamo quattro regole: state seduti, non gridate, ascoltate e aiutateci a salvarvi». «È successo di dover dire: non siamo i libici, perché nella notte c’era il terrore sul barchino e si volevano buttare in acqua», raccontano.

A bordo della Ocean Viking vige un’organizzazione ferrea. Sveglia all’alba. Colazione dei soccorritori, dopo quella del gruppo addetti alle macchine. Riunione dell’equipaggio. Poi sparpagliati da prua a poppa a preparare il container del pronto soccorso, il palloni di ventilazione, i giubbotti, i gommoni. Questa nave di ferro rossa uscita da un cantiere norvegese quasi 40 anni fa, dalla prima missione nel 2016 a oggi ha salvato oltre 40mila persone. Tra loro quasi duemila bambini.

Al Tribunale civile di Brindisi si sta svolgendo il processo sull’ultimo fermo amministrativo della Ocean Viking, sospeso il 20 febbraio scorso dopo un ricorso in cui Sos Mediterranée ha chiesto che venisse appunto annullato il provvedimento di fermo, o comunque dichiarato illegittimo, e in subordine che venisse sollevata la questione di legittimità costituzionale della norma in base alla quale è stato comminato il fermo (decreto Piantedosi, ovvero delle regole che rischiano di limitare le attività di salvataggio nel Mediterraneo). E qui cominciano i guai, perché come glielo spieghi a un soccorritore svedese il ministro Piantedosi? Come gli racconti di Cutro e del caicco naufragato

a pochi metri dalla riva col suo carico di bambini nella stiva?

A bordo di questa grande nave rossa ci sono ragazzi che in equilibrio tra tanti mondi hanno deciso di stare in mare e nel mare hanno una specializzazione preziosa: salvare naufraghi. Da quando il Mediterraneo è un cimitero, le navi di soccorso come questa fanno quello che l’Europa faceva con la missione Mare nostrum e ora non fa più. A chi parla arabo chiedo cosa dicono le persone appena tirate fuori dall’acqua. «Sono in un’altra dimensione – mi dice – si sorprendono di essere vive, di solito non parlano, i primi a tornare alla vita sono i bambini, corrono, ridono. Gli adulti dipende. Qualcuno sviene, qualcuno piange, qualcuno grida, qualcuno prega». Cosa dicono quando scendono: «La frase più frequente, quella che ho sentito più volte, è: restate in mare, tante persone stanno affogando, restate in mare». A bordo della Ocean Viking c’è un tabù, una tragedia di cui chi c’era non parla volentieri. Si è consumata nell’aprile del 2021. Me la racconta il più giovane dei testimoni, l’unico disposto a farlo: «Era la mia prima missione. Arriva la segnalazione di una imbarcazione precaria con forse 130 persone a bordo. C’era mare grosso. Era molto distante. Cambiamo direzione. Ci dicono dal ponte di coman-

do che saranno 9 ore di navigazione, saltiamo su onde di cinque, sei metri. Se su una nave di 60 metri saltiamo così, cosa succede a una barchetta alla deriva? Ricordo il profilo di una nave commerciale e hanno detto dal ponte di comando che ci avvisava: stiamo tra cadaveri che galleggiano. Tutto era morte. L’odore della morte lo percepisci, l’anima lo sente. Ormai c’erano solo corpi. Donne, bambini a galla. A un certo punto non ce l’ho fatta più, sono venuto a poppa. Mi sono riaffacciato, davanti a me nell’acqua un ragazzo appeso al suo giubbotto con la testa e le braccia penzolanti. Uno dei cadaveri sembrava un sub, si erano imbarcati in un pezzo di legno coperto con la plastica e dei tubi galleggianti ai lati, e lui si era preparato forse a stare in acqua. Siamo rimasti ad aspettare che venissero i libici a recuperare i corpi, li ho chiamati io, sono salito sul ponte, ho parlato nella loro lingua. Abbiamo dato loro la posizione esatta, abbiamo detto loro quanti cadaveri, abbiamo chiesto che venissero a prenderli per favore, per dare degna sepoltura. “Sì, sì, ora veniamo, ora veniamo”, hanno detto. Chiamati e richiamati. E non è venuto nessuno. Abbiamo aspettato lì con la prua attorniata da cadaveri per un giorno intero. Dopo il tramonto abbiamo detto: andiamo a salvare i vivi e siamo andati via anche noi».

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Pochi alloggi e i costi degli affitti salgono

Berna ◆ La Confederazione presenta un piano d’azione per rimediare senza stravolgere il mercato. Il caso peculiare del Canton Ticino

Ignazio Bonoli

Le spese per l’affitto sono uno di quei temi che sollevano le maggiori discussioni, anche nell’ambito del rincaro generale e della sua compensazione. Dal 1950 queste spese hanno oscillato tra il 15 e il 20% del reddito lordo delle famiglie. Nel 2021 erano state in media del 14%, ma per le famiglie più povere potevano raggiungere anche il 35%. Da qualche anno l’offerta di abitazioni in affitto in Svizzera, in rapporto alla popolazione, si sta rarefacendo. Lo scorso anno gli esperti del Credit Suisse, nello studio sulla situazione del mercato immobiliare, avevano lanciato l’allarme su questa evoluzione poiché è la fonte principale del rincaro degli affitti delle abitazioni. Allarme che è stato ora raccolto dalla Confederazione che ha presentato una serie di misure per arginare queste conseguenze.

Nel 2021 le spese per l’affitto sono state in media il 14% del reddito lordo, con picchi fino al 35%

Per gli esperti di Berna le cause del rallentamento dell’offerta di abitazioni sono essenzialmente due: l’immigrazione, che è il fattore principale dell’aumento della popolazione, e l’aumento della superficie abitata per persona. Fattori che provocano un fabbisogno di circa 50’000 abitazioni in più all’anno, mentre la produzione si ferma a circa 40’000 abitazioni all’anno. La conseguenza di questa rarefazione, accanto all’aumento dei tassi di interesse, è quindi l’aumento del costo degli affitti.

La diminuzione delle domande di costruzione indica che la situazione tende a prolungarsi nel tempo. Nel 2023 il numero di domande di costruzione è sceso di circa il 30% rispetto al livello del 2016. Il che, secondo le valutazioni della Banca cantonale di Zurigo (BCZ), ha provocato un aumento del costo dell’af-

fitto del 3,5%, mentre un aumento del 4% è previsto per quest’anno. Un’altra caratteristica del mercato immobiliare odierno è la diminuzione di appartamenti vuoti e quella della durata delle pubblicazioni dell’offerta di appartamenti in affitto. Questo concerne soprattutto i grandi centri, con i loro agglomerati e le regioni turistiche. Ma su questo mercato vi sono diversi altri freni: la pianificazione territoriale, che riduce le zone edificabili, la lunghezza burocratica per l’ottenimento di licenze di costruzione, nonché i molti ricorsi, gli ostacoli all’aumento degli affitti, per cui gli affitti medi in essere sono inferiori a quelli del mercato per le nuove abitazioni.

La BCZ valuta la differenza fra i due livelli, su scala nazionale, nel 14%, ma nella città di Zurigo essa sale al 25%, o in quella di Ginevra perfino al 54%. Situazione che, in pratica, riduce ai minimi termini il cambio di casa e quindi l’offerta di abitazioni costruite. Secondo le stesse valutazioni, le case sottoccupate a Zurigo sono i due terzi del totale e a Ginevra perfino il 72%. Questo fa dire a una recente indagine della Raiffeisen che circa un terzo dei locatari dispone di troppa superficie abitativa, mentre un quinto ne ha troppo poca. Una diversa distribuzione delle abitazioni permetterebbe di risolvere il problema di mancanza di spazio, mettendo a disposizione circa 170’000 appartamenti di 4 locali.

In questo contesto, come vuole muoversi la Confederazione? Per il momento il consigliere federale Guy Parmelin ha convocato una riunione dei principali responsabili del settore, compresi Cantoni, Comuni e gruppi di interesse, per presentare un piano di azione, che per il momento si limita a esami e raccomandazioni. Il piano evoca però la possibilità di ridurre gli ostacoli burocratici per i progetti edificatori, comprese le pianificazioni urbanistiche nei Cantoni e nei Comuni. Si prevedono più zone miste di abitazione e la-

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Hotel Bellavista ***

– Gabicce-Mare, dal 9 al 16.06.2024

Hotel Miramare****

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Hotel Losanna ****

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Hotel Graziella***

voro, nonché aumenti degli indici di occupazione, con l’intento di incrementare il numero di abitazioni con affitto moderato. Sono prevedibili anche misure più incisive. Soprattutto quelle che potrebbero proporre un’utilizzazione minima del terreno o anche l’idea di ancorare in una legge la disponibilità di terreno per l’edilizia abitativa. Infine tra le possibilità, per ora solo ventilate, anche quella di introdurre una tassa per i ricorsi in materia di costruzione e, infine, anche quella di incentivi fiscali. Il piano d’azione non va comunque oltre, per esempio come chiesto dalla sinistra, di vietare l’affitto di breve durata o attraverso piattaforme come Airbnb, cosa che alcuni Comuni hanno cominciato a praticare. Oppure di riservare un diritto di prelazione ai Comuni in caso di vendita di terreni edificabili, disposizioni meglio realizzabili a livello cantonale o comunale. In sostanza, l’accento è posto su un aumento dell’offerta di abitazioni per ovviare all’attuale carenza affinché il mercato ritrovi un certo equilibrio.

In Ticino la situazione è un po’ diversa. Gli agglomerati non sentono una forte domanda di alloggi

In Ticino la situazione è un po’ diversa. Gli agglomerati non sentono una forte domanda di alloggi. Spesso la popolazione preferisce le periferie, ma non solo per motivi legati ai prezzi. Secondo le valutazioni della Svit vi sarebbero tuttora circa 5000 alloggi sfitti e l’attività edile trova ancora buoni ritmi di lavoro. D’altro canto, la crescita della popolazione non è tale da provocare un aumento della domanda di alloggi. Vi è anche da noi una certa immigrazione, ma buona parte delle attività lavorative sono svolte da mano d’opera frontaliera che ovviamente non influenza l’attività della costruzione di alloggi.

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Tel. 091 912 17 17 – info@prosenectute.org

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Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 2 aprile 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino ATTUALITÀ 27
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Veduta di un’area residenziale di Zurigo. (Keystone)

Le riserve di vitamina D sono esaurite

«La carenza di luce solare tra l’autunno e la primavera esaurisce le scorte di vitamina D e ci fa sentire stanchi e fiacchi», spiega Albina Nowak, capoclinica della Clinica di endocrinologia dell’Ospedale universitario di Zurigo. Per questo motivo è importante trascorrere più tempo all’aperto. «Anche se fa ancora fresco, bisognerebbe esporre al sole il dorso delle mani e il viso per almeno mezz’ora al giorno», consiglia la specialista. Può essere utile anche assumere un integratore di vitamina D. Questi preparati esistono in gocce o sotto forma di compresse. La dottoressa consiglia di scegliere la variante giusta con il medico o il farmacista. «L’ideale sarebbe iniziare in autunno quando si torna all’ora solare e assumere l’integratore fin quando si passa all’ora legale in primavera.», spiega Albina Nowak. È possibile però anche iniziare ad assumerlo ora.

I pollini ci fanno soffrire

Naso che cola, starnuti a raffica e occhi che lacrimano: chi soffre di raffreddore da fieno conosce molto bene questi sintomi. Le allergie e soprattutto le allergie ai pollini in primavera possono causare, oltre a sintomi gravi, anche stanchezza e capacità di concentrazione ridotta. «Se si assumono farmaci contro il raffreddore da fieno di prima generazione ci si sente ancora più stanchi», indica Roxane Guillod, co-responsabile dei servizi specialistici del Centro Allergie Svizzera aha!. In generale i cosiddetti antistaminici non vengono più consigliati. Pare che i farmaci nuovi agiscano senza produrre questi effetti collaterali. «È bene chiedere consiglio al proprio medico di famiglia o a un allergologo», consiglia la specialista. La dottoressa raccomanda inoltre d’indossare occhiali da sole, lavarsi i capelli ogni sera e seguire le previsioni sulla concentrazione dei pollini in tempo reale con l’applicazione «Pollini-News».

La vita sociale è ridotta Sentirsi giù e fiacchi per un periodo di tempo limitato può essere riconducibile a cause fisiologiche in quanto l’adeguamento alla maggior durata delle ore di luce comporta uno scombussolamento temporaneo dell’organismo. «Ma non bisogna dimenticare che la stanchezza è anche una condizione

Stanchezza primaverile

Perché la primavera stanca?

In questa stagione molte persone si sentono stanche e spossate. Scopri perché e cosa fare per rimediare

Testo: Edita Dizdar,

naturale», spiega Jennifer Picci, psicologa FSP a Carouge. Di solito questo stato non dura a lungo e basta sincronizzarsi con la nuova stagione riprendendo piano piano il ritmo delle attività tipiche della bella stagione. Per le persone introverse che amano stare a casa, dover uscire più spesso e incontrare gente può essere controproducente. Passeggiare regolarmente all’aria aperta è comunque consigliato, ed è fattibile facilmente anche da soli.

Non dormire a sufficienza Trascorrere più tempo fuori in primavera aiuta a stabilizzare la nostra qualità del sonno. Quando però in più subentra l’ora legale, molte persone rimangono scombussolate. «Secondo la cronomedicina che si occupa del nostro orologio biologico, il cambio dell’ora è una cosa assurda», afferma Jens Georg Acker, medico caposervizio della Clinica di medicina del sonno di Bad Zurzach.

Motivo: la durata del sonno si riduce ancora di più a causa della maggiore durata delle ore di luce. Inoltre l’orologio biologico è disturbato. Il dottor Acker consiglia di dormire a sufficienza non solo nel fine settimana, ma anche dal lunedì al venerdì. Il cosiddetto social jet lag, ovvero dormire poco in settimana e dormire fino a tardi nel fine settimana, comporta rischi per la salute. Le conseguenze possono essere sovrappeso e difficoltà di concentrazione. È importante anche segnalare chiaramente al proprio corpo che la fase di sonno è terminata: «Non solo quando ci svegliamo, ma anche quando ci muoviamo all’aria aperta alla luce del giorno nelle prime ore del mattino, ad esempio mentre andiamo al lavoro», spiega.

Gli ormoni sono impazziti Con il cambio di stagione anche l’equilibrio ormonale viene stravolto. «La produzione di melatonina, che aumenta il bisogno di sonno in inverno, diminuisce. Nel contempo aumenta la secrezione di serotonina, il cosiddetto ormone della felicità», spiega Joëlle Zingraff, ricercatrice di The Women Circle. Adattarsi alla primavera comporta anche la produzione di più endorfine, testosterone ed estrogeni, che inducono stanchezza. Si stima che un adulto su due, prima di sentirsi pieno di energia, provi una forte stanchezza. La specialista Zingraff consiglia di passeggiare all’aria aperta. Questo è importante per garantire un apporto sufficiente di ossigeno.

È importante seguire una dieta leggera ed equilibrata ricca di verdure fresche di primavera. Gli integratori alimentari non sostituiscono questo tipo di alimentazione.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 2 aprile 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino MONDO MIGROS 28
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Passo dopo passo le indichiamo la strada che porta verso il pensionamento

La consulenza della Banca Migros ◆ Non vuole lavorare a pieno ritmo fino ai 65 anni ma andare in pensione in anticipo sarebbe troppo caro? In questo caso vale la pena di prendere in considerazione un pensionamento scaglionato. Ecco una check-list

Vediamo come funziona

Il principio del pensionamento scaglionato o pensionamento parziale è molto semplice: si riduce progressivamente il grado di occupazione e si preleva al contempo una parte dell’avere di vecchiaia risparmiato nel 2° pilastro, in tal modo si può compensare la diminuzione del salario e prelevare il denaro a titolo di rendita o a titolo di capitale. È consentito articolare il pensionamento parziale in un massimo di tre fasi, l’ultima delle quali coincide con la cessazione dell’attività lavorativa.

Esempio: a 58 anni riduce il grado di occupazione passando dal 100% al 70% e preleva il 30% dell’avere della cassa pensioni. Tre anni dopo restringe il grado di occupazione al 50%, in combinazione con il versamento di un ulteriore 20%. Al pensionamento ordinario preleva il 50% corrispondente all’avere residuo.

Vantaggi: continua a versare nella cassa pensioni l’importo dello stipendio ridotto, incrementando il capitale di vecchiaia. E con la cassa pensioni mantiene l’assicurazione contro decesso e invalidità. In qualità di persona che esercita un’attività lucrativa a tempo parziale versa i contributi AVS in modo tale che non si creino lacune nell’AVS.

Svantaggi: con il calo dei contributi alla cassa pensioni decrescono gli averi di vecchiaia. In aggiunta, per la parte prelevata anticipatamente diminuisce l’aliquota di conversione che determina l’ammontare della rendita.

Da quando posso ridurre il grado di occupazione?

È la sua cassa pensioni a determinarlo. Molte casse consentono un pensionamento scaglionato a partire dai 58 anni di età.

A proposito: se al raggiungimento dell’età ordinaria di pensionamento intende lavorare a tempo parziale può prolungare il pensionamento scaglionato fino ai 70 anni.

La preparazione

Consenso: chieda al datore di lavoro se è d’accordo con il pensionamento parziale.

Pianificare per tempo

Cosa consiglia la Banca Migros

• Colmare le lacune previdenziali mediante riscatti nella cassa pensioni.

• Evitare lacune contributive nell’AVS versando tempestivamente i contributi mancanti.

• Accantonare ulteriori averi di vecchiaia e investirne una parte in azioni, obbligazioni o altri investimenti in valori.

Se possibile, versare l’importo massimo annuale nel pilastro 3a.

Richiedere la pianificazione finanziaria

Per usufruire di una pianificazione finanziaria a tempo debito si rivolga alla Banca Migros e potrà definire al meglio la previdenza. Informazioni su bancamigros.ch/ pianificazione-finanziaria.

Data di inizio: chiarisca con la sua cassa pensioni a partire da quale età è consentito un pensionamento parziale.

Piano di budget: crei una panoramica di uscite, entrate, patrimonio, debiti, assistenza sanitaria e assicurazioni in seguito alla riduzione fino a ottenere il piano del budget.

Confronto: si accerti di poter mantenere il suo tenore di vita con le prestazioni di vecchiaia previste.

Peculiarità cantonali

A seconda del luogo di residenza cambiano le condizioni del pensionamento scaglionato. Le differenze dipendono dalle disposizioni delle autorità fiscali cantonali per i regolamenti delle casse pensioni.

Riduzione: a seconda del Cantone deve ridurre il grado di occupazione e il salario in una forbice che va da almeno il 20% fino al 30% per ogni fase del pensionamento, in via permanente.

L’importo delle prestazioni della cassa pensioni (CP) è legato alla riduzione del grado di occupazione: se lavora il 30% in meno, deve prelevare anche il 30% dei suoi averi della CP.

Grado di occupazione minimo: pri-

ma della cessazione definitiva dell’attività lucrativa deve lavorare almeno il 20% o addirittura il 30% del grado di occupazione.

Capitale o rendita?

In alternativa alla rendita mensile, può prelevare il suo avere di vecchiaia dalla cassa pensioni come prestazione in capitale. Le condizioni quadro non sono però identiche ovunque.

Numero di prelievi: alcuni Cantoni consentono solo due prelievi di capitale dalla cassa pensioni, altri fino a tre. Tra un prelievo e l’altro devono decorrere almeno dodici mesi. Ultimo prelievo: spesso deve percepire l’ultima parte dell’avere di vecchiaia a titolo di rendita. Vantaggi: prelevando il capitale di previdenza in due o tre parti, le imposte sono nettamente inferiori rispetto al prelievo unico. Nella maggior parte dei Cantoni, infatti, i prelievi di capitale più consistenti vengono tassati in proporzione più elevata rispetto a quelli più piccoli. Se percepisce le prestazioni della cassa pensioni sotto forma di rendita, aumenta il suo reddito imponibile a vita, e paga di conseguenza più imposte.

AVS: le norme

In linea generale, la rendita AVS viene corrisposta solo al raggiungimento dell’età ordinaria di pensionamento. Di norma può prelevarla con un anticipo massimo di due anni. Svantaggi: l’anticipazione della rendita AVS comporta una riduzione a vita dell’avere: attualmente il 6,8% per ogni anno di prelievo anticipato. Inoltre, deve continuare a pagare i contributi AVS.

Pilastro 3a: le norme

Può prelevare il capitale risparmiato nel pilastro 3a non prima dei cinque anni precedenti al raggiungimento dell’età ordinaria di pensionamento. Come per le prestazioni della cassa pensioni, è opportuno prelevare l’avere in modo scaglionato per beneficiare di un onere fiscale inferiore. A tal fine, l’avere deve essere distribuito su diversi conti del pilastro 3a. Il motivo: da un conto 3a non è possibile prelevare denaro a più riprese

Un consiglio

A partire da un avere di circa 50’00 0 franchi si deve aprire un altro conto.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 2 aprile 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino ATTUALITÀ 29
Jörg Marquardt Jeannette Schaller; responsabile Pianificazione finanziaria alla Banca Migros Pianificare per tempo il pensionamento parziale significa sicurezza nel pensionamento graduale. (Freepik)
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Tempo

Aino e Alvar Aalto

Heikki Aalto-Alanen ha scritto la storia d’amore e d’architettura dei nonni materni grazie alle lettere, alle fotografie e ai disegni

Pagina 33

La città ideale

Pensiero e storia da cui è nato Terra del Sole, il nucleo fortificato mediceo oggi parte integrante del comune di Castrocaro Terme

Pagina 35

In ricordo di Maurizio Pollini

Uno dei grandi pianisti dell’ultimo secolo, 82 anni compiuti il 5 gennaio, nell’agenda aveva ancora concerti per tutto il 2024

Pagina 37

Una prospettiva zoocentrica per la maternità

Feuilleton ◆ Intervista alla filosofa femminista Adriana Cavarero autrice di Donne che allattano cuccioli di lupo. Icone dell’ipermaterno

Laura Marzi

«Ogni essere umano è nato da donna, anche se ciò non comporta affatto che ogni donna, ogni figlia, sia obbligata a diventare madre. Riflettere sul dato della nascita da madre è un gesto filosofico»: abbiamo incontrato Adriana Cavarero (nella foto), filosofa femminista, già docente in diversi atenei del mondo, autrice di testi fondamentali del pensiero della differenza e, in ultimo, di Donne che allattano cuccioli di lupo. Icone dell’ipermaterno

Nel primo capitolo lei attribuisce alla scrittrice Elena Ferrante l’urgenza di liberare la maternità «dalle finzioni che l’hanno censurata o falsificata». È anche il suo obbiettivo con questo libro?

Sì, ho cercato di sganciare la maternità dalle sue rappresentazioni tradizionali che insistono su un’immagine idilliaca e sentimentale della donna che, divenendo madre e sacrificandosi per i figli, realizzerebbe così la sua autentica essenza femminile. Come, d’altra parte, ho criticato alcune correnti femministe, ispirate da Simone de Beauvoir, che vedono nella maternità una gabbia biologica che imprigionerebbe le donne nella funzione di procreare, e perciò nell’ambito domestico, impedendo loro di realizzarsi come soggetti liberi.

Il concetto di deinon, che lei definisce «un vocabolo pressoché intraducibile» e che associa al «tremendo» di Elena Ferrante, ritorna nel testo come elemento che inevitabilmente connota l’esperienza della maternità. Ce ne parla?

La gravidanza e il parto costituiscono un’esperienza nella quale il corpo di una donna tocca e viene attraversato dal fenomeno del processo generale della vita. La vita non è infatti mai una realtà astratta, separabile dalle molteplici forme viventi, umane e non umane, in cui si incarna. Ora, per un essere umano, fatto di corpo e psiche, carne e coscienza, fare esperienza diretta di questo processo di generazione delle forme viventi è «tremendo» o spaventoso e insieme prodigioso. In questo senso, la mia tesi è che la maternità non sia affatto una gabbia biologica bensì il luogo dove l’umano fa conoscenza e si fa complice della vita a cui apparteniamo. È una conoscenza importante che posiziona il vivente umano in mezzo agli altri viventi invece che collocarlo al vertice come creatura speciale e superiore, loro sovrano e padrone.

Anche in questo testo come per esempio in Tu che mi guardi, tu che mi racconti lei insiste sul fatto che ci sono dei concetti che la letteratu-

ra affronta, descrive e comprende, meglio della filosofia. La filosofia procede per definizioni e ha uno sguardo speculativamente preciso ma ristretto. Coglie i concetti più che la realtà concreta, sempre singolare, delle vite. La narrazione ha invece uno sguardo più largo e, per quanto riguarda le vite vissute, più profondo. Dice quel che la filosofia non vede e perciò non può dire. Per questo ho apprezzato le parole di Elena Ferrante quando afferma che nei suoi libri tenta di «dire la verità della maternità come solo la finzione letteraria può permettersi di dire».

Una parte del femminismo considera i discorsi sulla maternità pericolosi perché concorrerebbero a relegare le donne nel ruolo di madri e quindi all’accudimento. È un rischio che lei a più riprese dichiara di comprendere. Allo stesso tempo lei evidenzia il pericolo che deriva dal non nominare il corpo materno, il fatto che tutte e tutti, finora, veniamo da corpo di donna. Può approfondire?

Ogni essere umano è nato da donna, anche se ciò non comporta affatto che ogni donna, ogni figlia, sia obbligata a diventare madre. Riflettere sul dato della nascita da madre, sulla nostra origine nel e dal corpo materno, è un gesto filosofico che contrasta innanzitutto una tradizione che, come ha notato non solo Hannah Arendt, misura il senso della vita umana sulla morte invece che sulla nascita. La nascita e il corpo materno vanno invece messi al centro e nominati, non solo perché sono dati di fatto evidenti che è assurdo ignorare o marginaliz-

zare, ma perché sono appunto il luogo dove l’umano sperimenta e conosce il suo far parte della varietà infinita delle forme viventi. Certo, il rigenerarsi della specie umana dipende dal fatto che le donne continuino a generare, a scegliere quella maternità di cui il loro corpo è capace in potenza. Ma non c’è alcuna obbligatorietà in questa scelta. In tal senso, come già avevo affermato tanti anni fa in Nonostante Platone parlando della figura di Demetra, il potere della maternità, di generare o non generare, è tremendo, veramente inquietante. Cercare di manipolarlo con statistiche sulla denatalità mi pare, pertanto, un po’ riduttivo rispetto alla «verità» della posta in gioco.

Nel capitolo che ha intitolato Intermezzo autobiografico descrive la difficoltà di doversi confrontare con espressioni quali «persone con utero» o «persone con mestruazioni» che il nuovo linguaggio inclusivo imporrebbe al posto di «donne». Evidenzia, poi, in queste nuove regole il rischio di una regressione invece che di un passo verso la libertà. Ce ne parla?

Le politiche dei movimenti LGBTQIA+ cercano di imporre una specie di neolingua finalizzata soprattutto a negare il binarismo sessuale, ossia il fatto che nella specie umana, come in molte altre specie animali, i sessi sono due: maschio e femmina. Il fine di questi movimenti è affermare che i sessi non sono due bensì tanti quanto ogni persona si auto-percepisce nella sua diversa identità sessuale. Alla tesi che le minoranze siano oppresse dal sistema patriarcale, si è sostituita ora la tesi che a opprimerle sia invece

il sistema binario. Per evitare la pretesa gabbia linguistica del binarismo, si propone dunque un linguaggio inclusivo – fatto di asterischi, schwa e altri accorgimenti – che proibisce di nominare le donne definendole invece «persone con utero». Come femminista, appartenente a un movimento storico che ha lottato per le donne e con le donne, mi oppongo a questa neolingua artificiosa e, per le donne, oltraggiosa. Come filosofa osservo che il problema non sta nella pretesa alquanto astratta, e biologicamente insostenibile, di negare il fatto che i sessi sono due, bensì nel criticare quelle interpretazioni patriarcali del binarismo che hanno fatto del sesso maschile il modello dell’umano in quanto tale, degradando il sesso femminile a una sua derivazione inferiorizzante. La Bibbia racconta notoriamente che Eva fu tratta da una costola di Adamo. E nei miti greci e nella tradizione filosofica c’è anche di peggio.

Nel testo emerge che la concezione della maternità e del parto come esperienze in cui la vita, «zoe », che ci circonda e che ci pervade, diventa «bios», un corpo singolo, attraverso una donna, è correlata a una ecologia che lei definisce «radicale». Ce ne parla?

Cerco di proporre quella che io chiamo una zoontologia, una prospettiva che guarda alla condizione umana come condizione di una specie vivente inserita nel mondo variegato delle forme viventi e ad esse collegata, per dirla con Darwin, in un’unica rete. Da quando Aristotele ha definito l’uomo uno zoon logon echon, ovvero un vivente che ha il linguaggio, non si

è mai smesso di esaltare la superiorità dell’uomo in quanto capace di linguaggio (di pensiero, di ragione), e di svalutare ciò che nella specie umana è mera animalità, corpo, vita. Anche la donna in quanto generatrice, insieme alla natura tutta in quanto rigenerazione dei viventi, è finita in questa posizione inferiore e degradata. La dominazione dell’uomo sulla donna ha infatti coinciso con il dominio dell’uomo sulla natura. Ora, dubito che questa prospettiva antropocentrica sia in grado di affrontare efficacemente la catastrofe ecologica che è oggi finalmente all’ordine del giorno. Credo invece che una prospettiva zoocentrica, volta a riconoscere l’aspetto essenziale del nostro essere viventi allacciati con altre forme viventi, possa inquadrare meglio il problema. Abbiamo bisogno della scienza – detesto l’atteggiamento antiscientifico di certe filosofie umanisticheggianti. Ma il modo di comprendere i veri termini del problema ecologico deve ribaltare il paradigma antropocentrico di aristotelica memoria e ricollocare gli umani nella rete di quelle specie viventi di cui noi siamo solo una forma, genealogicamente tarda e passeggera, anche se straordinariamente distruttiva. La conoscenza viscerale della zoe che viene dall’esperienza materna può essere d’aiuto. Ovvero può aiutarci a impostare un’ecologia radicale.

«Non è dando la vita ma rischiandola che l’uomo si eleva al di sopra dell’animale. È per questo che nell’umanità la superiorità è accordata non al sesso che genera ma a quello che uccide». Si tratta di una citazione da Il secondo sesso di Simone de Beauvoir che fa eco a un tema su cui lei ha lavorato molto: la priorità che la tradizione filosofica occidentale assegna alla morte invece che alla vita. Anche la letteratura agisce allo stesso modo, considerando eroi coloro che vivono per morire. Lei che tipo di eroismo desidererebbe?

A parte gli eroi omerici che, come Ulisse, sanno piangere, detesto i mondi che hanno bisogno di eroi. L’esaltazione della morte eroica e della potenza di uccidere mi è ancora più in uggia. La tradizione patriarcale, che ha dominato la storia finora, ci ha regalato guerre: guerre che ancora e sempre impazzano. Mi pare che sia ora di cambiare prospettiva, di mettere in campo un po’ di immaginazione utopica, attenta alla fragilità del vivente e allergica al desiderio di morte che nutrono gli eroi.

Bibliografia

Adriana Cavarero, Donne che allattano cuccioli di lupo. Icone dell’ipermaterno, Castelvecchi Editore, Roma, 2023.

● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 2 aprile 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino 31
CULTURA
© Dede Leoncedis

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Una storia d’amore e d’architettura

Pubblicazioni ◆ Aino e Alvar Aalto, un sodalizio lungo 25 anni raccontato nel libro di Heikki Aalto-Alanen uscito per Salani

Mi piacerebbe abitare in una casa progettata da Alvar Aalto, perché il suo stile ha la ragionata naturalezza di una musica di Mozart e la luminosità opalescente del nord finnico, gli specchi d’acqua e i boschi di betulle.

Una casa progettata da Aino e Alvar Aalto, per essere precisi. Se lui è il più famoso progettista del Nord, Aino è la sua metà esatta: è stata l’architetto collega di lavoro, la moglie, la madre dei due bambini Mossi e Veikko, i monelli li chiamava il malli papi, il migliore dei padri, come Alvar si definiva con affetto e orgoglio.

La loro storia di progettisti ha improntato di sé il XX secolo, di qua e di là dall’Atlantico, in un’epoca ricca di idee e in un tempo di ombre sugli equilibri del mondo

Aino e Alvar Aalto. Una storia d’amore e di architettura è il titolo del libro, edito da Salani e scritto da Heikki Aalto-Alanen, che ha tessuto trama e ordito della storia dei nonni materni attraverso lettere, fotografie, disegni. È qui che ho trovato materia per rafforzare la mia suggestione «mozartiana», nella storia di un matrimonio – sodalizio durato più di 25 anni, fino alla morte di Aino nel 1949; 25 anni di un’intesa fatta di affetto, di lavoro, anche di qualche reciproca leggerezza che però ha cementato lo zoccolo duro di un legame costruttivo. E mai aggettivo fu più adeguato!

La loro storia di progettisti ha improntato di sé il XX secolo, di qua e di là dall’Atlantico, in un’epoca ricca

di idee e in un tempo di ombre sugli equilibri del mondo. Negli anni 30 i coniugi finlandesi guadagnano la stima e la simpatia di colleghi di alto profilo, da Le Corbusier, a Frank Lloyd Wright, da Gropius a Saarinen. È già corposo l’elenco di opere firmate da entrambi, e in tutte convivono la componente fantasiosa di lui e i piedi di lei ben piantati in terra, tra la routine della vita domestica e l’impegno del lavoro, di cui ha condiviso con il marito i principi del progettare e costruire.

Uno di questi principi è la presenza della natura, che ha un peso nella cultura nordica, ce l’ha in letteratura come nelle arti applicate, e nel caso dei coniugi Aalto lo si avverte nella ricerca della luce, nella volontà di non interrompere il dialogo tra interno ed esterno per esempio nella villa Mairea. C’è una ragione precisa nell’uso di materiali docili, quali il legno di betulla forgiato nella forma delle poltrone e delle sedie destinate ai pazienti del sanatorio di Paimio. L’ispirazione prima viene dalla Bauhaus, dove l’uso del metallo è dominante, ma il metallo è freddo, quando invece il paziente ha bisogno di essere accolto da una materia amica e viva, da una forma dolcemente dinamica su cui adagiarsi: nascono allora le linee arrotondate della poltrona 41, lo sgabello Stool 60. È un umanesimo che, a differenza dell’originario quattro/cinquecentesco italiano, che pure i due Aalto amarono, della natura si sente partecipe e non padrone. L’argomento oggi sarebbe di assoluta attualità.

Ma le lettere raccolte dal nipote aprono soprattutto uno spaccato di

vita coniugale su cui vale la pena soffermarsi, oltre l’interesse per il lavoro di due artisti: la fama li ha accompagnati ben presto, senza intaccare un tepore familiare fatto di tenerezze, di un linguaggio protettivo di lui, di quattro anni più giovane, verso la piccola Aino, così sempre chiamata nelle lettere. Che poi, come succede spesso, la figura più silenziosamente protettiva sia lei è un dato che non

I due architetti ritratti nella locandina del documentario del regista Virpi Suutari uscito nel 2020.

scompone il loro gioco di coppia. Sono nati in ambienti diversi, la buona borghesia per lui, per lei il mondo operaio, che l’ha portata a fare le prime esperienze di lavoro come falegname e muratore in un approccio empirico al costruire, coltivato poi al tempo degli studi universitari con l’attenzione alla concretezza; e i viaggi fatti stando attenta al denaro che non correva a fiumi per lei e per la sua

famiglia. Così diverso il mondo borghese di lui! è significativo che una delle sorelle di Aino, alla notizia del fidanzamento con Alvar, confessi che quell’uomo le fa paura. È un seduttore! Aino si prende il rischio di averlo per marito e lo lega a sé con l’arma di un flessibile buon senso: la loro è una reciproca seduzione fatta di tenerezza e a volte di ironia: «Le dovevo talmente tanti arretrati di stipendio, che mi è convenuto sposarla!» commentava ridendo il grande architetto, che aveva di sicuro un debito di energia con lei. Da lei aveva imparato a progettare in coppia, un’altra faccia dell’amore. Significativo che alla morte di Aino siano seguiti due anni di silenzio, fino all’incontro con Elissa Mäkiniemi, architetto a sua volta, che gli sarebbe stata accanto fino alla morte nel 1976.

Tra le tante immagini, disegni e schizzi che corredano il libro di Aalto-Alanen una fotografia mi ha colpito, è di Aino in riva al mare, in piedi e di spalle, è nuda e ha la solidità di una figura del Masaccio. Il corpo dice tante cose di noi, cose di cui siamo a malapena consapevoli: di Aino racconta la concretezza che è servita da contrappunto all’esuberanza di suo marito. Lo storico e critico dell’architettura del XX secolo Sigfried Giedion scrisse a proposito della coppia Aalto: «È un bene che dell’acqua cheta scorra intorno a un vulcano».

Bibliografia

Heikki Aalto-Alanen, Aino e Alvar Aalto. Una storia d’amore e di architettura. Traduzione di Marcello Ganassini e Nicola Rainò. Ed. Salani, Milano, 2023.

La storia di Fede e del suo corpo ingombrante

Romanzo

Ho l’impressione che l’ultimo romanzo di Giorgio Falco confermi uno dei tratti più manifesti anche delle opere precedenti dello scrittore, ossia la tendenza a indagare senza sosta le catene di causa-effetto che determinano le cose; a inserire l’individuo in una cornice fenomenologica che cerchi di illuminarne la condizione.

Ne Il paradosso della sopravvivenza si assiste al passaggio senza soluzione di continuità da elementi minuscoli a fenomeni macroscopici Lo si vede bene in Ipotesi di una sconfitta, nella scelta dei microeventi che costituiscono l’autobiografia dell’impiegato (e poi scrittore) Giorgio Falco; lo si vede in Flashover, in cui il desiderio dell’odore di nuovo della BMW porta l’elettricista Enrico Carella a mandare in fumo il teatro della Fenice con un cannello per saldare rimasto «inavvertitamente» acceso; ma anche Condominio oltremare, sebbene con strategie diverse, sembra costruito sulla dialettica tra storie e Storia.

Ne Il paradosso della sopravvivenza (nella foto la copertina del libro) si assiste al passaggio senza soluzione di continuità da elementi minuscoli (la pepita di zucchero che cade dalla

brioche della madre e che il protagonista Federico Furlan intercetterà gattonando sotto il tavolo, prima avvisaglia della futura obesità) a fenomeni macroscopici (i movimenti millenari di acqua e terra attorno a Pratonovo, dove egli vive). Come dire: le nostre vicende determinano e sono determinate da quelle che ci trascendono. Federico Furlan, per tutti Fede, ha un unico tratto identitario. È per tutti «il ciccione», non si sa nemmeno quanto, visto che la bilancia del dottor Cles (sarà lui a informare del significato del titolo) si ferma a 150 kg, la lancetta non può andare oltre. A Pratonovo cresce (a dismisura) e frequenta le scuole; nel capoluogo che sta più a valle si laurea in Storia. Fede esiste attraverso il proprio corpo e attraverso il corpo di Giulia, la ricca e bella compagna di scuola con cui si instaurerà un gioco. Lui, bulimico, è costretto a sottostare alle regole imposte da lei, anoressica: Fede, nudo, deve ingurgitare cibo di ogni sorta con una gabbietta in acciaio (della Ruhr, qualità tedesca) che gli imprigiona i genitali e di cui lei custodisce la chiave; in cambio può guardarla mentre si tocca. Falco inserisce la storia di Fede in una serie di cerchi concentrici sempre più ampi: ne ricostruisce, con una modalità non dissimile da quel che avviene ne La gemella H (con cui questo libro condivide per certi versi anche la

topografia), la genealogia famigliare, a partire dal precisissimo istante in cui sua madre e suo padre si scambiano il primo sguardo; la incrocia più o meno lateralmente con le storie dei personaggi implicati nella caduta della funivia di Pratonovo, da quella dell’unico bambino superstite a quella dell’unico responsabile riconosciuto dell’incidente, che – scontata la pena – Fede incontra regolarmente, seduto su una panchina ai bordi del laghetto. Nessuno si siede con lui su quella panchina. Nessuno tranne Fede e qualche ignaro turista.

Falco torna a riflettere sul rapporto opaco tra realtà e costruzione dei suoi simulacri, qui indagato anche attraverso alcune scene di valore metaletterario: Fede quattordicenne che, al Bar Sport, batte il record al videogioco di Popeye (prima che qualcuno raggiunga un punteggio ancora più alto, nulla è destinato a durare); Fede e Giulia che in una rievocazione storica per turisti rappresentano rispettivamente i ruoli dell’inquisitore e della strega, in una sorta di cortocircuito identitario tra vittima e aguzzino. Sono questioni affrontate in particolare nella seconda parte del romanzo, quando Fede fugge in una Milano spersonalizzante in cui si radicalizzano alcune dinamiche già avviate a Pratonovo: se nel villaggio di montagna il rapporto tra Io e Mondo, pur doloroso, era ancora pos-

sibile, ora le vicende dei personaggi appaiono tra loro impermeabili: indistinguibili i monolocali in cui Fede via via trasloca; le storie dei colleghi restituite attraverso un copia-incolla che le rende interscambiabili; il primo e ultimo rapporto con una donna (Barbara, soprannominata Barbie Cassonetto: nomen omen) destinato a chiudersi in fretta. All’unicità dell’esperienza si sostituiscono la serialità e la mercificazione del tempo e dello spazio (ormai limitato a seminterrati, ascensori a specchi, distributori automatici, lu-

ci al neon) imposte dal Capitale. Fede, tra gli altri lavori, si ritrova a dover taggare video porno, cinquanta all’ora, non uno di meno, tanto si può sempre mangiare davanti al computer: insomma, bisogna imparare in fretta se l’etichetta «pregnant» sia più o meno importante di «black» o di «anal». E bisogna farlo mentre, tre scrivanie più in là, la collega riceve al cellulare la notizia della morte del padre e fugge in bagno: nell’anonima orizzontalità dell’open space è caduto anche l’ultimo labile confine tra pubblico e privato e il lutto può raggiungere anche in luoghi che ne impediscono la condivisione.

E a nulla serve il ritorno a Pratonovo, dove la ricomposizione è ormai impossibile: i genitori sono morti, Giulia avviata a prendere il comando dell’azienda di famiglia. Per Fede le uniche lacrime sono quelle di fronte alle fotografie sulle lapidi del dottor Cles e della moglie, morta un paio di anni più tardi. Lui è ritratto mentre suona la chitarra; lei nel salotto di casa, con alle spalle la fotografia che poi sarà quella della lapide del marito. È forse in questo vortice tra vita e morte che sta l’insensatezza del Mondo.

Bibliografia

Giorgio Falco, Il paradosso della sopravvivenza Einaudi, Torino, 2023.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 2 aprile 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino CULTURA 33
di vent’anni e centocinquanta chili, nato con una fame ancestrale finché incontra lo sguardo di Giulia
◆ Un corpo

Quali bevande macchiano i denti?

Le più note sono il caffè, il tè e il vino. Tutti e tre contengono tannini vegetali. Queste sostanze macchiano i denti allo stesso modo delle bibite acide come la Red Bull e la CocaCola. L’acido aggredisce infatti lo smalto: «La superficie dei denti si irruvidisce e il colore aderisce più facilmente», spiega Susann Lorani, dentista e direttrice del centro zahnarztzentrum.ch. Questo può anche ridurre lo spessore dei denti rendendoli più sensibili alle temperature.

E quali alimenti macchiano?

Molti non lo sanno, ma non sono solo le bevande a macchiare i denti: «Mirtilli, more e lamponi contengono sostanze naturali che sovente colorano i denti di marrone», spiega la dentista Lorani. Anche i legumi, l’uva e il cioccolato producono un effetto simile. Non sono da meno le spezie come curry, curcuma, zafferano, peperoncino, paprica in polvere e cumino, che possono conferire una colorazione giallastra o rossiccia.

Le macchie rovinano i denti?

Non per forza. I denti bianchi sembrano sicuramente più belli, ma non sono necessariamente più sani di quelli macchiati. Ad esempio, se da un lato l’acido del vino rosso aggredisce lo smalto, dall’altro neutralizza i batteri della bocca all’origine della placca. Gli scienziati stanno già cercando di sviluppare dentifrici e collutori contenenti le sostanze presenti nel vino.

SALUTE

Cura dei denti

Questi alimenti macchiano i denti

Non solo caffè e tè li rendono opachi. Quali altri alimenti lasciano inestetiche tracce e come prevenirle al meglio

Come si prevengono le macchie sui denti?

Semplicemente lavandosi regolarmente i denti. Le macchie superficiali si eliminano facilmente con lo spazzolino da denti. È importante però non lavarsi i denti subito dopo aver consumato cibi e bevande acide, come caffè o bibite alla cola, in quanto lo strato

Quando è necessario lo sbiancamento?

Di solito le colorazioni profonde, ad esempio causate da caffè e tè, non possono più essere rimosse. In questo caso val la pena sottoporsi allo sbiancamento dei denti. Se l’igiene dentale consente di eliminare la placca e le macchie, lo sbiancamento schiarisce lo smalto. «Lo sbiancamento andrebbe effettuato con il controllo del dentista. Solo lui può fornire agenti efficaci e nel contempo innocui», spiega Susann Lorani. Prima dello sbiancamento è indispensabile sottoporsi a un controllo preventivo.

Testo: Barbara Scherer

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protettivo dello smalto si è già staccato e lo si danneggerebbe ancora di più. Bisogna quindi aspettare almeno 30 minuti prima di lavarsi i denti. Nell’attesa si può masticare una gomma. Questo però non sostituisce lo spazzolino da denti, ma contribuisce ad aumentare la produzione di saliva impedendo così ai batteri nocivi di moltiplicarsi.

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Immagine: Getty Images

Terra del Sole, città ideale per una società migliore

Tesoro nascosto – 5 ◆ Il pensiero da cui è nato il nucleo fortificato mediceo oggi parte integrante del comune di Castrocaro Terme Gianluigi Bellei

Ognuno di noi ha un concetto proprio della città ideale che oggi ovviamente è diverso da quello di secoli fa. La prima idea organica non nasce, come si potrebbe pensare, nell’Ottocento con il sorgere del socialismo e dell’anarchismo, bensì molto prima, nel Rinascimento.

Perché questa esigenza che, oltretutto, trova diverse realizzazioni?

Luigi Firpo, ne La città ideale del Rinascimento pubblicato nel 1975, sostiene che nel Medioevo avviene la rottura fra città e campagna. Le prime imposero uno sfruttamento in nome del loro diritto di esistere e sfamarsi. Le città medievali crescono sempre più. Le cinte murarie diventano strette e all’interno le case crescono in altezza. Gli uomini vivono assieme agli animali; non ci sono fognature se non a cielo aperto; nelle strette viuzze si sente un fetore nauseabondo.

Il borgo è contornato da mura alte 13 metri che cingono la città a pianta rettangolare

Attaccare una città è complicato. L’artiglieria è pesante, le bocche da fuoco smisurate. Spostarle richiede l’uso di parecchi buoi, tempi lunghi e il rischio di rimanere sotto il fuoco degli assediati. In Francia vengono costruiti i primi pezzi di calibro minore. Quando Carlo VIII nel 1494 cala in Italia dispone di un’artiglieria agile con carrette veloci tirate da cavalli; le palle, che prima erano di pietra, ora sono di ferro. Le mura, ancora alte ed esili, sono facilmente abbattibili da un colpo inferto alla base. Gli architetti progettano così mura più spesse e basse e le città sorgono in orizzontale e non in verticale.

Il Concilio di Firenze del 1439 e la caduta di Costantinopoli nel 1453

permise di recuperare centinaia di testi greci e bizantini e dal vicino Oriente arrivano «dotti insigni» che portano cultura.

Matura di conseguenza il pensiero di una città ideale. In seguito questa diventa città fortezza. Palmanova è costruita nel 1593 come baluardo contro i Turchi. Un poligono regolare con 18 strade radiali, 3 porte, cinto da un largo fossato.

Fra i vari dibattiti artistici del Rinascimento troviamo il famoso paragone fra le arti, l’interpretazione antropomorfica dell’architettura e anche quello sulla città ideale.

Il primo che affronta l’argomento è Leon Battista Alberti. In De re aedificatoria scritta nel 1452 e pubblicata nel 1458 presenta la «strutturazione generale dell’impianto urbanistico» e dopo affronta il problema dei singoli elementi e la loro funzionalità. Quest’ultima è essenziale e si esprime «nell’ornato, nell’euritmia, nelle proporzioni degli edifici, delle piazze e delle strutture decorative».

Filarete nel progetto di Sforzinda presenta una città maggiormente articolata, «babelica e nembrotica», a forma stellare. Nei Trattati di Giorgio Martini del 1492 il tessuto urbano prende una forma antropomorfa. Francesco di Giorgio invece propone una città radiocentrica e utopica, pensiero che viene a cadere in Leonardo (vedi Codice Atlantico ’90-’97) per diventare «struttura organica, corpo vivo».

A metà del Cinquecento nei trattati si nota la prima divisione fra architettura militare e civile. Citiamo Giovan Battista Bellucci con il suo Nuove invenzioni di fabricar fortezze di varie forme del 1598 e in seguito Bartolomeo Ammannati e Giorgio Vasari il giovane.

All’architettura militare appartiene Terra del Sole che ora è inglobata

a Castrocaro Terme. Una città ideale secondo monsignor Enzo Donatini che per primo gli dedica un corposo volume per le edizioni del Girasole nel 1979. Siamo «all’imbocco della Valle dell’Acquacheta, – scrive l’arciprete – più volte percorsa dall’Alighieri, ghibellin fuggiasco». Una valle della Romagna fiorentina. Qui si trovano ascendenze etrusche, celtiche, romane, cristiane e bizantine.

Nella prefazione l’autore scrive (siamo oltre quarant’anni fa): «In un mondo in cui gli uomini appaiono sempre più violenti, egocentrici, asociali, inquinanti e speculatori, in un mondo sempre più permissivo, arbitrario e sudicio, il messaggio di questa città ideale costituisce un appello permanente e ammonitore, uno stimolo» per il rispetto per l’uomo, per la creazione di una società dignitosa e con un buon rapporto fra uomo e ambiente.

Il libro è appassionante (lo potete trovare ancora su sito di Maremagnum) anche se ovviamente un po’ datato. Magari in loco trovate pure alcune copie autografate, come la mia acquistata nel 1991.

Donatini ricorda i teorici: Tommaso Campanella con La città del Sole del 1502, San Tommaso Moro con Utopia del 1516, Anton Francesco Doni con il Mondo savio e pazzo del 1548, Pietro Cattaneo con I primi quattro libri dell’architettura del 1554 e Giovanni Lanteri con i Dialoghi di disegnare le piante delle fortezze del 1577.

Le origini di Terra del Sole sono controverse, anche se ultimamente sono stati ritrovati alcuni documenti messi a disposizione e sviscerati dagli studiosi Antonio Zaccaria ed Andrea Bandini e reperiti negli archivi di Castrocaro e Firenze.

Nel 1564 Cosimo de’ Medici arriva a Castrocaro con la pianta di una nuova fortezza creata da lui. Era accompagnato da Giovanni Camerini. Il 9 novembre dello stesso anno Francesco de’ Medici, che aveva dato a Cosimo la cura dello Stato, scrive al commissario di Castrocaro che aveva affidato l’edificazione del castello all’ingegnere Lorenzo Perini e al provveditore Giovanni Camerini. Morto Camerini. Subentra nella direzione della fabbrica nel 1571 Bal-

dassarre Lanci e Simone Genga che lo porta a compimento nel 1579. La data esatta dell’inaugurazione del cantiere la si evince da un appunto di Corbizio Corbizi ed è l’8 dicembre 1564.

La responsabilità del cantiere era dell’ingegnere Giovanni Camerini; l’organizzazione logistica del Provveditore Lorenzo Perini e del suo vice Jacopo Guerrazzi assieme alla fornitura dei materiali e alla gestione finanziaria; del camerlengo Lionardo da Nipozzano, poi sostituito da Antonio Cocchi, la gestione dei pagamenti.

Il nome di Terra del Sole, dopo varie ipotesi, è dato proprio da Francesco de’ Medici come si evince da una lettera del provveditore Perini del 9 dicembre 1564. Il nome scelto dai Medici era semplicemente Il Sole e in seguito, nei documenti ufficiali, diventa Castello, Fabbrica per stabilizzarsi infine come Terra.

Terra del Sole è contornata da mura alte 13 metri che cingono la città a pianta rettangolare. All’interno ci sono i castelli del Capitano e delle Artiglierie, il Palazzo del provveditore, la chiesa di Santa Reparata e il palazzo Pretorio. Da notare che palazzo Pretorio, sede dei commissari granducali, e la chiesa si trovano uno di fronte all’altro in un equilibrio di poteri.

L’impianto urbanistico è modulare a schiera con la tipica gronda alla toscana: Due i borghi, quello Romano lungo 94 metri e quello Fiorentino lungo 89. Il primo era ad uso militare e il secondo civile. L’altezza delle case è di 9 metri uguale alla larghezza della strada, con un rapporto volume-spazio ideale, leonardesco.

Dove

Terra del Sole, Castrocaro Terme, 1564-1579

www.terradelsole.org

The Game, il gioco come possibile forma artistisca

Spettacoli ◆ Attraverso la sua peculiare narrazione teatrale senza attori, Trickster-p mette in scena un esercizio ludico

È poco costruttivo e inutile continuare a chiedersi quanto rimane della formula teatrale tradizionale nella cifra stilistica della compagnia Trickster-p di Cristina Galbiati e Iljia Lungibühl.

Fin dagli esordi e dopo diverse stagioni di successo, ogni loro debutto corrisponde a una sorpresa e persiste quella curiosità quasi infantile nel vedere quale diavoleria avranno escogitato per portare avanti la loro ricerca in nome del Teatro senza abdicare alle logiche consumistiche dello spettacolo. Lo scarto continua ad essere sempre quello adottato sul piano teorico e narrativo. Un impianto che corre lungo modelli stilistici raffinati e sommersi, dove il pubblico assume un ruolo fondamentale nel sostituirsi alla struttura teatrale ricreandola attraverso considerazioni, decisioni e azioni partecipative che diventano la sostanza della rappresentazione.

È il risultato di una scelta, originale, impegnativa e coraggiosa, di voler rinunciare all’attore affidando la comunicazione, le emozioni e le sensazioni al pensiero attivo e partecipativo del pubblico. Una conquista che dai primi loro allestimenti è cresciuto dimostrando la consistenza di quel cam-

bio di marcia. Un processo che ha portato a Eutopia nel 2022 a cui ora si è aggiunto The Game, fresco di debutto nella sala del Teatro Studio del LAC di Lugano dove si sono già esaurite le repliche.

La novità, non di poco conto, consiste nel fatto che entrambi i progetti si sono affidati alla struttura del gioco di società utilizzando dinamiche simili con obiettivi differenti. Con Eutopia la centralità si basava su princìpi di convivenza mentre con The Game vengono messi in campo i temi della sussistenza e della pratica economica.

Si confrontano sei squadre (con due o tre giocatori per squadra), massimo 18 partecipanti, in una serie di cicli animati da un sistema complesso e articolato di regole, di scelte e di situazioni create con lo scopo di sopravvivere. La cadenza viene definita dagli interventi di Cristina e Ilija, arbitri del gioco, costruttori di scenari, giudici inflessibili. I partecipanti devono immaginare di essere su un’isola, lo scacchiere del gioco, che è suddiviso in parcelle colorate: compongono il terreno della comunità che deve gestirsi in autonomia, fra acquisti e scambi, numero delle mucche, spazio per il fieno, pascoli,

stalle e numero di lingotti (il denaro).

L’accostamento con il popolare Monopoly viene spontaneo. Però The Game è di ben altro stampo: i beni con cui dover fare i conti per mantenere un livello di sfruttamento naturale delle risorse sono distribuiti in partenza in misura uguale e la sfida consiste nel produrre senza soccombere alle calamità naturali (epidemie, siccità o inondazioni) ma neppure senza cedere a logiche espansionistiche eccessive e di accumulo. Oppure a decisioni poco ortodosse come il furto.

La matrice comune dei giocatori consiste nel dimostrare equilibrio ma la possibilità per raggiungerlo è tutt’altro che semplice. La natura performativa di The Game, infatti, è nella competizione e la dinamica della sua narrazione «teatrale» è quella che viene a crearsi fra i membri di ogni singolo gruppo e indirettamente anche fra gli stessi gruppi.

Tutto si svolge in una durata prevista, i ruoli nascono, crescono e possono morire. La logica è implacabile. Solo al termine la collettività viene chiamata in assemblea per decidere qual è il gruppo vincitore sulla base dei risultati, il frutto conquistato grazie appun-

to a equilibrio impreziosito da abilità, strategia, razionalità, visione, istinto e intuizione. Insomma un modello di workshop per aziende. Ma ecco che così il Gioco, come accade con lo spettacolo, se eseguito per interposta persona diventa uno schermo protettivo, una barriera immaginaria contro emozioni e pulsioni che rischierebbero di diventare distruttive se vissute diretta-

mente. La finzione diventa spettacolo e gli spettatori diventano attori che vi si identificano accettando le dinamiche imposte da regole ferree. The Game non le nasconde: spesso sono spietate e crudeli ma, tutto sommato, divertenti. Gli obiettivi, non sempre espliciti, finiscono con il diventare la parte oggettiva in mano ai giocatori che vedono così crescere o diminuire i loro possedimenti.

È la forza di questo esercizio ludico con cui Trickster-p sviluppa una potenzialità narrativa (e riflessiva) che consiste soprattutto nell’offrire ai partecipanti la possibilità di trasformarsi in prigionieri volontari di una gabbia orwelliana da cui è possibile uscire a patto di accettare le regole sociali di un futuro che è dietro l’angolo e di cui tutti siamo protagonisti. Una realtà nella finzione utile per affrontare sfide quotidiane e presupposto di ogni gioco.

Alla realizzazione di The Game hanno collaborato gli artisti Maria De Silva e Yves Regenass, per il «game design» Pietro Polsinelli, Martina Mutzner come «occhio esterno», lo studio CCRZ per l’ideazione grafica, il video e l’allestimento, Zeno Gabaglio per lo spazio sonoro.

Ora inizia la tournée.

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«O diventerà il più grande o finirà in manicomio»

In ricordo ◆ L’indimenticabile e straordinaria carriera del pianista Maurizio Pollini, scomparso di recente

Enrico Parola

Lo scorso 23 marzo, il mondo musicale ha pianto la scomparsa di Maurizio Pollini (nella foto sul palco del KKL di Lucerna nel 2004), uno dei grandi pianisti dell’ultimo secolo. Ottantadue anni compiuti il 5 gennaio, nell’agenda aveva ancora concerti per tutto il 2024, ma la malattia, se non ne irretiva la volontà, ne prostrava ormai da anni il fisico e lo aveva costretto ad annullare vari recital; è stata in Svizzera, a Zurigo, la sua ultima esibizione, il 30 agosto. Beethoven e Chopin gli autori che più ha legato a sé: una vita dedicata ad esplorare nelle loro profondità più recondite le Sonate del Tedesco, un legame col Polacco che ha segnato innanzitutto la sua rivelazione al mondo della musica: nel 1960, appena diciottenne, vinse il Concorso Chopin di Varsavia incantando pubblico e giurati; tra questi, il sommo interprete chopiniano Arthur Rubinstein commentò: «Questo giovane suona tecnicamente meglio di tutti noi»; e Piero Rattalino, dopo averlo ascoltato negli Studi del Polacco, si lanciò in una sorta di profezia: «O diventerà il più grande pianista del mondo o finirà in un manicomio».

A creare il mito di Pollini concorse innanzitutto la tecnica: granitica, monumentale, con cui scolpiva le architetture formali di Beethoven e di Boulez

La palma di migliore è forse impossibile da attribuire con oggettiva certezza (nel 1957 era arrivato secondo al concorso di Ginevra, dietro la coetanea Martha Argerich), ma figura si-

curamente tra i massimi dell’ultimo secolo. Al LAC aveva suonato nella passata stagione di Lugano Musica: neppure un’ora di programma, Chopin e il «suo» Novecento, che è stato per tutta la sua carriera quello di Schönberg, Berg, Staockhausen, Boulez, Nono, Berio: autori di cui è stato fervente apostolo e indomito evangelizzatore in tutto il mondo, sia accostandoli stabilmente nei suoi programmi ai grandi classici, sia addirittura costruendovi un festival, il Progetto Pollini, simile a quello della Argerich, in cui programmaticamente alternava classici e moderni.

Una vocazione probabilmente iscritta nel suo patrimonio genetico: suo padre Gino era architetto razio-

nalista, lo zio materno Fausto Melotti, celebre scultore, suo cugino Carlo Belli, il cui manifesto Kn fu definito da Kandinskij «il Vangelo dell’arte astratta». Così il quinto concerto di Beethoven, il magnifico Imperatore, seguiva La fabbrica illuminata di Luigi Nono nel concerto che il 9 gennaio 1972 lo vedeva protagonista, diretto da Bruno Martinotti, nella fabbrica grafica Paragon di Genova occupata da settantadue giorni: nell’opera di Nono un soprano intonava poesie di Pavese e testi di Giuliano Scabia, accompagnato dagli strumenti e dai suoni registrati di rumori industriali, voci di operai, lacerazioni sonore dello spazio. Perché la trinità ideale di Pollini aveva come pietra angolare, oltre alla classici-

tà e alla modernità, la socialità. Quello genovese fu il primo dei concerti nelle fabbriche, tenuti anche in compagnia di un altro idealista quale fu Claudio Abbado; e alla Scala promosse con l’allora sovrintendente Paolo Grassi cicli come i Concerti per Lavoratori e Studenti, anche qui intrecciando Beethoven e Chopin a Schönberg e Nono, che gli dedicò Sofferte onde serene eseguito il 9 maggio 1977 durante uno degli appuntamenti di quel ciclo. A creare il mito di Pollini concorse innanzitutto la tecnica: granitica, monumentale, con cui scolpiva le architetture formali di Beethoven e di Boulez; eppure lui non la considerò mai un elemento primario: «Non è un obiettivo, è una necessità per eseguire i bra-

ni. Non ho mai fatto esercizi di tecnica pura, mi sono esercitato nella musica, suonando brani belli. Poi, diventando vecchi, come mi confidava la mia amica Martha Argerich, bisogna suonare di più» confessava pochi anni fa, in una sorta di bilancio della propria biografia artistica e umana in cui affermava anche di non aver «sentito di fare sacrifici, se non qualche volta da ragazzo. Ma più si susseguivano le stagioni, più mi sentivo libero nelle mie scelte; il criterio con cui ho deciso che cosa suonare in pubblico non rispondeva alle attese dei teatri, degli impresari, della gente, ma a una sorta di egoismo: suonavo solo pezzi che sapevo non mi avrebbero stancato; non avrei mai accettato di dover suonare con noia o senza entusiasmo».

Un criterio che ribadì anche davanti alla scomoda domanda sui frutti del suo apostolato verso la musica moderna: è stata fatta conoscere, ma è stata anche apprezzata? Più di una volta, durante i suoi recital, quando arrivava il momento di Chopin o Beethoven miracolosamente nessuno più tossiva come faceva invece durante le note di Boulez o Stockhausen; ma Pollini ha rimarcato di non aver «voluto fare il missionario, davvero ciò che suonavo lo suonavo con piacere, solo per il piacere di eseguire quel determinato brano».

Il culto dell’arte e non la ricerca del successo: fu chiaro fin dal concorso Chopin: «Dopo la vittoria avevo molti ingaggi, ma non ero preparato, volevo maturare con calma; mi presi due anni per studiare. Dopo quella pausa, quasi nessuno si ricordava di me e le offerte si erano ridotte a pochissime». Recuperò, nei sessant’anni successivi, senza più fermarsi.

May December e The Siren, due film da ascoltare

Cinema ◆ Il primo è un thriller, il secondo un film d’animazione, ecco perché vale la pena vederli

Molto diversi con soluzioni formali e temi agli antipodi, May December di Todd Haynes e La Sirena di Sepideh Farsi sono tra le opere più interessanti che si possono vedere in queste settimane nelle nostre sale. L’ultimo lavoro del regista di Carol vede due grandi interpreti contendersi la scena: Julianne Moore e Natalie Portman (della foto) in un melodramma (ispirato a un fatto realmente accaduto) che gioca, grazie anche al tappeto sonoro, con i toni del thriller psicologico.

In May December

il suono è una possibile chiave d’accesso alla complessità del film, alla sua stratificazione e alla sua moderna classicità

Thriller che racconta di un’attrice (Portman) che deve interpretare Grace (Moore), salita alla ribalta delle cronache diversi anni prima per aver avuto una relazione con un ragazzo di oltre vent’anni più giovane e allora tredicenne. Per prepararsi al meglio al ruolo l’attrice vive con i vari membri della famiglia per alcuni giorni e ne studia le dinamiche cercando di scavare nel loro passato. Il titolo è un primo, esplicito richiamo – usato nel gergo americano – alla differenza d’età: maggio è

la primavera (ed è quindi il ragazzo), dicembre è l’inverno (la donna matura). L’opera di Haynes – presentata in concorso a Cannes con all’attivo anche una nomination agli Oscar per la sceneggiatura originale – ci parla del comportamento umano e ha dei richiami al cinema introspettivo e psicologico di Bergman. Non a caso Elizabeth (Portman) è lo stesso nome che l’autore svedese diede alla sua musa Liv Ullman in Persona Il tema musicale dominante è l’adattamento di Marcel Zavros di The Go-Between (del compositore francese Michel Legrand e già usato da Joseph Losey in Messaggero d’amore del 1971), tessuto sonoro che scandisce con il pianoforte il tono angosciante del racconto. Ma c’è di più: la musica a volte spiazza e a volte illumina lo spettatore, perché viene inserita laddove meno se lo aspetta, contribuendo a far capire che le due donne, alla fine, non sono molto diverse. Elizabeth, pian piano, si trasforma in Grace attraverso l’immedesimazione attoriale. La sua ricerca della perfezione e della verità la rende manipolatoria e pericolosa quanto Grace lo era stata con il ragazzo. Ma nello stesso modo, contribuisce a costruire una personalità affascinante e ammaliante. Non per nulla, regolarmente, notiamo la presenza degli specchi dove le

due donne, sovente vicine, si truccano, si guardano e alla fine si somigliano sempre di più: nei vestiti, negli atteggiamenti e soprattutto nel modo di pensare.

In May December, a livello tematico, c’è anche molto altro; a iniziare dall’eterno dualismo tra verità e finzione, passando per la rappresentazione della realtà che il cinema può fare, arrivando sino alla riflessione che sta alla base della società moderna e cioè alla dicotomia tra vedere ed essere visti che ha a che fare sul mondo dell’immagine. Ma, come detto all’inizio, vale la pena concentrarsi sul suono. È una possibile chiave d’accesso alla complessità del

film, alla sua stratificazione e alla sua moderna classicità. Il suono è fondamentale anche nell’animazione di The Siren (La Sirena). In particolare, vi è una costante presenza delle percussioni (più precisamente il dammam – uno strumento tradizionale del sud dell’Iran) durante tutto il film. Nell’animazione della regista iraniana questa puntualizzazione musicale ha diversi significati. Da un lato sottolinea gli eventi storici e personali del protagonista adolescente. Dall’altro è anche, e per definizione, un richiamo alla battaglia, alla guerra. Infatti, rispetto all’ambientazione contemporanea di May December dobbia-

mo fare un passo indietro nel tempo e cambiare luogo.

Siamo nel 1980 ad Abadan (nell’Iran sudoccidentale), in quel momento capitale dell’industria petrolifera iraniana. Sin dalla prima scena comprendiamo che il Paese sta vivendo un momento difficile: una bomba colpisce una raffineria vicina al campo di calcio nel quale gioca il quattordicenne Omid. È l’inizio di un conflitto che durerà ben otto anni tra Iran e Iraq. L’animazione segue la vita del ragazzo che rimane in città con il nonno, in attesa del ritorno del fratello maggiore dal fronte. Insieme a Omid, incontriamo una galleria di personaggi insoliti e molto ben tratteggiati sia nel disegno sempre pulito ed essenziale, sia nel carattere: tutti resistenti a modo loro e portatori di valori forti e immortali. Tra questi, anche Elaheh, una famosa cantante, costretta a rifugiarsi in casa e a nascondersi dietro il velo a causa della rivoluzione iraniana che ha bandito le canzoni moderne. Ecco quindi, che il film utilizza la musica – quale parte integrante della narrazione – per parlare della privazione delle libertà fondamentali in un momento storico difficile, che assomiglia molto a quello che stiamo vivendo oggi. May December e La Sirena sono due film da vedere, ma soprattutto da ascoltare attentamente.

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In fin della fiera

Il mitico Camoscio Bianco

Il mio primo picnic lo ricordo benissimo: avevo 9 anni e il singhiozzo. Camminavo lungo un sentiero di montagna con mia madre e mia zia Emma e questo fatto che avevo il singhiozzo dava un enorme fastidio alle due giovani donne che chiacchieravano fittamente. A un certo punto mia madre ha detto in un soffio a sua sorella: «Guarda come si fa a farlo smettere». Si è voltata di scatto verso di me sbarrando gli occhi e gridando: «Ti butto giù dal burrone!» Sono quasi sicuro che mia mamma non volesse veramente gettarmi giù dal burrone, forse aveva intenzione di trattenermi dopo avermi dato una spinta ma non ha fatto in tempo e sono rotolato giù dalla scarpata. Un cespuglio che sbucava tra le rocce mi ha trattenuto tra i suoi rami. Guardando verso l’alto vedevo mia mamma che strillava con le mani nei capelli. Una catena di villeggianti tenendosi per mano mi ha tratto in salvo. Il singhiozzo era

Pop Cult

passato. Il giorno dopo ero a letto con l’itterizia.

A partire da quel giorno, alla parola picnic il bulbo degli occhi mi diventa leggermente giallo. Ma poi passa. Non ho niente contro i picnic e se sono della partita, mi porto dietro una scatola di sardine. Per me sono il massimo, il top. Per tutto il tempo della camminata che precede la consumazione del pasto, penso: «Ce la farò ad aprire la scatola?». Ci sono due scuole di pensiero: apertura a strappo o apertura a chiavetta. Non ho preferenze, tanto il risultato è il medesimo: mi trovo sempre in mano una linguetta strappata o una chiavetta rotta e ovviamente una cassaforte inespugnabile. Mentre i miei compagni di gita, sdraiati sull’erba, spazzolano via piccioni ripieni, torte pasqualine e crostate, io picchio con un masso su una pietra aguzza tentando di sfondare il coperchio della scatoletta. Le fanno di titanio. Infine provoco con due

Una gaffe vi seppellirà

C’era una volta la cosiddetta gaffe, anche nota come figuraccia, o, più colloquialmente, «papera»: quello scivolone poco elegante in cui tutti, compresi i personaggi pubblici costantemente sotto i riflettori, prima o poi incappano – e che può in un attimo compromettere la reputazione del malcapitato di turno o, nel migliore dei casi, gettarlo per un certo periodo nell’occhio del ciclone. E se è innegabile che il grande pubblico spesso gioisca in segreto nel vedere i propri idoli cadere nella polvere – come a desiderare una conferma del fatto che sì, anche loro sono semplici esseri umani passibili di errori, e nulla più di questo – è altrettanto vero che, prima dell’avvento dei social network, era molto più semplice riuscire a far passare inosservata una qualsiasi malefatta: da un commento poco brillante a un insulto lanciato a sproposito, fino all’espressione

Xenia

imprudente di sentimenti o idee che sarebbe meglio tacere. Perché il web è un’entità dalla memoria molto, molto lunga; e qualunque cosa una persona dica o faccia, a partire dalle espressioni più plateali ai semplici post o commenti online, viene immancabilmente registrato nei suoi infiniti archivi, pronto a essere riesumato nel momento meno opportuno. Del resto, da quando la nostra vita ha cominciato a ruotare intorno ai social sembra essere diventato pressoché impossibile resistere alla tentazione di rivelare particolari della propria vita quotidiana che un tempo si sarebbero certo tenuti per sé; è come se il fascino della costante «vetrina» offerta da Facebook, Instagram e TikTok fosse tale da portare anche i più schivi a confidenze impulsive e poco meditate, e per questo pericolose. Ecco quindi che, alla stregua

grammi di nitro un’innocua frana e riesco ad aprire la scatola, o meglio a farla esplodere. L’olio mi schizza dalla testa ai piedi ma finalmente posso dare inizio al mio pasto. Ho vinto. La valle d’Aosta è il mio luogo di elezione, ogni occasione è buona per andarci. Nel mio primo lavoro dopo il diploma facevo l’aiutante di un fotografo specializzato in cartoline. In partenza per la valle d’Aosta ci portavamo dietro un camoscio impagliato. Lo collocavo di quinta e in ombra nelle fotografie dei tramonti. Senza camoscio non è una vera cartolina di montagna ma era raro incrociarne uno vero. Poi, nel corso degli anni, i camosci, grazie a una politica di ripopolamento, si sono moltiplicati, sono diventati troppi. Incrociare un camoscio non faceva più notizia. L’Ente del Turismo è corso ai ripari, ritirando in ballo un’antica leggenda che parlava del Camoscio Bianco: incontrarne uno era l’annuncio di una imminen-

te fortuna in amore o in affari, a scelta. Dopo aver catturato un magnifico esemplare di maschio, hanno iniziato a dipingerlo di bianco. L’animale ha reagito, si è liberato con uno strattone ed è fuggito quando aveva la carrozzeria dipinta solo su una fiancata. Poiché non esiste in natura il camoscio double-face, hanno dovuto abbatterlo e mangiarselo in gran segreto. La metà dipinta è andata ai deboli di stomaco che dovevano mangiare in bianco. Con il secondo camoscio è stata usata una vernice ad acqua. Essiccandosi sul mantello, produceva un prurito insopportabile e la povera bestia è andata a strusciare contro ogni tronco o roccia che incontrava. Si è sparsa la voce che c’era una nuova bellissima passeggiata segnata con uno sbaffo di vernice bianca. Volenterosi camminatori si sono persi nel parco, alcuni per sempre. L’Ente per il Turismo non si è dato per vinto e al terzo tentativo ha fat-

to centro. Il camoscio era di un bianco splendente, magico. La sua presenza ha dato un notevole contributo non solo alla notorietà della Valle ma anche alla selezione naturale: i vecchi camosci al vederselo comparire davanti stramazzavano a terra colpiti da un coccolone. I turisti facevano follie per riuscire a fotografare il mitico Camoscio Bianco e spedire le foto a tutta la rete di amici. Fiorivano leggende. Le pro loco degli altri paesi della Valle non hanno voluto essere da meno. Ogni paesino o frazione della Valle ha voluto avere il suo Camoscio Bianco.

Purtroppo però la bramosia di denaro piega ai suoi fini le più belle invenzioni dell’uomo; ho visto con i miei occhi uno stupendo esemplare di camoscio bianco che recava sulle fiancate la riproduzione di un piatto di polenta e fontina con lo slogan: «Da Marlettaz gusterete i piatti tipici della cucina valdostana».

di un «grande fratello» digitale, internet registra e incamera ogni minimo dettaglio delle vite dei suoi utenti, facendo di ogni episodio – non importa quanto triviale – materia di acceso dibattito.

Avviene così che anche star inossidabili (e dall’ego quantomeno ipertrofico) quali Madonna possano vacillare, come accaduto durante un recente concerto, in cui l’algida diva ha voluto redarguire personalmente l’unico spettatore che si era permesso di non alzarsi in piedi durante una standing ovation. Il fatto che, pochi secondi dopo, il malcapitato si sia rivelato costretto su una sedia a rotelle ha portato la megalomanica signora Ciccone a scusarsi davanti all’intero pubblico; il che non le ha risparmiato la successiva lapidazione virtuale a opera di migliaia di commentatori digitali –i quali, senza il passaparola sul web,

Dourga poteva davvero diventare una stella

«Un’indovina mi ha detto che sarei morta uccisa da un colpo d’arma da fuoco». Così scrisse Dourga alla rivista di cinema diretta da Lucio D’Ambra. Era accaduto a Pondichéry, la città del Tamil Nadu, allora possedimento coloniale francese, nella quale era nata. «L’anno dopo la chiromante ha predetto che sarei annegata, il che ha rassicurato molto mia madre. Ma le induiste sono molto superstiziose e per tutta la mia infanzia ho portato il peso di queste lugubri profezie. Ma adesso che ho visto La danzatrice d’oriente sono molto meno inquieta. Certo, l’indovina ha detto il vero, ma tutto quello che mi ha predetto non mi succederà che al cinema». Aveva infatti appena interpretato La danzatrice d’oriente, prodotto dalla Rinascimento Film e diretto da Amleto Palermi. La novellizzazione della sceneggiatura – tipico dramma esotico anni

20 – pubblicata sulla stessa rivista ci spiega che il protagonista si lascia sedurre dalle selvagge lusinghe della straniera, la quale lo trascina in un vortice di sensuale depravazione. Il maschio bianco così irretito è incapace di redimersi. Lo libererà «dall’incantesimo» la sua fidanzata, sparando, in teatro, alla «danzatrice indiana».

La lettera – datata 3 marzo 1921 – faceva parte della strategia promozionale. All’esordio come attrice, Dourga veniva presentata al pubblico come famosa ballerina di danze tradizionali indiane. Benché spesso le informazioni fossero inventate dagli uffici stampa, per creare un’aura seducente intorno alle straniere che le Case di produzione speravano di trasformare in dive, nel caso di Dourga erano vere. Aveva esordito all’Opéra-comique di Parigi il 9 luglio del 1916 nel balletto Lakmé. Danza marouf, affa-

scinando con le sue movenze aggraziate. Il suo ammiratore più fervido era lo scultore Auguste Rodin – appassionato di danze orientali, che nel 1913 aveva scritto un testo sulla danza di Shiva. Dourga posò per lui. Attirata l’attenzione dell’ambiente artistico parigino, era stata chiamata da Abel Gance a interpretare una ballerina indù nel film Soleil noir (Ecce homo), che il giovane regista e futuro maestro andò a girare nel sud della Francia nella primavera del 1918. Gance poi interruppe il film e lo abbandonò, ma Dourga ormai era stata scoperta dai cineasti. Il produttore Louis Nalpas la sottrasse all’operetta musicale del Varietés, dove era tornata a esibirsi, e la scritturò per danzare in La sultana dell’amore, che Dourga girò sempre a Nizza, in una villa, nell’estate del 1919. Fu distribuito nel mese di dicembre e ottenne un tale successo da inaugu-

mai sarebbero venuti a conoscenza del fattaccio. Ed è facile intuire come, più che alla natura politically incorrect dello sfortunato gesto della diva, la rabbia dei fan sia stata diretta soprattutto a quel suo bisogno narcisistico di continue gratificazioni, che la diffusione «virale» del filmato ha impietosamente stigmatizzato. Non solo: il cosiddetto «effetto valanga», che vede nascere da una minima svista o errore un caso mediatico di proporzioni inquietanti, oggi colpisce anche istituzioni un tempo intoccabili, quali le casate reali europee: si veda la bufera che ha recentemente travolto Kate Middleton, Principessa del Galles, in seguito all’apparizione della foto di famiglia da lei diffusa online per rassicurare il popolo britannico dopo il suo (all’epoca ancora misterioso) ricovero in ospedale – un’immagine che ha scatenato non poche perples-

sità, finché la stessa Kate non ha ammesso di aver prodotto, forse nel tentativo di rassicurare i sudditi, un vero e proprio «falso digitale». E se simili segnali appaiono troppo numerosi per essere casuali, dimostrano inequivocabilmente quanto le cose siano cambiate con l’avvento dell’era della connessione costante ai mezzi d’informazione – e come, oggigiorno, l’impunità non sia più un’opzione. Spingendoci a una riflessione forse più amara, ma altrettanto inevitabile, su come, ora più che mai, sia fondamentale prestare attenzione a ogni minima traccia digitale che ci lasciamo alle spalle nel corso della nostra vita quotidiana – perché in un futuro poco lontano, una qualsiasi parola a sproposito potrebbe tornare a perseguitare chiunque tra noi non abbia l’accortezza di esercitare particolare prudenza.

rare la rinascita del cinema francese. Per questo Dourga venne chiamata in Italia dalla Rinascimento Film. I produttori però intendevano farne un’attrice. Non era la prima: anche se, grazie ai successi dei Ballet Russes di Diaghilev, di solito le ballerine erano russe, o nate nell’impero zarista. Ma nel dopoguerra il pubblico voleva soprattutto evasione. E i film esotici appagavano quella richiesta di divertimento e di oblio. I produttori bramavano volti e corpi dai tratti, lineamenti e colori non europei. Arruolavano giapponesi, cinesi, «negri e vere negre» – anche con annunci sui giornali. Il cinema italiano li trattava – nella realtà e sul set – con inconsapevole razzismo esotizzante, e affettuoso paternalismo. Dourga –flessibile come un giunco, dai grandi occhi neri e dalla pelle bruna – poteva davvero diventare una stella. Dopo la riapertura delle frontiere, il

cinema italiano era entrato in agonia: ignorato e perfino osteggiato dai governi che non ritenevano strategica l’industria del cinema (benché desse lavoro a migliaia di persone). Le sale erano invase da prodotti americani, attori e registi emigravano in Germania. Le case principali avevano tentato di consorziarsi per resistere, ma le indipendenti e finanziariamente fragili fallivano. Non era un buon momento per esordire nel cinema. Dourga però non aveva altra scelta. Problemi di salute la spingevano a sud. Era umile. «Le ballerine non parlano, io danzo. Se il cinema mi vorrà, mi troverà pronta. L’amo, e dicono che mi ami. Spero che ci intenderemo bene». Firmato (anche in alfabeto hindi): Dourga. La sua identità è rimasta misteriosa. Conosciamo solo il suo cognome: Derny. Studiosi del balletto ritengono fosse meticcia.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 2 aprile 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino 39 CULTURA / RUBRICHE ◆ ●
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di Benedicta Froelich
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Con ingredienti di produttori che garantiscono condizioni di lavoro eque

Tavolette di cioccolato Frey Noir Special 72%, al latte finissimo o Noxana, per es. Noir Special 72%, 6 x 100 g, (100 g = 1.53) conf.

Tanto gusto, poche calorie

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7.50 Chocolate Chip Cookie Dough Oppo prodotto surgelato, vasetto da 475 ml, (100 ml = 1.58)

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7.50 Double Chocolate Brownie Oppo prodotto surgelato, vasetto da 475 ml, (100 ml = 1.58)

Amande Noire, croccantini alle mandorle o Rondo Créa d'Or per es. Amande Noir, 3 x 90 g, 8.80 invece di 12.60, (100 g = 3.26)

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Abbracci, Baiocchi e Macine Mulino Bianco per es. Abbracci, 350 g, (100 g = 0.89)

9 Offerte valide dal 2.4 all’8.4.2024, fino a esaurimento dello stock.
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Le marche del cuore a prezzi convenienti

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Tutto l'assortimento di cereali Nestlé per es. Cini Minis, 500 g, 4.50 invece di 5.60, (100 g = 0.90)

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Tutto l'assortimento di alimenti per gatti Felix, Vital Balance e Gourmet per es. Vital Balance Sensitive con tacchino, 450 g, 3.25 invece di 4.60, (100 g = 0.72)

Tutte le pizze Buitoni surgelate, per es. caprese, 350 g, 4.40 invece di 5.50, (100 g = 1.26)

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Tutto l'assortimento di alimenti per cani Matzinger e Adventuros per es. mini menu pollo e verdure Matzinger, 1,5 kg, 4.35 invece di 6.20, (1 kg = 2.90)

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Il festival delle marche
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Tutto l'assortimento di alimenti per bebè Nestlé (latte Pre, latte di tipo 1, Comfort e confezioni multiple esclusi), per es. pappa lattea Cerelac, 250 g, 4.– invece di 4.95, (100 g = 1.58)

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Tutti i tipi di caffè istantaneo Nescafé per es. Gold De Luxe, in vasetto, 100 g, 5.55 invece di 8.25

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Tutte le capsule Nescafé Dolce Gusto, 30 pezzi 30 capsule, per es. Lungo

Tutto l'assortimento Perrier e Contrex per es. Contrex, 6 x 1,5 l, 5.– invece di 7.50, (1 l = 0.56)

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Grandi bontà a piccoli prezzi

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Ravioli Anna's Best Mozzarella & Pomodoro, Ricotta & Spinaci o Manzo d'Hérens del Vallese, per es. Mozzarella & Pomodoro, 3 x 250 g, (100 g = 1.32) conf. da

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Rösti XL M-Classic 3 x 750 g, (100 g = 0.31) conf. da 3

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Tutti i tipi di pasta, i sughi per pasta e le conserve di pomodoro, Migros Bio (prodotti Alnatura e Demeter esclusi), per es. pomodori tritati, 400 g, 1.25 invece di 1.60, (100 g = 0.31)

Snack o menu, Anna's Best Dim Sum Sea Treasure, Vegetable Spring Rolls o Chicken Satay, per es. Dim sum, 2 x 250 g, 11.– invece di 13.80, (100 g = 2.20)

Tutti gli infusi bio (articoli Alnatura esclusi), per es. infuso di menta Migros Bio, 20 bustine, 1.– invece di 1.25

Funghi misti o funghi prataioli M-Classic per es. funghi misti, 3 x 200 g, 8.45 invece di 12.30, (100 g = 1.41) conf. da 3

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Nocciolata bio 650 g, (100 g = 1.35)

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Tutto l'assortimento Fiesta del Sol per es. tortillas di barbabietole, 6 pezzi, 370 g, 3.45 invece di 4.30, (100 g = 0.93)

In offerta c'è anche l'aceto stagionato in botti di rovere

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Refried Beans Fiesta del Sol 440 g, 2.80 invece di 3.50, (100 g = 0.64)

Tutti i tipi di aceto balsamico e condimento, Ponti per es. condimento Dolce Agro, 250 ml, 2.30 invece di 3.25, (100 ml = 0.92)

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Tutte le noci e le miscele di noci Sun Queen Apéro, salate e tostate per es. noci di macadamia, 125 g, 3.50 invece di 4.40, (100 g = 2.80)

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Tortillas integrali Fiesta del Sol 8 pezzi, 320 g, 3.40 invece di 4.20, (100 g = 1.05)

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Sweet Onion Slices with Chipotle, Fiesta del Sol 230 g, 2.80 invece di 3.50, (100 g = 1.22)

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Bevande

Tanta frutta tutta da bere

LO SAPEVI?

Tuca è la nostra marca propria di bevande gassate rinfrescanti: «Citro» e «Pompelmo» hanno una nota agrodolce, «Passione» ne ha una tropicale e «Himbo» delizia il palato con il sapore dei frutti di bosco. Queste varietà sono disponibili anche in versione «Zero». Le bottiglie sono prodotte al 100% con PET riciclato.

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Tuca disponibili in diverse varietà, 6 x 1,5 l o 6 x 500 ml, per es. Citro, 6 x 500 ml, 4.75 invece di 7.95, (100 ml = 0.16)

riduzione

Sciroppi in bottiglie di PET 750 ml e 1,5 l, per es. lampone, 750 ml, 2.45 invece di 2.95, (100 ml = 0.33)

Ora Andros è disponibile anche in qualità bio

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5.30 Succo d'arancia Valencia Andros Bio 75 cl, (10 cl = 0.71)

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conf. da 6 a partire da 2 pezzi –.50 di Tutti i succhi di frutta Sun Queen 1 l e 6 x 1 l, per es. multivitaminico, Fairtrade, 6 x 1 l, 11.55 invece di 16.50, (1 l = 1.90) conf.
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Offerte con fattore benessere Abbigliamento e accessori 15 Offerte valide dal 2.4 all’8.4.2024, fino a esaurimento dello stock. 19.95 Boxer da uomo Essentials disponibili in diversi colori, tg. S–XXL conf. da 5 Hit 8.95 Calze da donna Essentials disponibili in diversi colori, numeri 35–38 e 39–42 conf. da 3 Hit LO SAPEVI? La Migros si adopera con diverse iniziative per poter offrire tessili fabbricati in maniera ecologica e socialmente sostenibile. Tutti i capi di questa pagina sono stati prodotti in condizioni di lavoro sicure e nel pieno rispetto della natura. Nella produzione non sono consentite sostanze chimiche nocive per l'ambiente. 24.95 T-shirt da uomo Essentials disponibile in blu marino a righe/tinta unita, tg. S–XXL conf. da 2 Hit 24.95 T-shirt da donna Essentials disponibile in rosa chiaro a righe/tinta unita, tg. S–XXL conf. da 2 Hit 9.95 Calze da uomo Essentials disponibili in diversi colori, n. 39–42 e 43–46 conf. da 3 Hit 7.95 Calzini per bebè assortiti, disponibili in diversi colori, numeri 10/14–23/26 conf. da 5 Hit

C’è profumo di pulito, praticità e convenienza

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Tutto l'assortimento Candida (confezioni multiple escluse), per es. dentifricio Multicare 7 in 1, 75 ml, 2.90 invece di 3.85, (100 ml = 3.87)

Fazzoletti di carta o salviettine cosmetiche Linsoft, FSC® in confezioni multiple o speciali, per es. fazzoletti di carta, 56 x 10 pezzi, 4.70 invece di 7.10

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Fazzoletti o salviettine cosmetiche Kleenex, FSC® in conf. multiple o speciali, per es. Collection in scatola quadrata, 4 x 48 pezzi, 6.50 invece di 9.80

Per una pelle tonica e levigata

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Maschere per il viso Zoé Expert AHA e BHA o Ceramide Skin Barriere, il pezzo

e cura del corpo 16
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Fazzoletti Classic Tempo, FSC® Classic o Soft & Sensitive, in confezioni speciali, per es. Classic, 56 x 10 pezzi, 9.40 invece di 15.70
Fiori e giardino 17 Offerte valide dal 2.4 all’8.4.2024, fino a esaurimento dello stock. Con principi particolarmenteattivi delicati Tutto l'assortimento pH balance (confezioni multiple e da viaggio escluse), per es. gel doccia, 250 ml, 2.80 invece di 3.50, (100 ml = 1.12) a partire da 2 pezzi 20% 4.95 Tulipani disponibili in diversi colori, mazzo da 12, il mazzo, (1 pz. = 0.41) Hit appassiti per rafforzare i bulbi per prossimol'anno 4.95 Pottburri disponibile in diverse varietà, vaso, Ø 13 cm, per es. tulipani, il vaso Hit 9.95 Shampoo Pantene Pro-V Repair & Care, Lisci Effetto Seta & Corpo e Volume, in confezione speciale XXL, 1 l Hit Shampoo Head & Shoulders per es. Classic Clean, 2 x 300 ml, 8.45 invece di 10.60, (100 ml = 1.41) conf. da 2 20% 6.35 invece di 8.80 Shampoo o balsamo, Pantene Pro-V per es. shampoo antiforfora, 2 x 300 ml, (100 ml = 1.06) conf. da 2 27% 11.50 Shampoo Head & Shoulders Citrus Fresh, Classic Clean o Apple Fresh, in confezione speciale XXL, 900 ml, (100 ml = 1.28) Hit
Qualità e convenienza Varie 18 Offerte valide dal 2.4 all’8.4.2024, fino a esaurimento dello stock. Dal 4 al 15 aprile in azione Immagazzina energia solare e sialillumina buio 79.–invece di 95.–Scatola di figurine UEFA EURO 2024 100 bustine di figurine 16.–di riduzione illumina 19.95 Lanterna solare Home Ø 16 cm, il pezzo Hit 8.95 Lumini colorati 40 pezzi Hit Tutti i pannolini Rascal + Friends (confezioni multiple escluse), per es. Newborn 1, 23 pezzi, 5.35 invece di 7.95 a partire da 3 pezzi 33% Carta per uso domestico Twist Classic, Recycling o Deluxe, in conf. speciali, per es. Recycling 1/2 strappo, 16 rotoli, 11.75 invece di 16.80 30% 19.95 invece di 29.85 Carta per copie A4 Papeteria, FSC® bianca, 80 g/m2, 3 x 500 fogli conf. da 3 33% 11.95 invece di 16.40 Detergente per griglie e forno Potz conf. da 2 27% Tutto l'assortimento Handymatic Classic (sale rigeneratore escluso), per es. Classic Powder, 1,1 kg, 6.40 invece di 7.95, (1 kg = 5.81) a partire da 2 pezzi 20% 7.–invece di 10.50 Mini deodoranti o sfere profumate Migros Fresh disponibili in diverse fragranze, per es. Lime Splash conf. da 3 33%

Prezzi imbattibili del weekend

Solo da questo giovedì a domenica

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Tutto l'assortimento di abbigliamento per adulti incl. biancheria, calzetteria, scarpe, borse, accessori e cinture (articoli da viaggio e prodotti hit esclusi), per es. felpa da donna blu notte, a righe, il pezzo, 23.95 invece di 39.95, offerta valida dal 4.4 al 7.4.2024

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Wienerli M-Classic

Svizzera, 5 x 4 pezzi, 1 kg, offerta valida dal 4.4 al 7.4.2024

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Asparagi bianchi

Spagna/Italia/Ungheria, mazzo da 1 kg, offerta valida dal 4.4 al 7.4.2024

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Da tutte le offerte sono esclusi gli articoli M-Budget e quelli già ridotti. Offerte valide dal 2.4 all’8.4.2024, fino a esaurimento dello stock. Pronti, partenza, grigliata!
una perfetta stagione delle grigliate.
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di lonza di maiale marinate Grill mi, IP-SUISSE in conf. speciale, 4 pezzi, per 100 g 33% 4.–invece di 5.–Chips Zweifel alla paprica o al naturale, 2 x 90 g, (100 g = 2.22) conf. da 2 20%
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Formaggio da grigliare Baer Fromella Provençale o Tomme Original, per es. Fromella, 2 x 220 g, 10.70 invece di 13.40, (100 g = 2.43) conf. da 2 20%
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