Azione 17 del 23 aprile 2019

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Cooperativa Migros Ticino

Società e Territorio Il nuovo Foglio dell’Atlante geologico della Svizzera è dedicato a Mendrisio

Ambiente e Benessere Nuove strategie ambientali: il Ticino sempre più impegnato contro microplastiche e microinquinanti, e lo fa investendo sul fronte degli impianti di depurazione

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXII 23 aprile 2019

Azione 17 Politica e Economia Julian Assange anello di collegamento nel Russiagate grazie al quale salva Trump

Cultura e Spettacoli La Bilblioteca Cantonale di Bellinzona dedica una rassegna a Lucrezio, autore latino

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di Cazzullo,Venturi, Di Stefano pagine 21-22-51

AFP

Rinascerà dalle proprie ceneri

Una nuova era alle porte? di Peter Schiesser Tenetevi forte, è in arrivo un doppio loop, sull’ottovolante della rivoluzione informatica: il G5. Detto banalmente, un potenziamento tecnologico che faciliterà e renderà ancora più rapida la trasmissione dei dati attraverso la rete, di cui in realtà nessuno può prevedere oggi le future ricadute e applicazioni. Vien detto che questo nuovo scalino evolutivo tecnologico è la condizione necessaria per inaugurare l’era dell’«internet delle cose», in cui tutto – l’auto, la casa, gli apparecchi, noi... – sempre più interagirà in tempo reale. Ma non sappiamo in che modo questa interconnessione modificherà il nostro modo di vivere. Come non avremmo mai immaginato che sarebbe venuta l’era dei social media, quando abbiamo cominciato a scambiarci e-mail e sms. Tanto più che si fa già molta fatica a capire come è cambiata e sta cambiando la nostra vita, a livello micro e macro, con le potenzialità tecnologiche odierne: che esaltano il potere di un nostro gesto (con un touch compriamo, vendiamo, scegliamo, decidiamo), modificano l’accesso alla conoscenza (molto più libero ma velato dalle fake news), ci rendono

vulnerabili come individui e come collettività ad attacchi, truffe, criminalità, a vere e proprie guerre cibernetiche (già in atto da anni), ci spogliano della nostra privacy e della nostra identity, e magari anche un po’ del passato human spirit. In realtà, le promesse di un ancora più lussureggiante virtuale paradiso cibernetico non verranno a scadenza domani: se teoricamente la tecnologia G5 dovrebbe permettere di ridurre il tempo di latenza (quello che scorre fra un atto e la reazione) da 30 a 1 millisecondo, a scaricare un film ad alta risoluzione in 40 secondi, in realtà sarà inizialmente una sorta di G4+, giusto tre volte più veloce del G4 (informazioni dedotte da un articolo della NZZ, 12.2.2019). Inoltre, se guardiamo al panorama nazionale, molto dipenderà dal gestore di telecomunicazione: debole nel comparto della rete fissa, Sunrise, almeno in questa prima fase, sfrutterà la tecnologia G5 come se fosse una fibra ottica aerea, per collegare meglio alla rete mobile chi vive in zone finora male allacciate; Swisscom, leader nella telefonia fissa, potenzierà l’offerta in termini di velocità, qualità ed efficienza, ciò che potrà essere interessante soprattutto per i grossi clienti. Ma per poter entrare in questa nuova era, le antenne di telefonia mobile

dovranno essere adattate alla nuova tecnologia, e se ne dovranno aggiungere di nuove. Le aziende del settore parlano chiaro: o si alza la soglia limite delle radiazioni non ionizzanti permesse (in Svizzera la legge è fra le più severe al mondo), o si costruiscono 15 mila antenne in più. Siccome oggi tutti vogliamo uno smartphone dell’ultima generazione ma non un’antenna in giardino, per lodevoli motivi di salute (benché gli studi scientifici arrivino al massimo a non poter escludere danni alla salute, non però a comprovarli in condizioni non estreme), l’innovazione tecno-informatica richiederà tempo in Svizzera. Ma, indipendentemente dalle resistenze che potranno nascere da noi, la partita vera si giocherà a livello mondiale e noi ne saremo senz’altro influenzati. Sul piano internazionale, poi, la partita politica che si gioca attorno al G5 non è meno intricata: Huawei, leader in alcuni componenti tecnologici del G5, è un’azienda cinese di proprietà dello Stato, si teme quindi che Pechino possa impossessarsi di una mole enorme di dati in tutto l’Occidente grazie a qualche accorgimento tecnico invisibile. Non per nulla l’Amministrazione Trump tenta di convincere gli europei a rinunciare a Huawei. Con poco successo, finora.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 aprile 2019 • N. 17

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 aprile 2019 • N. 17

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Società e Territorio Videogiochi Azione e avventura in un mondo incompiuto: Anthem dello studio canadese Bioware è un gioco in evoluzione

Il caffè delle mamme Hanno trasformato il loro hobby in un lavoro redditizio postando foto sui social e sono un modello per i giovanissimi: come si diventa influencer?

La geologia del Mendrisiotto

Trenini d’epoca Siamo stati a Minusio per scoprire i treni dell’Associazione Ticinese Amici della Ferrovia pagina 8

Pubblicazioni L’Ufficio federale di topografia ha presentato il nuovo tassello dell’Atlante geologico della Svizzera:

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è dedicato al settore più meridionale del Ticino ed è frutto di un lavoro collettivo durato anni

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Il Festival delle lingue è giunto alla sua undicesima edizione. (Marka)

Vivere le lingue

Festival Otto località, quasi 2500 studenti e tante attività per stimolare la scoperta di lingue e culture straniere Stefania Hubmann Interessati alla scoperta di nuove lingue e culture, affascinati dalla modalità interattiva, stimolati da un contesto extrascolastico. Alcuni dei quasi 2500 allievi di quarta media che nelle scorse settimane hanno partecipato al Festival delle Lingue riassumono così la loro esperienza. Li abbiamo incontrati durante la pausa di mezzogiorno all’esterno del cinema Lux a Massagno, una delle sedi del festival svoltosi dal 1. al 12 aprile in otto località nelle quattro regioni del Ticino. A Massagno abbiamo pure approfondito con i responsabili dell’organizzazione Edo Baylaender e Maria Loglio lo sviluppo e il valore di un’iniziativa destinata agli allievi di quarta media e giunta all’undicesima edizione. Praticare e vivere la lingua imparata a scuola è un’esperienza arricchente, meglio ancora se in un’atmosfera gioiosa che lascia spazio anche ad altre scoperte. Il Festival delle Lingue è nato oltre dieci anni fa con questo spirito grazie ai docenti e agli esperti di lingua inglese della Scuola Media di LuganoBesso. Da allora, come spiegano gli attuali responsabili, si è progressivamente arricchito di nuove lingue ed esteso a

livello cantonale. Per Edo Baylaender, docente di francese al Liceo di Bellinzona e già esperto per la Scuola Media, e Maria Loglio, esperta di inglese e tedesco nel medesimo ordine di scuola, la sfida è ora quella di gestire richieste, proposte e logistica di una serie di giornate che mobilita circa 2500 studenti. Quest’anno hanno partecipato 119 classi di 34 sedi scolastiche. Alle lingue nazionali ed europee si sono aggiunti man mano nuovi idiomi meno conosciuti e tutti da scoprire. Precisano gli organizzatori: «Offriamo l’occasione di avvicinarsi all’aramaico, al cinese e quest’anno per la prima volta all’olelo Hawai’i. La nuova lingua ospite in genere entra poi nel programma annuale. Le attività sono affidate ad artisti, musicisti, attori teatrali, clown, ballerini, ma anche sportivi e addestratori di cani guida. In ogni caso sono proposte interattive che coinvolgono direttamente gli allievi». Da segnalare anche la presenza da alcuni anni della lingua dei segni e per la prima volta di un atelier sull’origine della lingua. Come reagiscono gli allievi alle scelte del Festival? Innanzitutto il comitato organizzatore, composto da dieci esperti di lingue per le Scuole Medie, effettua sempre un sondaggio post-fe-

stival per capire l’accoglienza riservata agli atelier e i desideri degli studenti. L’interesse per le lingue che non sono imparate a scuola emerge regolarmente ed è confermato anche dal nostro incontro con allieve e allievi della IV B di Breganzona. Così si sono espressi alcuni di loro: «È stato interessante scoprire la complessità e la ricchezza del cinese. Ogni carattere ha infatti tutta una storia». «Il cinese è completamente diverso dalle nostre lingue e questo aiuta ad aprire la mente». «Si scoprono cose nuove che possono aiutarci anche in vista delle scelte future». «La lingua cinese è molto interessante perché piena di sfaccettature». «L’esperienza fuori dalla scuola è molto coinvolgente». L’obiettivo del Festival delle Lingue, come si legge nel comunicato stampa diffuso da Tiziana Zaninelli, responsabile della Sezione dell’insegnamento medio, va proprio in questa direzione. «Le attività proposte contribuiscono a vivere il plurilinguismo in Svizzera, in Europa e nel mondo non come un ostacolo, ma come una forma di espressione e una fonte di ricchezza culturale e intellettuale, importanti per la costruzione della nostra identità e quali strumenti di apertura verso persone di altre nazionalità. Attraver-

so i tanti atelier proposti, gli allievi di quarta media sono sollecitati al rispetto per l’altro, per il diverso, per coloro che giungono da altrove». Edo Baylaender e Maria Loglio evidenziano da parte loro il sostegno della Sezione al progetto, che richiede un grande sforzo organizzativo. Si pensi ad esempio agli animatori che giungono dall’estero e alla necessità di far capo a spazi pubblici e privati nelle sedi ospitanti (quest’anno Massagno, Pregassona, Ascona, Acquarossa, Ambrì, Mendrisio, Morbio Inferiore, Riva San Vitale), senza dimenticare gli spostamenti dei numerosi allievi. Uno dei punti di forza della manifestazione è però proprio il suo carattere dislocato, tipico di un vero e proprio festival. Edo Baylaender e Maria Loglio: «I ragazzi si spostano all’interno di un nucleo in più luoghi caratterizzati da ambienti diversi, dal cinema al ristorante, dalla sala comunale al salone parrocchiale. Ogni atelier dura 75 minuti, poi è previsto un quarto d’ora per recarsi all’attività successiva. La giornata è vissuta come un’esperienza globale, variata e ancorata alla realtà». Al festival partecipano pure alcune scuole private e anche questa collaborazione è considerata ottima. Fra le diverse esperienze dell’edi-

zione 2019, nella memoria dei partecipanti resterà sicuramente il già citato primo approccio con il cinese, la canzone dei Modà Come un pittore tradotta in lingua dei segni, o ancora come l’homo sapiens sia passato da gesti e suoni alle prime sillabe e in seguito alle parole. Molto apprezzate anche l’improvvisazione delle danze di strada e la scoperta in tedesco del ruolo dei cani guida per non vedenti con esperienza pratica di un percorso. Presenza storica del Festival delle Lingue è inoltre il Teatro Paravento che quest’anno ha proposto la storia vera di Jemmy Button, ragazzo nativo della Terra del fuoco portato in Inghilterra all’inizio dell’Ottocento dal capitano Fitz Roy per cercare di trasformarlo in un gentleman britannico, prima di riportarlo a casa un anno dopo. Tutte le venticinque attività – concludono i responsabili – oltre a stimolare la scoperta di una lingua e della cultura di un popolo, sollecitano la comunicazione e trasmettono valori universali quali la fiducia e l’amicizia, valori ai quali ispirarsi per costruire il proprio futuro. Cristallina la citazione di Goethe menzionata nel programma del festival: «Colui che non sa le lingue straniere, non sa nulla della propria».

Il documento era molto atteso dagli ambienti scientifici nonché da amministratori e tecnici attivi sul territorio, per l’importanza e le particolarità dei suoi contenuti, la cui varietà e complessità ha richiesto un lungo tempo di elaborazione e verifiche. Il Servizio geologico nazionale dell’Ufficio federale di topografia swisstopo ha pubblicato il Foglio 152 Mendrisio, che copre il settore più meridionale del Ticino, tra il Ceresio e il Lario, con una parte delle province di Varese e di Como. Esso rappresenta un piccolo fondamentale contributo per la ricostruzione della storia della Terra, un nuovo cruciale tassello dell’Atlante geologico della Svizzera 1:25’000 e, naturalmente, un approfondimento della storia geologica della regione. In quanto fonte di informazioni dettagliate sul suolo e sottosuolo, è un indispensabile strumento per la pianificazione territoriale, la difesa e la salvaguardia del territorio (dai pericoli naturali, per esempio), la gestione delle risorse, per gli interventi nelle costruzioni e nella geotecnica. La carta geologica è utile anche a chi vuol capire e scoprire il territorio e il paesaggio. La sua valenza, soprattutto in una regione come il Mendrisiotto, una delle più densamente popolate in Europa e fortemente antropizzata, dovrebbe essere anche quella di renderci più responsabili nella conservazione delle nostre unicità. La necessità di una protezione più efficace dei contenuti geologici del Mendrisiotto rimane infatti quanto mai attuale. Esito di un lavoro collettivo durato anni, il Foglio Mendrisio, con i profili geologici e le 200 pagine di Note esplicative, è frutto della collaborazione tra l’Istituto di scienze della Terra della SUPSI, il Museo cantonale di storia naturale e il prof. Daniel Bernoulli di Basilea, autore principale del docu-

L’Atlante in cifre L’Atlante geologico della Svizzera 1:25’000 copre oggi il 75% del territorio nazionale. Il primo foglio Delémont apparve nel 1930. Per completare il puzzle di 220 fogli ci vorrà almeno una dozzina d’anni. La maggior parte delle carte mancanti concerne il Ticino, la Svizzera centrale e i Grigioni. La copertura attuale nel nostro Cantone è del 65%. Dopo Mendrisio e Locarno, di imminente pubblicazione, per i rimanenti otto fogli il completamento avverrà a tappe e si concluderà dopo il 2030. I primi a uscire saranno Maggia, Osogna e Olivone, seguiti da Comologno. È appena iniziato il rilevamento per le carte geologiche di Biasca, Grono, Mesocco e Hinterrhein: la SUPSI pilota il consorzio di lavoro, cui partecipano anche studi locali.

Azione

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

mento. Il mandato e la revisione finale del lavoro sono di competenza dell’Ufficio federale di topografia swisstopo. Nessuno meglio di Bernoulli conosce il Mendrisiotto, avendo dedicato alla regione studi sull’arco di un sessantennio a cominciare dal suo dottorato sulla geologia del Generoso pubblicato nel 1964. Fin dal 1955 fu assistente del Prof. Emil Kuhn-Schnyder dell’Università di Zurigo sugli scavi del San Giorgio. Professore emerito di geologia all’ETH e all’Università di Zurigo (ha insegnato per anni anche all’ateneo di Basilea) e sempre molto attivo a livello internazionale, rimane un geologo di riferimento su scala mondiale per la sedimentologia. Fondamentali i suoi contributi, sfociati in più di 150 pubblicazioni, che spaziano dallo studio delle rocce sedimentarie, delle interazioni tra la tettonica e la sedimentazione, dell’evoluzione dei margini continentali e delle piattaforme carbonatiche, alla geologia marina, su tematiche inerenti alle Alpi, al Mediterraneo, all’Asia, all’Atlantico, avendo partecipato alle campagne internazionali di sondaggi e ricerca dei suoi fondali. La carta geologica è il body-scanner del territorio. Attraverso simboli, linee, colori e profili ci aiuta a decifrare il presente e il passato, svelandoci come le rocce si sono formate, deformate e modellate fino a diventare il paesaggio che vediamo. La variabile del tempo accomuna l’intera evoluzione nello spazio riportato in tre dimensioni. Un’immagine efficace la dà il geologo italiano Corrado Venturini quando paragona la carta geologica allo spartito musicale. Il Foglio Mendrisio mette a fuoco la regione, sul confine, delle Alpi Meridionali, dove le deformazioni delle rocce, risalenti all’orogenesi alpina, sono state meno intense che a nord, rimanendo così preservate. Il Mendrisiotto è l’unica area in Svizzera in grado di testimoniare almeno gli ultimi 300 milioni di anni della storia della Terra in modo continuo, perché le successioni stratigrafiche non presentano praticamente interruzioni. Nella regione, ai resti di una più antica crosta continentale, si sono sovrapposti depositi magmatici e vulcanici (280-250 milioni di anni fa) e sedimenti di un antico mare. A partire da 100 milioni di anni fa, durante la collisione tra i continenti che porterà alla formazione delle Alpi, la crosta continentale e i sedimenti marini sono stati piegati. Poi il disseccamento del Mediterraneo a partire da 7 milioni di anni fa ha portato a un’erosione profonda delle paleo-valli che solcavano le Alpi Meridionali. L’avanzata dei ghiacciai è iniziata 2,6 milioni di anni fa, dando origine a una sequenza e a un ventaglio variegato di depositi. L’unicità del territorio è data dalla grande densità, superficie e diversità dei geotopi di importanza nazionale, in tutto sette. Tra questi, tre eccellenze, che testimoniano tre mari antichi. Il sito geopaleontologico del Monte San Giorgio, patrimonio Unesco, è il migliore Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

Il prof. D. Bernoulli, principale autore della carta geologica di Mendrisio, sul terreno del Generoso durante un’escursione pubblica promossa da swisstopo, davanti a un affioramento di Maiolica. (E. Robert)

© Swisstopo

Elena Robert

esempio al mondo della vita marina di una laguna del Triassico medio (240 milioni di anni fa), per la sua straordinaria ricchezza fossile. Sulla copertina del Foglio Mendrisio è del resto finito un bell’esemplare di pesce fossile del MSG, il Ticinolepis longaeva. Ai piedi del Monte Generoso, il Parco delle Gole della Breggia, istituito nel 2001, primo geoparco svizzero, presenta invece una successione di rocce marine che svela la vita dell’Oceano Tetide (tra 190 e 90 milioni di anni fa): a questo era connesso il marginale Bacino del Generoso che ha generato la montagna emblema della regione, il Generoso, con i suoi 4000 m di spessore di rocce calcaree. Il Parco Valle della Motta, con le argille marine di Castello di Sotto (Novazzano) risalenti al Pliocene (5-2 milioni di anni fa), racconta dal canto suo la storia di quest’aEditore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31

rea lambita da un Mediterraneo poco profondo che penetrava dal Golfo Padano, ultima testimonianza della presenza del mare in Svizzera. Come nasce una carta geologica? L’abbiamo chiesto a Filippo Schenker che ha partecipato alla redazione delle Note esplicative del Foglio Mendrisio. Geologo e ricercatore SUPSI, si è specializzato in cartografia: dal 2013 sta lavorando al Foglio Osogna, in dirittura di arrivo, di cui, come responsabile scientifico, ha coordinato i rilievi. «L’elaborazione di una carta geologica è complessa e richiede anni, a volte molto di più e consiste nel dare alle osservazioni geologiche, spesso puntuali, una continuità nello spazio, e nella loro trasposizione cartacea e digitale fino alla pubblicazione. Ci si rapporta con la natura. Le incognite con le quali ci si confronta, come quelle dei tempi dei processi di formazione delle rocce e della tettonica, richiedono verifiche. A volte si conoscono i meccanismi e gli elementi costitutivi, ma non si sa con precisione come si sviluppano nel sottosuolo, in altri casi invece succede il contrario». La carta geologica è una rappresentazione interpretativa della geologia di una regione su base cartografica. Si reperiscono i documenti disponibili: vecchie carte geologiche, lavori di dottorato e di diploma, ortofoto, modelli digitali e rilievi di terreno. Con GPS, bussola, martello, macchina fotografica, lente, carta e matite, si parte alla perlustrazione a piedi dell’area da investigare per descrivere su una prima carta di terreno, con colori e simboli, ogni cosa

osservabile: dalle rocce, ai dissesti di versante, a evidenze come faglie, massi erratici, pozzi di sondaggio. Seguono studi stratigrafici, strutturali, petrografici, anche sezioni sottili per trovare piccoli indizi necessari alla ricostruzione delle successioni geologiche più antiche. Si passa quindi dalla bozza di terreno ad una carta completa topografica in bella copia 1:10’000 dove sono riportate a mano le tessere del mosaico di informazioni, profili compresi: «I dati devono collimare, altrimenti si ritorna sul terreno per verifiche ulteriori» precisa Schenker. Dalla scansione in digitale della stessa, con i software disponibili, il tutto viene «ricalcato» e ricontrollato digitalmente fino a ottenere la bozza del foglio digitale. La delicata revisione finale, cioè il controllo scientifico e di qualità, viene svolto a Wabern e spetta al redattore di swisstopo, nel caso del Foglio Mendrisio il geologo Stephan Dall’Agnolo. Le informazioni vengono valutate, selezionate, sintetizzate e riportate sulla carta topografica a scala 1:25’000, con i dati utili alla comprensione e lettura del documento.

Tiratura 102’022 copie

Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch

Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch

Informazioni

www.swisstopo.ch/geolatlas Bibliografia completa su www.azione.ch Escursione geologica per il pubblico lungo le Gole della Breggia, domenica 26 maggio 2019 (9.30-16.00). Guide: Prof. Bernoulli, Prof. Ambrosi, Dr. Stockar. Iscrizione: info@swisstopo.ch (+41 58 469 01 11) e infogeol@swisstopo.ch (+41 58 469 05 68).

Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 aprile 2019 • N. 17

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Società e Territorio Videogiochi Azione e avventura in un mondo incompiuto: Anthem dello studio canadese Bioware è un gioco in evoluzione

Il caffè delle mamme Hanno trasformato il loro hobby in un lavoro redditizio postando foto sui social e sono un modello per i giovanissimi: come si diventa influencer?

La geologia del Mendrisiotto

Trenini d’epoca Siamo stati a Minusio per scoprire i treni dell’Associazione Ticinese Amici della Ferrovia pagina 8

Pubblicazioni L’Ufficio federale di topografia ha presentato il nuovo tassello dell’Atlante geologico della Svizzera:

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è dedicato al settore più meridionale del Ticino ed è frutto di un lavoro collettivo durato anni

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Il Festival delle lingue è giunto alla sua undicesima edizione. (Marka)

Vivere le lingue

Festival Otto località, quasi 2500 studenti e tante attività per stimolare la scoperta di lingue e culture straniere Stefania Hubmann Interessati alla scoperta di nuove lingue e culture, affascinati dalla modalità interattiva, stimolati da un contesto extrascolastico. Alcuni dei quasi 2500 allievi di quarta media che nelle scorse settimane hanno partecipato al Festival delle Lingue riassumono così la loro esperienza. Li abbiamo incontrati durante la pausa di mezzogiorno all’esterno del cinema Lux a Massagno, una delle sedi del festival svoltosi dal 1. al 12 aprile in otto località nelle quattro regioni del Ticino. A Massagno abbiamo pure approfondito con i responsabili dell’organizzazione Edo Baylaender e Maria Loglio lo sviluppo e il valore di un’iniziativa destinata agli allievi di quarta media e giunta all’undicesima edizione. Praticare e vivere la lingua imparata a scuola è un’esperienza arricchente, meglio ancora se in un’atmosfera gioiosa che lascia spazio anche ad altre scoperte. Il Festival delle Lingue è nato oltre dieci anni fa con questo spirito grazie ai docenti e agli esperti di lingua inglese della Scuola Media di LuganoBesso. Da allora, come spiegano gli attuali responsabili, si è progressivamente arricchito di nuove lingue ed esteso a

livello cantonale. Per Edo Baylaender, docente di francese al Liceo di Bellinzona e già esperto per la Scuola Media, e Maria Loglio, esperta di inglese e tedesco nel medesimo ordine di scuola, la sfida è ora quella di gestire richieste, proposte e logistica di una serie di giornate che mobilita circa 2500 studenti. Quest’anno hanno partecipato 119 classi di 34 sedi scolastiche. Alle lingue nazionali ed europee si sono aggiunti man mano nuovi idiomi meno conosciuti e tutti da scoprire. Precisano gli organizzatori: «Offriamo l’occasione di avvicinarsi all’aramaico, al cinese e quest’anno per la prima volta all’olelo Hawai’i. La nuova lingua ospite in genere entra poi nel programma annuale. Le attività sono affidate ad artisti, musicisti, attori teatrali, clown, ballerini, ma anche sportivi e addestratori di cani guida. In ogni caso sono proposte interattive che coinvolgono direttamente gli allievi». Da segnalare anche la presenza da alcuni anni della lingua dei segni e per la prima volta di un atelier sull’origine della lingua. Come reagiscono gli allievi alle scelte del Festival? Innanzitutto il comitato organizzatore, composto da dieci esperti di lingue per le Scuole Medie, effettua sempre un sondaggio post-fe-

stival per capire l’accoglienza riservata agli atelier e i desideri degli studenti. L’interesse per le lingue che non sono imparate a scuola emerge regolarmente ed è confermato anche dal nostro incontro con allieve e allievi della IV B di Breganzona. Così si sono espressi alcuni di loro: «È stato interessante scoprire la complessità e la ricchezza del cinese. Ogni carattere ha infatti tutta una storia». «Il cinese è completamente diverso dalle nostre lingue e questo aiuta ad aprire la mente». «Si scoprono cose nuove che possono aiutarci anche in vista delle scelte future». «La lingua cinese è molto interessante perché piena di sfaccettature». «L’esperienza fuori dalla scuola è molto coinvolgente». L’obiettivo del Festival delle Lingue, come si legge nel comunicato stampa diffuso da Tiziana Zaninelli, responsabile della Sezione dell’insegnamento medio, va proprio in questa direzione. «Le attività proposte contribuiscono a vivere il plurilinguismo in Svizzera, in Europa e nel mondo non come un ostacolo, ma come una forma di espressione e una fonte di ricchezza culturale e intellettuale, importanti per la costruzione della nostra identità e quali strumenti di apertura verso persone di altre nazionalità. Attraver-

so i tanti atelier proposti, gli allievi di quarta media sono sollecitati al rispetto per l’altro, per il diverso, per coloro che giungono da altrove». Edo Baylaender e Maria Loglio evidenziano da parte loro il sostegno della Sezione al progetto, che richiede un grande sforzo organizzativo. Si pensi ad esempio agli animatori che giungono dall’estero e alla necessità di far capo a spazi pubblici e privati nelle sedi ospitanti (quest’anno Massagno, Pregassona, Ascona, Acquarossa, Ambrì, Mendrisio, Morbio Inferiore, Riva San Vitale), senza dimenticare gli spostamenti dei numerosi allievi. Uno dei punti di forza della manifestazione è però proprio il suo carattere dislocato, tipico di un vero e proprio festival. Edo Baylaender e Maria Loglio: «I ragazzi si spostano all’interno di un nucleo in più luoghi caratterizzati da ambienti diversi, dal cinema al ristorante, dalla sala comunale al salone parrocchiale. Ogni atelier dura 75 minuti, poi è previsto un quarto d’ora per recarsi all’attività successiva. La giornata è vissuta come un’esperienza globale, variata e ancorata alla realtà». Al festival partecipano pure alcune scuole private e anche questa collaborazione è considerata ottima. Fra le diverse esperienze dell’edi-

zione 2019, nella memoria dei partecipanti resterà sicuramente il già citato primo approccio con il cinese, la canzone dei Modà Come un pittore tradotta in lingua dei segni, o ancora come l’homo sapiens sia passato da gesti e suoni alle prime sillabe e in seguito alle parole. Molto apprezzate anche l’improvvisazione delle danze di strada e la scoperta in tedesco del ruolo dei cani guida per non vedenti con esperienza pratica di un percorso. Presenza storica del Festival delle Lingue è inoltre il Teatro Paravento che quest’anno ha proposto la storia vera di Jemmy Button, ragazzo nativo della Terra del fuoco portato in Inghilterra all’inizio dell’Ottocento dal capitano Fitz Roy per cercare di trasformarlo in un gentleman britannico, prima di riportarlo a casa un anno dopo. Tutte le venticinque attività – concludono i responsabili – oltre a stimolare la scoperta di una lingua e della cultura di un popolo, sollecitano la comunicazione e trasmettono valori universali quali la fiducia e l’amicizia, valori ai quali ispirarsi per costruire il proprio futuro. Cristallina la citazione di Goethe menzionata nel programma del festival: «Colui che non sa le lingue straniere, non sa nulla della propria».

Il documento era molto atteso dagli ambienti scientifici nonché da amministratori e tecnici attivi sul territorio, per l’importanza e le particolarità dei suoi contenuti, la cui varietà e complessità ha richiesto un lungo tempo di elaborazione e verifiche. Il Servizio geologico nazionale dell’Ufficio federale di topografia swisstopo ha pubblicato il Foglio 152 Mendrisio, che copre il settore più meridionale del Ticino, tra il Ceresio e il Lario, con una parte delle province di Varese e di Como. Esso rappresenta un piccolo fondamentale contributo per la ricostruzione della storia della Terra, un nuovo cruciale tassello dell’Atlante geologico della Svizzera 1:25’000 e, naturalmente, un approfondimento della storia geologica della regione. In quanto fonte di informazioni dettagliate sul suolo e sottosuolo, è un indispensabile strumento per la pianificazione territoriale, la difesa e la salvaguardia del territorio (dai pericoli naturali, per esempio), la gestione delle risorse, per gli interventi nelle costruzioni e nella geotecnica. La carta geologica è utile anche a chi vuol capire e scoprire il territorio e il paesaggio. La sua valenza, soprattutto in una regione come il Mendrisiotto, una delle più densamente popolate in Europa e fortemente antropizzata, dovrebbe essere anche quella di renderci più responsabili nella conservazione delle nostre unicità. La necessità di una protezione più efficace dei contenuti geologici del Mendrisiotto rimane infatti quanto mai attuale. Esito di un lavoro collettivo durato anni, il Foglio Mendrisio, con i profili geologici e le 200 pagine di Note esplicative, è frutto della collaborazione tra l’Istituto di scienze della Terra della SUPSI, il Museo cantonale di storia naturale e il prof. Daniel Bernoulli di Basilea, autore principale del docu-

L’Atlante in cifre L’Atlante geologico della Svizzera 1:25’000 copre oggi il 75% del territorio nazionale. Il primo foglio Delémont apparve nel 1930. Per completare il puzzle di 220 fogli ci vorrà almeno una dozzina d’anni. La maggior parte delle carte mancanti concerne il Ticino, la Svizzera centrale e i Grigioni. La copertura attuale nel nostro Cantone è del 65%. Dopo Mendrisio e Locarno, di imminente pubblicazione, per i rimanenti otto fogli il completamento avverrà a tappe e si concluderà dopo il 2030. I primi a uscire saranno Maggia, Osogna e Olivone, seguiti da Comologno. È appena iniziato il rilevamento per le carte geologiche di Biasca, Grono, Mesocco e Hinterrhein: la SUPSI pilota il consorzio di lavoro, cui partecipano anche studi locali.

Azione

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

mento. Il mandato e la revisione finale del lavoro sono di competenza dell’Ufficio federale di topografia swisstopo. Nessuno meglio di Bernoulli conosce il Mendrisiotto, avendo dedicato alla regione studi sull’arco di un sessantennio a cominciare dal suo dottorato sulla geologia del Generoso pubblicato nel 1964. Fin dal 1955 fu assistente del Prof. Emil Kuhn-Schnyder dell’Università di Zurigo sugli scavi del San Giorgio. Professore emerito di geologia all’ETH e all’Università di Zurigo (ha insegnato per anni anche all’ateneo di Basilea) e sempre molto attivo a livello internazionale, rimane un geologo di riferimento su scala mondiale per la sedimentologia. Fondamentali i suoi contributi, sfociati in più di 150 pubblicazioni, che spaziano dallo studio delle rocce sedimentarie, delle interazioni tra la tettonica e la sedimentazione, dell’evoluzione dei margini continentali e delle piattaforme carbonatiche, alla geologia marina, su tematiche inerenti alle Alpi, al Mediterraneo, all’Asia, all’Atlantico, avendo partecipato alle campagne internazionali di sondaggi e ricerca dei suoi fondali. La carta geologica è il body-scanner del territorio. Attraverso simboli, linee, colori e profili ci aiuta a decifrare il presente e il passato, svelandoci come le rocce si sono formate, deformate e modellate fino a diventare il paesaggio che vediamo. La variabile del tempo accomuna l’intera evoluzione nello spazio riportato in tre dimensioni. Un’immagine efficace la dà il geologo italiano Corrado Venturini quando paragona la carta geologica allo spartito musicale. Il Foglio Mendrisio mette a fuoco la regione, sul confine, delle Alpi Meridionali, dove le deformazioni delle rocce, risalenti all’orogenesi alpina, sono state meno intense che a nord, rimanendo così preservate. Il Mendrisiotto è l’unica area in Svizzera in grado di testimoniare almeno gli ultimi 300 milioni di anni della storia della Terra in modo continuo, perché le successioni stratigrafiche non presentano praticamente interruzioni. Nella regione, ai resti di una più antica crosta continentale, si sono sovrapposti depositi magmatici e vulcanici (280-250 milioni di anni fa) e sedimenti di un antico mare. A partire da 100 milioni di anni fa, durante la collisione tra i continenti che porterà alla formazione delle Alpi, la crosta continentale e i sedimenti marini sono stati piegati. Poi il disseccamento del Mediterraneo a partire da 7 milioni di anni fa ha portato a un’erosione profonda delle paleo-valli che solcavano le Alpi Meridionali. L’avanzata dei ghiacciai è iniziata 2,6 milioni di anni fa, dando origine a una sequenza e a un ventaglio variegato di depositi. L’unicità del territorio è data dalla grande densità, superficie e diversità dei geotopi di importanza nazionale, in tutto sette. Tra questi, tre eccellenze, che testimoniano tre mari antichi. Il sito geopaleontologico del Monte San Giorgio, patrimonio Unesco, è il migliore Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

Il prof. D. Bernoulli, principale autore della carta geologica di Mendrisio, sul terreno del Generoso durante un’escursione pubblica promossa da swisstopo, davanti a un affioramento di Maiolica. (E. Robert)

© Swisstopo

Elena Robert

esempio al mondo della vita marina di una laguna del Triassico medio (240 milioni di anni fa), per la sua straordinaria ricchezza fossile. Sulla copertina del Foglio Mendrisio è del resto finito un bell’esemplare di pesce fossile del MSG, il Ticinolepis longaeva. Ai piedi del Monte Generoso, il Parco delle Gole della Breggia, istituito nel 2001, primo geoparco svizzero, presenta invece una successione di rocce marine che svela la vita dell’Oceano Tetide (tra 190 e 90 milioni di anni fa): a questo era connesso il marginale Bacino del Generoso che ha generato la montagna emblema della regione, il Generoso, con i suoi 4000 m di spessore di rocce calcaree. Il Parco Valle della Motta, con le argille marine di Castello di Sotto (Novazzano) risalenti al Pliocene (5-2 milioni di anni fa), racconta dal canto suo la storia di quest’aEditore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31

rea lambita da un Mediterraneo poco profondo che penetrava dal Golfo Padano, ultima testimonianza della presenza del mare in Svizzera. Come nasce una carta geologica? L’abbiamo chiesto a Filippo Schenker che ha partecipato alla redazione delle Note esplicative del Foglio Mendrisio. Geologo e ricercatore SUPSI, si è specializzato in cartografia: dal 2013 sta lavorando al Foglio Osogna, in dirittura di arrivo, di cui, come responsabile scientifico, ha coordinato i rilievi. «L’elaborazione di una carta geologica è complessa e richiede anni, a volte molto di più e consiste nel dare alle osservazioni geologiche, spesso puntuali, una continuità nello spazio, e nella loro trasposizione cartacea e digitale fino alla pubblicazione. Ci si rapporta con la natura. Le incognite con le quali ci si confronta, come quelle dei tempi dei processi di formazione delle rocce e della tettonica, richiedono verifiche. A volte si conoscono i meccanismi e gli elementi costitutivi, ma non si sa con precisione come si sviluppano nel sottosuolo, in altri casi invece succede il contrario». La carta geologica è una rappresentazione interpretativa della geologia di una regione su base cartografica. Si reperiscono i documenti disponibili: vecchie carte geologiche, lavori di dottorato e di diploma, ortofoto, modelli digitali e rilievi di terreno. Con GPS, bussola, martello, macchina fotografica, lente, carta e matite, si parte alla perlustrazione a piedi dell’area da investigare per descrivere su una prima carta di terreno, con colori e simboli, ogni cosa

osservabile: dalle rocce, ai dissesti di versante, a evidenze come faglie, massi erratici, pozzi di sondaggio. Seguono studi stratigrafici, strutturali, petrografici, anche sezioni sottili per trovare piccoli indizi necessari alla ricostruzione delle successioni geologiche più antiche. Si passa quindi dalla bozza di terreno ad una carta completa topografica in bella copia 1:10’000 dove sono riportate a mano le tessere del mosaico di informazioni, profili compresi: «I dati devono collimare, altrimenti si ritorna sul terreno per verifiche ulteriori» precisa Schenker. Dalla scansione in digitale della stessa, con i software disponibili, il tutto viene «ricalcato» e ricontrollato digitalmente fino a ottenere la bozza del foglio digitale. La delicata revisione finale, cioè il controllo scientifico e di qualità, viene svolto a Wabern e spetta al redattore di swisstopo, nel caso del Foglio Mendrisio il geologo Stephan Dall’Agnolo. Le informazioni vengono valutate, selezionate, sintetizzate e riportate sulla carta topografica a scala 1:25’000, con i dati utili alla comprensione e lettura del documento.

Tiratura 102’022 copie

Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch

Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch

Informazioni

www.swisstopo.ch/geolatlas Bibliografia completa su www.azione.ch Escursione geologica per il pubblico lungo le Gole della Breggia, domenica 26 maggio 2019 (9.30-16.00). Guide: Prof. Bernoulli, Prof. Ambrosi, Dr. Stockar. Iscrizione: info@swisstopo.ch (+41 58 469 01 11) e infogeol@swisstopo.ch (+41 58 469 05 68).

Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 aprile 2019 • N. 17

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Idee e acquisti per la settimana

Il bratwurst dell’Olma

Specialità Una saporita salsiccia di origini lontane che mette tutti gli svizzeri d’accordo

Azione 30% sui Bratwurst di vitello Olma Svizzera, in conf. da 4 x 160 g / 640 g Fr. 8.90 invece di 13.– dal 23 al 29.04 fino esaurimento dello stock

Vero e proprio prodotto di culto, il bratwurst dell’Olma IGP (Indicazione geografica protetta) abbrustolito al punto giusto e accompagnato da un croccante pezzo di pane bürli è da sempre tra i protagonisti di qualsiasi grigliata estiva che si rispetti. Ma anche il resto dell’anno, arrostito in padella e servito come vuole la tradizione con dei fumanti rösti e una saporita salsa alle cipolle, si

trasforma in un sostanzioso piatto unico a cui è impossibile resistere. Specialità sangallese per eccellenza, il bratwurst dell’Olma è il cugino «cicciotto» del tradizionale bratwurst di San Gallo: se il peso di quest’ultimo si aggira sui 100110 grammi, la salsiccia creata in onore dell’omonima fiera autunnale dell’agricoltura arriva a pesare ben 160 grammi. È interessante sapere che per i puristi

mangiare il bratwurst con della senape è un sacrilegio, in quanto il suo già delicatissimo sapore verrebbe compromesso. Il bratwurst fa parte della tipologia di salsicce cotte dopo essere state insaccate. È preparato con un impasto a base di carne di vitello – in gran parte – e carne di maiale, successivamente viene lavorato con l’aggiunta di lardo, cotenna, spezie varie e latte fino ad ottenere un

impasto omogeneo. Dopo essere stata insaccata nel budello naturale, la salsiccia viene infine cotta a vapore fino al raggiungimento di una temperatura interna di ca. 72 gradi e subito raffreddata. A questo punto è pronta per essere arrostita o grigliata. Si ritiene che la ricetta dei bratwurst fosse già nota a San Gallo nel quindicesimo secolo, anche se la produzione su

larga scala si diffuse solo all’inizio del ventesimo secolo grazie allo sviluppo di migliori tecniche culinarie. Una curiosità: il nome (brat)wurst non deriva dal tedesco «braten» (arrostire), ma si rifà al termine «Brät», che in tedesco significa impasto di carne macinata. Oltre a San Gallo, il bratwurst dell’Olma IGP è prodotto anche nei cantoni di Turgovia, Appenzello Interno ed Esterno.

Passione per la qualità dal 1880

Attualità Ogni tazza di Caffè Condor rappresenta un’esperienza

di gusto e piacere veramente speciali

perché solo lui sa capire quando il caffè abbia raggiunto la consistenza, umidità e situazione complessiva ottimali. Caffè Condor è apprezzato da oltre dieci anni dalla clientela di Migros Ticino grazie alle differenti miscele – in chicchi o macinate – adatte ad ogni gusto ed esigenza: Tradition, il classico caffè all’italiana dal carattere intenso e robusto e dal profumo intensamente aromatico; Cremina, il caffè delicatamente cremoso ideale per la macchina espresso e Decaffeinato, il piacere di un grande caffè dedicato a chi non gradisce la caffeina.

sul Caffè Condor chicchi o macinato da 500 o 250 g dal 23 al 29.4

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Gli affezionati del vero espresso all’italiana sanno che scegliendo Caffè Condor possono soddisfare ogni giorno la loro voglia di un buon caffè. Queste pregiate miscele di caffè vengono torrefatte, macinate e confezionate interamente in Ticino, a Stabio. Il nome Caffè Condor è conosciuto fin dal 1880, quando venne aperta un’attività di importazione e commercializzazione di caffè nel Canton Grigioni. In seguito, negli anni Quaranta, viene fondata una torrefazione artigianale con vendita, mentre nel 1971 si inaugura lo stabilimento di Stabio dove il marchio ha la sua sede ancora oggi. Da tre generazioni gli specialisti della Caffè Condor vanno di persona nei luoghi d’origine del caffè in Africa e Sudamerica per selezionare i raccolti migliori delle varietà Arabica e Robusta. La ricerca dell’eccellenza, del gusto e della qualità delle materie prime da sempre costituiscono il segno distintivo dell’azienda. Dopo la selezione dei vari tipi di caffè, avviene il delicato processo di tostatura, fatto ancora oggi artigianalmente «a occhio e naso» dell’esperto,

*Azione 20%


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 aprile 2019 • N. 17

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Idee e acquisti per la settimana

Per veri creativi Un piccolo messaggio d’amore, un simpatico saluto oppure un simbolo con un particolare significato – con la gomme da masticare di «myskai» si può davvero dire molto e di più rispetto ad altri regali. Sulla pagina web myskai.ch si possono creare delle gomme da masticare personalizzate sia con il computer, sia con il tablet oppure tramite lo smartphone. Inoltre si possono scegliere ben otto aromi differenti. Successivamente le cicche sono prodotte nell’unica fabbrica di gomme da masticare della Svizzera e, infine, inviate per posta. Niente di più facile per fare un piccolo ma prezioso gesto. Lasciatevi incuriosire su myskai.ch.

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Le gomme da masticare personalizzate «myskai».

Bottiglie di sciroppo in PET riciclato al 100%

Attualità Le note bottiglie di sciroppo della Migros sono ora

Bimbo Fun on tour

disponibili in PET totalmente riciclato. In questo modo, per la prima volta in Svizzera, si chiude il ciclo nella produzione di bottiglie in PET. L’obiettivo è quello di proporre entro il 2025 anche l’acqua minerale nel medesimo materiale. Il risparmio annuale di nuovo PET è di oltre 2500 tonnellate Da sempre Aproz è stata pioniera nell’utilizzo di PET riciclato per la produzione di nuove bottiglie. Già agli inizi del 2000 per l’azienda del Gruppo Migros era chiaro che sarebbe stato usato del materiale riciclato per le bottiglie dei suoi prodotti. A partire dal 2025, nell’UE tutte le bottiglie in PET dovranno contenere minimo il 25% di PET riciclato. Migros ha raggiunto questo obiettivo già da diversi anni, in quanto le bottiglie della marca Aproz sono composte in media dal 35% di PET riciclato. Entro il 2025, Migros si prefigge di chiudere completamente il ciclo di questo materiale utilizzando il 100% di PET riciclato per l’acqua minerale e le bibite dolci. Da subito le bottiglie di sciroppo sono realizzate al 100% in PET riciclato, mentre quelle di acqua minerale per il 60%. Per Michel Charbonnet, direttore di Aproz Sources Minérales SA, «questo cambiamento rappresenta una pietra miliare». E continua: «Una bottiglia realizzata al 100% in PET riciclato riduce in modo significativo l’impatto sull’ambiente e contribuisce a risparmiare risorse. Inoltre può essere ulteriormente riciclata». Questo importante traguardo è

stato possibile anche grazie alla grande quantità di bottiglie restituite dalla clientela Migros. Ma non finisce qui: oltre al materiale riciclato utilizzato, negli ultimi anni anche la forma delle bottiglie è stata costantemente ottimizzata e migliorata alfine di risparmiare oltre 350 tonnellate di nuovo materiale

all’anno. Anche per i tappi è stato impiegato meno materiale riducendone le dimensioni. Queste e in generale altre migliorie alle confezioni Migros hanno permesso dal 2011 di risparmiare o ottimizzare ecologicamente qualcosa come 10’000 tonnellate di materiale.

Sabato 27 aprile, sul prato adiacente al Centro Migros S. Antonino, avrà luogo una giornata di svago e divertimento dedicata a tutti i piccoli visitatori del centro commerciale sopracenerino. Dalle ore 11.00 alle 17.00 è previsto un ricco programma di coinvolgenti animazioni e attività a cui si potrà partecipare in modo asso-

lutamente gratuito. Dal trucca viso ai giochi gonfiabili; dalle bolle di sapone al toro meccanico; dai palloncini multiformi alle magie e alle marionette, fino al rullo acquatico… non ci sarà praticamente tempo per annoiarsi. Ma c’è di più: ospiti della giornata saranno anche alcuni dolci pony da accarezzare e cavalcare, come anche l’incontro a partire dalle 14.00 con una mascotte della celebre serie LOL Surprise, le bamboline da collezionare diventate un autentico fenomeno fra i bambini di tutte le età. Vi aspettiamo numerosi.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 aprile 2019 • N. 17

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Società e Territorio

Avventure in un mondo incompiuto Videogiochi A nthem è prodotto dallo studio canadese Bioware che ne garantirà l’evoluzione Davide Canavesi Quando si parla di videogiochi caratterizzati da una forte componente narrativa che hanno segnato la storia recente di questo media, non possiamo non ricordare la serie Mass Effect prodotta dallo studio canadese Bioware. La trilogia originale metteva il giocatore al centro di un’avventura complessa e piena di sfaccettature, nella quale tenevamo tra le mani il destino della nostra galassia. Ora, dopo la delusione di Mass Effect Andromeda nel 2017, i canadesi ci propongono un nuovo universo e un nuovo modo di giocare con Anthem. Che sia l’occasione di riscatto per uno studio di sviluppo che ha perso parte del suo prestigio negli ultimi anni? Anthem è un gioco d’azione/avventura ambientato in uno strano mondo lasciato incompiuto da una razza di esseri onnipotenti. Nessuno sa perché i Creatori abbiano abbandonato l’opera in corso, lasciandosi alle spalle manufatti tanto potenti quanto incontrollabili. Un pianeta devastato da cataclismi, in cui tanto gli esseri umani quanto gli animali sono in continua lotta per la sopravvivenza. La nostra avventura nel mondo di Anthem inizia in un periodo di forte crisi. Accecati dalla sete di potere, alcuni agenti della fazione umana chiamata Dominio hanno tentato di imbrigliare il potere della creazione, causando un evento distruttivo conosciuto come Il Cuore della Furia. Il giocatore, in quanto parte di un gruppo di difensori

dell’umanità, è chiamato ad intervenire per fermare il disastro. Sfortunatamente le potenze in movimento sono semplicemente troppo grandi per il gruppo di specialisti inviati sul campo di battaglia e la sconfitta è devastante. Molti eroici soldati perdono la vita, compresi alcuni dei nostri compagni di ventura. Con la reputazione in frantumi e il cuore infranto, siamo costretti a ripartire da zero per dimostrare che c’è ancora motivo di fidarsi degli Specialisti. Anthem, come detto, è un gioco d’azione/avventura. A differenza però delle produzioni passate di Bioware, questa volta ci ritroveremo a giocare in un mondo condiviso con altri giocatori. Impersoneremo uno specialista, un soldato che combatte a bordo degli Strali, esoscheletri da combattimento robotici che gli forniscono tutta una serie di abilità particolari, non da ultima quella di volare e di muoversi rapidamente sott’acqua. La campagna, che potremo affrontare da soli, in compagnia di amici oppure assieme a sconosciuti, ha una durata di circa 50 ore e ci porterà ad affrontare nemici sempre più potenti, a scoprire retroscena e segreti del mondo di gioco e a potenziare sempre di più i nostri strali. La differenza principale tra Anthem e tanti altri giochi di questo genere è che non saremo costretti a scegliere un archetipo di combattimento. Normalmente dobbiamo scegliere se fare, per esempio, il mago, l’assassino, il soldato o soldato pesante senza poter più cambiare idea. Anthem permette invece al giocatore

I giocatori potranno scegliere tra diversi strali, esoscheletri robotici da combattimento.

di cambiare strale tra una missione e l’altra, aprendo nuovi approcci e strategie, in particolar modo se orchestrate con altri compagni di squadra. Ogni strale possiede le proprie abilità, le proprie armi e le proprie modifiche, che andranno vinte partecipando alle diverse missioni. Allo stesso modo di altri titoli quali Destiny o Warframe, Anthem fa parte del genere definito come «loot and shoot». In poche parole, una volta che avremo terminato la storia principale, una delle ragioni per continuare a giocare è quella di ottenere un equipaggiamento sempre migliore. Migliori saranno armi e poteri, meglio potremo affrontare le sfide più

ardue che ci verranno proposte a mano a mano che il gioco sarà espanso dagli sviluppatori. Esattamente come altri giochi di questo genere, Anthem non è caratterizzato da un mondo statico bensì da una continua evoluzione che dovrebbe protrarsi su più anni, con aggiornamenti regolari. Bioware aggiungerà missioni, nuovi capitoli di storia, nuove armi, poteri e personaggi. Il suo essere un gioco in evoluzione, un «gioco quale servizio» è al contempo un vantaggio e uno svantaggio. È un bene perché gli sviluppatori avranno la possibilità di migliorare sensibilmente ogni componente dell’esperienza di gioco, utilizzando

il feedback offerto dai giocatori di tutto il mondo. Purtroppo però significa anche che, al momento attuale, gli equilibri di Anthem semplicemente non ci sono. Nelle prime settimane di disponibilità abbiamo visto parecchi problemi, anche piuttosto gravi, in gioco. Dal bilanciamento delle armi inesistente ad un sistema di ricompense ingiusto. Come per tanti altri giochi usciti prima, Anthem sarà una maratona sia per i produttori sia per i giocatori. C’è tanta carne al fuoco, il potenziale si intravvede, tuttavia sarà il primo anno di vita di Anthem a decretarne veramente il successo o il fallimento. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 aprile 2019 • N. 17

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Società e Territorio

Semplicemente influencer

Il caffè delle mamme Condizionano il modo di vestirsi, truccarsi e atteggiarsi di migliaia di giovanissime,

ma chi sono le influencer? Simona Ravizza Una vita da influencer. Poco più che adolescenti hanno trasformato il loro hobby in un lavoro redditizio: postare foto sui social network pagati dai brand dei vestiti che indossano. È la nuova frontiera della pubblicità. Per i nostri figli diventano un modello da imitare e amici o perfino confidenti virtuali. Così il Caffè delle mamme, in concomitanza dell’uscita il 16 aprile dell’autobiografia pop Semplicemente Ludovica (ed. Mondadori Electa), incontra Ludovica Pagani, 23enne bergamasca, considerata uno dei volti più influenti del mercato italiano, con 1,8 milioni di follower su Instagram (il social con un miliardo di utenti attivi al mese nel mondo che condividono scatti e soprattutto mettono like su quelli dei loro idoli). Il suo racconto ad «Azione» è un modo per farci scoprire cosa vuol dire essere un’influencer in grado di condizionare il modo di vestirsi, truccarsi e atteggiarsi di migliaia di giovanissime (stavolta è un’esperienza al femminile, ma poco cambia), come lo si può diventare, chi c’è davvero dietro il personaggio che con un post può raccogliere 500mila like in un colpo solo. «Vado pazza per i vestiti, li comprerei tutti i giorni.... E infatti in casa mia non ci stanno più, tanto che ho dovuto adibire la taverna a mio secondo armadio», racconta Ludovica, capelli lunghi biondi, fisico da modella, occhi da gatta, in foto sempre truccatissima: «Mia

mamma ogni tanto si preoccupa per gli scatti un po’ scollati che pubblico su Instagram, ha paura di quello che potrebbe pensare la gente, ma io la tranquillizzo. Per me la moda è un gioco, un divertimento». Di casa a Cologno al Serio, in mezzo alla pianura bergamasca, Ludovica inizia a postare su Instagram nel 2014 quand’è ancora al liceo: «Facevo il giro dei negozi di vestiti che più mi piacevano della Bergamasca e chiedevo di prestarmi dei capi per degli outfit. Poi mi autoscattavo foto da postare». Diploma al liceo linguistico e laurea triennale appena presa in management con una tesi sulla comunicazione dei social, Ludovica oggi è contesa dai brand di moda che la pagano per indossare i loro capi e pubblicare lo scatto su Instagram: «Ormai è un lavoro a tutti gli effetti. La mia agente mi aiuta a selezionare le proposte che ricevo dai marchi di abbigliamento e a programmare le giornate, che trascorro per gran parte a fare shooting fotografici (noi mamme dobbiamo iniziare a imparare: il termine inglese sta ad indicare una serie di foto originali fatte in una particolare ambientazione, ndr). Devo proprio alla moda la mia fortuna. Quando scelgo un outfit mi piace osare: i miei modelli di riferimento sono Jennifer Lopez e Shakira, due donne super femminili che con il loro stile esprimono tutta la loro sensualità senza però mai essere volgari. Per me l’abito ideale deve esprimere un mix perfetto di eleganza e sensualità».

Chiara Ferragni è tra le più importanti influencer a livello internazionale. (Marka)

Ma non è solo una questione di moda: il rapporto di fiducia, affetto e rispetto che l’influencer instaura con i follower non solo permette di influenzare i comportamenti di acquisto, ma anche di diventare maestri di vita (sigh, sigh) degli adolescenti. Notorietà e affidabilità procedono insieme. «Con i miei fan mi piace avere un rapporto diretto: rispondo sempre a tutti, e con

alcuni si è creato quasi un rapporto di amicizia, tanto che abbiamo un gruppo su WhatsApp per essere sempre in contatto – spiega Ludovica –. Quando partecipo agli eventi e vedo tutte quelle ragazzine che sono venute lì apposta per me, per conoscermi e per incontrarmi, mi si riempie il cuore di gioia, sono felicissima: oltre a fare le foto insieme, mi piace scambiare qual-

che parola, interessarmi alla loro vita. Tante ragazze mi scrivono anche su Instagram. Mi raccontano i loro problemi con la famiglia e con la scuola, e io tento di aiutarle come posso, dando qualche consiglio come se fossi quasi una sorella maggiore». Per gli osservatori del fenomeno l’influencer decreta la vittoria del brand-persona per spingere un brandprodotto: il bello è che spesso sono le aziende di moda a cercare quella persona perché ritengono che i suoi follower possano essere il giusto target per il prodotto che si vuole far vendere. I nostri figli sono gli user. Chiara Ferragni, 31enne nata a Cremona, con oltre 16 milioni di follower, è tra le più importanti influencer a livello internazionale e oggi è una donna da 30 milioni di euro l’anno: «La mia ambizione arriva da una grande fiducia in me stessa, che ha saputo infondermi mia madre. Venditrice di moda, appassionata di fotografia, è sempre stata un modello. A noi figlie diceva sempre che eravamo belle, e che potevamo arrivare dove volevamo: bastava non porsi limiti. Da bambine ci ha scattato migliaia di foto, fatto centinaia di filmini. Ci inseguiva con un cesto dove teneva macchina fotografica e telecamera. Poi organizzava il tutto in album ordinatissimi, dove sceglieva primi piani e dettagli. Diceva che un giorno le saremmo state grate per tutto questo lavoro e aveva ragione. Io, poi, sono diventata come lei». Attenzione, mamme! Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 aprile 2019 • N. 17

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Società e Territorio

Tutti in carrozza!

Associazioni A Minusio c’è un museo ferroviario dove grandi e piccoli si possono divertire

grazie alle proposte degli Amici della Ferrovia Sara Rossi Guidicelli Lo storico Carlo Maria Cipolla definisce «intelligente» chi fa una cosa utile sia per sé sia per gli altri. Dice che è molto raro trovare persone intelligenti. Noi ne abbiamo incontrato un folto gruppo a Minusio, quasi in riva al lago, in mezzo a un parco giochi: si tratta degli Amici della Ferrovia che danno seguito alla loro passione per i treni costruendone in miniatura e permettendo a tutti i bambini di salirci sopra per fare dei giri. I bambini sono felici, gli adulti anche.

Ogni anno da Pasqua a metà ottobre si anima un sistema ferroviario a misura di bambino con treni elettrici e a vapore L’Ataf nasce a Ponte Brolla quasi cinquant’anni fa (nel 2020 compirà mezzo secolo) da un gruppo di giovani con il pallino dei modellini ferroviari che volevano uno spazio per poter continuare a giocare come da bambini ma con tecnica e mentalità da adulti. Avevano capito che non bisogna mai smettere di giocare se non si vuole rovinare ciò che di buono c’è in noi. E così costruivano i treni, posavano i binari, inscenavano paesaggi con case, alberi, gallerie e montagne. L’Associazione Ticinese degli Amici della Ferrovia approda a Minusio nel 1998, su quei terreni vicino al lago che erano il Cantiere della Mappo-Morettina e che il Comune avrebbe poi trasformato in una magnifica area di gioco per bambini. Si trova vicino ai campeggi, al piccolo porto, all’inizio della passeggiata che arriva fino a Locarno, nel verde. E i ragazzi dell’Ataf, ormai diventati grandi, alcuni già in pensione, hanno un’idea: invece di far andare solamente i trenini classici, quelli alti dieci o venti centimetri, perché non costruirne anche di un po’ più grandi, in modo da farvi salire sopra i bambini? Così, questa associazione senza scopo di lucro, basata solo sul volontariato, diventa una società a «scopo pubblico sociale», in altre parole, quello che Cipolla chiama «intelligente». Ogni anno da Pasqua a metà ottobre, tutti i sabati e per due domeniche al mese, all’interno del parco giochi (questo sempre gestito dal Comune di Minusio) si anima un sistema ferroviario

I binari costruiti dall’Ataf animano il parco giochi di Minusio sui terreni che una volta erano il cantiere della Mappo-Morettina. (Stefano Spinelli)

a misura di bambino con scartamenti di due misure. Viaggiano treni elettrici e treni d’epoca a vapore, alimentati da antracite, ovvero la miglior qualità di carbone. In estate al calendario di apertura si aggiungono anche i giovedì sera. «Lo facciamo per la popolazione locale ma anche per i villeggianti e i campeggiatori. Diciamo loro: portate i vostri trenini, venite a farli andare da noi nelle giornate di pioggia; e se avete bambini piccoli, vedrete come si divertiranno a salire sui treni che circolano nel parco! Qui abbiamo anche un chiosco e il costo del biglietto è simbolico», spiega il presidente dell’Ataf Bruno Pini. A fine novembre poi, per la «festa dell’albero», si viaggia gratuitamente e si consuma una merenda offerta. Pini mi mostra il loro regno: in giardino ci sono binari di misure compatibili con treni che si trovano in vari parchi d’Europa e Stati Uniti. In ottobre, dunque, si è pensato di organizzare un fine settimana ogni anno ospitando treni da varie parti del mondo. Nei giorni di apertura (il calendario è disponibile sul sito www.ataf.ch)

si vedono moltissimi passeggeri che circolano su uno o più treni, famiglie che fanno picnic e altri bimbi che giocano nel fornito parco giochi intorno ai binari. Non c’è un passante che costeggiando il parco giochi che non si fermi a guardare queste magnifiche locomotive alte mezzo metro che rappresentano in ogni dettaglio quelle dei treni storici. Dentro la «stazione», uno stabile che ha costruito l’Associazione, c’è una biblioteca a tema ferroviario e numerosi cimeli, come vecchie lampade di locomotiva, fanali di coda, lanterne del capotreno, targhe e stemmi di treni di inizio Novecento, un telegrafo, orologi da stazione e curiose macchine per acquistare i biglietti che quasi nessuno ricorda più... «Ognuno di questi oggetti ha una storia e noi siamo qui per raccontarla», dice il presidente. «Sono oggetti di collezioni private, pezzi rari che però è bello esporre perché sono stati testimoni del progresso ferroviario svizzero dal 1847, quando è stata costruita la prima tratta nella nostra nazione. E poi ci sono i modellini delle locomotive più belle, più particolari e

più famose del mondo». Sempre a pian terreno c’è l’officina dove si esegue la manutenzione e in certi casi anche la costruzione dei pezzi. Al primo piano si trovano i binari per i modellini, con sei misure di scartamento. Chi vuole può portare il suo trenino e farlo andare o prenderne in prestito uno dell’associazione. Il progetto Futuro, come è stato chiamato, è il prossimo sogno da realizzare: uno spazio dove bisnonni, nonni, genitori e nipoti costruiscono un gigantesco percorso con i binari, le stazioni, i monti, le valli, gli edifici e tutto ciò che si vuole come scenografia per il circuito ferroviario. Sotto, invece, nel seminterrato, si custodiscono le locomotive e i vagoni dei treni più grandi. Sembrano gioielli, o forse in un certo senso lo sono. È dentro lì che si vede tutta la pazienza, la perizia e il genio di quei membri dell’Ataf che costruiscono in scala ridotta i cavalli di ferro di una volta. «Alcuni acquistano dei kit che forniscono tutti i pezzi di una locomotiva», spiega Pini. «Bisogna “solo” montarli, ma si tratta di operazioni estremamente delicate,

che richiedono settimane di lavoro e la precisione di un orologiaio. Poi c’è chi inventa la sua locomotiva, elettrica o a carbone, e infine chi la copia dalla realtà ma senza il kit». E come fa? Basandosi su materiale ingegneristico di una volta, se il costruttore ha la fortuna di trovarlo, altrimenti unicamente su fotografie. Ci sono locomotive antichissime, stupende, che un tempo giravano per le Alpi e gli altipiani svizzeri o le pianure estere, che qui si possono ammirare da vicino. E nessuno di questi signori con l’hobby dei treni era costruttore di macchine ferroviarie: molti sono ingegneri, altri nemmeno quello. È solo amore e tenacia. «Quello che volevamo era un luogo aperto, dove tutti, grandi e piccini, possano toccare e provare e avvicinarsi alla nostra passione. L’importante per noi è poterla vivere, ma anche poterla vivere insieme, perché le sane riunioni di persone migliorano la vita. E poi», conclude Bruno Pini, «se possibile volevamo restituire il favore di avere un posto per noi: a tutti i cittadini e ai turisti che ci vengono a trovare».

Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Delphine Perret, Björn. Una primavera di scoperte, Terre di Mezzo. Da 5 anni Un anno fa avevamo presentato in questa rubrica il primo volume di racconti dell’orso Björn: Björn. Sei storie da orso. Come sono le storie «da orso»? Sono storie tranquille, allegramente meditative, piene di meraviglia e gratitudine per la bellezza che riserva il quotidiano, nelle sue pieghe più nascoste; sono storie piene di quei piccoli istanti di felicità da saper cogliere. Una tana comoda, una partita a carte con la lepre, una festa inaspettata. Ed ecco che ora arrivano sei nuove storie da orso, con il sottotitolo «una primavera di scoperte». Quante scoperte fa il nostro Björn al risveglio dal letargo! Ritrova gli amici, ascolta i racconti dell’inverno trascorso, vive momenti felici con gli altri animali del bosco. Ma soprattutto Björn e i suoi amici interagiscono, nel loro incantevole modo surreale, con il mondo degli umani: trovano tra l’erba una «scatoletta»

che si illumina e parla, ci si divertono un po’ picchiettando sui tasti finché poi «tutti dimenticano il telefono e corrono a prendere le prugne succose e zuccherine»; provano a fare quella cosa che fanno gli umani quando «vanno a mangiare panini fuori da casa loro, su una coperta», ma se il picnic si fa fuori casa, «qui, nel bosco, gli animali sono ovunque a casa propria»... allora trovano una baita, vi entrano e scoprono com’è bello il panorama della valle incorniciato dalla finestra! Il quotidiano senza la patina del già visto, dell’usurato: questo ci regala lo sguardo di Björn. Anche quando dal bosco va in città,

dalla sua amica bambina, Ramona, con cui vivrà un’indimenticabile giornata in piscina. Può ricordare un po’ l’orso Paddington, questo gentile Björn, con la differenza che qui le storie alternano momenti nel bosco, tra animali, e momenti di confronto con gli umani della città. Inoltre quelle di Björn sono storie più esili, più brevi, ma proprio per questo molto adatte a chi sta compiendo i primissimi passi nel mondo della lettura, anche perché sono in stampatello, su pagine ariose e colorate con un tenue, accogliente, ocra, sul quale le delicate immagini in inchiostro nero contribuiscono non poco a raccontare le vicende. Antonella Capetti – Silvia Molteni, La cura del ghiro, Edizioni Corsare. Da 4 anni C’è un ghiro, che aveva fatto amicizia con un’allodola. Ma l’allodola vola via. Il ghiro la rimpiange, finché, alla primavera successiva, sente il canto di un tordo, e nel cuore gli nasce la speranza

che anche un tordo potrà essere un buon amico. Questo, in sintesi, il succo della storia. È una storia semplice, ma ciò che la rende intensa è l’armonica interazione di testo e immagini: un testo, di Antonella Capetti, poetico e intenso, e delle illustrazioni, di Silvia Molteni, capaci di esprimere con sensibilità il trascolorare delle emozioni di ghiro. A cominciare dai risguardi: un paesaggio di foreste, colline e torrente, molto vasto ma desolato e vuoto tra le prime brume dell’autunno nei risguardi d’apertura; e in quelli di chiusura lo stesso paesaggio, ma ravvivato dai toni di verde primaverili e soprattutto dall’ingresso,

da destra, di uno stormo di uccelli. Un volo di ritorno, nuove vite, nuove speranze di felicità. I temi toccati da questa piccola storia sono tanti, e si prestano bene ad essere elaborati dai bambini: la malinconia di un distacco, il senso di mancanza, l’essere in mezzo a creature troppo indaffarate per farci caso (ogni altro animale del bosco «aveva le proprie faccende a cui badare»), l’ambivalenza tra il desiderio di dimenticare e quello di ricordare la «sua» allodola (al risveglio dal letargo, ghiro «era felice di non essersene dimenticato. Ma era triste perché se la ricordava»), il fatto che tutti i tesori della sua tana – il filo d’erba, la foglia di castagno, la spiga, il sasso – sembrano perdere di senso a causa di quella tristezza («sembravano spenti, ingrigiti»). E poi, nel finale, la forza vitale ritrovata, grazie a un elemento uditivo, espresso dal testo («le prime note di un canto») e a un elemento visivo (il raggio di sole di una nuova alba). La felicità, a volte, può prendere le sembianze di un battito d’ali.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 aprile 2019 • N. 17

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Società e Territorio Rubriche

L’altropologo di Cesare Poppi Ab urbe condita L’espressione che titola questo nuovo appuntamento altropologico è certo fra i residuati scolastici fra i più famigliari fra gli italofoni dell’orbe tutto, fosse anche solo perché chissà in quanti ci siamo chiesti ai tempi cosa mai c’entrasse la fondazione di Roma col condimento dell’insalata. L’equivoco semantico è tornato alla memoria di molti da questa parte delle Alpi nell’ultima settimana. Condito con una buona dose di peperoncino è infatti lo scambio verbale fra la Prima Cittadina della Città Eterna e l’Inquilino del Viminale. Materia del contendere è lo stato deplorevole della metropoli: brutta, sporca e incattivita da episodi di crimine recenti. Così il Ministro degli Interni ha ricordato alla Prima Cittadina (entrambi resteranno rigorosamente anonimi in questa rubrica poiché l’Altropologo è rispettosissimo della privacy) che non occorre essere scienziati per ripulire la città. Alla replica della Sindaca che ha invitato il Ministro degli Interni ad occuparsi degli… Interni (italice a farsi i fatti suoi) è

seguita la controreplica che ha ricordato che inseguire i topi e svuotare i cestini spetta al Sindaco e non al Ministro. Insomma, converrete, uno scambio di opinioni ai sommi livelli del dibattito politico. E quanto è peggio è che il tutto avviene alla vigilia di una data importante come è il 2772simo anniversario della fondazione di Roma, quando concordia, armonia e il romanissimo «volemose bè/vogliamoci bene» dovrebbero prevalere per celebrare il fatto che almeno fin qui ce l’abbiamo fatta. Sembra ci si sia accordati almeno sulla data, visto il groviglio di fonti e interpretazioni delle stesse contrastanti che ancora oggi appassionano certuni. Fatto sta che il 21 aprile 753 AC è la data natale che propose lo storico romano Marco Terenzio Varrone sulla base degli studi che l’astrologo L. Taruzio aveva fatto dell’oroscopo di Romolo, stimolato nell’impresa proprio da Varrone. Questo nonostante l’amico di entrambi Cicerone e lo stesso Plutarco, due persone serie, ritenessero lo studio dell’oracolo del

Padre Fondatore impresa comica nella sua stravaganza, non foss’altro perché di Romolo si diceva di tutto e di più – ovvero non si sapeva nulla di certo che non fosse materia di leggenda, mitologie e strategie comunicative volte a conferire alla Città Eterna un pedigree a prova di storico. Enea, principe di Troia, in fuga dalla città conquistata dagli Achei, sbarca in Lazio e sposa Lavinia, figlia di Latino, il re degli Aborigeni che lo stesso Enea sconfigge in duello. Il figlio di Enea, Ascanio, decide di fondare una nuova città che chiamerà Alba Longa e che sarà governata dalla sua discendenza fino a quando Amulio, fratello del legittimo sovrano Numitore, non lo spodesta. Per impedire che nascano eredi dalla linea di Numitore, Amulio costringe la figlia di Numitore, Rea Silvia, a farsi Vestale e dunque a prendere i voti di castità. Non ha però fatto i conti con Marte, che si invaghisce di Rea Silvia. Dall’unione nascono due gemelli – Romolo e Remo. Saputo della nascita dei potenziali rivali, Amulio ordina che siano messi a morte.

Ma un servo infedele proprio non se la sente ed abbandona i due in una cesta che affida alla corrente del Tevere. La cesta si arena nella palude del Velabro, fra il Palatino ed il Campidoglio. Il loro pianto attira l’attenzione di una lupa che aveva perso i piccoli. La lupa, secondo alcune fonti, altro non era che una prostituta (le prostitute erano chiamate allora come ancor oggi in gergo romano «lupe» – da cui «lupanare» per «bordello»). La lupa, aiutata da un picchio (l’animale sacro ad Ares/Marte) alleva i gemelli fino a quando vengono trovati da Faustolo, il pastore dei porci di Amulio, che li adotta assieme alla moglie Acca Larentia (che le stesse maligne fonti dicono fosse nota come «la Lupa» per via della sua professione). Una volta cresciuti, i due gemelli si vendicano di Amulio, lo uccidono e rimettono sul trono Numitore. Poi decidono di andare a fondare una città tutta per loro. Il resto è storia: Romolo uccide Remo in un accesso d’ira (alcuni vorrebbero per futili motivi) e il gioco è fatto.

Roma dunque nasce sotto auspici men che auspicabili: figlia di una Vestale infedele e di Lupe dalla dubbia reputazione e cresce sul sangue di uno zio usurpatore e di un gemello assassinato da suo fratello… Non sorprende allora che la data del 21 aprile 753 sia stata scelta per far coincidere la fondazione di Roma con quella della città di Atene che – pare – avrebbe goduto di una partenza meno travagliata. E a coronare il tutto un ultimo colpo di scena: il primo millennio ab urbe condita fu celebrato nella data che oggi è divenuta canonica dall’imperatore Marco Giulio Filippo Augusto (204-249 d.C.) passato alla storia come Filippo l’Arabo per via della sue piuttosto oscure origini di figlio di un anonimo sceicco del deserto. Dettaglio degno di nota che va a condire come la classica ciliegina la storia straordinaria di una Città che è stata ed è tutto fuori che quell’esempio di purezza nazionale che vorrebbero i sovranisti oggi seduti sul Viminale.

lia sia una persona molto sensibile, particolarmente affezionata al padre che, come accade di solito agli alcolisti, ha una personalità fragile, in cerca di amore e protezione, anche se incapace di farsi aiutare davvero. Suo padre invece, cara Maria, viene presentato come un manipolatore. Il manipolatore è tutt’altra cosa perché, sotto un guanto di velluto, nasconde un pugno di ferro di cui si avvale per minacciare, in modo ambiguo e sotterraneo, la stabilità delle persone che gli stanno accanto. Di conseguenza, mentre Giulia ha fatto bene a non rompere i rapporti col padre, lei ha fatto altrettanto bene a prendere le distanze dal suo per tutelare la stabilità della famiglia. Non si tratta tuttavia di soluzioni definitive perché è sempre possibile che intervengano mutamenti che richiedono un aggiustamento delle relazioni. Non vi è niente di più complesso delle situazioni familiari in quanto affondano la storia in un passato che per intero non conosciamo e procedono verso un futuro difficile da prevedere . Lei si definisce una «combattente dei sensi di colpa» il che va benissimo

quando, come nel suo caso, non vi sono colpe. Ma è necessario che, se esistono, le colpe siano ammesse, sofferte e se ne valutino le conseguenze prima di chiudere la questione perdonando con leggerezza se stessi e gli altri, siano essi complici o testimoni indifferenti. Conosco persone irresponsabili incapaci di ammettere il male che hanno fatto, le sofferenze che hanno suscitato, il danno che hanno provocato. In questi casi è impossibile indurre in loro alcuna trasformazione e la situazione rimane immobile, pietrificata, con grave danno delle vittime e oltraggio alla verità. Lei è indubbiamente una persona forte e risoluta, felice e fortunata, ma mai dire mai: nella vita tutto può cambiare da un momento all’altro ed è meglio mantenere aperti la mente e il cuore.

piscina, un tramonto, un piatto al ristorante, insomma tutto, purché vi compaia anche l’autore dello scatto. Ed è a questo punto che un’abitudine, di chiaro tipo turistico o mondano, può rivelare una tendenza che va oltre spostandosi sul piano delle manie e delle derive caratteriali. Dal «selfie» al «selfish»: fra i due termini inglesi si è stabilita una correlazione, oggetto di allarme e di ricerche nell’ambito psicologico e sociologico. Fotografarsi in continuità non è un tic innocente. Rischia di contribuire a coltivare quella compiacente attenzione su se stessi che caratterizza il narciso. Un comportamento diffuso tanto da diventare fenomeno, tale da provocare situazioni di disagio che chiedono appropriati interventi. Un paio di settimane fa, sul domenicale di Tamedia «SonntagsZeitung» si denunciavano le

conseguenze di questo culto di sé sulle persone vicine, in particolare il partner nella coppia. Insomma, il narciso non è soltanto uno che se la tira e magari si rende antipatico. Il guaio è che crea vittime. Costrette a ricorrere all’intervento di appositi gruppi d’autodifesa. Infine, parlando dei rischi, provocati dalle immagini, le tante, le troppe immagini che ci circondano, in una sorta di assedio, è inevitabile pensare alla recente campagna elettorale per le cantonali. Le stesse facce, per mesi e mesi, su teleschermi, manifesti stradali, volantini, santini e via enumerando un eccesso che mette alla prova loro, i protagonisti, e noi, il pubblico. La parola conclusiva lasciamola a Gillo Dorfles: «Dopo la sollecitazione primaria, il messaggio provoca stanchezza, saturazione, finisce per consumarsi».

La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi Altre riflessioni sul rapporto con il padre Cara signora, in riferimento alla sua risposta alla Lettera di Giulia, pubblicata sul numero 13 di «Azione», desidero esprimere la mia opinione che si discosta dalla sua. Sono cresciuta in una famiglia con rapporti complessi, sostanzialmente manipolati da un papà instabile, insicuro, sempre alla ricerca di attenzioni tramite malattie vere o presunte, sempre pronto a lamentarsi e a pretendere. Dal momento in cui ho preso coscienza della situazione, ho passato fasi diverse: contatto e impegno, oppure distacco limitando le relazioni al minimo. Sono arrivata col tempo alla convinzione che l’unica via possibile, per il mio bene, ma soprattutto per la mia attuale famiglia, era quella del distacco. Ho sperimentato che il coinvolgimento emotivo, ma anche pratico nelle frequentazioni, inevitabilmente condizionava il mio essere in generale: le scelte, il pensiero, l’umore. Non penso si tratti solo di semplificarmi la vita (c’è anche un po’ di questo), ma proprio il diritto di riconoscere il diritto e il dovere di creare per i miei figli e per mio marito (per non parlare delle care amiche con cui

condivido le grandi sfide) un ambiente sereno. In genere mi definisco una persona felice e fortunata, ma profondamente in me ritrovo tracce logoranti del mio difficile passato, tracce che non vorrei mai che intacchino anche la costruzione della personalità dei miei figli. Che gioia vederli equilibrati e sicuri di sé! Lo stare con un piede in due scarpe, cioè far combaciare due sistemi così diversi, l’ho provato: un’esperienza fallimentare. Con me non è possibile! Se lo ritiene opportuno, sarei contenta se facesse pubblicare il mio contributo. Infatti sono una convinta combattente dei sensi di colpa (fanno male e non portano niente di positivo). Il mio punto di vista potrebbe rappresentare un invito a una scelta libera, serena e non condizionata da sensi di colpa. / Maria Cara Maria, sono ben contenta di pubblicare il suo contributo perché lo ritengo interessante, anche se non valido sempre e comunque. Nella sua lettera lei parla dell’opportunità di esercitare un «scelta libera e serena», ma quando si parla

di scelta significa che siamo di fronte a diverse opzioni, a varie possibilità. Se un problema prevede un’unica soluzione è impossibile decidere per quale optare: i problemi morali sono, dal punto di vista psicologico, sempre personali. È probabile che per Giulia il mio suggerimento fosse adeguato tanto che mi ha scritto una bellissima lettera di ringraziamento. A lei invece la stessa decisione non va bene. Molto dipende dal vostro temperamento, dall’età differente, dalla diversa patologia dei vostri genitori. Se i problemi della vita fossero risolvibili una volta per tutte potrei scrivere una ricetta di sicuro successo ma purtroppo non è così. Le psicoterapie, persino i suggerimenti, per essere efficaci devono seguire le pieghe di quella vita, le pagine di quella storia, le emozioni di una relazione tra chi parla e chi ascolta unica e irripetibile. Se valgono anche per altri è nel senso che aiutano a riflettere, a dare parole al dolore, a superare la solitudine in cui spesso ci richiudiamo nelle situazioni difficili. Dalla nostra corrispondenza, mi è sembrato di comprendere che Giu-

Informazioni

Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch

Mode e modi di Luciana Caglio Con il selfie tutti fotografi: ma come? «Ero un fotografo ed ero utile»: queste parole, pronunciate da Larry Fink, ospite d’onore al Festival Fotografia Europea, in corso a Reggio Emilia, sembrano rispondere nel modo più diretto ed essenziale a un interrogativo, ormai ricorrente, nell’era del fai da te. Confermano proprio la necessità di attribuire ai nostri gesti uno scopo, una ragion d’essere, una giustificazione materiale o morale che sia. Per Fink, è stata «una curiosità a briglie sciolte», a sollecitare un bisogno di testimoniare la realtà contemporanea, anche nelle pieghe più nascoste, e sempre tramite l’apparecchio fotografico. Nel suo caso, doveva nascere quella sorta di complicità fra utente e strumento, che rimane il segreto del successo professionale. La penna, la matita, lo scalpello, il bisturi, la zappa, il computer possono aiutare, o tradire: di-

pende da una mano e da una mente. Ma, adesso, è un rapporto che sta cambiando connotati. Per dirla con Fink: «La gente, con il telefonino in mano, si sente esonerata dal compito di scegliere un soggetto, di valutarne i contenuti, di registrarne gli aspetti sotto luci e da angolazioni diverse». E cita, in proposito, un’esperienza personale, e del resto condivisa da tutti noi: in Piazza Navona, si è trovato in una folla di turisti che «Anziché, contemplare lo splendore della fontana del Bernini, guardavano se stessi inquadrati su uno sfondo culturale». Da anziano, Fink classe 1941, tiene però a ribadirlo, non intende condannare la tecnologia in sé, magari in nome di nostalgie bucoliche che vanno persino di moda, si tratta di denunciarne gli effetti deleteri, che partono da un equivoco: una sostituzione di ruoli. Cresce il nu-

mero delle attività, sottratte alla persona, e delegate a mezzi sempre più performanti che agevolano il lavoro, creando l’illusione della facilità e quindi del successo. Paradossalmente, la minaccia incombe in particolare su mestieri cosiddetti creativi: tutti fotografi, tutti giornalisti, reporter, poeti, e via enumerando ambiti in cui i mezzi elettronici aprono e spianano la via. Anche se, in definitiva, l’inganno viene alla luce. Editoriali, tesi di laurea, persino discorsi politici, scopiazzati da Wikipedia, sono, ormai, incidenti frequenti. Un tempo, un nostro brillante collega saccheggiava disinvoltamente gli scritti di Montanelli. Sta di fatto che, oggi la diffusione del selfie ha svilito il significato, i contenuti, l’estetica della fotografia rendendo qualsiasi luogo o situazione meritevole di un’immagine: un ponticello, una


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 aprile 2019 • N. 17

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Ambiente e Benessere Velenosa, ma pure curativa Piccola e forte pianta rampicante striscia e moltiplica le sue radici nel sottobosco: è la pervinca

Il futuro dell’auto? Il viaggio lento Non la velocità quanto piuttosto la libertà di movimento è la principale attrattiva che può ancora avere l’automobile come mezzo di viaggio

La triade dei semifreddi Tre ricette per dessert speciali: al caffè, di ricotta e di noci caramellate pagina 17

Riscopriamo i cavalli Sabato 18 maggio, porte aperte in tutte le strutture equestri del territorio ticinese

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Contro i micro inquinanti, depuratori in aiuto Inquinamento Anche il Ticino attua

nuove strategie a tutela dell’ambiente

Elia Stampanoni L’Ufficio per i rifiuti, l’acqua, l’energia e l’aria del Cantone di Zurigo (Amt für Abfall, Wasser, Energie und Luft des Kantons Zürich, AWEL) ha studiato nel 2016 la presenza di microplastiche nei deflussi degli impianti di depurazione delle acque (IDA), nelle acque superficiali, nonché nell’acqua potabile e del sottosuolo. Negli impianti IDA analizzati, grazie a chiarificazioni biologiche, microfiltrazioni o altri metodi di trattamento si è constatato che viene eliminato circa il 90 per cento delle microplastiche. Lo studio ha calcolato che dai 64 impianti zurighesi, ogni giorno sfuggono comunque 30 miliardi di microparticelle, ossia circa 600 grammi. Frammenti che vanno a terminare nelle acque superficiali e non, in ogni caso, nella falda o nell’acqua potabile. Risultati analoghi erano emersi anche in altre regioni della Svizzera e in seguito sono stati confermati pure da ulteriori studi, tra cui quello svolto in Ticino e pubblicato in primavera (vedi «Azione», 11 febbraio 2019). Oltre a sensibilizzare la popolazione sull’importanza di non disperdere materiali plastici nell’ambiente e ridurne l’utilizzo, si lavora anche sul lato curativo, cercando soluzioni per aumentare la percentuale di microplastiche trattenute dagli impianti di depurazione. Uno dei rimedi adottati è quello di filtri a sabbia finali, un sistema già in uso in alcuni dei maggiori impianti di depurazione che, secondo il citato studio promosso dall’AWEL di Zurigo, garantisce un miglioramento nell’eliminazione medio delle microplastiche presenti nelle acque luride. I dati della ricerca, dove sono stati confrontati i diversi sistemi e abbinamenti di depurazione, hanno infatti evidenziato come negli impianti dotati di filtro a sabbia finale, la quota di ritenzione si è alzata dal 81% al 93%. Dallo studio è pure emerso che l’efficienza maggiore si ottiene abbinando tutti i processi di depurazione, che può contemplare diverse tappe a seconda del tipo d’impianto: dalle griglie, alla filtrazione, passando per la decantazione, la denitrificazione (con l’aiuto di microorganismi che lavorano in assenza d’ossigeno e trasformano i nitrati) e l’ossidazione (dove altri batteri, questa volta in presenza di ossigeno, generano anidride

carbonica e forme d’azoto innocue). La fase di filtrazione finale, con il passaggio in strati di sabbia migliora quindi notevolmente la qualità dell’acqua anche per quanto riguarda le microplastiche. Un sistema che ha trovato applicazione anche in Ticino, come ci conferma Mauro Veronesi, a capo dell’Ufficio della protezione delle acque e dell’approvvigionamento idrico presso il Dipartimento del Territorio (UPAAI): «Sì, alcuni impianti di depurazione, come quelli di Bioggio, Rancate o Barbengo, sono già dotati di un filtro a sabbia finale in grado di garantire, nell’insieme del processo depurativo, una purificazione superiore delle microplastiche. L’impianto di Chiasso-Vacallo sarà invece dotato di filtro a sabbia durante l’imminente intervento di potenziamento e ampliamento. È inoltre tra i quattro in Ticino che, per abbattere i microinquinanti, dovranno essere potenziati, in linea con la strategia cantonale». La strategia cantonale sui microinquinanti (costituiti soprattutto da residui di farmaci, cosmetici o biocidi) ha infatti stabilito gli impianti che dovranno essere dotati di uno stadio di abbattimento supplementare per cercare di contrastarne ulteriormente la dispersione nell’ambiente. In base alle conoscenze attuali, a tal fine si prestano in particolare l’ozonizzazione e l’assorbimento su carbone attivo, due metodi già utilizzati per il trattamento dell’acqua potabile. Oltre al depuratore di Chiasso saranno oggetto d’intervento quelli di Bioggio, di Rancate e di Barbengo: «Attualmente questi IDA sono interessati da studi di valutazione delle varie tecniche di trattamento. La tempistica dei potenziamenti è legata però anche alle contingenze d’intervento previste dai consorzi, nel senso che si interverrà in concomitanza con altri lavori importanti. In avanzata fase di progettazione è comunque quello di Bioggio del Consorzio depurazione acque Lugano e dintorni (CDALED), che ha già sottoposto la propria documentazione all’Ufficio federale dell’ambiente per una prima valutazione», precisa Mauro Veronesi. La scelta degli IDA da potenziare è stata fatta in base ai criteri contenuti nell’Ordinanza sulla protezione delle acque (OPAc), il cui progetto è stato elaborato dall’UFAM in collaborazione con rappresentanti dei Cantoni,

Una veduta dell’impianto di depurazione del Consorzio di Chiasso e Dintorni, a Vacallo. (Ti-Press)

dell’economia privata, delle associazioni professionali e della ricerca. Secondo le nuove normative entrate in vigore il 1° gennaio 2016, gli impianti che soddisfano dei dati criteri dovranno essere dotati di un modulo supplementare per abbattere i microinquinanti. Si tratta innanzitutto degli IDA con più di 80’000 abitanti allacciati e di quelli con più di 24’000 abitanti e situati nel bacino imbrifero dei laghi. I Cantoni hanno poi potuto accordare deroghe all’obbligo di potenziamento degli IDA in casi motivati, per esempio quando il beneficio per gli ecosistemi e per l’approvvigionamento di acqua potabile risulterebbe esiguo o trascurabile. Anche in caso di presenza di corsi d’acqua con una percentuale di acque di scarico superiore al dieci per cento che non vengono depurate dalle sostanze organiche, i Cantoni hanno stabilito gli IDA da potenziare. Sulla base di questi parametri l’UPAAI ha quindi individuato, tra le 27 strutture di depurazione funzionanti in Ticino, gli impianti su cui intervenire, considerando anche la vetustà degli impianti,

le tempistiche di rinnovo o altri criteri supplementari. Altri subiranno invece dei cambiamenti di funzione, sulla scia della tendenza, a livello svizzero, di abbandonare i piccoli impianti a favore del conferimento delle acque luride verso depuratori consortili più performanti. L’attuale impianto comunale di Morcote, il cui rinnovo sarebbe stato particolarmente oneroso, sarà per esempio trasformato in una stazione di grigliatura e pompaggio, da cui le sue acque luride verranno convogliate nel citato impianto di depurazione di Barbengo mediante una condotta. Il collegamento, che passerà in parte sul fondale del lago, avrà una lunghezza di circa 3,7 Km e permetterà di sfruttare l’alto livello di ritenzione di questa struttura all’avanguardia sia per le microplastiche e, in futuro, anche per i microinquinanti. Pure per altri impianti minori ci sono attualmente trattative in corso: «Si sta valutando l’opzione di dismettere gli impianti di Medeglia e di Isone e di collegarli all’IDA di Bioggio. Anche in questo caso con notevoli vantaggi

ambientali e gestionali, ma con un importante investimento iniziale», puntualizza Veronesi. Il tema delle microplastiche e dei microinquinanti è insomma un tema molto sentito e d’attualità, per il quale le autorità e gli uffici competenti si stanno impegnando, il tutto a favore della salvaguardia dell’ambiente e di un’acqua ancor più pulita. «Da notare che la Svizzera è finora l’unico Stato al mondo ad avere modificato la propria legislazione (Legge e Ordinanza sulla protezione delle acque) in maniera da prescrivere l’abbattimento dei microinquinanti nelle acque di scarico degli IDA, assicurando un sussidio del 75% agli impianti che adempiranno questo obiettivo», conclude Mauro Veronesi. Lo studio

Mikroplastik in Abwässer und Gewässern, Aqua & Gas N° 7/8 2016. Livia Cabernard, Edith DurischKaiser, Jean-Claude Vogel, Daniel Rensch e Pius Niederhauser. AWEL Gewässerschutz.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 aprile 2019 • N. 17

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Ambiente e Benessere

La pericolosa «rondine dei fiori» Fitoterapia La pervinca è un’ottima pianta medicinale, ma è altresì inclusa nella lista di quelle tossiche e velenose Eliana Bernasconi Finalmente siamo entrati nella stagione delle gite nel bosco, è impossibile allora, camminando, non incontrare la pervinca, questa piccola e forte pianta rampicante che conquista tenacemente i suoi spazi ancorata al terreno, strisciando e moltiplicando le sue radici nel sottobosco ombreggiato dove forma veri e propri tappeti: la scorgi anche nei declivi tra i cespugli, o lungo i cigli delle strade. Appartiene alla famiglia botanica delle Apocynaceae, che include molte specie erbacee native dell’Europa e dei Tropici, come l’Oleandro, con il quale condivide una caratteristica un po’ inquietante, quella di essere inclusa tra le piante tossiche e velenose (vedi articolo di Marco Martucci, apparso sul numero di «Azione» dell’8 aprile 2019). Ma non allarmiamoci troppo, l’Oleandro, ad esempio, è infinitamente più pericoloso. Ricordiamo piuttosto il grande alchimista svizzero Paracelso, che nel lontano Cinquecento ci consegnò un principio fondamentale: «è la dose a fare il veleno». Resta tuttavia il fatto che, anche se la Pervinca rientra nelle piante medicinali a disposizione, dobbiamo rammentare che è rischiosissimo farne un uso imprudente, (come di tutte le erbe curative del resto): il medico, il farmacista o l’erborista devono essere sempre interpellati, per prescrivere o controllare, e a chi volesse persistere nella convinzione che le piante, poiché del tutto naturali, non possono produrre danno alcuno, possiamo sempre

ricordare un certo Socrate e un’erba chiamata Cicuta. Il nome scientifico della pervinca è Vinca minor L, e fiorisce dalla primavera all’autunno, ma non nei mesi invernali. Ha fusti sottili e flessibili; foglie lucide e coriacee, ovali e lanceolate; fiori tubolari a cinque lobi di perfetta forma geometrica, totalmente privi di profumo e di una fredda tinta inconfondibile, un blu-grigio tendente al viola, che, giurano alcuni, in febbraio assumono un colore intenso e bellissimo. Tant’è che una nota casa automobilistica, negli anni Settanta, diede il nome «blu pervinca» al colore di un tipo di auto di grande produzione. Pianta antichissima, la pervinca giunge in Europa nel Medioevo, dove, oltre a essere una componente indispensabile nei filtri d’amore, era molto usata nei problemi di sanguinamento nasale. In Russia viene chiamata «la rondine dei fiori». Nel XVII secolo in Inghilterra era ritenuta sacra a Venere: se le sue foglie venivano fatte mangiare ai novelli sposi, l’amore fra loro, si diceva, sarebbe cresciuto. Forse non tutti sanno che Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) oltre che grande filosofo fu un appassionato botanico che amava moltissimo la pervinca e la considerava depositaria e simbolo della dolcezza del ricordo, e Giovanni Pascoli non era da meno nel magnificare questo fiore: «So perché sempre ad un pensier di cielo / misterioso il tuo pensier s’avvinca, / sì come stelo tu confondi a stelo / vinca pervinca (…)». Della Pervinca in fitoterapia si

Un esemplare di pervinca germogliato nel sottobosco. (Pxhere.com)

utilizzano le radici e le foglie. Le radici sono raccolte in primavera e autunno, dopodiché devono essere seccate al sole. Esse contengono soprattutto gli alcaloidi vincamina e vincamarina, (ciò che rende la pianta potenzialmente tossica), e hanno proprietà diuretiche e ipotensive. La parte più usata in medicina sono tuttavia le foglie – pure ricche di sostanze alcaloidi – che vanno raccolte da maggio ad agosto e seccate all’aria, ad esse sono state riconosciute moltissime proprietà: astringenti, diuretiche, toniche, depurative, digestive, emostatiche e decongestio-

nanti. I preparati ottenuti dalle foglie sono impiegati nell’ipertensione, nella diarrea, nei catarri cronici e nelle febbri intermittenti. Con uso esterno, la pervinca trova applicazione in forma di cataplasma per curare ascessi, piaghe d’ecchimosi, nella medicina popolare il decotto di foglie era usato per lavare e medicare ferite e piaghe, angine e infiammazioni della bocca possono essere contrastate con risciacqui e gargarismi di pervinca in decotto. La tintura madre, preparata con la pianta intera, è impiegata per il trattamento di ipertensioni, cefalee,

emicranie, insufficienza vascolare periferica, vertigini. L’infuso della pianta intera combatte poi la sonnolenza, mentre l’infuso di foglie è usato per lavaggi e compresse su tessuti congestionati, ulcerati, arrossati e pruriginosi. Con la Pervinca si preparano inoltre dei vini medicati che sono usati contro anemia e anoressia e come coadiuvanti tonici nelle convalescenze. Già nella medicina popolare, la pervinca era considerata un rimedio contro la perdita di memoria. La vincamina contenuta nelle sue foglie ha infatti proprietà vasodilatatorie che favoriscono la microcircolazione cerebrale. Agisce quindi sui leggeri e ben noti rallentamenti del funzionamento della memoria tipici dell’avanzare dell’età e come stimolante delle funzioni cognitive in senso generale. Esiste anche un’antica ricetta, e per questo ampiamente sperimentata e valida, del famoso «Vino alla pervinca». Una ricetta che prevede l’impiego di marsala o vino rosso, dove lasciar macerare per un certo periodo di tempo foglie di pervinca tritate. Ebbene, parrebbe che faccia bene berne un bicchierino due volte al dì prima dei pasti per circa dieci giorni. Aggiungendo anche una manciata di foglie di Melissa, pure indicata per rafforzare la memoria, questo vino medicato assume anche proprietà calmanti. Bibliografia

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 aprile 2019 • N. 17

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Ambiente e Benessere

Un finestrino sul mondo

Viaggiatori d’Occidente La riscoperta del viaggio in auto in una nuova prospettiva

Dracula? Non è mai stato qui Bussole I nviti a

letture per viaggiare

Claudio Visentin

Nel 1886, Karl Benz e Gottlieb Daimler presentarono il primo veicolo con motore a combustione interna. Intorno alla Prima guerra mondiale l’automobile usciva dalla fase sperimentale. Nel 1907 la massiccia Itala, guidata dal principe Scipione Borghese, percorse sedicimila chilometri da Pechino a Parigi, raccogliendo la sfida lanciata dal quotidiano parigino «Le Matin»: «Quello che dobbiamo dimostrare oggi

La mitica Model T. (Ford)

è che dal momento che l’uomo ha l’automobile, egli può fare qualunque cosa e andare dovunque. C’è qualcuno che accetti di andare, nell’estate prossima, da Pechino a Parigi in automobile?». Compagno di viaggio del principe Scipione Borghese era il giornalista del «Corriere della Sera» Luigi Barzini, autore al ritorno di La metà del mondo vista da un’automobile. Dal 1908 al 1927, la Ford produsse la prima auto veramente popolare, la Modello T, «l’auto del secolo» secondo un sondaggio del 1999; «Un auto in ogni rimessa» era lo slogan. Grazie alla catena di montaggio ne furono prodotti quindici milioni di esemplari. Per semplicità l’unico colore disponibile era il nero («Ogni cliente può ottenere un’auto di qualunque colore desideri, purché sia nero», Henry Ford; nel frattempo ne ha fatta di strada, v. pag. 15). Una volta disponibile, ci si chiese come utilizzare al meglio il nuovo mezzo di trasporto. Una semplice alternativa al treno? Oppure il suo impiego naturale poteva essere in quelle gare sportive di velocità esaltate dai futuristi, dove l’auto ha il «cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo» (Marinetti)? Entrambe queste vie furono percorse anche se, un secolo dopo, sembrano giunte a un vicolo cieco. Un piccolo gruppo di artisti e scrittori – Marcel Proust, Aldous Huxley, Robert Byron, Carlo Placci – seguì invece un percorso diverso. «L’automobi-

le ha resuscitato lo spirito romanzesco del viaggio» annota la scrittrice americana Edith Warton nel 1909, mentre guida la propria vettura per le vie polverose d’Italia e di Francia, abbandonate al traffico locale dopo la costruzione della ferrovia. Nella prospettiva di questi viaggiatori solo l’automobile consente di raggiungere mete nascoste, piccoli borghi senza stazione oppure una pieve di campagna. E quando visitano una città vogliono coglierla di sorpresa, «entrare dietro le quinte» del consueto spettacolo turistico (Marcel Proust). Non la velocità quanto piuttosto la libertà di movimento è la principale attrattiva. Partire e sostare quando si vuole, assecondare l’istinto e la curiosità a ogni bivio, seguire i propri ritmi. Anzi la velocità va tenuta sotto controllo perché, se troppo elevata, smorza la percezione, riduce il paesaggio a un flusso di sensazioni indistinte e genera una sorta di trance. L’auto poi dev’essere rigorosamente scoperta perché l’abitacolo tende a creare un piccolo mondo protetto e confortevole, separato dal territorio. Forse solo in questa sua raffinata e decadente versione d’inizio secolo l’automobile sembra avere ancora un futuro. Volete fare una prova alle porte di casa? Percorrete a bassa velocità una strada storica, per esempio la Strada statale 340 Regina, lungo la riva occidentale del Lago di Como. Sapete che

Ma che coincidenza! Giochi matematici Quando un trucchetto divertente per gli amici,

diventa un trucchetto d’apprendimento per chi lo fa

Ennio Peres Nell’insegnamento della Matematica, il ricorso al gioco consente di affrontare in maniera piacevole la soluzione di problemi di varia complessità e rappresenta, quindi, uno strumento di motivazione allo studio, piuttosto accattivante. Nello specifico, può risultare molto efficace l’esecuzione di alcuni giochi di prestigio matematici, in grado di conferire dignità anche a un intricato guazzabuglio di passaggi algebrici (che tradizionalmente deprimono e scoraggiano la maggioranza degli studenti di ogni ordine e grado). Un significativo esempio al riguardo può essere il seguente, di semplice esecuzione e di sorprendente effetto.

Preparazione

1. Procuratevi una certa quantità di foglietti bianchi di uguale formato e su ciascuno di essi svolgete le seguenti operazioni: – su una faccia scrivete un numero intero maggiore di 3 (diverso da foglietto a foglietto); – piegatelo in quattro, in modo che il numero scritto rimanga nascosto al suo interno; – se all’interno compare il numero X, scrivete all’esterno il numero X– 3, come indicato, ad esempio, nel seguente schema: interno --> 4 esterno --> 1

5 2

6 3

... ...

19 16

20 17

N.B.: Non è necessario che i numeri scelti formino una progressione crescente, come qui sopra indicato; è importante solo che ogni foglietto contenga un numero diverso da quello degli altri. 2. Ponete i foglietti così preparati all’interno di un sacchetto. Modalità di esecuzione

1. Fornite al vostro pubblico le seguenti istruzioni: – pensate un numero intero (non troppo grande, altrimenti vi complicate la vita...); – aggiungete 7 al numero pensato; – moltiplicate per 2 la somma ottenuta; – togliete 5 dal prodotto risultante;

ricalca un’antica strada romana, collegamento tra il porto fluviale di Cremona e la provincia della Rezia (in parte coincidente con la moderna Svizzera), attraverso Milano e Chiavenna? Costeggiate la sponda del ramo di nord-est del Lago di Lugano, passate la dogana poco prima di Oria (frazione di Valsolda) e continuate fino a Menaggio. Qui potreste scendere fino a Como ma meglio forse risalire invece la sponda occidentale dell’alto Lario fino a Gera, all’estremità settentrionale del lago. Superate il fiume Mera sul Ponte del Passo, poi attraversate il Pian di Spagna sino a Trivio Fuentes, importante crocevia tra il Lago di Como, la Valchiavenna e la Valtellina, dove la Strada Regina finisce. Una visita alle rovine del Forte di Fuentes – con le sue memorie delle guerre tra gli Spagnoli e i Grigioni, così come le numerose storie di banditi – è la perfetta conclusione dell’itinerario. Scegliete un giorno infrasettimanale e in bassa stagione, per evitare il traffico. Strada facendo guidate lentamente, coi finestrini abbassati; evitate tutte le varianti veloci e apprezzate invece la vista del lago, il tracciato tortuoso, l’attraversamento dei piccoli paesi, le soste e gli indugi, anche gastronomici. Accogliete con aristocratica indifferenza eventuali sollecitazioni altrui a un’andatura più spedita: che ne sanno loro di questo vostro viaggio sospeso tra passato e presente? – alla differenza così ottenuta, aggiungete il numero pensato all’inizio; – dividete per 3 il risultato ottenuto. 2. Sottolineate che, se i calcoli precedenti sono stati svolti correttamente, il resto della divisione richiesta deve essere uguale a zero. 3. Fate rilevare, inoltre, che se gli spettatori hanno scelto all’inizio numeri diversi, devono aver ottenuto, fino a quel momento, risultati diversi. 4. Chiedete a uno spettatore di estrarre casualmente un foglietto dal sacchetto e di mostrare al pubblico il numero scritto al suo esterno (facendo notare che sugli altri foglietti sono riportati numeri differenti).

Da quando l’irlandese Bram Stoker scrisse Dracula (1897), e soprattutto da quando il regista Francis Ford Coppola ne ha ricavato un famoso film nel 1992 (per tacere della saga Twilight, 2008), la popolarità dell’oscuro conte domina l’immaginario di chi visita la Transilvania, in Romania. Di solito i turisti affollano il Castello di Bran, a pochi chilometri dalla città di Brasov, facilmente raggiungibile da Bucarest; e pazienza se Bram Stoker qui non è mai arrivato (lesse del castello in un libro di viaggio) e se deboli sono i legami storici con la figura di Vlad Tepes, principe di Valacchia conosciuto come l’impalatore, l’ispiratore del personaggio di Dracula. In un viaggio nei Carpazi è difficile tralasciare del tutto questa suggestione storica e letteraria. Mario Casella, regista RSI, scrittore e guida alpina, l’ha però inquadrata nel più ampio orizzonte di un viaggio invernale lungo tutto l’arco dei Carpazi, da Bratislava, capitale della Slovacchia, sino alle gole danubiane delle Porte di ferro, ormai al confine tra Romania e Serbia. In tutto sono quasi millecinquecento chilometri, percorsi a piedi e con gli sci nel corso di due inverni. Casella si muove tra una natura imponente eppure minacciata dallo sfruttamento umano e dal cambiamento climatico, registrando attentamente le vicende di una società ancora avvolta nella infinita transizione seguita alla caduta del comunismo. Lo fa con attenzione, rispetto, leggerezza, muovendosi sugli sci nello spirito di Jean-Paul Sartre: «Scivolando, resto superficiale, si dice. Questo non è esatto. Lo scivolamento assicura la padronanza della materia senza che io abbia bisogno di sprofondare in essa e di impantanarmi per domarla». / CV Bibliografia

Mario Casella, Oltre Dracula. Un cammino invernale nei Carpazi, Ediciclo, 2019, pp.368, € 18.–.

5. Fornite al pubblico queste due ultime istruzioni: – al risultato che avevate ottenuto in precedenza, aggiungete il numero che si trova all’esterno del foglietto estratto; – dalla somma così ottenuta, sottraete il numero pensato all’inizio. 6. Chiedete agli spettatori di pronunciare ad alta voce, contemporaneamente, il numero ottenuto come risultato finale: in maniera inattesa, questo sarà lo stesso per ciascuno di loro, indipendentemente dal valore scelto all’inizio! 7. Aprite il foglietto estratto in precedenza e fate notare che il numero riportato al suo interno coincide esattamente con quello ottenuto da ogni spettatore!

Spiegazione del trucco

Lo era ancora nel 2015, ma oggi, no, l’auto non è neppure più uno status symbol, a detta di «AutoScout24»

«Chiedete a dieci persone di citare il primo nome che viene loro in mente pensando ai Carpazi. È probabile che almeno la metà degli interpellati risponderà evocando il nome del conte Dracula con il pensiero rivolto alla Transilvania, la regione racchiusa in quest’arco montuoso dell’Europa centrale …».

Se si indica con X il numero scelto all’inizio e con Y il valore riportato all’esterno del foglietto estratto, il risultato R delle operazioni richieste è dato dalla seguente relazione: R = [2(X+7)–5+X]/3+Y–X Svolgendo i calcoli e semplificando, si ottiene: R = [2X+14–5+X]/3+Y–X = [3X+9]/3+Y–X = X+3+Y–X = Y+3 Quindi, indipendentemente dal valore X del numero scelto all’inizio, il risultato finale sarà sempre uguale al valore riportato all’esterno del foglietto estratto, incrementato di 3 unità (ovvero, al valore riportato all’interno dello stesso foglietto).

Il tempo dell’automobile si avvia alla sua conclusione? Le quotidiane, interminabili code sull’autostrada cantonale ripetono all’infinito quanto sia ormai un mezzo di trasporto poco efficiente, inquinante e oltretutto costoso. L’auto è sempre più inutile. Ogni tentativo di andare verso il centro città comporta una multa sicura per aver utilizzato una corsia riservata ai mezzi pubblici o per un parcheggio troppo disinvolto. Al bisogno meglio affidarsi al car sharing (www.mobility.ch). Per viaggi a media distanza funziona molto bene la condivisione del viaggio – car pooling – con chi va nella nostra direzione (il riferimento è www.blablacar.com, efficiente ed economico). Anche gli autobus di linea sono molto migliorati nel tempo di Flixbus (www.flixbus.com). Poi c’è il treno, naturalmente. E per tragitti più lunghi, perché restare per ore al volante quando si può volare con una compagnia low cost e continuare poi con un’auto a nolo? L’auto non è neppure più uno status symbol. Lo era ancora nel 2015 per quasi metà degli italiani (Ricerca «AutoScout24»). Ma già l’anno dopo si preferivano vetture piccole e sofisticate, anche quando ci si potrebbe permettere di meglio. Nel 2018 un’altra indagine ha concluso che per i clienti più giovani (millennial) l’auto è solo un mezzo di trasporto, senza risvolti di prestigio sociale. Nella sharing economy siamo sempre meno possessivi: con app come www.sharoo.com si può affittare ad altri la propria auto, quando non la si usa. È la fine dell’american dream («L’unica cosa che l’americano ama veramente è la propria automobile», William Faulkner).


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 aprile 2019 • N. 17

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Ambiente e Benessere

Ford mantiene la promessa

Motori In Olanda, la Casa americana ha presentato la gamma dei suoi veicoli confermando che ogni nuovo veicolo

avrà almeno una versione elettrificata

Mario Alberto Cucchi In aprile l’Olanda si tinge di mille colori per la fioritura dei tulipani. Arrivando ad Amsterdam in aereo si possono ammirare ovunque campi pieni di sfumature stupende. E sono stati proprio i tulipani, a inizio mese nella capitale dei Paesi Bassi, a fare da sfondo al «Go further Event» (cioè: «Andare oltre») di Ford. Gli uomini della Casa automobilistica statunitense hanno utilizzato queste parole per sintetizzare la strategia europea di elettrificazione dell’intera gamma. Ad Amsterdam sono stati annunciati ben sedici nuovi modelli contraddistinti dal badge Ford Hybrid. Automobili ecologiche che saranno anche dotate di sistemi di connettività avanzata con relativi servizi di mobilità sempre più efficaci grazie alla tecnologia di trasmissione dati 5G. Lo avevano annunciato a inizio anno: ogni nuovo veicolo, dalla piccola Fiesta al grande Transit, avrà almeno una versione elettrificata. Ibrida mildhybrid, plug-in o completamente elettrica. Una promessa mantenuta. L’Olanda è stata teatro dell’anteprima globale della terza generazione di Kuga. Un modello completamente rinnovato che ora ha nuove linee e ingombri maggiori: 462 cm di lunghezza, 188 cm di larghezza e 167 cm di altezza. Si tratta del primo veicolo della Casa dell’Ovale Blu a offrire tre propulsori ibridi: MildHybrid, full Hybrid e Plug-in Hybrid. La prima è un’ibrida leggera in cui il motore 2.0 EcoBlue a gasolio da 150 ca-

Svelate in Olanda le nuove Ford: ben 16 nuovi modelli saranno contraddistinti dal badge Ford Hybrid.

valli è abbinato a un motore-generatore elettrico che prende il posto del motorino di avviamento e dell’alternatore. Come funziona? Collegato al motore permette il recupero dell’energia in fase di decelerazione per poi renderla disponibile in fase di accelerazione per aumentare la spinta e diminuire i consumi. Il full-Hybrid associa invece un motore a benzina da 2,5 litri a un motore elettrico, un generatore e un pacco batterie. Un sistema che può essere utilizzato anche in modalità esclusivamente elettrica ma che non permette la ricarica delle batterie dalla presa di corrente. La novità maggiore quindi è data dalla Plug-in Hybrid. Si tratta del pri-

mo modello venduto da Ford in Europa di ibrido ricaricabile anche via cavo. Sotto il cofano, un motore a benzina di 2,5 litri accoppiato a un propulsore elettrico con batteria agli ioni di litio da 14,4 kWh, per 225 cavalli di potenza sistema e un’autonomia di oltre 50 km a emissioni zero. Per effettuare una ricarica completa dalla presa domestica bastano circa quattro ore. Tempi che si riducono di molto quando ci si connette a colonnine dedicate. Al Go Further Event di Amsterdam hanno fatto il loro debutto globale anche il potente SUV a 7 posti Explorer in versione Plug-in Hybrid che combina il motore EcoBoost da 350 cavalli

con un motore elettrico da 100 cavalli, per una potenza totale di 450 cavalli e un’autonomia in modalità elettrica di 40 km. Anteprima anche per la versione benzina EcoBoost Mild-Hybrid di Fiesta e Focus, che saranno lanciate sul mercato il prossimo anno. Nuovo pure il Tourneo Custom Plug-in Hybrid da otto posti e la concept di Transit Smart Energy: un minibus da dieci posti sviluppato per studiare nuovi modi intelligenti di risparmiare energia che contribuiranno a migliorare l’esperienza a bordo dei futuri veicoli elettrificati dell’Ovale Blu. Svelato anche Puma: crossover compatto con tecnologia Mild-Hybrid.

Una strategia completa non può però non tenere conto delle problematiche legati ai rifornimenti di elettricità. In Ford lo sanno e hanno annunciato una nuova partnership con NewMotion che conta già oltre 100mila punti di ricarica in 28 paesi europei. Ford infine sta anche lavorando per realizzare una propria soluzione di smart wall-box al fine di garantire ai propri clienti un’ampia gamma di soluzioni di rifornimento per i futuri modelli Plug-in ed elettrici, che offriranno sistemi di connettività di nuova generazione con aggiornamenti software over-the-air. Tecnologia al servizio dell’ambiente. I tulipani ringraziano. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 aprile 2019 • N. 17

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Ambiente e Benessere

La Languedoc-Roussillon e i Vins Doux Naturels

Scelto per voi

Bacco giramondo Nel quattordicesimo secolo la superficie vitata superò i 480mila ettari

trasformando questa regione francese nel più grande vigneto del mondo Davide Comoli Le due antiche province del Roussillon e della Languedoc sono spesso associate in una sola espressione, pensando che siano una cosa sola. Eppure la differenza c’è, ad esempio i legami storici del Roussillon con la vicina Spagna continuano a influenzare la sua produzione vitivinicola. Il suo clima è senza dubbio il più caldo della Francia e i suoi vini sono alle volte i più generosi e corpulenti. Il vigneto del Roussillon si trova tra i bordi del mare a est, i Pirenei a sud e le montagne delle Corbières a nord. A guardarla dall’alto, questa regione sembra un immenso anfiteatro che circonda la fertile pianura intorno alla città di Perpignano. Vallate fluviali scivolano in questo paesaggio, segnate dal tortuoso passaggio dell’Agly e dei suoi affluenti. Celebre da molto tempo, la produzione dei Vins Doux Naturel. Le vigne della Languedoc conobbero invece il loro primo apogeo sotto la conquista romana, allorché migliaia di anfore colme di vino della provincia della «Gallia Narborensis», dall’eccellente reputazione, venivano inviate a Roma.

Alla caduta dell’Impero, anche la viticoltura subì un declino che durò sino al XVII secolo, quando furono migliorate grazie al ministro di Luigi XIV, J. B. Colbert (1619-1683), le strutture industriali e soprattutto la costruzione del porto di Sète e il Canal du Midi, senza dimenticare le nuove vie di comunicazione. Fu in quell’epoca che si assistette a una forte domanda di acquavite, soprattutto da parte dell’esercito e della marina, compresa quella inglese. Nacque così un distillato chiamato 666, dall’alta gradazione alcolica. In questo modo gran parte del raccolto veniva distillato, i vitigni usati erano l’Aramon e il Carignan, dal forte rendimento, ma anche Mourvèdre e Grenache, per una migliore qualità. Il mercato del vino conobbe una determinante evoluzione nel XIV secolo, con la grande industrializzazione delle grandi città del nord della Francia, che portò un nuovo genere di popolazione, e di conseguenza nuove abitudini alimentari, dove il vino era parte integrante nella dura vita quotidiana. Grazie alle strade ferrate, il trasporto del vino fu assicurato per queste regioni. Il commercio vinicolo era così lucrativo che la viticoltura soppiantò tutte le altre

attività. E infatti la superficie vitata superò i 480mila ettari, cifra enorme per l’epoca (ma anche per i giorni nostri), che portò la Languedoc-Roussillon a essere il più grande vigneto del mondo. Confrontati con l’invasione filosserica e la crisi economica, tra la Prima e la Seconda Guerra mondiale, i viticoltori locali puntarono su una produzione di massa, che ebbe conseguenze nefaste sulla qualità dei vini, la quale fece loro modificare negli anni Settanta la concezione di viticoltura. Fu però solo nel 1980, dopo una crisi nel settore vinicolo, che fu creato da parte di alcuni viticoltori il marchio: «Vin de Pays d’Oc», un vino a carattere regionale e di qualità, dove la legge lascia molta libertà nella scelta dei vitigni, ma è duro far capire ai molti viticoltori, ancorati al concetto di produzione di massa, quale sia la via da seguire. Ai vini rossi ottenuti dai vitigni tradizionali oggi si stanno gradualmente sostituendo vini più eleganti, ottenuti da vitigni internazionali. Il vigneto della LanguedocRoussillon è dominato dai vitigni a bacca nera e i vini rossi rappresentano l’80% della produzione. Il vitigno principe è il Carignan, seguito dalla Grenache, Cinsaut, Mourvèdre e Syraz, recenti impianti di Merlot e Cabernet Sauvignon, permettono di ottenere dei vini più morbidi. Tra i bianchi troviamo dei vini prodotti con Roussane, Marsanne, Rolle, Viognier e Chardonnay, quest’ultimo elevato in barrique per attenuare i decisi sentori minerali dati dalla composizione calcareo-scistosa del terreno. Il Languedoc-Roussillon è però famoso per i suoi «Vins doux Naturels», una dicitura che può portare un po’ di confusione: in effetti se lo zucchero è l’elemento naturale di questi vini, il metodo di elaborazione necessita l’intervento dell’uomo, con l’aggiunta di alcol, (da 5 a 10%) per garantirne la dolcezza. Questa aggiunta arresta la fermentazione, dissolve alcuni compo-

Un vigneto nel villaggio Sabran, Gard, Languedoc-Roussillon, Francia. (Landhere)

nenti (colloidi e mucillagini) e mantiene un tasso di zucchero più o meno elevato e molti aromi. La tradizione vuole che questo metodo sia stato inventato da Arnaldo de Villanova, medico e alchimista catalano (1240-1311). Più della metà di questi vini arrivano da Rivesaltes: già di moda negli anni Trenta, sono stati i primi ad accedere alla A.O.C. nel 1936. Ci sono tre tipi di Rivesaltes, bianco o doré, rosso e rosato. I rossi sono a base di Grenache, Macabeo e Malvasia. Il Rivesaltes rosso, dopo la vinificazione viene messo sia in grandi botti di rovere sia in damigiane non impagliate (bonbonnes) da 30 l. Lasciato per circa 30 mesi all’aperto, il vino subisce tutte le variazioni della temperatura estiva e invernale, acquisendo un sentore ossidato chiamato: «rancio». A Rivesaltes si produce anche un Moscato con i vitigni Moscato d’Alessandria e il Muscat à petit grains, dai profumi di limone e miele, invecchiando i profumi si trasformano in un gusto di arance amare. Il Moscato di Frontignan proviene dall’omonima città presso Sète, il vino deve avere almeno 15% vol., dei quali dal 5 al 10% acquisiti con il «mutage». Ricordiamo ancora i Moscati di Lunel, di Mireval e quello di Saint-Jean-de-Minervois, prodotto con uve sovramature. Curioso è il sapere che nelle vigne è proibito piantare alberi da frutto, pena la perdita dell’A.O.C., e infatti l’ombra degli alberi impedirebbe la piena maturazione delle uve. Non possiamo chiudere senza citare i vini di Banyuls, prodotti vicino al confine spagnolo con i vitigni Grenache e Macabeo. In questi vini il fenomeno della ossido-riduzione gioca un ruolo fondamentale, molto colorati, ricchi di tannini, con un fuoco d’artificio di profumi che spaziano dalla frutta secca, al caffè, al miele, questo vino si sposa meravigliosamente con tutte le combinazioni del cioccolato, ma ve lo consigliamo con un’anatra laccata alla cantonese.

Cantina Terlan – Müller Thurgau

Il Müller Thurgau, è stato ottenuto da un incrocio tra Riesling Renano e Madeleine Royal, dal Professor Hermann Müller di Thurgau. Nel 1939 fu introdotto in Italia dove si diffuse rapidamente, grazie alla sua precocità di maturazione e all’elevata e costante produttività accompagnata da una leggera aromaticità. Il Müller Thurgau, della Cantina Terlan (BZ), matura su lieviti in recipienti d’acciaio. La terra sulla quale viene coltivato questo vitigno è composta soprattutto da quarzi e sasso antico, che trattengono il calore del giorno. Il vino che abbiamo degustato offre ottimi spunti di piacevolezza. Di colore giallo tenue con riflessi verdognoli, al naso fa emergere il frutto giallo, albicocca in particolare, ma anche erbe di montagna e leggeri ricordi sia vegetali sia minerali. Al palato è fresco ed elegante, piacevolissimo con una lunga fase retro gustativa. È ottimo come aperitivo, ma vista la stagione, lo consigliamo vivamente con tortini o frittate di verdura, tempura di verdure e con formaggi di latte vaccino giovani. / DC Trovate questo vino nei negozi Vinarte al prezzo di Fr. 18.90. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 aprile 2019 • N. 17

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Ambiente e Benessere

Che cosa è un semifreddo? Un lettore chiede cosa esattamente sia un semifreddo. È un dessert simile al gelato, da cui si differenzia per la temperatura meno fredda e la consistenza più morbida. Può essere preparato con zucchero e panna montata e, a seconda dei casi, cioccolato, caffè, latte, frutta, uova, liquori ed eventualmente anche biscotti, pan di Spagna o altri ingredienti; indispensabile, secondo la ricetta classica, per conferire volume e leggerezza, è l’aggiunta di meringa cosiddetta «all’italiana», che non congelandosi per l’alto contenuto di zucchero agisce da regolatore della consistenza.

Può essere preparato con zucchero e panna montata e, a seconda dei casi, cioccolato, caffè, latte, frutta, uova, liquori Un semifreddo dev’essere fatto raffreddare in frigorifero per alcune ore e poi conservato al freddo. Si parla di semifreddo per bavarese, biscuit, charlotte, mousseline e varie creme e gelatine. Attenzione: i semifreddi hanno elevato contenuto calorico per il prevalere di grassi e zuccheri. Vediamo alcuni semifreddi. Semifreddo al caffè: uno dei più classici (la quantità di ingredienti qui indicata è sufficiente per 6 persone). Preparate una crema pasticcera con 2,5 dl di latte, 75 g di zucchero, 2 tuorli, 30 g di farina, 1 cucchiaino di caffè solubile e 1 di rum. Cuocete a fuoco basso, mescolando continuamente finché comincerà ad addensarsi. Versatela in una ciotola e montatela con le fruste elettriche per 10’ poi mettetela in frigorifero a raffreddare completamente. Preparate la meringa mescolando in una casseruola 2 albumi con 100 g di zucchero a velo e 3 gocce di limone. Cuocete a bagnomaria, mescolando di

continuo, fino a ottenere un composto sodo e consistente. Montate 5 dl di panna fresca. Incorporate alla crema prima la meringa poi la panna montata. Versate il composto in uno stampo rettangolare foderato con pellicola trasparente e mettete in freezer per almeno 5 ore. A piacere, sostituite il caffè con 100 g di cioccolato fondente sciolto a bagnomaria oppure 100 g di fragole o lamponi frullati. Semifreddo di ricotta: altrettanto classico (anche in questo caso, per 6 persone). Montate con le fruste elettriche 5 tuorli con 100 g di zucchero fino a ottenere un composto chiaro e spumoso. Unite poco per volta 5 cucchiai di rum e 500 g di ricotta setacciata, amalgamate bene il composto e versatelo in uno stampo da plumcake rivestito di carta da forno. Mettete lo stampo in freezer per almeno 3 ore, poi capovolgetelo sul piatto di portata e servite. Semifreddo di noci caramellate: un po’ curioso. (Per 6 persone). Fate caramellare in una casseruola 100 g di zucchero e unite 120 g di gherigli di noci tritati; stendete il composto su un foglio di carta da forno, lasciatelo raffreddare e sminuzzatelo. Portate a ebollizione 2 dl di latte con mezzo baccello di vaniglia inciso per il lungo, sbattete 4 tuorli con 50 g di miele e 80 g di zucchero e versate a filo il latte caldo filtrato. Cuocete la crema a fuoco basso, mescolando in continuazione con un cucchiaio di legno, finché comincerà ad addensarsi. Filtratela in una ciotola, montatela con le fruste elettriche per 10’ e mettetela in frigorifero a raffreddare completamente. Montate 3 dl di panna e incorporatela alla crema insieme al croccante di noci, versate il composto in uno stampo rettangolare foderato con pellicola trasparente e ponetelo in freezer per almeno 5 ore. Lavate 250 g di fragole, cuocetele con 80 g di zucchero per 5’, schiacciatele, passatele al setaccio e aromatizzate con 2 cucchiai di porto. Servite il semifreddo con la salsa, decorando con fragole fresche.

CSF (come si fa)

Charles Haynes

Allan Bay

Jun Seita

Gastronomia Simile al gelato, ma meno freddo, è un dessert ipercalorico

Ma gli strudel sono sempre dolci? No, ne esistono anche di salati. Vediamo come si fanno due strudel salati. Strudel di verza e pancetta. Ingredienti per 4 persone. Tagliate a striscioline 1 verza bianca. Riducete a cubetti 60 g di pancetta, rosolate con poco burro, unite la verza e cuocete per 5’. Emulsionate 1 dl di panna liquida con 1 cuc-

chiaio di succo di limone e un pizzico di sale, quindi unite la panna acida ottenuta alla verza; regolate di sale e di pepe e insaporite con una spruzzata di kümmel (cumino) e noce moscata grattugiata, quindi lasciate intiepidire il ripieno prima di metterlo sulla pasta da strudel o fillo. Spennellate con burro fuso 3 fogli di pasta fillo, sovrapponeteli, stendeteci sopra il ripieno e arrotolate chiudendo bene le estremità. Foderate la teglia con un foglio di carta da forno, spennellato di burro, adagiatevi lo strudel, anch’esso spennellato con il burro, e cuocete in forno a 180° per 15’. Strudel di carne e funghi. Per 4 persone. Pulite 80 g di funghi freschi a piacere, affettateli e fateli saltare in una casseruola con una noce di burro fino a quando avranno perso la loro acqua.

Sbucciate 1 cipolla, tritatela e fatela appassire a fuoco basso con 1 cucchiaio d’olio per 10’. Infarinate leggermente 200 g di carne a piacere tagliata a dadi e rosolateli con 1 cucchiaio di burro, poi unite i funghi, la cipolla e mezzo bicchiere di latte, cuocete a fuoco basso per 15’ e regolate di sale e di pepe. In una padellina antiaderente tostate 2 cucchiai di pangrattato con una noce di burro. Spennellate con poco burro fuso 3 fogli di pasta da strudel o fillo, sovrapponeteli e cospargete l’ultimo con il pane tostato. Distribuitevi sopra la carne e arrotolate chiudendo bene le estremità. Foderate la teglia con un foglio di carta da forno, adagiatevi lo strudel spennellato con il burro, e cuocete in forno a 180° per 20’. Servitelo caldo su un letto di verdure o accompagnatelo con salsa al cren.

Ballando coi gusti Oggi due ricette a base dell’amatissimo stoccafisso. Ovviamente compratelo già ammollato, pronto per essere cotto.

Stoccafisso con le olive

Stoccafisso in umido

Ingredienti per 4 persone: 800 g di stoccafisso già ammollato · 24 olive nere denocciolate · 2 cipolle · 4 acciughe sott’olio · cannella in polvere · pangrattato · farina · vino bianco secco · olio di oliva · sale e pepe.

Ingredienti per 4 persone: 800 g di stoccafisso già ammollato · 1 barattolo di polpapronta di pomodoro · 2 porri medi o 1 grosso · 1 spicchio di aglio · 1 ciuffo di prezzemolo · 1 rametto di rosmarino · vino bianco secco · olio di oliva · peperoncino · sale.

Mondate lo stoccafisso, diliscatelo, lavatelo, tagliatelo a pezzi e infarinatelo. Tritate le cipolle e fatele rosolare nell’olio con le acciughe tritate. Unite i pezzi di stoccafisso e lasciateli insaporire. Bagnate con un poco di vino, incoperchiate e lasciate cuocere per circa 2 ore a fuoco dolce, unendo poca acqua bollente se necessario. 30’ prima che sia pronto, unite le olive. A cottura, regolate di sale, di pepe e di cannella, cospargete con pangrattato e gratinate in forno a 200° per pochi minuti.

Mondate lo stoccafisso, diliscatelo, lavatelo, tagliatelo a pezzi e infarinatelo. In un tegame fate rosolare i porri affettati finemente con un filo di olio, quindi unite la polpapronta, l’aglio, il prezzemolo e il rosmarino, lasciate insaporire, unite lo stoccafisso e bagnate con poco vino. Incoperchiate e lasciate cuocere per circa 2 ore, bagnando di tanto in tanto con acqua bollente. Alla fine regolate di sale e di peperoncino.


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Azione

19 Settimanale della Cooperativa Migros Ticino

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Un cuore per il cavallo 24

C E N T O 19 A V E L Ambiente e Benessere L O L I A N A R E

Mondoanimale La millenaria relazione fra uomo e cavallo passa per le sottili sfumature dell’etica

(N. 14 - Quasi due chilometri e mezzo) 1

Pur essendo un animale domesticato dalla notte dei tempi, il cavallo ha mantenuto quella sua peculiarità selvatica e istintiva che lo rende affascinante, attrattivo e misterioso ai nostri occhi. «Non traggano però in inganno la sua natura di preda e il suo cervello emotivo che tanto differisce dal nostro, perché malgrado ciò, per il cavallo, il rapporto e la comunicazione con l’uomo rimangono fondamentali», afferma la presidente della Commissione Cavallo e Ambiente della FTSE, Ester Camponovo. Per questi animali dalla spiccata sensibilità d’animo l’uomo rimane dunque un punto di riferimento con cui imparare a dialogare, ma la condizione di reciprocità di questo incontro è ancora più importante e non è certo da sottovalutare, spiega la nostra interlocutrice: «Ciò che dobbiamo avere ben presente, è il fatto che per l’uomo è fondamentale sapersi avvicinare e rapportare al cavallo in modo adeguato e opportuno, in tutta sicurezza, vivendo esperienze che siano consapevoli e positive per entrambe le parti: uomo e cavallo».

Il rispetto si ha con la conoscenza, e quest’ultima inizia dall’incontro e si forma con l’esperienza È questo uno dei motivi, per cui si ripete, per il nono anno consecutivo, la Giornata cantonale dedicata al cavallo. Avrà luogo sabato 18 maggio in

Giochi

tutte le strutture equestri del territorio ticinese che apriranno le loro 6 porte e permetteranno per l’appunto alla popolazione di scoprire un animale dal 9 grande fascino ma non più così familiare com’era un tempo. «“Un cuore per 11 il cavallo” sarà il motto che proponiamo quest’anno, per mettere in risalto il 13 14 di questi 15 16 benessere animali, l’approccio corretto nella relazione tra noi e 18 senza tralasciare di sottolineare 19 loro, l’importanza dell’etica indispensabile equestri», 20 alla pratica degli sport21 spiega Stelio Pesciallo, presidente della Federazione sport equestri (FTSE) che 22 23 è promotrice dell’evento divenuto una consuetudine primaverile. 25 La conoscenza degli equini, nel loro animo, nelle loro esigenze e nelle abitudini acquisite con la domesticazione, si interseca allora con l’apprendimento da parte di noi esseri umani delle competenze necessarie di tutto quanto ruota loro attorno, con un unico chiaro obiettivo, spiega Pesciallo: «Il 1 2 3 4 5 mio cavallo deve sentirsi veramente a casa quando sta in scuderia, o nel luogo 10 in cui vive». Lo slogan che la Federazione tici12 ha preso in prestito dalla Federa13 nese zione svizzera sport equestri (FSSE), 14 d’altronde, riassume tutte 15 le sfumature di questi intenti che si intersecano a17loro volta con le regole 18 etiche imprescindibili della completa relazione uomo-cavallo20il cui sviluppo, dice la Camponovo: «Confluisce nella condotta che cavalieri e amazzoni devono 21 apprendere dapprima, e poi mettere in campo, nella pratica di tutti gli sport 23 24 equestri». Il cavallo va posto sempre al centro della relazione fra due spe25 cie tanto differenti quanto affini fra di

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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch

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P A S Qglio per U questi A magnifici animali». Ma N. 13 FACILE anche il «meglio» può essere relativo: A S T Schema I«Sappiamo davvero S Dsempre tutto e precisamente cosa sia meglio per il nostro E C O cavallo?» U si interroga S I Pesciallo. 1 9 2 Ecco che il senso 5 di «etica» promosso da questa manifestazione di S E S Taperte Idelle A diventa 5 porte 8 scuderie, 9 2 sinonimo di comportamento corretto e I P Oresponsabile I M situazione e in qualsiasi 3 nei confronti di tutti gli esseri viventi, V E GsianoLessi uomini I oAcavalli. D’altronde, 3 7 5 8 di ordine9etico si sa che per le questioni R I O Nnon sempre E esistonoNrisposte univoche: «Ma siamo pure coscienti del fatto 6 4 7 che dobbiamo saperci prendere cura nel A N T O Z T migliore dei modi di un animale tanto 3 2 e affine a Z I A bello,Osensibile, R volonteroso E

noi, quanto diverso dalla nostra natura 3 8 e per le sue necessità». Secondo i nostri interlocutori, ciò si rende possibile sol4 7 tanto attraverso la costante conoscenza degli equini, all’instaurare di una rela4 8 5 2 cedere 6 all’umazione 9 leale, ma senza nizzazione o, peggio, all’abuso: «L’etica non si riduce a un semplice codice relazionale o di comportamento, e non N. 14 MEDIO si limita all’impiego del cavallo, ma si estende naturalmente al suo manteni8 3 mento, 1 5accudimento e alla2sua gestione quotidiana». La4 Giornata 5 6 cantonale del cavallo di sabato 18 maggio (i cui programmi di ogni scuderia si possono consulta1 8 su www.equiticino.ch) 9 4 vuole dunre que porre l’accento su tutto ciò che va 2 9 oltre i punti 4 fissati nei1regolamenti ben simili, ma anche verso di noi», puntua- sportivi e nella completa ed esaustiva lizza la nostra interlocutrice, 8 sottoline- legislazione elvetica in materia di proando che «chiunque abbia dei rapporti tezione degli animali. «L’etica ci deve con i cavalli, siano essi in ambito spor- portare a mettere davvero il nostro 9 tivo, ricreativo o professionale, dovrebGiochi per “Azione” - Aprile 2019 cuore nella relazione con il cavallo», be volere,Stefania e assicurare, sempre il me- conclude Ester Camponovo. Sargentini

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(N. 15 - ... laghi al mondo è il Canada - ... Ontario) 6

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L O ' G 16 O 19 P E 22 loro, perché il suo destino è nelle mani dell’essere umano. D «È un animale molto affettuoso, comunicativo ed empatico, contraddiI stinto da una grande capacità di adattamento non solo nei confronti dei suoi A 11

A N E T O

R G H I E R E S U I O C A D A T T O R O I E T A E T A S S A L9 T

A L M A A D O N E' L E O R E N A E A O N E

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7 da 50 franchi con il cruciverba una delle 2 carte regalo con I N 50 C Efranchi R 3I 8 il sudoku (N. 16 - “In Africa, suequesto non ci piove”)OS Lda I T A L

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(N. 13 - Sicilia, cento cavalli) Vinci unacastagno delle dei 3 carte regalo 1

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34. Romanzo di Edmondo De Amicis 36. Personaggio de Il Tartufo di Molière 37. Il Dio degli inglesi 38. Prefisso che vuol dire al di sotto 40. Lampadina inglese 41. C’è chi lo prova nel cuore 42. Un anagramma di Eva 43. I cortili delle fattorie VERTICALI 1. Propenso, disposto 2. Sotto il naso di tutti 3. Profughi 5. Le iniziali dello scrittore Camilleri 6. Può destarla un insulto 8. L’attore Bova 9. Area Statistica d’Affari

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C A S E T E Sudoku 15 I N E T N. GDIFFICILE A I I P A R O

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F R A C 14 15 Soluzione: R E G N O D O T E 4C R A I A 6S I N A S Scoprire i 3 T O R R I C E N T O numeri corretti 18 19 A UC D A V8 daO inserire nelle CS SR AE L A C Q 2U A 4 caselle colorate. R A I C O L O L I 22 23 C 3O L E OL AI P PL I AI N U A RM E 5 26 27 I C I SUDOKU A AZIONE R - APRILE I M2019 S 2T 6T PER (N. 14 - Quasi due chilometri e mezzo) 30 N.N 13 FACILE I L I N 7E A L O I Schema Soluzione P A S Q U A 32 33 T5 I E S D V 8 I1 9C2 6I 4 N E1 9 2 ANS 7O 5 7 E 3 9 8 2 4 36 E C O U S I 6 7 5 3 1 8 9 4 2 5 8 9 2 C SUE 2OS R O 4R9 7G5 O N T I E A 3 2 7 1 86 6 3 39 40 C H3 I L7 I5 8 1 9 G O D 4P8 O II9 PM 3O 4 3 2P7 5I 6 R N 1 R O M A V E G L I A 1 5 6 4 8 9 3 2 7 6 4 7 43 OO T OD R3I I2 O N E N O A V 9 E8 7 1 3A 2 6I 5 E4 11

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ORIZZONTALI 1. Desinenza di diminutivo plurale femminile 4. Un anagramma di già 7. Ha due code 11. Sono sotto gli occhi di tutti 13. Il verso della rana 15. Gli dei di Sigfrido 16. Rozza, brusca 18. Ha due atomi di idrogeno e uno di ossigeno 20. Un fiore 22. Preposizione articolata 24. Qui in Francia 25. Fiume della Cina 27. Le iniziali della conduttrice Toffanin 28. Si ripetono nelle funzioni 29. Famosa quella Maginot 30. Legge francese 31. Il padre di Sem e Cam 32. Poco lontane

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Cruciverba L’insegnante rivolta alla classe: «Dove si trova il deserto del Sahara?» Cosa risponde un allievo spiritoso facendo scoppiare a ridere i compagni? Scoprilo risolvendo il cruciverba e leggendo nelle caselle evidenziate. (Frase: 2, 6, 2, 6, 3, 2, 5).

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Maria Grazia Buletti

Maria Grazia Buletti

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10. A noi 2 6 3 8 4 1 7 Soluzione della settimana precedente 12. Giorni sacri a Giove N. 16 GENI 7 4 8 5 9 3 2 4 8 5 9 2 6 PAESI E DINTORNI – Una delle regioni con più concentrazione di… 14. Simbolo di robustezza (N.17.15 - ... laghi al mondo - ... Ontario) AL MONDO È IL CANADA – Uno di questi si chiama: ONTARIO. Un’attrice di nome Serena è il Canada LAGHI N. 14 MEDIO 19. Regione dell’Iran 1 2 3 4 5 6 7 8 9 21. L’uomo inglese 4 8 3 1 5 7 9 L A8 R3 G1 H5 I A2 L M A 10 23. Stefano a Parigi 11 5 2 9 3 4 6 1 ' O5 N E R E4 6 A D O N E ' 12 26. Abbreviazione 13ecclesiastica 1 6 7 8 2 9 4 G E S U I L E O R 1 8 9 4 27. Fragorosi, 15rumorosi 14 16 2 3 6 9 8 4 5 29. Il bagno dei londinesi A E O2 T O 9 C A4 E N1 17 19 30. Fedele,18 devota 8 9 4 7 1 5 2 P8 O D A T A O N E 31. Lo20erano Adamo ed Eva 7 1 5 6 3 2 8 9 E T O R O 33. Corpo senza vocali22 21 9 4 2 5 6 3 7 9 2 5 7 D I E T A R 34. Abbreviazione di codice 23 35. Rende stretti i 24vestiti 6 7 1 2 9 8 3 4 I 7 E T A I 25 37. Rendono gelosa Elsa 3 5 8 4 7 1 6 A3 S S8 A L T O 39. Centro della Cecoslovacchia

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 aprile 2019 • N. 17

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Politica e Economia La Spagna vota Il 28 aprile si terranno le elezioni politiche anticipate, per eleggere il nuovo Parlamento

Le elezioni più grandi del mondo Sette turni di voto a partire dall’11 aprile per definire la diciassettesima composizione della Camera bassa del Parlamento indiano e di alcune assemblee statali. Per molti il voto è un referendum sul premier Modi

Mosca, giro di vite al web In un progetto di legge, primo passo per la creazione di un firewall di Stato sullo stile cinese?

I soldi? Quanti pensieri... Da un’indagine condotta a livello mondiale su incarico di Blackrock, emerge che per gli Svizzeri il denaro è un grande fattore di stress pagina 29

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Notre-Dame: un simbolo che arde nei cuori Parigi C’è una cosa che resta autentica

e certa: lo sgomento di fronte a un evento che ci trascende tutti, e quindi ci riguarda

Aldo Cazzullo Il mondo ha trepidato per Notre-Dame, ma non era Notre-Dame quella che bruciava in diretta sugli schermi delle tv o degli smartphone. Erano legni e metalli. La vera Notre-Dame è un simbolo, e i simboli non muoiono mai. Oltretutto la guglia crollata era neogotica, non originale. Certo, resta una perdita grave. Ma non irreparabile. Alla fine pare non sia successo quasi nulla: in due giorni si è passati dalla catastrofe irreparabile alla promessa collettiva della ricostruzione. In realtà, è successo di tutto. Le immagini della Cattedrale in fiamme sullo sfondo del cielo cobalto del tramonto di Parigi resteranno nella memoria, anche in quella fragile dei nostri giorni, anche in quella effimera della rete; così come resterà il ricordo del terrore della notte, quando per un’ora si è temuto che crollassero pure le torri e la facciata. Un giornalista di France2, il primo canale pubblico, ha fatto notare che se l’incendio fosse scoppiato a mezzogiorno, quando fumo e fiamme si confondono con la foschia e la luce del giorno, e si fosse capito già per l’edizione delle 20 dei tg che la cattedrale avrebbe retto, l’impatto del rogo di Notre-Dame sarebbe stato minore. C’è una cosa che resta autentica e certa: lo sgomento di fronte a qualcosa che ci trascende tutti, e quindi ci riguarda. Bastava sbirciare nei social dei nostri figli e nipoti: anche ragazzini che forse non sono mai entrati in una chiesa in vita loro mettevano in comune il senso di impotenza, il dolore sincero per una perdita che li feriva in quanto parte dell’umanità. Poi certo c’è sempre l’imbecille che gioisce, ed è giusto darne conto, ma è l’eccezione che conferma la regola. Resta da capire come sia possibile che, nel più laico degli Stati, nella più

secolarizzata delle ere, una Cattedrale diventi – in una nazione che non è considerata la più simpatica – un simbolo universale. Alcuni motivi sono evidenti. Dentro magari no, troppa coda, ma da fuori Notre-Dame l’hanno vista un po’ tutti, e un po’ tutti avevano una loro foto con Notre-Dame da postare; e per una volta il narcisismo si faceva emozione condivisa. La potenza dell’immagine del rogo è diventata globale in pochi secondi, grazie anche all’immancabile tweet di Trump (per il quale molti americani si sono scusati sui social con i francesi). Notre-Dame non è solo una chiesa, è un romanzo – che Hugo scrisse quando aveva appena 29 anni –, è un film della Disney, è un musical di enorme successo. Notre-Dame ha ispirato quasi tutti i poeti della letteratura francese, da Paul Claudel, che diciottenne si convertì a Notre-Dame la notte del Natale 1886, a Gérard de Nerval: una sua citazione – «tra migliaia di anni sognatori verranno a contemplare questa rovina austera, rileggendo il libro di Victor» – girava l’altra notte sui social degli studenti. Ma tutto questo non sarebbe stato possibile se la storia francese non avesse fatto di Notre-Dame un simbolo destinato ad andare oltre la religione. La Cattedrale è sempre stata la chiesa dei parigini, non della monarchia. I re si facevano incoronare a Reims e seppellire a Saint-Denis. Il primate di Francia risiedeva a Sens. Napoleone lo sapeva e volle farsi incoronare qui proprio per dare l’idea che lui fosse un autocrate «nuovo», rivoluzionario. Non è finita bene, ma la storia si è mossa nel suo solco. La Terza Repubblica (1871-1940) fu governata da laici e massoni; però si celebrarono a Notre-Dame i funerali dei marescialli della Grande Guerra, Foch e Joffre, e più tardi quelli dei ge-

L’incendio divampato nel cantiere sul tetto ha devastato l’intera navata centrale della chiesa e fatto crollare la guglia. (AFP)

nerali della Seconda guerra mondiale, Leclerc, de Lattre de Tassigny e Juin. Pétain fu invece frettolosamente sepolto a Port Joinville, dov’era stato trasferito in una casa privata per gli ultimi giorni: condannato a morte per collaborazionismo dopo la Liberazione, fu graziato da de Gaulle, che ne era stato il pupillo, e chiuso in una fortezza sull’isola di Yeu, nell’Atlantico. Nel febbraio 1951, per i 35 anni della battaglia di Verdun, de Gaulle – in quel momento privo di qualsiasi autorità che non fosse morale – chiese e ottenne dal presidente Auriol che fosse trasferito da quella tetra prigione. Sul certificato di morte venne scritto «Philippe Pétain, senza professione». De Gaulle fece in modo che venisse corretto in «Philippe Pétain, maresciallo di Francia». Con l’arcivescovo di Parigi, Emmanuel Suhard, il Generale non era sta-

to altrettanto misericordioso. Quando le truppe della France Libre entrarono nella capitale, de Gaulle fece celebrare un Te Deum a Notre-Dame, ma impose che la cerimonia non fosse tenuta dal cardinale. Motivo: un mese prima aveva celebrato proprio nella cattedrale le esequie del ministro della Propaganda di Vichy, Philippe Henriot, ucciso da un gruppo di resistenti. L’ingresso di de Gaulle nella chiesa dei francesi fu accolto dal cantico del Magnificat, il 26 agosto 1944, intonato sul sagrato da 40 mila parigini, che all’evidenza lo sapevano. Quando poi nel 1970 il Generale morì, il suo funerale fu celebrato ovviamente a Notre-Dame, sia pure senza bara. Decine di telecamere vennero installate dentro e fuori la cattedrale. L’evento fu trasmesso in mondovisione e seguito da 300 milioni di telespettato-

ri, mentre i funerali veri si tenevano per volontà del defunto nel suo villaggio dell’Alta Marna, Colombey-les-deuxEglises. Qualcosa del genere accadde anche per Mitterrand: a Notre-Dame c’era il suo successore, Jacques Chirac, accanto all’arcivescovo di Parigi Lustiger, ebreo convertito al cattolicesimo, a celebrare una sorta di alleanza tra il trono e l’altare; c’erano capi di Stato e di governo di tutto il mondo, compresi Castro e Arafat (che uno Stato non l’aveva); ma non c’era il feretro. Mitterrand nel frattempo veniva sepolto a Jarnac, alla presenza delle sue due famiglie, quella ufficiale e quella clandestina; e la moglie Danielle abbracciò la figlia naturale Mazarine. È una grande storia, quella della Francia e della sua Cattedrale; non poteva finire così, in un mucchio di cenere.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 aprile 2019 • N. 17

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Politica e Economia È il monumento parigino più visitato e contemplato soprattutto dalle sponde della rive gauche. (AFP)

Spagna, tentazioni populiste Elezioni politiche Favoriti nei sondaggi i

socialisti del premier Sánchez, ma il vero protagonista della campagna elettorale è stato il nuovo partito ultranazionalista Vox. La sua irruzione ha spostato l’intero asse politico verso destra Gabriele Lurati

Notre-Dame Patrimonio dell’umanità dalla storia travagliata

Alfredo Venturi Chissà se qualcuno, fra le migliaia di parigini e turisti che assistevano attoniti al rogo della maestosa cattedrale gotica, avrà immaginato fra le torri avvolte dal fuoco la sagoma deforme di Quasimodo, il leggendario campanaro che anima Notre-Dame de Paris, il popolarissimo romanzo di Victor Hugo. In quell’inferno di fiamme e di fumo, poteva immaginarlo mentre assiste all’esecuzione di Esmeralda, la bellissima ballerina gitana che ama senza speranza, lui mostruosamente gobbo, zoppo e sordo, e che ha tentato invano di salvare offrendole asilo nella chiesa. O mentre scaraventa nel vuoto Claude Frollo, il perverso arcidiacono che ha voluto la morte di lei non potendone avere l’amore. Mentre l’incendio scoperchiava la cattedrale divorandone il tetto e facendone crollare la grande guglia, altre reminiscenze letterarie possono avere attraversato la memoria di quel pubblico esterrefatto, per esempio alcuni romanzi della Comédie humaine di Honoré de Balzac ambientati in quella parte di Parigi, sotto la grande mole.

Più volte restaurata nel corso dei secoli, NotreDame fu pesantemente danneggiata durante la Rivoluzione Altri avranno pensato che Notre-Dame ne ha passati tanti, di guai, nel corso dei suoi otto secoli e mezzo di vita. Lo avranno pensato anche a rogo ormai domato, quando il presidente Emmanuel Macron ha palato di ricostruzione, del dovere nazionale di restituire a Parigi il suo simbolo e il suo monumento di maggiore richiamo. Anche Hugo, nel dare alle stampe la tragica storia di Esmeralda e Quasimodo, pensava alla necessità della ricostruzione. Correva l’anno 1831 e la cattedrale portava ancora i segni delle devastazioni subite durante la grande rivoluzione. Considerandoli simboli dell’odiata monarchia, i sans-culottes distrussero le statue della facciata, che in realtà rappresentavano i tre di Giudea, niente a che vedere con la dinastia francese, e abbatterono la guglia. Addirittura Henri de Saint-Simon progettava di acquistare la struttura per raderla al suolo. Anche senza arrivare a tanto, era davvero male in arnese l’edificio che da chiesa cattolica

fu tramutato in tempio della Ragione, tanto è vero che qualche anno più tardi, quando nella cattedrale nuovamente consacrata Napoleone sarà incoronato imperatore, non essendo sufficiente il restauro frettolosamente realizzato per restituirlo al culto sarà stato necessario mascherarne la facciata con una costruzione provvisoria. Proprio lo stato di degrado della cattedrale, ulteriormente aggravato dalle insurrezioni dei primissimi anni Trenta contro la monarchia ristabilita dalla Restaurazione, indusse Hugo a cercare l’ispirazione per il suo romanzo. Voleva che i parigini e i francesi si rendessero conto che quel monumento così carico di significato andava restituito all’antico splendore. Lo scrittore centrò perfettamente il suo obiettivo e con il favore dell’opinione pubblica, stimolato da altri intellettuali come De Vigny, Ingres e Merimée, il governo affidò i lavori di restauro a un gruppo di architetti guidato da Jean-Baptiste Lassus e successivamente da Eugène Viollet-le-Duc. Fu proprio Viollet-le-Duc, fautore del ritorno alle forme del gotico, a progettare e costruire la grande guglia che proiettava verso il cielo per altri quarantacinque metri la verticalità gotica dell’edificio. Quella stessa guglia che quel lunedì di fuoco gli spettatori increduli del disastro hanno visto piegarsi e crollare sulle strutture fiammeggianti del tetto. Il restauro ottocentesco riguardò anche l’interno dell’edificio, a cominciare da quelle pareti così malandate negli anni di Napoleone che con un abile stratagemma si provvide a ricoprirle con le bandiere strappate ai molti nemici della Francia in quei tempi di guerre quasi ininterrotte. Quelle bandiere si trovano ora nella chiesa di Saint-Louis-des-Invalides, dove è anche la tomba del primo imperatore francese. In pieno Ottocento, con sette secoli alle spalle, Notre-Dame era dunque risorta a nuova vita, in un intreccio di gotico e neogotico che ne ha salvato l’essenza figurativa. Ora, dopo il disastroso incendio del 15 aprile, bisogna ricominciare. Secondo Macron e i tecnici che hanno valutato il da farsi con un pizzico, forse, di comprensibile ottimismo, basteranno cinque anni per completare i lavori di restauro. Un’inezia rispetto alla storia secolare dell’edificio. Si era deciso di costruirlo nel 1160 e fu consacrato ventidue anni più tardi. Sorge su una vasta area nella parte orientale dell’Ile de la Cité, la maggiore delle due isole nella Senna al centro di Parigi, che quando in epoca romana il

luogo si chiamava ancora Lutetia, la città della palude, era occupata da un tempio dedicato a Giove. Per guadagnare spazio al nuovo edificio si distrussero alcuni precedenti edifici religiosi. Gli architetti incaricati della costruzione scelsero lo stesso stile gotico che proprio in Francia era nato e già si era imposto con la realizzazione di un capolavoro, la vicina basilica di SaintDenis. Il nuovo stile rifletteva perfettamente lo spirito dei tempi nuovi seguiti ai secoli bui dell’alto Medioevo e al catastrofismo millenarista. Al posto delle spesse mura romaniche, che parevano ideate per proteggere i fedeli dalla paura di un mondo ostile, di un tempo destinato alla fine, ecco gli archi a sesto acuto che permettono di trasferire il peso dell’edificio dalle pareti ai pilastri, aprendo fra di essi larghi spazi. Da quegli spazi la luce irrompe finalmente nell’interno della chiesa, una luce resa policroma dalle grandi vetrate multicolori, mentre lo slancio verso l’alto degli archi e delle guglie testimonia una nuova spiritualità che si sente libera di lanciarsi in direzione del cielo. Notre-Dame rispecchia fedelmente questo modello, con i suoi archi rampanti e le due massicce torri campanarie alte una settantina di metri che sovrastano la facciata e ne fanno parte. Sono rivolte a occidente, e questo fa sì che certi tipici tramonti parigini ne facciano un miracolo di luce e di colore che sembra anticipare di alcuni secoli un’altra forma d’arte nata da quelle parti, la pittura impressionista. La cattedrale condivide con una costruzione di natura completamente diversa concepita in tempi diversissimi, la Tour Eiffel, la funzione di simbolo della capitale francese. È di fatto il monumento parigino più visitato, il più contemplato soprattutto dall’esterno, per esempio dalle sponde della rive gauche dove i bouquinistes allineano le loro mostre di libri usati, e dove è possibile ammirare la perfetta geometria dell’abside con i suoi archi rampanti. Oggi quella esperienza è turbata dalle vistose conseguenze dell’incendio, che al tempo stesso sono da un certo punto di vista rassicuranti e tracciano un vincolo ideale fra la realizzazione di tanto tempo fa e le necessità dell’oggi. Infatti il fuoco ha inflitto danni gravissimi, ma marginali: si è temuto per lunghe interminabili ore il collasso della struttura indebolita dalle fiamme ma questo non è avvenuto. La qualità dell’impianto lo ha salvato offrendo una solidissima base al lavoro che attende i restauratori. Insomma i costruttori del Medioevo ci sapevano fare.

AFP

Lunga vita alla Signora

Pluralismo federalista o ritorno al vecchio centralismo autoritario. Domenica prossima trentasette milioni di elettori sono chiamati alle urne per rinnovare il Parlamento in una votazione che definirà anche il tipo di Paese che gli spagnoli vogliono per il loro futuro. I leader dei cinque maggiori partiti sono stati protagonisti di una feroce campagna elettorale che culminerà proprio lunedì sera, considerato fondamentale nel rush finale della contesa, dato che vi è ancora un 40% di indecisi. Qualunque sia il risultato delle urne, sarà comunque necessaria la formazione di un governo di coalizione, visto che nessun partito raggiungerà la maggioranza assoluta. La cosa è inedita per la Spagna, abituata a 40 anni di governi monocolore in alternanza tra socialisti e popolari, e avvezza ad avere un chiaro vincitore. Questa volta non sarà così ed è anche possibile che ci voglia un lungo tempo di negoziati tra i partiti prima di formare il nuovo esecutivo. Gli schieramenti partitici sono netti e contrapposti dal punto di vista ideologico. Da un lato vi è la cosiddetta «Destra tripartita» (composta da Partito popolare, Ciudadanos e dall’emergente partito populista Vox) che sta governando dal dicembre scorso in Andalusia e che punta sui valori del patriottismo, del centralismo amministrativo e dell’intransigenza contro gli indipendentisti catalani. Dall’altro vi è il fronte progressista (composto dai socialisti e dalla sinistra massimalista di Podemos) che è leggermente più aperto e disponibile al dialogo nei confronti della Catalogna e che ha una visione plurinazionale dello Stato. Il Psoe del premier Sánchez è indicato come favorito nei sondaggi (stimato attorno al 29%). Questo fatto ha condizionato la campagna elettorale del primo ministro, che ha cercato soprattutto di mantenere il vantaggio attribuitogli dagli istituti demoscopici. Sánchez ha cercato di focalizzare l’attenzione sull’agenda sociale approvata dal suo governo come ad esempio l’aumento del salario minimo, la rivalutazione delle pensioni e i quattro mesi per il congedo di paternità. Il partito socialista dovrebbe beneficiare inoltre di una legge elettorale sui generis (risalente al lontano 1977) che premia nella ripartizione dei seggi il partito che arriva primo nelle province più piccole del Paese. Questo meccanismo in passato favoriva i popolari ma, dato che adesso la destra si presenta divisa in tre partiti, l’apparizione di Vox sullo scenario politico toglie voti al Pp e il partito ultranazionalista potrebbe paradossalmente fare un grande favore a Sánchez.

La crescita del Psoe nelle intenzioni di voto (nel 2016 aveva toccato il suo minimo storico al 22%) è dovuta anche alla crisi che sta vivendo la sinistra radicale di Podemos e che starebbe producendo uno spostamento di voti verso i socialisti. Il partito di Pablo Iglesias è in caduta libera nei sondaggi (11%) a seguito della faida interna alla direzione del suo partito, diviso tra correnti e guerre fratricide. Inoltre Iglesias ha perso credibilità nel suo elettorato a seguito di scelte che hanno a che fare con la sua sfera privata, come quella di aver acquistato una villa con piscina fuori Madrid. Agli occhi di buona parte dei suoi votanti, il leader di Podemos è diventato «casta», proprio quella categoria di politici che il movimento nato come anti-sistema si prefiggeva di combattere. Dall’altro lato dello spettro politico vi sono le cosiddette «Tre destre». I conservatori del Pp, i liberali di Ciudadanos e i neofranchisti di Vox sono coloro che, con manifestazioni di piazza contro Sánchez, hanno preparato il terreno alla caduta del governo socialista. Il Partito popolare, guidato dall’estate scorsa dal 38enne Pablo Casado, sembra essere il partito più in difficoltà nel nuovo composito scenario politico (è stimato attorno al 20%, non sarebbe più il primo partito del Paese e perderebbe addirittura circa 50 seggi). Pressato dall’incalzante Vox, Casado ha cercato di spostare sempre più a destra la sua proposta politica, facendo dell’aggressività contro Sánchez e del recupero delle tradizioni culturali spagnole più ataviche il centro della sua campagna (si pensi ad esempio che ha candidato vari toreri nelle sue liste). Vistosi in ambasce, ha richiamato nell’agone politico persino l’ex premier José María Aznar, di cui Casado è considerato il delfino. Aznar è stato mandato a fare campagna soprattutto nella cosiddetta «Spagna vuota», un territorio rurale che si è spopolato nel corso dei decenni, ma che risulterà decisivo ai fini della battaglia elettorale. In queste circoscrizioni provinciali, una volta riserva di voti del PP, si vincerà per poche schede e il principale rivale dei conservatori sarà proprio il partito di estrema destra Vox. Il partito populista e anti-immigrati di Santiago Abascal (foto) è la vera novità nonché la mina vagante di queste elezioni. Facendo leva sui valori del patriottismo spagnolo, dell’anti-catalanismo e dichiaratamente anti-femminista, Vox (dato al 12%) starebbe ottenendo molto successo proprio in quella parte di Spagna che si sente esclusa e abbandonata. Infine vi è Ciudadanos (stimato al 14%), un partito liberale che si è spostato dal centro sempre più verso destra e favorevole anch’esso alla mano dura contro i secessionisti catalani. Il tema catalano è stato ancora una volta quello che ha suscitato le maggiori passioni e divisioni tra la gente. Il voto dei partiti secessionisti e dei nazionalisti baschi in Parlamento (assieme apportano una trentina di seggi sui 350 totali delle Cortes) è già stato decisivo per sancire la fine degli ultimi governi, sia quello di Rajoy che di Sánchez. Potrebbero essere determinanti anche questa volta per una possibile riedizione di un governo socialista. Nel caso in cui vincessero invece le «Tre destre», la Catalogna sarebbe commissariata immediatamente e dovrebbe dire addio per sempre a qualsiasi tipo di aspirazione autonomista.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 aprile 2019 • N. 17

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Politica e Economia

India: Gandhi o ancora Modi?

Elezioni generali Sono chiamate al voto quasi 900 milioni di persone, si tratta della consultazione più imponente

Francesca Marino «Il vostro voto è un’arma, il vostro risveglio è un’arma. La vostra consapevolezza è un’arma. Quindi usatela con saggezza, perché siete chiamati a scegliere il vostro futuro». Parola di Pryianka Gandhi Vadra, il famoso «fattore P» che, nelle intenzioni del partito del Congress dovrebbe portare alla vittoria Rahul Gandhi, fratello di Pryianka e candidato premier per l’opposizione. Le elezioni in India sono appena cominciate, difatti, e il clima elettorale è già rovente. Anzitutto per i numeri, da far tremare i polsi a chiunque. Si reca a votare, difatti, praticamente il dieci per cento della popolazione mondiale: novecento milioni di aventi diritto al voto, tra cui ottantatrè milioni di nuovi elettori e quindici milioni di diciottenni. Per ovvi motivi, le tornate elettorali saranno sette, distribuite su trentanove giorni, dall’11 aprile al 19 maggio. I risultati saranno resi noti il 23 maggio, quattro giorni dopo la chiusura dell’ultimo seggio. I seggi sono circa un milione, studiati in modo da non far percorrere a ogni singolo elettore più di due chilometri e per evitare code troppo lunghe nella calura del mese di maggio. Le prime dita sporche del segno di inchiostro indelebile che conferma il passaggio di ogni individuo al seggio elettorale sono orgogliosamente comparse sui social media, assieme alle prime polemiche: pare difatti che a cancellare l’inchiostro indelebile basti un po’ di solvente per togliere lo smalto dalle unghie. Il clima, come dicevamo, è già rovente. Queste elezioni difatti, più che una normale tornata elettorale per decidere il prossimo governo del Paese, si presentano come un gigantesco test sul governo ma soprattutto sulla persona di Narendra Modi, il premier uscente. Modi, che ha vinto le elezioni del 2014 con un diluvio di voti, definito la «va-

langa arancione», è dato per vincente ancora una volta: di stretta misura, però: il che significa che sarà costretto questa volta a formare un governo di coalizione. Per vincere, il premier e il suo partito hanno messo in moto una vera e propria macchina da guerra elettorale via social media e media tradizionali. Con il lancio di un canale satellitare chiamato NaMo TV, che secondo gli avversari viola le regole del codice etico elettorale, con il lancio di un serial Tv sulla vita del primo ministro, poi cancellato dalla programmazione ma, soprattutto, con il lancio di uno slogan elettorale su cui poi è stata costruita anche una canzone: Mai bhi chowkidar, io sono il guardiano. Il guardiano della cultura e dei confini del Paese, che invita tutti i cittadini indiani a considerarsi, appunto, guardiani. Dopo poche ore, e dopo che lo stesso Modi aveva aggiunto al suo profilo Twitter la parola «chowkidar», migliaia di profili erano stati trasformati in «guardiani». La risposta di Rahul Gandhi, «chowkidar chor hai» (il guardiano è un ladro), non ha avuto la stessa risonanza e ha anche offeso a morte quelli che il chowkidar lo fanno di mestiere. Rahul Gandhi, purtroppo, non riesce ancora a parlare alla pancia del Paese e, soprattutto, non possiede lo stesso carisma del suo avversario. Al mito dell’uomo comune, il figlio di un chaiwallah (venditore di tè) che diventa primo ministro, Rahul può rispondere soltanto con l’essere pronipote, figlio e nipote di membri illustri della politica indiana: Nehru, Rajiv Gandhi e Indira Gandhi. A dargli una mano è finalmente scesa ufficialmente in campo sua sorella Priyanka, che non è candidata ma a cui è stato finalmente dato un ruolo di primo piano nel partito. Priyanka è bella, giovane, colta e intelligente. Possiede lo stesso carisma di nonna Indira, a cui somiglia anche fisicamente, nel modo di camminare e di gesticolare.

Somiglianza accentuata dallo stesso taglio di capelli, e, commentano i maligni, dal fatto di aver scelto un marito ricco. Marito che, a dire la verità, costituisce il suo più grosso handicap: Robert Vadra, uomo d’affari piuttosto chiacchierato, è difatti praticamente impresentabile. Per comizi e tour elettorali Priyanka ha recuperato e modificato alcuni dei sari della collezione, famosa, sterminata e di incredibile valore, di nonna Indira: e dovunque vada viene accolta da folle in delirio. E non è escluso che «la nuora dell’India» venga candidata all’ultimo momento a Varanasi proprio contro Narendra Modi. Possibile, dicono gli osservatori, ma non probabile: perché si mormora già di dissidi di famiglia visto che la popolarità di Priyanka rischia di affossare per sempre Rahul. Che dice in realtà cose molto sensate senza però riuscire a toccare il cuore e l’immaginazione della gente. E le elezioni in India si vincono non nelle grandi città e tra l’élite a cui si rivolge Rahul ma in villaggi e città di provincia. Agli elettori di Modi, difatti, sembra importare molto poco che, alla fine dei conti, il governo uscente non abbia mantenuto gran parte delle sue promesse: milioni di giovani sono disoccupati, e anche con poche possibilità di trovare lavoro in un mondo che richiede sempre più competenze tecniche specifiche e specializzazioni. I contadini, e sono milioni, sono furibondi perché i prezzi dei raccolti continuano a scendere. La demonetizzazione del 2016, quando da un giorno all’altro sono sparite dalla circolazione alcune banconote di grosso e medio taglio, è stata un disastro di proporzioni epiche e, lungi dal far emergere il denaro nero degli speculatori, ha inciso soltanto sulle finanze delle centinaia di migliaia di lavoratori che non hanno un conto in banca e tengono i risparmi sotto il materasso e dei piccoli commercianti. Non solo: Modi è accusato da più

AFP

della democrazia mondiale. Il premier spera di ripetere il successo del 2014 ma le probabilità sono basse

parti di aver ridotto l’India a uno Stato fascista e intollerante in cui si è data mano libera agli integralisti hindu. A danno dei musulmani, dei cristiani e di chiunque non la pensi come il governo. Però, agli occhi della gente comune, conta molto di più la percezione, il fatto che NaMo ha ridato all’India un orgoglio nazionale e gli ha regalato uno smalto internazionale. Così come contano i due attacchi compiuti, negli anni del suo governo, ai danni del Pakistan: il surgical strike dopo l’attentato di Uri nel 2016, e il recente bombardamento del campo

di addestramento della Jaish-i-Mohammed a Balakot. In queste elezioni inoltre il cosiddetto «terzo polo», che nel 2014 era rappresentato da Arvind Kejriwal e dal suo «partito dell’uomo comune», esiste soltanto sulla carta e non ha un candidato di spessore. Kejriwal si era alleato al Congress, ma ha di recente rotto l’alleanza per uno scontro via Twitter con Rahul Gandhi. Un mese è lungo, e le variabili sono tante. A decidere su Modi e sulla sua popolarità sarà probabilmente, alla fine, l’ennesima «battaglia di Varanasi» il 19 maggio. Non resta che aspettare.

Difesa o censura? Russia La Duma approva la legge sul controllo statale della Rete, che implicherebbe un funzionamento del web

in condizioni di isolamento dal resto del mondo (e soprattutto dagli Stati Uniti) in caso di necessità

La Russia si prepara a staccarsi dalla Rete globale e isolarsi dentro un «Internet sovrano», grazie a un progetto legge approvato dalla Duma in terza lettura l’11 aprile. Dal novembre del 2019, quando i requisiti della legge diventeranno obbligatori, la Russia rischia di salire nella classifica dei Paesi con le maggiori restrizioni alla Rete stilata da Freedom House: attualmente occupa il 13simo posto, ma le migliaia di persone che sono scese in piazza nei giorni scorsi a Mosca per protestare tenevano cartelli «Diventeremo la Corea del Nord» e «Russia come Cina».

Le motivazioni ufficiali addotte dal Cremlino per creare un Web separato dal resto del mondo sono però opposte a quelle di Pechino: secondo Vladimir Putin, si tratta di una misura difensiva per prevenire un eventuale embargo digitale da parte dell’Occidente. «Loro ci sono dentro, è una loro invenzione, ascoltano, vedono e leggono quello che dici», ha detto qualche giorno fa il presidente russo parlando di Internet e specificando che per «loro» intende gli Stati Uniti, con il loro programma di cybersicurezza, approvato l’anno scorso dalla Casa Bianca proprio in reazione alle infiltrazioni di hacker russi. Lo stesso Putin dichiara di ritenere improbabile

Keystone

Anna Zafesova

il distacco forzato della Russia da Internet, «perché causerebbe danni enormi all’Occidente stesso», ma intanto la nuova legge impone la costruzione di un «sistema tecnologico per contrastare la minaccia». Tecnicamente il provvedimento imporrà l’installazione presso i provider di Internet – a spese dello Stato, che ha già stanziato 350 milioni di dollari – di apparecchiature che dovranno monitorare il traffico dati tra la Russia e il resto del mondo, ed eventualmente bloccarlo. La legge però non specifica in quali casi dovranno scattare le misure di «protezione» del Runet, la Rete russa, e lascia al governo il compito di elaborare i regolamenti. Il sospetto che si tratti in realtà di un sistema di censura con il quale mettere sotto controllo l’ultimo spazio di informazione relativamente libera è abbastanza fondato. Anche perché la legge fa parte di un pacchetto di misure – e proposte dagli stessi autori, tra cui il deputato Andrey Lugovoy, ex agente dell’ex Kgb ricercato dal Regno Unito come principale indiziato dell’omicidio con il polonio del dissidente Alexandr Litvinenko – finalizzate a limitare la libertà di espressione. Sono già entrati in vigore i provvedimenti che puniscono la «diffusione delle fake news» e gli «insulti ai funzionari statali». Piattaforme come Linkedin e messenger come Tele-

gram sono stati proibiti, e la stessa sorte potrebbe toccare entro la fine dell’anno a Twitter e Facebook, in base alla legge russa che proibisce il trattamento dei dati degli utenti nazionali su server esteri. In base alla «legge anti-estremismo» molti utenti che hanno postato – o diffuso post altrui – informazioni su manifestazioni di protesta sono finiti incriminati e incarcerati. Il Roskomnadzor ha oscurato circa 80 mila pagine Web con i pretesti più svariati. La maggioranza dei russi continua a informarsi principalmente dalle tv nazionali, sotto controllo totale del governo, ma in Rete il sostegno a Putin crolla drasticamente, e i social e le piattaforme come YouTube sono il regno di Alexey Navalny, il leader dell’opposizione i cui siti sono stati oggetto di diversi provvedimenti di oscuramento, ma finora per gli utenti non ha rappresentato un problema aggirarli. L’applicazione della nuova legge sull’Internet nazionale potrebbe teoricamente rendere più difficile sfuggire alla censura. Andrey Soldatov, autore del libro The Red Web: The Struggle Between Russia’s Digital Dictators and the New Online Revolutionaries, ha dichiarato al «Moscow Times» che si vuole creare «l’interruttore» per isolare gli utenti russi dal resto del mondo, come durante le recenti proteste in Inguscezia, dove la rete

dati mobile è stata spenta. Senza la possibilità di comunicare i luoghi e le parole d’ordine delle manifestazioni, documentare gli abusi della polizia e mettersi in contatto con il mondo esterno, i media e le Ong occidentali, molte proteste sono condannate a morire in silenzio. Ma paradossalmente, proprio questo giro di vite potrebbe portare in piazza molti di quelli che finora sfogavano il loro scontento nel mondo virtuale. Rimane anche il problema della realizzazione tecnica. Stanislav Shakirov, direttore tecnico della Ong Roskomsvoboda che si batte per la libertà della Rete, ha detto al sito Meduza che «i regolamentatori di Internet russi spesso producono disposizioni da analfabeti impossibili da applicare». Karen Kazaryan, analista della Russian Association of Electronic Communications, è convinto che la Russia non abbia né i mezzi, né gli specialisti per costruire l’equivalente del Great Firewall cinese, e pare che i test di collaudo per simulare il distacco del Runet dal Web globale abbiano dimostrato che entro 30 minuti i collegamenti vengono comunque ripristinati, anche se il traffico si rallenta. Secondo altri esperti, un «Internet sovrano» è semplicemente non fattibile, e il provvedimento servirà soltanto ad arricchire le lobby dei produttori e fornitori di apparecchiature di controllo.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 aprile 2019 • N. 17

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Politica e Economia

Assange, scudo per Trump

Russiagate WikiLeaks si rivela cruciale per proteggere il presidente Usa dall’accusa di collusione con Putin ai danni

di Hillary in quanto anello di collegamento che passò le email rubate ai media americani e ai repubblicani

Julian Assange è stato arrestato non per il Russiagate ma per la sua presunta collaborazione con l’allora soldato Bradley Manning. (AFP)

Federico Rampini Per parlare della caduta ingloriosa di Julian Assange, consegnato dall’Ambasciata dell’Ecuador alla giustizia britannica perché esamini le richieste di estradizione venute da Svezia e Stati Uniti, occorre partire da una notizia più recente: la consegna del Rapporto Mueller, la versione finale dell’indagine sul Russiagate. Il nesso è evidente da sempre – poiché l’ipotesi di collusione Trump-Putin ruotava attorno al ruolo di WikiLeaks – ma lo è ancora di più dopo la lettura «semi-integrale» di quelle conclusioni. In un certo senso si potrebbe dire che Assange ha aiutato Trump due volte: prima ha contribuito alla sconfitta di Hillary Clinton nel 2016, poi ha creato l’alibi perfetto contro il reato. Comincio dunque dalla consegna delle carte sul Russiagate, avvenuta il 18 aprile dal segretario alla Giustizia William Barr al Congresso di Washington. Più che un’assoluzione in quel documento di 400 pagine c’è una non colpevolezza per mancanza di prove. Il Congresso è libero di riaprire le indagini su Donald Trump e il Russiagate, per verificare «l’ostruzione della giustizia», reato da impeachment. È questa la principale conclusione del Rapporto Mueller, finalmente consegnato al Parlamento americano, sia pure in una versione censurata da molti omissis. Le formule usate dal superinquirente (Special Counsel) Robert Mueller sono meno innocentiste della sintesi che ne aveva fatto il 23 marzo il ministro di Giustizia, William Barr. La palla è nel campo dei democratici, che in passato si erano divisi sull’opportunità di perseguire l’interdizione del presidente. Niente collusione con Putin: nei 22 mesi della sua indagine, l’autorevole e indipendente Mueller (un magistrato nonché un ex capo dell’Fbi) ha raccolto le prove di numerosi contatti tra lo staff di campagna elettorale di Trump e il governo russo nel 2016. Il fatto che ci fosse una convergenza di sforzi, per far vincere il candidato repubblicano contro Hillary Clinton, non basta però

a configurare il reato di collusione con una potenza straniera, che sarebbe da impeachment. È mancato un «coordinamento», un do ut des, fatto di accordi specifici con i russi per violare la legge. È qui che il ruolo di Assange risulta decisivo. WikiLeaks si rivela cruciale come scudo legale per proteggere Trump dall’accusa di collusione. Il reato di violazione della banca dati informatica del partito democratico fu commesso dagli hacker russi. WikiLeaks fu l’anello di collegamento che in seguito passò le email rubate ai media americani e ai repubblicani. Dunque Assange è l’intermediario non incriminabile grazie al quale manca il contatto diretto fra la campagna Trump e gli hacker russi colpevoli di reato.

Assange ha aiutato Trump due volte: prima ha contribuito alla sconfitta di Hillary Clinton nel 2016, poi ha creato lo scudo perfetto contro il reato La conclusione di Mueller è sibillina, o pilatesca, su un altro tema. «Se avessimo fiducia che il presidente non commise ostruzione alla giustizia, lo diremmo. Non siamo in grado di arrivare a questa conclusione». Questa formulazione suona più come una dichiarazione di «non innocenza», che di non colpevolezza. In altri passaggi del Rapporto, vengono enumerati i numerosi atti con cui Trump può avere sabotato le indagini. Il più grave rimane il licenziamento dell’ex capo dell’Fbi James Comey. Poi ci furono le pressioni sul Dipartimento di Giustizia perché licenziasse lo stesso Mueller. La cui nomina Trump aveva commentato esclamando: «È la fine della mia presidenza, sono fottuto». Resta però nel Rapporto il dubbio che Trump sia rimasto dentro le prerogative costituzionali del potere presidenziale. La prima cosa che la Ca-

mera a maggioranza democratica farà, è convocare Mueller per sentire la sua versione dei fatti e del Rapporto finale. Questo consentirà di aggirare almeno in parte i tanti «omissis», di avere un’idea dei contenuti secretati dal ministro di Giustizia. La Camera, che ha la prerogativa-dovere costituzionale di vigilare sull’esecutivo, ha già aperto altre indagini parallele, per esempio sulle tasse di Trump. Ma i reati fiscali non sono da impeachment. Resta dunque da decidere se andare a fondo sul tema dell’ostruzione alla giustizia, quello che Mueller stesso definisce come «uso corrotto del potere esecutivo». Qui subentrano calcoli elettorali. La sinistra radicale – con l’eccezione di Bernie Sanders – ha sempre invocato l’impeachment. I moderati pensano che trasformare la Camera in un tribunale permanente sia un errore strategico, che darebbe a Trump il ruolo della vittima e scontenterebbe quegli elettori già stufi del Russiagate. Resta sempre l’obiezione sui numeri al Senato: senza i due terzi della Camera alta (a maggioranza repubblicana) l’impeachment non andrebbe in porto. Trump ha celebrato: «Mi sto godendo una bella giornata. Niente collusione, niente ostruzione. Questa indagine-truffa non dovrebbe mai più accadere ai danni di un presidente. A chi mi odia e ai democratici della sinistra radicale: il gioco è finito». È convinto che il Russiagate lo aiuterà in campagna elettorale. Nei comizi tornerà a parlare di «caccia alle streghe», attaccando i «media disonesti». I sondaggi negli ultimi due anni hanno confermato che il Russiagate non ha mai fatto veramente breccia nella base repubblicana, l’unica che a lui interessa riportare compatta alle urne. Resta il fatto che di tutte le accuse la collusione con una potenza straniera sarebbe stata la più grave, ma WikiLeaks l’ha resa impraticabile. Da eroe della libertà d’informazione a «sicario digitale» di Putin: tra questi due estremi si colloca la parabola americana di Julian Assange. Lo stesso itinerario lo ha portato

in pochi anni ad essere difeso dalla sinistra, poi esaltato da Donald Trump e dalla televisione di destra Fox News. L’exploit finale che gli è stato attribuito – la massiccia campagna anti-Hillary – potrebbe avere portato Trump alla Casa Bianca. Il suo procedimento di estradizione è stato originato da un capo d’accusa della magistratura americana, datato 6 marzo 2018. Il reato per il quale Assange è stato incriminato negli Stati Uniti 13 mesi fa si definisce «Cospirazione per violare i contenuti di un computer». Attenzione: non si riferisce al Russiagate ma ad un evento precedente, il furto di dati da parte della soldatessa Chelsea Manning, aiutata da Assange, nei sistemi informatici del Pentagono. Si tratta di un crimine di natura penale e può valere una condanna fino a cinque anni di carcere. È un’imputazione molto più lieve rispetto a quella di spionaggio, reato che gli era stato contestato in precedenza, ma che poi è caduto nella conclusione dell’istruttoria. Assange al momento non è incriminato per la violazione dei sistemi informatici del partito democratico Usa durante la campagna presidenziale del 2016, quindi la diffusione pubblica di migliaia di email riferite a Hillary Clinton con l’intento di danneggiarne l’immagine. All’origine di quel saccheggio di comunicazioni private ci furono degli hacker russi, che l’intelligence e la magistratura Usa hanno ricondotto al governo di Mosca. Assange ha sempre negato di averle ricevute da loro. Durante la campagna del 2016, quando cominciò a circolare la voce che sarebbero uscite quelle email, Trump elogiò sia i russi sia WikiLeaks, incoraggiandoli a rendere pubblico quel materiale. Da quel momento il ribaltamento di giudizi su Assange fu spettacolare. Per la sinistra americana è divenuto un nemico; per Trump è stato un benefattore. Il clima attorno a lui è molto diverso rispetto al 2010, anno che segnò l’apice della sua popolarità mondiale. Uscirono allora ondate di materiali top secret, a cominciare dalla documentazione su stragi di civili com-

messe dai militari americani in Iraq, e altri abusi. Via via che le rivelazioni si susseguivano, alcune contribuirono anche a innescare le primavere arabe. Risale a quel periodo il ruolo-chiave di Chelsea Manning, la militare che ebbe accesso a numerosi siti governativi Usa (condannata a 35 anni di carcere, perdonata dopo sette anni da Barack Obama). Più tardi ci fu anche un’alleanza tra Assange ed Edward Snowden. Di quest’ultimo non passò inosservata la fuga attraverso Hong Kong – sotto l’ala protettiva del regime cinese – con rifugio finale a Mosca. Lo stesso Assange, intervistato sui suoi rapporti con Putin, disse che non aveva alcuna ragione per rifiutare informazioni fornite dai russi. Prima ancora di arrivare al colpo finale contro Hillary, nella sinistra americana e sui media liberal si erano accumulati i sospetti. Col passare degli anni infatti risultava evidente che le rivelazioni di WikiLeaks andavano a colpire gli Stati Uniti o i loro alleati; mai la Russia né la Cina. Il divorzio finale tra la sinistra e Assange nel 2016 avviene non solo per il risentimento verso colui che può aver contribuito ad affondare la candidata democratica; ma anche dalla constatazione di un’asimmetrìa costante. Mai nulla è uscito da WikiLeaks che potesse danneggiare Trump o il partito repubblicano. Non una sola violazione di sistemi informatici da parte di Assange, ha colpito le email di questo presidente, dei suoi familiari, della sua azienda. Di recente Trump ha preso le distanze: «Non so nulla su WikiLeaks. Non è il mio genere di cose». Il suo linguaggio in campagna elettorale era diverso. Sia la sinistra politica, sia i media progressisti, non hanno mai veramente riflettuto sull’abbaglio preso nei confronti di WikiLeaks. È parte di quel feticismo tecnologico, venerazione acritica del presunto Progresso, che ha seminato tanti altri danni. Per esempio le illusioni sulle Primavere arabe, sul ruolo dei social media, esaltati senza capire che tutte le innovazioni tecnologiche sono neutre: e i regimi autoritari imparano molto presto a servirsene.




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Politica e Economia

Denaro, fonte di stress

Indagine Gli Svizzeri dispongono di più soldi di altri, ma non appena l’economia rallenta nasce la domanda

sul cosa farne, specie in momenti di scarsi rendimenti. Lo sostiene uno studio condotto a livello mondiale Ignazio Bonoli Si stanno moltiplicando anche in Svizzera le indagini di tipo sociologico. Accanto a quella, ormai classica, del Credit Suisse, ne sorgono varie altre, che spesso mettono in evidenza aspetti particolari del comportamento della popolazione. Alcune di esse vengono svolte a livello internazionale e si estendono anche al nostro paese. Tra di esse solleva una certa curiosità quella fatta eseguire dalla società di consulenza in questioni patrimoniali Blackrock. L’indagine ha interessato 27’000 persone a livello mondiale, tra cui anche 1067 persone residenti in Svizzera. L’aspetto più significativo dello studio consiste nella constatazione che in Svizzera il denaro è un fattore di stress principale. Molto di più che per gli abitanti di altri paesi europei. Molti Svizzeri temono di perdere il controllo delle loro finanze non appena l’economia accenna a rallentare – anche se non è ancora il caso nell’attuale congiuntura, che la maggior parte degli intervistati definisce stabile. I due terzi degli Svizzeri indicano la loro situazione finanziaria da buona a molto buona. È il risultato migliore tra quelli registrati in Europa. Perché quindi il denaro dovrebbe essere in Svizzera una fonte di stress? Certamente serpeggia tra la popolazione elvetica un certo grado di insicurezza. Il 60% delle nuove generazioni è comunque convinto di dover investire il proprio denaro, ma non sa esattamente come.

I tre quarti degli intervistati pensano però di non avere denaro sufficiente da poter investire a risparmio. La metà di essi si è perfino dimostrata a disagio nel dover scegliere una risposta adeguata a questa domanda: le possibilità di investire sono molte e diversificate, ma anche molto complicate, tali da richiedere uno sforzo notevole a chi non ha sufficienti conoscenze nel settore. La scelta diventa quindi un fattore di stress. Il tradizionale investimento svizzero in fondi sicuri ( per esempio titoli della Confederazione) non rende più niente e le quotazioni non invitano a rischiare. Di conseguenza, si tratta ormai di titoli riservati al mercato secondario, usato da grandi investitori e da specialisti del settore. Qualche consulente, oltre al mercato azionario, consiglia fondi basati sugli indici. L’operazione si fa però già più complicata. Già il nome (per esempio ETF, cioè Exchange Trade Found) desta qualche sospetto al risparmiatore. Il meccanismo è però semplice: se, per esempio, l’indice di borsa svizzero SMI sale dell’1%, anche l’ETF nello SMI aumenta di regola il suo valore dell’1%. L’inchiesta di cui ci occupiamo constata però che lo Svizzero acquista più volentieri un’azione di un’azienda che conosce, per esempio Nestlé, Novartis, società d’assicurazione e via dicendo. Al momento non quelle di banche che sono alle prese con problemi finanziari. Il rischio di subire una perdita è comunque sempre alto, soprattutto rispetto a chi dispone di un

Il rapporto col denaro varia nel tempo e di paese in paese: una banconota di 20 franchi del 1898. (Keystone)

portafoglio molto ampio, in grado di ripartire i rischi. L’esperto torna a consigliare al piccolo risparmiatore di rivolgersi verso parti di un ETF, per esempio anche con piccole somme mensili. In Svizzera il risparmio individuale è comunque ancora ben radicato. Ma anche il risparmiatore tradizionale si accorge che il suo conto non rende più niente, anzi perde denaro a causa delle spese di gestione e valore a causa dell’aumento dei prezzi, anche se non ancora completamente riflesso nel tasso di inflazione. Non meraviglia

quindi che le giovani generazioni non credano più nelle virtù del risparmio, e siano anche restie nel correre rischi con il proprio denaro. Oltre alla situazione attuale, anche la crisi degli ultimi dieci anni ha lasciato tracce profonde nella mentalità del potenziale risparmiatore. Inevitabilmente però anche le giovani generazioni si confrontano presto con il problema del denaro e quindi del risparmio e del suo investimento. L’inghippo, rilevato anche dall’inchiesta citata, è che non sanno come risol-

verlo. Da qui lo stress nell’affrontare la situazione. Nelle donne la tendenza più diffusa è quella di lasciare l’incombenza agli uomini. Ancora molti affidano il compito alle banche e ai loro consulenti, più che ad amici o conoscenti. Nessuno degli intervistati consulta giornali, riviste o libri specializzati. In generale, la tendenza è quella di seguire i consigli del consulente bancario. Si sa che quest’ultimo lavora anche nell’interesse della banca e propone valori che rendono di più, quindi che procurano anche migliori commissioni. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Economia ticinese a gonfie vele I fruitori dei media ticinesi avranno notato come nelle ultime settimane preelettorali siano stati pubblicati due rapporti che descrivono la situazione e l’evoluzione dell’economia ticinese in toni molto rosei. Dapprima è venuto il rapporto dell’IRE sul grado di competitività (non si capisce bene se si tratta dell’attrattiva che il Ticino avrebbe come possibile localizzazione di nuove aziende, oppure della capacità di competere che queste aziende potrebbero avere) che mette sottosopra i giudizi negativi formulati sin qui. Da ora in poi occorrerà considerare l’economia ticinese come competitiva, anzi tra le più competitive in Svizzera. Un paio di settimane più tardi la Camera di commercio, rendendo noti i risultati dell’inchiesta BAK per il 2019 è andata anche più in là. In termini di crescita del Pil reale, nel periodo 20062017, il Ticino avrebbe fatto meglio, nell’ordine, della Svizzera (a partire

dal 2011), della Germania, degli Stati Uniti, dell’Europa occidentale, della Lombardia, dell’Italia e del Piemonte. Davanti al Ticino, nel mondo, ci sarebbe quindi solo la Cina. Ma, in futuro, si può sempre vedere! Mentre il Pil reale ticinese è aumentato, durante questo periodo, del 20%, quello del Piemonte (regione con il risultato peggiore) è diminuito di circa il 18%. Così la regione di qua dalla frontiera, il Ticino per l’appunto, è viaggiata, economicamente parlando, a velocità superiore alla media europea; le regioni appena al di là della frontiera (Lombardia e Piemonte) hanno invece fatto marcia indietro. La prestazione dell’economia ticinese è stata da primato anche nei confronti di quelle delle altre regioni svizzere. Se andiamo a verificare quali possono essere stati i fattori che hanno contribuito a questa performance ci accorgiamo che la stessa è dovuta all’aumento

significativo e continuo degli effettivi di forza lavoro occupati piuttosto che all’aumento della produttività. Se prendiamo la classifica delle regioni considerate nel confronto in base al contributo dato dalla crescita della produttività allo sviluppo del Pil constatiamo così che il Ticino si trova al terzultimo posto. Dopo di lui vengono solo l’Italia e il Piemonte. L’economia lombarda, invece, ha conosciuto un aumento di produttività superiore a quello realizzato da quella ticinese. La crescita degli ultimi anni (come quella degli ultimi duecento) l’economia ticinese la deve quindi all’aumento dell’occupazione. Dal 2006 al 2017, in Ticino, l’occupazione è aumentata di un po’ più del 20%, mentre in Svizzera l’aumento non è stato che del 15%. Negli altri paesi e nelle altre regioni l’aumento dell’occupazione ha variato tra lo 0 e il 10%. Se dal risultato aggregato, in termini

di crescita del Pil reale, scendiamo a considerare lo sviluppo dei singoli rami dell’economia ticinese ci accorgiamo che, durante il periodo considerato, il risultato migliore, in termini di crescita, è stato realizzato dal ramo farmaceutico, seguito dalla chimica e dal ramo «altri servizi», nel quale sono raccolte prestazioni in favore della popolazione o delle aziende. I servizi finanziari, invece, sono quasi scomparsi dal gruppo dei rami con tassi di crescita superiori alla media. Bisognerebbe però sapere come questi tassi di crescita per ramo siano stati stimati. È probabile che siano i tassi di crescita dell’occupazione, non quelli del valore aggiunto del ramo e quindi bisognerà riprendere quanto si è detto qui sopra a proposito delle insufficienze in materia di sviluppo della produttività, specialmente per quel che riguarda la crescita dei rami del settore dei servizi alla popolazione.

Il rapporto appena pubblicato fornisce anche dati sulle prestazioni dei sistemi economici dei singoli agglomerati urbani. Per la limitata dimensione delle nostre aree urbane sarà bene considerare queste informazioni con la massima prudenza. Per concludere rimettiamo in evidenza le due conferme importanti che discendono da questo rapporto. In primo luogo che anche la crescita più recente del Pil reale del Canton Ticino è largamente dovuta al contributo del fattore lavoro più che a quello del fattore capitale. In secondo luogo che l’economia ticinese ha conosciuto, dal 2011 al 2017, un tasso di crescita annuale superiore a quello medio svizzero. Quest’ultimo è un aspetto che merita di essere approfondito, dopo le elezioni naturalmente, tenendo conto soprattutto del fatto che, nel corso del medesimo periodo, il valore aggiunto dal settore finanziario è diminuito.

anti Brexit, non riesce a federare tutti i partiti «remainers», anzi: non è riuscito nemmeno a farsi approvare il logo elettorale. La campagna – improvvisata, sbilanciata, da inventarsi su due piedi – deve ancora iniziare, e tutto può accadere nel Regno dell’indecisione e del tormento, ma oggi Change Uk sta all’8 per cento, i Lib-dems europeisti al 9, i Verdi che godono del momentum ambientalista globale al 10. La somma fa 27, che non sarebbe male se davvero si potesse parlare di un gruppo unito e se il Labour di Jeremy Corbyn potesse essere considerato un partito «remainer». Non si sa quale sia la strategia di Corbyn, e se la compagine europea dei socialdemocratici respira all’idea che il Labour partecipi alle europee, il sollievo non si sente affatto in Inghilterra. Chissà che cosa vuole Corbyn, oltre diventare primo ministro s’intende: ancora non si è capito.

La presenza degli inglesi alle europee infastidisce anche molti paesi dell’Ue. Gli europarlamentari avevano votato l’anno scorso per abolire 46 dei 73 seggi occupati dagli inglesi e redistribuire i 27 seggi ad altri Stati: Francia e Spagna avrebbero ottenuto cinque seggi ciascuno, l’Italia e l’Olanda tre. Ma ora la redistribuzione è sospesa, non si sa per quanto tempo, e la presenza del Regno Unito non fa litigare soltanto sugli uffici degli europarlamentari – si pensava di stare più larghi, al palazzo dell’Europarlamento – ma cambia anche gli equilibri europei: con il Brexit Party, le compagini euroscettiche supererebbero il 25 per cento, mentre i due partiti principali, i conservatori del Ppe e il Pse perdono il dieci per cento in tutto, cinque ciascuno (le proiezioni sono state pubblicate dal Parlamento europeo). Il fronte europeista è sempre maggioranza, ma si deve sommare

anche l’Alde, la compagine liberale, perché le due grandi e storiche famiglie dell’Ue da sole non camminano più, hanno bisogno della stampella centrista, cui si potrebbe aggiungere anche il partito di Emmanuel Macron in Francia. Così ci ritroviamo con due contraddizioni: una è storica, cioè la conoscevamo già, ed è quella che prevede che alle elezioni dell’Ue vadano forte i partiti che detestano l’Ue, che significa che i contribuenti europei pagano viaggi e vitalizi a europarlamentari che butterebbero nella spazzatura la parte «euro» del loro lavoro. La seconda contraddizione è tutta nuova: s’è combattuto contro la Brexit in nome di un’Europa unita e ora i britannici che restano nell’Ue obtorto collo renderanno ancora più frammentata e ingovernabile e disunita l’Ue. Ironia assoluta, ma come dicevamo: con gli inglesi ormai c’è poco da ridere.

soprattutto in relazione alla tipologia di società a cui stiamo andando incontro. Archiviata come utopica la visione profetizzata da George Orwell in 1984, con un Grande Fratello che vigila e controlla i nostri comportamenti sociali intervenendo sulle «devianze», eccoci confrontati alla congettura descritta da Aldous Huxley nel Mondo nuovo e all’ipotesi di una dittatura democratica che controlla i propri cittadini non attraverso censure e punizioni, ma attraverso piaceri e accondiscendenza. Neil Postman non ha avuto esitazioni a seguire Huxley, individuando un possibile tecnopolio che, partendo dalla televisione, arriva a controllare un pubblico (per lui «il mondo del cucù») reso insensibile dai nuovi media. In altre parole, Postman intuiva lo scivolamento progressivo e inarrestabile verso una società in cui «il nuovo dio è l’informazione, che le nuove tecnologie consentono di profondere in enormi quantità e rapidissimamente». Archiviata negli anni Novanta perché troppo negativa e apocalittica, la distopia di Postman in

realtà conteneva una formidabile premonizione, oltretutto accompagnata da chiare spiegazioni, di quanto stiamo vivendo (e subendo) oggi in materia di informazione e di effetti negativi collegati all’uso dei socialmedia. Con internet ancora agli albori, Postman vedeva il pericolo di un tecnopolio in grado di trasformarsi in dittatura morbida, condizionata dall’eccesso d’informazione e favorito da una vita istituzionale incapace di gestire la grande offerta di distrazione generata dalla tecnologia. Questo il suo monito più preoccupante: «Quando una popolazione è distratta da cose superficiali, quando la vita culturale è diventata un eterno circo di divertimenti, quando ogni serio discorso pubblico si trasforma in un balbettio infantile (…) allora la nazione è in pericolo». Forse non avremo mai la dittatura profetizzata da Orwell, ma diventa sempre più problematico escludere l’avvento di un tecnopolio che assuma il controllo «quando sono crollate le difese contro l’eccesso d’informazione, quando la vita istituzionale non basta più a gestire

la troppa informazione, quando una cultura, sopraffatta dall’informazione generata dalla tecnologia, cerca di servirsi della tecnologia stessa». Davanti a questa distopia che con 25 anni di anticipo annunciava l’onnipotenza degli algoritmi, non resta che chiederci: esistono rimedi per opporsi all’avvento di una simile crisi, oppure è già troppo tardi e possiamo solo preparare la resa alla tecnologia? Postman non offre ricette, ma ricorda che un ruolo fondamentale potrà averlo ancora la scuola, come strumento sia conservativo (dei saperi tradizionali che non devono andare smarriti), sia sovversivo (per imparare a «usare» la tecnologia evitando di «esserne usati»). Egli vedeva però un formidabile ostacolo da superare: il tecnopolio è una sorta di AIDS culturale, e precisamente una «Anti-Information Deficiency Syndrome (sindrome di deficienza anti-informativa)», disturbo assai pericoloso e difficile da combattere se prima non si riesce a trovare una spiegazione al «perché si è cessato di pensare».

Affari Esteri di Paola Peduzzi Con gli inglesi non si scherza Gli inglesi non dovevano nemmeno farle, queste elezioni europee di fine maggio, non volevano farle, dovevano già essere fuori dall’Ue, o dentro per sempre al limite, ma non così, come si presentano oggi, con un accordo zombie sulla Brexit già bocciato più volte ai Comuni, una premier che ha detto che se ne va (non si sa quando) e l’indecisione trasformata in strategia politica, naturalmente fallace. I sondaggi in vista di questa elezione – con un passaggio elettorale previsto per il 2 maggio, con alcuni voti locali – riassumono il cortocircuito britannico in proiezioni da panico quasi comico (anche se abbiamo smesso di ridere, quando si tratta di Regno Unito): il neonato Brexit Party, animato da Nigel Farage, ex leader degli indipendentisti dell’Ukip e falchissimo della Brexit, è al primo posto. S’è mangiato anche il suo primo figliolo, Farage, lo ha tagliato a metà: del 13 per cento previsto per

l’Ukip è rimasto il 6 per cento di consensi (i dati sono dell’istituto YouGov) e il Brexit Party s’è ingrossato fino al 23 per cento, davanti ai laburisti al 22 e ai Tory al 17. Farage raccoglie testimonial e voti, vuole bissare il successo del 2014 – l’Ukip per la prima volta, alle europee di quell’anno, fu il primo partito in un’elezione nazionale – e sbattere in faccia al Regno e all’Europa la sua verità: vogliamo la Brexit, la vogliamo fortissimo e la vogliamo durissima, chi cambia idea è, ancora una volta, minoranza. Farage approfitta di una coerenza ferrea (ancorché fantasiosa) e delle solite divisioni degli altri, degli avversari, che faticano a unire le forze, come già accaduto in questi tormentati anni di negoziati sulla Brexit. Il neopartito Change Uk, che è il nome scelto dall’Independent Group, il movimento di fuoriusciti dal Labour e dai Tory che si sono raggruppati in funzione

Zig-Zag di Ovidio Biffi L’eclisse e il secchiello d’acqua Da un po’ di tempo mi sto appassionando a una distopia nata tre decenni fa e poi eclissatasi. Distopia, stando alla Treccani, significa previsione, descrizione o rappresentazione di uno stato di cose futuro e, specifica l’enciclopedia, solitamente prefigura situazioni, sviluppi, assetti politico-sociali e tecnologici negativi. L’aspetto più negativo della distopia che sto seguendo è però l’incomprensibile ritardo con cui è riapparsa e ritornata al centro dell’attenzione. Ultima premessa: la distopia che mi affascina è contenuta nel libro di Neil Postman Technopoly. La resa della cultura alla tecnologia (edizione italiana del 1993, Bollati Boringhieri), oggi praticamente introvabile nella edizione italiana. Così, piuttosto che cercare il libro e consultarlo in lontane biblioteche, ho pensato di ricorrere a un trucco indicato da Giuseppe Pontiggia: non potendo fissare il sole, anche un secchiello d’acqua può bastare a seguire una eclisse. È più o meno quello che ho fatto io, leggendo un saggio sull’autore (di Cosimo Di Bari) e una recensione del libro pubblicata nel 1993 su «Civiltà

cattolica» da Gianpaolo Salvini, gesuita oggi novantacinquenne. L’eclisse è quella che hanno subito le teorie di Neil Postman, erede della scuola di Toronto di Mc Luhan, un intellettuale complesso che, pur essendo una delle figure di spicco della pedagogia anglosassone, come sociologo e filosofo è sempre stato emarginato e le sue critiche oscurate, anche dopo la morte avvenuta nel 2003. Una marchiatura che oggi sconcerta, dal momento che le sue premonizioni verso le nuove tecnologie e i media moderni risultano straordinariamente utili per capire e interpretare il mondo in cui viviamo. La riscoperta del pensiero critico di Postman – abbozzato nel 1985 nel suo capolavoro Divertirsi da morire – è iniziata prima negli Stati Uniti, richiamata dal ciclone mediatico cavalcato da Trump; poi dall’autunno scorso si è estesa anche all’Europa sull’onda degli scandali che riguardavano Facebook, le ingerenze esterne e nei sistemi elettorali (Cambridge Analytica) e la democrazia digitale del Movimento 5 stelle. Oggi si studia e si cita Postman


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Cultura e Spettacoli Dedicato a Lucrezio La Biblioteca cantonale di Bellinzona propone una mostra sull’autore del De Rerum Natura pagina 35

Visioni poetiche del reale La rassegna cinematografica romanda nell’edizione 2019 ha avuto come ospite d’onore il regista Werner Herzog

Novità in libreria L’anima del Ticino di Roberto Buffi e Il Grande trampoliere smarrito di Edgardo Franzosini

Intervista a Jack Savoretti Il cantautore italo-britannico si racconta e ci parla del suo personale approccio alla musica

pagina 40

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Un pittore cinese fra di noi

Mostre Ingres a Palazzo Reale di Milano

Gianluigi Bellei Jean-Auguste-Dominique Ingres (1780-1867) ritiene che il disegno sia la tecnica ideale e primaria della pittura. Per questo ama Raffaello con i suoi dipinti puliti e lineari. Vive durante un periodo turbolento anche esteticamente. A lui si contrappone l’impetuosità coloristica di Eugène Delacroix il quale, all’epoca, è considerato il nuovo e la rivoluzione. Non a caso Charles Baudelaire, recensendo la retrospettiva dell’artista all’interno de l’Exposition Universelle del 1855, considera Ingres un uomo dotato di alte qualità ma «sprovvisto di quel temperamento energico in cui consiste la fatalità del genio». Ingres, per lui, è influenzato dall’antichità ma con dei bei modi che sono capricci transitori e non dignità dell’individuo. Nel dipinto l’Apoteosi dell’Imperatore Napoleone I, sostiene Baudelaire, invece della rappresentazione di un’apoteosi con la sua «potenza di ascensione verso le regioni superiori» cade con una «velocità proporzionata alla sua pesantezza». Questo e altri giudizi negativi lo accompagnano per tutta la vita anche se, proprio per il suo accademismo, nel 1801 vince il Prix de Rome. Nel 1806 si trasferisce a Roma prima e a Firenze poi e rimane in Italia per 18 anni. In polemica con le «correnti ufficiali» ritorna a Roma nel 1835 per rimanervi fino al 1841 come direttore dell’Accademia di Francia a Villa Medici. Dipinge soprattutto ritratti, ma anche odalische, nudi e quadri a soggetto storico e letterario. In lui si intrecciano eros e thanatos, Apollo e Dioniso, in una sintesi fra luce e tenebra, materia e spirito. Marc Fumaroli parla di «identità paradossale» perché l’artista, e con lui il Neoclassicismo, guarda al passato mentre si fa la rivoluzione con Napoleone. Una sorta di «pittore cinese sperduto, in pieno diciannovesimo secolo, nelle rovine di Atene», come scrive nel 1855 Théophile Silvestre nell’Histoire des artistes vivants. La sua vita si intreccia con quella di Napoleone I. Nel 1811 – alcuni anni prima della capitolazione – quasi tutta l’Europa subisce la sua influenza. Dopo la conquista dello Stato Pontificio e dell’Olanda, l’Impero napoleonico è composto da 130 dipartimenti dislocati praticamente in quasi tutta l’Europa. Napoleone I governa

personalmente alcuni Stati e negli altri pone sul trono i suoi parenti: i Napoleonidi. Gli artisti sono subito chiamati a raccontare le gesta del generale, prima, e dell’Imperatore, dopo. Inizialmente raffigurando una certa realtà storica che legittima l’Impero e poi – quando Napoleone I diviene oggetto di culto e vengono fissati i paradigmi delle opere – in una specifica ritualità (dall’adlocutio, all’arringa ai soldati, al gesto di clemenza) attraverso una sempre più dilagante enfasi celebrativa e mitografica, come scrive Eleonora Bairati. Da Jacques-Louis David ad Andrea Appiani, da Antoine-Jean Gros a Charles Meynier. Attualmente a Palazzo Reale di Milano è in corso un’esposizione che mette in rilievo l’opera di alcuni artisti, fra i quali Ingres, in rapporto con Napoleone I. La mostra è curata da Florence Viguier-Dutheil, direttrice del Museo Ingres di Montauban, suo luogo di nascita. Museo dal quale provengono la maggior parte delle opere dell’artista francese e che è in ristrutturazione sino alla fine del 2019. Milano è il fulcro italiano di questo rinnovamento delle arti dopo che proprio qui, il 12 giugno del 1805, Napoleone I si fa incoronare Imperatore e poi Re d’Italia. Fra gli artisti di riferimento troviamo Jacques-Louis David, Antonio Canova e, appunto, Ingres. Centocinquanta sono le opere in mostra, fra le quali una sessantina di Ingres, fra disegni e dipinti. Attenzione, non si tratta di un’esposizione esclusivamente incentrata su Ingres – del quale troviamo prevalentemente lavori minori – ma riguarda il suo periodo. Si parte con alcune opere del Neoclassicismo quali i nudi virili, qualche bagnante e l’aereo Ritratto della principessa Karoline von Liechtenstein di Élisabeth-Louise Vigée-Le Brun, la ritrattista ufficiale della regina Maria Antonietta. Segue il versante oscuro del periodo che rende inquietante il «culto di emozioni delicate», come nei romanzi inglesi fra malinconie, sogni e drammi. Qui troviamo l’enorme Sogno di Ossian del 1813 di Ingres. Spettrale fantasmagoria tratta dalla saga gaelica inventata dal poeta James Macpherson fra il 1760 e il 1763 e dedicata al poeta Ossian. Un omaggio ai gusti letterari di Napoleone e destinato a decorare il soffitto della sua camera

Jean-AugusteDominique Ingres, Napoleone sul trono imperiale, 1806. (Paris Musée de l’Armée, Dist. RMN-Grand Palais/Emilie Cambier)

da letto. Ossian seduto in primo piano sogna i figli e gli eroi morti in battaglia, in un grigio crepuscolare e sinistro. Una sezione della mostra è dedicata alle campagne d’Italia di Bonaparte. Il giorno successivo l’incoronazione di Napoleone a Milano il generale Hyacinthe-François-Joseph Despinoy ordina al più famoso pittore della città, Andrea Appiani, il ritratto del condottiero. Dall’arrivo di Napoleone nel 1796 Appiani subisce il suo fascino, tanto da diventare nel 1805 suo premier peintre. Dal 1800 comincia una serie di trentacinque pannelli su tela a monocromo per illustrare la campagna d’Italia iniziata con la battaglia di Montenotte il 12 aprile 1796 e finita con la vittoria di Friedland del 14 giugno 1807. Le tele, terminate nel 1807, vengono posizionate nella sala delle Cariatidi a Palazzo Reale. Tutte sono andate distrutte durante i bom-

bardamenti dell’ultima guerra mondiale. Per fortuna Napoleone ne aveva ordinato una loro riproduzione calcografica. La esegue Giuseppe Longhi, professore di incisione a Brera, assieme ai suoi allievi, Francesco e Giuseppe Rosaspina, Michele Bisi e Giuseppe Benaglia, tra il 1807 e il 1816. 35 acquaforti ritoccate al bulino esposte assieme ai busti di Napoleone in marmo di Gaetano Matteo Monti da Ravenna, Antonio Canova, Luigi Manfredini. La sala centrale dell’esposizione è dedicata al ritratto di Napoleone I sul trono imperiale eseguito da Ingres nel 1806, e proveniente dal Musée de l’Armée di Parigi, contornato dai disegni preparatori. Opera che suscita terrore e ilarità. Criticata per la non somiglianza, la mancanza di chiaroscuro, la rigidità della posa e il biancore freddo della luce. Napoleone è seduto sul trono come il Dio raffigurato da

Jan van Eyck nel polittico di Gand, con lo scettro imperiale nella mano destra e le insegne reali conservate a SaintDenis: la spada, la mano della giustizia in avorio, lo scettro dei Re di Francia appartenuto a Carlo Magno. Dopo la sconfitta di Napoleone a Waterloo nel 1815 e il conseguente crollo dell’Impero, Ingres vede calare le sue commissioni. Si dedica al genere troubadour o storico dipingendo opere dedicate a Raffaello, Paolo e Francesca e Leonardo da Vinci rappresentato sul letto di morte tra le braccia di re Francesco I. Dove e quando

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Cultura e Spettacoli

Tornare a Lucrezio

Mostre Un’iniziativa della Biblioteca Cantonale di Bellinzona rinnova l’interesse sull’autore del De rerum natura,

coinvolgendo anche il Deposito d’arte Matasci

Ada Cattaneo Poche sono le notizie certe su Lucrezio. Quasi ignota è la sua biografia, tranne che per qualche dettaglio: visse durante il I secolo a.C. in centro Italia, probabilmente fra Roma e la Campania. Qui si formò seguendo la dottrina epicurea. Molto scrissero i posteri sulla sua pazzia, che pare gli concedesse solo alcuni sprazzi di lucidità, entro i quali componeva i suoi versi. Ma è probabile che la sua presunta «insania» fosse solo una diceria, forse utilizzata dai primi autori cristiani per screditare la sua opera, profondamente intrisa di spirito antireligioso, in linea cioè con i dettami dell’Epicureismo. San Girolamo sosteneva addirittura che fosse stato reso folle da un filtro d’amore.

Una mostra declinata in tre luoghi: Biblioteca di Bellinzona, Palazzo Morettini a Locarno e Deposito d’arte Matasci In realtà, nonostante i tentativi di screditarlo, il fascino del suo De rerum natura rimane ancora oggi immutato e certi aspetti ci appaiono tuttora molto attuali. Soprattutto colpisce il tentativo di osservare la natura con sguardo razionale, che non riesce però a nascondere quello del poeta, sempre permeato dalla mera-

viglia di fronte ai fenomeni circostanti. La struttura stessa dell’opera non finisce di affascinare, partendo dalla descrizione degli atomi, infinitamente piccoli ed indistruttibili, fino ad arrivare al racconto dei fenomeni celesti. Perciò appare logico che molti artisti, afferenti alle più varie discipline, siano stati ispirati dai suoi versi. L’iniziativa Caos, Cosmo, Colore. Tre capitoli lucreziani, coordinata dalla Biblioteca Cantonale di Bellinzona e suddivisa in tre sedi espositive, ripercorre alcune di queste esperienze, fra letteratura classica, traduzione letteraria e arti visive. Punto di partenza per la riflessione sono alcuni brani di Lucrezio tradotti da Giorgio Orelli. Tali passi sono stati poi il presupposto per la realizzazione di alcune litografie da parte di Italo Valenti ed Enrico della Torre. Significativo è che i due artisti si siano ispirati allo stesso brano di Lucrezio, nella stessa versione – quella di Orelli – a distanza di vent’anni l’uno dall’altro. Una selezione di queste opere su carta è in mostra presso la Biblioteca di Bellinzona. Qui sono presentati anche i volumi pubblicati da Vanni Scheiwiller – per le edizioni «All’insegna del Pesce d’Oro» di Milano – dove le incisioni furono pubblicate proprio insieme ai testi di Lucrezio tradotti da Orelli. Valenti sceglie di rappresentare il caos affidandosi solo a due colori: bianco e nero. Della Torre, invece, sceglie il colore: verde, rosso, blu. Entrambi però si affidano alla pittura non figurativa per rappresentare le molteplici forme del caos, anche se

nel gesto di Della Torre non emergono chiari alcuni elementi naturalistici. Questo primo capitolo dell’iniziativa, presso Palazzo Franscini a Bellinzona, sarà aperto ai visitatori fino al 27 aprile. Altra declinazione assume la mostra presso la biblioteca di Palazzo Morettini a Locarno: qui vengono presentate diverse edizioni antiche del De rerum natura. L’allestimento, visibile fino al 4 maggio, si concentra sugli aspetti più letterari del discorso attorno all’opera di Lucrezio e sulle interpretazioni artistiche scaturite da essa, anche con approfondimenti dedicati alle traduzioni recenti del poema. Il terzo luogo scelto per ospitare Caos, Cosmo, Colore. Tre capitoli lucreziani è il Deposito d’arte Matasci di Cugnasco – Gerra. In questo spazio Mario Matasci concentra la propria attività collezionistica, iniziata sul finire degli anni Sessanta e rivolta in particolare all’ambito dell’Espressionismo e dell’Informale, fra Svizzera, Italia e Germania. Dal 1977 Matasci ha iniziato ad offrire al pubblico una regolare programmazione espositiva. Dal 2007 è stato aperto il Deposito, uno spazio appositamente creato, dove è allestita una selezione della collezione, che annovera alcune centinaia di opere, e dove viene conservata l’importante biblioteca a disposizione degli ospiti. Sono qui presentate annualmente anche esposizioni temporanee. Spesso i visitatori hanno la fortuna di essere accompagnati nella visita dallo stesso Matasci, un elemento che aiuta

Italo Valenti, litografia, Spirale, 1958. (Aline D’Auria)

molto nella comprensione di una raccolta fortemente legata al territorio e al sostrato culturale che accomuna Ticino e Lombardia. La scelta delle opere proposte in questa occasione presso il Deposito è incentrata su alcuni dei temi affrontati da Lucrezio e, più in generale, dalla dottrina epicurea. Come scrive la storica dell’arte Elena Pontiggia nel catalogo della mostra «Tutto, o quasi, l’informa-

le nasce alle sue origini da un’idea di caos». L’artista si ritrova quindi a pieno nel cosmo descritto da Lucrezio, dove la natura crea e distrugge, senza che sia data all’uomo la possibilità di opporsi a questo fluire. Le opere di Music, Chighine, Dobrzanski, Spicher e degli altri autori esposti si prestano bene a raccontare questo senso di smarrimento, a tratti intercalato dallo stupore per la natura circostante. Annuncio pubblicitario

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Idee e acquisti per la settimana

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Cultura e Spettacoli

Una realtà che diventa poesia

Rassegne Visions du réel celebra Werner Herzog, un regista senza frontiere proprio come il festival di Nyon

Giorgia Del Don Arrivata al suo secondo anno come direttrice di Visions du réel, Emilie Bujès riesce a portare avanti un discorso complesso sul cinema detto «del reale» di cui il suo predecessore Luciano Barisone aveva fatto il suo credo. Mai delusi dalla varietà di proposte che il festival lacustre ci regala ogni anno, ci immergiamo sempre con immenso piacere nelle sabbie mobili del reale alla ricerca di quella «verità estatica» che Werner Herzog non ha mai smesso di cercare. Quest’anno è proprio sotto il regno di re Herzog che si sviluppa un’importante 50.esima edizione fatta di fruttuosi incontri non solo fra professionisti ma anche e soprattutto fra il pubblico e le sfaccettate realtà filmiche che sfilano davanti ai suoi occhi come un caleidoscopio di un mondo in divenire. Consacrato «Maître du réel» di quest’importante edizione, l’immenso regista tedesco ha regalato al festival un’ambitissima Masterclass durante la quale ha parlato con passione del suo mondo e della complessità di una cinematografia che mette in scena il reale in tutta la sua misteriosa e maestosa diversità. Una personalità che ha contagiato tutti, fino all’euforia. Da sempre impegnato a creare ponti fra progetti in divenire, professionisti del settore cinematografico e programmatori dallo sguardo affilato, Vision du réel ha ancora una volta saputo riunire il fior fiore delle menti pensanti impegnate nell’esplorazione del reale. Dai giovani registi seleziona-

ti nell’ambito del programma Rought Cut Lab 2019 che hanno potuto beneficiare dei preziosi consigli dei «tutors» messi a loro disposizione, fino ai quindici fortunati progetti inclusi nel Pitching du réel, è il futuro del cinema documentario che sfila sulle sponde del Lemano. I film in fase di produzione che si incontrano e scontrano fra le porte chiuse del programma Pitching du réel, si trasformano in motore di una cinematografia (il documentario) sempre più audace e variegata. Condensato delle problematiche che ci circondano: dall’ecologia, all’immigrazione clandestina e alle tragiche storie che l’accompagnano, passando per la questione dell’identità di genere e sociale, la dipendenza alla pornografia o ancora il matrimonio forzato, i progetti difesi nell’ambito di quest’importante programma sfidano i concetti di «realtà» e di «finzione» già profondamente riconsiderati nella filmografia di Werner Herzog: «sono sempre stato interessato alla differenza fra fatto e verità. E ho sempre sentito che esiste qualcosa come una verità più profonda. Esiste nel cinema, e la chiamerei verità estatica». Un’affermazione importante che rimette la creazione artistica al centro, rigettando allo stesso tempo l’utopia di un cinema come mero riflesso del fatto documentato. Scegliere Herzog come Maître du réel di un’edizione importante come la 50.esima è un atto simbolico in difesa della libertà del cinema come eco e non come specchio del reale. Una presa

Un momento della Masterclass tenuta dal cineasta tedesco. (visionsdureel.ch)

di posizione in favore di una verità più profonda che scaturisce da una sensibilità unica e che ci apre le porte di un «qui ed ora» tanto tangibile quanto poetico. «Quando leggi una grande poesia, senti immediatamente, nel tuo cuore, nelle tue budella, che c’è una profonda, inerente verità, una verità estatica», sottolinea il grande Herzog che si è sempre preso gioco con ironia ed intelligenza dell’utopia del cinema del reale come riflesso di una realtà inevitabilmente soggettiva ma non per questo meno profonda o peggio ancora illegittima: «Faccio fatica a seguire queste categorie (documentario vs finzione). Tutti i miei documentari sono stilizzati. In nome di una verità più profonda (…) contengono delle parti

inventate. Mi capita quindi di dire che sono delle finzioni travestite». Interrogare il reale senza preoccuparsi della forma che questo può prendere, ma al contrario mettendolo alla prova a livello estetico per distillarne una verità che solo l’arte sa acchiappare. Un’attitudine sicuramente privilegiata dai registi premiati quest’anno nella Competizione internazionale lungometraggi. Heimat Is a Space in Time del tedesco Thomas Heise (Sesterzio d’oro), frutto di anni di ricerche ed introspezione, ritraccia la storia familiare del regista attraverso gli scombussolamenti della Germania del XX secolo. Una messa in parallelo che arricchisce mutualmente le due narrazioni estrapolandone una verità più

profonda che il fatto storico o la saga famigliare. Ne scaturisce un’intensa ed esteticamente potente riflessione sulle nozioni di memoria ed identità. Allo stesso modo il film belga Sans frapper di Alexe Poukine (Premio del Jury Région de Nyon) si nutre delle confidenze fatte alla regista da una coetanea, ritrascrivendole ed amplificandole attraverso una sensibilità estetica rivendicata. L’aneddoto personalmente vissuto si trasforma in detonatore di una ricerca affannosa e sincera sulla natura umana e le sue oscure «devianze». Un modo di procedere che fa eco al cinema di Herzog il quale, per moltissimi dei suoi film di «finzione» (pensiamo per esempio all’immenso La ballata di Stroszek che distilla una serie di allusioni alla vita stessa del suo protagonista: dall’utilizzo dei suoi strumenti musicali all’invasione del suo appartamento), si ispira a fatti reali che ricrea con accurato, quasi maniacale realismo. When the Persimmons Grew di Hilal Baydarov (Menzione speciale) parla del reale, e più in particolare del villaggio natale del regista la cui figura centrale è sua madre, attraverso i gesti delle persone che lo abitano e che si trasformano in sublimi interpreti del suo quotidiano. Che sia la parola, il gesto o la memoria, ogni film indaga la realtà trascendendola attraverso il mezzo filmico. Ne gratta via la banalità affondando le unghie nella complessità delle sensazioni che la abitano per raggiungere infine quella verità estatica che Herzog erige a regola, e che Visions du réel non smette di celebrare. Annuncio pubblicitario

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Idee e acquisti per la settimana

A tavola con il re degli aceti Le ultime bancarelle sulla piccola piazza di Ghemme, un comune del Piemonte, stanno chiudendo, proprio quando i primi clienti cominciano ad affollare il «Caffè Ristorante Impero». Giacomo Ponti, che dirige l’azienda quale rappresentante della quinta generazione, ci conduce direttamente in cucina, dove viene calorosamente accolto dalla chef Paula Naggi. I due sono uniti da una lunga amicizia: si conoscono da sempre poiché la cugina di Ponti ha frequentato il liceo con la cuoca. Inoltre il capo dell’impero dell’aceto apprezza molto la cucina dell’Impero: «Paola cucina piatti tradizionali che stanno diventando sempre più rari nei menu italiani, come per esempio il bollito misto». Per Giacomo Ponti e i suoi ospiti oggi è previsto un menu appositamente pensato per essere abbinato al suo Aceto balsamico di Modena IGP Invecchiato. L’aceto rimane per tre anni in barriques da 225lt di legno di rovere, castagno e ciliegio. Dall’affinamento in botti di diversi tipi di legni pregiati ne risulta un aceto dagli aromi fini e sfumati. Così come il vino, anche gli aceti vengono miscelati solo in un secondo tempo. Per Ponti l’aceto ha avuto un importante ruolo già nella più tenera età: «Quando usciva dall’azienda le mani e vestiti di mio nonno avevano sempre un odore caratteristico. Si percepivano i profumi della trasformazione del vino in aceto».

Glassa gastronomica Ponti all’Aceto Balsamico di Modena IGP 250 ml Fr. 6.30

Aceto Balsamico di Modena IGP invecchiato Ponti 250 ml Fr. 9.40

Qualità da oltre 150 anni L’azienda Ponti è stata ufficialmente fondata nel 1867 a Ghemme, nel Piemonte. Ricerche effettuate dimostrano che la famiglia Ponti era già attiva nel settore dell’aceto nel 1787. Da 40 anni fornisce Migros. Giacomo Ponti dirige l’azienda assieme a sua cugina Laura, entrambi rappresentanti della quinta generazione. Sono circa 65 milioni le bottiglie di aceto vendute annualmente da Ponti in ben 70 nazioni. I diversi tipi di aceto – dall’aceto di mele a quello di vino, fino all’Aceto Balsamico di Modena IGP – vengono elaborati in quattro stabilimenti produttivi. L’Aceto Balsamico di Modena IGP è prodotto a Vignola, in Emilia Romagna. Solo l’aceto prodotto nella regione di Modena può beneficiare della denominazione di origine protetta. Il risotto viene mantecato con un po’ di Aceto Balsamico di Modena IGP Ponti, invecchiato 3 anni in barriques di legno di rovere, castagno e ciliegio. (Paolo Dutto)

L’aceto si fa con l’uva

Aceto Balsamico di Modena IGP Ponti 250 ml Fr. 5.20

Paolo Dutto

DolceAgro condimento bianco Ponti 250 ml Fr. 3.30

L’aceto lo ha sempre appassionato. Ed è anche un ingrediente sempre presente nella cucina di mamma Ponti. «Prepara un fantastico arrosto di manzo, che prima spennella con l’aceto di mele, poi con l’aceto balsamico. Dopo due-tre ore nel forno, la carne è morbidissima e ricca di aromi». Ponti, che ha studiato economia, si interessa molto di viticoltura. «Tutto ha origine dall’uva», riflette: «Solo da un buon vino si ottiene un buon aceto». Quando cucina per gli amici, l’aceto gioca sempre la sua parte, dice Ponti, e versa alcune gocce di balsamico invecchiato su un antipasto, un’insalata di pollo. Anche al risotto aggiunge un po’ di aceto, che ben ne arricchisce il sapore. Il consiglio personale di Ponti sull’utilizzo dell’aceto: «In estate mi piace mangiare le fragole messe nell’aceto di vino rosso, con l’aggiunta di pochissimo zucchero». Anche i drink si abbinano bene all’aceto, e ciò non solo da quanto lo «shrubs», una bibita a base di aceto, è diventata una tendenza negli Stati Uniti. «Già gli antichi romani bevevano la “posca”, un mix di acqua, aceto e miele». E cosi Giacomo Ponti offre ai suoi ospiti un bicchiere, il cui contenuto consiste in quattro parti di acqua e una parte di Aceto Balsamico di Modena IGP. Il dolce a fine pasto è una mousse di yogurt con frutta secca. Con l’aggiunta di alcune gocce di Glassa all’Aceto Balsamico di Modena IGP. La Glassa Gastronomica, lanciata da Ponti una decina di anni fa, è la dimostrazione di un trend sempre presente che unisce la tradizione al desiderio di innovazione: grazie alla Glassa, anche i piatti più quotidiani, possono ricevere un tocco da chef.

Quando è all’«Impero», Giacomo Ponti non manca mai di visitare la cucina e di salutare Paola Naggi. (Paolo Dutto)


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Idee e acquisti per la settimana

A tavola con il re degli aceti Le ultime bancarelle sulla piccola piazza di Ghemme, un comune del Piemonte, stanno chiudendo, proprio quando i primi clienti cominciano ad affollare il «Caffè Ristorante Impero». Giacomo Ponti, che dirige l’azienda quale rappresentante della quinta generazione, ci conduce direttamente in cucina, dove viene calorosamente accolto dalla chef Paula Naggi. I due sono uniti da una lunga amicizia: si conoscono da sempre poiché la cugina di Ponti ha frequentato il liceo con la cuoca. Inoltre il capo dell’impero dell’aceto apprezza molto la cucina dell’Impero: «Paola cucina piatti tradizionali che stanno diventando sempre più rari nei menu italiani, come per esempio il bollito misto». Per Giacomo Ponti e i suoi ospiti oggi è previsto un menu appositamente pensato per essere abbinato al suo Aceto balsamico di Modena IGP Invecchiato. L’aceto rimane per tre anni in barriques da 225lt di legno di rovere, castagno e ciliegio. Dall’affinamento in botti di diversi tipi di legni pregiati ne risulta un aceto dagli aromi fini e sfumati. Così come il vino, anche gli aceti vengono miscelati solo in un secondo tempo. Per Ponti l’aceto ha avuto un importante ruolo già nella più tenera età: «Quando usciva dall’azienda le mani e vestiti di mio nonno avevano sempre un odore caratteristico. Si percepivano i profumi della trasformazione del vino in aceto».

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Cultura e Spettacoli

L’anima del Ticino, in Valle Maggia

Editoria 1 Esce da Dadò un’interessante analisi de Il fondo del sacco

di Plinio Martini, curata da Roberto Buffi

Illustrazione in copertina, di Robert Gallay, Mlle Poncetta.

ramente di cosa parlassero, in che periodo siano stati redatti e con che intenzione fossero stati composti. Sicuramente anche in quei volumi (così come nei testi di Calgari, Roedel, Filippini, e di tanti altri) si troverebbero importanti frammenti dell’«anima del Ticino» da recuperare e considerare. Ogni esercizio di interpretazione «moderna» del passato serve a comprendere meglio la nostra realtà quotidiana

e può essere altrettanto terapeutico quanto l’esercizio strettamente psicoanalitico di Buffi. Speriamo quindi che questo esempio stimoli gli editori a proporre ai lettori del cantone, oltre alle sempre benvenute riedizioni dei classici, anche utili testi di critica, con cui poter avvicinare il nostro patrimonio culturale per comprenderne meglio il messaggio.

Note antiche a Carona

Rassegne Nelle vie del suggestivo nucleo e nella chiesa principale

risuoneranno melodie e strumenti della tradizione barocca CaronAntica ritorna nel 2019 con un ricco programma e illustri ospiti musicali. Si inizia con i concerti da camera di Vivaldi il 27.4, mentre il 25.5 sono di scena le musiche medievali dell’ensemble Lea Haulz et les Bas, fino a giungere ad un’intensa settimana di festival estivo tra il 29.6 e il 3.7 che vedrà un ensemble in residenza alle prese con la poetica e suggestiva musica delle corti inglesi tra rinascimento e barocco. Il 29.6 sarà la volta della musica ef-

Informazioni sul programma: caronantica.wordpress.com. (D. Vaas)

Editoria 2 La vita avventurosa dello scrittore

e pugile svizzero Arthur Cravan nell’ultimo libro di Edgardo Franzosini Stefano Vassere

Alessandro Zanoli Trattando il romanzo di Martini con una chiave di interpretazione strettamente junghiana, il libro di Roberto Buffi propone una riflessione che non è aperta ad ogni tipo di lettore. E forse nemmeno in ambito accademicoletterario sarebbero molti gli studiosi in grado di avvicinarne con profitto il taglio ermeneutico. Il libro mette in opera infatti tutto l’armamentario terminologico/metodologico della psicologia analitica. L’anima del Ticino (Dadò, 2018) appare così più un testo indirizzato agli adepti di quel contesto dottrinario, che non un libro utile ai ticinesi per comprendere meglio il capolavoro dello scrittore valmaggese. Detto questo, per chi possiede l’infarinatura terminologica necessaria, il volume di Buffi è sicuramente un testo utile a suscitare interessanti, profonde riflessioni. E, visto da un altro punto di vista, ci conferma quanto sia fondamentale cominciare finalmente a riflettere concretamente in termini critici sui libri fondanti della nostra cultura cantonale, quanto sia utile riprendere testi dati per acquisiti e sottoporli invece alla prova concreta dell’approfondimento e della comprensione. È un vero peccato che si continui in modo un po’ superficiale a criticare i vecchi «libri dell’alpe» e i «tempi di marzo» senza sapere in realtà ve-

Tutti i tuoi capelli

fervescente di Matthew Locke e di altri autori inglesi del rinascimento e del barocco. Il 30.6 Brunch musicale alle ore 10.00, e nel pomeriggio la scoperta della musica poetica di John Dowland tra pizzichi di liuto e canti melodiosi di viola da gamba, per concludersi il 3.7 con estratti dall’opera La regina delle Fate di Henry Purcell. Tutti i concerti sono a entrata gratuita e sono sostenuti dal Percento culturale di Migros Ticino.

«Una corporatura, una prestanza fisica, quella di Cravan, che gli permetterà di compiere alcune considerevoli prodezze, fare visita a trentanove membri dell’Académie française nel giro di soli quattro giorni, passeggiare lungo il Kurfürstendamm di Berlino con due donne sulla spalla destra e due sulla sinistra, disertare da almeno sei paesi, battere il campione olimpico greco Giorgos Kalafatis». I libri di Edgardo Franzosini sostengono quasi da soli quello che per la letteratura italiana contemporanea potrebbe essere considerato un vero e proprio genere: biografie o, più in generale, vicende storiche, appoggiate su documentazione d’archivio e supporto bibliografico autenticato, che, da qualche parte, cedono (in particolare quando la realtà pare un po’ appiattirsi) a una fiction sostenuta e di sicuro spasso. Prendiamo questa piccola antologia di scritti di Arthur Cravan, alias Fabian Avenarius Lloyd alias Édourd Archinard, alias tutta una serie di altri nomi, cognomi e identità maschili e femminili. Nella preziosa lunga nota biografica finale dedicata a Cravan si parla a un certo punto dell’incontro a Barcellona con il pugile Jack Johnson detto il Napoleone dei neri; dice Franzosini che «poiché nessun testimone oculare ha mai fornito un resoconto di come si sia svolto quel loro colloquio, possiamo solo immaginarlo», e, per quale paragrafo a seguire, descriverlo. Arthur Cravan è personaggio insolito in tempi decisamente non soliti. Svizzero per ius soli, essendo nato a Losanna nel 1887, fu scrittore, artista, personaggio di molte avventure e innumeri tumulti. Suo padre era cognato

di Oscar Wilde, lui fu pugile a Parigi e a Barcellona (dove incontrò, finendo subito suonato in malo modo, il Napoleone di appena qui sopra), frequentatore delle avanguardie newyorchesi dell’epoca, viaggiatore in vari luoghi di quel continente, amministratore di struggenti e il più delle volte contemporanee e sovrapposte relazioni d’amore, egocentrico insaziabile, ambizioso scontento. Fino alla morte in Messico nel 1918, misteriosa e ispiratrice di parecchie spiegazioni ipotetiche: la rinascita in Francia, reinventato nell’identità, come scrittore o come ricettatore di autografi di Oscar Wilde; la morte, nel tentativo di affrontare a nuoto il Golfo del Messico in tempesta o il Rio Grande, o assassinato con una pugnalata in un dancing, o altro (c’è anche, a pagina 185, un atto de style scritto da Marcel Duchamp e depositato presso un notaio di New York). Il libro contiene, oltre alla cornice di testi e note (più un ottavo patinato di fotografie di Arthur al centro), scritti diaristici e critici, poesie, lettere. Quest’ultima sezione, con l’eccezione di una missiva al gallerista parigino André Level e una al giornalista e critico Félix Fénéon, ha solo interlocutrici donne e l’unico canone della lettera d’amore. Nei testi molta paccottiglia, «anime mie», adorazioni, angeli miei e del mio cuore, carissime e bellissime, e qualche strampalata ideona: «Manda un ricciolo dei tuoi capelli o meglio vieni con tutti i tuoi capelli», dice a Mina Loy, poetessa e decoratrice di abat-jour, amica di Papini e Marinetti. Cravan ne riceve per contro sentimenti autentici, disponibilità incondizionate anche nella consapevolezza di dividere il «bocconcino» con più di una rivale. «Tesoro», dirà a chi lo chiede in sposo, «ci sono molte ragazze che mi corrono dietro». I libri di Edgardo Franzosini sono così: si sente il peso dell’autenticità sullo sfondo ma anche la piacevole prossimità di una soglia, variabile e diffusa, che separa la testimonianza documentata dalla fantasia narrativa, la verità dall’opera di finzione. «E quando qualcuno le domanderà quale sia stato il momento più felice della sua vita risponderà “Ogni momento passato con Arthur…”. “È il più infelice?“. “Tutto il resto del tempo”». Bibliografia

Arthur Cravan, Grande trampoliere smarrito, a cura di Edgardo Franzosini, Milano, Adelphi, 2018. Annuncio pubblicitario

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Idee e acquisti per la settimana

La qualità che viene dalla continuità Da oltre 60 anni alla Migros

La pasta Agnesi nella migliore tradizione italiana. Il pastificio Agnesi è stato fondato nel 1824 a Pontedassio (Liguria). Un tempo la pasta veniva venduta sfusa. Solo 100 anni più tardi, negli anni 1920, Agnesi iniziò a vendere pasta confezionata. Dal 1999 Agnesi appartiene al gruppo alimentare Colussi. La pasta Agnesi è ottenibile da più di 60 anni alla Migros. La produzione avviene nella località piemontese di Fossano. Oltre alla pasta è disponibile anche un assortimento di sughi e pesti.

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Agnesi Linguine n. 10 500 g Fr. 2.10

La classica pasta Agnesi è disponibile in diversi formati e grandezze.

È nato da soli quindici giorni, ma il nonno Angelo, che porta il suo stesso nome, ne parla già come di un esponente della quinta generazione nella linea di conduzione aziendale. Sono cose che succedono quando la cultura d’impresa si identifica proprio con storia di una famiglia: Giacomo Colussi, figlio di Angelo Sr. (e padre di Angelo Jr.) sorride soddisfatto ma poi affronta seriamente il discorso: «Il peso della tradizione famigliare è oggettivo e si sente. È del resto un fattore molto importante, anche se tra le varie generazioni, con il passare del tempo, si evidenziano idee e concetti diversi, basati su una formazione manageriale innevitabilmente diversa. Mio padre viene da un’esperienza che è diversa dalla mia ma alla fine le nostre caratteristiche personali si equilibrano in una visione d’insieme che le unisce, e che produce una evoluzione positiva, un continuo adattamento alle necessità del mercato». «Per noi la cultura famigliare d’impresa è fondamentale» conferma il Signor Angelo «e anzi, in virtù di questa mia esperienza personalmente mi sento molto diverso da altri manager, magari molto più orientati agli aspetti finanziari della gestione industriale. Noi veniamo da una tradizione che ci lega alla concretezza della produzione, alla qualità di ciò che facciamo, ed è questa vocazione che sentiamo di apportare alla specificità del nostro lavoro». La storia della famiglia Colussi, del resto, inizia davvero molto tempo fa,

ai primi del 900, con il nonno del Signor Angelo, e ha dato luogo a un patrimonio di esperienze accumulate nel corso dei decenni che si sono poi trasmesse a svariati settori della produzione alimentare. Una continua espansione che ha portato le attività a configurare oggi uno dei principali gruppi industriali nella produzione di alimenti a base di cereali. L’aquisizione avvenuta nel 1999 del pastificio Agnesi è solo una tappa in questa progressione di attività, e ne quasi è una logica conseguenza. «La specificità e la peculiarità del nostro lavoro in questo settore l’abbiamo nel sangue, potremmo dire, della nostra tradizione. E anche il nostro futuro sta proprio in questa ricchezza di competenze. Lo vediamo concretamente in questi anni, nel momento in cui esportiamo in tutto il mondo le nostre capacità. Dalla Russia all’Asia, e in particolare in Cina, riusciamo a profilarci con i nostri prodotti e le nostre competenze. E proprio su quei mercati il nostro contributo è molto apprezzato» continua Angelo Colussi. «Vorrei sottolineare però, che oltre alle nostre connotazioni industriali, viene apprezzata anche la volontà e la capacità di instaurare rapporti umani solidi e validi». «La nostra attenzione ai rapporti con i nostri clienti» continua il figlio Giacomo Colussi «ci permette di adattare prodotti e di crearne di specifici per vari mercati, come ad esempio abbiamo fatto per il mercato svizzero. Qui siamo partner

di Migros da oltre 60 anni e, insieme a Migros, abbiamo studiato specialità più adatte al mercato elvetico. Senza rinunciare alle importanti caratteristiche mediterranee della nostra gamma, abbiamo sviluppato ad esempio delle diverse confezioni, più piccole e pratiche, di pasta e di sughi, in modo da assecondare meglio le abitudini dei consumatori». La Pasta Agnesi in Svizzera, in altre parole, non rinunciando in nessun modo alla sua italianità, cerca di avvicinarsi, con i suoi vari formati e soprattutto con i condimenti pronti, ai sapori preferiti dei clienti Migros. Ma sopra ogni cosa, per Angelo Colussi, i valori più importanti che devono essere sempre considerati sono la qualità degli ingredienti base e l’accuratezza dei processi produttivi: «Il tema della sostenibilità per noi è fondamentale. È qui che la nostra esperienza famigliare sa fare la differenza e dare il suo contributo al successo del nostro lavoro. In un momento della storia in cui i consumatori sono sempre più attenti alla provenienza e alle componenti degli alimenti, le nostre specialità prodotte con le migliori selezioni di grano sono una garanzia e una sicurezza». Proprio questa è l’eredità di competenza e capacità su cui il piccolo Angelo Jr., se vorrà, potrà contare in futuro per la sua carriera di imprenditore. La stessa su cui possiamo contare anche noi, oggi, ogni volta che mettiamo in pentola i prodotti di Agnesi.

Agnesi Cellentani 500 g* Fr. 2.35

Angelo Colussi Senior e il figlio Giacomo producono pasta secondo la migliore tradizione italiana. (Paolo Dutto)

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 aprile 2019 • N. 17

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 aprile 2019 • N. 17

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Idee e acquisti per la settimana

La qualità che viene dalla continuità Da oltre 60 anni alla Migros

La pasta Agnesi nella migliore tradizione italiana. Il pastificio Agnesi è stato fondato nel 1824 a Pontedassio (Liguria). Un tempo la pasta veniva venduta sfusa. Solo 100 anni più tardi, negli anni 1920, Agnesi iniziò a vendere pasta confezionata. Dal 1999 Agnesi appartiene al gruppo alimentare Colussi. La pasta Agnesi è ottenibile da più di 60 anni alla Migros. La produzione avviene nella località piemontese di Fossano. Oltre alla pasta è disponibile anche un assortimento di sughi e pesti.

Agnesi Spaghetti n. 3 500 g Fr. 2.05

Agnesi Linguine n. 10 500 g Fr. 2.10

La classica pasta Agnesi è disponibile in diversi formati e grandezze.

È nato da soli quindici giorni, ma il nonno Angelo, che porta il suo stesso nome, ne parla già come di un esponente della quinta generazione nella linea di conduzione aziendale. Sono cose che succedono quando la cultura d’impresa si identifica proprio con storia di una famiglia: Giacomo Colussi, figlio di Angelo Sr. (e padre di Angelo Jr.) sorride soddisfatto ma poi affronta seriamente il discorso: «Il peso della tradizione famigliare è oggettivo e si sente. È del resto un fattore molto importante, anche se tra le varie generazioni, con il passare del tempo, si evidenziano idee e concetti diversi, basati su una formazione manageriale innevitabilmente diversa. Mio padre viene da un’esperienza che è diversa dalla mia ma alla fine le nostre caratteristiche personali si equilibrano in una visione d’insieme che le unisce, e che produce una evoluzione positiva, un continuo adattamento alle necessità del mercato». «Per noi la cultura famigliare d’impresa è fondamentale» conferma il Signor Angelo «e anzi, in virtù di questa mia esperienza personalmente mi sento molto diverso da altri manager, magari molto più orientati agli aspetti finanziari della gestione industriale. Noi veniamo da una tradizione che ci lega alla concretezza della produzione, alla qualità di ciò che facciamo, ed è questa vocazione che sentiamo di apportare alla specificità del nostro lavoro». La storia della famiglia Colussi, del resto, inizia davvero molto tempo fa,

ai primi del 900, con il nonno del Signor Angelo, e ha dato luogo a un patrimonio di esperienze accumulate nel corso dei decenni che si sono poi trasmesse a svariati settori della produzione alimentare. Una continua espansione che ha portato le attività a configurare oggi uno dei principali gruppi industriali nella produzione di alimenti a base di cereali. L’aquisizione avvenuta nel 1999 del pastificio Agnesi è solo una tappa in questa progressione di attività, e ne quasi è una logica conseguenza. «La specificità e la peculiarità del nostro lavoro in questo settore l’abbiamo nel sangue, potremmo dire, della nostra tradizione. E anche il nostro futuro sta proprio in questa ricchezza di competenze. Lo vediamo concretamente in questi anni, nel momento in cui esportiamo in tutto il mondo le nostre capacità. Dalla Russia all’Asia, e in particolare in Cina, riusciamo a profilarci con i nostri prodotti e le nostre competenze. E proprio su quei mercati il nostro contributo è molto apprezzato» continua Angelo Colussi. «Vorrei sottolineare però, che oltre alle nostre connotazioni industriali, viene apprezzata anche la volontà e la capacità di instaurare rapporti umani solidi e validi». «La nostra attenzione ai rapporti con i nostri clienti» continua il figlio Giacomo Colussi «ci permette di adattare prodotti e di crearne di specifici per vari mercati, come ad esempio abbiamo fatto per il mercato svizzero. Qui siamo partner

di Migros da oltre 60 anni e, insieme a Migros, abbiamo studiato specialità più adatte al mercato elvetico. Senza rinunciare alle importanti caratteristiche mediterranee della nostra gamma, abbiamo sviluppato ad esempio delle diverse confezioni, più piccole e pratiche, di pasta e di sughi, in modo da assecondare meglio le abitudini dei consumatori». La Pasta Agnesi in Svizzera, in altre parole, non rinunciando in nessun modo alla sua italianità, cerca di avvicinarsi, con i suoi vari formati e soprattutto con i condimenti pronti, ai sapori preferiti dei clienti Migros. Ma sopra ogni cosa, per Angelo Colussi, i valori più importanti che devono essere sempre considerati sono la qualità degli ingredienti base e l’accuratezza dei processi produttivi: «Il tema della sostenibilità per noi è fondamentale. È qui che la nostra esperienza famigliare sa fare la differenza e dare il suo contributo al successo del nostro lavoro. In un momento della storia in cui i consumatori sono sempre più attenti alla provenienza e alle componenti degli alimenti, le nostre specialità prodotte con le migliori selezioni di grano sono una garanzia e una sicurezza». Proprio questa è l’eredità di competenza e capacità su cui il piccolo Angelo Jr., se vorrà, potrà contare in futuro per la sua carriera di imprenditore. La stessa su cui possiamo contare anche noi, oggi, ogni volta che mettiamo in pentola i prodotti di Agnesi.

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Cultura e Spettacoli

Fascino italiano di un autore molto inglese

Musica A colloquio con Jack Savoretti, che si esibirà al Palazzo dei Congressi di Lugano il 7 maggio

Enza Di Santo L’11 febbraio «Azione» ha chiacchierato con Jack Savoretti, astro nascente della musica inglese, che presenterà dal vivo a Lugano l’album, Singing to strangers, uscito il 22 marzo. Un disco ricco di sfaccettature, con un fascino romantico, dal quale emergono il talento e gli intenti di questo autore da scoprire assolutamente. L’intervista integrale è sul sito www.azione.ch. Jack, stai cantando molto e ti sei esibito anche all’Hammersmith Apollo, uno dei templi della musica mondiale...

Pensa che il 31 maggio saremo all’Arena di Wembley che sarà ancora più wow, ancora più grande.

L’esibizione all’Hammersmith Apollo è stata la tua grande occasione, la tua svolta?

Non avremmo mai potuto esibirci lì (ndr. Jack e la sua band), se non fosse stato per i 12 anni on the road, che ci hanno messi alla prova. Siamo riusciti a rimanere in gioco e a far crescere la nostra fan base: ad ogni spettacolo le persone aumentavano. Poi, c’è stato l’invito allo show televisivo britannico The Graham Norton show, che in 3 minuti e mezzo ci ha dato tantissima visibilità. Questo spiega la potenza dei media. Fino a quel punto avevamo fatto tutto da soli e conoscevamo il nostro pubblico. Dopo Graham Norton show, ai concerti è arrivato un tipo di pubblico diverso, che non mi sarei mai aspettato. Quindi, non penso che abbiamo ancora avuto la svolta, e forse è proprio questa la fortuna. Non ho ancora avuto

Concorso «Azione» mette in palio tra i suoi lettori alcune coppie di biglietti per il concerto di Jack Savoretti, che si terrà al Palacongressi di Lugano martedì 7 maggio 2019 alle 21.00. Per partecipare al concorso seguire le istruzioni nella pagina www.azione. ch/concorsi. Buona Fortuna!

la mia hit, o quel momento che devo ripetere. Tutto è stato sempre graduale; ho fatto la gavetta.

I Tunes ti etichetta come cantante folk, ti rivedi in questa definizione?

Onestamente no, anche se c’è una grande parte di me che è folkistica e la musica folk mi ha molto ispirato quando ho iniziato. Chi in particolare?

Simon and Garfunkel, perché Paul Simon per me è il re dei cantautori. Lui ha reinventato il modo di presentare le canzoni, che sono dei racconti. Però ho moltissime altre influenze.

Gran parte della tua vita è legata all’Inghilterra, che è stata una grande fucina di artisti e di generi. Ti senti già parte della scia della magnifica storia della musica inglese oppure no?

Bella domanda. Mi sento ancora un po’ fuori, anche se questa settimana abbiamo avuto risultati incredibili. Lo so che sono visto ancora come quello di fuori. Pensa, che quando siamo arrivati in Italia, suonavamo in pizzerie e osterie e non eravamo nessuno, anche se a Londra stavamo facendo Hammersmith Apollo. Le case discografiche mi sconsigliavano l’Italia, perché il mercato è piccolo. E allora perché tentare il tour?

È una cosa di cuore, ci tenevo molto. Anche qui a Lugano non ho mai suonato prima, nonostante ci abbia vissuto per 10 anni. In Italia dicevano «non sei italiano abbastanza», e io chiedevo «ma cosa vuol dire?» e la risposta era «perché non canti in italiano». E perché non canti in italiano?

Perché non ho la padronanza per scrivere un bel brano. È facilissimo scrivere una brutta canzone d’amore, mentre per scrivere una canzone giusta come Anna e Marco, Dio è morto o La canzone di Marinella, bisogna essere «professori» del linguaggio e io per ora non voglio osare. La canzone di Marinella è di De André, ligure come te. Quanto tieni alle tue origini?

Molto, non so neanche perché ci tengo così tanto. Ho dei ricordi d’infanzia bellissimi, sono cresciuto con le storie di mio padre e di mio nonno, e ho un

Il suo nome completo è Giovanni Edgar Charles Galletto Savoretti. (Chris Floyd)

legame fortissimo con la città. Mio nonno è stato importante perché era partigiano e ha permesso la resa dei tedeschi in Liguria.

Il brano Home, rievoca la Liguria?

Avendo vissuto in Ticino, in America, in Inghilterra e sentendomi a casa anche in Italia, Home per me non è un luogo, ma un feeling, che per essere un po’ cliché, è l’amore. Per me, dove ci sono i miei figli è casa, dove c’è la mia famiglia è casa. Il singolo Candlelight è un palese omaggio a Ennio Morricone.

Assolutamente sì. Ma non solo, è un omaggio alla musica italiana in generale.

Quanto e come la musica italiana ti influenza?

Sono cresciuto con Lucio Battisti, ma tre anni fa mi è successa una cosa strana: con l’arrivo del secondo figlio, ho anche una bambina, io e mia moglie abbiamo deciso di andare a vivere nella campagna inglese e lì, mi sono sentito tanto italiano come mai in vita mia. Tutti gli abitanti, super inglesi mi parlavano lentamente perché ero l’italiano del villaggio, e sono rimasto

affascinato da questa cosa ridicola, visto che sono nato a Londra e miei figli sono così inglesi, che sembrano usciti da Mary Poppins. Però una parte di me, in quel periodo mi diceva di non dimenticare che sono anche italiano e mi sono reso conto di fare alcune cose in maniera diversa, come quando andavo a prendere mia figlia a scuola e baciavo tutte le mamme sulla guancia, ma questo non si fa in Inghilterra (ride). Quindi, sono diventato una specie d’immigrato malinconico, che ascoltava la musica e guardava i film italiani, e un po’ ho giocato con questo stereotipo (ride), non lo nego. Ho riscoperto per esempio le prime produzioni di Patty Pravo, in cui le orchestre da cinema, iniziavano a mescolarsi con qualcosa rock. Morricone ha queste orchestrazioni fortissime con un touch di rock n’ roll. Questa sovrapposizione, mi piace tantissimo e mi ha molto ispirato.

Qualche curiosità sul tuo nuovo album?

Si intitola Singing to strangers, perché ho avuto un understanding. Ho capito, che mi piace intrattenere le persone. Ho

negato per tanti anni l’intrattenimento della musica dicendo che lo facevo solo per me. Invece, adesso mi accorgo che mi piace fare musica che connette, che fa sentire qualcosa e che fa avere una reazione. Con Candlelight, il primo singolo, nei primi dieci secondi sto dicendo: «Hey, siamo qua!».

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L’assurda parola di Ionesco per una delirante lezione di teatro In scena E.S.Teatro propone una rilettura della Lezione, mentre Sara Flaadt Camponovo

rievoca Emile Kempin-Spyri e la sua storia di discriminazione femminile Giorgio Thoeni Scorrendo l’elenco delle produzioni realizzate fino ad oggi da e.s.teatro emerge uno spiccato interesse per la rilettura della drammaturgia di repertorio, da quella più classica a quella contemporanea, con un occhio di riguardo per quella fetta di opere che richiedono necessariamente una prova d’attore e uno sguardo registico particolare. Tutto coincide con la personalità teatrale di Emanuele Santoro il quale, nel mettere in scena i suoi spettacoli, si cimenta contemporaneamente nel ruolo di regista, di interprete, di scenografo e tanto altro, talvolta correndo il rischio di penalizzare qualche voce a scapito di altre. D’altronde è regola per il teatro indipendente, laddove i sussidi non grondano (anzi) e le spese da sostenere non diminuiscono (anzi). Nonostante l’ambizione di fare le cose per bene talvolta però la partita risulta meno azzardata. Gli anni pas-

sano e si fa largo l’esperienza, si lascia spazio a quella maturità come un trofeo da esibire in pubblico. A teatro, ovviamente. Come nel caso de La lezione di Eugène Ionesco che Santoro ha fatto debuttare al Foce di Lugano per poi portarla al Paravento di Locarno fino ad esaurirne le repliche nella sala

del Cortile di Viganello. Il percorso coerente di un allestimento semplice e dignitoso per una sfida sull’opera del drammaturgo rumeno già sperimentata con successo nel 2015 con Le sedie. C’è da dire che senza le iniziative del nostro, di Ionesco ci sarebbe rimasto solo il ricordo della prestigiosa dop-

Mara Crisci e Emanuele Santoro al Teatro Foce.

pietta vista sul palco della palestra federale di Bellinzona quando, nel 1988, la rassegna Homo Ridens aveva invitato lo storico Théâtre de la Huchette parigino con gli originali allestimenti de La cantatrice chauve e La leçon. Per far rivivere la paradossale ascesa paranoica del professore, Santoro ha voluto per la sua lezione la partecipazione di Roberto Albin nel ruolo della governante (Mario o Maria dalla chiassosa parlata partenopea) affidando la parte della giovane allieva a Mara Crisci: l’acerbità ideale per quel climax di surreale comicità. Lo stesso autore aveva definito il suo atto unico un dramma comico dove l’insegnamento viene letto come uno strumento del potere. Una logica che si trasforma in un progressivo e assurdo delirio fino al compimento dell’estremo sacrificio. Lasciandosi catturare dalla parola, Santoro ci offre una delle sue migliori prove d’attore in un’ora intensa appagata da meritati applausi.

Emilie, una battaglia al femminile

C’è tutto nelle note di regia. «C’è la sua storia. E ci sono le nostre. Suoni e immagini ce le fanno vivere e rivivere. Lei è Emilie Kempin-Spyri». È stata la prima donna a studiare diritto. Il progetto di Sara Flaadt Camponovo con la sua compagnia SuPerGiù è un lavoro in fieri che ha tutte le caratteristiche di uno spettacolo per immagini e sonorità ben amalgamate con una scrittura multimediale decisa nel racconto dell’infelice storia della prima giurista svizzera. Con il titolo Una Emilie Kempin-Spyri, tutte Emilie l’autrice e regista propone non solo le sofferte tappe della protagonista ma i segni di una discriminazione delle donne non ancora risolta. Brave e convincenti le Emilie di Lucia Donadio, Jasmin Mattei, Camilla Parini, Margherita Saltamacchia, Laura Zeolla, Margherita Coldesina e Roberta Fossile al debutto sul palco del Teatro Foce di Lugano.


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Cultura e Spettacoli Rubriche

In fin della fiera di Bruno Gambarotta Le avventure a tavola Uno dei più vistosi tratti del carattere dei Piemontesi è la diffidenza nei riguardi delle novità e tocca il suo vertice per quanto riguarda il cibo. Ci fu una prima timida apertura con l’arrivo degli immigrati dal Veneto e dalle regioni meridionali, per lavorare nella grande fabbrica. Suonava la sirena per la pausa mensa, gli operai cercavano un posto dove sedersi e aprivano il contenitore di alluminio portato da casa con i vari scomparti per il cibo. Se c’era nei paraggi una macchina che aveva generato calore, gliel’appoggiavano sopra. Era di alluminio, era chiamato il «baracchino» e stava in una borsa allacciata attorno alla canna della bicicletta. Se accanto all’operaio piemontese andava a sedersi il veneto o il siciliano, era spontaneo sbirciare nel baracchino del collega. Succedeva che il veneto o il siciliano, colto lo sguardo, dicessero: «Vuoi favorire?». Non si poteva rispondere «no, grazie»

e iniziavano così i primi timidi scambi. Dicono: la pizza è arrivata a Torino con l’Esposizione di Italia ’61 per il centenario dell’Unità, nel padiglione della Campania alla Mostra delle Regioni. Io c’ero, tutte le sere ci andavo con il mio amico Tommaso Gasti, sperando che la sua fidanzata, hostess al padiglione della Gran Bretagna, all’uscita si portasse dietro un’amica. C’ero, ma non mi sono accorto dell’avvento della pizza napoletana. Forse perché la conoscevo già: nei due anni precedenti, trascorsi in divisa, l’Esercito mi aveva spedito in più occasioni a sud di Roma. È un luogo comune, ma non per questo meno vero, che il cibo è l’ancora più robusta per incatenarci alle nostre origini; Giovanni Guzzo, mio compagno di corso alla scuola allievi ufficiali, ritornava in caserma dalle licenze con una valigia di prodotti della sua Calabria e si offendeva a morte se noi nordici rispondevamo «no, grazie» alle sue offerte di ordigni

antiuomo al peperoncino. Vera o non vera la storia dell’arrivo della pizza, dal 1961 a oggi la ristorazione a Torino ne ha fatta di strada! Per tutti gli anni 60 le trattorie esibivano il cartello «Cucina casalinga», poi qualcuno timidamente fece osservare che non c’era gusto a mangiare fuori se poi ti mettevano in tavola lo stesso cibo di casa tua. Con l’inizio del miracolo economico era arrivato il momento giusto per l’apertura dei ristoranti esotici. I primi sono stati i cinesi, se non ricordo male. Il racconto dei coraggiosi che avevano oltrepassato quella soglia verteva soprattutto su un dettaglio: ti mettono sul tavolo tutte in una volta le portate che sono state ordinate! Se qualcuno di noi avesse letto la storia dell’alimentazione, avrebbe potuto spiegare agli amici che fino ai primi anni dell’Ottocento il cosiddetto «servizio alla francese» consisteva nella presenza di tutte le portate a tavola, dalle fredde alle calde, dalle salate alle

dolci. C’era stato un cambiamento rivoluzionario con l’arrivo delle portate dalla cucina nella dovuta successione grazie alla vittoria del «servizio alla russa», attribuito al principe Alessandro Kovrakin, ambasciatore a Parigi dello zar Alessandro I negli anni 1810-1815. Nacque la necessità di introdurre il menù, una parola che all’inizio indicava solo un appunto privato fra padrone di casa ed esecutore per indicare la sequenza dei piatti da portare in tavola. Un secolo dopo, nel 1908, una disposizione del re Vittorio Emanuele III impose l’uso di una terminologia italiana per tutto quello che riguardava la cucina. Nacque così l’orrendo termine «lista cibaria». Tornando al nostro ristorante cinese i più navigati suggerivano ai neofiti di ordinare ciascuno piatti diversi in modo di allargare al massimo il ventaglio degli assaggi, in un gioco collettivo che si rivelò un’ulteriore gratificazione del mangiare cinese. Sono trascorsi

pochi anni da quelle prime coraggiose aperture e sembrano secoli: ora a Torino sono aperti più di 160 ristoranti etnici, tra i quali uno del Kurdistan e uno della Siberia. La ristorazione sta evolvendo alla velocità della luce, nascono forme ibride, come la macelleria di carni pregiate o la pescheria di prima qualità dove il cliente ha tre opzioni: comprare la carne o il pesce da portare via per cucinarli a casa, farli cuocere dai cuochi del locale prima di portarli via oppure mangiarli sul posto. Sono sorti dei ristoranti in case private, dove si arriva attraverso il passaparola, condotti da professionisti che abbattono in tal modo le spese per l’affitto dei locali. Ho voglia di tentare un esperimento: la cena narrata. I clienti prenotano, si accomodano all’ora convenuta attorno a una tavola rotonda e a turno raccontano agli altri commensali un convivio memorabile a cui hanno preso parte in passato. Il digestivo è offerto dalla casa.

Thor, figlio di Odino, dio del tuono. Grande e grosso, dotato di un martello che si trasforma in arma letale, è sincero e onesto, a differenza di suo padre. Poi ci sono i Nani, che vivono sottoterra, del tutto sottoposti al volere degli dei: per loro forgiano gioielli e armi magiche. I Greci, già nel VI secolo a.C., permettevano voci fuori dal coro: la religione di Zeus, Era, Atena, era la religione pubblica. Da una parte, ne accettavano le cruente origini: padri che mangiano i figli, nemici – come Atreo – che offrono i figli del nemico come pranzo, tradimenti, punizioni esagerate per gesti di pura compassione, come venne colpito Prometeo, solo perché aveva fatto trovare il fuoco a quei poveretti degli animali razionali, gli uomini. Dall’altra parte, però, alla filosofia era permesso un atteggiamento critico, purché non disturbasse la vita cittadina. Così fu per Senofane, nato nel 570 a.C., che semplicemente disse cose di buon senso, per esempio: «Se i buoi, i cavalli e i leoni avessero mani, i cavalli dipingerebbero

immagini degli dei simili ai cavalli, i buoi simili ai buoi, e plasmerebbero i corpi degli dei simili all’aspetto che ha ciascuno di essi». Poi la critica alla tradizione epica: «agli dei Omero ed Esiodo attribuiscono tutto ciò che è onta e vergogna: rubare, commettere adulterio, ingannarsi a vicenda». Platone tentò di censurare Omero, nella sua Repubblica, i giovani non devono ascoltare né tanto meno cantare di dei ubriachi, mentitori, traditori. Però Senofane era un filosofo itinerante, parlava a pagamento, non dava fastidio a nessuno. Anche Platone ebbe la furbizia di costruire una città ideale, assurdamente comunista e gerarchicamente costituita. Una follia lontana dalla realtà, impossibile, per quanto fosse per lui un sogno veridico, «da qualche parte potrebbe trovarsi», anche se i suoi tentativi di costituirla a Siracusa erano stati un fallimento. Ma peggio andò al suo maestro Socrate, che morì anche a causa di un presunto ateismo. No, disse Socrate, io credo. Non credo «agli dei della città», come

si legge nella Apologia trascritta da Platone. Socrate fu condannato, non per la religione, ma perché era di disturbo alle autorità, si permetteva di mettere al muro grandi e piccini, inchiodandoli alla vacuità del loro pensiero, delle loro convinzioni. Quindi il mondo greco subisce ma critica queste divinità da cabaret. Molto diverso è il mondo divino germanico, di cui parlano solo poemi e leggende. Nessuna razionalità governa questo mondo di dei arrabbiati e traditori, assassini senza motivo di famiglie intere di Giganti, capaci di rendere schiavi umani, animali e Nani. Che cosa dobbiamo pensare? Forse era una modalità per giustificare comportamenti negativi, se perfino gli dei mentono e tradiscono, è ovvio che a noi umani non si può chiedere compassione e condivisione. Anzi, peggio si comportano le divinità, più mi sento libero di umiliare e mentire e uccidere. Religioni che fanno paura e consentono i peggiori comportamenti. Non è quello che chiediamo a una religione.

simo del presidente degli Stati Uniti (1). Viceversa, Samantha, la sorella maggiore di Sara riteneva, con i suoi brillantissimi nove anni, che soffiando tutti quanti insieme sullo schermo del televisore, da un capo all’altro del pianeta, si sarebbe prodotto un tale vento sull’incendio da annientarlo in un batter d’occhio. Così ha postato la sua magnifica idea su Twitter, riscuotendo un consenso ancora maggiore di quello raccolto da Sara: 150 mila like in soli undici minuti, compreso quello del presidente americano (1). È la dimostrazione palpabile che grazie ai nuovi strumenti digitali ciascuno di noi può dare il suo straordinario e gratuito contributo a ogni tipo di emergenza umanitaria: i bambini possono suggerire come domare gli incendi, un presidente americano (1) può suggerire l’uso dei Canadair, le nonne possono collegare il cortocircuito con il terrorismo islamico. I complottisti sono all’opera. Il lattaio può sospettare un complotto massonico, il vicino

di casa terrapiattista può insinuare l’immancabile zampino del Vaticano, il terraquadratista può invocare il colpo basso dei marziani, Trump (1) può prendersela con i seguaci indomiti di Hillary Clinton, che visibilmente hanno tutto l’interesse a dar fuoco alla cattedrale parigina perché sanno che il presidente americano (1) non riuscirà a resistere e sparerà la sua stupidata su Twitter diventando per qualche ora lo zimbello di mezzo mondo. Comunque, vince sempre chi raccoglie più consensi nei social. Il mondo sconvolto. Notre-Dame non c’è più ha titolato il giorno dopo un autorevole giornale italiano. Ma chi accendeva il televisore, dopo aver letto quel titolo, rimaneva ancora più sconvolto nel constatare che Notre-Dame era sì un po’ ammaccata, ma non era affatto sparita, era ancora lì: l’avranno ricostruita di notte?, era l’interrogativo. Macché. Il presidente francese Emmanuel Macron ha annunciato che per ricostruire basteranno cinque anni,

mentre gli ingegneri sostengono che ce ne vorranno tra i 15 e i 20. Alcuni si spingono addirittura fino ai 50. La piccola Sara non ha resistito a dire la sua: ha azzardato che secondo lei in un mesetto bisognerebbe riuscirci facilmente e il suo post, diventato virale, ha raccolto anche il festoso «like» di Trump (1) accompagnato dall’esortazione ai francesi: «Do not hesitate! Hurry, hurry!». Nei giorni successivi alla catastrofe parigina, si è diffusa nei social la voce che ad appiccare l’incendio siano stati gli eredi di Victor Hugo per rilanciare i suoi romanzi e naturalmente incassare i diritti d’autore: in effetti Notre-Dame de Paris è diventato il best seller della settimana, ma si è scoperto che i diritti sono scaduti da oltre mezzo secolo. In compenso, il gobbo Quasimodo è diventato un eroe del nostro tempo. Da non far sapere ai soliti complottisti: potrebbero sospettare il concorso colposo dei figli e/o dei nipoti del poeta siciliano. Quello di Ed è subito sera.

Postille filosofiche di Maria Bettetini Gli Dei nordici, cattivi esempi Loki è molto bello, suadente, simpatico. È il più sottile e sagace degli dei, abitanti in Asgrad. È amico di Thor ed è il traditore di Thor. Spesso con i suoi stratagemmi ha salvato le divinità, quindi tutti sopportano le sue doppiezze, perché sanno che potrebbero volgersi a loro vantaggio. Loki è un trickster, una divinità di cui non fidarsi, un imbroglione, che può trasformarsi in rana o aquila a piacimento. Nel giorno del Giudizio, non starà dalla parte delle divinità, però ugualmente troverà la morte. Questi dei del Nord fanno davvero paura: non hanno un’etica, vogliono solo primeggiare, ricorrono a penosi sotterfugi, a loro importa solo combattere i Giganti di vario genere (con novantanove teste, alti otto metri, genitori di lupi cattivissimi). Le diatribe dell’Olimpo, pur se crudeli e spesso ingiuste, sembrano favolette: Giunone/Era se la prende con le amanti del marito, vittime del marito. Europa, Leda, Eco, Io, sono donne punite per la loro avvenenza, e poverette, non avevano colpa, ma la moglie

del capo degli dei non poteva rivalersi sul marito, in cima alla gerarchia, per quanto del tutto incosciente nel desiderio di sedurre fanciulle. Veniva punita ingiustamente una donna. Non un popolo! Non famigliari e parenti e innocenti di passaggio. Ma la mitologia nordica insegna che non c’è da fidarsi di nessuno. Moriranno tutti, per fortuna, nel giorno di Ragnarok, la battaglia finale che infine colloca a capo del nuovo mondo, il regno di Idavoll, e gli dei saranno persone per bene, i figli di Thor, Modi e Magni, e Balder, buono e bello, e Vidar e Vali, figli di Odino. Odino era il più importante e il più antico degli dei, aveva dato un occhio in cambio della saggezza. Vedeva tutto, ma fu lui a portare la guerra nel mondo. Sopravviveva chi era nelle sue grazie, moriva chi da lui era tradito, tra i morti gli eroi sarebbero stati con onore accolti dalle splendide Valchirie, che nel Valhalla avranno garantito cibo, bevande, e combattimenti di lotta. Un bel futuro insomma. Poi non si può dimenticare

Voti d’aria di Paolo Di Stefano Piccioni e terrapiattisti «Usate i Canadair per spegnere l’incendio, e agite subito!». Con questo milionesimo tweet, Donald Trump (1) ha espresso con fulminea tempestività la sua opinione su come risolvere seduta stante la tragedia di Notre-Dame. Gli esperti, però, hanno fatto notare al presidente americano (1) che gli aereicisterna utilizzati per spegnere l’incendio della cattedrale parigina avrebbero rischiato di far crollare tutto. «Non è possibile intervenire dall’alto perché il getto dell’acqua farebbe più danno che altro, bisogna avvicinarsi di lato con getti orizzontali, come stanno facendo i colleghi francesi»: è quel che ha dichiarato il direttore centrale emergenze dei Vigili del Fuoco italiani. Personalmente, guardando le immagini televisive nella drammatica serata di lunedì scorso, avevo la tentazione di twittare il mio modesto, ma pur sempre rispettabile, punto di vista: non sarebbe stato meglio, piuttosto, liberare un gigantesco stormo di piccioni dopo averli rimpinzati di zucca e prugne,

noti lassativi naturali, in modo tale che il monumento della Cristianità venisse crivellato di cacca coprendosi rapidamente di guano, acclarata sostanza ignifuga? Mi era sembrato a occhio un rimedio ragionevole e non so che cosa mi abbia trattenuto dal postare il mio messaggio a beneficio degli sprovveduti pompieri francesi. Un mio amico, ospite a casa nostra per cena, continuava a incitarmi: «Mandalo, non si sa mai!». Finché la sua figlioletta, Sara, che stava lì davanti alla tv a occhi sgranati terrorizzata dalle fiamme, cominciò autorevolmente a sostenere un’altra tesi: secondo lei l’annaffiatoio e il secchiello con cui giocava in estate sulla spiaggia con le sue amiche sarebbero bastati a smorzare il fuoco e a risolvere quella maledetta faccenda. Al che suo padre ha immediatamente postato su Facebook la geniale soluzione di sua figlia, invitando tutti i bambini del mondo a dare il proprio contributo e raccogliendo in un quarto d’ora 150 mila like, compreso quello autorevolis-


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