MONDO MIGROS Pagine 2 / 4 – 5
SOCIETÀ Pagina 3
Proteggersi e difendere il percorso di cura prevede la possibilità per il curante di essere seguito
Allegro ma non sempre e non solo: l’arte di fischiettare si declina in molti modi, fino a diventare lingua
TEMPO LIBERO Pagina 17
Le sfide che attendono la Svizzera in relazione alla guerra in Ucraina e alla sua posizione nel mondo
ATTUALITÀ Pagina 27
Orsi, volpi e balene a Mesocco
Cammina cammina, il fascino dell’andare a piedi tra letteratura e cinema
CULTURA Pagina 45
Natascha
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Cambiare il mondo di notte, sui muri
A farmi intuire il fascino vertiginoso e la portata filosofica delle scritte sui muri è stato, anni fa, un monaco di clausura in Svizzera francese che, nella prima parte della sua vita, aveva visitato, con intenti poetico-antropologici, i gabinetti pubblici di numerose città. Aveva annotato le parole tracciate a penna, in matita, o incise col coltellino sulle pareti e sulle porte delle latrine. Partendo da quelle massime aveva poi scritto un testo d’ottima fattura che ebbe scarsissima diffusione; oggi è introvabile. Le verità scurrili, volgari, quasi sempre fuori dalle righe di quella raccolta di frasi – spesso, ma non solo, focalizzate sui livelli basici del sesso e dei suoi ingovernabili impulsi – erano rivelatorie di un’umanità nascosta e senza voce. Proprio lì, nei luoghi delle esigenze primarie non rinviabili, scaturisce una laida e sincera retorica: ripetitiva, oscena e goliardica, espressione sfacciata di tutto ciò che di innominabile, segretamente ci governa. Una bibbia per freudiani, un vasto e
grezzo manuale di scrittura del politicamente e del socialmente scorretto.
Svastiche, insulti rancorosi, dediche squallide, triviali filastrocche, disegni stilizzati di organi genitali e prestazioni (diciamo così) amatorie, professioni di fede politiche e sportive, numeri di telefono per fissare incontri disperati e senza filtri rosa: c’è tutto quello che nessuno oserebbe mai dire in pubblico e, al tempo stesso, il mondo sommerso e vulcanico della nostra psiche selvaggia. Tra vandalismo e desiderio di lasciare un segno irriverente e polemico, ma anche creativo, sugli edifici della normalità controllata, gli umani hanno iniziato prestissimo a imbrattare le pareti. Lo attestano le scritte rinvenute dagli archeologi sugli affreschi di Pompei, o il famoso graffito palatino (più o meno del 200 d.C.) che raffigura un uomo crocifisso, con la testa di un animale, forse un asino, tracciato probabilmente per irridere il culto cristiano.
Quei «discorsi» sui muri sono tentativi di graffiare, quasi sempre clandestinamente, il mondo dominante, le sue regole, le sue logiche. E tutta la cultura che ne deriva, dagli insulti nei gabinetti ai proclami politici sulle barricate ferroviarie, dai graffiti sulle fabbriche alla street art, contiene il seme della critica sociale e culturale al contesto nel quale viene realizzata. Scritte e immagini sui muri esprimono un universo parallelo, pubblico o privato, che partendo dall’istintualità animale o addirittura dall’inciviltà, può arrivare ad elevarsi a forme d’arte e di comunicazione nobilissime, coraggiose e positive.
Già qualche anno fa Banksy, leggendaria primula rossa dell’arte di strada, si è infilato nei cunicoli sotterranei nello scenario depresso di Gaza per andare a riempire le pareti con le sue attualissime icone pacifiste. Più vicino a noi, c’è il progetto dei Nevercrew –lo presentiamo a pag. 43 – che saliranno a Me-
socco e creeranno sulle pareti del paese uno zoo di balene, orsi come quelli dell’immagine di copertina, realizzata espressamente per «Azione», piccoli animali del bosco con l’intento di «portare i suoi visitatori quanto mai vicini alla natura e innescare in loro una dovuta riflessione sul rapporto che ci lega a questo Mondo. Il nostro Mondo».
Per quanto socialmente integrata e tutt’altro che clandestina, è una critica indiretta e visionaria alla realtà che ci circonda, sconnessa dalle proprie radici vitali. Sarà intrigante camminare per le vie di un villaggio trasformato in un libro scritto sulle pagine di pietra o di cemento dei suoi edifici.
Forse ci aiuterà, in futuro, a non ignorare anche creazioni meno famose e riconosciute, messaggi e codici immaginifici, inventati di notte da mani anonime e menti randagie, sempre in bilico tra arte, rabbia, ironia, amori, rivolta, paure esistenziali e poesia.
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 22 aprile 2024 Cooperativa Migros Ticino
◆ ● G.A.A. 6592 San t’Antonino
edizione 17
◆
Nevercrew
Fioretti
Carlo Silini
Il nuovo VOI Migros Partner Sementina
Rete di vendita ◆ Giovedì 25 aprile in via al Ticino 28, Migros Ticino aprirà, dopo Viganello, il secondo di una serie di nuovi supermercati di quartiere, ovvero il primo VOI Migros Partner nel Bellinzonese
Un gerente che conosce il territorio
Questo strategico formato di ultima generazione, fortemente voluto dall’azienda, completa al meglio la rete di vendita di Migros Ticino, con un’ottica di prossimità e servizio alla clientela.
La Cooperativa è convinta che il formato di vendita VOI si sposerà meglio con le caratteristiche della struttura e potrà sfruttare a pieno il potenziale dato dai 280 metri quadrati di superficie di vendita. L’investimento per trasformare il vecchio supermercato Migros di Sementina in un nuovissimo punto vendita VOI Migros Partner ha superato il mezzo milione di franchi.
Il moderno negozio s’inserisce bene in un quartiere residenziale densamente popolato ed è ben collegato: si trova nei pressi di un’importante arteria viaria e può essere raggiunto facilmente a piedi, con i principali mezzi pubblici o in automobile.
L’esercizio dispone di 17 parcheggi gratuiti per i clienti e si prefigge l’obiettivo di diventare ancor più un punto di riferimento per gli acquisti in zona.
Assortimento di VOI Migros Partner Sementina
Nel concreto, gli esercizi di vicinato VOI si distinguono dalle classiche filiali di Migros Ticino sia dal punto di vista dell’offerta sia per una differente concezione visiva degli spazi. Ciò che invece li accomuna, oltre all’ampiezza dell’offerta convenience, con diversi articoli di marca, e alla freschezza dei generi alimentari a marca Migros come pane, latticini, carni, frutta e verdura, è l’ottimo rapporto qualità-prezzo, inserito nell’ottica di una particolare attenzione alla produzione locale e forte
attenzione verso i mutevoli bisogni della clientela. Ai generi alimentari freschi e a lunga scadenza saranno affiancati tutta una serie di altri prodotti non alimentari e servizi, come ad esempio il Toto-Lotto. L’offerta sarà inoltre completata dall’assortimento «Chiosco» e da una curata selezione di bevande alcoliche. In sostanza VOI Sementina vuole offrire al vicinato un’esperienza d’acquisto al passo con i tempi: completa, buona, comoda e veloce. E pure fresca e simpatica. Con assortimenti ben calibrati e orientati a soddisfare i più attuali bisogni degli avventori, il punto vendita VOI Migros Partner di Sementina darà la possibilità di farvi sia una
Il mio prodotto preferito è...
spesa quotidiana veloce e completa, sia acquisti settimanali più importanti e consistenti. L’esercizio disporrà sia di una cassa tradizionale che di una cassa Subito.
Le iniziative per la riapertura di VOI Migros Partner Sementina
Per festeggiare degnamente con la popolazione questa nuova apertura, dal 25 aprile al 18 maggio verranno concessi a rotazione degli sconti del 20% su diversi assortimenti alimentari. Sabato 27 aprile dalle 8.00 alle 10.00 colazione offerta per tutti e dalle 10.00 alle 17.00 trucca bimbi e palloncini per i più piccoli. Inoltre, luned ì 29 e marted ì 30 aprile, per ogni spesa a partire da CHF 30 si riceverà in omaggio una pratica e sostenibile borsa VOI, realizzata con plastica al 100% riciclata. Orari e contatti di VOI Migros Partner Sementina
Il responsabile Fidan Kelmendi e i suoi tre collaboratori, cordiali e ben preparati, sono pronti a soddisfare i bisogni della clientela con cura e attenzione, in un clima accogliente e famigliare.
Orari di apertura
Lunedi-Venerdi: 8.00-19.00
Sabato: 8.00-18.30
Tel. 091 821 78 60.
Nostrani del Ticino ◆ Abbiamo chiesto ad alcuni clienti quali fossero i loro Nostrani preferiti
Salvatore, Stabio
Pancetta nostrana arrotolata
«Mi piacciono i salumi nostrani, e questa pancetta è davvero gustosa»
Giacomo, Locarno
Mér da Leventina
«Amo il miele, e mi fa piacere acquistare un prodotto della Leventina alla Migros»
Rita, Chiasso
Insalatt bèl e facc
«Cucino vegetariano e utilizzo volentieri i prodotti del nostro territorio che trovo alla Migros»
Info Migros ◆ Pino Parisi si avvicina al pensionamento
«Mi
Mancano ormai solo una manciata di settimane al pensionamento di Pino Parisi, trentaquattro anni al servizio di Migros Ticino, impegnato in una serie di posti di lavoro che l’hanno portato a conoscere profondamente la geografia e la mentalità del nostro territorio. Era infatti il 1990 quando Parisi muoveva i primi passi nel mondo Migros come venditore nel supermercato di Locarno, dove tre anni più tardi diventava responsabile del reparto non food. Nel 1996 gli venne affidata la gestione del supermercato di Ascona, nel 1998 quella di Tenero. Si sono quindi susseguite le filiali di Minusio, fino al 2008, Giubiasco, e di nuovo Locarno dal 2009. Dal 2013 Parisi è passato a gestire SportX e Micasa nella sede di Sant’Antonino, per poi «fermarsi» nel 2020 ad Agno. Più di tre decenni al servizio della clientela, con la disponibilità che lo contraddistingue e la voglia di mantenere degli «ottimi rapporti con tutti».
Raggiungiamo Pino Parisi in Abruzzo, terra natale della moglie, dove i due si stanno dedicando a una serie di lavori. Lui ha numerosi giorni di vacanza da recuperare che lo porteranno al pensionamento, a partire dal primo giugno. Ma Pino Parisi, dopo una vita movimentata e di successo, a contatto con centinaia di persone (a Migros Ticino sembrano conoscerlo tutti) non teme la tranquillità del pensionamento?
«No, assolutamente», risponde Pino con una risata. «Io ho cominciato a lavorare sin da piccolo con i miei genitori, quindi vado volentieri in pensione. Ho voglia di rigenerarmi e di vivere tranquillo».
E come riempirà le sue giornate? «A casa a Gerra Piano potrò dedicarmi ancora di più al mio hobby: coltivo rose, ne ho più di 80 specie. Inoltre, essendo io originario del Lazio e mia moglie dell’Abruzzo, scenderemo un po’ più spesso».
Susanne, Novaggio
Busción de cavra
«Tra i Nostrani trovo anche delle chicche come i mini busción, ideali per l’aperitivo»
Joël, Biasca
Luganighetta nostrana
«Per le mie grigliate estive d’abitudine compro carne ticinese»
Cosa si porta appresso di Migros Ticino? «Un enorme bagaglio di conoscenze, un bagaglio umano. Migros si è sempre dimostrata disponibile nei confronti dei dipendenti. Ho lavorato insieme a tre direttori, Hochstrasser, Emma e ora Keller, e da tutti e tre ho potuto apprendere qualcosa, perché c’è sempre da imparare. Riassumerei così la mia esperienza: umanità, cordialità e dialogo».
E a noi, a nome di tutta Migros Ticino, a Pino Parisi non resta che fare i nostri più sinceri auguri per un futuro all’insegna di tutto ciò che gli sta a cuore e lo fa stare bene.
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 22 aprile 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino MONDO MIGROS 2
L’affiatato team del nuovo VOI Migros Partner di Sementina; da sin. Suzana Kelmendi, Adnan Kelmendi, Fidan Kelmendi (gerente) e Albiona Murati. (Flavia Leuenberger)
porterò appresso la cordialità di Migros Ticino»
Pino Parisi gerente, 34 anni a Migros Ticino
1924, il disastro di San Paolo
Cent’anni fa a Bellinzona si verificò uno dei peggiori incidenti ferroviari della Svizzera
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Quanta vita nei nostri laghi?
Gradualmente, ma in modo deciso, ci si avvia verso la concretizzazione del Centro svizzero per i pesci
Sul palco si parla di razzismo
Le tre porte è uno spettacolo teatrale e didattico che si rivolge ai ragazzi. Ne parliamo con i creatori
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L’accudimento dei curanti della psiche
Medicina ◆ Essere psicologi e psicoterapeuti non compensa il bisogno di curare sé stessi
«Gli psicologi sono professionisti che si occupano del vissuto, delle emozioni, dei pensieri e del comportamento umano». È la definizione che l’Associazione ticinese psicologi dà dei suoi affiliati, il cui compito è prendersi cura «della salute psicologica dell’individuo e dei gruppi sociali svolgendo la propria funzione in diversi ambiti come quello privato (negli studi di consulenza psicologica e psicoterapia), istituzionale (ospedali, scuole, strutture psicosociali) e del lavoro (aziende, istituzioni pubbliche e private)».
È ampio il ventaglio di interventi psicologici «che aiutano a gestire meglio molte situazioni di difficoltà, disagio e malattia sia acuta sia cronica, con l’intento di favorire un migliore adattamento e contribuendo in tal modo alla salute psicofisica». Per la sua natura relazionale (fra terapeuta e paziente), il «mestiere del curare la mente» è particolarmente complesso e non esente da un certo coinvolgimento emotivo, ricaduta del tutto umana. «L’umanità del terapeuta curante in senso lato è condizione imprescindibile, ma la professionalità deve essere supportata dal saper limitare quelle parti che potrebbero interferire con l’equilibrata predisposizione verso l’altro di cui una presa a carico terapeutica necessita». Sono le parole del già presidente di ATP Nicholas Sacchi che ricorda come la Legge federale di abilitazione alla professione di psicoterapeuta imponga un numero cospicuo di ore di lavoro su se stessi e una supervisione (o intervisione alla pari per gli operatori «senior»). Ciò che permette al terapeuta di avvicinarsi all’altro con intelligenza: «Aspetto professionale della conoscenza di sé, del prendersi cura del proprio strumento-persona attraverso terapia personale, supervisione e intervisione, coadiuvate dall’onestà intellettuale e deontologica del sapere come si sta nel qui e ora; essere coscienti di come ci sentiamo, del periodo che attraversiamo in quel momento; riuscire a interpretare segni e sintomi che parlano di noi». In buona sostanza: «La persona che cura deve ricordarsi del benessere dell’altro, senza dimenticare chi è il polo ricevente e chi sta dall’altra parte».
Pure il terapeuta, dunque, può andare incontro a difficoltà e sofferenza a causa del lavoro, «in affanno» proprio come gli altri operatori sanitari evidenziati nella nuova guida dell’Organizzazione mondiale della Sanità e dell’Organizzazione Internazionale del lavoro (vedi: L’importanza di prendersi cura dei curanti, «Azione» n. 13 del 25 marzo). Molteplici gli strumenti per mantenere la rotta, nel rispetto della condizione di empatia essenziale nella relazione con il proprio paziente: «Lo psichiatra Cesare Maffei così l’ha definita: “Empatia è riconoscere il sentimento dell’altro, starci
Il caffè delle mamme
Il film La sala professori anima il dibattito sulla reale capacità degli adulti di educare
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pur rimanendo sé stessi”. Che significa: essere “umani ed empatici” per entrare in relazione, riuscendo a individuare il giusto limite, e a capire il nostro. Ad esempio, può succedere che io sia in una situazione di divorzio e debba entrare in relazione con un paziente che si trova proprio in questo frangente. Devo innanzitutto capire se davvero io sia in grado di portare avanti la seduta, rimanendo me stesso senza che la mia situazione personale entri in conflitto con quella del mio paziente. Ciò significa essere genuino ma onesto nel non inquinare il campo terapeutico entrando in relazione con quello dell’altro». Proteggersi, e proteggere il percorso di cura, prevede la possibilità di affidarsi a una sorta di «bussola» (è il sostegno tra professionisti di cui parlavamo) ed esercitare la «pazienza», parola la cui etimologia spiega tutto perché origina dal greco pathein e pathos (dolore corporale e spirituale) e indica la facoltà umana di rimandare la propria reazione alle avversità, mantenendo un atteggiamento neutro nei confronti dello stimolo». Si comprende che il terapeuta non è esente dalla condivisione del dolore, deve però trovare un equilibrio: «Que-
sta relazione comporta lo stare nella sofferenza altrui, ma pure nella nostra, anche se il nostro dolore deve essere mediato in funzione del benessere della persona che ci chiede aiuto. Poi, spetta a noi fare capo agli strumenti per chiedere aiuto a nostra volta, come abbiamo visto parlando di super e intervisione».
La cosiddetta «schermatura» del terapeuta è una «membrana porosa» che gli permette di accogliere in modo efficace le storie dei propri pazienti: «È qualcosa di osmotico e permeabile che favorisce il passaggio relazionale, e come tutti i processi osmotici è bidirezionale perché “l’altro” possa sentire la mia umanità». Di fatto, in questo scambio osmotico il terapeuta permette al suo paziente di percepire la sua presenza e lo aiuta a decomprimere. In un rapporto terapeutico non va sottostimato l’impatto delle «chiusure» di diverso tipo con cui il curante si trova a fare i conti: «Non se ne parla per una sorta di pudore, ma succedono diversi tipi di chiusure: quelle concordate (modo e data) nelle quali si lavora sul lasciarsi e su cosa significhi chiudere questo tipo di relazione; e quelle un po’ nascoste, come quando il paziente dirada gli appuntamenti fino
a non più presentarsi, senza consapevolezza, ma ci si rende conto che così è forse venuta meno la spinta iniziale. E il rischio è che rimanga qualcosa di irrisolto».
Il principe dei «tagli» è però il drop out : «La persona sparisce senza spiegazioni. E non richiama più. Così si rimane in una situazione deontologicamente un po’ difficile: ci si chiede se qualcosa sia venuto meno nella relazione e talvolta noi terapeuti abbiamo timore di dire che ci sentiamo abbandonati, anche se si tratta di una variabile umana che può capitare». Anche in questo caso la supervisione aiuta a comprendere il significato della situazione: «Ci interroghiamo sulle nostre eventuali responsabilità, se abbiamo inconsapevolmente messo una distanza, e la supervisione permette al racconto del terapeuta di essere letto in un’ottica speculativa». L’esperienza insegna che alcuni di questi pazienti ritornano: «Magari con un messaggio, un genitore che chiama per aggiornarci e via dicendo». Ciò fa sì che si riescano a definire i contorni di un distacco come questo. Altro caso è perdere il paziente: «È un episodio estremamente pervasivo perché genera sensi di colpa verso la persona e ver-
so i suoi cari (“Perché non me ne sono accorto? Potevo fare di più?”). Chi, fra i curanti, entra in una situazione come questa senza la dovuta rete di sostegno, rischia di precipitare: «Il terapeuta custodisce una storia, appunti, cartelle, e a volte sono sue personali considerazioni. Allora, talvolta giova rileggere tutto o alcune parti: si rivive la situazione e ciò aiuta a elaborare un distacco così netto e aggressivo come la morte di un proprio paziente. Possiamo dire che il curante non “piange” da solo, ma “in compagnia” del supervisore».
Oggi i tabù attorno a questa professione si sono un po’ attenuati, ma il lavoro è sensibilmente aumentato e questo ha avuto un impatto anche sullo stato di benessere del terapeuta: «Come tutte le situazioni in evoluzione, il cambio di paradigma degli ultimi anni ha avvicinato la popolazione a noi psicologi e psicoterapeuti, ma ci impone di prestare ancora più attenzione a come stiamo: dobbiamo essere attenti ad accogliere un numero di pazienti che siamo in grado di seguire al meglio delle nostre risorse, e dunque ci vuole più cautela, ricordandoci che l’essere curanti non deve affatto sostituire l’idea di curare noi stessi».
SOCIETÀ ● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 22 aprile 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino 3
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Maria Grazia Buletti
La freschezza è in tavola
Attualità ◆ Classica insalata dei nostri campi, la lattuga foglia di quercia arricchisce la tavola di gusto e leggerezza. Questa settimana alla tua Migros ti aspetta un’offerta speciale sull’ortaggio di produzione ticinese
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La foglia di quercia è un tipo di lattuga di origini antiche che, come le altre lattughe, probabilmente era già coltivata fin dall’Antico Egitto. I suoi cespi si caratterizzano per la forma a rosetta. Disponibile nelle varietà rossa e verde, possiede un sapore delicato e leggermente nocciolato, a basso contenuto di sostanze amarognole. Il nome deriva dalla forma delle sue foglie, che ricordano appunto quelle di un albero di quercia americana. Ha un buon tenore di vitamine e sali minerali.
La foglia di quercia è un’insalata della stagione primaverile precoce, i trapianti avvengono nel mese di gennaio e febbraio. Viene coltivata in serre di vetro, tunnel e multi-tunnel, in campo aperto durante la stagione più calda. La densità al metro quadro è di ca. 1214 piante. La pacciamatura è eseguita con teli biodegradabili, allo scopo di contrastare la problematica delle infestanti. Nella fase iniziale della coltivazione, per ovviare alle temperature ancora rigide, sul campo viene adagiato uno speciale tessuto definito agrill, che protegge le piante dal freddo. Tra le principali avversità durante la coltura vi sono gli afidi e la bremia, che si cerca di gestire attraverso le irrigazioni mirate e la ventilazione all’interno delle strutture. La raccolta avviene a mano, quando i cespi raggiungono un peso minimo di ca. 230 g.
Per una pulizia più sostenibile
Una volta raccolta, la foglia di quercia va trattata con cura, poiché è molto delicata e si deteriora velocemente. Appena acquistata, l’ideale sarebbe conservarla in frigorifero nel cassetto delle verdure, senza lavarla, e consumarla entro un paio di giorni. Per evitare la formazione di troppa umidità, nel sacchetto si può inserire un foglio di carta da cucina. Il lavaggio dell’insalata andrebbe effettuato poco prima del consumo, al fine di mantenere al meglio la freschezza e le proprietà nutrizionali. Rimuovere le foglie esterne appassite o danneggiate. Staccare delicatamente le foglie con le mani, non è necessario un coltello. Sciacquare le foglie sotto l’acqua corrente o immergerle in una ciotola con dell’acqua fredda. Asciugare l’insalata con l’ausilio di una centrifuga oppure tamponarla delicatamente con un panno da cucina pulito. Mettere in un’insalatiera e condire a piacere.
L’insalata in generale va condita solo al momento del consumo. La foglia di quercia possiede un sapore delicato, pertanto è consigliato un condimento leggero per preservarne al meglio le qualità. Anche solo un filo d’olio, un po’ di aceto di vino o balsamico e qualche erbetta aromatica sono sufficienti. A piacimento si può arricchire ulteriormente con qualche oliva, della rucola, noci e semi, pomodorini, ravanelli, del formaggio fresco sbriciolato, oppure anche della frutta come mele, fragole o pere per un contrasto piacevole e seducente.
Novità ◆ Buona per la casa e per l’ambiente: la nuova linea di prodotti Nature Clean della Migros promette una pulizia impeccabile nel rispetto della natura
Quelli che finora erano gli apprezzati prodotti per la pulizia Migros Plus ora si chiamano Nature Clean. Amici della natura ed efficaci più che mai, questi prodotti per la pulizia di tutta la casa si presentano con un design moderno e rinnovato dove non poteva non spiccare il color verde. Nature Clean comprende una ventina di prodotti dalla biodegradabilità molto alta, che va da un minino del 96% fino addirittura al 100% per alcuni articoli dell’assortimento. La forza pulente ed efficacia non hanno tuttavia nulla da invidiare ai detergenti e detersivi convenzionali. Tutti gli articoli sono privi di microplastiche e gran parte di essi hanno la certificazione vegana, così come sono esenti da ingredienti di origine animale. Gli imballaggi sono riciclabili e per produrli viene utilizzata ancora più plastica riciclata.
La gamma, che comprende attualmente oltre venti prodotti e verrà man mano ulteriormente ampliata, spazia dai detersivi liquidi e in polvere per il bucato alle tabs e al brillantante per lavastoviglie, dai detergenti per il bagno, il wc e la cucina al disotturante per scarichi, dai detergenti per vetri a quelli universali, fino all’aceto anticalcare e allo smacchiatore per prelavaggio.
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 22 aprile 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino MONDO MIGROS 4
Lo specialista delle piante
Attualità ◆ I prodotti Compo-Gesal sono l’alleato ideale per ottenere un giardino sano e rigoglioso. Un ampio e variegato assortimento di questo marchio leader è disponibile presso i Do it + Garden Migros. Inoltre, sabato 27 aprile 2024, al negozio di Losone, un esperto del verde sarà a disposizione per una giornata informativa gratuita alla clientela
Il marchio Compo-Gesal da oltre sessant’anni offre prodotti e soluzioni di qualità per il settore del verde a tutto tondo. Dai terricci ai concimi sia solidi sia liquidi per piante e tappeti erbosi, dai prodotti fitosanitari alle sementi per prati fino a una particolare attenzione ai trattamenti biologici, nel vasto assortimento Compo-Gesal ognuno può trovare l’articolo più idoneo ai suoi bisogni per poter ottenere un giardino da sogno con il fai da te.
Appuntamento da non perdere
Sabato 27 aprile 2024, nel negozio specializzato Do it + Garden di Losone, uno specialista della Compo-Gesal sarà gratuitamente a disposizione della clientela per una giornata informativa e di consulenza in merito a tutte le questioni legate al giardinaggio, alla cura del verde e alla lotta contro i parassiti. Nella fattispecie potrete rivolgere all’esperto tutti i vostri dubbi e domande relative, per esempio, a piante, orto, giardino, tappeti erbosi, stagni, impianti di irrigazione, lotte antiparassitarie, come pure piante da appartamento e molto altro. Segnatelo in agenda!
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 22 aprile 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino MONDO MIGROS 5 Bei allen Angeboten sind bereits reduzierte Artikel ausgenommen. Angebote gelten nur vom 23.4. bis 29.4.2023, solange Vorrat Tutti i prodotti Ben & Jerry’s per es. Ben & Jerry’s Cookie Dough, 100 ml 2.80 invece di 3.50 20% Vegano:
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Una tragedia che ha segnato una comunità
Storia ◆ Cento anni fa, la notte del 23 aprile 1924, alla stazione di smistamento di San Paolo a Bellinzona si verificò uno dei più gravi disastri ferroviari della Svizzera, con quindici morti e numerosi feriti
Romano Venziani
Quella sera, Attilio aveva preso posto come al solito al grande tavolo della cucina attorniato da tutta la famiglia. La moglie Margherita, con in grembo l’ultimo nato, che portava il nome del padre e non aveva nemmeno un anno, e gli altri quattro figli. Rita, la maggiore, di quindici anni, Elvira di sei, Remo di cinque e Frida di tre anni.
Era di turno quella notte, Attilio, e così avevano mangiato presto, con fiammate di luce che filtravano dalla finestra disegnando rosse geometrie sul pavimento. E niente avrebbe potuto fargli immaginare, anche solo lontanamente, che quella sarebbe stata la sua ultima cena.
Uscito di casa, si era soffermato a osservare le mucche, arrivate ciondolanti dal viottolo, la Caraa Marscia, che ora bevevano tranquillamente lunghe sorsate di acqua della fontana. Poi aveva inforcato la bicicletta ed era partito, calcandosi in testa il berretto e alzando il bavero della giacca. Era una serata limpida, ma la temperatura in tutto il giorno non aveva superato gli undici gradi, nonostante si fosse quasi alla fine di aprile.
Attilio De Gottardi, di Lumino, faceva il ferroviere e quella notte doveva entrare in servizio a Bellinzona come fuochista sul vagone-riscaldamento del treno Chiasso-Basilea. Il convoglio, il 51 bis, trainato da due locomotive, comprendeva anche le carrozze internazionali provenienti da Milano, dirette a Berlino, ed era giunto in stazione con un ritardo di quarantasei minuti. E questa era stata la prima fatalità.
All’origine dell’incidente vi è il concatenarsi di una serie di fatalità ed errori, micidiale poi il rogo innescato da un vagone tedesco illuminato a gas
A Bellinzona, la formazione del treno viene cambiata. Dietro alle due locomotrici, il cosiddetto vagone di protezione, vuoto, è sostituito dal vagone-riscaldamento, dove prendono posto Attilio e Stefano Scesco, fuochista di Biasca, il quale, terminato il servizio, preferisce tornare a casa in compagnia del collega e non sistemarsi in una carrozza passeggeri. Seguono poi un vagone germanico di prima e seconda classe illuminato a gas, diretto a Berlino, uno delle Ferrovie di Stato italiane, con destinazione Basilea, e altre sei carrozze, tra cui il vagone letto Genova-Basilea.
Alle 2.25, il capostazione Federico Schaad fischia la partenza, il 51 bis si mette in moto e sferragliando prende velocità lasciando Bellinzona di nuovo avvolta dal silenzio. Sui locomotori il rumore invece è assordante e nessuno si accorge del capostazione, che si affanna correndo lungo i binari, soffiando nella sua trombetta e agitando la lanterna, da cui si sprigionano fiochi lampi di luce rossa.
Poche centinaia di metri dopo, all’altezza della stazione di smistamento di San Paolo, Carlo Buffi, macchinista della prima locomotiva, e Pietro Boni, fuochista, che lo assiste, si accorgono dell’arrivo di un convoglio proveniente da nord, a cui stanno per tagliare la strada. Inutilmente Buffi aziona i freni d’emergenza, ma è troppo tardi. Si butta
dal treno in corsa e, un attimo dopo, c’è lo schianto.
Mentre i locomotori e le carrozze di testa s’impennano, un tremendo boato scuote la città addormentata. Lo scontro ha spaccato i serbatoi del gas del vagone tedesco, che si è incastrato in quello del riscaldamento ed è esploso, innescando un pauroso incendio, che ridurrà in cenere tre carrozze.
È una scena apocalittica, quella che si presenta ai soccorritori arrivati tempestivamente sul posto. Le fiamme che s’innalzano dai vagoni incendiati lacerano un’oscurità inzuppata di fumo e di grida, mentre il suono delle campane della Collegiata e di Palazzo civico si diffonde sulla città come un cupo presagio. Le locomotive sono ormai un groviglio di lamiere e, lungo i binari, sono disseminati rottami e brandelli di corpi dilaniati e carbonizzati.
All’origine del disastro, il concatenarsi di una serie di fatalità, negligenze, errori di manovra e di comunicazione, a cui vanno ad aggiungersi i lavori non ancora conclusi del nuovo impianto centrale elettrico degli scambi, così come la malaugu-
rata presenza del vagone tedesco illuminato a gas (un tipo di vagone allora vietato in Germania, ma ancora usato sporadicamente).
Quella notte, due convogli provenienti da nord sono attesi a Bellinzona. Il treno merci 8573, per il quale è già stato azionato lo scambio per deviarlo alla stazione di smistamento di San Paolo, e l’espresso 70, proveniente da Basilea e diretto a Chiasso. Visto il ritardo del primo, ad Ambrì-Piotta si accorda la precedenza al treno passeggeri, ma la comunicazione dell’avvenuto cambio si ferma a Biasca e non giungerà mai a destinazione. Quando il capostazione Schaad sente la campana che annuncia l’arrivo di un treno da nord, chiama Claro per sapere di quale si tratta. Gli rispondono che è l’espresso 70, allora lui avvisa lo scambista per telefono, ma quest’ultimo non arriverà in tempo a rimettere lo scambio nella posizione dritta (l’operazione era ancora fatta a mano). Schaad cerca di rincorrere e arrestare il 51 bis, a cui ha appena dato il via libera, ma ormai è troppo tardi. In quegli stessi istanti, sulla locomotiva dell’espresso 70, il fuochista Vittore
scaldamento gravemente ustionato. Muore il giorno dopo all’ospedale, assistito dalla moglie Margherita.
Carlo Buffi, che si è buttato dalla locomotiva poco prima dell’impatto, riporta ferite tali che ne provocheranno la morte l’anno successivo.
Le nove vittime tra i passeggeri sono Karl Helfferich, politico ed economista, già vicecancelliere del Reich, ministro delle finanze nel 1915-16 e all’epoca capo del Partito Popolare Nazionale Tedesco (Deutschnationale Volkspartei), sua madre Augusta, il ventinovenne Ferdinando Planzi, commerciante originario di Malvaglia, ma domiciliato a Milano, Albert His, studente d’architettura non ancora ventenne, di Basilea; i coniugi Sigfried e Ilonka Wertheim di Berlino; l’austriaco Otto Brühl; Franz Fröhlich, chimico tedesco; Melita (o Mimma) Godet di Brema.
Brunetti si accorge che il semaforo in entrata a San Paolo è chiuso, lo dice al macchinista, Maurizio Cavigioli, che riduce la velocità, ma non si ferma, convinto che il segnale riguarda il merci che li segue. Ancora poche decine di metri, poi, Brunetti vede uscire dalla notte il 51 bis e si mette a gridare «Alt! Alt! Scambio falso, andiamo addosso al treno!» e si butta dalla locomotiva salvandosi la vita.
Quando i primi barlumi di luce annunciano l’alba di quel 23 aprile, la notizia della sciagura ha già fatto il giro della città e dei villaggi vicini e una folla di bellinzonesi assiste sgomenta all’azione febbrile dei soccorritori, che riempie l’aria di un’energia palpabile. L’incendio è domato, i feriti trasportati all’ospedale, così come i miseri resti delle vittime, ma si cercano elementi che aiutino nel non facile compito d’identificazione e si lotta contro il tempo per liberare chi è ancora prigioniero nell’ammasso dei rottami.
Anselmo Burg, macchinista della seconda locomotrice del 51 bis, ferito gravemente e intrappolato nella cabina, viene liberato, ricorrendo alla fiamma ossidrica, solo attorno alle otto del mattino. Anche Pietro Snozzi, trentunenne di Carasso, che si trovava sul vagone-riscaldamento dell’espresso 70, rimane inchiodato per cinque ore con la gamba destra sfracellata tra i resti di due locomotive. Gliela amputeranno all’ospedale. I morti tra il personale sono sei. Giacomo Briner, cinquantaquattro anni, macchinista, che poco tempo prima ha già perso la moglie. Lascia quattro figli. Il quarantenne Gustavo Schwarz, fuochista, lascia la moglie e i tre figli, come Pietro Boni, quarantanove anni, di Arbedo. Maurizio Cavigioli, di Bellinzona, quarantacinque anni, al comando della prima motrice del treno 70, Stefano Scesco, quarantadue anni, di Biasca. E Attilio De Gottardi, trentotto anni, che viene estratto dal carro-ri-
Fin da subito, mentre il Procuratore pubblico Martinoli apre l’inchiesta, congetture e speculazioni sulle cause del disastro si diffondono a macchia d’olio. Non mancano le ipotesi fantapolitiche, come quella del «Deutsche Tageblatt», che si azzarda a scrivere «è stato voluto apposta per uccidere Helfferich… con un piano prestabilito e dietro l’istigazione della framassoneria mondiale» Più pragmatiche le organizzazioni sindacali, che accusano le ferrovie di risparmiare sul personale, sottoponendolo a turni estenuanti (il macchinista Cavigioli stava lavorando da quindici ore). Tutti auspicano l’adozione di nuovi sistemi di sicurezza, l’elettrificazione e la centralizzazione di scambi e segnali, l’interdizione generalizzata delle carrozze illuminate a gas. Misure che verranno effettivamente adottate nei mesi e negli anni seguenti.
Il 23 novembre del 1925 si apre a Bellinzona il processo contro i presunti responsabili dell’incidente, ma il procedimento si chiude con una sentenza d’abbandono.
La tragedia di San Paolo ha lasciato un segno profondo nella memoria collettiva ed è stata una lezione dolorosa sull’importanza della sicurezza ferroviaria e sulla necessità di vigilare costantemente sull’incolumità dei passeggeri e del personale. Il suo ricordo oggi è tramandato dal monumento di Giuseppe Chiattone, inaugurato il giorno di Pasqua del 1927 sotto gli ippocastani del parco Benigno Antognini di Bellinzona, e dal contenuto di due faldoni depositati all’Archivio dei Stato. Preziosi documenti storici, custoditi dal sindacato del personale di locomotiva (SEV-LPT), che, una ventina d’anni fa, li ha donati alla Fondazione Pellegrini Canevascini. Sono gli interrogatori di protagonisti e testimoni, le perizie, gli atti del processo, ritagli di stampa, qualche foto d’epoca e… il coperchio della scatola originale, con la scritta vergata a mano dall’allora presidente del sindacato, Armando Besomi: «Colui che apre questa scatola sappia di aprire uno scrigno del tempo» 1
1) Si ringraziano per la collaborazione Manuele e Simone De Gottardi, la Fondazione Pellegrini Canevascini, Emanuele Besomi, Thomas Giedemann (segretario sindacale SEV-LPT).
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Disastro di San Paolo, veduta panoramica dell’incidente, 1924 (Fondazione Pellegrini Canevascini); in basso, i funerali delle vittime a Bellinzona (per gentile concessione dei nipoti di Attilio De Gottardi)
L’esperienza di gusto dolce piccante
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Lasciatevi ispirare!
Il Centro svizzero dei pesci non è più un sogno
Biodiversità ◆ È stato definito «cantiere del secolo» dalla Federazione svizzera di pesca: un progetto che dopo l’acquisto del sedime può ora veleggiare verso l’agognata realizzazione
Raimondo Locatelli
Gradualmente, ma in modo deciso, ci si avvia verso la concretizzazione di un sogno che, ancora pochi anni or sono, appariva un’illusione e fors’anche un’utopia. Ci riferiamo al Centro svizzero dei pesci, qualcosa di analogo a quanto già esiste da oltre un secolo per gli uccelli a Sempach, ovvero la Stazione ornitologica, la cui «statura» morale è di indubbia valenza considerando la sua multiforme e straordinaria attività scientifica e di divulgazione nonché di sensibilizzazione a livello di opinione pubblica.
L’importanza dell’acqua
Il settore della pesca, sinora non ha mai avuto in Svizzera qualcosa del genere, eppure da tempo se ne avverte la necessità, alla luce di alcuni concetti di base: l’acqua e gli organismi acquatici che vi vivono sono importanti per la biodiversità del Paese oggigiorno sempre più minacciata (basti considerare i mutamenti climatici e la siccità). Per innumerevoli secoli i pesci hanno rappresentato un’importante fonte alimentare e tuttora operano oltre duecento pescatori professionisti, mentre sono almeno 150mila coloro che praticano la pesca quale piacevole passatempo popolare, vivendo a diretto contatto con l’acqua non soltanto per catturare l’uno o l’altro pesce, ma pure per salvaguardare questo bene primario prezioso e anzi indispensabile, tanto è vero che i possessori di una patente di pesca sono considerati a giusta ragione «sentinelle dell’ambiente». Sebbene acqua e pesci affascinino, va detto che questi esseri viventi per la maggior parte della nostra popolazione sono sconosciuti, e ciò proprio perché nel contesto elvetico manca un centro di esperienza e di formazione a favore del pianeta-acqua, dei pesci e di una pesca rispettosa e sostenibile, benché esistano strutture museali (in primis, il Museo della pesca a Caslano) che svolgono un apprezzabile compito divulgativo e didattico soprattutto a livello scolastico. Senza trascurare (per stare sempre al contesto ticinese) l’attività promozionale, di educazione e di responsabilizzazione a opera della Federazione ticinese di acquicoltura e pesca (Ftap) che nel nostro Cantone conta alcune migliaia di affiliati raggruppati in una quindicina di associazioni.
Il motore trainante della Federazione
Quale capofila del progetto, che nella Federazione svizzera di pesca (Fsp) ha il proprio motore trainante nelle funzioni di «madrina», funge Adrian Aeschlimann del Centro svizzero di competenza per la pesca (Cscp) e la prima tappa miliare lungo il complesso percorso di maturazione del dossier risale all’agosto 2020, in pieno periodo pandemico, in occasione dell’assise della federazione-mantello dei pescatori. A Olten, infatti, i delegati della Fsp hanno accolto a pieni voti la proposta del comitato direttivo di accantonare un contributo di 25mila franchi a sostegno di un’idea che allora era ancora in una fase semi-embrionale, ossia acquistare – non distante dall’Ufficio federale dell’ambiente –una piscicoltura dismessa, posizionata in riva al lago di Moos nel Comune di Moosseedorf (Canton Berna), su un
terreno di 5500 metri quadrati, collocato in una riserva naturale cantonale, così da ricavarne il Centro svizzero dei pesci.
Nel dicembre 2021, è stato raggiunto un accordo con il proprietario del sedime ed è stata creata una fondazione ad hoc, con lo scopo di pianificare, realizzare e gestire la prevista struttura, assegnando ad Adrian Aeschlimann l’incarico di direttore della fondazione stessa. Nel maggio 2022, il Club dei 111 ha accordato un prestito senza interessi e a durata indeterminata di 250mila franchi per comperare il terreno (costo di 1,5 milioni) e, nel frattempo, le varie Federazioni cantonali di pesca hanno versato contributi di sostegno, come è stato il caso dei membri dell’ufficio direttivo e di amministrazione della Fsp che, nell’assemblea a Locarno di quello stesso anno, hanno donato mille franchi ciascuno, dando il via al Club dei 1000
del Centro svizzero. Sempre nel 2022 è stato firmato il contratto di acquisto (effettivo a partire dal 24 gennaio 2023) e sono sensibilmente cresciute le donazioni da parte di varie Federazioni cantonali di pesca, dando così slancio alla pianificazione e progettazione del complesso. Nel 2023 l’attenzione si è concentrata soprattutto sulla selezione del progetto migliore, con l’intento di realizzare un edificio eco-compatibile e sostenibile, come tiene a sottolineare il direttore Adrian Aeschlimann, considerando che i Comuni di Moosseedorf e di Schönbühl-Urtenen hanno creato una propria fondazione per i diritti di pesca, per cui si potrà continuare a pescare sul Moossee. Dunque i 5500 metri quadrati sul lago di Moos da oltre un anno appartengono di fatto alla Fondazione Centro svizzero dei pesci in quanto promotrice della struttura, ma si continua ovviamente a raccogliere fondi per il
relativo finanziamento. Nel contempo, sono proseguite la procedura di progettazione architettonica e la pianificazione del Centro, mentre durante il 2024 ci si prefigge di ottenere la licenza edilizia, che spalancherà le porte alla fase vera e propria di costruzione sul sito di Moossee (ora zona di pubblica utilità, mentre prima era zona agricola), con un investimento attorno ai 5 milioni di franchi.
Miniera di dati e informazioni
Il Centro svizzero dei pesci – definito «cantiere del secolo» dalla Fsp (circa 30mila «adepti»), che vanta un’attività ultracentenaria e in cui il Ticino detiene una posizione privilegiata, costituendo con la Ftap una fra le Federazioni con il maggior numero di affiliati a livello svizzero – si propone di costituire un polo per le acque e
la pesca, coinvolgendo così ampi strati della popolazione. In effetti, mentre il mondo sottomarino è osservato con grande fascino, pochi sanno cosa si nasconda sotto la superficie dell’acqua dei nostri laghi o fiumi, trascurando peraltro il paesaggio subacqueo che richiede una maggiore protezione. Come è per la Stazione ornitologica di Sempach, il Moossee dovrebbe insomma rappresentare un luogo di richiamo nazionale per le questioni relative alla biodiversità, alla protezione delle acque e alla salvaguardia della pesca e, quindi, delle specie ittiche che popolano i nostri corsi d’acqua. La pressione sulle acque, sui pesci autoctoni e sugli altri organismi acquatici richiede appropriate proposte di tutela e salvaguardia in un’ottica futura, consentendo a un largo pubblico di conoscere meglio la biodiversità, la flora e la fauna delle nostre acque. Da ciò il proposito di promuovere esposizioni temporanee, visite guidate, un sentiero didattico, lezioni, stage eccetera.
Conseguentemente, il Centro svizzero dei pesci – nel contesto di una visione d’assieme su tutta la Svizzera e la regione alpina limitrofa – vuole illustrare il mondo affascinante dei pesci e il loro habitat per fornire risposte appropriate a molti quesiti, ad esempio su cosa sia una pesca sostenibile, su perché i temoli stanno scomparendo, o perché molti canali e corsi d’acqua sono interrati per migliaia di chilometri in tubi sotterranei, e cosa bisogna fare affinché le nostre acque ritornino a essere naturali, quali sono gli effetti derivanti dall’impiego di erbicidi e pesticidi in agricoltura, quali gli ostacoli alla migrazione piscicola, com’è la qualità dell’acqua, quali le conseguenze del cambiamento climatico, ecc. Senza ovviamente trascurare il tema della pesca dal punto di vista culturale, con la sua storia e le prospettive future.
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Un’esperienza di vita sott’acqua nel tunnel che sarà realizzato. (Adrian Aeschlimann)
Idillio al lago di Moos. (Adrian Aeschlimann)
Quelle scritte che ti si appiccicano addosso
Prevenzione delle discriminazioni ◆ Le tre porte: un lavoro teatrale e didattico per parlare di razzismo con i ragazzi
Sara Rossi Guidicelli
Due ragazze e un ragazzo sono chiusi in un bagno della loro scuola, hanno 13, 12 e 11 anni. Hanno paura, ma cominciano a parlare, forse per sentirsi meno soli, meno spaventati, forse perché hanno bisogno di sfogarsi, forse perché è il compito più importante a quell’età: confrontarsi con i pari.
Questa è la trama, a grandissime linee, di un nuovo spettacolo teatrale sulla scena ticinese: un progetto che rientra nell’ambito della lotta al razzismo, promosso dall’Associazione Culturale Lumina e dal Centro per la Prevenzione delle Discriminazioni del Canton Ticino.
Vado a vedere le prove, lo spettacolo è quasi pronto. Qui non si parla di razzismo violento, quello delle parolacce e delle discriminazioni pesanti; si tratta piuttosto di quelle mezze frasi che diciamo tutti, di quegli atteggiamenti di cui quasi non ci accorgiamo, ma che subiamo e facciamo subire quotidianamente. Quella strana abitudine umana di fare clan, di escludere chi non ne fa parte, di etichettare subito le persone, di commentare un compagno in particolare facendo ridere tutti gli altri.
I tre ragazzi chiusi nel bagno perché sono stati puniti ingiustamente e devono pulire le scritte sulle porte dei gabinetti, sono Eden, Mitja e Lea. La prima ha i genitori eritrei, il secondo è russo, la terza è tremendamente sola, a rischio autolesionismo, così magra che sembra anoressica. «Cosa facciamo adesso?», chiede Mitja. «Quello che facciamo sempre: ci adattiamo», risponde Eden. Lea ha con sé una torcia e la luce è un sollievo. Iniziano a conoscersi e a parlare.
Il testo, scritto dalla drammaturga e giornalista Valentina Grignoli, che è anche collaboratrice di «Azione», è nato a poco a poco, è cresciuto con gli incontri per poi consolidarsi in fase di scrittura. «È stato anche un lavoro di indagine nel mondo degli adolescenti. Un periodo delicato, dove si tende a starsene chiusi nel proprio guscio, ed è difficile a volte trovare la forza di
ascoltare, parlare e vedere l’altro». Valentina ha collaborato con uno psicologo dell’infanzia, una pedagogista, e ha scelto con cura il linguaggio da usare parlando proprio con i ragazzi stessi. Il testo è dunque frutto di una ricerca anche interiore: i tre attori, Taty Rossi, Igor Mamlenkov e Aglaja Amadò hanno prima di tutto dato ai loro personaggi qualcosa di proprio. Ma sono anche andati a intervistare altre persone, ragazzini adottati, con la pelle cosiddetta «scura», bambine di prima e seconda generazione la cui famiglia ha un percorso migratorio, russi e russe che in questo momento faticano a far capire che non hanno scelto loro quale passaporto avere, quale governo, quale guerra scatenare.
Sulle porte del bagno ci sono scritte ingiuriose, soprattutto contro i «diversi». Ma diversi da chi? «Quanto sono facili da cancellare queste scritte, ma il problema è che ti si appiccicano addosso», dice Lea. I ragazzi, si sa, possono essere crudeli. Devono sentirsi forti, a volte a discapito degli altri; vogliono sentirsi partecipi, a volte escludendo altri; ma per esistere bisogna per forza schiacciare qualcuno? «Le parole
possono essere più violente delle mani», dicono. «Perché possono arrivare fino al cuore e ferirlo».
L’idea dello spettacolo l’ha avuta Aglaja Amadò, attrice e promotrice culturale: «Mi sembrava che nelle programmazioni di teatro per ragazzi mancasse la discussione sul tema del razzismo. Ho coinvolto tutte queste persone, oltre al Centro per la Prevenzione delle Discriminazioni, per lavorare già sui bambini, sugli adolescenti, perché forse dopo è un po’ tardi. E mi sembra importante dire che la nostra compagnia è già un esempio di inclusività, portando in scena due rappresentanti di gruppi discriminati: parliamo di noi e rappresentiamo molti altri, non parliamo di problemi per sentito dire».
Lo spettacolo, intitolato Le tre porte, e curato nella regia da Viviana Gysin, andrà nei teatri e nelle scuole per un pubblico dagli 11 anni. Sarà seguito da una discussione, a seconda delle esigenze e delle richieste degli istituti scolastici o culturali.
«Sono loro le tre porte», mi spiega la regista. «Tre persone che si aprono raccontando sé stesse e ascoltando
gli altri: abbiamo lavorato tanto sulle parole, sui vissuti, sulle richieste d’aiuto inespresse. E poi ogni spettatore e spettatrice si farà il suo viaggio. Noi non vogliamo dire “come si fa”, ricette non ce ne sono, vogliamo capire che cosa succede dentro di noi. E lo facciamo raccontando di tre persone che iniziano a guardarsi in giro diversamente e si accorgono di qualcosa di importante che riguarda il modo di definire gli individui».
Taty Rossi racconta della difficoltà che, negli anni, ha riscontrato in Italia, dove è nata. Da ragazzina le chiedevano spesso da dove venisse «veramente», perché parlasse così bene italiano, se avesse almeno un genitore bianco. Ancora oggi, invece, le chiedono – e a volte non le chiedono nemmeno – di toccare i suoi capelli afro. «È un razzismo molto sottile, interiorizzato, ma che fa comunque male: alcune persone non riescono ad andare oltre il colore della pelle. Adesso ci ho fatto il callo, ma è stancante».
Igor invece racconta che, in questo momento storico, essere russi sia visto come una colpa. «Vorrei far capire che io e tanti altri siamo arrivati qui sen-
za armi, senza aver votato Putin e che non è colpa nostra quanto sta succedendo». In realtà, aggiunge che non è solo colpa della guerra, ma ci sono stereotipi che risalgono a tempi più lontani: «C’è un immaginario, forse basato su film di Hollywood che continua a nutrire solo un tipo di russo: marginale, mafioso, alcolizzato, violento, maschilista, e così via. Ecco, vorrei uscire da questa generalizzazione che non ha senso».
Etichettare è molto semplice. È tutto chiaro e schematico. «È rompere gli schemi che richiede coraggio», commenta Viviana Gysin. «Togliere il giudizio sugli altri – e su se stessi –è un grande lavoro, ma è interessante, perché dà l’opportunità di aprire porte e di lanciarsi verso la vita». Nessuno è immune al razzismo, tutti possono sbagliare, ma tutti possono anche imparare a incontrarsi a metà strada, laddove si sa cosa dà fastidio, cosa ferisce, cosa fa sentire escluso.
Conclude Taty: «Mi auguro soprattutto una cosa: che la diversità venga prima di tutto accettata da chi la vive. Chi ha una doppia identità, parla due lingue e mangia da due tradizioni culinarie diverse, ha una ricchezza tra le mani. Da giovani è difficile rendersene conto, soprattutto perché gli altri te lo fanno notare costantemente. Poi si cresce, si matura e si realizza che la diversità aggiunge, non toglie, ed è in quel momento che si impara ad accogliere e valorizzare la propria unicità». Ecco, una porta che si apre. Poi due, poi tre. Sono le tre scimmie, mi dice Valentina Grignoli, quelle che si coprono gli occhi, la bocca e le orecchie: finalmente guardano, ascoltano e parlano, perché è solo così che si cerca un mondo migliore.
Informazioni
Le tre porte sarà in scena allo Studio Foce a Lugano il 28 aprile (17.30). www.instagram.com/ associazionelumina
Un successo alcolico firmato Svizzera italiana
Il Ticino nel cybermondo – 6 ◆ Da Grease a I Soprano, ci sono anche scene indimenticabili di cinema e tv nella storia del successo dell’etichetta Italian Swiss Colony
Per gli intenditori potrebbe non essere storia nuova, ma a chi, pur apprezzando il vino, non possiede un’ampia conoscenza enologica, questa etichetta potrebbe apparire curiosa. Non è infatti scontato comprendere il motivo per cui una colonia svizzera italiana abbia sbarcato il lunario con la propria produzione vitivinicola ad Asti. Soprattutto se l’Asti in questione non si trova in Italia, ma a Sonoma County, California, una di quelle aree degli Stati Uniti rinominate dagli immigrati italiani che, nel corso del XIX e XX secolo, si stabilirono negli USA in cerca di lavoro e opportunità economiche più favorevoli.
Tra questi, Andrea Sbarboro, sognava di offrire ai suoi connazionali un lavoro stabile e dignitoso: nel 1881, il genovese fondò una colonia agricola principalmente impiegata nella coltivazione d’uva e assunse prevalentemente lavoratori italiani e svizzeri, di cui una buona parte ticinesi. Si formò così una comunità permanente che
assunse il nome di «Italian Swiss Colony» in onore delle origini dei propri dipendenti.
L’idea di fondare una colonia italo-svizzera specializzata nella coltivazione dell’uva, derivava da una strategica scelta di mercato, attuata in un periodo in cui il valore del prodotto era di 30 dollari alla tonnellata, una miseria confronto ad oggi ma una piccola fortuna per quegli anni. Tuttavia, nel 1887, la coltivazione d’uva crebbe esponenzialmente in tutto il Paese e l’offerta aumentò tanto da abbassarne il valore a 8 dollari alla tonnellata. Con un guadagno insufficiente a coprire i costi di produzione, Sbarboro e gli altri membri di direzione furono chiamati a trovare una soluzione e, per far fronte alle crescenti difficoltà economiche, decisero di entrare a gamba tesa nel settore vitivinicolo. Fu così che l’Italian Swiss Colony iniziò a produrre vino in autonomia e si impose sul territorio come società vinicola. L’enorme cisterna costruita per
la vinificazione, dalla capacità di 500 galloni, circa 1’900 litri, suscitò la curiosità della popolazione locale e dei turisti: all’inizio del secolo, parallela-
mente al successo dei suoi vini, la colonia e le sue cantine acquisivano una popolarità sempre maggiore, delineandosi come vera e propria attrazione turistica. Attorno alla metà degli anni Cinquanta del Novecento, la colonia svizzera italiana era diventata una delle destinazioni più visitate della California, seconda solo a Disneyland. La notorietà che il marchio vantava all’epoca è testimoniata anche dalla presenza del vino in diversi prodotti mediatici di successo. Nel celebre film Grease, ad esempio, un rosso dell’Italian Swiss Colony anima il pigiama party delle Pink Ladies: «Italian Swiss Colony, wow, it’s imported!» esclama una delle ragazze, ignorando la provenienza tutta americana della bottiglia. Anche nella famosa serie TV I Soprano, nell’episodio Cold Cuts, viene nominato il vino della colonia, dimostrando la grande diffusione del marchio, famoso soprattutto negli Stati Uniti, ma conosciuto nel mondo intero.
Il pregio della colonia è stato insomma a lungo diffuso, promuovendo con onore la qualità della produzione svizzera italiana anche se, in realtà, il vino prodotto aveva ormai ben poco di ticinese: dopo pochi anni dalla sua istituzione, l’Italian Swiss Colony già si era imposta come una realtà esclusivamente italo-americana, mantenendo di svizzero solo il nome.
Acquistata nel 2015 dalla E & J Gallo Winery, massimo esportatore di vini della California, oggi l’eredità dell’Italian Swiss Colony continua a vivere, benché il suo nome e la sua natura siano state ampiamente cancellate in favore di una globalizzazione in linea coi tempi.
In collaborazione con l’Ufficio dell’analisi e del patrimonio culturale digitale, Divisione della cultura e degli studi universitari, Dipartimento dell’educazione, della cultura e dello sport.
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 22 aprile 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino 11 SOCIETÀ
I tre interpreti Igor Mamlenkov, Taty Rossi e Aglaja Amadò. (Associazione Culturale Lumina)
Athina Greco
(Sonoma County Visionaries, Immigrants and Wine Makers Collection, digital.sonomalibrary.org)
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 22 aprile 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino MONDO MIGROS 12 PUBBLIREDAZIONALE Novità alla tua Migros: Kägi Praliné des Alpes Milk, 150 g Fr. 6.95 Kägi Praliné des Alpes Dark, 140 g Fr. 6.95
Noi adulti siamo in grado di educare?
Il caffè delle mamme ◆ L’interrogativo è posto magistralmente dal film La sala professori del regista İlker Çatak
Simona Ravizza
Il film Das Lehrerzimmer del regista tedesco di origini turche İlker Çatak – in italiano La sala professori – nominato agli Oscar del 10 marzo come migliore pellicola straniera, mette insegnanti e genitori davanti a domande che ci fanno interrogare nel profondo: siamo in grado di educare? Ed esiste il modo migliore per farlo?
Il filosofo francese contemporaneo Jean-Luc Marion scrive: «L’educazione dipende dalla certezza che colui che parla dice il vero e l’interesse del bambino è quello di conoscere questa verità». Ma noi adulti siamo in grado innanzitutto di conoscere la verità, e poi di ammetterla e trasmetterla? A Il caffè delle mamme la discussione è animata da giorni. Avvertenza prima di proseguire: le riflessioni che seguono «spoilerano» il lungometraggio di Çatak. Ma la convinzione è che i contenuti meritano di essere affrontati indipendentemente da chi ha già visto il film, andrà a vederlo oppure non lo farà mai. Tutto ruota intorno a una scuola media dove vengono compiuti dei furti. Al motto della «tolleranza zero» i vertici dell’istituto scolastico sono decisi a trovare il colpevole utilizzando anche metodi intimidatori (dall’apertura in classe dei portafogli degli studenti alla pressione per convincerli a fare la spia). Uno studente figlio di immigrati turchi viene accusato ingiustamente, almeno in apparenza. Carla Nowak, insegnante di matematica e sport giovane e idealista, piena di empatia nei confronti dei propri alunni, vuole reagire all’ingiustizia e lascia correre la telecamera del computer per individuare il vero colpevole (sull’identificazione del quale non ci sarà mai una certezza assoluta). La registrazione incastra Friederike Kuhn, la poco appariscente segretaria scolastica di lunga data: la sua camicetta fantasia può essere chiaramente identificata dal filmato che però non fa vedere chiaramente il crimine. Ecco gli spunti di riflessione che il film offre da quel che succede di qui in avanti.
In una scuola media avvengono dei furti; la vicenda porta il caos nell’istituto e la verità sembra dissolversi: non funziona il metodo della «tolleranza zero» ma neanche la strada dell’empatia
Il primo chiama in causa direttamente i genitori. La signora Kuhn, che nega con veemenza il furto, è la madre del timido Oskar, studente premuroso e molto dotato in matematica. L’11enne le crede. Come ognuno tende a fare con la propria mamma. Così nella mente di Oskar chi mente è l’insegnante e fa di tutto per sbugiardarla. Ma è la madre invece che sembra ingannarlo, spingendolo a una difesa a oltranza che lo farà finire cacciato dalla scuola. La mancanza di chiarezza con i propri figli può portare a guai infiniti. Ma quanti di noi madri e padri – ci domandiamo a Il caffè delle mamme – sono capaci di essere davvero sinceri ed eventualmente di assumersi la responsabilità di possibili errori? Il film però non dà certezze assolute: la prova schiacciante contro la mamma di Oskar manca. Del resto, quante certezze abbiamo noi adulti da potere presentare come tali a bambini e adolescenti?
Il secondo spunto di riflessione ri-
guarda il ruolo degli insegnanti. Nella lezione di matematica Nowak rivolge agli alunni una domanda: «0,9 periodico è uguale a 1?». Non è un interrogativo qualunque: il tema è uno dei più difficili da insegnare perché gli studenti di matematica notoriamente rifiutano l’uguaglianza tra 0,999… e 1. La prof. spinge a riflettere e Oskar dimostra capacità di ragionamento non comuni: «0,333… è uguale a 1⁄3 che per 3 fa 1». «Da una prova si arriva sempre a una conclusione – sottolinea Nowak –. Passo dopo passo». Ma Oskar non avrà la stessa capacità di ragionamento quando si tratta della propria mamma. E nella vita pratica, come scrive il «New York Times», «ogni volta che la prof. penserà di avere una soluzione, le cose andranno di traverso, in parte anche perché non puoi contare sul fatto che gli alunni di seconda media seguano semplicemente i suggerimenti degli adulti». Non funziona il metodo della «tolleranza zero», ma neanche la strada dell’empatia porta a risultati: l’insegnante giovane, impegnata e senza dubbio ben intenzionata è destinata a smarrirsi sempre più. Dopotutto insegnare, come essere genitore, non è un’attività che puoi apprendere dai libri né dal cuore, ma che puoi capire solo sul campo. Navigazione a vista. In questo contesto se famiglia e scuola non trovano un punto di vista comune chi ci perde sono i ragazzi: «Se fallisco io, fallisce anche lei perché è sua madre», sbotta la prof. con la mamma di Oskar: «Falliamo tutti».
Il terzo spunto riguarda gli adolescenti. Nella Sala professori regna il caos che porta la verità a dissolversi: la segretaria più efficiente si rivela una potenziale ladra e una madre che spinge il figlio alla rivolta, il bambino più talentuoso della classe può trasformarsi in quello più problematico, l’insegnante più empatica in quella che crea lacerazioni tanto quanto gli altri. Annientate le certezze del mondo adulto, sono gli adolescenti quelli convinti di sapere tutto: «Veritas Omnia Vincit », la verità vince su tutto, è la scritta che campeggia nella redazione del giornalino scolastico. I ragazzi si organizzano, mettono sotto accusa, denunciano la censura. Ma l’articolo sulla vicenda sarà in grado di diffondere solo una verità di parte. Disinformazione. Giudizi. Solitudine. Incapacità degli adulti
di rapportarsi tra loro (prof. che litigano, genitori e prof. che si guardano di traverso) e senza la fiducia degli alunni. Intransigenza dell’adolescenza. In Das Lehrerzimmer sembra non salvarsi nessuno. Del resto il regista Çatak ama ricordare il detto: «La strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni». La Nowak a lezione invita ad alzarsi in piedi: «Voglio che adesso tutti strilliamo più forte che possiamo. Pronti partenza via! Più forte!». Urlo liberatorio. È la tentazione che ci viene ogni tanto al Caffè delle mamme quando le nostre convinzioni sull’essere in grado di educare fanno i con-
ti con le difficoltà quotidiane. È un compito arduo e il film lo racconta in modo magistrale. Al Caffè ci diciamo anche, però, che un errore che emerge dalla Sala professori possiamo evitare di farlo: lì tutti vogliono avere ragione e nessuno ascoltare. Incominciamo da qui allora? Anche senza certezze.
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 22 aprile 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino 13 SOCIETÀ
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L’attrice Leonie Benesch nei panni della professoressa Carla Nowak. (©AlamodeFilm)
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Da Paradiso a Parigi per sostenere gli immigrati
Ritratti ◆ Ticinese originaria di Sagogn, Ruth Padrun ha lavorato tutta la vita per la valorizzazione e l’integrazione dei bambini e delle donne che arrivano in Europa da Paesi lontani
L’anno scorso è scomparsa a Ivrysur-Seine, alle porte di Parigi, Ruth Padrun. Era nata a Lugano il 21 settembre 1933 e originaria di Sagogn nel Canton Grigioni, luogo che porterà sempre nel cuore. L’altro posto al quale era legata è Paradiso dove ha abitato nella casa della famiglia Münger, prima con i genitori poi durante i suoi soggiorni estivi, quando invitava i vecchi amici al ristorante della panetteria.
Dopo la licenza ginnasiale, ottenuta nel 1948, e quella commerciale, nel 1951, la giovane Ruth, ancora minorenne, intraprese il viaggio della vita, quello che avrebbe formato il suo pensiero e segnato il suo futuro: un lungo tour di formazione nell’Italia del Sud dell’immediato dopoguerra.
Nel 1980 Ruth Padrun fonda a Parigi l’IRFED Europe, un’associazione che ha lo scopo di aiutare le donne immigrate a creare la propria impresa
L’estrema povertà, il degrado e le condizioni igieniche insopportabili sono un colpo al cuore: «Gli uomini che dormivano nella stessa stanza con gli animali da lavoro», senza intimità e dignità. Sicuramente anche per questo Padrun rimane affascinata dal pensiero di Danilo Dolci, che in quegli anni, dopo l’esperienza della comunità di Nomadelfia a Fossili, si era trasferito a Trappeto in Sicilia. Siamo nel 1952 e Dolci, che aveva già scritto Voci nella città di Dio, attraverso la sua religiosità laica è diventato una sorta di faro. «Se la pelle non tocca, non sa», scriverà poi lo stesso Dolci in Limone lunare del 1970, e Ruth ha toccato con mano il dolore e la sofferenza degli umili.
Trasferitasi a Ginevra, frequenta l’università all’Ecole d’interprètes e prende il Dîplome de traducteur nel 1962. Nel frattempo, nel 1958, è entrata al Word Council of Churches, il Consiglio ecumenico delle Chiese (WCC), un’organizzazione internazionale non governativa fondata a Ginevra nel 1948 dall’olandese Willem Adolf Visser’t Hooft che ne è stato segretario generale fino al 1966. Nel 1948 le Chiese fondatrici erano 147 e il WCC era nato per riavvicinare e riunirne le varie anime a livello locale e internazionale in una sorta, appunto, di ecumenismo.
Il 29 agosto del 1958 il numero 33 dell’«Ecumenical press service» riporta la notizia di un incidente d’autobus avvenuto a Völkingen qualche giorno prima e in cui sono rimasti feriti venti membri del campo di lavoro ecumenico. Nell’incidente hanno perso la vita quattro persone: due campeggiatori, il figlioletto dell’autista e il cuoco del campo. All’arrivo della notizia, tre membri dello staff del WCC si recano a Völkingen per gestire le notifiche alle famiglie delle vittime, fornire assistenza pastorale ai feriti e per fare tutto il possibile per aiutare: si tratta del Rev. Philip Potter, segretario esecutivo del Dipartimento della Gioventù, del Rev. Ralph Weltge, segretario per i campi di lavoro e, appunto, della signorina Ruth Padrun dell’ufficio del Dipartimento della Gioventù. Nel 1961 Padrun partecipa a un campo ecumenico di lavoro ad Am-
sterdam, come testimonia il «Journal du Valais» del 26 agosto. In questa occasione lascia una testimonianza scritta dell’esperienza nel giornale «Vie protestante». Al termine di una cena, il pastore della Woestduinkerk aveva commentato il testo di Luca 8:16-20 dicendo che «Gesù Cristo non può essere monopolio né di sua madre, né dei suoi fratelli, né di una Chiesa in particolare, né di una dottrina specifica. Chiunque ascolta la sua parola e la mette in pratica è suo fratello e sua sorella». «Voilà –terminato così nel suo articolo Ruth – une pensée d’une portée vraiment oecuménique!»
Nel 1963 si trasferisce a Parigi in un mini appartamento del XIII arrondissement. Inizia a lavorare presso l’IRFED (Education et Développement-Institut International de Recherches et de Formation), che era stato fondato nel 1958 dal domenicano Louis Joseph Lebret. «Padre Lebret è passato tra noi – fu il ricordo pronunciato a un anno dalla morte avvenuta nel 1966 dal suo successore, il domenicano Vincent Cosmao – come qualcuno che sapeva, perché Dio si era impadronito di lui, l’aveva segnato nel cuore come qualcuno che non aveva altra ispirazione che perdersi in lui una volta per tutte».
Nel 1971 l’IRFED-Lebret conduce una prima esperienza di educazione interculturale nella scuola primaria Henri Wallon a Fontenay-sous-Bois in un contesto franco-portoghese e nel 1978 riceve l’incarico di elaborare una metodologia di educazione interculturale per i lavoratori immigrati e i loro figli a Saint-Quentin-en-Yvelines, cittadina abitata per il 52% da stranieri: portoghesi, algerini, marocchini, tunisini… Ruth sarà responsabile della redazione dello studio pubblicato il 10 agosto 1983 nell’Education des enfants migrants realizzato dal Conseil de l’Europe. Nel frattempo, nel 1980, fonda l’IRFED Europe con lo scopo di accompagnare le donne immigrate a creare la propria impresa e inserirsi attivamente nella società. L’associazione organizza corsi di formazione generale o specializzata e numerosi workshop, nonché un programma di monitoraggio e di sostegno individuale durante e dopo la creazione dell’impresa. Ruth dirige una rete di imprenditrici e pubblica la relativa newsletter.
Nel bollettino «Info Créatrices» del 2015 si riporta che in 25 anni più di 7000 donne hanno frequentato l’IRFED Europe per un consiglio, un aiuto o semplicemente un ascolto. Più di 1000 hanno beneficiato dei corsi di formazione. Ragazze come Khady Savane, che ha aperto il negozio Mia Dreams; Sofia Paraiso, che ha creato la sua etichetta di vestiti, Aweny Ayo; Saran Koné con Toukouleurshome o Leticia Fafa con Della Bijoux.
Per Ruth sono anni intensi fra convegni, articoli, libri. Citiamo gli articoli su «effe» del maggio 1979 Donne immigrate nostre sorelle e In memoriam di Albert Meister (19271982), teorico dell’autogestione, pubblicato assieme all’economista Jean Masini su «Revue Tiers Monde» del 1981. I volumi Des femmes immigrées parlent del 1978 e Vivre et entreprendre en France del 1990. Tutti lavori corali.
Nonostante i numerosi impegni, gli amici sono sempre ben accolti e accompagnati sulla sua utilitaria in giro per Parigi o invitati a pranzo nei localini di Chinatown. Con lei si po-
teva scoprire come mangiare i nem, gli involtini asiatici allora sconosciuti in Ticino. Gli ultimi anni sono stati faticosi ma riusciva sempre, nonostante gli
acciacchi, a passare in Ticino a salutare. «Al prossimo anno», diceva. Ora le sue ceneri risposano nel cimitero di Pambio assieme alla mamma Emmi e al babbo Adolf.
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 22 aprile 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino 15 SOCIETÀ
Una giovane Ruth Padrun fotografata sul lungo Senna.
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Gianluigi Bellei
Onsernone tra i Villaggi degli alpinisti
Sabato 4 maggio 2024, il comune della valle locarnese entrerà formalmente a far parte dell’esclusiva rete europea dei Bergsteigerdörfer
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Arricchisce i piatti di tutto il mondo
Mitica e fondamentale, il Piper Nigrum è una spezia usata dovunque, ma attenzione perché esistono pure i cosiddetti pepi finti
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Crea con noi
Per realizzare una collezione di simpatici e coloratissimi insetti bastano pochi materiali e tanta fantasia
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L’arte di fischiettare (allegro ma non troppo)
Tra il ludico e il dilettevole ◆ Fischiando, l’essere umano esprime messaggi diversi, che vanno dal semplice richiamo, al vero e proprio linguaggio, passando per la musicalità
In piena notte, camminando per le vie deserte, un passante è assorto in un’attività piuttosto ordinaria. Sta fischiettando: un’attitudine che, assecondata da un’andatura dinoccolata, sottintende diverse cose: assenza di pensieri grevi, una sorta di temporanea spensieratezza, un’allegria procuratagli da una giornata ricca di soddisfazioni. E, aggiungiamo noi, una mente sgombra da impegni importanti per l’indomani, senza l’incombenza di svegliarsi presto con vincoli e orari da onorare. Quell’occupazione temporanea gli procura, diciamolo pure, una discreta dose di soddisfazione che rinvigorisce l’entusiasmo e lo slancio con cui vi si consacra.
In piena notte, l’individuo non si cura per nulla del fatto che qualcuno potrebbe sentirlo: ma il caso vuole che, ai piani superiori di una casa di quel quartiere, un uomo non riesce a prendere sonno. È estate, fa caldo, la finestra è spalancata e, rigirandosi nel letto, è sul punto di riaddormentarsi. Si direbbe che ce l’abbia fatta, quando quel rumore lo ridesta all’improvviso. Ciò che lo irrita ancora di più, però, è che quel fischiettare risulta decisamente maldestro: goffo, fuori tempo, stonato. E a peggiorare le cose, poi, c’è il fatto che il passante che fischietta non sembra avere l’intenzione di allontanarsi: indugia, temporeggia senza un motivo apparente.
Un gesto che sottintende diverse cose: assenza di pensieri grevi, una sorta di temporanea spensieratezza, un’allegria procurata da una giornata ricca di soddisfazioni e l’assenza di programmi impegnativi In un certo senso siamo al cospetto di un’esperienza pirandelliana. Chi fischia, possiamo immaginare, si crede un’artista, un abile modulatore di suoni intento a interpretare una melodia con eleganza. Ma il suo fischio, a un ascoltatore esterno, risulta irrimediabilmente sgraziato, maldestro, addirittura grottesco. La sottile tragicità della situazione risiede, in tal senso, nell’esaltazione non condivisa, nello scarto fra la percezione interna di chi fischia, e l’orecchio imperturbabile di chi ascolta. D’altra parte, però, siamo in presenza di un tema che è, a sua volta, pregno di significato, nonché portatore di una filosofia di vita: chi attraversa le proprie giornate fischiettando (meglio se lo fa in modo melodico), affronta le proprie sfide con leggerezza, senza crucciarsi troppo. Meglio non esagerare, però, altrimenti si corre il rischio di essere accusati di… infischiarsene. Di fischi, a ben vedere, ce ne sono molti, e di tanti significati. Un fischio, se risuona in modo chiaro e improvviso, può fungere da richiamo che, in ragione della sua natura improvvisa, ci riporta alla realtà. Ma c’è modo e modo di fischiare: fischiare a un cane che si allontana è un modo efficace per trasmettere un comando, ma fischiare alle donne per manifestare, in maniera un po’ rozza e primitiva, un’approvazione, non è il modo più elegante e socialmente accettabile per tentare un approccio. Ma si può anche fischiare per disapprovare, come chi allo sta-
dio fischia la squadra avversaria. E, rimanendo in ambito sportivo, non si può non pensare al fischio dell’arbitro che, a differenza di quello del tifoso, è portatore di autorevolezza e severità, e viene modulato al fine di mantenere il rispetto delle regole.
Antropologicamente, si può supporre che il fischio sia sempre stato uno dei modi più affidabili per richiamare l’attenzione. Di certo uno dei più economici, visto che ottiene un risultato senza alcun supporto, strumento, o utensile esterno. Al massimo uno usa le dita, che sono però parte del corpo. Da questo pun-
to di vista, il fischio rappresenta alla perfezione ciò che Marcel Mauss (1872-1950) chiamava una tecnica del corpo. Come sosteneva l’antropologo francese nel suo famoso saggio Le tecniche del corpo (1936), il più naturale strumento tecnico e mezzo operativo dell’essere umano è per l’appunto il suo corpo. Fischiando, l’uomo usa il proprio corpo per modulare una gamma di suoni che gli permettono di trasmettere un ventaglio ampissimo di messaggi, anche molto diversi. Al contempo, il fischio può raggiungere un invidiabile grado di sofisticatezza,
come testimonia il fatto che esiste un vero e proprio linguaggio costruito non da parole, ma da fischi: si chiama silbo gomero ed è praticato da alcuni abitanti dell’isola vulcanica di La Gomera, nell’arcipelago delle Canarie (da qui il nome, che letteralmente significa il sibilo de La Gomera).
Il fischio rappresenta ciò che Mauss chiamava una tecnica del corpo
Oltre che una tecnica per attirare l’attenzione e, nella sua manifestazione più compiuta, un linguaggio articolato, il fischio può diventare anche, a vari livelli, un’espressione più o meno riuscita di musicalità: si va dal passante che fischia in modo grottesco a chi, fischiettando, intona magistralmente una delle ballate più memorabili degli anni Ottanta (conoscete Patience dei Guns N’ Roses?).
Come succede con tutte le tecniche, a metterci l’impegno a zufolare si può anche imparare. Un po’ tutti abbiamo provato, con risultati alterni, ad acquisire questa tecnica tanto efficace, in grado di fendere l’aria e di richiamare con facilità l’attenzione. C’è chi poi ha abbandonato la sfida, sconsolato a fronte di scarsissimi, per non dire inesistenti, risultati, e c’è chi ha saputo affinare, consolidare, addirittura celebrare la propria tecnica, consacrandola a molteplici usi, dai più pragmatici ai più melodici. E sulla rete esistono anche dei tutorial che insegnano a fischiare.
Dal semplice fischio a quello più elaborato, ci imbattiamo in esperienze diverse e spesso contrastanti. Come espressione di spensieratezza e allegria, il fischio è veicolo di buon umore ma, in altri frangenti, può caricarsi di significati canzonatori, esprimere un dissenso o una protesta (quella del tifoso) o un richiamo autorevole (quello dell’arbitro). Quando il fischio diventa melodia, può fungere da supporto a una ballata rock che segna un decennio, oppure servire a creare un’atmosfera di sospensione, di mistero. Vi ricordate la sigla di Xfiles?
E quel fischio iconico della colonna sonora de Il buono, il brutto e il cattivo composta da Ennio Morricone, che ci proietta all’istante nell’inconfondibile mondo del Far West?
E poi ci sono i fischi non umani. Come quello del treno, che ne sottolinea il passaggio sgombrando la via. Ma penso anche ai fischi che, in una sala motori, segnalano un allarme, magari accompagnati da uno sbuffo di vapore. E poi immagino, ripensando ai film Western, il sibilo di una pallottola scansata che solleva un nugolo di polvere. E poi, dopo, solo silenzio…
● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 22 aprile 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino 17
TEMPO LIBERO
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Sebastiano Caroni
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Festeggi i 90 anni della Swissair –la compagnia aerea del cuore
La Swissair è stata per 90 anni la compagnia aerea ammiraglia per eccellenza, perché con la sua attenzione alla qualità ha posto delle pietre miliari dell’aviazione per diversi decenni. Forse è per questo che nessun’altra compagnia aerea ha goduto di una tale fama in tutto il mondo. Nel 2021 la Swissair potrebbe festeggiare i suoi 90 anni. L’orologio da polso con un tocco dell‘eccellenza SWISSAIR
L’orologio da polso „SPIRITO SWISSAIR” rappresenta un prestigioso omaggio ai 90 anni della storia della Swissair. Una storia che racconta di una gloriosa ascesa, di grandi successi ma anche di dolorose scon tte. L’orologio da polso con licenza uf ciale è dotato di una robusta cassa in acciaio inox dorato e un bel cinturino in pelle. Il quadrante in stile cockpit è ispirato all’elegante design della Swissair, dispone di tre cronogra con funzione cronometro ed è decorato dal logo originale Swissair e dalle date dell’anniversario. Ogni orologio è numerato sul retro, rendendo ciascun esemplare un pezzo inconfondibilmente unico.
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Una meta speciale per gli amanti delle Alpi
Itinerari ◆ È Onsernone il primo comune ticinese a ottenere il riconoscimento di Villaggio degli alpinisti, grazie all’impegno verso un turismo di montagna sostenibile; la cerimonia avrà luogo il 4 maggio
Elia Stampanoni
In Valle Onsernone il 4 maggio 2024 sarà un giorno di festa, un momento in cui avrà luogo la cerimonia che suggellerà l’entrata del Comune nella rete dei Villaggi degli alpinisti, andando ad aggiungersi alla quarantina di località europee che già vi fanno parte, di cui due nei Grigioni, e tra le quali finora non ve n’era invece alcuna del Ticino.
Un riconoscimento fortemente voluto e che permetterà a Onsernone di correlarsi ad altri comuni aventi peculiarità simili, trovando quindi spunti, sinergie e possibili idee o soluzioni, come ci conferma Stéphan Chiesa, sindaco di Onsernone: «Ogni villaggio aderente ha un suo rappresentante. Ci s’incontra regolarmente per affrontare problematiche condivise e per un proficuo scambio di esperienze, le quali possono essere utili nel trovare e attuare possibili strategie di sviluppo sostenibile nelle località di montagna, dove un’attenzione particolare è riservata all’ambiente, alla natura, ma anche agli aspetti sociali e culturali dell’intero territorio».
L’adesione permetterà anche di ottenere una visibilità importante verso un pubblico particolarmente attento al turismo sostenibile in zone di montagna. Un’opportunità per dare ulteriore risalto alla regione, già ricca di tutte quelle caratteristiche richieste dal marchio, come un paesaggio autentico e preservato il più possibile dall’intervento umano e dalle sue attività troppo invasive.
Il processo che ha portato alla candidatura di Onsernone è cominciato a inizio 2023 su invito del Club Alpino Svizzero (CAS), che aveva individuato solo altre due o tre regioni adatte in Ticino. Tra di queste, per l’appunto, Onsernone che, come racconta Chiesa, è rimasto subito entusiasta dell’opportunità: «Abbiamo colto al volo l’occasione di diventare il primo Villaggio degli alpinisti in Ticino e nel giro di un anno siamo riusciti a produrre tutta la documentazione necessaria. Dopo un importante lavoro di preparazione, svolto anche in sinergia con il CAS, la delegazione preposta è giunta in valle per una visita, da cui è scaturita l’accettazione della candidatura».
Particolarmente apprezzate sono state quelle qualità che rendono la valle Onsernone «unica», come l’assenza di grandi infrastrutture ricettive (per esempio grandi alberghi), di dighe o d’imponenti impianti di trasporto, quindi più «invasivi». Favorevoli all’accettazione sono stati pure alcuni
progetti già intrapresi o in corso nella regione in questi anni (tra cui il Progetto Onsernone 025 «Una Valle per scoprirsi») o alcune caratteristiche del territorio, come per esempio la presenza della Riserva forestale o l’assenza di un’ingombrante rete stradale.
Amanti dei picchi
L’ottenimento del marchio, come detto, si spera possa avere positive ricadute anche nel settore turistico, attirando nella regione gli amanti delle montagne. I Villaggi degli alpinisti non sono infatti da intendere come luoghi dove praticare l’alpinismo nel
senso stretto della disciplina sportiva, ma bensì luoghi dove si può apprezzare in modo naturale tutto quanto è in relazione con le montagne, quindi passeggiate, camminate, escursioni in alta quota, gite in mountain bike e arrampicata, ma anche attività invernali come giri con le racchette da neve, sci alpinismo o sci di fondo.
I villaggi offrono poi anche una serie di altre proposte culturali e sociali, come musei o visite, che pure Onsernone già offre e in futuro offrirà anche nella rete dei Villaggi degli alpinisti. Ogni località ha infatti la possibilità di presentarsi con delle interessanti pubblicazioni che si ritrovano sul sito del progetto (alcu-
Autenticità, tradizioni e cultura
I Villaggi degli alpinisti, Bergsteigerdörfer in tedesco, è un’iniziativa nata da un progetto del Club alpino austriaco nel 2008, quando aderirono i primi 16 villaggi. Nel 2015 c’è stata l’adesione del primo dei quattro comuni tedeschi (Ramsau bei Berchtesgaden), seguito nel 2017 da Match, nel Sud Tirolo, a cui per l’Italia se ne sono aggiunti più tardi altri sette. L’anno seguente, nel 2018, anche la Slovenia ha ottenuto il riconoscimento del suo primo dei tre villaggi (Jezersko), mentre «solo» nel 2021 è entrata nella rete dei villaggi la Svizzera, con St. Antönien, seguito da Lavin-Guarda-Ardez nello stesso anno e, tra poco, si aggiungerà Onsernone. Come indicato sul portale, «i Villaggi degli alpinisti si sono affermati a livello
locale e nella percezione dell’opinione pubblica come un progetto di attuazione concreta ai sensi della Convenzione delle Alpi». I punti salienti caratteristici dei Villaggi sono infatti strettamente legati agli obiettivi della Convenzione, il trattato internazionale che, in vigore dal 1995, considera un’area montana transnazionale nella sua interezza geografica e mira alla sua protezione e al suo sviluppo sostenibile. Essendo l’attestazione di Villaggio degli alpinisti anche un marchio di qualità, i candidati devono soddisfare dei chiari criteri per potersi fregiare ufficialmente della denominazione. Tra i requisiti principali ci sono per esempio la tutela dei villaggi, della natura e del paesaggio, una mobilità e dei trasporti
ecocompatibili, la comunicazione e lo scambio di informazioni, ma anche un impegno a preservare i valori culturali e naturali del posto. Pure l’agricoltura di montagna e la selvicoltura, con la commercializzazione dei loro prodotti, trovano la loro importanza e contribuiscono a sviluppare delle strategie di sviluppo sostenibile, dove il turismo gioca un ruolo importante.
Il potenziale dei Villaggi degli alpinisti, che s’impegnano nell’attuazione del protocollo del citato trattato, sta quindi nella loro autenticità, e nel mantenimento delle loro tradizioni e della loro cultura.
Maggiori informazioni su
https://ita.bergsteigerdoerfer.org
la sistemazione in piccole strutture ricettive dove si promuovono i fornitori locali, così come la conservazione e valorizzazione a lungo termine dei rifugi ad alta quota.
I Villaggi associati prestano inoltre particolare attenzione anche alla qualità delle costruzioni, garantendo che gli edifici e le strutture mantengano le caratteristiche e l’aspetto tipico del luogo (dimensioni, scelta dei materiali e progettazione). Onsernone, con i sui 106 km 2 di territorio e una densità di soli 6,5 abitanti per km 2, è stata considerata una regione adatta proprio anche per questi aspetti, non dovendo effettuare delle migliorie per adeguarsi alle esigenze del marchio. L’unico dilemma, inizialmente, è stata la presenza delle cave di estrazione, come spiega Stéphan Chiesa: «Le cave potevano rappresentare una criticità ma, non essendo state ritenute troppo invasive, si sono rilevate un valore aggiunto per la regione e non hanno quindi pregiudicato la candidatura, anzi l’hanno completata».
ni documenti sono solo in tedesco). Onsernone preparerà dunque in questi mesi il suo opuscolo dove, accanto a una presentazione generale, agli accenni storici, culturali e sociali, saranno elencate le diverse attività da svolgere in sintonia con la natura, offerte nuove o già esistenti. Il tutto sempre nel rispetto della filosofia dei Villaggi degli alpinisti, ossia per esempio si avrà una limitazione nello sviluppo tecnico dell’area montana,
Nell’agricoltura e nella gestione delle foreste e dei pascoli alpini, leggiamo infine nel materiale informativo, si tratta di trovare un equilibrio tra le moderne tecniche di gestione, una redditività ragionevole, una condizione globale ecologicamente stabile e un paesaggio culturale armonioso dal punto di vista turistico. L’obiettivo è stabilire uno stretto legame tra produttori e consumatori, mantenendo la conservazione e la cura degli elementi tipici del paesaggio.
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Esperienza in ambito gestionale e manageriale.
Conoscenze merceologiche per il settore di riferimento.
Facilità nell’uso dei principali applicativi informatici, tra cui SAP. Ottime conoscenze dell’italiano e del tedesco (orale e scritto).
Spiccate capacità organizzative, dinamismo e spirito d’iniziativa.
Attitudine alla negoziazione.
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Valle Onsernone, Lago Salei (1924 mslm). (Uwe Häntsch)
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Basta un pizzico di… pepe
Gastronomia ◆ Sono molte le varietà di questa spezia fondamentale per dare una spinta in più ai nostri piatti
Allan Bay
Nel 2009 vi parlai del pepe, oggi lo farò in maniera organica.
Pepe nero. Mitico e fondamentale, nativo del Kerala, coltivato dovunque o quasi, il suo nome scientifico è Piper Nigrum. Dai frutti maturi ed essiccati della pianta, ovvero dalle bacche di colore rosso scuro che contengono un solo seme, si ottiene la spezia. Le bacche, raccolte a metà maturazione, vengono poi fatte essiccare al sole fino a lasciarle diventare nere. È la spezia più onnipresente. Si stima che nel mondo, di Piper Nigrum esistano oltre 500 diverse varietà, tutte (relativamente) simili. Finto pepe. Esistono anche dei cosiddetti finti pepi – si stima siano oltre 300! – che in genere si chiamano «pepe di qualcosa», che però non sono Piper Nigrum, ma appartengono ad altre piante le cui bacche o quel che producono assomigliano a quelle dei Piper Nigrum. Attenzione: il termine «falso» non è un giudizio qualitativo, molti sono ottimi! Basti pensare ai tre pepi che preferisco: Timut detto anche Nepal, Voatsiperifery del Madacascar e Tasmania sono tutti «finti» pepi.
Pepe bianco. Si ottiene dalla stessa pianta del pepe nero. Le bacche vengono raccolte a completa maturazione e poi messe a bagno in acqua e sale fino a che la pellicola nerastra esterna, che si forma e le avvolge, si sgretola e si toglie: all’interno, i grani sono bianchi. Il sapore è molto più delicato rispetto a quello del pepe nero.
Pepe di Giava, detto anche cubebe è una pianta della stessa famiglia del pepe nero. Si tratta di un «pepe vero». In Occidente è poco utilizzato, mentre in Oriente e nel Nord Africa il suo successo permane: questo pepe viene utilizzato come ingrediente di miscele di spezie e salse. È pungente, aromatico, leggermente agrumato, piacevole e il suo sapore ricorda la noce moscata.
Pepe di Guinea detto anche Melegueta. Della stessa famiglia dello zen-
zero, del cardamomo e della curcuma, è una pianta erbacea originaria delle paludi della costa dell’Africa Occidentale. I suoi fiori viola a forma di tromba si trasformano in baccelli che contengono molti piccoli semi bruno-rossastri da cui si ottiene la spezia. Ha un gusto forte, spiccato, intenso, agrumato, un incrocio tra il pepe nero, il cardamomo e lo zenzero. Attualmente è (troppo) poco utilizzato in Europa mentre è molto diffuso in Nord Africa, soprattutto in Marocco.
Pepe di Sichuan. È una piccola bacca che ricorda nella sua forma il pepe. È un finto pepe: di forte piccantezza, non ha nulla a che fare con il pepe o il peperoncino, ed è molto più aromatico. È una spezia molto utilizzata in Cina e in Asia orientale. In Occidente sta prendendo piede, sdoganato dai cuochi cinesi che lo utilizzano quasi dovunque.
Pepe rosa. È un falso pepe. Ha una forma molto simile al salice ed è una pianta originaria degli altopiani del Perù, del Cile e della Bolivia; dà origine a bacche rosso-rosa, colore che conferisce il nome alla spezia. Il suo sapore è delicato, aromatico, leggermente resinoso e piccante; il suo profumo, molto intenso e aromatico, ricorda il limone e la fragola.
Pepe verde. È un Piper Nigrum raccolto quando è ancora verde, quindi acerbo. Viene poi esposto a leggera, lenta e graduale essiccazione, e trattato con speciali procedure per conservarne il colore verde naturale. Ha un sapore morbido, poco piccante, discretamente e dolcemente aromatico con un flavour fruttato e fresco. Possiede in sintesi tutte le qualità del pepe nero ma più delicate, meno aggressive.
Dove usarli? L’unica è assaggiarli per utilizzarli secondo il proprio gusto. Ma mai comprarli in polvere! Tutti i pepi vanno pestati in un piccolo mortaio al momento dell’uso.
Come si fa?
Vediamo come si fa la frittata di patate e cipolle. L’origine di questa preparazione è spagnola, la mitica tortilla, ma le sue varianti sono innumerevoli. Ecco la mia variante, personalissima (ingredienti per 4 persone). Quali patate utilizzare? Questo è il pro-
● Ballando coi gusti
Oggi due ricette a base di stoccafisso e baccalà: ingredienti che chi scrive ama perdutamente.
blema, dato che esistono migliaia di cultivar… Nella maggioranza dei negozi si trovano le bintje, che vanno bene un po’ per tutto, ma io preferisco le patate ratte, a pasta gialla, dolcissime; e anche le vitelotte viola, ma pure le (introvabili) Kennebec friulane: ognuno comunque usi quelle che ama e trova. Rompete 8 uova in una ciotola e sbattetele con un pizzico di sale. Mondate e affettate 4 cipollotti. Pelate 600 g di patate, lavatele, asciugatele e tagliatele a fette molto sottili. In una casseruola antiaderente stufate i cipollotti con poca acqua o vino bianco per 4 minuti, mescolando; poi levateli. Sciogliete 1 noce di burro e versateci le fettine di
patate. Coprite la casseruola con un coperchio e lasciate friggere mescolando di tanto in tanto perché le fette non si attacchino ma formino una crosticina. Quando le patate saranno quasi cotte, spezzettatele con un cucchiaio di legno. Mescolatele in una ciotola con i cipollotti stufati, 1 mazzetto di erba cipollina tritata e le uova sbattute. Pennellate con burro fuso una teglia usa-e-getta e spolverizzatela di pangrattato leggermente tostato; versate il composto, livellatelo, spolverizzate ancora con pangrattato e cuocete in forno a 200° per 15 minuti o fino a quando la superficie sarà ben dorata. È ottima sia calda sia fredda.
Tempura di stoccafisso Zuppa di fagioli e baccalà
Ingredienti per 4 persone: 500 g di stoccafisso bagnato e precotto – 200 g di acqua minerale gasata – 100 g di farina – 100 g di farina di riso – olio di semi di arachide – sale.
Preparate la pastella: mescolate in una ciotola con una forchetta l’acqua minerale ben fredda, questo è importantissimo, e le farine setacciate; unite poco sale. Mettete il composto a riposare nella parte bassa di un frigorifero fino al momento dell’uso. Tagliate a pezzi lo stoccafisso. Al momento di friggere scaldate l’olio e passate i pezzi di stoccafisso nella pastella. Friggetene pochi per volta fino a ben dorarli e scolateli su carta da cucina. Servite immediatamente intingendo, se volete, in salsa di soia.
Ingredienti per 4 persone: 300 g di baccala pronto per l’uso – 300 g di fagioli a piacere lessati – 100 g di polpa di pomodoro – 50 g di pancetta a cubetti – brodo vegetale – 1 gambo di sedano – 1 spicchio d’aglio, peperoncino secco – 1 cucchiaio di prezzemolo tritato – olio – sale e pepe.
Tritate l’aglio e il sedano. In una casseruola versate 1 cucchiaio di olio, unite la pancetta, l’aglio e il sedano e fateli rosolare dolcemente per 5 minuti. Unite il baccalà sciacquato e tagliato a pezzetti, rosolate per 4 minuti, aggiungete i fagioli e la polpa di pomodoro, bagnate con 4 bicchieri di brodo vegetale bollente e portate a cottura per 20 minuti. Regolate di sale e di pepe. Lasciate intiepidire, condite con 1 filo di olio crudo un po’ di peperoncino e servite.
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 22 aprile 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino TEMPO LIBERO 21
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SCANSIONA PARTECIPA
Solo da questo giovedì a domenica
La collezione di simpatici insetti
Crea con noi ◆ Con pochi materiali e molta fantasia potrete realizzare esserini colorati ispirandovi a quelli che trovate in natura
Giovanna Grimaldi Leoni
Oggi vi proponiamo un tutorial dedicato al magico mondo degli insetti. Con l’aiuto di semplici cartoncini colorati e un po’ di fantasia, ne creeremo una variegata collezione. Potete iniziare cercando di ricreare quelli raffigurati nella fotografia qua sopra, come la mosca, l’ape, la farfalla o la coccinella, per poi ampliare la vostra collezione di piccoli esserini, andandone a cercare direttamente
in natura altri da osservare e ricreare.
Procedimento
Dai cartoncini colorati ritagliate delle strisce della larghezza dei bastoncini di legno, dei cerchi (indicativamente da 55 e 40cm), delle forme a goccia (da utilizzare per le ali) e altri elementi come per esempio triangoli o rettangoli.
Stampate il foglio con le immagini
degli insetti (lo trovate su www. azione.ch) quindi incollatelo, intero o a pezzi, su di un cartone. Rivestite le immagini con la plastica adesiva in modo da proteggerle nel tempo da eventuali macchie e ritagliatele lungo i bordi in modo da ottenere otto cartoncini distinti. Ora potete iniziare il gioco vero e proprio. Prendendo le fotografie come riferimento, assemblate le varie forme di cartoncino per ricreare le diverse specie proposte. Come base centrale su cui incollare gli elementi utilizzate il bastoncino di legno. Naturalmente potete ampliare con altre immagini la vostra bacheca degli insetti, magari ritagliando le figure dalle riviste. Abbellite e completate i vostri insetti con simpatici occhietti semovibili e piccole antenne, o zampe, create con il cordoncino nero. Riponete tutto
Materiale
• Cartoncini colorati
• Stampante per le fotografie
• Bastoncino di colla
• Bastoncini di legno
• Forbici/taglierino
• Cordoncino nero
• Occhi semovibili
• Cartone di recupero 21x30cm
• Pellicola adesiva trasparente
(I materiali li potete trovare presso la vostra filiale Migros con reparto Bricolage o Migros do-it)
il materiale in una scatola, in modo da averlo a disposizione anche per una sessione «in natura» a osservare nuovi insetti da ricreare.
Buon divertimento!
Tutorial completo azione.ch/tempo-libero/passatempi
Vinci una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una carta regalo da 50 franchi con il sudoku
Cruciverba
Lei: «Ti lascio perché tu non mi capisci!»
Lui: «In che senso?»
Lei: «Vedi!» Trova la risposta di lui leggendo a cruciverba ultimato le lettere evidenziate.
(Frase: 9, 5, 8, 4)
5. Invece, al contrario
6. Simbolo chimico del platino
7. Ha le caratteristiche di una cantina
8. Indignate
10. Eccelse quelle di Galilei e Einstein
13. La cantante Pausini
15. Fanno
Soluzione della settimana precedente
INSTANCABILI FORMICHE – Alcune formiche hanno nel formicaio dei pronto soccorso. Questo genere di formiche si chiama: MATABELE il loro luogo di origine: AFRICA SUB-SAHARIANA
stigma e un carpello
24. Erano dette «I cani di Zeus»
26. Nei cerchi e nei triangoli
27. Hanno la testa tagliata
28. A volte precede il... fatto!
33. Un articolo al contrario
Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell ’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 22 aprile 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino TEMPO LIBERO 23
ORIZZONTALI 1. Numero delle Muse 4. Boccioli in cucina 9. Isabella per gli amici 10. Uomini inglesi 11. Torna se ora non c’è... 12. Le iniziali del regista Scola 13. Utensile da pescatore 14. Ha la pelle anserina 16. Capi malvagi e autoritari 18. Stato francese 19. Richiesta di soccorso 20. Asso inglese 22. Prefisso che viene dopo il «bi» 23. Poco chiara, debole 25. Riposa in pace... 27. Profanare 29. Così è a volte la sorte 30. Strumenti nei prati 31. Le iniziali dell’attrice Cortellesi 32. In italiano e in tedesco 34. Preposizione 35. È ripetitivo 36. Dolori muscolari 37. Mare del Mediterraneo VERTICALI 1. Negazione russa 2. Introduce un chiarimento 3. Simbolo del voltampere 4. Segno d’intesa
Giochi e passatempi
le arcate con arte... 17. Scandita, scadenzata 18. Scuola francese 20. Non si deve calpestare 21. L’insieme delle donne che abita una casa musulmana 23. Ha uno
TV
35. Sigla di notiziari
Sudoku
M A T T E O A T R O B E L E A F O R I I C L E O A S O L A S U A S B A S E F A L C H I I L E C A R L O O T I P O R T A P N O M I C I D A A P E 9 5 3 2 1 7 1 6 1 8 6 3 9 7 7 9 8 5 4 9 1 4 8 5 6 6 8 7 1 5 9 2 4 3 1 3 9 7 2 4 8 6 5 5 2 4 3 8 6 9 7 1 3 9 8 6 7 1 5 2 4 7 4 1 2 3 5 6 8 9 2 6 5 4 9 8 3 1 7 9 7 6 5 4 2 1 3 8 4 5 2 8 1 3 7 9 6 8 1 3 9 6 7 4 5 2
Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.
1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37
Andrea Caduff, perché i cosmetici naturali sono così popolari?
Perché contengono solo sostanze naturali e sono delicati con pelle, capelli e ambiente. Sono privi di coloranti, profumi e conservanti sintetici trattati chimicamente nonché dei controversi siliconi, microplastiche e organismi geneticamente modificati.
In che modo Mibelle testa la loro efficacia?
Come per i prodotti convenzionali, li invia a un laboratorio dove vengono testati e valutati anche da persone appositamente prescelte. In questo modo è possibile analizzare facilmente fattori come compattezza cutanea, profondità delle rughe e idratazione.
I prodotti sono anche vegani? Non necessariamente. I cosmetici naturali possono contenere materie prime di origine animale come latte o miele.
Come si riconosce un prodotto naturale?
Il termine «cosmesi naturale» non è protetto. Esistono svariati marchi con direttive diverse. I marchi stabiliscono ad esempio quanti oli vegetali devono contenere le creme trattanti. La linea I am Natural della Migros è certificata Nature.
Di cosa devo tenere conto quando cambio prodotto?
In realtà di nulla. Solo le persone allergiche dovrebbero prestare un po’ più di attenzione in quanto potrebbero reagire a certi ingredienti di origine vegetale. Possono essere problematici soprattutto i profumi. Il modo migliore per testare la tolleranza è fare un test nella piega sensibile del gomito.
Quanto sono efficaci i cosmetici naturali?
Come si riconoscono questi prodotti e dove vanno conservati? La sviluppatrice di cosmetici naturali Andrea Caduff di Mibelle risponde a sette domande chiave
Dove vanno conservati i prodotti?
Valgono le medesime raccomandazioni dei cosmetici convenzionali. L’ideale è conservare i prodotti a temperatura ambiente nell’armadietto del bagno. La luce del sole non giova ai cosmetici, perché può alterarne il colore e il profumo. Inoltre bisognerebbe evitare i luoghi umidi e freddi. È sconsigliato tenere i prodotti in frigorifero in quanto il freddo potrebbe modificarne la struttura.
Vanno consumati più in fretta degli altri?
No, in fatto di conservabilità non differiscono dai prodotti convenzionali. Il logo sul barattolo indica la durata di conservazione dopo l’apertura, ad esempio tre, sei o dodici mesi. Spesso la data di scadenza è stampata o è visibile sulla piega del tubetto.
Testo: Susanne Schmid Lopardo
I am Natural Cosmetics
Olio trattante alla rosa, 100 ml Fr. 9.95
I am Natural Cosmetics
Balsamo per mani e unghie, Pure Sensitive, 75 ml Fr. 4.50
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 22 aprile 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino MONDO MIGROS 24
Cosmetica naturale
BENESSERE
Immagine: Getty Images, Adobe Stock
Cura naturale
Viaggiatori d’Occidente
Dupe Travel, e le zone d’ombra del turismo
Da quando abbiamo dimenticato libri e quaderni perché leggiamo e scriviamo in rete, inevitabilmente pensiamo anche nelle forme della cultura digitale. D’altronde già negli anni Sessanta il sociologo canadese Marshall McLuhan scriveva che il «medium è il messaggio», ovvero che nella comunicazione la struttura è più importante dei contenuti. Sarà per questo che quando si parla di viaggi si moltiplicano liste ed elenchi.
Tra gli obiettivi più ambiti troviamo «trenta prima dei trenta», ovvero visitare trenta Stati prima di aver compiuto trent’anni. O ancora vedere tutti e sette i continenti prima di avere figli, o fotografare in un solo safari in Africa i «Big Five» (leone, leopardo, rinoceronte, elefante e bufalo). Una rivista digitale americana, «Travel + Leisure», si è spinta oltre, con raccomandazioni specifiche per ogni età
della vita. E così a vent’anni si consiglia il Costarica (esotico, economico, avventuroso), a trenta il Giappone (design, cultura, storia), nei decenni seguenti Perù e Galapagos; e per riposarsi, intorno ai sessanta, ben venga la dolce (e costosa) Francia, tra arte, cibo e vini. Questo modo di pensare però rende inevitabilmente superficiale il viaggio, riducendolo a un elenco da spuntare dopo aver scattato tutti le stesse foto per Instagram; soprattutto convoglia milioni di turisti in pochi luoghi generando Overtourism, il male del nostro tempo.
Se però detestate la folla, o avete risorse ridotte ma non volete rinunciare ai viaggi, potete sempre adottare la nuova filosofia Dupe Travel («viaggio doppione, rimpiazzo»). Di cosa si tratta? È la ricerca di alternative più economiche e meno battute, dove tuttavia le attrazioni sono simili all’originale. Un esempio
Passeggiate svizzere
è dato dalle spiagge delle Filippine o dell’Indonesia che non sono inferiori a quelle assai pubblicizzate della Thailandia; e alcuni sconosciuti lidi della costa turca non si sentono tuttavia da meno dei loro dirimpettai greci. A livello di Stati, il Portogallo (con notevole ottimismo) si propone al posto dell’Italia. Lo stesso naturalmente vale anche per le città e potrebbero consigliarvi Cracovia invece di Roma, Belfast al posto di Londra e Memphis per Nashville. Soprattutto i giovani (Millennial e Generazione Z) sono incuriositi da questa prospettiva, tanto che su TikTok #dupe ha più di 6,5 miliardi di visualizzazioni. I vantaggi di questo stile di viaggio sono evidenti: risparmio (o servizi di lusso allo stesso prezzo), una migliore esperienza, un più facile contatto con i locali, il piacere della scoperta. Naturalmente il viaggio dupe non va preso troppo sul
La chiesa prebrutalista di Moser a Basilea
Il campanile all’origine del soprannome appioppato, all’epoca, dalla gente del quartiere alla prima chiesa in beton della Svizzera, lo becco subito appena sceso dal tram numero uno. Rettangolare e smilzo, non ci vuole certo un occhio da spügnölatt per vederlo svettare come un grattacielo o più simile, nello sguardo dei basilesi abituati al paesaggio portuale sul Reno, a un silo. «Seelensilo »: silo delle anime, così era stata appunto ribattezzata la Antoniuskirche. E in effetti, il campanile alto sessantadue metri della chiesa dedicata a Sant’Antonio di Padova, mi ricorda un po’ il silo di Bernoulli del 1923, già soggetto-reportage da queste parti tempo fa. E se non ricordo male, come in un gioco di specchi borgesiano, quel silo insolito, da un lato, ricordava proprio una chiesa.
Innestata alla perfezione nella linea di case parallela al filare di plata-
ni che percorro perdendomi nel verde delle loro prime foglioline, non è però il campanile, l’elemento più rimarchevole della chiesa prebrutalista di Moser (269 m) al trentacinque della Kannenfeldstrasse di Basilea. Di botto, è il portale che mi si para davanti sul marciapiede, il primo passo verso la coraggiosa bellezza di quest’opera del 1927 di Karl Moser (1860-1936). Architetto del Kunsthaus di Zurigo e della Badischer Bahnhof sempre qui a Basilea, la cui mano sottile e decisa, ammirabile nei suoi schizzi a carboncino dove non dimenticava gli alberi resi nuvolosi, è degna di nota. La strombatura richiama i portali gotici o romanici, però il lieve digradarsi dell’archivolto in archi concentrici qui è estremizzato ed è rettangolare. Ingigantito al massimo, in modo da elevare lo sguardo al cielo, lo strombo è un magistrale crescendo o dimi-
Sport in Azione
Benvenuto centro Ice&Bike
L’hockey ticinese ha fame di ghiaccio. Il ciclismo ticinese anela a percorsi sicuri. Nel primo caso servono soldi e lungimiranza. Nel secondo, la missione parrebbe impossibile. Per anni, Ticino Cycling si è arrabattata tra pubblico e privato, tra marsine da tirare, ipotesi, promesse, rinunce e delusioni. Lo ha fatto per poter avere un velodromo adatto alla formazione delle giovani leve, ma anche per offrire agli amatori la possibilità di pedalare in sicurezza. Ne va della sopravvivenza del movimento giovanile, che negli ultimi decenni si è notevolmente assottigliato. Ha subito una contrazione costante, anche a causa del ventennio nero del doping (grosso modo 19902010), che oggi sembrerebbe sgamato, punito e, si spera, sconfitto e sepolto. La credibilità si fa in fretta a perderla. Ma è molto più lenta da riconquistare. A scatenare timori e fughe, purtroppo non quelle esaltanti dei campioni,
hanno contribuito anche l’aumento del traffico e l’avvento dei telefonini. Non è piacevole, a volte è persino letale, fare i conti con una generazione di automobilisti perennemente distratti dai display dei loro apparecchi. Lo spostamento dalla strada, in sella a una bici da corsa, verso sentieri e mulattiere, in sella a una Mountain Bike, è stata la logica conseguenza. Non credo sia un caso che i nostri due attuali corridori di punta, Filippo Colombo e Linda Zanetti, siano nati e cresciuti come Bikers. Ma gli stradisti non ci stanno. Dalla loro hanno la tradizione, la storia, l’epica di una disciplina sportiva affascinante che ha emozionato generazioni di appassionati. Tuttavia il Ticino non è l’Olanda, e neppure il Belgio. Anche in numerosi cantoni rurali della Svizzera interna, i giovani pedalatori beneficiano di condizioni più protette, e più rassicuranti per i genitori.
di Claudio Visentin
serio. Parigi o Venezia non sono facilmente surrogabili (ma potreste sempre andarci in bassa stagione). Inoltre qualcuno ha difeso anche queste seconde scelte, sottolineando come in fondo ogni destinazione abbia un suo fascino e storie da raccontare, e dunque non meritino di essere relegate al ruolo di riserve.
Naturalmente poi c’è sempre chi sceglie di uscire dai sentieri battuti. La scrittrice inglese Hilary Bradt cinquant’anni or sono ha dato il suo nome a una casa editrice di guide, l’ultima veramente indipendente dopo la cessione dei marchi più famosi a grandi gruppi. L’attività cominciò nel 1973, quando insieme al marito trovò un sentiero nascosto che dall’antica capitale Inca di Cuzco conduceva a Machu Picchu. L’anno dopo Hilary Bradt scrisse la prima guida Bradt dedicata proprio a questo cammino, su una chiatta lungo un affluen-
te del Rio delle Amazzoni. Da allora ha scelto di raccontare solo Paesi sconosciuti al mercato turistico: Uganda, Jugoslavia, Corea del Nord, Iran, Iraq, Eritrea, Madagascar. E tuttavia proprio il suo entusiasmo per queste zone d’ombra spesso le ha aperte al turismo di massa.
Machu Picchu (Patrimonio Unesco dal 1983) oggi è soffocato dai turisti. Il Vietnam ‒ descritto dalle guide Bradt quando la guerra era finita da solo due anni e nessuno immaginava che un giorno gli americani sarebbero tornati come turisti ‒ è oggi la meta emergente nel sud-est asiatico. E l’Albania già comunista è ora di tendenza nel Mediterraneo. Questo perché l’industria del turismo insegue chi apre piste nuove e colonizza le terre un tempo percorse da pochi avventurosi. E pazienza se così il cerchio si chiude e si torna alla casella di partenza.
nuendo misurabile in metri, attraverso sette movimenti scalari che creano forti ombre orizzontali. Il cemento a vista accentua il poderoso atletismo geometrico-spirituale di questo portale prebrutalista che non conduce in chiesa ma in una corte-tunnel. Il teorico dell’architettura Stanislaus von Moos conferma il mio stupore: «Il portale è probabilmente l’elemento più strano di tutta la chiesa». In fondo alle lesene discendenti che formano scanalature luminose nelle pareti, con ben visibili le tracce dei casseri per il beton gettato in opera, c’è lo spazio per sedersi. Uno zoccolo-panchina in una nicchia come luogo di sosta. E non è una cosa da poco questa possibile tregua dal mondo senza bisogno di entrare per forza in chiesa. Anche se dentro, una domenica mattina tardi di aprile, rimango di sale: la vastità di spazio di una cattedrale gotica però austera
con la magnificenza del beton lasciato grezzo anche qui con le impronte dei casseri che decorano con la giusta dose di sprezzatura. E soprattutto, accarezzato dalla luce colorata delle vetrate a tutto campo. Otto colonne rettangolari si elevano slanciate per diciotto metri, strutturando lo spazio in tre navate classiche. La volta a botte tutta a cassettoni che tocca i ventidue metri di altezza lascia senza fiato. Ispirata da Notre-Dame du Raincy, opera seminale di Gustave Perret appena fuori Parigi, l’Antoniuskirche è presente, con il suo interno, nell’insostituibile Storia dell’architettura moderna (1950) di Bruno Zevi che definisce Moser «il decano del movimento moderno elvetico». Questo spazio straordinario per semplicità e audacia che perlustro naso all’insù si trova anche nella Kunstführer der Schweiz (1936) di Hans Jenny che si lascia andare di-
chiarando un «sorprendente effetto». La celebrazione in corso della comunità cattolica filippina aggiunge una nota inattesa di esotismo. Una signora, attirata qui dall’architettura, si aggira come me estasiata. Incrociando il mio sguardo mi fa: «Klasse!». Conto i cassettoni e facendo due calcoli credo siano cento ma poco importa perché è la luce propagata intorno che conta. Il gotico protorazionalista incontra la psichedelia a passeggio. «Una luce di un’altra realtà» affermava Georg Schmidt, storico dell’arte e direttore del Kunstmuseum di Basilea tra il 1939 e il 1961 e uno dei primi, tra l’altro, a capire la grandezza di Alberto Giacometti. La luce delle vetrate di Hans Stocker e Otto Staiger, ora, nel coro in alto, trasborda sul beton. Ed è forse quest’unione di etereo e cemento armato, l’esile e fugace cattura più importante del mio viaggio di oggi.
Sono queste le ragioni che hanno spinto i dirigenti di Ticino Cycling a lottare per un velodromo di formazione. Sull’anello parabolico, si può cadere, ovvio, e questo fa parte dei rischi del gioco. Ma si impara anche a condurre la bicicletta in condizioni meno stressanti. E se la pista è densamente occupata, si affina persino la capacità di stare in gruppo, di limare, di vivere i contatti gomito a gomito con una certa «nonchalance» per poi tornare sulla strada con un bagaglio tecnico arricchito. Tra meno di due anni tutto ciò sarà realtà. Dall’iniziativa di un imprenditore locale (Gianni Ochsner) sta nascendo, sul territorio di Sigirino, una struttura multifunzionale che ha del miracoloso. Conterrà una pista di ghiaccio alla quale l’Hockey Club Lugano sta già facendo gli occhi dolci, al pari del club di pattinaggio artistico, spesso costretto a programmare se-
dute di allenamento a orari impossibili, il mattino presto, o la sera tardi. Le cinque corsie per il curling consentiranno la disputa di gare valide per i campionati ticinesi e svizzeri, e in prospettiva non si esclude che possano ospitare anche sfide di livello internazionale. I tre simulatori per sci alpino e sci di fondo serviranno soprattutto a effettuare dei test relativi alla postura e alla misurazione di potenza. Completeranno il polo sportivo una palestra, un centro di medicina sportiva gestito da Ars Medica, bar, ristorante e ostello. Pardon, me ne stavo dimenticando, ci sarà anche un velodromo, con all’interno due ulteriori mega-palestre. Tutto definitivo, tranne l’anello, che sarà provvisorio, per la durata di sette anni, in attesa che Ticino Cycling trovi una sistemazione. Intanto i dirigenti pregustano questa novità che vale ossigeno. Il sorriso si allarga anche all’Italia, dove la penu-
ria di impianti del genere è endemica. Ci si può contare, il nuovo centro multitasking di Sigirino sarà un successo, anche perché, oltre che dei capitali privati, godrà anche del sostegno della Città di Lugano, che già da tempo ha sottoscritto due convenzioni per regolarne il finanziamento, in ragione di dieci milioni di franchi sull’arco di sette anni. È un esempio virtuoso di partenariato tra privato e pubblico, senza il quale Lugano, già massicciamente impegnata con la realizzazione del Polo Sportivo e degli Eventi, avrebbe dovuto investire cifre ben superiori per garantire suolo, pista e ghiaccio a chi lo richiede a viva voce. Dopo aver girato il cantone per anni alla ricerca di un terreno sul quale edificare il suo velodromo, Ticino Cycling beneficerà quindi di un periodo di tregua. Se poi Sigirino sarà una tappa intermedia, oppure l’approdo finale, ce lo dirà il tempo.
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 22 aprile 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino 25 TEMPO LIBERO / RUBRICHE ◆ ●
di Giancarlo Dionisio
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Sabato 8.00–18.30
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IMPERDIBILI PROMOZIONI E ATTIVITÀ
Il coraggio delle iraniane
Tensione alle stelle dopo l’attacco di Teheran ad Israele mentre la Repubblica islamica annuncia un nuovo giro di vite sulle donne
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Occhi puntati sul voto indiano
In India, la più grande democrazia al mondo, si vota. Si tratta di uno dei massimi appuntamenti politici del 2024, ecco perché
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La Svizzera e la guerra in Ucraina
Dove si muore di solitudine
In Giappone il sistema perverso degli host clubs, quei locali dove uomini intrattengono a pagamento le clienti, mostra una crisi sociale profonda
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Le sfide ◆ Dagli averi degli oligarchi russi alla Conferenza sulla pace in territorio elvetico, passando dagli aiuti miliardari a Kiev
Non è decisamente un gran momento per la neutralità elvetica, un valore che assomiglia sempre di più a una coperta troppo corta. La guerra in Ucraina, quella a Gaza e le tensioni crescenti tra Israele e Iran sono senza dubbio le prove maggiori a cui è confrontata la neutralità del nostro Paese. Sfide che inevitabilmente innescano anche accesi dibattiti interni. Una scacchiera delicata sulla quale in questi ultimi tempi ci sono state alcune mosse politiche, tutte degne di nota e tutte in relazione all’invasione russa dell’Ucraina. Ma andiamo con ordine.
Task force internazionale
I lavori preliminari avevano dato qualche speranza al fronte del «sì», di chi vorrebbe che il nostro Paese aderisca al più presto alla task force internazionale che si occupa di cercare e di bloccare gli averi degli oligarchi russi e bielorussi depositati in Occidente, Svizzera compresa. Seppur di misura, con un solo voto di scarto, dai lavori commissionali era scaturito un sostegno a questa adesione, sollecitata con forza dal G7 e da diversi Paesi dell’Unione europea. Mercoledì scorso, invece, il Consiglio nazionale ha deciso diversamente, facendo leva proprio sul concetto di neutralità. Per il Parlamento, come pure per il Governo, il nostro Paese sta già facendo la sua parte nel dare la caccia ai fondi russi sospetti, inutile pertanto aderire alla task force del G7. Un passo di questo genere costringerebbe Berna a schierarsi in modo deciso a sostegno dei sette Paesi più industrializzati del mondo, un «blocco economico» a chiara trazione statunitense. Meglio rimanerne fuori, per non prestare il fianco a chi ci potrebbe accusare di parzialità, e il riferimento è ovviamente alla Russia – che ha già più volte criticato la scelta di campo del nostro Paese – ma anche alla Cina, all’India e ad altri Stati del cosiddetto Sud globale.
Fine della neutralità?
La collaborazione con la task force comunque continua, seppur solo a livello tecnico. Le stime dicono che nel nostro Paese i patrimoni legati agli oligarchi russi, più o meno vicini a Putin, ammonterebbero a circa 200 miliardi di franchi. Berna, con la Segretaria di Stato dell’economia, afferma di averne già congelati 7, anche se tra i parlamentari in aula c’è chi ha puntato al raddoppio: gli averi bloccati si aggirerebbero attorno ai 14 miliardi. La sostanza, tutta politica, non è comunque legata alle cifre ma alla necessità del nostro Paese di continuare ad agire in modo autonomo. E questo anche alla
luce dell’iniziativa popolare chiamata «per la salvaguardia della neutralità», che in poco tempo ha raccolto oltre 130mila firme e su cui si voterà tra un paio d’anni. Un’iniziativa targata UDC che mira a una neutralità permanente e armata, un principio ferreo che impedirebbe anche la ripresa da parte del nostro Paese di sanzioni decise a livello internazionale. Un’adesione alla task force del G7 rischierebbe pertanto di portare acqua al mulino blocheriano. Ed è anche questo uno dei motivi alla base di questa recente decisione del Consiglio nazionale. In fondo, ci dice la maggioranza del Nazionale, la nostra neutralità non può essere costantemente messa in discussione, non si farebbe che aggiungere altre ammaccature a questo principio fondamentale della nostra politica estera.
La Russia manca all’appello E
questi giorni, quella che il Consiglio federale nei suoi comunicati ufficiali chiama la «Conferenza di alto livello sulla pace in Ucraina». Appuntamento il prossimo 15 e 16 giugno, sul Bürgenstock, nel Canton Nidwaldo. A ospitare questo vertice un albergo d’alto rango, con vista imprendibile sul Lago dei Quattro Cantoni. Una struttura scelta per ragioni di sicurezza, il luogo si presta più di altri, hanno fatto sapere gli esperti della Confederazione, per garantire la giusta protezione ai tanti ospiti in arrivo dai quattro angoli del mondo per cercare di individuare una via che possa portare alla pace in Ucraina. Nessuno, tantomeno il nostro ministro degli esteri Ignazio Cassis, si fa comunque delle illusioni. L’assenza certa della Russia impedisce di compiere concreti passi verso la pace. Ma se sul Bürgenstock arriveranno anche i rappresentanti di Cina e India, due tra i Paesi oggi più vicini alla Russia, allora la Conferenza potrebbe segnare una tappa significativa, seppur non risolutiva, verso la fine delle ostilità. Al momento si sa
soltanto che nei mesi scorsi, nella cosiddetta «fase esplorativa», questo incontro «di alto livello» ha ottenuto un significativo sostegno su scala internazionale. La Svizzera mette dunque in campo i buoni uffici di un Paese per sua natura pronto alla mediazione. Un modo per far capire, anche internamente, che giocare la carta della neutralità può ancora portare dei frutti, perlomeno tra chi fa del rispetto del diritto internazionale uno dei principi fondamentali per la stabilità di tutto il pianeta.
Tradizione umanitaria
La diplomazia comunque non basta. Al nostro Paese, come del resto a tanti altri, è richiesto anche uno sforzo finanziario per aiutare l’Ucraina a livello umanitario ed economico. Un sostegno che il Consiglio federale ha deciso di intensificare sul lungo termine, con un programma che si estenderà per i prossimi dodici anni, con un impegno finanziario di 5 miliar-
di di franchi fino al 2036, e cioè circa 420 milioni all’anno. In una prima fase, per i prossimi quattro anni, l’aiuto all’Ucraina ammonterà a un miliardo e mezzo di franchi, finanziati interamente dai fondi stanziati per la Cooperazione internazionale. Un travaso contabile che ha fatto uscire dai gangheri diverse organizzazioni umanitarie. Alliance Sud, il centro di competenze per la cooperazione e lo sviluppo internazionali, ha definito «inaccettabile» il metodo di finanziamento scelto dal Governo, a rischio c’è il lavoro di diverse ONG svizzere attive nei Paesi più poveri del mondo. Tocca ora al Parlamento occuparsi del tema, quando in autunno dovrà occuparsi della strategia svizzera in questo ambito, per i prossimi quattro anni. In gioco qui c’è la tradizione umanitaria del nostro Paese, uno dei pilastri su cui poggia la politica estera elvetica. Lavori in corso, dunque, per definire il posto del nostro Paese sullo scacchiere internazionale. E per tenere perlomeno a galla la neutralità e la tradizione umanitaria elvetiche.
● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 22 aprile 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino 27
ATTUALITÀ
visto che di
estera si tratta veniamo al
grande
di
politica
secondo
tema
La ricostruzione dell’Ucraina sarà lunga e dispendiosa. Intanto, Berna intende donare a Kiev 5 miliardi di franchi fino al 2036. Nella foto: Chernihiv in macerie. (Keystone)
Roberto Porta
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Le iraniane non si lasciano intimidire
Diritti umani ◆ Tensione alle stelle dopo l’attacco ad Israele da parte di Teheran mentre la Repubblica islamica annuncia un’ulteriore stretta nei confronti delle donne. Ma molte non cedono
Cristina Marconi
«Se uno cerca veri attivisti contro la guerra, deve solo guardare le impavide donne dell’Iran. Ogni giorno affrontano i guerrafondai per strada». Sa bene di cosa parla Masih Alinejad, giornalista e attivista iraniana che, dagli Stati Uniti, sostiene con tutta la forza di cui la sua voce è capace il movimento delle sue connazionali che, a Teheran e in molte altre città del Paese, continuano la loro lotta per ottenere diritti e libertà anche dopo che, con la tensione internazionale alle stelle, la Repubblica islamica ha annunciato una ulteriore stretta nei confronti delle «donne che non hanno fatto attenzione ai precedenti avvertimenti della polizia». E che, secondo la sinistra promessa del generale Abasali Mohammaddian «saranno l’oggetto di un attenzione particolare e saranno perseguite», come poi è prontamente avvenuto nei fatti. «Da donna che vive in Iran, la probabilità di morire per mano della polizia morale è più alta di quella di morire sotto le bombe israeliane», ha sentenziato un’utente di X, indicando bene quella che è l’atmosfera nel Paese.
L’ayatollah Ali Khamenei ha ribadito che le donne di ogni religione devono portare il velo in modo corretto nel Paese
Il 13 aprile scorso è stato il giorno in cui tutto è precipitato e Teheran ha fatto la voce grossa, molto grossa: sono stati lanciati i missili verso Israele e annunciato un giro di vite sul rispetto della cosiddetta morale pubblica, a pochi giorni dal discorso della guida suprema, l’ayatollah Ali Khamenei, il quale aveva ribadito che le donne di ogni religione devono portare il velo in modo corretto nel Paese, come stabilito in seguito alla Rivoluzione del 1979 che ha tolto alle donne le libertà di cui godevano con lo shah. Nonostante gli annunci, le donne non si sono lasciate intimidire, come dimostrano gli orrendi video di giovani spinte nelle camionette della polizia oppure quello di una ragazza senza velo in preda a convulsioni in strada dopo che il cellulare le era stato confiscato e assistita da una folla di persone, tra cui alcune donne più anziane con il velo morbidamente appoggiato su una testa quasi scoperta.
Il punto di non ritorno
Una violazione delle regole, la dimostrazione che la ribellione non appartiene solo alle tante giovani temerarie, come l’artista e militante Atena Farghadani, arrestata il 13 aprile per «propaganda contro la Repubblica islamica» e pronta a rifiutare perfino la sua liberazione su cauzione in segno di protesta. Le donne vengono
Un’illustrazione
aggredite nelle loro macchine, i locali in cui le regole sul velo non sono rispettate vengono chiusi. Le denunce pubbliche si moltiplicano, la sensazione è che l’insofferenza sia arrivata a un punto di non ritorno e che neanche i 500 morti degli ultimi anni bastino a mettere paura.
Il regime di Teheran parla di festeggiamenti di massa tra i cittadini per l’attacco a Israele, ma la realtà è molto diversa
Dalla morte di Mahsa Amini nel settembre 2022 (in seguito ad un arresto perché non indossava correttamente l’hijab), una larga fetta della popolazione ha iniziato a manifestare contro il Governo, dando linfa al movimento Donna, Vita, Libertà Il Governo ha risposto con la Legge sulla castità e sul velo che aumenta le punizioni nei confronti delle ragazze e delle donne accusate di indossare il velo in modo scorretto. Nel non cedere, ha accresciuto uno scontento che, secondo Shirin Ebadi, avvocata e premio Nobel per la pace nel 2003, tocca ormai vette dell’80 per cento della popolazione.
La Repubblica islamica ha ben chiara la situazione, ma l’ha risolta con la brutalità, tanto che, secondo Ebadi, «hanno aumentato la polizia morale,
responsabile)
Simona Sala
Barbara Manzoni
Manuela Mazzi
Romina Borla Natascha Fioretti Ivan Leoni
sono tornati a essere molto aggressivi con le donne che non indossano il velo, hanno fatto sapere che chiunque supporti Israele, anche via social, verrà messo in prigione. Il primo, vero nemico di Khamenei è il popolo iraniano». Che sia un segno di nervosismo o meno, il fatto che tante donne continuino a sfidare la legge, con un forte sostegno degli uomini come spiegato nel bellissimo libro di Liliana Faccioli Pintozzi, Figlie di Eva, che parla della situazione dei diritti delle donne in Iran, Afghanistan e Stati Uniti, mostra un pericolo dilagante per Teheran, che deve vedersela con una società istruita, avanzata, in cui il ricordo della parità passata continua a farsi sentire.
Il simbolo dello scontento
Il velo è simbolo di uno scontento diffuso. Ovviamente il regime parla di festeggiamenti di massa tra i cittadini per l’attacco a Israele, ma non è così: la preoccupazione per l’economia, l’inflazione alle stelle, il crollo del valore della valuta e la paura per l’impatto di nuove sanzioni – come quelle annunciate giovedì 18 aprile dagli Stati Uniti nei confronti delle aziende che producono droni e dell’industria siderurgica e seguite dall’annuncio che anche altri Paesi si muoveranno in questa direzione
– sono molto più concreti. Certo, in una situazione di guerra vera e propria il Governo avrebbe gioco facile a dare un’ulteriore stretta autoritaria e cercare di contenere lo scontento, ma la posta in gioco è enorme e finire nel mirino di Israele non è una cosa che il regime di Teheran possa affrontare senza preoccupazioni.
Attiviste e attivisti stanno chiedendo un segnale forte di sostegno alla loro causa da parte dei leader mondiali
Per questo attiviste e attivisti stanno chiedendo un segnale forte da parte dei leader mondiali. Il direttore del Centro per i diritti umani in Iran, CHRI, Hadi Ghaemi, ha detto che donne e ragazze sono oggetto «di violenza di Stato fuori dal controllo» e per questo ha chiesto che si codifichi l’apartheid di genere come crimine contro l’umanità e che ci siano condanne pubbliche dalle Nazioni unite e dai Governi. Il corto circuito fa sì che il dolore per la tragedia a Gaza abbia gettato una luce di simpatia internazionale per le azioni del regime di Teheran e il suo attacco a Israele. Il rischio è che questo lasci sole le attiviste e le donne comuni, distolga da loro l’attenzione che meritano per il loro coraggio in questa e in altre battaglie.
The Italian Far Right from 1945 to the Russia-Ukraine Conflict di Nicola Guerra, Routledge, dicembre 2023.
La guerra russo-ucraina? È anche una guerra civile dentro l’estrema destra euro-occidentale, frantumata tra sostenitori di Vladimir Putin e ammiratori del battaglione Azov ucraino, con la sua «ideologia e simbologia nazista». Il fondatore del terrorismo comunista in Italia Renato Curcio? Aveva cominciato la carriera nell’estrema destra europea. Esistono legami, non solo tra neofascismo e comunismo, ma anche tra estrema destra europea e NATO. Lo dice il saggio storico di Nicola Guerra, docente presso l’Università di Turku (in Finlandia).
Lo studio di Guerra parte dalle ideologie dei partiti di estrema destra italiani, ma si allarga ad abbracciare questo fenomeno politico su scala europea. E il risultato è questo: gli asteroidi della galassia neofascista si sono frantumati davanti alla tragedia cosmica del conflitto russo-ucraino. In particolare Forza Nuova e il gruppo di Orion («eurasista», «rosso-bruno», anti-americano e sotto l’influenza della Quarta teoria politica di Aleksandr Dugin) sono filo-russi. Invece il movimento di Casa Pound Italia (CPI) è filo-ucraino e ostile alle teorie geopolitiche di Dugin, in quanto allineato su posizioni filo-occidentali e pro-NATO. Questa spaccatura è una ripresa su scala microscopica dello storico conflitto tra la geopolitica del Behemoth (che simboleggia il colossale mostro continentale) e quella del Leviatano (il grande drago che incarna le talassocrazie anglo-americane). Ma la scala si allarga ancora perché questa spaccatura italiana dell’estrema destra si riproduce in tutti i Paesi dell’Europa.
Quindi militanti di CPI sono oggi al fronte, arruolati nelle forze armate ucraine che ricevono supporto dalla NATO, organizzazione che CPI (animata da un suprematismo bianco occidentale) considera una barriera contro «i popoli primitivi della Russia» e il «neo-sovietismo». Ma neofascisti di altro orientamento politico si sono uniti, già da prima dell’esplodere del conflitto russo-ucraino, alle bande armate separatiste e filo-moscovite della regione del Donbass. Quindi – dice Guerra – oggi al fronte, in Ucraina, foreign fighter neofascisti di diverso orientamento si sparano addosso.
Il retroterra storico di questa «guerra civile» riguarda l’uso che la NATO fa dei militanti di estrema destra europei. Questo rapporto comincia nel 1947, con una rete occulta anticomunista nota come Los Angeles Network Da allora movimenti politico-terroristi italiani lavorano per l’intelligence americana e la NATO (ed elementi collegati a questi gruppi mettono bombe sui treni e nelle piazze). Ma già allora esisteva nell’estrema destra una spaccatura fra eurasisti anti-americani e fascisti pro-NATO, e i secondi hanno cercato di infiltrare e strumentalizzare i primi con l’operazione del cosiddetto «nazi-maoismo». Da questa confusione ideologica emerge Renato Curcio, che fonda il terrorismo di sinistra italiano noto come Brigate Rosse.
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 22 aprile 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino ATTUALITÀ 29
azione Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Abbonamenti e cambio indirizzi tel +41 91 850 82 31 lu–ve 9.00 –11.00 / 14.00 –16.00 registro.soci@migrosticino.ch Redazione
che mostra il volto e i capelli-fiamme di Mahsa Amini, divenuta il simbolo del coraggio delle iraniane. (Keystone)
Carlo Silini (redattore
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Occhi puntati sul voto indiano
L’analisi ◆ È uno dei massimi appuntamenti politici del 2024, ecco perché Federico Rampini
L’India affronta il primo turno delle sue elezioni parlamentari. È uno dei massimi appuntamenti politici del 2024. È importante quasi quanto le elezioni USA, più di quelle del Parlamento europeo. Se non altro per i numeri. L’America rimane la superpotenza numero uno sul piano economico e militare; l’India ha la popolazione più vasta del pianeta e si candida a essere «la prossima Cina» in quanto a dinamismo economico. È anche una superpotenza unica per la sua posizione geopolitica: ha cercato di tenersi fuori dalla nuova guerra fredda che attanaglia il mondo, si è conquistata un ruolo di punta nel Grande sud globale, al tempo stesso rimane corteggiata da parte degli occidentali.
Il risultato di queste elezioni non sembra lasciare spazio a sorprese. Se si eccettua un’ondata di caldo torrido che rischia di penalizzare l’affluenza alle urne. Dovrebbe vincere per la terza volta il premier in carica, Narendra Modi, con il suo partito nazionalista indù BJP. La riconferma di Modi è circondata da diffidenza, ostilità e perfino qualche punta di allarme in Occidente. Va precisato però di «quale Occidente» si tratta. L’India ha espresso da decenni una élite intellettuale sofisticata: artisti, scrittori, registi cinematografici che sono molto cosmopoliti, praticano un pendolarismo costante fra Delhi, Mumbai, New York e Londra, hanno incarichi universitari in Occidente, pubblicano articoli sui media angloamericani. Questa élite è schierata a sinistra. Pertanto pratica una critica selettiva. Ha tollerato per decenni che la sinistra di Governo – cioè il partito del Congresso della dinastia Gandhi – sprofondasse il Paese nella corruzione e nell’inefficienza burocratica. Quando gli elettori hanno cacciato il partito del Congresso all’opposizione, e Modi è arrivato al potere, l’élite intellettuale progressista ha cominciato a descriverlo come un reazionario retrogrado, un aspirante autocrate, per di più con un’impronta di fanatismo religioso induista. Una sorta di Donald Trump locale con l’aggiunta di yoga e reincarnazione. È diventata la narrazione dominante sui media internazionali, quella che descrive l’India come una ex-democrazia, ormai avviata verso l’autoritarismo: con limiti crescenti alla libertà di espressione, e minacce contro le minoranze, soprattutto quella islamica. Questa descrizione coglie alcuni aspetti della realtà, ma ne dà una versione di parte, faziosa. Non aiuta a capire l’India di oggi. Non for-
nisce le chiavi del successo di Modi, che sembra capace di allargare il suo consenso oltre le dimensioni delle vittorie precedenti.
L’India rimane una democrazia. Ha una stampa libera, una magistratura indipendente, un Parlamento pluralista, un federalismo che attribuisce poteri notevoli ai suoi Stati bilanciando così le tendenze accentratrici. Modi ha pulsioni autoritarie e più volte ha tentato di ridurre il ruolo dell’opposizione o della stampa, ma non è più prepotente di quanto lo fosse il partito del Congresso della dinastia Gandhi quando aveva il potere. Alcuni suoi provvedimenti hanno preso di mira i musulmani e i cristiani. Questo però s’inserisce in una storia millenaria, in cui l’identità indiana e induista ha combattuto per difendersi contro i monoteismi aggressivi dei colonizzatori. I colonizzatori più brutali e più longevi sono stati i musulmani, non gli inglesi. La dinastia Mughal ha avuto periodi di felice tolleranza alternati con fasi di feroce e brutale repressione dell’induismo. Più di recente, il sogno del Mahatma Gandhi era quello di costruire con l’indipendenza uno Stato laico, non confessionale, accogliente per tutte le fedi religiose; quel sogno fu frantumato dalla decisione della leadership musulmana di fare secessione nel 1947 creando la teocrazia islamica del Pakistan. Da allora l’India vive sotto la minaccia costante di un vicino ostile che si è dotato della bomba atomica, e non esita ad appoggiare il terrorismo. I rapporti con la grossa minoranza musulmana (oltre duecento milioni di persone) vanno visti in questa luce. L’islamofobia di Modi, se di questo si tratta, nasce nel contesto di una indofobia secolare da parte dei musulmani.
Intanto Modi ha rafforzato i suoi consensi sia nel popolo sia nei ceti imprenditoriali. Piace alle caste inferiori e alla diaspora indiana che dirige le multinazionali Big Tech negli USA (sono di origini indiane i chief executive di Microsoft, Google e molte altre aziende). Una ragione è il suo appeal verso l’orgoglio nazionale. Un’altra è il successo – ancora molto parziale – di Modi nella lotta contro la corruzione, lo statalismo, la burocrazia inefficiente e parassitaria. Modi viene dalla piccola borghesia mercantile – a differenza dei Gandhi laureati nelle migliori università inglesi – e crede nell’economia di mercato. È alleato con alcune dinastie del capitalismo, e gli scambi di favori con questi potentati sono
Due ideologie
Nuova Delhi ◆ A scontrarsi sono il mondo delle élites urbane e la realtà dei villaggi
Francesca Marino
Ben 969 milioni di aventi diritto al voto, di cui 18 milioni di diciottenni, 471 milioni di donne e 60 milioni di nuovi elettori. Ad andare a votare in India, il 19 aprile e il 1 giugno, sarà il 20% circa della popolazione mondiale: la più grande macchina elettorale della storia, con un numero di votanti pari alle popolazioni di USA, Brasile, Russia, Giappone, Francia, Inghilterra e Belgio messi assieme. La madre di tutte le elezioni passate e un modello da seguire per tutti coloro che pensano inconciliabili numeri così enormi e processo democratico. Si va a votare durante 7 giornate spalmate su 42 giorni. Necessari per motivi di sicurezza e per non rendere estenuanti le code al milione e mezzo di seggi elettorali che sono stati allestiti in tutto il Paese. E necessari, soprattutto, per poter rendere disponibili a tutta la popolazione i cinque milioni e mezzo di dispositivi per il voto elettronico.
controversi. La sua scommessa è che le grandi famiglie del capitalismo indiano possano svolgere per la modernizzazione del Paese un ruolo analogo a quello che ebbero i conglomerati in Giappone e Corea del Sud. Pur senza approvare tutto quello che Modi sta facendo, è onesto riconoscergli alcuni risultati. Per crescita economica l’India ha sorpassato la Cina l’anno scorso. Il suo peculiare posizionamento geopolitico sta dando frutti. L’India ha spesso scelto la neutralità o la «terza via» sui temi più controversi del momento. Per esempio non ha aderito alle sanzioni occidentali contro la Russia dopo l’invasione dell’Ucraina. Mantenere buoni rapporti con Putin le ha consentito di comprare gas e petrolio russo a prezzi convenienti. Al tempo stesso sul piano militare Modi ha proseguito la marcia di avvicinamento all’America, anche in funzione di protezione contro l’espansionismo cinese. Questo ha fatto dell’India la prima candidata al «friend-shoring»: la rilocalizzazione di attività produttive da parte delle multinazionali occidentali al fine di ridurre l’eccessiva dipendenza dalla Cina. Un esempio classico è quello di Apple che sta investendo in nuove fabbriche in India per l’assemblaggio di iPhone. L’elettronica è uno dei settori dove è più visibile il riorientamento delle aziende occidentali, giapponesi e coreane, che vedono nell’India un’utile alternativa a Pechino.
Il prestigio dell’India nel Grande sud globale è fatto di tanti ingredienti. Uno è la stazza demografica, che ne fa il peso massimo tra le Nazioni emergenti. Un altro è la sua diaspora, presente non solo in America ai piani alti di Big Tech ma anche nel SudEst asiatico e in Africa. Poi ci sono gli investimenti: le multinazionali indiane pur essendo meno appariscenti di quelle cinesi sono molto presenti in diverse zone del mondo, dal Medio Oriente all’Africa. Infine c’è la storia. Negli anni Sessanta e Settanta l’India sembrava vittima di una trappola della povertà: in seguito è stata protagonista di un formidabile decollo agricolo (oggi è una potenza esportatrice di derrate alimentari) e di exploit in settori avanzati come il software. Quando il Grande sud s’interroga su una possibile «via asiatica allo sviluppo» ha in mente anche l’India, oltre alla Cina. Bisogna augurarsi che la democrazia indiana – così disprezzata in Occidente – diventi un altro modello da esportazione.
dere queste categorie di persone consapevoli dell’importanza di esercitare il loro diritto di voto, a promuovere l’impegno civico e il senso di responsabilità e a sottolineare il ruolo fondamentale dei giovani elettori nella costruzione di un futuro democratico per l’India. I risultati elettorali saranno resi noti il 4 giugno.
Lo sfidante: Rahul Gandhi
«I nostri team percorreranno qualunque distanza per raggiungere ogni elettore, sia che si trovi nella giungla o su montagne innevate», dicono i funzionari della Commissione elettorale. «Andremo a cavallo, con elefanti, muli o elicotteri. Arriveremo ovunque». E siccome la legge indiana stabilisce che nessun elettore deve percorrere più di due chilometri per andare a votare, ne consegue che bisogna davvero trasportare le schede elettorali nelle regioni più remote con qualsiasi mezzo necessario. Alcuni di questi viaggi possono durare giorni: nel 2019 il seggio elettorale più alto del Paese si trovava a quasi cinquemila metri sul livello del mare nella valle di Spiti sull’Himalaya, raggiungibile soltanto a piedi. Nel 2009, un gruppo di cinque persone si è addentrato nella foresta di Gir nel Gujarat per raggiungere l’unico abitante di un remoto tempio indù. I funzionari elettorali hanno anche allestito una cabina elettorale a 4’650 metri di altitudine in un villaggio dell’Himachal Pradesh, rendendola il seggio elettorale più alto del mondo.
Tra muli e voto postale Quest’anno, per la prima volta, la Commissione elettorale ha dichiarato che gli anziani e i disabili possono votare tramite voto postale. Per le elezioni saranno mobilitati 15 milioni di impiegati e personale di sicurezza, alcuni dei quali provenienti da vari settori della pubblica amministrazione e temporaneamente assegnati ai seggi. Il Governo, visto l’alto numero di giovani che andrà a votare per la prima volta, ha lanciato via social media una campagna che si chiama «Turning 18». La campagna mira a ren-
Funzionari elettorali e agenti di sicurezza diretti a un remoto seggio elettorale a Nimati Ghat, Assam. (Keystone)
Tutti i sondaggi – come illustra l’articolo a lato – danno vincitore l’attuale premier Narendra Modi. A contendergli la vittoria, senza molte aspettative, una variopinta armata Brancaleone battezzata Indian National Developmental Inclusive Alliance (acronimo India). Dentro alla coalizione, partiti e leader locali che poco o nulla hanno in comune se non la volontà di vincere le elezioni a qualunque costo. Candidato di punta dell’opposizione, ancora una volta Rahul Gandhi nelle cui vene scorre il sangue della più famosa dinastia politica indiana: pronipote di Nehru, nipote di Indira, figlio di Rajiv e di Sonia. Ancora una volta, il ragazzo d’oro figlio dell’élite cerca di sconfiggere alle urne l’incarnazione del sogno americano in salsa indiana: Narendra Modi, figlio di un chaiwallah, un venditore di tè. Modi, che secondo i suoi detrattori è un nazionalista e suprematista hindu che cerca di minare alle fondamenta la democrazia, secondo i suoi sostenitori è colui che ha ridato all’India l’orgoglio nazionale rendendola in grado di sedere a tavola con l’Occidente su base paritaria. Ma soprattutto, aldilà della geopolitica e della politica internazionale, per milioni di persone è colui che ha garantito a 800 milioni di poveri forniture di grano e di bombole per il gas gratuite. Colui che ha portato l’elettricità e servizi igienici dove non esistevano, migliorando la vita di milioni di donne nei villaggi. Che ha garantito alle donne appartenenti a famiglie indigenti un mensile di 1250 rupie (circa 14 franchi, che però in un villaggio contano) per tirare avanti. Ancora una volta, a battersi sono due concezioni del mondo: il mondo delle élites urbane educate in Inghilterra o negli USA – che parlano di ideologia, democrazia e fascismo strisciante dimenticando che l’unica volta in cui in India le libertà civili sono state messe in pausa è stato ad opera di Indira Gandhi – e l’India della gente comune, della piccola borghesia, l’India dei villaggi: che è finalmente entrata nel ventunesimo secolo, che può mandare i propri figli a scuola e avere un conto in banca. L’India che può sognare il futuro.
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I favoriti? Narendra Modi e il suo partito nazionalista indù BJP. (Keystone)
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Sol Levante ◆ Il sistema perverso degli host clubs, quei locali dove uomini e donne garbati e avvenenti intrattengono clienti a pagamento, è solo uno dei segnali della crisi profonda in cui versa la società nipponica e diventa anche un problema politico
Giulia Pompili
Le strade di Kabukicho sono una delle attrazioni principali dei turisti a Tokyo: musica, insegne luminose, karaoke e locali eccentrici, forse poco comprensibili agli occhi di un occidentale. L’area del quartiere Shinjuku della capitale giapponese che una volta era dedicata alla tradizionale arte del teatro Kabuki, da cui prende il nome, oggi è considerata il centro di gravità dell’intrattenimento. Ma anche del malaffare, che in Giappone prende spesso strade inedite: il proibizionismo nipponico rende lo spaccio di droga un’attività particolarmente pericolosa, e di frequente le organizzazioni criminali finiscono per offrire altro. E c’è una cosa di cui a quanto pare hanno particolarmente bisogno i giapponesi: la compagnia. Si chiamano host clubs e concept cafes, e a Kabukicho ce ne sono centinaia: non sono luoghi di prostituzione, non nel senso in cui lo si intende in Occidente. Chi frequenta gli host clubs lo fa per farsi intrattenere da uomini o donne galanti, che si offrono per conversazioni, giochi, compagnia in cambio di denaro. Ma niente sesso.
Quando la donna si rende conto di non riuscire a pagare le spese del locale è costretta a iniziare il lavoro come prostituta
L’anno scorso però il Governo giapponese ha attuato un giro di vite su queste attività: l’allarme è arrivato dai media locali e dalle associazioni contro la violenza sulle donne, vittime di un sistema che sfrutta la solitudine delle ragazze, anche poco più che diciottenni, e che le fa finire spesso nella trappola della prostituzione. Mentre sempre più donne frequentano i club dove uomini garbati e avvenenti le intrattengono, i gestori dei locali hanno reso una consuetudine la pratica che mira a fare in modo che la cliente in cerca di compagnia, tra chiacchiere e bicchieri, non si renda conto di quanto sta spendendo, oscurando i prezzi delle bottiglie: nella finzione della situazione, è l’uomo che intrattiene la donna a saldare il conto a fine serata. Solo che poi, nello schema criminale, quando la donna si rende conto di non riuscire a risarcire l’ host con il denaro, è costretta a iniziare il lavoro come prostituta. Alla fine dello scorso anno il «Japan Times» ha intervistato Riri, della prefettura di Kanagawa, che quando aveva diciannove anni ha iniziato a frequentare un host club di Kabukicho per incontrare Roland, un famosissimo host, biondo e dal fisico statuario, che appare di frequente anche in televisione. Quel locale –dove ogni drink ha un prezzo quasi dieci volte maggiore rispetto alla media di Tokyo – nel giro di poco tempo era diventato una dipendenza per Riri, tanto che in due mesi la ragazza aveva accumulato un debito dell’equivalente di quasi diecimila euro. Così ha iniziato a prostituirsi, ma vivendo da senza tetto: tutti i suoi guadagni andavano all’ host club È anche per questo che le autorità giapponesi da qualche mese hanno iniziato a effettuare controlli anche molto vistosi, con decine di poliziotti in divisa che pattugliano di frequente non solo l’area di Kabukicho, ma tutte le zone considerate «d’intrattenimento per adulti» nei capoluoghi di trentatré diverse prefetture. Nel mese scorso erano state inoltrate almeno duecento sanzioni amministrative
a locali che non esponevano i prezzi delle consumazioni in modo chiaro. Il sistema degli host clubs (davvero molto frequentato) è solo uno dei segnali di una crisi profonda della società giapponese, che è diventata anche un problema politico per il Governo di Tokyo. Nel 2021, durante il primo picco dell’isolamento a causa della pandemia di Covid-19, l’Esecutivo guidato da Yoshihide Suga ha creato un Ministero responsabile delle misure contro la solitudine e l’isolamento dei residenti, e ha creato una serie di istituzioni locali che si occupano di ascoltare e poi controllare chi è potenzialmente a rischio isolamento. Secondo un sondaggio condotto dal Governo nel 2022, il 40,3 per cento delle persone ha dichiarato di sentirsi solo, con un aumento del 3,9 per cento rispetto all'anno precedente. Il numero di persone che hanno dichiarato di non essersi mai sentite sole è diminuito di 5,3 punti percentuali, passando al 18,4 per cento. La pandemia non ha fatto che aggravare una situazione già difficile: il Giappone continua ad avere un numero di suicidi altissimo tra i Paesi industrializzati, e la solitudine combinata ad ansia e depressione, l’isolamento insieme con la sua conseguenza più estrema, come il fenomeno degli hikikomori (chi decide di ritirarsi dalla vita sociale e magari di comunicare col mondo solo attraverso la tecnologia), sono tra le cause principali dell’emergenza.
Il primo aprile scorso il Parlamento giapponese ha dato il via libera a una legge che mira a prevenire solitudine e isolamento
Secondo gli esperti, c’entra lo scarso bilanciamento fra la vita privata e quella lavorativa, il collettivismo tipico della fase di boom economico giapponese che ha portato poi alla fase di stagnazione e a quella che viene definita la «Generazione perduta», l’enorme pressione e la rigidità dei rapporti umani che persistono nella società nipponica. Il 1° aprile scorso il Parlamento giapponese ha dato il via libera a una legge che mira a prevenire solitudine e isolamento, definiti problemi «per
la società nel suo complesso». La norma obbliga i Governi locali a istituire gruppi di sostegno per le persone sole e a formare assistenti che siano in grado di aiutarle. Yoshimi Kikuchi, professore di Diritto della sicurezza
sociale alla Waseda University, che lavora come consulente del Governo di Tokyo, ha detto al quotidiano «Asahi Shimbun» che «esiste un’ampia gamma di problemi legati alla solitudine e all’isolamento, tra cui la
deprivazione economica e la conseguente morte in solitudine», oltre al fenomeno cosiddetto «80-50», quello in cui «i genitori ottantenni vivono insieme ai figli cinquantenni chiusi in casa e sono socialmente isolati».
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 22 aprile 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino ATTUALITÀ 33
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Passanti davanti alle pubblicità di un host club di Kabukicho. (Keystone)
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L’ombra dell’estrema destra sulle Europee
Elezioni ◆ Dal 6 al 9 giugno i cittadini degli Stati dell’Ue saranno chiamati alle urne. Inquieta l’avanzata di AfD in Germania
Roberto Festorazzi
Nubi di piombo s’addensano sui cieli dei 27 Paesi dell’Ue. Dal 6 al 9 giugno prossimi i cittadini degli Stati membri si recheranno al voto per rieleggere il Parlamento di Strasburgo, e voci preoccupate si levano per segnalare il pericolo, oggi più concreto che mai, che l’estrema destra abbia non soltanto ad avanzare ma che dilaghi, come un’onda anomala, travolgendo gli equilibri dell’Unione, finendo per oscurare i principi stessi che stanno alla base delle ormai antiche istituzioni dell’Ue.
Il sondaggio Ipsos per Euronews, pubblicato dal «Corriere della Sera» il 19 marzo scorso, non soltanto indica che i gruppi ultraconservatori, euroscettici, xenofobi e sovranisti della variegata famiglia dell’estrema destra sono in testa in 6 Paesi Ue, tra i quali spicca la Francia, ma che in prospettiva si potrebbe profilare lo scenario da incubo di una Europa ingovernabile. Nel Paese transalpino il Rassemblement National di Marine Le Pen, nelle intenzioni di voto, con il 30,7%, è avanti di oltre 10 punti rispetto al partito del presidente Emmanuel Macron: tutto il resto è un panorama di frantumazione delle forze politiche storiche della Quinta Repubblica. Ma il caso più inquietante è quello tedesco. Dal voto in Germania infatti dipende in misura determinante la riconferma alla presidenza della Commissione della cristiano-democratica Ursula von der Leyen: nella migliore delle ipote-
si, in caso di un mandato bis, la cosiddetta «maggioranza Ursula», formata da popolari, socialisti e liberali, dovrebbe essere allargata quantomeno a una quarta forza, cioè ai Verdi. Suscita preoccupazione il voto della Germania perché, sulle urne, grava la minaccia di AfD (Alternative für Deutschland), un partito che per certi versi ricorda la duplice destra nazionalsocialista e tedesco-nazionale che conquistò il potere, con Hitler, nel gennaio del 1933, con un Governo di coalizione aperto ai fiancheggiatori di centro.
L’AfD, nelle intenzioni di voto rilevate da Ipsos-Euronews, si collocherebbe al terzo posto, con il 16% dei suffragi potenziali, appena poco sotto l’Spd del cancelliere Olaf Scholz, ferma al 17%, e a distanza di relativa sicurezza rispetto alla prima forza, le due Unioni cristiane (Cdu/Csu), in leggera ripresa dopo la sconfitta alle elezioni federali del 2021, ma in ogni caso sotto la soglia del 30%. L’AfD sta affilando i coltelli, nel tentativo di rendere ingovernabile il Paese. Il partito xenofobo è già la seconda forza praticamente in tutti i Land dell’ex Ddr, ad eccezione della Città-Stato di Berlino, e anche nel Parlamento dell’Assia. Che cosa accadrebbe se l’AfD, alla fine, dovesse affermarsi, smentendo i pronostici, addirittura come prima forza della Germania, la Nazione-guida dell’Ue, in quanto economia egemone dei 27 e centro propulsore dell’unità europea?
Semplice: la candidatura von der Leyen svanirebbe come neve al sole e l’Europa entrerebbe in una spirale regressiva senza precedenti. Per comprendere a quali rischi sia esposta oggi l’Europa, per effetto della simbolica incognita del voto tedesco, bisogna ricorrere alla lezione della storia. E ricordare la Repubblica di Weimar, che governò lo sconfitto Reich, dal 1919 fino all’avvento di Hitler. Il parallelo storico con la debole compagine statale e istituzionale uscita dalle macerie della Grande guerra insegna che alla lunga le grandi coalizioni, tra i socialdemocratici e il Zentrum, non sono paganti. Lo si è visto con le ultime elezioni federali del 2021, nelle quali
Sostenitori di AfD ad Altenburg, in Turingia. Lo slogan sulla bandiera recita: «Noi siamo il popolo». (Keystone)
l’Spd e Cdu/Csu non hanno neppure raggiunto insieme la maggioranza assoluta dei suffragi, dopo un quindicennio quasi ininterrotto di Große Koalition. Nel 2005 le tre forze dominanti disponevano ancora del 70% circa delle preferenze, in continuità con il sessantennio precedente.
A Weimar le grandi coalizioni dominarono il paesaggio politico, con poche pause, ma entrarono definitivamente in crisi dopo la prima, clamorosa affermazione elettorale dei nazisti che, al rinnovo del 5° Reichstag, il 14 settembre 1930, raccolsero il 18,3% dei consensi e 6,4 milioni di preferenze. Da allora, e fino all’avvento del Führer, fu un succedersi di Go-
verni presidenziali, gabinetti tecnici, privi di un vero sostegno parlamentare. Ciò che accadde a Weimar rischia di riprodursi oggi, su più larga e generale scala, per effetto della crescente impossibilità sistemica di generare maggioranze democratiche? Difficile dirlo, ma è bene osservare che l’ascesa di Hitler, e la rovinosa caduta dei deboli assetti di Weimar, non fu solo il parto di un’irresistibile ascesa dell’Nsdap, i nazionalsocialisti. Fu il combinato disposto della unione delle due forze più virulentemente antisistema, i comunisti della Kpd, e le camicie brune adornate con la svastica. La Repubblica democratica di Weimar cominciò a vacillare dopo che, alle elezioni del 14 settembre 1930, comunisti e nazi giunsero a totalizzare circa un terzo dei voti. Ne seguì un crescendo di scioglimenti anticipati del Reichstag: il 31 luglio 1932 gli hitleriani fecero un salto al 37,3% e i comunisti crebbero al 14,3%. Insieme queste due forze antisistema avevano totalizzato più del 50% dei suffragi: per l’esattezza, 13,7 milioni di voti i nazisti, e 5,2 milioni la Kpd. Al rinnovo del 7° Reichstag, il 6 novembre 1932, le croci uncinate ottennero il 33,1%, mentre i comunisti balzarono al 16,9%, con circa 6 milioni di consensi. Non vuol dire che la storia si ripeterà oggi, ma sono precedenti che dovrebbero ammonire tutta quanta la cittadinanza europea che abbia a cuore il futuro dell’Unione.
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Il Mercato e la Piazza
Produttività totale: siamo i primi della classe
Quando si considerano le possibilità di sviluppo di un’economia, o di un insieme di economie, nel lungo termine, l’indicatore maggiormente affidabile è costituito dalla produttività del capitale e del lavoro, la cosiddetta produttività totale. Esso addiziona le produttività dei due maggiori fattori di produzione e non va confuso con il rapporto più semplice tra Pil e posti, o ore di lavoro, che viene di solito citato quando si parla di produttività. Recentemente sono stati presentati i risultati di una interessante ricerca comparativa sull’evoluzione della produttività totale pubblicati da tre ricercatori della Banca centrale francese. La comparazione si estende su più di cento anni, praticamente dal 1900 al 2020. Una serie di stime così lunga consente di valutare quali siano stati gli effetti sulla produttività totale derivanti dalla trasformazione della struttura di produzione prodottasi durante la seconda metà dello scorso
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secolo, con il passaggio delle economie dei Paesi avanzati dal settore secondario al settore terziario. Due sono gli aspetti particolarmente interessanti. Il primo concerne la competizione tra i giganti, ossia la comparazione tra l’evoluzione della produttività totale negli USA, in Giappone e nella Zona euro. All’inizio del periodo di osservazione, ossia nel 1900, la produttività totale per ora di lavoro degli Stati Uniti e della Zona Euro erano molto vicine; quella dell’economia giapponese invece non rappresentava che la metà circa della produttività delle altre due economie. A partire dal 1910 l’economia degli USA ha conosciuto una tendenza all’aumento della produttività totale che si è mantenuta fino alla fine del secolo con un tasso di crescita annuale vicino al 2,4%. Mentre in Giappone e nelle economie della Zona euro la produttività ha cominciato ad aumentare solo dopo la Seconda guerra
mondiale. Tra Europa e Giappone, da un lato, e USA, dall’altro, è nato così un gap di produttività che si è potuto ridurre solo nel periodo che ha fatto seguito alla Seconda guerra mondiale. Così, verso la fine del secolo, la produttività totale per ora di lavoro delle economie della Zona euro era molto vicina a quella dell’economia statunitense. Alla stessa data la produttività dell’economia giapponese aveva quasi raggiunto l’80% di quella dell’economia americana. Nel corso degli ultimi 20 anni, invece, l’intervallo di produttività si è riaperto. Nel 2020, infatti, la produttività totale delle economie della Zona euro non rappresentava più che l’80% della produttività dell’economia USA. L’economia giapponese aveva perso ancora più terreno: la sua produttività totale era scesa ai 2/3 di quella americana. La ricerca degli economisti francesi mostra che il rallentamento nella crescita della produttività tota-
Quando Israele tenne i nervi saldi e non reagì
L’Iran ci aveva abituati alle guerre per procura. Da anni il regime di Teheran arma Hezbollah in Libano, Hamas e la Jihad islamica a Gaza, gli Houthi in Yemen, più le sue milizie in Siria e in Iraq. Per la prima volta, nella primavera del 2024, l’Iran ha colpito direttamente Israele. L’ha fatto come avvertimento più che come atto di guerra. È stato un attacco annunciato, Israele e i suoi alleati hanno avuto modo e tempo di attutirlo, evitando vittime civili e militari. Eppure un’altra linea rossa è stata valicata. Tutti speriamo ora che Israele non colpisca l’Iran e non avvii un’escalation. Tuttavia l’Iran ha ripetuto anche in questa occasione che il suo obiettivo è distruggere Israele, e fare di Gerusalemme una città solo musulmana, eliminando gli ebrei. Se Israele colpisse i luoghi dove l’Iran sta preparando la bomba atomica sarebbe difficile non catalogare l’intervento come una forma di autodifesa. Benny
Gantz, cioè la speranza di Joe Biden, dell’Europa e di tutti coloro vogliono liberarsi di Benjamin Netanyahu, ha già detto che Israele in qualche modo risponderà. Se invece decidesse di non farlo, ci sarebbe un precedente incoraggiante.
Nel gennaio 1991 Saddam Hussein colpì Israele con i missili Scud, usati come esca per indurre lo Stato ebraico a rispondere e a sfasciare così la coalizione araba riunita da Bush padre attorno agli USA per liberare il Kuwait. Quella guerra fu un po’ il mio esordio nel giornalismo: giovane redattore degli Esteri de «La Stampa», ogni notte avevo il compito di preparare una pagina in cui si riassumeva tutto quello che era accaduto: la reazione degli israeliani agli attacchi iracheni era la preoccupazione principale del mondo, e pure degli USA, visto che un terzo dell’attività bellica americana fu rivolto a distruggere le basi mobili da cui
Il presente come storia
gli iracheni bombardavano lo Stato ebraico. Ci fu anche un allarme chimico, ricordo gli abitati di Tel Aviv e di Haifa scendere nei rifugi con le maschere antigas, immagini che non si vedevano dai tempi della prima guerra mondiale. Premier di Israele era allora Yitzhak Shamir, capo del Likud, il partito di Netanyahu. Gli Scud fecero danni molto più gravi dei droni e dei missili lanciati dall’Iran nella notte tra il 13 e il 14 aprile scorso; eppure Israele tenne i nervi saldi e non reagì. Anche stavolta, come nel 1991, per fermare l’attacco a Israele è intervenuta una coalizione, di cui fanno parte pure Paesi arabi come la Giordania e l’Arabia Saudita. È una coalizione che Biden ha intessuto negli anni in cui era vicepresidente di Obama. Trump ha lavorato per sottoscrivere i cosiddetti accordi di Abramo, aperti a israeliani e sauditi. Gli ayatollah sciiti non sono così amati in Medio Oriente. Purtrop-
Il Comune come nido e come progetto
Eccoci al termine del ciclo elettorale 2023-2024 (Cantonali, Federali, Comunali). L’anno prossimo ci sarà una coda con la chiamata alle urne dei nove Comuni che in questo giro sono rimasti fermi, ma sostanzialmente tutte le pedine sono state collocate sulla scacchiera. Non ci sono stati sconquassi nella geografia politica. Ha prevalso il conservatorismo, specie nei comprensori extraurbani, nelle aree che un tempo venivano definite rurali o periferiche. Oggi questa classificazione appare inadeguata: il Ticino è profondamente cambiato, le valli sono state aspirate dalle città, dando luogo a un agglomerato tentacolare che ha cancellato gli antichi confini. Gli urbanisti chiamano questo fenomeno sprawl, ovvero diffusione-dispersione degli insediamenti intorno ai principali assi di transito. Esempio tra i tanti possibili: il continuum che si è formato tra Bellin-
zona e Giubiasco, in conseguenza della scomparsa degli spazi intermedi non edificati.
La progressione dell’edilizia – uno dei rami trainanti dell’economia cantonale – e le esigenze imposte dalla mobilità e dai mutati stili di vita hanno conosciuto uno sviluppo rapido e irreversibile. Non altrettanto veloce è stato invece il cammino delle aggregazioni, progetto che soltanto negli ultimi decenni è riuscito a disincagliarsi da interessi di campanile e remore secolari. Negli Esecutivi i partiti storici di centro-destra continuano comunque a mantenere il loro primato. Nei Comuni di valle, liberali e centristi (ex Ppd) si suddividono da sempre la carica di sindaco. Da questo punto di vista la «campagna» rimane un baluardo anti-cittadino, in linea con la «missione» che il cattolico-conservatore leventinese Enrico Celio assegnava al suo par-
di Angelo Rossi
le europea è da attribuire a un colpo di freno nell’evoluzione della produzione delle economie meridionali. In Grecia, Portogallo e Italia negli ultimi decenni la produttività totale è cresciuta più lentamente che nella media delle economie della Zona euro. A ritardare la marcia in avanti della produttività della Zona euro è stata soprattutto la cattiva prestazione dell’economia italiana che, in fatto di progressione della produttività totale, si trova in fondo alla classifica delle economie Ue. Non è facile identificare i fattori responsabili di questa evoluzione. In generale si può affermare che, nel lungo termine, il gap in materia di produttività totale è stato probabilmente influenzato dalle differenze nella velocità con la quale le diverse economie hanno adottato il progresso tecnico, nonché dall’importanza degli sforzi di ricostruzione che hanno indotto un’accelerazione degli investimenti in Europa e in Giappone
di Aldo Cazzullo
po non sono isolati come lo era Saddam Hussein. Attorno a loro hanno le milizie armate di cui parlavamo prima, a cominciare da Hezbollah e dagli Houthi passando per Hamas. E dietro di loro hanno la Russia di Putin, che ha espresso la sua solidarietà sia ad Hamas sia agli ayatollah, e la Cina. Intervistato da Lucia Goracci, inviata della tv pubblica italiana, l’ex capo dello Shin Bet, l’agenzia di intelligence degli affari interni di Israele, ha detto che Israele non sarà mai al sicuro fino a quando non sarà data una speranza ai palestinesi. Più ancora che una speranza, ai palestinesi servirebbe uno Stato. Questo è il limite degli accordi propagandisticamente definiti di Abramo: l’alleanza commerciale, tecnologica, strategica tra Israele, Emirati arabi uniti e in prospettiva Arabia saudita veniva stipulata sulla pelle dei palestinesi. Trump si illudeva e si illude (Dio ci scampi dalla sua rielezione)
di Orazio Martinetti
tito nel lontano 1928: «… infausto sarebbe il giorno in cui i dirigenti del Partito dovessero posporre le regioni vallerane e campagnuole ai centri, dovessero negligere le valli e le campagne minacciate dalla impervia natura, dallo spopolamento e dall’incessante crisi monetaria per riporre ogni speranza ed ogni aspettativa nei centri che alla dottrina conservatrice democratica sono fatalmente e storicamente avversi». È presumibile che le recenti mobilitazioni di piazza del personale statale abbiano trovato nelle città comprensione e sostegno, ma non nelle valli, poco sensibili, se non ostili, alle cause sindacali. L’astensionismo rimane elevato, ma con notevoli oscillazioni tra un Comune e l’altro. Rispetto ad altre realtà nazionali, l’elettorato ticinese, uomini e donne, dà ancora prova di un attaccamento ai poteri locali invidiabile. È un po’ quanto accadeva nelle antiche
dopo la Seconda guerra mondiale. Ma veniamo al secondo aspetto: l’eccezionale evoluzione della produttività totale della nostra economia. Già nel 1900 l’economia svizzera possedeva il livello di produttività totale più elevato. Con gli USA la differenza era però minima. In seguito, le curve della produttività totale di queste due economie sono progredite più o meno al medesimo ritmo. Durante la Seconda guerra mondiale la curva americana ha superato, di un nulla, quella elvetica mentre dal 1960 al 1990 la produttività totale è cresciuta in Svizzera più rapidamente. Con la diffusione di internet, invece, la produttività totale dell’economia statunitense è aumentata più rapidamente che quella della nostra economia. L’economia svizzera continua però a possedere la produttività totale più elevata. Insomma, in fatto di produttività totale continuiamo a essere i primi della classe.
che i palestinesi si possano comprare, magari costruendo nuovi grattacieli sul mare di Gaza con tanti bei casinò, come ha proposto. Ovviamente le cose sono molto più complicate di così. I palestinesi non chiedono casinò ma libertà e dignità. Gli israeliani chiedono sicurezza; non accetteranno mai uno Stato palestinese in mano a dirigenti determinati a distruggere Israele. Yasser Arafat era per gli israeliani un nemico accanito; ma era un laico. Hamas è una filiazione dei Fratelli musulmani, estremisti sunniti, finanziata e armata dall’Iran, estremisti sciiti. In un primo tempo era servito alla destra israeliana a dividere il fronte palestinese; ma ora il calcolo cinico di Netanyahu si è ritorto contro di lui. Ovviamente agli ayatollah del benessere, della salvezza e del futuro dei palestinesi non importa nulla; loro stanno giocando un’altra partita. E purtroppo non la stanno perdendo.
città greche, luoghi circoscritti in cui i contatti tra il popolo riunito in assemblea e gli eletti erano diretti e continui, faccia a faccia: una Landsgemeinde versione 1.0 prima della concessione del voto alle donne. Il successo delle liste civiche e della lista senza intestazione rispecchia il bisogno di premiare la «persona che si conosce». Ancora oggi il Comune è celebrato come la cellula primordiale della democrazia elvetica, la prima pietra sulla quale tutte le altre poggiano. Esagerazione, illusione? In parte sì, ma i sistemi concorrenti, fondati su metodi accentratori, non sembrano produrre risultati migliori. E in ogni caso teniamocelo stretto come un canale prezioso di partecipazione locale e anche come terreno di possibili sperimentazioni nel campo del traffico, dell’energia e della socialità. Da piccoli consessi possono nascere grandi idee, meritevoli di trasmigrare
in contesti molto più ampi, cantonali e federali. Poi, certo, le decisioni che veramente incidono e trasformano avvengono altrove, calano sulle nostre teste di cittadini ancora convinti che il calore del nido locale possa salvarci dall’intrusione rapace del globale. Ma non per questo ci si deve arrendere e ammainare le bandiere dei Comuni. Facciamoci invece soccorrere da Carlo Cattaneo, che nel suo Politecnico osservava: «Meglio vivere in dieci case, che vivere discordi in una sola. Dieci famiglie ben potrebbero farsi il brodo a un solo focolare; ma v’è nell’animo umano e negli affetti domestici qualche cosa che non si appaga colla nuda aritmetica e col brodo… i Comuni sono la Nazione; sono la Nazione nel più intimo asilo della sua libertà… sono i plessi nervei della vita vicinale» (Sulla legge comunale e provinciale, 1864).
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 22 aprile 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino 37 ATTUALITÀ / RUBRICHE ◆ ●
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Le perdite involontarie di urina
Ci sono molti miti sul fenomeno dell’incontinenza. Questo disturbo può causare molta insicurezza nelle persone colpite e rendere più difficile la ricerca di un rimedio.
Chiariamo quattro equivoci molto diffusi
Mito 1: l’incontinenza colpisce solo le persone anziane. Realtà: possono soffrire di incontinenza persone di qualsiasi età. Sebbene il rischio aumenti con l’età, anche le persone più giovani sono interessate da questo disturbo. Nelle donne, l’indebolimento dei muscoli del pavimento pelvico in seguito alla gravidanza e al parto può provocare incontinenza. E nelle donne di mezza età, l’incontinenza può insorgere all’inizio della menopausa, quando il livello di estrogeni diminuisce.
Mito 2: l’incontinenza è sempre il risultato di uno stile di vita poco sano. Realtà: anche se alcuni fattori come l’obesità
L’incontinenza può colpire sia gli uomini sia le donne.
o il fumo possono aumentare il rischio di incontinenza, le cause sono di solito varie e possono comprendere anche fattori genetici, lesioni o malattie come il diabete. Uno stile di vita sano può ridurre il rischio, ma non sempre l’incontinenza dipende da esso.
Mito 3: l’incontinenza è un problema esclusivamente femminile.
Realtà: l’incontinenza può colpire gli uomini quanto le donne. Negli uomini, ad esempio, un ingrossamento della prostata può provocare sintomi di incontinenza da stravaso.
L’idea che solo le donne ne siano colpite spesso impedisce agli uomini di cercare l’assistenza necessaria.
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Mito 4: l’uso di prodotti per l’incontinenza peggiora i sintomi.
Realtà: i moderni prodotti per l’incontinenza sono progettati in modo tale da offrire non solo protezione durante l’uso, ma anche di mantenere la pelle sana e di prevenire ulteriori disagi. Non aggravano i sintomi, ma offrono sostegno e sicurezza per condurre una vita normale e attiva.
Poiché le cause dell’incontinenza possono essere molto diverse, chi ne è affetto dovrebbe sempre consultare un medico.
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Come si riconoscono gli asparagi freschi?
Se sono freschi, gli asparagi presentano una pelle lucida, punte chiuse e una consistenza soda. Per verificare queste caratteristiche basta premerne insieme due della stessa grossezza: se stridono, sono freschi.
Che differenza c’è tra asparagi verdi e asparagi bianchi?
Gli asparagi bianchi crescono sottoterra e hanno un sapore delicato leggermente dolciastro. Non essendo esposti alla luce del sole, rimangono bianchi. Gli asparagi verdi crescono invece in superficie e diventano verdi mano a mano. Il loro sapore è più marcato e terroso.
Gli asparagi si possono mangiare crudi?
Gli asparagi sono buoni anche crudi in quanto particolarmente succosi. Rispetto a quelli cotti, sono anche più saporiti. Entrambe le varietà possono essere combinate crude ad esempio in un’insalata con finocchi e pinoli.
Come si pelano?
Per gli asparagi verdi è sufficiente tagliare il terzo inferiore dei gambi. Gli asparagi bianchi vanno invece pelati. Inizia circa 1-2 cm sotto la testa e pelali uniformemente verso il basso con un pela-asparagi o un pelapatate, eliminando tutte le parti legnose e fibrose. Tra l’altro puoi usare gli scarti per preparare un brodo.
Cosa fare se gli asparagi sono amari?
Se gli asparagi presentano un sapore amaro, significa che sono stati tagliati troppo vicino alla radice. Un trucco per ovviare a questo problema è quello di aggiungere dello zucchero all’acqua di cottura: mettine circa un cucchiaino per ogni chilo di asparagi.
Il «test del cigolio» indica se gli asparagi sono freschi
È tornata la loro stagione! Cosa caratterizza quelli verdi e bianchi e cosa rivelano le punte sulla freschezza
Cosa fare per mantenere gli asparagi belli bianchi?
Per evitare che cuocendo gli asparagi bianchi perdano il loro colore, è sufficiente aggiungere un goccio di succo di limone all’acqua di cottura. Questo consiglio si applica però solo agli asparagi bianchi. Quelli verdi possono assumere una colorazione grigiastra se aggiungi il succo di limone.
Come si sbollentano gli asparagi verdi?
La sbollentatura intensifica il colore e preserva la croccantezza degli asparagi verdi. A seconda dello spessore, cuocili in acqua calda salata per 3-5 minuti. Interrompi quindi la cottura immergendoli subito in acqua ghiacciata.
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Testo: Naomi Hirzel
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Come le gallette di riso, ma più saporite
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di
Andare a piedi
Dalla letteratura al cinema il fascino sempre attuale delle camminate
Julian Rachlin
Prima è stato un musicista virtuoso del proprio strumento ora dirigerà l’OSI al LAC
La tendenza
Dentro i circoli letterari animati dai vip per interesse e per la propria immagine
Orsi, balene e volpi liberi nello Zoo di Mesocco
Street art ◆ Il bestiario dei Nevercrew torna in patria per animare un percorso visivo che si estende fino a San Bernardino
«Cantami o musa. No, cantami o muso, di cane, gatto o cavallo, tigre, orso o scimmia, asino, mucca o cammello, l’ira funesta della Terra contro l’uomo. Chi sono io? Chiamatemi Filelfo. Si può credermi? Non ha importanza. Non dico nulla di mio. Ripeto, come nei tempi ai quali con umiltà mi ispiro, parole altrui. Dettate non dalle muse, ma da una progenie altrettanto antica: gli animali. Sono stati loro, abitanti delle foreste, del cielo e dei mari, a parlarmi della natura, dell’anima del mondo, dell’arca che l’uomo ha dentro di sé. Di come ritrovarla. È una storia vera? È un racconto morale, un mito, una fiaba? Giudicate voi. Al nessuno che sono, nell’Anno del Topo, le bestie hanno affidato un messaggio: semi e raccolti, freddo e caldo, estate e inverno, giorno e notte non cesseranno – ma solo finché dura la Terra». L’avete già riconosciuto? È l’incipit de L’assemblea degli animali. Una favola selvaggia di Filelfo, uscita per Einaudi nel 2020, in piena pandemia. E se nella favola è Filelfo, correttore di bozze, traduttore e redattore di enciclopedie, a farsi portavoce del messaggio degli animali a un mondo che ha perso la rotta e il senso della convivenza, del rispetto e della reciprocità, nella realtà i nostri ambasciatori moderni, intenti a sensibilizzarci sulla necessità di un nuovo rapporto con la natura che non sia antropocentrico, sono Christian Rebecchi e Pablo Togni, in arte Nevercrew.
Dal mondo a casa nostra
Il duo di street artist ticinesi che da anni crea opere murali artistiche in formato monumentale sulle superfici degli edifici dei centri urbani sparsi per la Svizzera e per il mondo – da Madrid a Berlino, da Nuova Delhi a Phoenix e Miami, solo per citarne alcuni – nelle prossime settimane tornerà ad animare le pareti di casa nostra per un progetto nuovo e completamente differente rispetto a quanto realizzato finora.
Stiamo parlando dello Zoo degli animali, originale e diffuso, che prenderà vita e forma in quel di Mesocco, piccolo comune dei Grigioni a 769 m di altitudine, famoso per il Castello. Pensando alla conformazione e alle caratteristiche del luogo, è un po’ come se la tribù degli animali dei Nevercrew, dopo aver portato in giro per il mondo il messaggio per una maggiore sostenibilità e coesistenza nel rispetto di un ecosistema condiviso, tornasse a casa, in mezzo alla natura per riposarsi nel suo habitat naturale. Così, ora, le balene di Close up realizzate a Lugano nel 2020 in Viale Stefano Franscini 27,
gli orsi disegnati a Estavayer-le-lac, nel canton Friburgo nel 2022 insieme a quello solitario dipinto lo scorso anno sulla facciata del palazzo in via Geretta a Paradiso, con gli elefanti, le volpi, le giraffe e tutti gli altri animali, si riuniranno e si distribuiranno nell’ampio comprensorio di Mesocco che comprende anche San Bernardino. «Di questo progetto – ci dicono i Nevercrew – oltre alla tematica di fondo che ci è molto vicina, ci piace in modo particolare la possibilità di pensare a un concetto che si sviluppi su diversi punti in uno spazio così ampio, ma unito, e che presenta già di suo una bellissima integrazione tra presenza umana e naturale. Ci piace molto che si tratti di un vero percorso, elemento che troviamo interessante sia dal punto di vista della fruizione delle opere, specialmente per la modalità per cui è pensato, sia da un punto di vista concettuale».
L’ideatore del progetto
Ideatore e promotore del progetto è Luca Cereghetti, presidente dell’Ente turistico regionale del Moesano e responsabile del mMoMAm (mini Museum of Modern Art Misox) che sul suo profilo Linkedin dice di poter contare su «un buon mix tra nozioni di base da allrounder (sostenute da buone capacità pianificatorie e strategiche) e una buona dose di “fantasia innata”» che gli hanno permesso di
effettuare un bel percorso di crescita personale.
Questa fantasia, che permette ai piccoli pensieri di farsi grandi, è il trait d’union tra questa iniziativa e le mura di quella che una volta era la vecchia panetteria di Ulisse Albertini, figura conosciuta da tutti in paese e soprannominata «l’Ulissino». In altre parole, «laddove l’Ulissino sfornava il pane, ora si coltiva la cultura» recita il motto del mMoMAm, uno spazio e un centro culturale aperto a tutti, che si propone di accogliere mostre e iniziative di piccole dimensioni promosse con cuore e ingegno.
Ad aprire le danze al Museo, dal 25 al 27 aprile, sarà Marilyn and friends, l’esposizione dedicata al maestro della Pop Art Andy Warhol. «Il museo ha preso la forma di associazione – ci dice il suo fondatore – con il proposito di animare e colorare il nostro comune che ci sembrava un po’ grigio. Abbiamo pensato a uno zoo, ci siamo immaginati degli animali dipinti sulle pareti. Conoscevo i Nevercrew, la loro street art, e mi sono messo in contatto con loro. In dicembre abbiamo inviato una lettera a tutti i fuochi annunciando la vendita di cento stampe dei Nevercrew che corrispondevano a cento azioni dello zoo. Le stampe – risograph, in formato A3, firmate e numerate dai Nevercrew – anticipavano i dipinti che nelle prossime settimane prenderanno forma sulle mura e sulle superfici degli edifici di Mesocco. È stato un succes-
so, le persone non solo hanno acquistato le stampe, ma hanno iniziato a offrirci i muri delle loro case private».
In equilibrio con la natura
Come si spiega nel sito del mMoMAm, i Nevercrew hanno lavorato «su un progetto unico che rappresenta una coabitazione armoniosa tra animali e abitazioni umane, destinato a diventare la parte visiva finale dello Zoo. Questa iniziativa mira a promuovere un equilibrio tra umanità e natura, tema caro agli artisti. Per sottolineare l’idea di viaggio, arrivo e connessione, si è integrato l’elemento del trenino BM (Bellinzona-Mesocco), non più in uso, ma ancora capace di affascinare, richiamando così i concetti di collegamento tra le diverse zone dello Zoo e tra chi proviene da altre località e Mesocco. L’obiettivo principale è unire luoghi, animali e persone in una sorta di stazione di arrivo, che rappresenta una struttura da esplorare, simile a uno zoo». Se si aguzza la vista, sullo sfondo, avvolto dalla nebbia, si intravvede anche la sagoma del Castello di Mesocco. La riproduzione di questa stampa è di soli cento pezzi e chi volesse può ancora acquistarne qualcuna per sostenere il progetto. Il disegno sulla stampa dal titolo Unboxed raffigura una torre di animali, impilati e distribuiti gli uni sugli altri, stretti tra le case come l’orso, l’elefante
e la balena. La volpe, invece, campeggia curiosa sul tetto di una casa.
Luca Cereghetti non riesce a nascondere l’entusiasmo: «Sarà uno zoo colorato nel mondo grigio dei Grigioni. Uno zoo fantastico e fantasioso in cui c’è spazio per balene, orsi polari, piccoli animali del bosco e altri amici del mondo animale». Uno zoo libero, senza gabbie e costrizioni che inviterà le persone a immergersi nel territorio per entrare in contatto con queste opere d’arte e riflettere sul rapporto tra umani e animali. «E sarà sostenibile, al passo coi tempi, perché i protagonisti sono rappresentati sui muri del Comune grigionese grazie a un progetto artistico che unisce le sue frazioni in un percorso dedicato alla sostenibilità».
Si comincia dalle marmotte
A dare inizio al progetto nell’agosto del 2023 sono state le tre marmotte disegnate sui piloni della scuola di Mesocco. Perché le marmotte? Ce lo dicono i Nevercrew: «Dal momento che il primissimo intervento doveva fungere da indizio, ma senza che fosse rivelato ancora nulla del progetto, abbiamo scelto di utilizzare un animale presente sul territorio svizzero che potesse essere rappresentato a grandezza naturale, per creare un’interazione più diretta con il luogo scelto, quasi verosimile. La marmotta si inserirà poi anche nel concetto globale dello Zoo di Mesocco e si collegherà alle altre opere». Anche il luogo non è casuale, l’intento infatti sarà quello di coinvolgere il più possibile le scuole della regione e i giovani.
I lavori dello Zoo partono in queste settimane e li seguiremo da vicino per raccontarvi quali sono le sfide per i Nevercrew, che non si troveranno a dipingere solo le superfici di case e edifici cittadini, ma anche strutture particolari che per ora non possiamo svelare. Luca Cereghetti però anticipa che «da qui all’estate verrà realizzata una dozzina di opere murali, una per ogni frazione di Mesocco, compreso San Bernardino che ne avrà due e Pian San Giacomo. Gli animali saranno distribuiti su una ventina di chilometri, per vederli tutti a piedi ci vorrà una giornata».
Torneremo presto in queste pagine per raccontarvi di più sullo Zoo di Mesocco (inaugurazione prevista il 24 agosto) insieme ai Nevercrew che per «Azione» hanno creato il disegno pubblicato nella copertina di questo numero, uno schizzo preparatorio per il concetto generale del progetto.
CULTURA ● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 22 aprile 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino 43
Pagina 47 Beyoncé Fa discutere la virata country della popstar americana nel disco Cowboy Carter
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I Nevercrew: a sinistra Christian Rebecchi, a destra Pablo Togni e la marmotta su un pilone della scuola.
Natascha Fioretti
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L’arte del camminare
Feuilleton ◆ Dalla letteratura al cinema, il fascino del viaggio a piedi
Se il viaggio è il percorso iniziatico per eccellenza, il cammino ne è la quintessenza. Negli ultimi anni l’andare a piedi è stato riscoperto da molti, che sia per moda, per una nuova consapevolezza, per ricerca spirituale, per sensibilità ambientale, per svago o vacanza alternativa. Non sorprende che, accanto a tanti libri pubblicati, aumentino i film, documentari o di finzione, incentrati su questo modo di viaggiare. È il caso del francese A passo d’uomo di Denis Imbert con Jean Dujardin, tratto da Sentieri neri, il libro autobiografico dello scrittore transalpino Sylvain Tesson, oppure del britannico L’imprevedibile viaggio di Harold Fry di Hettie MacDonald con Jim Broadbent, adattamento del romanzo di Rachel Joyce. Spesso nei film il cammino è associato alla malattia, in tutti i casi si trasforma in un viaggio iniziatico (anche ne Il Signore degli Anelli i membri della Compagnia sono viandanti), un percorso interiore e quindi spirituale. Una rivelazione, di sé stessi oppure di un mistero.
Cammina per camminare, ma pure per ritrovarsi, guarire, scoprire e, semplicemente, esistere: in A passo d’uomo di Denis Imbert, Pierre cita esplicitamente Thoreau
Già nel Medioevo partivano a piedi monaci, soldati e mercanti, le cui vicende hanno originato il genere picaresco, del quale un esempio al cinema è L’armata Brancaleone di Mario Monicelli con Vittorio Gassman più guascone che mai. Una teorizzazione su carta fu Camminare di Henry David Thoreau, un filosofo in anticipo sui tempi. In anni recenti, il cammino è al centro del post apocalittico La strada di Cormac McCormack (anche film di John Hillcoat) o Una passeggiata nei boschi di Bill Bryson lungo l’americano Appalachian Trail. Più vicini a noi Nessuno lo saprà. Viaggio a piedi dall’Argentario al Conero e Il pellegrino dalle braccia d’inchiostro di Enrico Brizzi (suo il cult Jack Frusciante è uscito dal gruppo) insieme Viandanza e Non mancherò la strada del triestino Luigi Nacci, entrambi camminatori e scrittori.
Dalla carta allo schermo il passaggio non è scontato. La lentezza del procedere rischia di ripercuotersi sul ritmo della storia e questo resta uno spauracchio per molti spettatori (e conseguentemente per produttori e registi). Non se ne preoccupa Werner Herzog, uno che ha più volte affermato che attraversare l’Europa a piedi è stata la sua scuola di cinema. Nel novembre del 1974, l’allora emergente cineasta si incamminò da Monaco di Baviera per raggiungere a Parigi l’amica e critica Lotte Eisner (pioniera della critica fin dagli anni Venti, contribuì a salvare il patrimonio della Cinémathèque francese durante la guerra fino a diventare scopritrice e sostenitrice del Nuovo Cinema Tedesco) gravemente malata. Herzog, che lo racconta nel libro Sentieri nel ghiaccio, si convinse che il suo cammino avrebbe tenuto in vita Eisner e fu così: dopo tre settimane, al suo arrivo, la trovò in via di ristabilimento. Tra i suoi tanti lavori c’è Nomad – In cammino con Bruce Chatwin, altro scrittore paladino di questo modo di muoversi. Un tentativo abbastanza riuscito è The Tracks (2013) di John Curran con Mia Wasikowska nel ruolo di una fotografa che percorre l’Australia da parte a parte.
L’episodio di Herzog torna alla mente guardando L’imprevedibile viaggio di Harold Fry, vicenda di persone comuni con l’idea di un miracolo in qualche modo legato alla fatica fisica. L’uomo del titolo è un pensionato del Devon che conduce una vita regolare e grigia, soffocando un dolore antico e convivendo quasi da estraneo con la moglie. Un giorno riceve un messaggio di addio dall’ex collega Queenie, malata terminale in un hospice nel nord dell’Inghilterra. Harold esce per imbucare una risposta, ma si convince presto di volergliela consegnare di persona, senza farsi spaventare dagli 800 chilometri che lo aspettano o dall’indossare dei vecchi mocassini poco adatti alla camminata. Un’avventura sentimentale delicata e con qualche colpo di scena, che si affida molto all’interpretazione di Jim Broadbent (Harry Potter, Il ritratto del duca) che passa dal senso di colpa alla determinazione, dalla sofferenza alla pacificazione e quasi a un’illuminazione. Un personaggio che ricorda
Cartoline d’artista
dalla Valle di Blenio
Mostre ◆ Samuel Abraham Schnegg e le sue fotografie sono protagonisti alla Casa Rotonda
Giovanni Medolago
Si è soliti stabilire nell’anno 1882 l’inizio del turismo ticinese. Fu un avvio timido: mentre città e bellezze d’Oltralpe e della Romandia erano tutto sommato raggiungibili dal resto d’Europa – sia pure dopo probabili peripezie e disavventure – , il sud delle Alpi restava appannaggio dei temerari che da secoli affrontavano il culmine della Via delle Genti coi suoi duemila metri. Quando le prime sbuffanti locomotive sbucarono ad Airolo, si aprì davvero una nuova epoca. E, difficile da credere oggi, visti i mille modi che abbiamo per comunicare ipso facto, le cartoline postali fecero scoprire il fascino del Ticino e delle sue valli.
gli umili descritti da Uberto Pasolini in Still Life e Nowhere Special, decisi a perseguire una missione, senza però gli accenti drammatici e i contrasti dell’italo-britannico.
Cammina per camminare, ma pure per ritrovarsi, guarire, scoprire e, semplicemente, esistere, Pierre in A passo d’uomo di Denis Imbert, che cita Thoreau esplicitamente. Uno stile di vita, frutto di scelte consapevoli, che lo spinge a percorrere una Francia sconosciuta, fascinosa e abbandonata, dal Mediterraneo al confine con l’Italia fino a Mont Saint-Michel e l’oceano, per 1300 chilometri superando montagne e valli. In lento recupero da un infortunio, l’uomo viaggia ancora con le carte geografiche, non a caso il titolo originale recita Sur les chemins noirs. Tra i temi, il rapporto con la natura e la questione ambientale. Proprio come Harold, anche Pierre si confronta con la spiritualità. Una panoramica sui cammini non può scludere quelli di Santiago o la via Francigena, tra i più noti viatici di fede tornati alla ribalta negli ultimi anni. Da un’esperienza personale della regista nasce il documentario Sei vie per Santiago (2015) di Lydia Smith, che ha seguito percorsi di persone, dalle età e dalle motivazioni differenti, che si incrociano sui sentieri spagnoli. È un percorso in più opere quello del comasco di Galizia Simone Saibene con 9 onde (2014) e Pellegrinaggi (2016). Tra le rare opere di finzione figura Il cammino per Santiago – The Way (2010) di Emilio Estevez, che dirige il padre Martin Sheen nel ruolo di un medico americano alla ricerca del figlio, morto proprio sulla strada di Santiago. Un taglio più sociale ha Sul sentiero blu (2020) di Gabriele Vacis, che segue un gruppo di giovani con autismo accompagnati dal loro psichiatra verso Roma per imparare a essere autonomi. Accanto ai percorsi più esplicitamente di fede, non mancano pellicole che raccontano il pellegrinaggio da una prospettiva laica, dal celebre La Via lattea (1969) di Luis Buñuel a O ornitologo di Joao Pedro Rodrigues (Pardo per la migliore regia al Festival di Locarno 2016) che in qualche modo lo aggiorna ai giorni nostri, con un tono surreale e dissacrante, ma non per questo superficiale.
Nei suoi scatti fotografici pionieristici il losannese Schnegg va molto oltre quella che, con connotazione negativa, si definisce «immagine da cartolina»
Non è un caso che chez Donetta approdi oggi il losannese Samuel Abraham Schnegg (1874-1932): fotografo pioniere come il nostro Ruberton, attratto anch’egli da panorami e cime alpine, ebbe certo più fortuna. Riuscì infatti a pubblicare dapprima Mille et une vue de la Suisse, un successo clamoroso che conteggiò ben 28 edizioni! Schnegg fu anche il primo a pubblicare un libro fotografico sulla regione a Sud delle Alpi: La Suisse italienne (1912) che comprende un testo del giornalista, letterato e filosofo Eduard Platzhoff-Lejeune (1874-1961, divenuto per pochi mesi direttore del «Corriere del Ticino»). Sono esposte copie originali di entrambe queste storiche pubblicazioni. Con invidiabile tempismo, la neonata Pro Blenio colse l’importanza di farsi conoscere, ma per far ciò bisognava creare un cospicuo materiale iconografico. Schnegg fu così contattato e richiamato in Ticino (che aveva visto solo parzialmente, di sfuggita) e invitato altresì a puntare il suo obiettivo soprattutto sulla Valle di Blenio. Un pannello, all’entrata di Casa Rotonda a Corzoneso-Casserio, ci mostra con quanto scrupolo eseguì la consegna. Risalì pian piano e a ritroso tutto il corso del fiume Brenno, si permise qualche occhiata sulle vallette laterali e le loro montagne, giungendo infine sul Lucomagno. I committenti volevano documenta-
re soprattutto ciò che nella Valle del Sole potesse stuzzicare la curiosità del target più vasto – per l’epoca. Da quell’iniziativa nacquero poi un opuscolo illustrato e pubblicato in diverse lingue, e un album con stampe originali realizzato appositamente per la dirigenza della fabbrica di cioccolato Cima Norma di Dangio. Schnegg tuttavia è un artista/artigiano che va oltre quella che, con connotazione negativa, si definisce «immagine da cartolina». Ritocca talvolta i negativi per evidenziare le tonalità azzurre di un cielo o di una distesa d’acqua, ma documenta altresì anche le asprezze e le insidie che caratterizzano le vie di comunicazione d’inizio XX secolo. È impressionante ad esempio l’immagine che titolò Sulla strada Olivone-Campo: in realtà poco più che una mulattiera, affronta la salita sotto la minaccia di un crostone, mentre una poco rassicurante massicciata protegge(va) i viandanti dal dirupo che precipita sul fondo valle. Un’inquadratura che Schnegg ripropone poi per così dire a specchio, arricchendola però con le spumeggianti chiare&fresche dolci acque del fiume e cogliendo, quale sfondo, una pineta lontana. Interessante anche il suo ritratto del Pizzo Scopi, nettamente diviso in due dal punto di vista cromatico: sistema la sua apparecchiatura all’ombra, cogliendo un riflesso simmetrico nella pozza, mentre sul versante opposto il sole bacia ancora e in pieno lo Scopi. La veduta di Malvaglia è sapientemente suddivisa su più piani: domina un robusto arbusto scuro, le case del paese sono sistemate tra vigneti e boscaglia, mentre più a sud la montagna è ancora all’aprica.
Curatore della mostra per la Fondazione Archivio Donetta, Antonio Mariotti vuole ringraziare tutti coloro che hanno sostenuto il progetto sin dall’inizio e sottolinea come abbia potuto contare sulla collaborazione della Fondazione Voce di Blenio e in particolare del collezionista Giuseppe Gianella, che ha gentilmente messo a disposizione le 63 cartoline esposte.
Dove e quando Saluti dalla valle di Blenio, le cartoline di Samuel Abraham Schnegg, CorzonesoCasserio, Casa Rotonda. Fino al 26 maggio. Orari: sabato e domenica dalle 14.00 alle 17.00, oppure su appuntamento telefonando allo 091 8711263.
www.archiviodonetta.ch
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Nicola Falcinella
Pixabay
Pizzo Scopi, fotografia di Samuel Abraham Schnegg, collezione di Giuseppe Gianella.
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Beyoncé, una sperimentazione superficiale
Musica ◆ Sta facendo discutere la virata country della popstar americana alla conquista del mercato con il suo Cowboy Carter
Si sa, quando un artista assurge allo status di superstar planetario, con tanto di guadagni vertiginosi e seguito oceanico di fan, non c’è niente di più facile che «adagiarsi sui propri allori», sottovalutando l’importanza cruciale della reinvenzione stilistica –ovvero, di quella spinta costante alla sfida e al miglioramento di sé che, al fine di una vera evoluzione personale, ogni cantante dovrebbe considerare come propria assoluta priorità. Tuttavia, gli ultimi anni hanno visto i circoli più esclusivi dell’olimpo pop tentare di offrire delle eccezioni a tale regola – come avvenuto con il nuovo album della statunitense Beyoncé, da anni ormai vera e propria reginetta delle classifiche internazionali: un lavoro che, in apparenza, la vede sconfinare dai territori del più accattivante mainstream radiofonico in quelli del country a stelle e strisce.
Gli irresistibili singoli apripista strizzano l’occhio a tutti i cliché della musica country per dare vita a pezzi ballabili di grande effetto
Fin dal titolo (e dalla copertina vagamente kitsch), questo Cowboy Carter si presenta infatti come un disco intriso di atmosfere da rodeo, reminiscenti di una provincia americana in verità piuttosto patinata – il tutto sotto forma di un concept album che sembra voler reinventare il ruolo stesso di Beyoncé come interprete. Certo, bisogna ammettere che il tipo di pseudo-country qui proposto ha ben poco a che fare con ciò che si può ascoltare sul palco del Grand Ole Opry. È molto più vicino alle atmosfere da club vacanze di una lezione di line dance: del resto, questa era probabilmente l’intenzione della stessa Beyoncé – la quale ha voluto utiliz-
zare il CD come una sorta di fucina sperimentale in cui risuonano, tra gli altri, echi hip-hop, R’n’B, funky e soul. Ecco quindi che, in linea con il progetto intrapreso dall’artista – la trilogia di tema americano inaugurata dal disco Renaissance (2022), di cui Cowboy Carter costituisce il secondo capitolo – quest’astuto mélange vede ammiccamenti western intrecciarsi con il sound più pop, percorrendone l’intera gamma per mantenere un altissimo coefficiente di orecchiabilità, come dimostrato da pezzi trascinanti quali Ya Ya e Riverdance. Il tutto viene qui metabolizzato e rielaborato con un occhio di riguardo alle radici afroamericane della tradizione popolare statunitense e all’evoluzione compiuta nel corso dei decenni dalle varie forme di black music, passata dal blues al rap e all’hip-hop, fino al funk e al trap; e sebbene il country non sembri rappresentare uno dei territori abituali degli artisti di colore, è chiaro come la volontà di Beyoncé fosse proprio quella di spezzare le barriere dei cliché abituali per rivisitare il genere secondo la propria personale sensibilità.
Così, se gli irresistibili singoli apripista Texas Hold ’Em e 16 Carriages strizzano l’occhio a tutti i cliché del country commerciale per dare vita a pezzi ballabili e di grande effetto, il leitmotiv del disco è costituito dalle contaminazioni con sonorità apparentemente agli antipodi, che vanno dalla più pura house music condita di «ghetto jargon» (Sweet Honey Buckin’ e Spaghetti), alle sortite gospel di Just for Fun e, soprattutto, American Requiem, strutturato come una «funeral mass» del profondo sud degli States, con tanto di preludio e finale; per non parlare delle suggestioni operistiche offerte dalla drammatica Daughter, reminiscente del Fantasma dell’opera di Andrew Lloyd Webber. Non solo: Beyoncé non trascura le cover illustri,
arrivando a duettare con un mostro sacro come Dolly Parton sull’immancabile Jolene – da sempre il brano country per eccellenza – e cimentandosi perfino con il beatlesiano Blackbird, qui oggetto di una versione piuttosto basica, ma efficace.
Vero è che, in alcuni casi, l’artista sembra smarrire la strada nel tentativo esasperato di incorporare nella tracklist ogni tipo di sonorità commerciale –tanto che non mancano nemmeno accenti soft rock anni 70 (Bodyguard e Alligator Tears) e «sexy funky» (Levi’s Jeans e Desert Eagle). D’altro canto, in un disco di quasi 80 minuti anche i siparietti parlati che precedono alcuni dei brani finiscono per apparire un po’ ridondanti, sebbene facciano parte della struttura stessa del disco, concepito come una finestra sulle trasmissioni dell’immaginaria stazio-
ne radiofonica KNTRY, i cui speaker sono Linda Martell, Willie Nelson e la già citata Dolly Parton – la quale duetta con Beyoncé anche sulla ritmata Tyrant, distinta da un arguto assolo di fiddle. In effetti, i credits di Cowboy Carter mostrano una lunga lista di artisti ospiti (tra gli altri, Miley Cyrus, Post Malone e Willie Jones, autori di contributi più che convincenti), per non citare i molti nomi illustri presenti come semplici strumentisti (ad esempio Stevie Wonder, Paul McCartney e Nile Rodgers). In realtà, però, l’efficacia dell’album si deve soprattutto all’interpretazione di Beyoncé, qui in forma smagliante e a suo agio con ogni registro grazie a un fraseggio assai versatile; il che permette di perdonare anche qualche scivolata nel cattivo gusto, come i continui doppi sensi a sfondo sessuale inclusi nei testi.
Così, se il successo planetario di quest’album è ormai garantito, resta tuttavia, per l’ascoltatore navigato, una certa amarezza nel constatare come, per quanto lodevole, il desiderio di sperimentazione di Beyoncé si sia tradotto in una carrellata perlopiù superficiale tra mille generi diversi, anziché in uno studio davvero approfondito della country music in chiave afro quale Cowboy Carter avrebbe potuto essere. E sebbene tale limite sia senz’altro dettato dalle inevitabili esigenze commerciali del prodotto, nulla vieta di sperare che l’artista statunitense possa in futuro scegliere di andare ancora più a fondo nelle proprie esplorazioni – così da creare un’opera destinata non solo a raccogliere grande plauso, ma anche ad assumere un vero status iconico, al di là di qualsiasi effimera moda.
Quivittoq, una metafora sulla crisi climatica
Tra teatro e letteratura ◆ Una pièce di Flavio Stroppini genera anche un libro scritto a quattro mani con Pietro Montorfani
Giorgio Thoeni
Dopo il debutto e le successive due repliche, Quivittoq, lo spettacolo di Flavio Stroppini andato in scena con successo al Teatro Sociale di Bellinzona con l’interpretazione di Max Zampetti e Moira Albertalli e la regia dell’autore, ci permette qualche considerazione. Anche perché, oltre alle rappresentazioni teatrali, come vedremo, ha generato un ebook edito da Gabriele Capelli.
La storia è una metafora con cui Stroppini ha teatralizzato la crisi climatica trasformandola in una storia d’amore. Quivittoq, nella cultura inuit, identifica chi si allontana dalla comunità per non far pesare le proprie disgrazie. Ma è anche il nome del protagonista, uno svizzero che vive da eremita a bordo di una nave imprigionata fra i ghiacci di una banchisa della Groenlandia, un fiordo distante diversi chilometri dal villaggio più vicino dove ha lasciato Ane, la sua ragazza inuit, che lo vuole assolutamente raggiungere attraversando a piedi i ghiacci che sono però troppo sottili e friabili a causa del riscaldamento globale. La ragazza ci prova ugualmente ma è un suicidio. Una fine tragica che
suona come allusione al destino del nostro pianeta e alle nostre responsabilità, individuali e collettive.
L’aspetto interessante di questo nuovo copione di Stroppini è il processo creativo che lo precede. L’autore, infatti, molto legato alla natura, ha lavorato a questa storia durante un’esperienza «estrema» scelta per uscire da una profonda crisi creativa: la sindrome della pagina bianca che è l’incubo di ogni scrittore. Un blocco che lo porta a sfruttare l’opportunità offerta da un’associazione che mette a concorso un soggiorno su una nave arenata fra ghiacci. Riesce così a mettere a fuoco la sua storia facendola rivivere attraverso la finzione teatrale, un processo che gli permette di concepire una narrazione diversa da una consuetudine narrativa che ormai gli va stretta.
In questo lo aiuta la tecnica appresa alla Scuola Holden alla corte di Alessandro Baricco – che sembrava persa per strada – e che consiste nel non aver paura del surreale a patto di trasformarlo in un contesto reale. Il tutto ha fatto poi un passo determinante grazie a un progetto finanziato da Pro
L’autore ha lavorato a questa storia durante un’esperienza «estrema» tra i ghiacci, scelta per uscire da una profonda crisi creativa. (foto di Flavio Stroppini)
Helvetia, il confronto fra un narratore e uno storico su come si racconta il reale. L’iniziativa ha messo Stroppini in dialogo con Pietro Montorfani, collaboratore di Azione, e il risultato è diventato un ebook (Girando attorno ad altrove. Conversazione su realtà e finzione tra un narratore e uno storico), un testo gratuito da poco pubblicato da Gabriele Capelli editore.
Per Stroppini si è trattato di un’operazione che ha rappresentato il punto di svolta di una narrazione che voleva accostare l’esperienza artica alla realtà che aveva vissuto declinata nella storia di Quivittoq. Un confronto, insomma, che l’ha aiutato nella stesura del copione. Uno scambio, utile e opportuno, che ci offre anche alcune chiavi di lettura. «Sì, proprio lì
ho avuto l’idea della storia», racconta Stroppini, «(…) una volta tornato la drammaturgia è nata senza particolari problemi. E questo è stato il mio problema. Ho inventato troppo? Ho romanzato un’esperienza reale? Posso farlo?» Domande centrali per Montorfani che risponde: «Credo proprio di sì. Hai in mano un’esperienza reale, molto vera, fatta di una banchisa reale, che hai calpestato con i tuoi piedi. E poi però, da come me la racconti, hai cercato degli appigli in categorie letterarie narrative che fai funzionare per lo spettacolo teatrale. La domanda è per forza sempre la stessa: la narrazione del reale necessita di un plot?» Sono brevi stralci di un confronto che ovviamente meriterebbe una lettura più approfondita, ci è sembrato però interessante mettere in rilievo alcune delle domande che sono al centro della scrittura di un narratore valide anche per lo storico. Per entrambi è importante trovare un appeal narrativo, un modello per conquistare il lettore. Vale per una drammaturgia teatrale e per la letteratura in generale. Rimane la domanda di fondo: a chi è destinato il mio lavoro?
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 22 aprile 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino CULTURA 47
Benedicta Froelich Beyoncé sale sul palco per accettare il premio Innovator Award durante gli iHeartRadio Music Awards, al Dolby Theatre di Los Angeles, il 1° aprile 2024. (Keystone)
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Julian Rachlin, musicista versatile
Concerti ◆ Intervista al violinista e violoncellista lituano che giovedì 25 aprile dirigerà l’OSI al LAC
Enrico Parola
Per arrivare sul podio, da dove giovedì prossimo alle 20:30 dirigerà l’Orchestra della Svizzera Italiana nelle sinfonie Classica di Prokof’ev e K 550 di Mozart (e nel mezzo il Concerto per violino di Mendelssohn, solista Veronika Eberle), Julian Rachlin (nella foto) ha percorso una via sempre meno desueta tra i grandi concertisti d’oggi: diventare stelle internazionali come pianisti, violinisti, violoncellisti e – chi gradualmente chi rapidamente, chi con esiti inferiori, chi altrettanto se non ancor maggiori di quelli raggiunti suonando – imboccare poi la carriera del podio.
Conosciuto come eccezionale talento del violino ha riscosso uguali consensi suonando la viola e ora è passato al podio
Rachlin, nato quarantanove anni fa in Lituania, ma cresciuto artisticamente a Vienna, si è però reso protagonista di una «variazione sul tema»: non si è imposto solo come eccezionale talento del violino, ma presto ha riscosso uguali consensi con lo strumento più grande, la viola. «Merito del mio insegnante a Vienna, Pinchas Zucherman, che sosteneva l’importanza per un violinista di suonare anche la viola: per ampliare le proprie prospettive e affrontare anche gli aspetti più
squisitamente tecnici trovando soluzioni diverse, soprattutto nell’utilizzo dell’archetto. Aveva perfettamente ragione, anch’io lo consiglio ai miei allievi. Però, forse, c’è una spiegazione che risale agli inizi non solo della mia carriera, ma anche della mia vita. Sono nato in una famiglia musicale e non ho memoria di me e della realtà a me circostante senza musica. Questo per me, penso già a due anni, voleva dire il suono e le forme del violoncello, assolutamente il mio strumento preferito. Mio padre era violoncellista nell’orchestra lituana e così a due anni e mezzo, appena portò a casa uno strumento per me, mi sedetti, lo misi tra le gambe e iniziai a far finta di suonarlo – un grande giocattolo! – e presto a studiarlo. “Guarda che bel violoncello” mi disse papà. Poi però, quando per la prima volta andai ad assistere a una prova dell’orchestra in cui suonava, rimasi basito: quello che avevo imbracciato come violoncello non era un violoncello, bensì un violino! Nonostante questa scoperta, continuai a usare quello strumento, e quando andai a Vienna per studiare, lo feci come violinista. Quando Zuckerman mi suggerì di provare anche la viola, penso di aver accettato anche perché, per suono e dimensioni, è più vicina al violoncello di quanto non lo sia un violino».
Per anni Rachlin non solo ha diviso la sua carriera tra viola e violino,
ma spesso ha tenuto recital alternando i due strumenti: cimento arduo, perché impongono un modo di suonare assai diverso tra loro, molto più diverso di quanto potrebbero credere i semplici appassionati. Però, viaggiando freneticamente per il mondo, tra i suoi bagagli non ci sono due, bensì quattro strumenti: «Porto sempre con me anche due racchette da tennis. Sono sempre in giro e ritengo essenziale trovare un equilibrio, perché la musica occupa quasi tutto il mio tempo ed è importante, almeno per brevi momenti, “spegnere l’interruttore” e dedicarsi ad altro. La vita del concertista è dura
anche dal punto di vista fisico; quindi, la scelta degli alberghi in cui soggiorno nelle varie città dove suono è dettata innanzitutto dalle dimensioni della piscina. Cinque minuti dopo aver aperto gli occhi, al mattino, sono già in vasca a nuotare; mezz’ora, poi bagno turco e doccia ghiacciata. E ormai da anni è sopraggiunta la passione per il tennis, che in certi momenti dell’anno diventa quasi un’ossessione; negli aeroporti mi presento spesso con la custodia del violino e della viola nella mano sinistra e con la sacca delle racchette nella destra. Due altre attività che mi aiutano a staccare sono la me-
ditazione e soprattutto la cucina: adoro andare al supermercato, scegliere gli ingredienti e poi stare ai fornelli».
Da talentuoso solista, Rachlin condivide il palco con i maggiori direttori, si confronta con loro sulle scelte interpretative ed esecutive, e sorgono in lui dapprima la curiosità, quindi un desiderio sempre più bruciante di essere lui a impugnare la bacchetta e guidare l’orchestra. «Chiesi a Mariss Jansons (uno dei massimi direttori degli ultimi decenni, ndr.) di insegnarmi, ma rifiutò; rimasi sorpreso perché non solo c’era un bel sodalizio artistico tra noi, ma eravamo grandi amici; mi spiegò che stare davanti a un’orchestra e far suonare in un certo modo tanti musicisti diversi tra loro è molto meno facile di quel che sembra. Avrei avuto bisogno di lezioni regolari e frequenti, e lui non poteva assicurarmele. «Se c’è una persona che può dedicarsi a te al mille per cento, è tua madre Sophia» mi disse. Lei aveva studiato direzione di coro a San Pietroburgo in un’epoca d’oro per la città e il suo conservatorio: i suoi compagni di studi erano stati Jansons stesso, Gergiev, Bychkov… Ovviamente rifiutai. Poi, quasi con sospetto, iniziai a confrontarmi con lei pensando che fosse solo una parentesi introduttiva, rimasi stupito dalle sue conoscenze e dal modo che aveva di farmi capire le dinamiche di una direzione. Non ho mai cambiato insegnante!».
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 22 aprile 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino CULTURA 49
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I book club delle celebrità
Libri ◆ Il fenomeno dei circoli letterari promossi dai vip
Virginia Antoniucci
Le tendenze, come gli amori descritti da Venditti, fanno giri immensi prima di ritornare. E così, dai recessi polverosi delle biblioteche, emergono i club del libro in una veste più chic, armati di ring light e treppiede, direttamente dalle ville hollywoodiane Benvenuti all’alba dei book club delle celebrità.
Il fenomeno dei circoli letterari presentati dai vip non è certo un fulmine a ciel sereno, ma piuttosto un’evoluzione naturale di una storia iniziata quasi tre decenni fa, quando Oprah Winfrey apriva le porte del Parnaso letterario ai comuni mortali durante il suo programma The Oprah Winfrey Show. Da allora, la scena si è evoluta e sembra che, nel ventunesimo secolo, le celebrità non si accontentino più di dominare solo le copertine delle riviste, facciate di interi palazzi e passerelle: ora vogliono colonizzare anche gli scaffali delle librerie e le nostre mensole.
Se però pensate che iscrivervi a questi club sia un buon modo per essere invitati a casa di Dua Lipa e vantarsene con gli amici, non è così. Questa nuova generazione di club del libro non si svolge più in salotti elitari o piccole librerie di quartiere tra tazze di tè e biscotti al burro, ma preferisce post e tweet sui social media, facendosi spazio tra selfie e food porn.
Le celebrity sfruttano il loro enorme seguito per conquistare un terre-
no inesplorato dopo avere assediato per anni quello delle linee di skincare, in un’eterna partita di Risiko della quale siamo pedine. Da Emma Watson con la sua crociata per la letteratura femminista con Our Shared Shelf a Dakota Johnson, che entra in scena con il suo TeaTime book club, tutti vogliono una fetta della torta letteraria.
Ma perché dovremmo fidarci ciecamente di persone che, per quanto possano ambire a un Oscar, non sono certo in lizza per il premio Pulitzer?
Per i lettori forti, seguire la selezione di un book club diventa una scorciatoia comoda nella giungla delle nuove uscite. Per i novizi, il canto delle sirene delle celebrità è irresistibile, spinti dal desiderio di emularle e, in maniera alquanto sinistra e preoccupante, di condividere un momento con loro. Basta una paparazzata alla modella Kendall Jenner con in mano un romanzo di Darcie Wilder, che i suoi milioni di minion si attivano per mandarlo sold-out. Resta da chiedersi quanti di loro siano davvero interessati al libro e quanti vogliano solo partecipare in un qualche modo al mondo dorato di Kendall.
Fatto sta che adesso la lettura, un tempo considerata passatempo per topi di biblioteca, sembra avere acquisito una vena radical chic, divenendo il biglietto d’ingresso per entrare in un’esclusiva nicchia di persone, co-
me nei romanzi di Donna Tartt. Non è più solo l’atto di voltare pagina dopo pagina; è un’esperienza da condividere e, sì, da esibire, con il rischio che un libro diventi più uno status symbol, come una borsa Birkin al braccio, che un’autentica passione.
Una notizia forse amara per i lettori più accaniti, ma non per l’industria editoriale, che ha abbracciato il mantra del «purché si venda». Gli editori e gli autori hanno scoperto che i book club delle celebrità sono una sorta di bacchetta magica, capace di far balzare un libro ignorato dalla critica in cima alle classifiche di vendita più velocemente di un olimpionico sui 100 metri piani.
Tuttavia, non possiamo illuderci che i club siano la panacea per il collasso dell’editoria. Possono generare momenti di curiosità e picchi di vendita, simili a quei fuochi d’artificio che illuminano la notte per un istante, per poi svanire nel nulla. La forza trainante delle vendite, guidata anni fa da Oprah, si è ormai dispersa in un mercato letterario saturo di proposte e scarso di lettori. La palla passa in mano agli autori, costretti ad aggrapparsi con le unghie alla fama ottenuta dai vari club e divenire megafoni del proprio lavoro. Niente più assenzio nelle mansarde parigine per gli scrittori, ma post da 140 caratteri e ospitate alle fashion week seguendo un piano editoriale.
Nonostante il declino della parte romantica del ruolo dell’autore, a cui è stata appioppata la targhetta di imprenditore di sé stesso, questi club sono una succosa esca per risvegliare l’interesse di potenziali lettori verso opere che finirebbero a decorare il cesto delle offerte.
Quindi, se il pubblico e l’industria libraria ne traggono vantaggio, cosa spinge questi vip a diventare ambasciatori dei romanzi? Siamo di fronte a un rinascimento culturale o sono mosse di marketing per un rebranding?
Sarebbe ingenuo pensare che sia tutto frutto di un grande amore. Per alcuni è una questione di soldi. Prendiamo Reese Witherspoon che ha trasformato la sua passione per i libri in un impero commerciale, con scelte mensili inviate tramite newsletter e adattamenti cinematografici prodotti dalla sua compagnia, Hello Sunshine, recentemente ceduta per la modica cifra di 900 milioni di dollari al Blackstone Group.
Per altre, si tratta di passare una mano di vernice fresca sulla propria immagine pubblica. Avvicinandosi a quell’età in cui interpretare l’eterna teenager comincia a diventare forzato o stufandosi di essere sempre viste come popstar trasognate, cercano di aggiungere un po’ di profondità al proprio curriculum, dimostrando di avere più sfaccettature di quanto possa sembrare. E diciamocelo, leggere, nell’immaginario collettivo, ti rende subito più sofisticato.
Non che alla base non ci sia un minimo di sincera passione, ma l’eccessiva adesione a questo trend letterario farebbe nascere dei sospetti nella mente più innocente.
L’esplosione dei club del libro delle celebrità è senza dubbio un riflesso del nostro attuale Zeitgeist culturale. Leggere diventa un gesto tanto intimo quanto pubblico; dimenticando che, nonostante il tentativo di rendere tutto questo un’attività da jet set, al suo centro c’è ancora il semplice e umile atto della lettura.
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Evviva, è tornata la stagione dei gelati!
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Tutto l'assortimento Frey (confezioni multiple escluse), per es. tavolette di cioccolato al latte finissimo, 100 g, 1.60 invece di 2.–, (100 g = 1.60)
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Highlanders o Chocolate Chip Shortbread, per es. Highlanders, 3 x 200 g, 12.95 invece di 16.20, (100 g = 2.16)
Tutto l'assortimento Ben & Jerry's prodotti surgelati, per es. Cookie Dough, Fairtrade, 465 ml, 7.95 invece di 9.95, (100 ml = 1.71)
Finalmente il nostro mitico gelato su stecco c'è anche vegano e senza lattosio
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7.30 Gelato su stecco alla vaniglia con la foca V-Love prodotto surgelato, 12 x 57 ml, (100 ml = 1.07)
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8.20 Cornetti alla vaniglia e al cioccolato, Fun prodotto surgelato, 6 x 145 ml, (100 ml = 0.94)
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Cialde finissime Classico, Noir o Black & White, M-Classic per es. Black & White, 3 x 200 g, 8.80 invece di 12.60, (100 g = 1.47)
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5.20 Gelati Mini Mix M-Budget prodotto surgelato, conf. da 9, 500 ml, (100 ml = 1.04)
2.15 Orsetti gommosi M-Budget 500 g, (100 g = 0.43)
2.95 Choco Kiss M-Budget 300 g, (100 g = 0.98)
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3.45 Sciroppo al lampone M-Budget 1,5 l, (100 ml = 0.23)
risparmiare M-Budget 13 Offerte valide dal 23.4 al 29.4.2024, fino a esaurimento dello stock.
Croccantezza, croccantezza ... Snack e aperitivi
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alla paprica, al naturale, Graneo Original o al peperoncino, in conf. XXL Big Pack, per es. alla paprica, 380 g, 6.– invece di 8.10, (100 g = 1.58)
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Popcorn da microonde M-Classic salati, in confezioni speciali, 10 x 100 g, (100 g = 0.39)
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LO SAPEVI?
Actilife integra l'alimentazione con vitamine e sali minerali. Ti aiuta a sentirti bene in ogni fase della vita e offre un valido sostegno alla tua salute.
Per la salute rimangono però fondamentali uno stile di vita sano così come una dieta equilibrata e varia.
Gli integratori alimentari non devono essere utilizzati per sostituirla.
Formule senza microplastiche
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Prodotti per la doccia o lozioni per il corpo, Kneipp in confezioni multiple, per es. lozione per il corpo ai fiori di mandorlo, 2 x 200 ml, 14.90 invece di 19.90, (100 ml = 3.73)
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Le padelle della linea Pro hanno un eccellente rivestimento antiaderente. Sono quindi l'ideale per cucinare con pochi grassi nonché facili da pulire. Belle massicce, immagazzinano e distribuiscono il calore in modo ottimale. Sono disponibili nei colori blu e beige e in varie misure.
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Padelle Pro Kitchen & Co. disponibili in blu o beige e in diverse grandezze, per es. a bordo basso, Ø 20 cm, il pezzo, 29.95 invece di 39.95 25% Tutto l'assortimento di stoviglie Kitchen & Co. in porcellana e in vetro (prodotti Hit, bicchieri e bicchieri da tè esclusi), per es. tazza verde, il pezzo, 3.50 invece di 4.95 a partire da 2 pezzi 30% Tutti i tovaglioli, le tovagliette e le tovaglie di carta, Kitchen & Co., FSC® (prodotti Hit esclusi), per es. tovaglioli bianchi, 33 x 33 cm, 50 pezzi, 1.40 invece di 1.95 a partire da 2 pezzi 30% 12.95 Bicchieri Kitchen & Co. con motivo a pesci, 31,5 cl conf. da 4 Hit
Tra fiori, comodità e convenienza
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Tutti i fertilizzanti liquidi Mioplant e Migros Bio Garden per es. fertilizzante liquido Mioplant, 1 l, 4.15 invece di 5.50 a partire da 2 pezzi
17.95 Slip midi da donna Essentials disponibili in diversi colori, tg. S–XXL
Consiglio: per farle rifiorire, basta tagliare gli steli sfioriti
4.95 Tulipani disponibili in diversi colori, mazzo da 12, il mazzo Hit
19.95 Boxer da uomo Essentials disponibili in nero o blu notte, tg. S–XXL
9.95 Phalaenopsis in vaso di ceramica disponibile in diversi colori, in vaso da 9 cm, il vaso
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