Cooperativa Migros Ticino
Società e Territorio Le realtà urbane svizzere privilegiano le zone a velocità ridotta, ma il Ticino è in ritardo
Ambiente e Benessere La dottoressa Tania Odello, specialista in cardiologia all’Ospedale Malcantonese di Castelrotto fa il punto della situazione sul Progetto Cuorema
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXII 29 aprile 2019
Azione 18 Politica e Economia Alle presidenziali ucraine del 21 aprile si afferma Vladimir Zelensky: un problema per Putin
Cultura e Spettacoli Gli straordinari «animali da spiaggia» dell’olandese Theo Jansen in mostra a Milano
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di Pompili, Bernardelli, Rocca pagine 22 e 23
AFP
Sri Lanka, il ritorno del terrore
Il peso di un passato mai superato di Peter Schiesser Rieccoli, i fantasmi che perseguitano lo Sri Lanka, e tanto sangue e sofferenze hanno provocato da un secolo e mezzo a questa parte: radicalismi, fanatismi, intolleranza, violenza – tutto celato dietro le bellezze di un’isola che viene definita la Perla dell’Oceano indiano e nell’animo della maggioranza singalese la Dhammadvipa, l’isola della fede del Buddha. Tanti di noi l’hanno visitata, conoscono Colombo e Negombo, i luoghi degli attentati, sono certo rimasti incantati dalla gentilezza delle persone, dalle bellezze di città e luoghi come Kandy, Galle, Sigiriya, Polonnaruwa, Anuradhapura, dalla natura, dalle spiagge, e avranno creduto al mito dell’isola pacifica, soprattutto dopo la fine della guerra etnico-civile che ha contrapposto tamil e singalesi per un quarto di secolo (al prezzo di 100-200 mila morti). Ma oltre al mito esiste un’altra realtà, ben più violenta, che ha radici profonde e su cui oggi si innesta un movimento di radicalizzazione islamica con ramificazioni mondiali. Per chi scrive, resterà sempre un mistero come nove persone, perlopiù di buona famiglia, possano radicalizzarsi al punto da decidere
di trascinare con sé nella morte degli innocenti fedeli in preghiera: due erano figli di uno degli uomini più ricchi dello Sri Lanka, la moglie di uno dei quali si è fatta esplodere davanti ai due figli piccoli uccidendoli, quando la polizia ha fatto irruzione nella villa paterna dei due. Ma queste sono le conseguenze di una radicalizzazione in atto in molti paesi dell’Asia, in cui le vittime sono alternativamente musulmani e cristiani. Visitando l’isola poco più di due anni fa, 28 anni dopo avervi trascorso 3 mesi in piena guerra etnica fra tamil e singalesi, coincisi con un’insurrezione degli sciovinisti singalesi del JVP contro il potere centrale singalese, repressa sanguinosamente, ho constatato che la pace seguita alla sconfitta militare delle Tigri Tamil nel maggio del 2009 (con la morte del loro capo Prabhakaran) non aveva dato spazio alla riconciliazione. I tamil restavano cittadini di serie B, le radici del confitto, le discriminazioni che avevano generato la sollevazione armata di numerosi gruppi tamil, sui quali sanguinosamente si erano imposte le Tigri di Velupillai Prabhakaran, erano ancora lì: il singalese come unica lingua nazionale, l’accesso limitato per i tamil a università e posti statali. Al contempo, coglievo dei segnali di
insofferenza della popolazione singalese-buddista verso la comunità musulmana, inesistenti 30 anni addietro, dovuti ad una crescente incidenza demografica di questa minoranza, a una presunta supremazia economica, ma soprattutto ad un’effettiva radicalizzazione in corso in alcune frange musulmane, a seguito dell’arrivo di predicatori salafisti. Che oggi i terroristi abbiano colpito i cristiani anziché i buddisti è probabilmente dovuto al contesto internazionale, di una estesa lotta degli estremisti islamici contro l’Occidente cristiano. Ma, appunto, la radicalizzazione non è solo dei musulmani: poco prima della mia ultima visita e ancora pochi mesi fa, fanatici buddisti (aizzati da un basso clero buddista) hanno attaccato dei musulmani, bruciato negozi, assaltato e ucciso, uscendone impuniti. La decisione del governo di bloccare i social media è stata presa per evitare di infuocare ulteriormente la situazione, benché qualche aggressione contro i musulmani ci sia stata in questi giorni, e a decine siano stati trasferiti in zone più sicure. Tutto questo, compresi indirettamente i massacri diPasqua, ha radici lontane: affonda nel desiderio di rivalsa, di affermazione dei singalesi sorto 150 anni fa. continua a pagina 24
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 29 aprile 2019 • N. 18
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Attualità Migros Lo stabile conserva un’immagine moderna. (U. Wolf)
Tutto il Ticino che balla
Concorso Da stasera prendono il via varie
manifestazioni collegate alla Festa Danzante: in palio alcune coppie di pass per il fine settimana dal 2 al 5 maggio
Migros Crocifisso di Savosa compie mezzo secolo Anniversari La filiale luganese di Migros Ticino celebra il 50esimo
anno d’esercizio con un’apertura straordinaria domenica 5 maggio: previsti sconti, omaggi e animazioni per i bambini Migros Ticino ha aperto lo storico supermercato di via San Gottardo 150 a Savosa nel lontano 1969. Un negozio di quartiere, che negli anni è diventato un punto di riferimento per la popolazione residente, ma non solo. Edificato in posizione strategica, nei pressi di un’importante arteria stradale, risulta infatti facilmente raggiungibile sia a piedi sia in auto o con i mezzi pubblici. Un’apprezzata filiale, che in cinque decenni di attività ha saputo restare al passo con i tempi e soddisfare le mutevoli necessità di diverse generazioni di clienti. Rispolverando le pagine d’archivio del nostro settimanale troviamo ancora il resoconto ufficiale di una memorabile giornata: l’inaugurazione ufficiale si era tenuta il 27 giugno del 1969, alla presenza di numerose autorità e di un folto numero di clienti. La nuova filiale luganese veniva a rimpiazzare, con una struttura moderna e con i più recenti aggiornamenti nel settore della vendita, la più anziana e ormai sottodimensionata sede di Massagno-Centro, un negozio molto più piccolo situato in Piazza del Sole. «Chiusa la piccola filiale di Massagno si apre quella ampia, luminosa, spaziosa, bene arredata, razionale di Crocefisso di Savosa. Morto un re, viva il re, potremmo dire anche noi ricordando i buoni servigi resi dalla succursale di Massagno, diventata ormai esigua»: così commentava con un certo umorismo il nostro giornale in quell’occasione. Andrebbe ricordato, per onore della cronaca, che il vecchio negozio era stato inaugurato il 2 agosto del 1952 e che la sua superficie raggiungeva soltanto i 130 mq. Il nuovo supermercato, invece, poteva vantare la considerevole ampiezza di 620 mq. Durante la cerimonia di inaugurazione del nuovo stabile, che era di proprietà della famiglia Gemetti e la cui costruzione era stata curata dall’architetto Camponovo, si segnalarono i discorsi
di presentazione tenuti dal direttore di Migros Ticino Charles H. Hochstrasser e da Ulrico K. Hochstrasser, suo figlio: «come si è potuto ricavare dalle parole di U.K. Hochstrasser, questo moderno, attrezzato e accogliente spaccio di vendita è una persuasiva testimonianza degli sforzi che la Migros compie per procurare al compratore le condizioni più adeguate per svolgere le sue funzioni di consumatore, funzioni che oggi non sono più assegnate al caso ma a una scelta consapevole e a un esame minuzioso delle merci» sottolineava il nostro resoconto particolare.
Azione
Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
Orari di apertura ordinari Lunedì-venerdì 08.00 – 18.30 Giovedì 08.00 – 20.00 Sabato 08.00 – 18.00 Tel. 091 821 72 60
Da notare, infatti, che proprio in quegli anni si introducevano elementi di controllo in seguito diventati essenziali: «Sia per la qualità, per i prezzi, per gli imballaggi come pure i criteri di costante aggiornamento – si pensi per esempio a Migros-Data e alla dichiarazione della composizione dei prodotti, che verrà introdotta prossimamente – la nostra cooperativa continua a essere all’avanguardia nella lotta per la difesa del consumatore», commentavamo. Ma per tornare al presente e all’attuale rinnovo della filiale, il gerente Gacina Bilin Kresimir e i suoi collaboratori attendono un numeroso pubblico domenica 5 maggio dalle ore 10 alle ore 18 per festeggiare questi cinquant’anni di successo. Per l’occasione sarà offerto agli avventori uno sconto del 10 per cento su tutto l’assortimento; alle ore 10 caffè e cornetti in omaggio per tutti, alle ore 15 merenda con una fetta di torta offerta e per tutto il giorno speciale animazione per i bimbi, con clown e piccole sorprese.
La Festa Danzante è un’iniziativa nazionale che vuole attirare l’attenzione del pubblico su una disciplina artistica di grande fascino e valore. La danza in effetti, è un impegno poliedrico che riesce a riunire in sé vari aspetti concreti e positivi: la sua pratica ha risvolti efficaci sulla salute fisica di chi vi si impegna, ma anche non trascurabili effetti sulla qualità della relazione tra le persone e sui principi della tolleranza sociale e dell’integrazione. La danza è un’attività popolare e piacevole, che si esprime in molti contesti diversi, da quelli più ludici a quelli tradizionali, dalla performance artistica fino alle più dinamiche versioni alla moda. L’intenzione degli organizzatori di questa kermesse coreografica è di sensibilizzare e introdurre a tutte queste declinazioni della danza la popolazione tutta, suscitando magari il desiderio di partecipare e di entrare a far parte della «grande famiglia danzante». Le manifestazione si tiene in tutta la Svizzera in 36 città contemporanea-
La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni
Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31
Biglietti in palio «Azione» mette in palio tra i suoi lettori alcuni pass per due persone che permettono di prendere parte a tutte le manifestazioni a pagamento della Festa Danzante 2019. Per partecipare, seguire le istruzioni contenute nella pagina web www.azione.ch/ concorsi. Buona fortuna!
Programma Festa Danzante 2019 Giovedì 2 maggio
• La Filanda (Mendrisio) Ore 16.30-18.30‚ Origami Atelier con Gabriella Gambazzi • Museo d’arte (Mendrisio) Ore 19.30-20.30 Origami Landscapes Performance della Cie Pipóka 20.30, Nel blu‚ Apéro danzante con DJ Raba Venerdì 3 maggio
• Spazio Officina (Chiasso) Ore 17.30-18.30 In Situ‚ Performance della Cie Budge • Cinema Teatro (Chiasso) Ore 21.00-21.45‚ Sul tango. L’improvvisazione intima. Conferenza danzata con Davide Sparti‚ Marcelo Ramer e Selva Mastroti Ore 21.45-01.00 Milonga di Amitango con DJ Punto y Branca Sabato 4 maggio
Una foto d’epoca, il giorno dell’apertura. (M.A.D.)
mente, in uno stesso finesettimana di maggio. In Ticino, le manifestazioni collegate alla festa della danza coinvolgono numerose realtà culturali del cantone, rendendole partecipi e sostenitrici del progetto. Tra queste il Museo Vincenzo Vela a Ligornetto e il Museo d’arte di Mendrisio‚ il Festival ChiassoLetteraria‚ il Cinema Teatro di Chiasso‚ i Cineclub del Ticino e altre associazioni ed enti attivi sul territorio. Il programma completo, con tutti i dettagli, è pubblicato sul sito: festadanzante.ch
• Studio Foce e Cortile (Lugano) 10.30-14.00 Workshop Hip Hop & Freestyle 15.00-19.00 Swiss Battle Tour • Studio Foce (Lugano) 20.30-21.45 Loop‚ coreografia Béatrice Goetz/Cie Mir‚ con Chantal Sieber e Anton «Toschkin» Schalnich Isho Ni!‚ coreografia e danza Naoko «Nao» Tozowa & Saief «Sai» Remmide • 22.00-01.00 XXXL Party‚ Con DJ Toclock • Piazza Manzoni (Lugano) Ore 12.15 All You Can Dance – Flash Mob Tiratura 102’022 copie Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch
• Luoghi vari (Lugano) dalle 10.30 alle 19.30 Porte Aperte – Corsi • Piazza Manzoni (Lugano) Ore 16.30 Rivetta Tell (Lugano) Ore 17.30 Danze Etniche Colombia Domenica 5 maggio
Piazza Dante (Lugano) Ore 11.00-12.30 e 14.15-15.45 Mi presento – Piattaforma delle scuole di danza • i2a (Lugano) Ore 16.00-18.00 Living Architecture. l’esperienza dello spazio – Workshop con Nunzia Tirelli • Parco Ciani (Lugano) Ore 10.00-10.30 Tai Chi Chuan – Dimostrazione • Piazza Dante (Lugano) Ore 13.45 Ideogramma in danza – Dimostrazione • Piazza Dante (Lugano) Ore 14.00 Danze etniche Armenia – Dimostrazione • In collaborazione con LuganoInscena e Performa Festival Ex Asilo Ciani (Lugano) Ore 19.00 Balerhaus – Spettacolo Teatro della Contraddizione e Compagnia Sanpapié Sabato 4 e domenica 5 maggio
• Studio privato 18.00-22.00 Touch – Performance di Filippo Armati e Maria Vlasova Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–
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Società e Territorio Riscoprire le bocce I campi da bocce stanno scomparendo da grotti e osterie, ma il futuro del gioco potrebbe passare dalle scuole
Un’escursione nel triassico Una nuova terrazza panoramica è stata inaugurata lungo il sentiero geopaleontologico del Monte San Giorgio pagina 7
I ponti di Jürg Conzett La mostra Landscape and Structures in corso al Teatro dell’Architettura di Mendrisio esplora le opere del progettista grigionese pagina 8
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Realtà urbane a velocità ridotta
Mobilità Nella città di Zurigo l’80 per cento
delle strade si trova in una zona 30 km/h, in Ticino a che punto siamo?
Roberto Porta Nel nostro Paese c’è una associazione nazionale poco conosciuta che porta il nome di «Conferenza delle città per la mobilità». Vi hanno finora aderito 20 realtà urbane, tra cui le principali città del nostro Paese, in Ticino solo Chiasso. La promozione della mobilità sostenibile figura tra gli scopi principali di questa organizzazione che, proprio in questo senso, ha di recente realizzato un sondaggio tra i cittadini di sette città elvetiche, distribuite tra la Svizzera tedesca e la Romandia. Ebbene una netta maggioranza, l’84% dei cittadini intervistati si augura per il futuro un aumento delle vie ciclabili e dei percorsi pedonali all’interno delle loro città. A tal punto che la stessa conferenza ha definito la bicicletta – e la sua versione elettrica – il mezzo di locomozione ideale all’interno di un agglomerato urbano. Dallo stesso sondaggio risulta inoltre che a Berna ben otto cittadini su dieci auspicano un’estensione delle zone in cui la velocità massima consentita è di 20 chilometri all’ora, aree incontro in cui il pedone ha la priorità sulle auto. La capitale federale detiene in questo ambito il primato nazionale con già oggi ben 123 zone incontro sparpagliate sul proprio territorio. Questi sono soltanto alcuni dei dati emersi dal sondaggio condotto dalla Conferenza delle città per la mobilità, un’indagine da cui è risultato in modo molto chiaro che i cittadini anelano a spazi urbani sempre più a misura di persona e di famiglia, allontanando il più possibile l’auto dai quartieri residenziali. E in Ticino, le cui città non hanno partecipato a questo sondaggio, a che punto siamo? Visto che le zone a 20 all’ora sono una vera rarità al sud delle Alpi, non ci resta che chiedere lumi su quelle a 30 all’ora. Ci risponde Federica Corso Talento, responsabile dell’Ufficio della pianificazione e della tecnica del traffico, presso il Dipartimento del Territorio. «L’introduzione di zone 30 km/h in Ticino, se paragonata con il resto della Svizzera, è un fenomeno abbastanza recente. Anche se non mancavano esempi di zone 30 diversi anni fa, è con i Programmi di agglomerato che si è giunti ad una reale svolta. Il Dipartimento del territorio, infatti, ha aderito negli scorsi anni
alla filosofia dell’Ufficio prevenzione infortuni che prevede di mantenere una o più strade principali con il limite generale di 50 km/h e abbassare, invece, la velocità a 30 km/h in tutto il resto del paese o della città. Questa misura è stata introdotta in tutti i quattro programmi di agglomerato del Canton Ticino, dal Mendrisiotto, al Luganese, al Bellinzonese e al Locarnese. Naturalmente non mancano esempi nelle Tre valli. I comuni hanno ora tempo di adeguarsi alle nuove regole e agli impegni presi con il Cantone e con Berna entro i termini stabiliti dalla Confederazione, realizzando le misure al massimo entro il 2027. Va però ricordato che la strada è un motore fondamentale per la vita e l’economia di un paese. Pensare di privarla del ruolo per cui è nata – quello di collegamento – sarebbe un errore: ma è necessario oggi provare a ripensarla, per consentire anche quella molteplicità di funzioni che da sempre la ha caratterizzata. In questo senso non è il mero abbassamento della velocità che consente di migliorare la qualità di vita dei cittadini e la loro sicurezza. La qualità sta nel progetto e nello spazio che ne deriva: uno spazio e una strada brutti, mal tenuti, senza sensibilità per chi li frequenta è sicuramente più pericoloso sia soggettivamente, che oggettivamente». Ritornando rapidamente in Svizzera tedesca va sottolineato anche un altro dato, relativo alla città di Zurigo, dove l’80% delle strade si trova oggi all’interno di una zona 30. Dal punto di vista del semplice dato statistico il Ticino a che punto è? «Ad oggi abbiamo circa 150 zone 30 in Ticino, certamente l’obiettivo posto dai Programmi di agglomerato tende a quello virtuoso di Zurigo, poiché resterebbero a 50 km/h solamente le strade principali in attraversamento alle località (oltre, ovviamente, a quelle esterne con limiti più elevati)», ci risponde ancora la signora Federica Corso Talento. Qualche progresso dunque c’è stato, ma il paragone con il resto della Svizzera, in particolare quella tedesca, mette in risalto l’ampio ritardo ticinese. «Da quello che posso osservare anche in Ticino e a Lugano la popolazione richiede quartieri con una maggiore qualità di vita, con concetti urbani innovativi e vere zone a traffico limitato –
Una strada di quartiere a Giubiasco. (Ti-Press)
fa notare Michele Bertini, vice-sindaco di Lugano e responsabile del Dicastero sicurezza e spazi urbani – Nel nostro cantone e anche a Lugano si è però accumulato un ritardo, 10-15 anni fa bastava scrivere 30 sulla strada e si pensava di avere una zona a traffico limitato, questo è capitato in particolare in alcuni dei nostri ex comuni aggregati. Si tratta ora di recuperare il tempo perduto, da pochi anni abbiamo iniziato la riqualifica dei nostri quartieri, con l’obiettivo di garantire una maggiore qualità di vita e più sicurezza ai cittadini». A Lugano è in corso una rilevazione statistica per capire quante siano effettivamente le zone a 30 all’ora, sia quelle autentiche, sia quelle solo di facciata. Una base da cui partire per poter intervenire in tutti i quartieri della città. Va detto comunque che dal resto
della Svizzera arrivano segnali contrastanti: c’è chi chiede, anche in Parlamento di ridurre le zone a 30 all’ora e dall’altra parte c’è invece chi chiede di estenderle, anche sulle strade ad alta percorrenza. Un’opzione, quest’ultima, da valutare anche al sud delle Alpi? «Di primo acchito direi di no – ci dice Michele Bertini – in città sugli assi a forte traffico è importante garantire la maggiore scorrevolezza possibile. Ci sono poi comparti a vocazione residenziale, come ad esempio Cassarate o Lambertenghi, dove la zona a 30 all’ora garantisce una maggiore qualità di vita, un minore inquinamento fonico e più sicurezza. Credo che questa sia la ricetta da seguire». E così la pensa anche Federica Corso Talento. «Le strade tipicamente orientate all’insediamento, dove la
gente per lo più vive, studia e talvolta lavora, ha di regola un traffico contenuto, inferiore a 5000-8000 veicoli al giorno. Queste strade, interi quartieri, devono sicuramente essere strutturate in modo da favorire velocità di circolazione contenute e una coesistenza tra i diversi vettori e utenti. Lungo queste strade si può intervenire con misure di riqualificazione, moderazione e arredo, per favorire un comportamento adeguato, maggiore sicurezza e una migliore qualità di vita per chi risiede o fruisce del tessuto edificato adiacente». In ogni caso il futuro dirà se il Ticino e le sue città saranno stati in grado di colmare il ritardo accumulato in questi ultimi decenni, nell’ambito delle zone a 30 all’ora e più in generale in quello della mobilità, perché ricalcando uno slogan elettorale, c’è da fare.
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Idee e acquisti per la settimana
Il meglio del pesce
Attualità Il delicato filetto di tonno pinne gialle fresco questa settimana ad un prezzo
particolarmente vantaggioso nel vostro reparto pesce Migros
Azione 30%
sul filetto di tonno (pinne gialle) Oceano Pacifico/Maldive 100 g Fr. 4.40 invece di 6.30
Il tonno fresco è apprezzato per la sua carne rossa, soda, aromatica e tenera come il burro che, per quanto attiene alla consistenza, assomiglia a quella del vitello. Il filetto di questo pregiato pesce è uno dei tagli più facili da cucinare: lo si può preparare sia in padella che sulla griglia senza troppe complicazioni e condimenti per non comprometterne le qualità. Si sposa a meraviglia anche solo con un po’ di sale marino, pepe macinato di fresco e qualche goccia di limone. La cottura, proprio come quella della classica bistecca, deve essere breve, altrimenti si seccherebbe troppo. Può infatti essere servito sia al sangue, con una cottura di 1 minuto per parte, media (2 minuti) oppure, per chi lo preferisce ben cotto, di 3 minuti per parte. Desiderate portare in tavola un filetto di tonno particolarmente saporito? Mescolate del ketchup con della senape e dell’olio. Spennellate da entrambi i lati dei filetti di tonno con la salsina e lasciateli marinare per un quarto d’ora. Rosolate o grigliate i filetti a fuoco medio al massimo per due minuti per lato, fintanto che l’interno rimanga di colore rosato. Si può servire questo delizioso secondo con una fresca insalata di porri: tagliare questi ultimi a fettine sottili e condirli con una salsa a base di crème fraîche, aceto di vino bianco e sale e pepe a piacere. Per altre sfiziose ricette potete naturalmente rivolgervi agli esperti del banchi del pesce Migros, i quali sapranno rispondere a tutte le vostre domande e desideri affinché il risultato dei vostri manicaretti sia sempre ben riuscito.
dal 30.4 al 4.5
Spuntano di nuovo gli asparagi nostrani
Attualità I verdi turioni coltivati sui nostri campi
Il sushi del mese
Cucina etnica La specialità giapponese
di maggio da gustare assolutamente
Giovanni Barberis
sono finalmente arrivati sugli scaffali della Migros
Romano Reboldi coltiva asparagi a S. Antonino.
Per la felicità dei buongustai che prediligono i prodotti a km zero ecco che nelle maggiori filiali sono ora disponibili gli asparagi verdi coltivati sul
Piano di Magadino. Romano Reboldi di S. Antonino è uno dei produttori regionali che da qualche anno coltiva questi apprezzati ortaggi con succes-
so: «Ho iniziato con questa coltura nel 2013 su una superficie di 3500 metri quadrati in campo aperto e, visto il buon riscontro da parte dei consumatori, dal 2015 l’ho estesa di ulteriori 2000 metri», afferma con soddisfazione l’orticoltore e agricoltore sopracenerino che, oltre agli asparagi, coltiva anche melanzane, pomodori peretti, zucchine, formentino, insalate, vite, nonché possiede una settantina di vacche nutrici. Nella conduzione dell’azienda agricola Romano si fa aiutare dalla moglie, dai figli e da due operai agricoli. «La coltura degli asparagi in pieno campo – spiega Romano - non crea particolari problemi dal lato fitosanitario, in quanto essi non richiedono trattamenti speciali: quest’ultimi vengono eseguiti solo in caso di vera necessità. L’inconveniente maggiore riguarda l’erba, che frena lo sviluppo dell’ortaggio, pertanto bisogna eliminarla regolarmente. Inoltre quest’anno anche il clima secco e la poca pioggia ne hanno rallentato la crescita». Sui terreni di Romano la raccolta è iniziata timidamente a metà aprile, ma ora continua giornalmente e durerà fino a fine giugno.
Una delizia raffinata, fatta con ingredienti freschissimi, dalle ottime proprietà nutrizionali e facilmente digeribile. È quello che caratterizza la specialità di sushi del mese di maggio, il Satsuki-Mai, disponibile a partire da questo giovedì nei maggiori supermercati di Migros Ticino. Sarà impossibile resistere alla variopinta confezione composta da Chu-Maki
Sushi Satsuki-Mai 290 g Fr. 15.90
California con surimi, Chu-Maki Mexico al tonno, Nigiri ai gamberetti e tonno crudo e Hoso-Maki al tonno. Naturalmente, come vuole la vera tradizione, il piatto include della salsa di soia, della salsa piccante wasabi e delle lamelle di zenzero marinato. Un’idea perfetta per uno spuntino leggero e saporito in ufficio, al parco, sul terrazzo di casa…
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Idee e acquisti per la settimana
Scopri come si fa il pane Val Morobbia
Più attivi con Borotalco Igiene Due efficaci
deodoranti del noto marchio per una freschezza duratura
Attualità Un’occasione imperdibile per conoscere meglio uno dei pani più apprezzati
Profumo inconfondibile, aroma intenso, mollica morbidissima e una crosta dalla croccantezza unica: da diversi anni il pane Val Morobbia arricchisce la nostra tavola quotidiana con le sue apprezzate caratteristiche. Spalmato con del miele nostrano o della confettura fatta in casa a colazione, servito quale ideale accompagnamento degli altri pasti della giornata oppure imbottito con le farciture più sfiziose per dei panini gustosi e corroboranti, questo pane dal carattere rustico è elaborato dal panificio Jowa di S. Antonino con ingredienti di primissima scelta, di provenienza svizzera, secondo un metodo tradizionale. Un sapiente mix di farina bigia scura e farina scura di segale miscelate lentamente, una perfetta maturazione dell’impasto e una delicata cottura in forno, fanno sì che la specialità possa mantenere le sue straordinarie qualità anche per diversi giorni dopo l’acquisto, a condizione che venga conservata nel suo sacchetto originale e in un luogo fresco. Insomma, il Val Morobbia è un pane davvero versatile, in grado di soddisfare i gusti e i palati di tutti i consumatori ticinesi.
Flavia Leuenberger Ceppi
dell’assortimento di Migros Ticino
Iscriviti al pomeriggio in panetteria!
Pane Val Morobbia 550 g Fr. 3.40
Il pomeriggio si terrà martedì 7 maggio nella panetteria della casa di S. Antonino. Con la supervisione degli esperti panettieri Jowa i partecipanti avranno la possibilità di scoprire come si prepara l’apprezza-
to pane Val Morobbia. Il workshop è riservato alle prime dieci persone che telefoneranno al numero 091 851 99 41, a partire dal 30 aprile fino al 2 maggio, nelle fasce orarie 09.0011.00 e 14.00-16.00.
Freschezza e buon odore da mattina a sera grazie ai due deodoranti Borotalco Active con formula «Odor-Converter» e «Fragrance booster». Disponibili in due sensazionali profumazioni – cedro/lime e sali marini –, questi efficaci prodotti contengono delle microcapsule in grado di attivarsi quando stai sudando, regalandoti così una sensazione di pulito. I prodotti Borotalco Active sono dermatologicamente testati, sono privi di alcol ed efficaci fino a 48 ore. Ideali per coloro che praticano regolarmente dello sport. I due deodoranti completano il già variegato assortimento di prodotti dello storico marchio in vendita a Migros Ticino. Annuncio pubblicitario
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In vendita nelle maggiori filiali Migros. OFFERTA VALIDA SOLO DAL 30. 30 4 AL 6. 5. 2019, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK
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Società e Territorio
Schioccavano un tempo le bocce
Sport Il tradizionale gioco ticinese è quasi scomparso da grotti e osterie. Il futuro potrebbe ora passare dalle scuole
Sulla pista, accanto agli ombrelloni gialli e ai tavolini disposti in modo regolare, ora c’è un tappeto di erba sintetica. La sabbia su cui un tempo schioccavano le lisce sfere colorate è stata spazzata via dalla plastica verde. «L’ultima partita di bocce? Sarà stata due anni fa. Ora non si gioca più», spiega il cameriere. Nel centro di Chiasso un tempo la Trattoria della Zocca era un punto di riferimento nei lunghi pomeriggi domenicali. Si arrivava, si beveva un bicchierino di vino in compagnia, le schiene si piegavano incessantemente, l’occhio attento a prendere la mira, ore e ore su e giù per la pista, una gazzosa ghiacciata o un bicchiere di vino per dissetarsi sotto il sole. «Ora è tanto se qualcuno arriva a giocare a scopa». È un destino ineluttabile: i campi da bocce stanno scomparendo uno dopo l’altro. Non solo a Chiasso, ma in tutto il Ticino. E dove non scompaiono sono relegati ad un folclore artificiale. Un giorno come nel 1800, recitava qualche tempo fa lo slogan di un ristorante di Lugano che, per rendere più interessante il suo menu rigorosamente ticinese, offriva anche un paio di ore a giocare a bocce con un membro della società bocciofila locale. Boccia im Grotto: rund und gesund, dice invece lo slogan in rima di un’altra promozione turistica, in cui si spiega che «le bocce combinano esercizio fisico, piacere e convivialità». Come dire: giocate a bocce: è sempre meglio che iscriversi in palestra. C’è poco da fare. I tempi sono cambiati. «Un tempo quasi tutti i grotti avevano una pista in terra battuta dove giocare a bocce dopo pranzo o dopo cena. Oggi sono quasi tutte abbandonate, la tradizione è scomparsa», dice Claudio Knecht, che lo scorso mese di marzo, dopo molti anni, ha rimesso il mandato di presidente della Federazione svizzera di bocce. Cartina di tornasole è il numero dei membri delle varie bocciofile, in caduta libera. «Fino a qualche anno fa nel cantone c’erano 8mila tesserati. Oggi arrivano a mala-
pena a 2mila». Una costante diminuzione, causata da molti fattori. I viali di terra richiedono una grande manutenzione, e pochi esercenti oggi vogliono assumersi costi e investire. E poi c’è la speculazione edilizia. «Molti bocciodromi sono in zona edificabile e vengono distrutti per costruire nuovi edifici», spiega Knecht. Basta guardare i dipinti del pittore ticinese Emilio Rissone, scomparso due anni fa, per capire che prezioso patrimonio sociale abbiamo perduto. Il suo ciclo di opere dedicato al gioco delle bocce è un malinconico tuffo nel passato. I suoi tratti restituiscono l’atmosfera gioviale del canvetto. Si beve, si balla sotto i pergolati, le biciclette appoggiate ai muretti, cani e gatti se ne vanno in giro scodinzolanti. E in mezzo a tutto c’è sempre il grande protagonista: il campo da bocce, centro del mondo, gremito come la piazza di un villaggio in festa. Eppure già venti anni fa anche l’artista di Viganello presentiva la fine di questa realtà. «Sta finendo una grande invenzione ticinese», diceva sconsolato in una intervista. «Quella del grotto, del canvetto, della trattoria, dove tante persone contente passavano il tempo meglio di come lo passiamo oggi». Ma forse non è tutto perso. Le piste nei grotti stanno sparendo, è vero. Alcuni bocciodromi al coperto resistono però stoicamente – e con instancabile speranza. Al Palapenz di Chiasso è arrivato il tempo di rifare la pista. A vedere il lavoro, sembra la semina a mano del grano sulla terra nuda: si va su e giù per i viali, attingendo a un secchio infilato nel braccio, spargendo la sabbia sulla pista in cemento. Bisogna farlo almeno due volte all’anno. Ad assicurarsi che tutto vada per il meglio c’è Arturo Marinoni. Ha iniziato a giocare a bocce quando aveva 13 anni, a 77 non ha ancora smesso. «Tutti pensano che il gioco delle bocce sia quello del vecchietto con la sigaretta in bocca e il bicchiere di vino in mano. Non è così. C’è da sudare sette camicie. In un pomeriggio di gioco si percorrono fino a 6 chilometri e si lanciano centinaia di chili di boc-
Al Palapenz di Chiasso Arturo Marinoni in una foto d’archivio insegna le regole fondamentali del gioco delle bocce a due giovanissimi. (Ti-Press)
ce». Sorride, la fierezza di chi conosce qualcosa che molti hanno dimenticato. Da oltre un ventennio insegna ai più giovani. La bacheca del circolo custodisce come un altarino le foto degli allievi. «Ci sono dei ragazzi bravissimi che oggi battono i nostri veterani. Li ho conosciuti che erano bambini: ora sono appena tornati dai mondiali in Argentina e presto andranno in Germania». Non resta che questo: investire nei giovani. Sono sei le scuole di bocce attive nel Cantone, da Cavergno a Castione, da Lugano a Riva San Vitale e Rancate. Ci si allena il mercoledì pomeriggio, dopo la scuola. Spiega Knecht: «Si parte dai 10 anni, si comincia con dei giochi sul campo per imparare i movimenti. Poi però a continuare sono pochi. Pochi ma buoni: oggi abbiamo diciottenni molto forti». In alcune scuole del Canton Neuchâtel le bocce sono state inserite nel programma sportivo, due volte al mese si va al bocciodromo. E così anche proprio fuori confine, a Cernobbio: l’anno scorso le lezioni di ginnastica di
un gruppo di ragazzi di prima media sono state sostituite per qualche mese da un corso di bocce, con tanto di torneo finale. L’esperimento è stato «un successo», ed è stato allargato anche a giovani con difficoltà psichiche. Una partita a bocce, attività dall’alto valore propedeutico e sociale. E da noi? «Anche a Chiasso qualche tempo fa abbiamo proposto una tre giorni nelle scuole elementari», spiega Arturo Marinoni. «Due classi di seconda, due di terza e una di quinta. A livello sportivo… un disastro, non ne azzeccavano una. Ma l’entusiasmo era alle stelle». Un caso isolato, più unico che raro però. A differenza dei nostri vicini, in Ticino le scuole rimangono un territorio inesplorato. «Abbiamo provato molte volte a entrare nelle scuole. Senza successo. Da noi è quasi impossibile» lamenta Knecht. Eppure nel nostro cantone l’attenzione per la tradizione non manca. L’anno scorso, per esempio, alcuni granconsiglieri hanno proposto di introdurre l’insegnamento facoltativo del dialetto nelle scuole elementari e
medie. Per far conoscere ai più piccoli la storia del territorio, un giorno forse qualcuno proporrà le bocce. Del resto questo gioco che è insieme arte e sport ha avuto nella Svizzera italiana uno dei suoi centri di eccellenza a livello mondiale. Basta citare un nome: Brenno Poletti di Ascona, classe 1927. Nel 1985, davanti agli 8mila spettatori del PalaLido di Milano, riuscì a battere in casa i fortissimi campioni della Nazionale azzurra e conquistare il titolo di campione del mondo. Fino a qualche mese fa il futuro si chiamava Olimpiadi. La speranza era che le bocce entrassero sul palcoscenico olimpico trovando spazio nel programma di Parigi 2024. Non è accaduto, le bocce sono state spazzate via dalla break dance e dal surf. «Le Olimpiadi sarebbero state un’ottima occasione per promuovere il gioco in Ticino, creare più interesse tra i giovani e rilanciare le bocce. Purtroppo dobbiamo ancora aspettare», dice Knecht. Queste lisce sfere colorate: dopo il passato glorioso, oggi rotolano verso un futuro fumoso.
Il detective Pikachu in azione Anteprima e concorso Arriva nei cinema ticinesi dal 9 maggio
la prima avventura cinematografica dei Pokémon. In palio splendidi gadget per i nostri lettori
© 2019 Legendary and Warner Bros. Entertainment Inc. All Rights Reserved. © 2019 Pokémon
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Era proprio l’ultimo tassello che mancava: dopo essere passati dalle carte da gioco alle serie di telefilm e ai film a disegni animati e, infine, alla realtà aumentata di Pokémon Go, uno dei videogiochi più celebri di sempre, ecco che Pikachu e compagni compiono un vero salto di qualità e diventano star del grande schermo. Nel
loro primo, vero film, i poliedrici animaletti del mondo creato da Satoshi Tajiri dovranno coalizzarsi per aiutare il personaggio che è ormai riconosciuto come la mascotte ufficiale della serie, il giallo Pikachu. Quest’ultimo, dopo essere apparso nel mondo degli umani strige amicizia con il giovane Tim Goodman.
Gadget in palio In occasione della presentazione nei cinema ticinesi a partire dal 9 maggio (anche in 3D) di Pokémon – Detecti-
ve Pikachu Migros Ticino e Warner Bros. Pictures mettono in palio una serie di gadget speciali, tra cui uno zainetto Pikachu. Per partecipare all’estrazione dei premi basta inviare una email all’indirizzo giochi@azione.ch, con oggetto «Detective Pikachu», nome, cognome e domicilio entro le ore 24 .00 di mercoledì 1. maggio 2019. La partecipazione al concorso è riservata a chi non si è aggiudicato premi in occasione di analoghe promozioni nelle scorse settimane. Buona fortuna! Trailer: warnerbros.it/detective-pikachu #detectivepikachufilm
Tim è il figlio di un famoso detective, Harry Goodman, il quale per misteriosi motivi scompare improvvisamente da casa, costringendo il figlio ad iniziare una affannosa ricerca per ritrovare il padre. In questo difficile compito sarà assecondato quindi da un aiutante del tutto inusuale, il Detective Pikachu, con il quale affronterà una serie di avventure altrettanto inusuali. Così, come in una partita vera e propria di Pokémon, entreranno in scena vari tipi di mostri e di entità spaventose (vale la pena di ricordare che la parola stessa Pokémon è una contrazione dell’espressione inglese Pocket Monster, cioè «mostri tascabili») che dovranno essere di volta in volta neutralizzate. L’amicizia tra Tim e Pikachu sarà naturalmente il filo conduttore di questa pellicola, la regia della quale è stata affidata a Rob Letterman, che ha diretto in passato animazioni celebri come Piccoli brividi e Mostri contro alieni. E la caratteristica principale della pellicola saranno senza dubbio gli incredibili effetti speciali che ricostruiranno Ryme City, moderna e disordinata metropoli dove umani e Pokémon vivono fianco a fianco in un iperrealistico mondo live-action.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 29 aprile 2019 • N. 18
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Società e Territorio
Una terrazza sul triassico
Escursioni Lungo il sentiero geo-paleontologico del Monte San Giorgio una nuova struttura apre il panorama
sull’ultimo atto della storia dei fossili della montagna patrimonio Unesco
Rudolf Stockar A Meride lascio il Museo dei fossili del Monte San Giorgio incamminandomi verso occidente, prima attraverso il nucleo, poi lungo la strada ai piedi della collina dominata dalla Chiesa di San Silvestro. È metà mattina, il sole ha iniziato da qualche tempo a scaldare i costoni dolomitici che, di fronte a me, montano al Poncione d’Arzo. In cinque minuti raggiungo la strada per Serpiano, svoltando poi in quella direzione. Pochi passi, il ponte e l’Oratorio di Visacco. Il piccolo tempio neoclassico oggi sembra lì a materializzare una data fondamentale per l’intera montagna. Risale, infatti, al 1863, anno in cui fu aperto il primo scavo paleontologico sul Monte San Giorgio, tre chilometri più a ovest, in Italia. L’artefice di quest’ultimo fu proprio un religioso, l’abate Antonio Stoppani. Altri cento metri ed ecco il sentiero che scende al Torrente Gaggiolo. Qui, il 13 aprile, la Fondazione del Monte San Giorgio, con il supporto del paleontologo Heinz Furrer e la collaborazione del Museo cantonale di storia naturale, ha inaugurato una terrazza panoramica che insieme arricchisce il percorso geopaleontologico e completa l’offerta del Museo dei fossili. Per il museo è un’aula nel bosco, rendendo così giustizia all’etimo di questa parola: luogo aperto, arioso. Poggiata su un terrapieno in tronchi incrociati, la struttura si apre a balconata sulla Val Mara. La «valle amara,
La nuova terrazza panoramica della Val Mara. (Nikolina Zulliger)
aspra, con un fianco esposto all’impeto del Gaggiolo e solo pochi balzi erbosi propizi al coltivo di vite, amarene e susine», come ci ricorda Giulio Cattaneo, custode della toponomastica di Meride. Ma la terrazza apre soprattutto lo sguardo sull’impressionante parete rocciosa che, sulla sponda opposta, si erge per oltre una ventina di metri. Strati di calcare dolcemente inclinati a sud rispecchiano oggi il verso della corrente, anche se, in realtà, è il flusso del tempo ad averli plasmati. Appartengono alla parte superiore del Calcare di Meride, la formazione che compone il pendio meridionale del Monte San Giorgio e dal 2003 è iscritta nel Patrimonio Unesco.
Nella sua tesi di dottorato del 1924, Alfred Senn battezzò quegli strati col nome di Kalkschieferzone, «zona degli scisti calcarei», poiché spesso particolarmente sottili, quasi fossero fragili fogli. Senn, tuttavia, non vi trovò alcuna di quelle «foto di famiglia» che oggi sappiamo così ben illustrare le pagine del Monte San Giorgio: i fossili. I primi fossili della Kalkschieferzone vennero infatti alla luce solo nel 1936 e grazie ad Albert Wirz, studente del paleontologo Bernhard Peyer, nel 1945 il toponimo Val Mara entrò di diritto nella letteratura paleontologica. Gli scavi eseguiti negli ultimi trent’anni, prima dalle Università di Milano e Zurigo e poi dal Museo can-
tonale di storia naturale, hanno ricostruito il quadro ambientale espresso da questa pila di rocce che in Val Mara raggiunge uno spessore di 120 m. Un solo rettile marino, Lariosaurus valceresii, e un grosso pesce predatore del genere Saurichthys si dividevano il vertice di una catena alimentare composta da una dozzina di specie di pesci ossei, generalmente di piccole dimensioni, e da crostacei. Alcuni pesci sono noti esclusivamente da questa località e nomi come Sangiorgioichthys valmarensis appaiono a tale proposito evocativi; per la prima volta nella storia del Monte San Giorgio compaiono anche alcune forme di acqua dolce, lo stesso ambiente tipico di parte dei crostacei. Fram-
menti di antiche conifere parlano di una vicina terraferma, attestata anche dagli eccezionali ritrovamenti di insetti, alcuni addirittura fitofagi. Una laguna, periodicamente sommersa dalle piene dei fiumi, stava progressivamente rubando la scena al mare tropicale che per tre milioni di anni aveva dominato la regione. Attraverso puntatori fissati al parapetto della terrazza lo sguardo abbraccia due finestre temporali di questo che rappresenta l’ultimo atto della storia del mare triassico del Monte San Giorgio: due serie di strati separati da circa 60’000 anni di età. Tra essi, uno spessore di due metri composto di ceneri vulcaniche racconta di periodiche eruzioni, con polveri che oscurarono a lungo il cielo prima di finire sepolte nel fondale marino. Un evento certo drammatico ma le cui conseguenze sarebbero analoghe a ritrovare uno di quei vertebrati con l’orologio al polso, fermatosi in quel preciso istante. Le ceneri contengono, infatti, minuscoli minerali cristallizzatisi durante l’eruzione. La loro recente datazione radiometrica ci dice che tutto ciò avveniva 239,51 milioni di anni fa. Frattanto, sul parapetto, due calchi di bronzo consentono di toccare con mano i resti fossili di un rettile e di un pesce. Dietro le spalle, quattro pannelli ben illustrati raccontano le tappe di questa storia, trasformando così la sosta nel bosco in una consapevole immersione nelle acque del tempo. Annuncio pubblicitario
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Società e Territorio
I ponti di Jürg Conzett Mostre Il Teatro dell’Architettura di Mendrisio esplora le opere del progettista grigionese al confine tra ingegneria
e architettura: un’occasione per riflettere sulla cultura della costruzione
Alberto Caruso L’ingegnere civile è considerato dal grande pubblico un mestiere molto tecnico, per specialisti che custodiscono conoscenze difficilmente accessibili dagli altri attori della costruzione. In realtà, fino alla fine del XVIII secolo le tre virtù vitruviane (venustas, firmitas e utilitas) che formano la cultura della costruzione erano tutte esercitate dall’architetto. All’inizio del XIX secolo la firmitas fu separata dalla cultura architettonica, e il cultore della solidità statica dei fabbricati diventò l’ingegnere, relegando spesso l’architetto ad un ruolo puramente «estetico». La modernità e l’evoluzione tecnica hanno poi aperto le relazioni tra le discipline a nuovi orizzonti culturali, creando le condizioni che hanno portato all’attuale consapevolezza del concetto di Baukultur, di un insieme di conoscenze sia teoriche che operative, possedute trasversalmente dalle diverse figure professionali che partecipano al progetto. È chiaro che oggi non è possibile riproporre la formazione di un’unica figura che interpreti, come nell’antichità, l’intera cultura della costruzione, ma è altrettanto chiaro che le rigide distinzioni disciplinari – ancora diffuse sia nella più vasta opinione pubblica che tra gli addetti ai lavori – appaiono sempre di più come un retaggio del passato.
La mostra Landscape and Structures solleva la questione della necessità della manutenzione e del restauro del paesaggio La mostra Landscape and Structures, inaugurata il 12 aprile al Teatro dell’Architettura di Mendrisio, è un contributo importante alla crisi dei confini disciplinari. L’ingegnere grigionese Jürg Conzett è un grande progettista di infrastrutture di ponti, passerelle, percorsi, strade e muri di contenimento, cioè di quelle infrastrutture di collegamento che consentono di fruire del paesaggio, contribuendo in modo
decisivo a determinarne la forma. Non vogliamo qui raccontare il contenuto della mostra, che invitiamo i lettori a visitare fino al 7 luglio, ma soltanto suggerire alcuni temi di riflessione che la mostra suscita. Le grandi immagini fotografiche di Martin Linsi e i ventidue modelli di legno costruiti da Lydia Conzett-Gehring rendono questa mostra attrattiva non solo per gli addetti ai lavori, ma per tutti gli interessati al grande tema del paesaggio e della sua tutela e valorizzazione. Conzett ha ordinato le immagini, i testi e i modelli non solo dei progetti realizzati dal suo studio di Coira ma anche di molte altre opere di ingegneri elvetici che sono state importanti nella sua formazione. Un «inventario personale» che consente al visitatore – anche a quello digiuno di conoscenze tecniche – di apprezzare le diverse relazioni stabilite dai più bravi e noti progettisti (da Robert Maillart a Alexandre Sarrasin, da Christian Menn a Rino Tami) con i paesaggi più diversi delle montagne e delle valli del territorio svizzero. Ordinata non cronologicamente ma per corrispondenze tematiche, con un allestimento elementare ed efficace, la mostra solleva innanzitutto la questione della necessità della manutenzione e del restauro del paesaggio. È un concetto nuovo, che estende i criteri della «cura» dedicata al mantenimento in efficienza del manufatto infrastrutturale all’insieme del territorio servito dallo stesso manufatto. Conzett si è dedicato agli interventi di tutela dei ponti storici della Rätische Bahn e allo studio dei modi di restauro e rinnovo dei muri di pietra e di cemento che caratterizzano la costruzione delle strade cantonali grigionesi. La medesima attenzione culturale l’ha adottata nella progettazione del nuovo, pensando alle infrastrutture non solo e non tanto come mezzi utili di collegamento, ma come strumenti di trasformazione del territorio, valutando l’esito sul paesaggio della scelta dei concetti statici, dell’adozione dei materiali, delle misure, delle modalità insediative di ogni manufatto. Dalle ardite passerelle lungo i sentieri della Via Mala al ponte sul Reno di Vals, che risolve la relazio-
Ponte di Suransuns, Viamala, 1999, Conzett Bronzini Partner AG. (© Martin Linsi)
ne urbana tra la piazza del villaggio e la strada di accesso, Conzett dimostra con le sue opere che i grandi ingegneri sono anche dei grandi architetti. Esaminando queste Kunstbauten, queste straordinarie opere di ingegno – e leggendo i testi che illustrano i concetti progettuali – è difficile e inutile, infatti, definirle opere di «ingegneria» e distinguerle da quelle di «architettura». Qui la cultura della costruzione è una. Complessa e composta di tante diverse conoscenze, questa cultura è quella necessaria per il nostro territorio – quello dei fondovalle ticinesi – che è certamente povero di cure. In generale, gli architetti progettano case ed edifici pubblici servendosi degli ingegneri specialisti in statica, in fisica della costruzione, in concetti climatici, intrattenendo con loro un rapporto «ancillare», di servizio. D’altra parte in generale gli ingegneri, quando progettano un ponte, o comunque un manufatto nel quale le questioni statiche sono considerate prevalenti rispetto a quelle spaziali, si servono di archi-
tetti come «consulenti». Si continua a riprodurre la separazione e la vicendevole sudditanza tra conoscenze, che dovrebbero invece concorrere dialogando alla costruzione dei concetti progettuali, per stabilire una relazione positiva e consapevole con il contesto territoriale o urbano. Eppure in Ticino la cultura della costruzione ha radici profonde, e maestri come Livio Vacchini hanno insegnato che la forma architettonica di un manufatto e la sua struttura portante non possono essere concepite separatamente. La SIA, cioè la Società Ingegneri e Architetti svizzeri, è in Europa l’unica associazione professionale che riunisce architetti e ingegneri, ma, al di là delle dichiarazioni di principio, tratta spesso anch’essa le questioni interessanti le due categorie in modo separato nei gruppi professionali, negli eventi di confronto e di ricerca, nelle pubblicazioni. La questione è complessa e su di essa pesano convinzioni e atteggiamenti consolidati, ma siamo con-
vinti che si tratti di uno degli ostacoli culturali che è necessario rimuovere per rendere più efficaci gli interventi di cura del territorio. L’Accademia di Architettura di Mendrisio, che ha promosso questa mostra importante, dovrà affrontare il tema nei prossimi anni. La costruzione della nuova sede della SUPSI davanti alla stazione di Mendrisio, che ospiterà il Dipartimento ambiente costruzioni e design con i corsi in architettura, ingegneria civile e conservazione e restauro, impone all’Accademia una riflessione e una messa a punto della figura dei suoi diplomati. Una riflessione che certamente escluda forme di competizione tra le scuole e le figure, e che promuova invece un dialogo e un confronto culturale aperto tra le discipline. Bisogna cogliere la storica opportunità di organizzare un’offerta complessiva di formazione che copra le diverse articolazioni della cultura della costruzione. Un’offerta capace di stabilire un rapporto positivo tra la scuola e il territorio ticinese. Annuncio pubblicitario
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Società e Territorio Rubriche
Lo specchio dei tempi di Franco Zambelloni Mi faccia la cortesia… La mia generazione – che appartiene a un millennio ormai scomparso – veniva educata ad acquisire comportamenti corretti secondo i codici della «buona creanza». Da ragazzi scoprivamo, così, che la varietà dei luoghi comportava una corrispondente e adeguata varietà di comportamenti: quando sei in pubblico non sbadigli con la bocca spalancata, ma ti copri la bocca con la mano; a tavola stai seduto in modo composto; quando entri in chiesa ti fai il segno della croce; a scuola stai zitto e ascolti la maestra, anche se ti annoi… Di questi codici di comportamento, mi pare, è rimasto poco o nulla. Si potrebbe pensare che, in fondo, si può benissimo fare a meno di quei rituali superflui, che in parte erano anche determinati da gerarchie sociali che oggi non esistono più: ad esempio, era regola che il giovane salutasse per primo l’anziano, l’uomo la donna, l’allievo il maestro;
quest’ordine di precedenza costituiva un segno di rispetto o una sorta di devozione nei confronti dell’altro. Ma, appunto, questo nostro tempo, a furia di battersi per l’eguaglianza, ha portato al trionfo dell’egualitarismo – cioè, al rifiuto di ogni differenza. Questo percorso ha prodotto indubbi vantaggi, come la parità dei diritti fra uomo e donna; ma induce anche alla disattenzione nei confronti dell’altro e all’indifferenza verso una comunità sempre più anonima. Se, un tempo, in una carrozza ferroviaria un giovane seduto vedeva un anziano in piedi, si alzava per cedergli il posto, e così un uomo nei confronti di una donna. Le persone di una certa età si comportano ancora così, in base ai codici acquisiti nell’infanzia; ma i giovani, mi pare, non hanno più questa sensibilità verso l’altro. È la cortesia che va scomparendo nelle nuove generazioni. Eppure i rapporti sociali si intreccia-
no e si rafforzano proprio grazie alla cortesia. C’è una riflessione di Alain che mi pare illuminante: «L’impazienza di una persona e il suo malumore derivano qualche volta dal fatto di essere rimasta in piedi troppo a lungo; non cercate allora di discutere il suo umore, offritele una sedia». Recentemente è apparso in traduzione italiana un libro di Danny Wallace, un attore comico che applica l’ironia e l’umorismo anche per castigare il malcostume dilagante: il titolo del libro è La legge del cafone. È un libro divertente, ma tutt’altro che superficiale: documenta come i cafoni siano sempre più al potere, e come la volgarità e l’insulto siano sempre più ammirati (talvolta anche in politica) perché la gente scambia la maleducazione per autenticità e apprezza chi «parla chiaro». Ma, al tempo stesso, il libro rileva come l’aggressività verbale o la semplice scortesia possano incidere negati-
vamente sull’umore e produrre uno stress che può causare gravi errori o anche disastri: un commento sgarbato influisce sul cervello, annebbia la capacità di giudizio, rende meno efficienti sul lavoro. Molti errori chirurgici, ad esempio, secondo uno studio della John Hopkins University, accadono quando il medico ha subito attacchi verbali dai parenti dei pazienti; e la stessa cosa vale per i piloti dei bus o degli aerei e, si può ipotizzare, per qualsiasi attività. Un comportamento cortese e corretto non è dunque solo una questione di forma: gettare cartacce per strada, urlare in pubblico a squarciagola, spintonare chi passa sono comportamenti non solo fastidiosi, ma anche dannosi, perché portano a un sempre più diffuso rilassamento del costume, alla perversa convinzione che «Tutto è permesso». L’individualismo egocentrico che tende a prevalere indebolisce il senso di appartenenza alla comunità, rende
fastidiosa la frequentazione degli altri, esaspera la prepotenza. Non si tratta, dunque, di recuperare la cortesia dei tempi passati, ma di coltivare l’autentico rispetto dell’altro: un rispetto del quale oggi si parla tanto, ma soprattutto perché alla morale si è sostituita la retorica. La cortesia non è un rituale superfluo, ma la condizione per vivere meglio: l’uomo non può vivere da solo perché, come diceva Aristotele, è «un animale sociale»; ma per essere tale dev’essere anche socievole. Naturalmente, però, anche con la cortesia non bisogna esagerare, altrimenti si cade in un’affettazione che può essere la maschera di una sostanziale ipocrisia: il criterio del «giusto mezzo» è pur sempre valido, anche se risale ad Aristotele. Se, per strada, si avvicina un uomo che chiede: «Per favore, mi può dare una mano?», sarebbe esagerato rispondergli: «Quale vuole? La destra o la sinistra?».
un giallo con il commissario Maigret. Dall’altra parte del sentiero c’è una balma dalla quale esce un ruscello sotterraneo: è lì dentro che andava a fare il bagno la dama bianca. In un’altra leggenda ancora, al posto di questa cupa figura che spesso appare nelle notti di luna piena sulle torri dei castelli diroccati europei, c’è la fata Arie. Una sua parente, pare, ricorrente in diverse leggende dell’Ajoie e della Franca Contea – derivata forse dalle druidesse celtiche che officiavano riti e sacrifici a piedi nudi e in abiti bianchi – che qui, prima di bagnarsi nella fonte di eterna giovinezza, posa su un sasso il suo scintillante diadema e si trasforma in viverna. Bestia fantastica del meraviglioso romando, raffigurata come serpentone alato con un occhio solo in forma di prezioso carbonchio, solita fare un bel bagno primaverile appena uscita dal letargo. M’inoltro nel bosco salendo verso la torre. Il sottobosco è una marea di colombine bianche e violetto. La particolarità
della Corydalis cava è quella di presentare, nella stessa popolazione, fiori di due colori diversi. Incontro altre entrate di grotte, quasi tutte bloccate da accumuli di detriti. Nessun indizio dell’entrata turistica delle grotte chiuse a causa delle inondazioni del fiume carsico chiamato Milandrine. Biancastra come il calcare della regione, ben visibile nello sperone roccioso dove sorge, si eleva per una ventina di metri, un pomeriggio a fine aprile, la torre di Milandre (449 m). Unico resto rimasto del castello costruito verso il 1270 per i conti di Montbéliard e distrutto, nel 1674, dalle truppe del maresciallo Turenne. In realtà però era già qui qualche secolo prima, visto che si tratta, dicono, di un dongione di epoca romana caduto in rovina negli anni ottanta. La torre quadrangolare, di proprietà di Alfred Burrus, agricoltore della fattoria vicina e parente di Martin Burrus – contadino alsaziano fondatore della manifattura di tabacco all’origine dell’impero
del fumo – viene ceduta al comune di Boncourt e restaurata nel 1988. Una vertiginosa scala a chiocciola di metallo porta in cima, dove tre tristi bandiere sventolano a stento. Dietro si distendono i campi con qualche albero da frutta in fiore. Laggiù nella vallata dell’Allaine, alle spalle della chiesa, c’è la fabbrica delle Parisienne. Nell’aria c’è promessa di pioggia. Da qui, per amore, si è gettata la contessa Ariette di Montbéliard che alcuni sostengono sia la dama bianca locale, in attesa, da secoli, di qualcuno che riesca a salvarla dalla sua dannazione. Secondo il curato Arthur Daucourt (18491926), grande raccoglitore di leggende giurassiane, «per vederla tutti i cento anni, bisogna trovarsi il primo giorno di maggio, verso sera, all’entrata della balma». Sono quasi tentato di ritornarci, osando questa bislacca ricorrenza. Si potrebbe poi combinare con una cena al Lion d’Or di Cornol la cui specialità, da un secolo, è la famosa carpa fritta.
sua architettura e la grande sfera che domina lo spazio visivo interno, la biblioteca dell’Università della tecnologia di Cottbus in Germania resa nota dalla sua struttura – una torre ondulata in vetro ricoperta da una cascata di lettere e la scala a chiocciola interna verde e fucsia. Dice bene Mogens Vestergaard, manager della biblioteca Roskilde in Danimarca, quando afferma che le biblioteche oggi non sono più definite dal numero di volumi che hanno nei loro scaffali ma dal fatto di essere dei luoghi di incontro, di scambio e di relazione per chi le vive. Proprio come in passato sono sempre state capaci di allinearsi con i tempi e le nuove richieste, oggi le biblioteche devono essere all’avanguardia per quanto riguarda l’uso di tecnologie e gli usi di culture diverse. Le biblioteche di ultima generazione sono dunque moderne ma anche inclusive e
accessibili a tutti, una sorta di piazza pubblica nella quale la società si incontra. Un ultimo esempio in questo senso è Oodi la nuova biblioteca di Helsinki. Inaugurata il 5 dicembre 2018 si propone di essere un luogo che promuove il sapere e lo studio, l’attivismo civico, la democrazia e la libertà di espressione. Tutto questo abbracciando le nuove tecnologie e, naturalmente, offrendo un vasto catalogo di libri. Non stupitevi, dunque, se tra gli scaffali vedrete girare Tatu, Patu e Veera, i tre piccoli robot, tre co-worker mobili che prendono il nome da tra personaggi di un libro per bambini della letteratura finnica. Diceva Cicerone «se accanto alla biblioteca avrai un orto nulla ti manca». Chissà se l’onda verde di Greta Thunberg porterà in biblioteca anche gli orti urbani ideali per fare una pausa tra un libro, uno scambio di idee e un caffè.
A due passi di Oliver Scharpf La torre di Milandre a Boncourt Ogni cento anni, in cima a una torre medievale a Boncourt, appare la dama bianca. Bellissima in eterno perché le notti di plenilunio, per ringiovanire, s’immerge nei bacini d’acqua cristallina in fondo alle grotte ai piedi della torre. Le grotte di Milandre, inaugurate al pubblico il ventotto aprile 1889, una volta erano una grande attrazione. Oggi, chiuse da quasi quarant’anni, non le conosce quasi più nessuno, a parte qualche speleologo della domenica. Mentre dal 1887, in questo paesino sperduto del Giura a un passo dalla Francia, si continua imperterriti a produrre le Parisienne. Epocale marca di sigarette la cui popolarità tocca forse l’apice negli anni novanta, quando caratterizzavano molto gli studenti universitari o i militari e viene girato uno spot pubblicitario da Godard. E che fumavo anch’io, per un periodo, una vita fa. Ora in mani olandesi, hanno fatto la fortuna della famiglia Burrus che assieme a Bürhle e Boveri, a metà del secolo scorso, formavano
le «3 B», gli industriali più ricchi della Svizzera. Un’altra leggenda racconta che il tesoro nascosto in fondo alle grotte, difeso da un drago con la chiave del forziere in bocca, viene sparpagliato nell’erba, al chiaro di luna, una volta per secolo. Bisogna solo conoscere il giorno e l’ora. Alle due e trentasei arrivo a Boncourt dove avvisto quasi subito, lassù nel bosco, la torre di Milandre. Poco lontano, le fa compagnia il silo di una fattoria. Il giallo intenso della Caltha palustris rallegra gli argini erbosi dell’Allaine che a partire da Porrentruy, accompagna il viaggiatore in treno bagnando sinuoso tutti i paesini sul percorso. Immediata è la corrispondenza con il colore del pacchetto morbido delle Parisienne mild dei miei tempi. Senza avvertenze di morte e fregiato del logo, oggi scomparso, dei due leoni simmetrici con lingue di fuoco a fianco del monogramma di François-Joseph Burrus (1805-1879). Rimarchevole l’antico lavatoio-chalet nei pressi della chiusa che mi ricorda
La società connessa di Natascha Fioretti Una nuova era per i libri e per i lettori «All’inizio del XX secolo il filosofo Ludwig Wittgenstein scrisse: “L’etica e l’estetica sono una cosa sola”. Io ho sempre considerato etica ed estetica come due facce della stessa medaglia. La bellezza non è bella senza il buono, e a sua volta il buono ha bisogno del bello per trasmettere il suo messaggio». Leggo questa citazione in un angolo a pagina undici su Robinson, l’inserto del sabato di «Repubblica». L’occhio, in fondo alla pagina, non mi cade tanto per la citazione quanto per l’immagine: una foto quadrata che ritrae un piccolo tagliere di legno rettangolare con una pagnotta di pane affettata, accanto una tazzina di caffè del secolo scorso, un vasetto di vetro con della marmellata di arance, un simpatico e discreto contenitore in metallo con del burro e, al centro, la copertina di un libro con sopra appoggiato il cucchiaino da caffè. Il tutto su una tovaglia a sfondo bianco
con una trama di piccoli rombi dorati. Titolo del libro: Il pane è oro. Che cosa bizzarra, penserete. Per farvi un’idea potete andare sul sito di Petunia Ollister petuniaollister.tumblr.com e deliziarvi con immagini e citazioni che corrono con l’hashtag #bookbreakfast. Non sono recensioni le sue, tiene a precisare, ma la voglia di condividere con altri la sua passione per i libri e per le belle copertine, quelle originali e curate nei minimi dettagli perché l’apparenza, anche nei libri, conta. E a proposito di volumi e di citazioni, ve ne propongo una seconda, questa volta di Doris Lessing: «Studiare è questo. Improvvisamente si comprende qualcosa che si era capita da tutta una vita, ma da un nuovo punto di vista». Sono parole che campeggiano luminose su una parete della Sir Duncan Rice Library, la biblioteca dell’Università di Aberdeen in Scozia. È un enorme
cubo di vetro che ricorda il profilo di un libro e gioca con l’idea del ghiaccio e l’intensità della luce nordica. All’interno la biblioteca è caratterizzata da un’architettura ultra moderna lontana anni luce dalle classiche e sontuose biblioteche del passato con scaffali di legno pregiati. Nell’epoca degli smartphone e di wikipedia si è fatta largo una nuova idea, un nuovo concetto di biblioteca che senz’altro mette al centro i libri ma offre molto di più e, soprattutto, gioca con progetti architettonici arditi e funzionali. La biblioteca di Aberdeen, insomma, non rappresenta un’eccezione ma uno dei tanti esempi di una nuova concezione dei luoghi del sapere e della condivisione. Basti pensare alla biblioteca dell’Università Tama Art di Tokyo soprannominata dal suo direttore «la biblioteca dei sogni», la biblioteca Tianjin in Cina – forse la più strabiliante al mondo per la
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 29 aprile 2019 • N. 18
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Ambiente e Benessere Distinguersi dalla massa? Viaggiare in solitaria significa trovare luoghi dei quali non parla nessuna guida turistica
Verdure e spezie indiane Un piatto insolito con polpette di pesce tandoori su letto di barba di frate pagina 14
L’orso bruno europeo In Slovenia, la sua sopravvivenza è stata seriamente minacciata in passato, ma la specie non si è mai del tutto estinta, come invece è accaduto in altri paesi europei
Lortobio approda a Gudo «Giardinieri in erba» progetto didattico sostenuto da Migros Ticino prende il via il 4 maggio
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La prevenzione nel cuore
Progetto Cuorema La chiave per il controllo
delle malattie cardio-vascolari
Maria Grazia Buletti «A maggio dello scorso anno abbiamo offerto alla popolazione la possibilità di sottoporsi a uno screening completo del sistema cardiovascolare: due giornate che hanno segnato l’inizio di un percorso di cura e riabilitazione: il Progetto Cuorema di cui oggi possiamo trarre le prime considerazioni». La dottoressa Tania Odello ci riceve all’Ospedale Malcantonese di Castelrotto dove nella funzione di specialista in Cardiologia sta portando avanti il progetto di prevenzione alle malattie cardiovascolari, patrocinato dalla Fondazione Svizzera di Cardiologia e dalla Lega Polmonare Ticinese. «Nell’ambito dello screening, nel nostro nuovo ambulatorio di cardiologia, eseguiamo una visita cardiologica con elettrocardiogramma, ECG sec. Holter delle 24 ore, test da sforzo ed ecocardiogramma: preludio a un eventuale percorso di medicina preventiva mirato alla lotta delle malattie cardiovascolari e polmonari». Un’iniziativa che va vieppiù espandendosi, in parallelo alla sensibilizzazione della popolazione sui pericoli di queste patologie riguardanti cuore e vasi sanguigni: «Sono quelle con il più alto rischio di mortalità e non solo, perché sono altamente invalidanti nella quotidianità della vita sociale e professionale». L’importanza di richiamare l’attenzione delle persone su questo importante tema è confermata dai numeri, perché ci viene spiegato che ci troviamo dinanzi a un aumento delle patologie cardiopolmonari, senza dimenticare che una grande percentuale di esse è riconducibile a un gruppo circoscritto di fattori rischio imputabili a uno stile di vita non consono. Ce lo conferma la nostra interlocutrice: «Abbiamo osservato che, al giorno d’oggi, le patologie cardiovascolari colpiscono maggiormente la popolazione giovane. Questo a causa dell’igiene di vita che, rispetto a un tempo, va deteriorandosi: si vive molto peggio, si mangia peggio, spesso è peggiore la qualità del cibo che comporta un maggiore apporto di zuccheri e grassi. Inoltre, avanza la sedentarietà e chi pratica attività fisica lo fa per forza di causa maggiore in luoghi chiusi come le palestre, talvolta sottoponendosi a sforzi non adeguati e anteponendo l’estetica alla salute».
Però qualcosa si può fare per invertire questa pericolosa tendenza e proprio in quest’ambito è nato il Percorso Cuorema: «Si tratta di un percorso di rieducazione e riabilitazione cardiovascolare e ci rivolgiamo a persone con problematiche cardiache già note, come pure a chi desidera conoscere il proprio stato di salute cardiovascolare, ma soprattutto vuole preservarlo». Il concetto di prevenzione è il fulcro attorno al quale ruota tutto il discorso: «Un problema cardiovascolare individuato sul nascere permette di correre ai ripari correggendo ciò che bisogna per riacquisire e mantenere la salute». È dimostrato che proprio nel caso delle patologie cardiovascolari la prevenzione può salvare la vita. Una vita che si è allungata e, per questo, merita una maggiore cura nel tempo: «La speranza di vita oggi è aumentata di molto, ma non è migliorata la qualità per rapporto ai fattori di stress. Quest’ultimo è fra l’altro uno dei fattori di rischio importanti, soprattutto e anche per la donna che spesso sottovaluta i campanelli d’allarme». Importanti anche informazione e sensibilizzazione come spunti di riflessione, in un ambito di interdisciplinarietà della presa in carico di un paziente: «Cardiologo, pneumologo, dietista, fisioterpisti, sono alcune delle figure professionali che saranno coinvolte lungo il percorso di recupero». Al paziente va insegnato in primis uno stile di vita sano, e poi va accompagnato lungo quei piccoli cambiamenti che fanno la differenza: «Una costante e adeguata attività fisica non necessariamente significa andare in palestra tutti i santi giorni, ma imparare a praticare una corretta e adeguata attività in base alle proprie capacità e quadro clinico; molte volte sarebbe sufficiente imparare a camminare con regolarità». La cardiologa aggiunge al movimento un’altra forma rieducativa fondamentale: «Lungo il percorso, si impara ad alimentarsi in modo sano, senza dover rinunciare a tutto». E stigmatizza il fumo: «Ci sono pazienti che per fortuna riescono a smettere di fumare, perché ne comprendono la nocività e apprezzano di essere riusciti ad eliminare uno dei grossi fattori di rischio per lo sviluppo di malattie cardiovascolari». Dopo lo screening, chi segue un
La dottoressa Tania Odello, specialista in cardiologia all’Ospedale Malcantonese di Castelrotto, e la signora Angela Koutantis (davanti). (Vincenzo Cammarata)
percorso riabilitativo e di cura cardiovascolare è accompagnato nell’arco di circa tre mesi nella fase cosiddetta terapica, dopodiché la cardiologa resta in contatto col paziente e due volte al mese si accerta se tutto procede per il meglio: «La responsabilizzazione della persona va sostenuta anche dopo la fase della terapia, aiutandola a mantenere nel tempo i risultati ottenuti a favore della propria salute». Insieme alla specialista, incontriamo la signora Angela Koutantis che ha aderito alla giornata di screening e, in seguito ai risultati, ha seguito un percorso di cura e riabilitativo di cui va fiera, consapevole del fatto che altrimenti sarebbe potuto succedere l’inevitabile, ci racconta. Un percorso terapeutico che implica il «cambiamento della for-
ma mentis» del paziente, come dice la dottoressa Odello: «I cambiamenti indotti dal percorso divengono parte integrante della quotidianità. Questo comporta anche altri benefici perché, ad esempio, permette di togliere l’assunzione di alcuni farmaci assunti in precedenza, eliminando quindi pure i relativi effetti collaterali». Il progetto Cuorema ha ottenuto di recente il riconoscimento della Swiss Working Group for Cardiovascular Prevention Rehabilitation and Sports Cardiology (SPCRS) e guarda al futuro: «Il progetto sarà implementato nell’ambito riabilitativo, i pazienti godranno di un sostegno più completo che comprenderà incontri multidiscipinari, incontri informativi sempre individualizzati. E prenderà il via il
Progetto Cuorema Donna che punterà i riflettori sul mondo femminile per rapporto sempre alle patologie cardiovascolari».
Video intervista Sul canale Youtube di «Azione» e su www.azione.ch la videointervista alla dr.essa Odello e a Koutantis.
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Ambiente e Benessere
Via dalla pazza folla
Il Giappone misterioso
Viaggiatori d’Occidente Come muoversi fuori dalle vie battute
Bussole I nviti a
letture per viaggiare
Claudio Visentin Non si scappa: se sai dove sei, sei un turista. All’inizio, quando siamo ancora inesperti, ci va bene così. L’elenco dei luoghi da visitare ci rassicura e addomestica l’ansia. Ma poi prendiamo confidenza col mondo e sentiamo il bisogno di maggiore libertà. Vogliamo viaggiare fuori dalle vie battute (off the beaten track). Ma cosa significa esattamente? Per molti, viaggiare fuori dalle vie battute significa visitare luoghi dove non ci sono altri turisti. E quindi quest’anno per esempio potreste evitare il popolarissimo Giappone, dove vanno proprio tutti. Ma la stretta applicazione di questo principio può avere conseguenze paradossali: ho incontrato i miei simili nei luoghi più remoti e sono stato invece completamente solo in qualche campo della turisticissima Venezia, soprattutto fuori stagione. Inoltre l’assenza di turisti è la miglior pubblicità per una destinazione e non appena la notizia si diffonde comincia il conto alla rovescia per la fine del mondo. «Viaggiare lontano dalle vie battute significa trovare luoghi dei quali non parla nessuna guida turistica» sostiene per esempio il viaggiatore e regista irlandese Leon McCarron. Peccato che diverse case editrici abbiano pubblicato più di una guida dedicata proprio ai luoghi dei quali, teoricamente, non dovrebbero parlare. Per esempio Lonely Planet quest’anno suggerisce Azerbaijan, El Salvador, Camerun, Gabon o Zimbabwe a chi vuole spingersi «lontano dalle vie battute». Ma se ci andate adesso (tra un anno sarebbe diverso) probabilmente troverete parecchi compagni di viaggio che hanno seguito lo stesso consiglio (peraltro potrebbe anche essere interessante fare amicizia con chi ha gusti simili ai vostri). Anche film famosi come Into The Wild, nel celebrare la ricerca di luoghi inesplorati, finiscono per attirarci sempre più turisti. In alternativa potreste viaggiare in forme meno organizzate, prenotando solo il volo aereo e la prima notte in albergo. Anche così tuttavia potreste scoprire che siete semplicemente su una via un po’ meno battuta. Per esempio da qualche tempo i viaggiatori indipendenti amano percorrere tutto il Vietnam in moto. Avventura pura, chiaro, ma anche così molto è già scritto prima della partenza. Per cominciare, il Paese è stretto e allungato in verticale, quindi la via è tracciata, tra Hanoi a nord e Ho Chi Minh (Saigon) a sud. Tuttavia se acquistate la moto
«Quando avevo sei anni desideravo vivere in un castello. Molti bambini, probabilmente, sognano di abitare in un castello, ma una volta cresciuti il sogno si dimentica. Nel mio caso invece il desiderio mi ha seguito fino all’età adulta…».
Il Giappone probabilmente è, al momento, la meta turistica più gettonata. (pxhere.com)
nel sud sarà poi più facile rivenderla nel più povero nord, quindi di solito si parte da sud. La principale strada costiera poi è pesantemente trafficata da camion e bus; quasi inevitabile scegliere la via all’interno (Ho Chi Minh Trail), oltretutto con una vista spettacolare su montagne, fiumi e villaggi tradizionali. Ma se tutti seguono queste ragionevoli indicazioni, diffuse da infiniti blog, ecco che la prospettiva di incontrare un volto noto in un remoto villaggio vietnamita diventa abbastanza probabile.
Per viaggiare fuori rotta spesso sono necessarie due cose: una larga disponibilità di tempo e particolari informazioni E dove nascono poi tutti questi progetti di viaggi avventurosi nel sud-est asiatico? A Khao San Road, Bangkok, da oltre venticinque anni il punto di ritrovo di tutti i backpacker, reso immortale dal romanzo di Alex Garland The Beach (1996), poi trasposto in un film di successo con Leonardo DiCaprio;
proprio in Khao San Road il protagonista raccoglie i primi indizi dell’esistenza di una spiaggia segreta mentre soggiorna in un hotel tanto sporco quanto economico. Per viaggiare fuori rotta spesso serve una larga disponibilità di tempo e particolari informazioni. Se avete solo una settimana per la Cambogia, quasi inevitabilmente finirete per visitare i templi di Angkor Wat. Con più tempo a disposizione, salendo su un autobus di linea a caso, dopo qualche centinaio di chilometri potreste trovarvi davvero in mezzo al nulla. Ma basta anche solo seguire una strada sterrata: alla fine difficilmente ci troverete un villaggio vacanza… In questi casi qualche precauzione riguardo alla propria sicurezza personale (senza derive paranoiche) è quanto mai opportuna. Così lo scrittore americano Rolf Potts racconta la sua prima esperienza off the beaten track: «Ki Gompa, un monastero storicamente isolato costruito mille anni fa, era a soli quattordici chilometri di distanza, raggiungibile da un sentiero di montagna. Mentre camminavo provavo una lieve fitta di compassione per tutti coloro che andavano a Dharamsala in cerca del Dalai Lama e si arenavano in ostelli e
internet café pieni di viaggiatori venuti da Berkeley, Birmingham e Tel Aviv. Al contrario, io ero convinto che la mia avanzata finale a Ki Gompa avrebbe trasceso una simile banalità da turisti e mi avrebbe condotto nel vero cuore della spiritualità tibetana. A meno di duecento metri di altezza, con queste felici illusioni che ancora mi galleggiavano in testa, da dietro una roccia è sbucato un mastino gigantesco che, digrignando i denti, mi si è avventato contro e mi ha strappato i pantaloni al ginocchio. Spaventato, sono corso giù fino a Kaza, con il sangue che mi colava dentro ai calzini». Pur con tutte queste distinzioni, viaggiare al di fuori delle vie battute resta possibile anche nel mondo globale, se si resta aperti al nuovo e all’inatteso, perché la geografia del turista è piena di territori non cartografati. Tra un luogo famoso e l’altro rimangono enormi spazi vuoti dove è possibile perdersi, lasciarsi sorprendere, condividere la vita quotidiana degli abitanti. E soprattutto chi si muove a piedi, o comunque lentamente, riesce a cogliere passo dopo passo gli impercettibili cambiamenti nel paesaggio, nelle culture, negli accenti e nel cibo: la ragione e la gioia di ogni viaggio.
Il Giappone non è certo fuori dalle vie battute, da quando è tornato prepotentemente in cima alla lista dei desideri dei viaggiatori. Ma è un Paese più di altri difficile da comprendere e per questo è assai opportuna questa riedizione di un fondamentale libro del 1994. L’autore Alex Kerr aveva solo tredici anni quando giunse in Giappone per la prima volta nel 1964. E proprio allora, il Giappone cominciava una decisiva trasformazione: completata la ricostruzione di un Paese devastato dalla Seconda guerra mondiale, i successivi trent’anni avrebbero visto una crescita economica senza precedenti. Ma per qualche tempo fu ancora possibile per un occhio curioso cogliere le tracce di un’antica cultura di straordinaria bellezza ed eleganza. A quel Giappone segreto, Kerr è rimasto legato per sempre. Dopo una laurea a Yale in lingua giapponese, si trasferisce a Kyoto e diventa un orientalista. Alla fine degli anni Settanta acquista un’antica dimora rurale, Chiiori (la casa del flauto), nell’isola di Shikoku, e il percorso di restauro è anche l’occasione per una personale ricerca dell’anima giapponese tradizionale. In questo libro, non a caso scritto in giapponese, Kerr ha raccolto e descritto i diversi volti di una millenaria cultura: il teatro kabuki, l’arte della calligrafia, la cerimonia del tè, i rituali dello shintoismo, i monasteri zen, eccetera. Parlare del passato conduce inevitabilmente a interrogarsi sulla modernità e sulla sua programmata rimozione di ogni resto della passata bellezza. Ma questo non avviene solo in Giappone… / CV Bibliografia
Alex Kerr, La bellezza del Giappone segreto, EDT, 2019, pp. 322, € 15.–.
L’indovinello moderno
Giochi di parole Quando lo stile si rifà ai doppi sensi linguistici
La nonna
Lavora d’ago fino a mezzanotte per aggiustare le mutande rotte. Il testo di questo gioco sembra descrivere l’operato di una solerte vecchina; se lo si rilegge sotto un’altra angolatura, però, si può arrivare a scoprire che, in realtà, allude a: «la bussola». Infat-
un indovinello non viene abbinata a un diagramma numerico (come nella maggior parte degli altri giochi enigmistici). Questo avviene perché la sua soluzione può anche non essere univocamente determinata da una o più parole. Ad esempio, un indovinello che ha come soluzione: «il cibo », può essere risolto anche con: «l’alimento», «il nutrimento», ecc. È evidente che tutte queste potenziali soluzioni, non possono essere in-
dicate da un unico diagramma numerico. Qui di seguito, sono riportati quattro significativi esempi di indovinelli moderni, presi dal repertorio enigmistico (accanto a ciascun titolo, è riportato lo pseudonimo del relativo autore).
c’è da star freschi adesso poiché davvero è buffo ciò che fai!
1. Pelandrone... rinsavito (II Troviero)
3. I direttori di alcuni settimanali (L’Esule)
Gira, rigira e dai, a lavorar di pala ti sei messo;
Soluzione
Mentre i testi degli indovinelli di stampo antico, si basano essenzialmente su una serie di figurazioni metaforiche, quelli di stile più moderno sono prevalentemente costituiti da un abile intreccio di doppi sensi linguistici. Si esamini, ad esempio, il seguente, emblematico indovinello (composto da Il Mancino).
ti, come è noto, la bussola possiede un ago che punta verso il polo Nord (detto anche mezzanotte) ed è in grado di correggere (aggiustare) le rotte delle navi, che mutano durante la traversata (le mutande rotte). È bene sottolineare che tale genere di indovinelli, si presta sempre a una duplice lettura: una più immediata, tesa a far risaltare un fuorviante soggetto apparente, e un’altra più nascosta, relativa al soggetto reale da scoprire. Il titolo, in particolare, assume il preciso compito di favorire un’istintiva, falsa interpretazione dell’enunciato. Di conseguenza, se si desidera risolvere un indovinello, eludendo nel modo più rapido possibile tutti i suoi insidiosi trabocchetti, è buona norma evitare di leggerne il titolo… Abitualmente, la proposizione di
1. Il ventilatore (buffo = soffio di vento). 2. I fantasmi (passeggeri in volo = che si spostano volando; sbiancati = bianchi; spariamo = scompariamo; atterriamo = mettiamo molta paura). 3. I giocatori di freccette (inserzioni = infilzature; articoletti = oggettini; straletti = piccoli strali, freccette). 4. Il francobollo (foratura = dentellatura; gomma posteriore = colla posta sul retro).
Ennio Peres
2. I dirottatori minacciano (Guido)
I passeggeri in volo son sbiancati: «Ci scappa certamente più di un morto! Volete che spariamo? No, e allora atterriamo!».
Mirando sempre a grandi tirature, puntualmente ricercano inserzioni e manovrano certi articoletti, che si rivelan subito straletti. 4. Ciclista sfortunato (Il Valletto)
Allor che cominciò la sua avventura, dal gruppo lo staccò una foratura; poi fu visto cadere, perché aveva la gomma posteriore che non teneva.
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Ambiente e Benessere Migusto La ricetta della settimana
Polpette di pesce tandoori con barba di frate Piatto unico Ingredienti per 4 persone: 2 mazzetti di barba di frate di circa 150 g, nei negozi
migusto.migros.ch/it/ricette Per diventare membro di Migusto non ci sono tasse d’iscrizione. Chiunque può farne parte, a condizione che un membro della sua famiglia possieda una Carta Cumulus.
di specialità · 2 spicchi d’aglio · 350 g di filetti di merluzzo · 2 c di pasta tandoori · 1 uovo · 1 cipolla rossa · 1 mazzetto di prezzemolo · 8 c di pangrattato · 1 c d’amido di mais · ½ cc di sale · 6 c d’olio d’arachidi · 1 c di miele liquido · 180 g di yogurt al naturale.
1. Eliminate le radici della barba di frate e le foglie appassite. Sciacquate l’ortaggio in acqua fredda ed eliminate i resti di terra. Schiacciate l’aglio con un coltello e tritatelo grossolanamente. 2. Sciacquate i filetti di merluzzo e asciugateli tamponandoli con carta da cucina. Tagliate i filetti a pezzettini molto piccoli o tritateli grossolanamente nel tritatutto poco per volta. 3. Mescolate il pesce con la pasta tandoori e l’uovo. Tritate la cipolla e il prezzemolo e incorporateli alla massa insieme con il pangrattato, l’amido e il sale. Impastate bene e con la massa formate all’incirca 12 polpette appiattite di 50 g ciascuna. Scaldate la metà dell’olio in una padella e rosolatevi le polpette a fuoco medio per circa 8 minuti. 4. Contemporaneamente scaldate l’olio rimasto in un altro tegame. Aggiungetevi l’aglio e la barba di frate e rosolate il tutto a fuoco medio per circa 3 minuti. Irrorate con il miele e continuate la cottura per circa 1 minuto. Regolate di sale. Servite le polpette con la barba di frate e gustate accompagnando con lo yogurt. Preparazione: circa 40 minuti. Per persona: circa 23 g di proteine, 18 g di grassi, 22 g di carboidrati, 350
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Ambiente e Benessere
L’orso bruno europeo Reportage In Slovenia, un bosco senza orsi è come un bosco senza abeti
Sabrina Belloni In Slovenia vivono alcune centinaia di orsi bruni europei, nel loro habitat natio: le foreste che ricoprono circa i due terzi del paese e i boschi degli imponenti altipiani carsici, in naturale convivenza con la fauna selvatica, con i pochi abitanti dei radi insediamenti e i loro animali domestici. I boschi sono perfetti nella loro naturalezza, curati con dedizione dai boscaioli laddove necessario. L’habitat è preservato e con basso impatto antropico, e questo in parte spiega la presenza dell’orso, il più grande predatore europeo, e dell’altra fauna selvatica: linci, lupi, allocco degli Urali, poiane, molti rapaci, cicogne e altri uccelli. La sporadicità degli abitati e la vastità degli spazi ha facilitato l’espansione della popolazione degli orsi bruni, i quali molto lentamente si stanno reinsediando in territori dove un tempo erano numerosi. Gli orsi sono animali solitari e molto schivi, diffidenti. Per questa loro caratteristica è estremamente raro vederli in natura, al di fuori delle aree appositamente allestite. Gli orsi, anche se mammiferi, non sono animali gregari e non creano comunità sociali. Le rare occasioni in cui cercano un contatto fra co-specifici si presentano durante l’accoppiamento (in primavera) e nell’infanzia. Soprattutto nei primi mesi di vita, il rapporto con la madre e i fratelli è essenziale per lo sviluppo cognitivo ed emotivo dei cuccioli, e il legame è molto forte: i giochi, le lotte, le coccole e il contatto fisico fanno parte della routine quotidiana di un piccolo e sono indispensabili nel loro percorso di crescita e di conoscenza. Divenuti adulti, maschi e femmine conducono vite totalmente solitarie. Terminata la stagione degli amori, ognuno prosegue singolarmente la propria vita. I maschi si rimettono in cammino, disinteressandosi totalmente delle compagne e dei cuccioli. Le fem-
mine si prenderanno cura della prole, sino ai due anni d’età. Gli orsi normalmente fanno di tutto per evitare le persone poiché le temono; raramente si sono presentate complicazioni laddove sono presenti infrastrutture o attività umane nei territori ri-colonizzati dal plantigrade. La presenza nei boschi di strade, insediamenti, impianti o altre attività umane può modificare il naturale comportamento della specie. Anche un grande animale, che si è evoluto nei millenni sino a diventare un elemento essenziale dell’ecosistema nel quale vive, è intimorito dalla presenza umana e cambia totalmente il suo naturale comportamento sino ad alterare la propria distribuzione territoriale, le abitudini alimentari e la sua vita quotidiana, come l’allevamento dei cuccioli e la ricerca di cibo. In Slovenia, pochi operatori hanno recentemente iniziato un’attività indirizzata a un micro-turismo responsabile, correlata all’osservazione dell’orso bruno selvatico in aree appositamente attrezzate, sotto l’attenta sorveglianza di una guida esperta. Sono stati costruiti alcuni capanni da cui è possibile ammirare e fotografare in tutta sicurezza gli orsi. Questa attività aiuta contemporaneamente l’economia di aree rurali, in cui l’occupazione prevalente è ancora agro/pastorale e boschiva di sussistenza, consentendo altresì che tali luoghi non vengano abbandonati dalla scarsa popolazione, la quale esercita una funzione determinante nella conservazione e nel mantenimento dei boschi. Le guide sono spesso ex cacciatori che hanno seguito corsi di specializzazione organizzati e finanziati da progetti come il Life Dinalp Bear e Natura 2000. Le maggiori possibilità di osservare gli orsi sono nei mesi della tarda primavera-inizio estate, quando gli animali – risvegliatisi dal letargo – sono affamati. Come accade nei neonati nei primi giorni seguenti la nascita, la situazione di carenza alimentare nel periodo
Orso bruno europeo (Ursus arctos) che scala un albero nella foresta di Sneznik, Slovenia; sul sito www.azione.ch si trova una galleria fotografica più ampia. (Franco Banfi)
Orso bruno europeo dominante, o Orso alfa, in cerca di femmina, nella foresta carsica, Notranjska, Slovenia. (Franco Banfi)
Uno dei laghi all’interno della Krizna jama, grotta dove sono stati rinvenuti resti di oltre 100 «orsi della grotta» (Ursus ingressus), Bloška Polica, Slovenia. (Franco Banfi)
Il lago di Circonio, «lago in via di estinzione», è un bacino intermittente riempito principalmente dalle piogge autunnali e dal disgelo primaverile. L’acqua del lago proviene da sorgenti carsiche che si gonfiano sul bordo del lago e defluiscono sottoterra attraverso le doline. Si trova vicino a Cerknica, nella Carniola interna, Slovenia. (Franco Banfi)
immediatamente successivo al risveglio comporta un’ulteriore perdita di peso, allorquando il cibo disponibile è costituito in prevalenza da piante erbacee con scarso potere calorico a causa della non ottimale efficienza di conversione del cibo vegetale in energia. Al contrario, nei mesi estivi e autunnali, l’orso si abbuffa di frutta, semi, radici, insetti e piccoli animali in vista del letargo nei lunghi mesi invernali. Alcune stime indicano che gli esemplari più grandi riescono a ingerire giornalmente sino a 15 kg di cibo e a guadagnare mezzo chilo di peso al giorno, nonostante le energie e i lunghi spostamenti profusi nella ricerca di alimenti. Un orso adulto può percorrere sino a 60 km in un giorno (o una notte). Utilizzando la tracciabilità consentita dai radio-collari e altri tag, c’è evidenza che normalmente gli orsi sono territoriali: ogni esemplare si sposta in un’area specifica e ha una memo-
ria molto sviluppata dei luoghi dove ha trovato cibo in precedenza. Il cambiamento climatico e la presenza di cibo derivante dalle attività umane nelle zone boschive sono i più comuni elementi ai quali tutta la fauna selvatica si sta adattando, e influenzano gli spostamenti, le interazioni sociali, le relazioni preda/predatori. Le variazioni climatiche hanno un impatto sulla presenza degli animali selvatici in luoghi precedentemente mai frequentati, sulla consistenza delle popolazioni, sui comportamenti stagionali come le migrazioni e il letargo. Le condizioni ambientali influenzano ovunque tutti gli organismi, in modo particolare quelli naturalmente presenti in ecosistemi che variano in modo significativo durante le stagioni, laddove i mesi invernali hanno situazioni di vita più estreme rispetto alla stagione estiva. Le attività invernali in specie che vanno in
letargo sono sensibilmente influenzate dalla temperatura e dalle condizioni nevose. Il clima nei mesi invernali condiziona pertanto il comportamento degli orsi, i quali talvolta sono costretti a lunghi e inusuali migrazioni per trovare le situazioni adatte. L’orso bruno è una specie protetta in tutta l’Unione Europa ed è indicato nella Direttiva Europea sugli Habitat (Directive 92/43/EEC) agli allegati II e IV. Tuttavia, è uno status abbastanza recente. In Slovenia, la sopravvivenza dell’orso è stata seriamente minacciata in passato, ma la specie non si è mai del tutto estinta come è accaduto in altri paesi europei. Tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo la popolazione stimata era di circa 40 esemplari. Il primo documento che sanziona la caccia e l’uccisione degli orsi, e pertanto rappresenta una delle prime misure a protezione della specie, è datato 1931. Nell’arco alpino, la presenza dell’orso bruno dinarico è stata documentata sin dagli inizi del Seicento, ma si ipotizza che fosse presente anche negli anni precedenti. A metà del 1900 la specie era talmente limitata da essere considerata estinta nelle Alpi, ad eccezione di un nucleo in provincia di Trento. Nel 1996, grazie al contributo di sovvenzioni europee, è stato avviato il progetto Life Ursus, promosso dal parco naturale Adamello-Brenta, che negli anni successivi ha progressivamente reintrodotto nel territorio una decina di femmine provenienti dai boschi sloveni, le quali hanno lentamente delimitato un proprio territorio e si sono riprodotte con successo. Un censimento del 2010 ha rilevato la presenza di una trentina di esemplari.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 29 aprile 2019 • N. 18
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Ambiente e Benessere
Esperienza nell’orto per le giovani generazioni Lortobio G iardinieri in erba, un progetto didattico sostenuto da Migros Ticino per diffondere alcune conoscenze
sull’orto e l’agricoltura biologica nelle giovani generazioni
Elia Stampanoni Lortobio è un progetto nato nel 2007 sull’idea di «orto biologico collettivo» ed è oggi una bella realtà che ha trovato il suo spazio presso un campo a Gudo. Qui troviamo una lingua di terra coltivata con erbe aromatiche e medicinali, ortaggi, legumi, ma anche fiori e bacche, il tutto completato da un prato magro, alberi da frutta, una pompa per l’acqua, un fienile e una cascina adibita in parte a deposito e in parte a luogo d’incontro.
Il progetto promuove giornate a diretto contatto con la terra e la natura; la prima a Gudo è in calendario per il 5 maggio Attorno a questa struttura inizierà sabato 4 maggio il nuovo progetto «Giardinieri in erba», un’iniziativa promossa da Bioterra e sostenuta da Migros Ticino che vuole coinvolgere i bambini dai 5 ai 10 anni in un’esperienza a diretto contatto con la terra e con la natura. Durante le mattinate (ogni primo sabato del mese da maggio a ottobre) sono previste diverse attività pratiche, a dipendenza della stagione e del tempo, come illustrano Chiara Buletti ed Elena Camponovo, coordinatrici del progetto e, congiuntamente a Pierluigi Zanchi, responsabili di Lortobio: «I bambini potranno per esempio preparare le aiuole, rastrellare, seminare, trapiantare, azionare la pompa a pedale per attingere all’acqua di falda, preparare macerati, innaffiare o trasportare la terra con la carriola. Oltre all’attività pratica si cercherà anche di trasmettere dei principi di sostenibilità e si creeranno momenti di scambio e condivisione, osservando il nostro orto, il frutteto o il giardino dei fiori».
Non si tratta però di una lezione all’aria aperta, ma semmai di un’esperienza che vuole coinvolgere i bambini attivando in loro nuove sensazioni: «Nell’orto c’è un vero contatto con la natura e tutti i sensi vengono attivati, dalla vista al tatto, dal gusto all’olfatto, senza dimenticare l’udito. Vivere l’esperienza sarà secondo noi la cosa più arricchente per i piccoli partecipanti che con le loro domande sapranno rendere ancor più interessanti i momenti d’incontro presso Lortobio di Gudo», aggiunge Chiara Buletti. Le attività, che saranno adattate alle condizioni meteorologiche, si svolgono all’aperto e richiedono pertanto un abbigliamento adeguato alla circostanza, dove i bambini non dovranno avere timori di sporcarsi le mani. «Con il sole o con la pioggia, nell’orto c’è ogni volta qualcosa di nuovo e di diverso da fare o da guardare. Inoltre, per coloro che potranno e vorranno partecipare con regolarità, ci sarà la possibilità di capire il ciclo naturale dell’orto e della natura», commenta Elena Camponovo, ricordando che anche semplici azioni, come prendere in mano un lombrico, vedere spuntare una piantina od osservare lo sviluppo di un frutto si rilevano delle situazioni straordinarie suscitando fascino, partecipazione e attenzione. I responsabili accoglieranno i bambini alle ore 9.30 direttamente presso Lortobio (massimo 15 ragazzi), dove saranno coadiuvati anche da altri animatori che già operano nell’orto collettivo di Gudo. Alle 10.45 è prevista una merenda con prodotti biologici offerta da Migros Ticino e i genitori potranno riprendere i propri figli a fine mattinata, verso le ore 12.30. I coordinatori e gli animatori giungono a questo nuovo progetto – «Giardinieri in erba» – forti di un’esperienza decennale, nella quale hanno accolto circa cento classi di scuola elementare o dell’infanzia, che qui hanno trascorso
delle giornate a contatto con la natura. A queste si sono aggiunti anche i momenti organizzati nell’ambito di altri progetti o iniziative, sempre destinati ai ragazzi desiderosi d’avvicinarsi in modo semplice alle attività legate alla terra e alla natura. Lortobio, ricordiamo, è nato come orto biologico collettivo, dove tutti, adulti e bambini, con il proprio entusiasmo, partecipano e contribuiscono alla coltivazione e al suo funzio-
namento. Oggi conta una ventina di collaboratori attivi e negli anni è stato completato con alcune iniziative, come l’installazione di un pannello solare per l’elettricità, la creazione e messa a dimora della siepe naturale di bacche selvatiche miste, la costruzione del forno solare per la cottura degli alimenti e anche la piantumazione di un piccolo frutteto. Lortobio è quindi un’esperienza partecipativa che vuole divulgare a
un pubblico più ampio la produzione biologica e i suoi prodotti, dedicandosi anche alla riproduzione di semi a alla salvaguardia della fertilità della terra e della biodiversità. In questo contesto rientra il progetto «Giardinieri in erba», per fare parte del quale occorre iscriversi. Informazioni
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 29 aprile 2019 • N. 18
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Corro anch’io, sì, tu sì
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1 Sport Due storie di doping, quelle della maratoneta francese Clémence Calvin e del ciclista colombiano
Jarlinson Pantano, sono così diverse da far venire i crampi
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Giancarlo Dionisio Un atleta che fa parte dei quadri nazionali, sin dalle categorie giovanili, deve sottostare a una rigida serie di norme antidoping. Ad esempio, oltre a prestare un’attenzione assolutamente maniacale quando assume dei farmaci per una normalissima laringite o per altre banali malattie, deve annunciare, a chi si occupa dei controlli antidoping nella sua federazione, ogni spostamento, per consentire, ai cosiddetti «succhiasangue», di rintracciarlo per verificare se, in una fase di allenamento, sta barando o meno. È, infatti, assodato che da oltre un decennio chi truffa viene pizzicato prevalentemente fuori corsa. Chi è quel fessacchiotto che, con le attuali norme in vigore, commetterebbe l’imprudenza di doparsi il giorno prima di una gara? Persino le microdosi di eritropoietina hanno tempi di smaltimento tali da porre a rischio l’atleta che viene controllato subito prima o subito dopo l’evento agonistico. Ultimamente solo gli ingenui ci cascano, e il più delle volte si tratta di pesci mediopiccoli. Per tornare al concetto di reperibilità quasi totale (dalle sei di mattina alle dieci di sera) va detto che, se, tu corridore, annunci che andrai nel pomeriggio a fare delle ripetute tra Gravesano e Arosio, e all’ultimo momento ti ricordi del compleanno di nonna Maria a Casa Serena, puoi cambiare programma, ci mancherebbe altro, ma lo devi tempestivamente annunciare, altrimenti l’eventuale visita a vuoto dei controllori sul tuo terreno d’allenamento, equivale a un cartellino giallo per sottrazione al
Clémence Calvin, in testa, durante una maratona degli anni scorsi. (Pierre-Yves Beaudouin)
test antidoping. Al terzo ammonimento scatta la squalifica e ti becchi due anni di sospensione, esattamente come se tu ti fossi dopato, anche se magari sei semplicemente un ragazzo distratto che viaggia a pane e acqua. In queste ultime settimane, si è scritto e parlato molto del caso di Clémence Calvin. La maratoneta francese, durante un recente campo di allenamento in Marocco, accompagnata dal marito-allenatore Samir Dahmani, ha modificato per tredici volte in quindici giorni il luogo di reperibilità nel sistema Adams, il software che gestisce la
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N. 13 FACILE (N. 14 - Quasi due chilometri e mezzo) Schema ORIZZONTALI 1 2 3 4 5 1 P 9 A2 S Q U5 A 1. Una razza canina 6 7 8 A 5. C’è quello orario Soluzione: 5 S T I8 9 S D 2 9 10 U S I 10. La stella più splendente Scoprire i 3E C O 3 11 12 dell’emisfero boreale numeri corretti S E S T I A 3 7 5 8 9 13 16 11.14Un15Brando attore17d’altri tempi da inserire C H I L Inelle P O I M 6 4 7 18 caselle colorate. 12. Una... «teca» 19per vinai R O M A V E G L I A 13. Grande quantità 20 21 3 2 O T O R I O N E N 14. Fanno23rima con ma... 22 24 1 3T 8 M E S A N T O Z 15. Lo è Asterix 25 26 A L S A Z I A4 O7 R E 16. Un terzo di trenta 4 8 5 9 2 6 17. Superfluo, vano 18.15 Destinate ai sacrifici (N. - ... laghi al mondo è il Canada - ... Ontario) 19. Ai piedi delle ragazze N. 14 MEDIO 1 3 4 5 6 7 8 9 20.2 Croce Rossa Italiana L A R 8 G H I 5 A L M2 A 3 1 1021. L’attrice Ranieri 11 O N 5E R E A4 D6 O N E ' ' 1223. Raccontati 13 G E S U I L E O R 25. Un anagramma di tela 16 1 8 9 4 14 15 O T O C A E N A E 26. Come18 finisce comincia... 2 9 4 1 17 19
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A L A N O D I S C O 2 3 6 9 8 4 5 1 7 P O D A T A O N E 29 4 57 1 5 2 6 83 8 8 VERTICALI E T O R O V E G A M A RR L O39 N 8 7 1 5 6 3 2 8 4 9 1. Ricchezze D I E T A 2. Famoso rivoluzionario russo 9 4 2 5 6 3 7 8 1 5 I T 2 A 3. Si spinge E con N un dito O M AI OS 9SE L T A7 4O 6 7 1 2 9 8 3 5 4 7A L T O Soluzione della settimana precedente 4. È tornata... senza torta 3 si5trova 8 il4deserto 7 1del 6Sahara?» 9 2 3 RISATE IN8CLASSE – Un’insegnante chiede: «Dove 5. Preposizione articolata R I G A L L O T R La risposta di un allievo: «IN AFRICA, SU QUESTO NON CI PIOVE!». 6. Lo è il pelo arruffato (N. 16 - “In Africa, su questo non ci piove”) N. 15 DIFFICILE 7. Sclerosi latente amiotrofica F6 R A 8. DueI di cuori 3 1 4 8 2 9 5 6 7 N U T I LI NEE 4 G A AI R EC 9. Si difendeva in duello C R A2 A4 S I N A 8S I 9 8 5 1 7 6 2 3 4 11. In alcuni materassi C R U DC A A C QI U A Z E R 5 3 6 2 7 5 4 3 1 8 9 13. Amido di mais L I L I U M C O L E 6 2 5 6 1 9 3 4 8 7 2 15. Le iniziali dell’attore I C I T A R I M S T Tirabassi E N I L LU I S L OA I 7 8 4 2 7 5 1 6 9 3 I N E A 16. Afflitti, malinconici 7 9 8 2 4 7 3 9 6 8 2 4 1 5 18. Può essere pungente E N O E V I C I N E N A R R A T I 2 7 6 2 9 8 4 1 7 3 5 6 20. Terapie C U O R E O R G O N 21. Pari nell’ilarità 3I P O 4 5 6 3 9 8 7 2 1 G4 O D P I1 R N 22. Luogo dove si trebbia A L T E I A 1 7 3 2 6 5 9 4 8 O1 D I 3O A V E A8 I E 24. Preposizione articolata 20
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Vinci una delle 3 carte regalo da 50 4franchi con 3 il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku 1 3
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Giochi per “Azione” - Maggio 2019 Stefania Sargentini
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T O R R I C E N T O O S S A C A V E L R A I C O L O L I O A P P I A N A R E SUDOKU PER AZIONE - APRILE 2019
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Cruciverba Che versi fanno questi animali: giraffa, tacchino e cavalletta? Lo scoprirai a cruciverba ultimato leggendo le lettere nelle caselle evidenziate. (Frase: 8, 9, 5)
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re stato un ottimo gregario di Alberto Contador durante l’ultimo scampolo di carriera dell’asso madrileno. Le due N. 14 MEDIO storie, di Clémence e Jarlinson, sono tuttavia emblematiche di come nello 8 3 sport 1 non 5 ci siano né linee2 guida, né unità d’intenti in materia di doping. Ogni 5 4 paese, 6 ogni federazione ha il proprio ordinamento. Ogni squadra reagisce secondo i propri principi etici, 1 8 9 4 mentre l’Agenzia Mondiale Antidoping si rode il fegato per manifesta impoten2 9 La Calvin,4infatti, ha potuto 1 correre za. la maratona di Parigi, mentre Pantano 8 è stato immediatamente sospeso dal suo team, in attesa delle controanalisi. Il corridore, reduce da un periodo 9travagliato, caratterizzato da mononucle9 2 osi, 5 toxoplasmosi ed7herpes, giura sulla sua innocenza. In lacrime ha sostenuto di non essere in grado di spiegare l’ac7 caduto. Un suo legale ha richiesto4 l’esame del campioncino B, che rarissima3 8 mente emette un verdetto contrario. Emotivamente siamo tentati dall’augurare al corridore che, per una N. 15 DIFFICILE volta, il Laboratorio possa aver comrelazione tra controllato e controllore. è stato addolcito dal nuovo record fran- messo un errore, ma il nodo è altrove: L’agenzia antidoping francese sostiene cese, migliorato il precedente primato 4 se un atleta è sospettato, che6venga sodi possedere elementi sufficienti per di 41”, e costituisce pure il nuovo limi- speso; se è ritenuto colpevole, che venga bloccare la Calvin, fino all’arrivo dei te stagionale europeo. Come dire che sanzionato, pesantemente, a prescinde8 ha re dalla disciplina sportiva 2 che pratica 4 per “Azione” - Aprilein2019 risultati del procedimento disciplinareGiochi lo stage di allenamento Marocco Stefania aperto sul suo conto. prodotto degliSargentini ottimi frutti. e dal paese di provenienza. In soldoni, 5 agli organismi 3 Invece, il Consiglio di Stato delSempre negli scorsi giorni è scop- diamo internazionali la Repubblica francese, che funge da piato anche il caso Jarlinson Pantano. Il super partes strumenti e potere per fare (N. 13 - Sicilia, castagno dei cento cavalli) consulente del governo in materia giucorridore ciclista della Trek-Segafredo giustizia. 6 2 1 2 3 4 5 6 N C Epositivo R I all’EPO in un conridica e amministrativa, ha concesso S è Irisultato Certo, su scala nazionale, qualcu8 7 all’atleta di partecipare alla maratona O trollo no vedere il proprio orticello L I effettuato T A La sorpresa il 26 feb7potrebbesempre 9 10 di Parigi del 14 aprile. Ebbene, Clémen- C braio. Lo scalatore colombiano si era diventare più esiguo, fino alla A S E T E 11 ce Calvin non l’ha vinta. È stata prece- I distinto nel 2016 vincendo una tappa al sparizione, ma qualche potentato locaP A R T O 9 le in meno, 8 vale2uno4sport, se non più 12 da 3 ragazze etiopi, 13 tuttavia 14 15 duta il16 suo Tour de Suisse, a Davos,7e una al Tour R E G N O D O T E amaro quarto posto,18a soli 4” dal podio, de France, a Culoz, oltre che per esse- sano, per lo meno più equo. 17 19
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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch
I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.
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Partecipazione online: inserire la
soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-
(N. 18 - “La causa?... Saranno le cataratte!”)
N. 16 GENI
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 29 aprile 2019 • N. 18
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Politica e Economia Sri Lanka: perché l’odio Il Paese, povero di risorse, da anni sta promuovendo il turismo come arma di ripresa economica ma senza la forza dell’Indonesia che ha creato un modello di antiterrorismo
Cristiani nel mirino Perché nonostante l’apparente sconfitta militare dello Stato Islamico la persecuzione nei confronti dei cristiani continua. Soprattutto in Asia e in Africa
Internet: servono regole L’uso dei social network dopo gli attacchi nello Sri Lanka dimostrano una volta di più l’uso perverso del web
Fisco e AVS a braccetto Il 19 maggio si vota su un’imposizione delle imprese che prevede anche maggiori entrate per il primo pilastro
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Vladimir Zelensky è stato votato in massa dai giovani. (AFP)
Il servo di Kiev
Ucraina L’attore comico Vladimir Zelensky celebra la sua vittoria alle presidenziali del 21 aprile con un 73 per cento:
le sfide che dovrà affrontare sono il conflitto con la Russia, la perdita della Crimea e la crisi economica Anna Zafesova La più incredibile sceneggiatura politica del 2019 si è conclusa il 21 aprile con la vittoria del comico Vladimir Zelensky alle elezioni presidenziali in Ucraina, con un risultato da record: 73% contro il 24% del capo di Stato uscente Petro Poroshenko, che paga il prezzo di cinque anni di guerra con la Russia e una crisi economica che ha reso il più grande Paese d’Europa anche il più povero. Un voto trasversale che ha unito tutta l’Ucraina – l’unica regione ad aver preferito Poroshenko è stata la roccaforte nazionalista di Leopoli – superando le storiche divisioni tra Est e Ovest in un misto di rivolta antisistema, scontento socio-economico, rabbia per la corruzione dilagante e speranza in quel «Paese del sogno» ricco, moderno e europeo che Zelensky ha raccontato nella sua serie televisiva Il servo del popolo, in cui interpreta un professore di liceo che diventa presidente per caso. Il 41enne attore, che ha iniziato nel cabaret amatoriale studentesco di Kriviy Rih per diventare uno dei volti più popolari dello spettacolo ucraino
(la sua serie è stata anche acquistata da Netflix), ora riceve telefonate dai capi di Stato di tutto il mondo – Trump è stato tra i primi, mentre Putin si è rifiutato di inviare anche un messaggio di congratulazioni formale – e star dello spettacolo e dello sport ucraine. È stato votato in massa dai giovani e dalle regioni a maggioranza russofona, ma anche dai militari che non hanno perdonato a Poroshenko la gestione della guerra con la Russia (sulla quale gli uomini di Zelensky promettono un’indagine). Ma il trionfo – ha assorbito praticamente tutto il voto degli altri candidati al primo turno elettorale, sia russofoni che nazionalisti, mentre Poroshenko è riuscito a migliorare il suo risultato di soli cinque punti – comporta anche un fardello di aspettative cui sarà difficile rispondere. Il nuovo presidente – la cui faccia appare ancora sui biglietti per i concerti del suo cabaret Kvartal 95 in vendita a Kiev – dovrà districarsi in un complesso sistema di clan politici e regionali, trattare con gli oligarchi – a uno dei quali, Igor Kolomoysky, nemico dell’ex presidente, è legato – e crearsi una coalizione nella Rada, dove fino alle
elezioni del nuovo parlamento non può contare sull’appoggio di un suo partito. L’inevitabile negoziato – dopo una campagna elettorale molto aggressiva in cui ha paragonato il suo avversario a Putin e gli ha dato del cocainomane, Poroshenko gli ha già offerto il suo aiuto, ottenendo la promessa di un ministero – andrà però a scontrarsi con le attese giustizialiste degli elettori, e le riforme economiche e politiche saranno necessariamente frutto di un compromesso, in un sistema semiparlamentare dove il governo emerge dalla coalizione eletta. Il dossier più scottante è però ovviamente il conflitto con la Russia, che Zelensky in campagna elettorale ha promesso di concludere al più presto, costringendo il Cremlino a restituire il Donbass e pagare la compensazione per i danni. A Mosca restano prigionieri 24 marinai ucraini, il negoziato di Minsk è in stallo ormai da anni e in concomitanza con le elezioni la Russia ha promesso di cancellare parte delle forniture energetiche a Kiev. Nonostante i seguaci di Poroshenko avessero accusato Zelensky – di origini ebraiche, di lingua madre russa e originario dell’Est
russofono – di essere il «candidato di Putin», Mosca per ora ribadisce di non considerarsi controparte del conflitto e quindi di non voler trattare con Kiev, del cui governo non riconosce la legittimità, e il ministro degli Esteri Sergey Lavrov ha ribadito che la questione della Crimea, annessa dai russi, «è chiusa per sempre». I media russi hanno seguito da vicino la campagna elettorale ucraina, secondo le linee guida che impongono alla propaganda di ridicolizzare il Paese vicino e mostrare ai russi come vivono male quelli che hanno voltato le spalle a Mosca. Il deputato nazionalista Vladimir Zhirinovsky ha addirittura profetizzato in un talk show sul canale tv statale l’imminente pulizia etnica dei russi in Ucraina, con una conseguente guerra tra Russia e Nato. Ma la discussione mediatica sulla campagna elettorale ucraina ha avuto anche un effetto inatteso: i russi si sono resi conto che nel Paese che hanno sempre considerato un pezzo del loro impero si tengono elezioni libere, con dibattiti televisivi, violente critiche e accuse al governo, e la sconfitta finale del leader al potere, così come dei suoi
predecessori (in quasi trent’anni di indipendenza Zelensky è il sesto di una serie molto eterogenea di presidenti ucraini). Uno spettacolo impensabile in Russia, e non è un caso che il primo russo a congratularsi «con l’Ucraina e gli ucraini per le libere elezioni» sia stato Alexey Navalny, il leader dell’opposizione che attraverso i suoi canali Internet ha diffuso in diretta il dibattito finale tra i due contendenti alla vigilia del ballottaggio. La propaganda russa ha dipinto la svolta dell’Ucraina verso l’Europa come un «golpe nazista» e ha fatto appello allo «spirito russo» da opporre al «nazionalismo ucraino». Avere come presidente del Paese vicino e nemico un giovane brillante, che parla russo, che ha sconfitto il presidente in carica accusandolo di corruzione e che proclama l’entrata nell’Ue come obiettivo nazionale toglie a Vladimir Putin il monopolio sulla identità russa inestricabilmente legata al rifiuto della democrazia liberale, e apre un’alternativa. Il primo messaggio di Zelensky è stato rivolto infatti agli ex concittadini dell’ex Urss: «Guardate l’Ucraina, tutto è possibile».
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 29 aprile 2019 • N. 18
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Politica e Economia La chiesa di St. Anthony a Kochchikade, Colombo, dopo uno degli attentati. (AFP)
In Asia e Africa la partita religiosa Estremismo jihadista I cristiani sono
l’anello debole perché rappresentano una presenza globale Giorgio Bernardelli
Pasqua di sangue Sri Lanka L’attacco jihadista ai turisti e ai cristiani dimostra
che nonostante la sua sconfitta militare in Siria l’Isis non è morto come ideologia
Giulia Pompili C’è qualcosa di diverso nel brutale attacco che ha subìto lo Sri Lanka nel giorno di Pasqua. Diverso dal lungo elenco degli altri attentati terroristici perpetrati sull’isola dell’Oceano Indiano nel suo tormentato passato, fatto di estremismi religiosi e conflitti etnici. Non si tratta più di semplice terrorismo interno, come hanno spiegato già dalle prime ore dopo la tragedia le autorità di Colombo, ma di un salto di qualità, perché i gruppi locali avrebbero avuto appoggio e aiuto, probabilmente anche finanziario, dall’estero: «Senza un network internazionale questi attentati non ci sarebbero stati». Otto esplosioni, un attacco coordinato in tre diverse città per colpire obiettivi strategici: chiese cattoliche e hotel di lusso. Il bilancio è di 253 morti e 500 feriti, tra cittadini srilankesi e turisti stranieri. L’esplosione più sanguinosa è quella avvenuta nella chiesa di San Sebastiano di Negombo, una città a una trentina di chilometri di distanza dalla capitale Colombo. Un luogo dall’alto valore simbolico: Negombo è da sempre soprannominata la «little Rome», la piccola Roma, una delle poche città dello Sri Lanka a maggioranza cattolica, piena di chiese e di fedeli. Nel corso delle ore successive alle esplosioni, tutte eseguite da attentatori suicidi, le autorità hanno arrestato almeno quaranta persone – tutti cittadini srilankesi. Poi hanno cercato di disinnescare un’ultima bomba che è esplosa accidentalmente e ha ferito altre persone, e hanno trovato quasi novanta detonatori nascosti nella stazione dei pullman di Colombo. I numeri danno l’idea di quanto fosse esteso e quanto volesse essere sanguinoso l’attacco. Le prime investigazioni dell’intelligence hanno portato a un responsabile: il gruppo jihadista National Thowheeth Jamath, che prima di domenica scorsa non era un nome noto nella galassia islamista. Perfino in Sri Lanka in pochi erano a conoscenza della sua esistenza, anche perché le azioni terroristiche di quel gruppo, fino a quel momento, si erano limitate all’iconoclastia e al vandalismo contro la maggioranza buddista del Paese. Insomma, un gruppo così piccolo e poco organizzato non avrebbe mai potuto portare a termine un attentato come quello di Pasqua senza un coordinamento esterno, strutturato, e in grado di insegnare come confezionare bombe e addestrare islamisti suicidi. E infatti quattro giorni dopo è arrivata la rivendicazione dello Stato islamico: Amaq, cioè quella che viene considerata una sorta di agenzia di stampa del gruppo terroristico più temuto del mondo, ha diffuso due fotografie di nove persone che giurano fedeltà al Califfato islamico e al suo leader, Abu Bakr al-Baghdadi.
Nel comunicato quelle nove persone, tra cui una donna, vengono indicate come i destinati al martirio, coloro che hanno portato a termine gli attentati in Sri Lanka contro cristiani e turisti. Fra i nove attentatori suicidi, tra loro gli investigatori hanno riconosciuto Mohammed Zaharan, il predicatore leader del National Thowheeth Jamath (l’unico a volto scoperto). Secondo il «New York Times», il fatto che Zaharan sia riuscito a portare a termine un attacco così esteso e coordinato dimostra l’accesso di un gruppo islamista così piccolo e locale nella enorme rete dello Stato islamico, che nonostante le sconfitte subìte sul campo in Siria riesce ancora a reclutare a livello internazionale. È anche per questo che l’Fbi, l’Interpol e le agenzie di intelligence di tutti i paesi coinvolti hanno fatto ingresso ufficiale nelle indagini a Colombo.
La lotta di potere che l’anno scorso ha inaugurato una grave crisi istituzionale ha reso ancora più fragile l’apparato di intelligence del Paese Perché il problema, in Sri Lanka, è adesso cercare di venire fuori da una tragedia di queste dimensioni: c’è la paura di nuovi attacchi, ma c’è soprattutto un Paese fragile, politicamente e socialmente, che fino al 2009 ha combattutto una guerra civile sanguinosa che, come spesso accade nel sud-est asiatico, è fatta di conflitti etnici e religiosi. In Sri Lanka, su 21 milioni di abitanti, solo il 9,7 per cento della popolazione è musulmana, mentre la religione di Stato è il buddismo, praticato dal 70,2 per cento della popolazione. La minoranza più numerosa è quella induista, che rappresenta il 12,6 per cento degli srilankesi, e l’induismo è praticato dai tamil, il gruppo etnico separatista del nord-est dell’isola che dopo trent’anni di guerra fu sconfitto solo dieci anni fa. Negli ultimi cinque anni il governo di Colombo era riuscito a venir fuori dalla crisi: era arrivata la Cina, l’ingombrante potenza asiatica che tramite un mastodontico prestito, impossibile da ripagare per la piccola isola, alla fine si era presa il porto di Hambantota. Ma da sempre lo Sri Lanka subisce anche l’influenza strategica del grande vicino, l’India, e non a caso è questo uno dei luoghi in cui i giochi di forza tra Pechino e New Delhi si fanno sempre più complicati. Negli ultimi cinque anni il governo di Colombo, in particolare, aveva puntato tutto sul turismo, considerato
un settore chiave per la crescita. Nuovi hotel, sempre più lussuosi, stavano aprendo in tutta l’isola: lo Shangri La, uno degli obiettivi dei terroristi nel giorno di Pasqua, era stato inaugurato soltanto due anni fa. L’anno prima nella capitale Colombo aveva aperto il Mövenpick, e pochi mesi fa il Ritz Carlton – tutti hotel da cinque stelle, a dimostrazione del fatto che lo Sri Lanka poteva attrarre un tipo di turismo ricco in grado di generare un indotto economico notevole. Gli attacchi agli hotel frequentati da stranieri ricordano quelli avvenuti a Bali, in Indonesia, nel 2002 (202 morti) e nel 2005 (23 morti). Dopo quelle due tragedie avvenute nell’isola indonesiana più turistica, il governo di Giacarta si trasformò in un modello di antiterrorismo, e anche oggi Bali è una specie di compound controllatissimo. Molti osservatori, però, dubitano che lo Sri Lanka abbia la forza di usare il modello indonesiano. Anche perché la situazione politica, anche oggi, è molto complicata. In una delle prime conferenze stampa dopo la tragedia, il primo ministro dello Sri Lanka, Ranil Wickremesinghe, ha ammesso la responsabilità delle forze di sicurezza nell’aver ignorato avvertimenti arrivati qualche settimana prima dall’intelligence internazionale e dall’India poche ore prima. In un’intervista alla NDTV, emittente indiana (non a caso: Wickremesinghe è più vicino a New Delhi che a Pechino), il primo ministro ha accusato le Forze dell’ordine di non essere state in grado di prendere precauzioni e di rafforzare la sicurezza nel giorno di Pasqua nonostante gli avvertimenti. È un messaggio per il presidente Maithripala Sirisena, da cui dipendono le Forze armate. Ma per capire meglio bisogna tornare alla fine dello scorso anno, quando si aprì una gravissima crisi costituzionale nello Sri Lanka. La lotta di potere tra i due aveva portato il presidente Sirisena, a fine ottobre 2018, a rimuovere il primo ministro Wickremesinghe – capo del governo di Colombo dal 2015 – e a sostituirlo con l’ex primo presidente Mahinda Rajapaksa. Dopo due mesi di «esilio forzato» Wickremesinghe era tornato, ma da allora la frattura tra le due più alte cariche dello Stato non si è mai risolta. Molte delle polemiche dopo gli attentati di Pasqua riguardano proprio la crisi politica: il presidente Sirisena ha detto che non era stato informato del pericolo di attacchi islamisti, ma i suoi oppositori sostengono che al primo ministro non era mai stato dato l’accesso alle riunioni per la sicurezza. Una lotta di potere che ha reso ancora più fragile l’apparato di intelligence del Paese. Il presidente ha annunciato che prenderà provvedimenti, e probabilmente la catena di comando della Difesa sarà sostituita. Forse non basterà.
Le esplosioni nelle chiese e negli alberghi la mattina di Pasqua. Lasciando dietro di sé 253 morti e altre centinaia di feriti nello Sri Lanka, la «lacrima dell’India», trasformata dallo spiraglio di pace vissuto in questi ultimi anni in una meta turistica emergente. Ancora una volta è stato il dato di fatto della persecuzione contro i cristiani a segnare la Pasqua 2019, aggiungendo una nuova stazione alla Via Dolorosa delle stragi che hanno colpito in questi ultimi anni le chiese di ogni confessione. Quanti sono i cristiani nel mirino nel mondo oggi? Uno degli osservatori più citati in proposito è il monitoraggio compiuto da Open Doors, centro studi di matrice evangelica che dagli Stati Uniti ogni anno diffonde la lista dei Paesi dove è più rischioso essere cristiani. Complessivamente sarebbero 245 milioni i cristiani che vivono in realtà ritenute a rischio, il che significa grosso modo 1 cristiano ogni 10. Ancora più impressionante è il dato sui cristiani uccisi a causa della loro fede: Open Doors nel 2018 ne ha censiti 4305, dei quali ben 3731 nella sola Nigeria. Va aggiunto che tra i dieci Paesi del mondo classificati come più pericolosi per i cristiani accanto a otto Paesi a maggioranza islamica figurano anche il regime totalitario della Corea del Nord e l’India del nazionalismo indù, dove le violenze dei gruppi fondamentalisti contro i cristiani sono più nascoste ma non meno gravi. Al di là delle classifiche, l’aumento delle persecuzioni contro i cristiani è un fatto innegabile; e da questo punto di vista i proclami dello Stato Islamico hanno segnato un vero e proprio spartiacque. Due immagini sono rimaste impresse nella memoria: la prima è la lettera «nur» – l’iniziale araba della parola «nazareni» – impressa sulle porte delle case dei cristiani di Mosul per forzarli a un esodo di massa nell’arco di una sola notte nell’estate del 2014. La seconda sono le tute arancioni dei 21 operai copti sgozzati sulle spiagge della Libia nel febbraio 2015 in un macabro rituale mediatico rilanciato dalla propaganda digitale jihadista. Non l’ha certo iniziata l’Isis la persecuzione; ma il sedicente califfato ha comunque segnato un salto di qualità nella connotazione del fenomeno. Non è una determinata politica, ma il concetto stesso di diversità religiosa oggi nel mirino dell’internazionale del terrore. Se prima erano sostanzialmente i leader politici dell’Occidente a essere additati come «crociati», adesso la furia omicida si accanisce sempre di più contro le comunità cristiane, contro i loro luoghi di culto, contro i loro simboli. La sequenza legata alle celebrazioni della Pasqua è impressionante: nel 2014
Anche in Pakistan quella del 2016 è stata una Pasqua di sangue. (AFP)
Boko Haram ha colpito le chiese in Nigeria; nel Giovedì Santo del 2015 gli al Shabaab somali hanno compiuto la strage nell’università di Garissa in Kenya; nel 2016 è stata la volta della Pasqua di sangue a Lahore in Pakistan; nel 2017 le stragi nella domenica delle Palme in Egitto. Ora tocca allo Sri Lanka, Paese complesso, segnato da una lunga e sanguinosa guerra civile tra tamil e singalesi, trascinatasi fino a dieci anni fa. Conflitto rispetto alle cui dinamiche era del tutto estraneo l’odio religioso dei musulmani nei confronti dei cristiani. Anzi: essendo entrambi i gruppi minoranze in un contesto a maggioranza buddhista, si erano trovati spesso dalla stessa parte, come del resto accade in India. Che cosa sta succedendo allora? E perché nonostante l’apparente sconfitta militare dello Stato Islamico la persecuzione nei confronti dei cristiani continua? La «rivendicazione» che legherebbe le stragi nello Sri Lanka a quella compiuta da un suprematista bianco nelle moschee di Christchurch in Nuova Zelanda non deve ingannare: il rapporto di causa ed effetto è solo un gioco mediatico. L’estremismo jihadista ha bisogno delle stragi; e le compie nei Paesi dell’Asia e dell’Africa perché sono il terreno oggi più congeniale a queste formazioni. A portare i terroristi a convergere lì non è solo il fatto che rispetto all’Europa o agli Stati Uniti in certi Paesi è più facile bucare i sistemi di sicurezza. C’è anche un ragionamento di geopolitica: è in Asia e in Africa che oggi si gioca la partita vera dell’identità religiosa. Il baricentro del cristianesimo – per ragioni demografiche, ma non solo – si sta spostando lontano dalla Vecchia Europa. Ma anche l’islam guarda a Sud e a Oriente; salafiti e wahhabiti, le correnti più intransigenti, mirano a cancellare le specificità dei contesti africani o asiatici, l’attitudine al dialogo dei musulmani locali, per intruppare tutti in un disegno in cui non c’è spazio per le altre religioni. In questo sforzo sanno di poter contare sul fatto che una globalizzazione spinta unicamente da logiche economiche in molte parti del mondo ha fatto saltare equilibri delicati, esasperando conflittualità sociali che sono andate ad accentuare le tensioni tra popoli e religioni. In tutto questo i cristiani sono l’anello più debole. Perché la loro è una presenza globale: non c’è praticamente posto al mondo dove oggi non ci sia almeno una chiesa. Ma in molti contesti è una presenza fortemente minoritaria (in Asia meno del 3% della popolazione); e spesso avvertita dagli altri gruppi anche come straniera, il che nell’era del ritorno delle identità vuol dire pure pericolosa. Quale risposta possibile allora a queste persecuzioni? Al di là delle reazioni emotive i muscoli servono a poco: l’unica strada realistica è lavorare per una cultura della biodiversità religiosa, che dia un’anima alla globalizzazione. Si tratta di quanto papa Francesco ha tentato di fare ad Abu Dhabi con la dichiarazione comune firmata in febbraio con l’imam al Tayyeb dell’università di al Azhar, il più importante centro dottrinale sunnita. Un testo in cui il passaggio chiave politico è il riconoscimento della centralità della persona e dei suoi diritti, ma che ha bisogno anche di una cornice teologica capace di pensare un futuro insieme tra uomini di religioni diverse. La strada resta lunga e difficile; ma l’alternativa è solo un cumulo di macerie che finirebbe per travolgere ogni idea di religione.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 29 aprile 2019 • N. 18
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Politica e Economia
Social media al bando
Internet Perché lo Sri Lanka ha bloccato temporaneamente l’accesso a Facebook, Twitter, Whatsapp
dopo gli attentati di domenica 21 aprile. Serve? Di certo è la riprova che il web va regolamentato. Ovunque Christian Rocca Una decina di anni fa, Facebook e Twitter promuovevano le speranze di libertà degli oppositori iraniani e delle primavere arabe. I social network erano lo strumento dell’ineluttabile avanzata della democrazia nei paesi dispotici mentre, nelle società aperte, erano un servizio fondamentale per aiutare le autorità a raccogliere e dare informazioni nei momenti di crisi e di emergenza. Dieci anni dopo, quegli stessi social network sono diventati un pericoloso veicolo di disinformazione, un’arma in mano alle forze antidemocratiche, l’espediente per reprimere il dissenso nei regimi autoritari e l’infrastruttura mediatica da chiudere repentinamente per evitare di alimentare la violenza etnica.
Il più grande strumento di interazione umana e di democrazia, oggi accumula fallimenti dai contorni sempre più pericolosi Il governo dello Sri Lanka, dopo la strage islamista della domenica di Pasqua, ha deciso di chiudere l’accesso ai social network perché nelle ore successive alle esplosioni erano circolati numerosi post violenti e notizie false soprattutto su Facebook e YouTube. Il governo ha calcolato che il rischio di maggiore disinformazione sarebbe stato superiore ai benefici di una migliore comunicazione che Facebook e Twitter avrebbero garantito. Twitter non ha risposto, Facebook ha impiegato più di un giorno per farlo, entrambi hanno dimostrato che l’incapacità di riconoscere il problema e la non volontà di trovare una mediazione tra il diritto alla libera espressione e la protezione pubblica, sono la loro grande debolezza e il tradi-
Singalesi leggono il giornale che riportano le notizie sull’attentato di Pasqua. (AFP)
mento della sbandierata missione globale di unire il mondo. Prima dello Sri Lanka, c’è stato il precedente in Nuova Zelanda, il 15 marzo, quando il governo neozelandese ha chiesto ai social di non lasciar caricare agli utenti il video cruento della strage nelle moschee di Christchurch, ma anche in quel caso Facebook e Twitter e YouTube non hanno reagito in tempo e le immagini si sono diffuse a macchia d’olio, così come il delirante manifesto suprematista dell’assassino. Il governo, in quell’occasione, è stato costretto ad affidare d’urgenza a un regolatore nazionale il diritto di cancellare, in caso di emergenza, i contenuti pericolosi caricati sui social. La premier neozelandese Jacinda Ardern e il presidente francese Em-
manuel Macron hanno annunciato che il 15 maggio riuniranno a Parigi numerosi paesi e molte aziende digitali per trovare un modo condiviso che impedisca l’uso dei social media per promuovere terrorismo ed estremismo violento. «Le piattaforme digitali – ha detto la premier neozelandese – possono connettere le persone in molti modi positivi, e vogliamo che continuino a farlo, ma da troppo tempo è possibile usarle per incitare la violenza e l’estremismo e per diffondere immagini d’odio, come è successo a Christchurch. Questo deve cambiare». In attesa che le cose cambino, è difficile stabilire se sia stato giusto o sbagliato bloccare temporaneamente l’accesso ai social media, ma la decisione delle autorità dello Sri Lanka dimostra
che il problema esiste e svela quanto sia pericolosa l’architettura ingegneristica delle piattaforme digitali, progettata per creare dipendenza e rendere virali il rancore, le fake news e la disinformazione. Questo è il tema centrale della nostra epoca, emerso purtroppo in seguito a stragi di innocenti e che in futuro costringerà altri governi a prendere la stessa decisione. Ma quando sarà passata l’emergenza, i social saranno nuovamente accessibili, il problema resterà, in particolare in quei paesi non di lingua inglese dove l’algoritmo e l’intervento umano faticano maggiormente a individuare e bloccare i messaggi d’odio. Gli esperti americani sostengono che lo Sri Lanka è il punto di non ritor-
no in termini di come d’ora in avanti il mondo guarderà i social network. L’inerzia delle grandi piattaforme, non impegnate a trovare una soluzione, anche in termini di investimenti tecnologici e umani, fanno il resto. Ma sarebbe sbagliato pensare che la determinazione possa essere lasciata a loro, dovrà essere l’Occidente, in particolare l’America, a imporre alla Silicon Valley di cambiare modello, per questo è importante il summit di Parigi oltre che per contrastare le soluzioni autoritarie, come quelle cinesi o russe. La Gran Bretagna sta prendendo in considerazione di adottare alcune misure contro i social che ospitano disinformazione e l’Australia ha appena approvato una legge che impone sanzioni alle aziende che non rimuovono repentinamente i contenuti violenti. Questa è la direzione. Ora comincia a essere tutto più chiaro, ma siamo ancora lontani da una soluzione mentre i danni alla società aperta sono evidenti e irreversibili, in particolare l’abbattimento dei corpi intermedi che per secoli hanno fatto da filtro tra il popolo e il potere. L’ingerenza esterna degli agenti del caos ha funzionato, come dimostrano il reclutamento e la radicalizzazione online degli estremismi religiosi, gli aiuti russi all’elezione di Donald Trump e alla vittoria della Brexit e chissà che cos’altro. Ora va trovato il modo di regolamentare Internet, come abbiamo fatto in passato con altre grandi innovazioni tecnologiche, come la bomba atomica, le ferrovie, l’energia e le telecomunicazioni, rompendo i monopoli e liberando la concorrenza. È possibile, ci sono molte proposte come quelle del guru della Silicon Valley Jaron Lanier o come quelle della senatrice Elizabeth Warren, candidata alle prossime presidenziali, senza dimenticare gli interventi legislativi dell’Unione europea e le stesse prime timide proposte di autoregolamentazione delle piattaforme digitali.
Perù, si apre un dibattito sulla giustizia Scandalo Odebrecht Il filone peruviano dell’indagine partita dal Brasile sta spingendo
Angela Nocioni Un suicidio ha scosso il Perù e aperto lo spazio a una pubblica discussione, per quanto avvelenata e caotica, su quali limiti debbano porsi i magistrati inquirenti nell’uso della prigione preventiva durante le inchieste. Nel paese andino una grande indagine giudiziaria sulla corruzione di amministratori pubblici da parte delle imprese ha terremotato la politica locale e spiccato mandati d’arresto per gli ultimi quattro presidenti della repubblica. Il mercoledì della Settimana santa l’ex presidente Alan Garcia – due volte presidente della repubblica (1985-1990, 2006-2011) – aspettava a casa di essere portato in carcere con accuse di corruzione. Era indagato per le concessioni pubbliche relative alla linea 1 della metropolitana di Lima. Secondo le ipotesi degli inquirenti, vari membri del suo secondo governo avrebbero intascato 24 milioni di dollari di cui ci sarebbe traccia in conti segreti ad Andorra e lui stesso avrebbe mantenuto spese superiori al suo patrimonio che, stando a quanto proclamò durante la cerimonia della sua prima investitura alla presidenza, era «costituito soltanto da un orologio».
Di recente aveva chiesto asilo politico in Uruguay, lamentando una persecuzione giudiziaria nei suoi confronti. Il governo di Montevideo l’aveva rifiutato perché, così recita la motivazione resa pubblica, «in Perù il potere giudiziario è indipendente dal governo e quindi non si può considerare nessuno perseguitato per ragioni politiche». Pochi secondi prima essere arrestato Alan Garcia ha tirato fuori dalla cassapanca accanto al suo letto una pistola Colt e si è sparato alla tempia destra. Alcuni suoi collaboratori hanno reso pubblico un suo scritto in cui dice di suicidarsi «in disprezzo ai nemici» e afferma: «Non ci sono conti segreti, né tangenti». Altre testimonianze raccontano la sua furia contro l’uso spregiudicato da parte della prigione preventiva per spingere gli arrestati ad ammettere colpe proprie e altrui. Due giorni dopo il suicidio di Garcia, in uno dei rivoli peruviani della stessa inchiesta centrata sulle mazzette milionarie della Odebrecht – la grande impresa di costruzioni brasiliana che ha distribuito, secondo le ammissioni di alcuni suoi dirigenti, una marea di soldi a vari governi latinoamericani cominciando da quello brasiliano (il magistrato mediaticamente più esposto in Brasile è stato Sergio Moro,
chiamato a fare il superministro della Giustizia e degli Interni dall’attuale presidente di ultradestra Bolsonaro dopo aver fatto arrestare in piena campagna elettorale il candidato favorito alla presidenza della repubblica, mossa senza la quale Bolsonaro non sarebbe mai arrivato al governo) – è stato mandato in cella Pablo Kuczynsky, ex presidente ottantunenne ricoverato da tempo per problemi di salute. Solo nel 2018 sono stati aperti in Perù 4225 dossier per reati di corruzione, con 2059 autorità locali come imputati, tra i quali 57 governatori ed ex governatori regionali, 344 sindaci ed ex sindaci e 1658 altri amministratori pubblici. All’inizio di quest’anno il procuratore generale Pedro Chávarry ha tentato di sottrarre l’inchiesta ai due principali inquirenti, il coordinatore Rafael Vela e il suo braccio destro José Domingo Pérez. Iniziativa rivelatasi per lui un boomerang: una manifestazione di protesta cittadina ha fatto talmente scalpore da convincerlo a riaffidare l’inchiesta ai due giudici e a lasciare l’incarico. Dopo aver visto l’ex presidente Alejandro Toledo scappare negli Stati Uniti per tentare di sottrarsi all’arresto; l’ex presidente Ollanta Humala
e sua moglie Nadine Herrera fare tre anni di galera con l’accusa di aver ricevuto da Odebrecht tre milioni di dollari; il capo dell’opposizione parlamentare, Keiko Fujimori, estremista di destra figlia dell’ex dittatore Alberto Fujimori, incarcerata con accuse di riciclaggio di denaro; Alan Garcia suicida e Kuczynsky arrestato, l’attuale presidente della repubblica, Martín Vizcarra (nella foto), ha preso il coraggio a due mani e ha, per pochi minuti, deposto la bandiera dell’appoggio fideistico al pool di magistrati inquirenti – finora anche da lui indicati come angeli vendicatori per il timore di finire disarcionato da un’opinione pubblica incattivita dai resoconti di decenni di mazzette e resa assai poco attenta ai diritti degli accusati – e ha osato articolare una timida argomentazione in difesa del principio della presunzione d’innocenza. Poche e misurate parole, le sue, sufficienti però a riportare a galla nel dibattito pubblico alcuni fatti che raccomandano l’uso della facoltà del dubbio. Tra questi, un dettaglio: Odebrecht ha firmato con gli inquirenti un accordo di collaborazione. In questo testo l’azienda riconosce il pagamento di tangenti in quattro gare d’appalto,
Wikipedia
il presidente Vizcarra a riflettere se riformare il sistema politico giudiziario
si impegna a portare le prove dei reati commessi e a pagare un risarcimento civile di 185 milioni di dollari in 15 anni oltre ad altri 137 milioni di dollari come multa d’ingresso qualora voglia partecipare a nuove gare d’appalto pubbliche. In cambio la magistratura peruviana rinuncia a processare i rappresentanti dell’impresa che hanno accettato di accusare terze persone di aver ricevuto mazzette. È criticabile quest’accordo? Ci si può fidare delle accuse di qualcuno che addita qualcun altro come colpevole e riceve in cambio l’immunità giudiziaria? È sano per una società affidare una rivoluzione politica alle mani di un pool di magistrati considerandoli al di sopra del Diritto? Domande che non hanno avuto finora spazio possibile nel dibattito politico latinoamericano perché chiunque osi formularle viene additato alla pubblica opinione come amico dei corrotti ma che ora, timidamente, fanno capolino, a sorpresa, dal Perù.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 29 aprile 2019 • N. 18
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Politica e Economia
La battaglia degli «oldies»
Casa Bianca Tra la folta pattuglia di aspiranti democratici alla nomination i sondaggi vedono in vantaggio la coppia
Biden-Sanders. Rappresentano le due opzioni diverse, le scelte di fondo che il partito democratico dovrà fare
adesso ha il potere di far venire a galla tutte le divisioni in seno alla sinistra. Gli effetti del Rapporto Mueller sul Russiagate continueranno a sentirsi, ma non è chiaro se danneggeranno il presidente o i suoi avversari.
Federico Rampini È possibile sconfiggere Donald Trump e farne un presidente «corto», di un solo mandato? È la questione a cui deve rispondere il partito democratico, che entra nel vivo della gara per selezionare il prossimo candidato alla presidenza degli Stati Uniti nel novembre 2020. Con l’annuncio della candidatura di Joe Biden, che fu per due mandati il vice di Barack Obama, il plotone degli aspiranti si affolla. Anche troppo. Ma a chi si spaventa per il gran numero di personalità che si contendono i favori della sinistra, si può ricordare che quattro anni fa i repubblicani arrivarono ad assemblare ben 17 candidati. E quello che emerse non era certo il favorito. Ci sono tuttavia delle anomalie rispetto all’ultimo ciclo elettorale. La corsa per la Casa Bianca 2020 vede in pole position un club di «oldies», maschi bianchi settantenni. I sondaggi ai nastri di partenza danno questo sconcertante verdetto. Tutto può cambiare, e cambierà, in un anno e mezzo di campagna. Ma c’è un motivo, se a 18 mesi dall’elezione presidenziale i più gettonati per sfidare il 72enne Trump sono il 76enne Biden e il 77enne Bernie Sanders. I sondaggi danno Biden in testa alla folta pattuglia di aspiranti democratici alla nomination, più o meno alla pari con il senatore del Vermont, Sanders, il «socialista dichiarato» che nel 2016 fu in gara contro Hillary Clinton. Gli altri democratici, più giovani e con una folta rappresentanza di donne, minoranze etniche, partono distanziati. La «nazione giovane» per eccellenza (un’America che fu capace di eleggere dei quarantenni come John Kennedy e Obama; di avere miliardari ventenni come il Mark Zuckerberg delle origini) oggi sembra puntare su una gerontocrazia di maschi bianchi. È anche questo un effetto-Trump. La forza di Biden e Sanders sta nel fatto che – al momento – sembrano i due più adatti a recuperare l’elettorato-chiave del 2016: quelle frange di classe operaia (maschi e bianchi, appunto) che dopo aver votato Obama si erano spostati su Trump. La fascia «rosso-blu» del Midwest, gli Stati in bilico della Rust Belt (la cintura della ruggine, aree di vecchia industrializzazione colpite dalla concorrenza messicana o cinese): Michigan, Ohio, Wisconsin, Pennsylvania. Biden coltiva l’immagine dell’uomo venuto dal popolo, colletto blu per estrazione sociale. Sanders punta tutto sui diritti economico-sociali, agita i temi di una sinistra classica, «sindacale».
La nazione giovane per eccellenza dei Kennedy, Obama, Zuckerberg sembra puntare su una gerontocrazia di maschi bianchi Biden e Sanders rappresentano però due opzioni molto diverse. Sono le scelte di fondo che il partito democratico deve fare in questi mesi. Biden ha governato per otto anni al fianco di Obama e rappresenta una tradizione moderata, centrista. Anche se Obama ha preannunciato che non darà endorsement durante le primarie, e la sua Fondazione cerca di allevare una nuova leva di dirigenti giovani, il suo ex-vicepresidente può ammantarsi del carisma di una figura politica amata e rimpianta. Con dei ma: la sinistra radicale sta sottoponendo a un severo bilancio i due mandati di Obama. Dopotutto la nascita di un populismo di destra è legata alle due riforme, o mancate rifor-
Il Russiagate avrebbe preso tutt’altra piega se tutti gli ordini di Donald Trump fossero stati eseguiti
Joe Biden, 76 anni, ha governato l’America al fianco di Obama per otto anni. (AFP)
me, di quegli anni: il maxi-salvataggio delle banche di Wall Street senza sanzioni reali contro i banchieri; una riforma sanitaria incompiuta che ha lasciato tanti problemi irrisolti. Biden aggiunge agli handicap i sospetti di sessismo, sia per il suo ruolo nel salvare il giudice costituzionale Clarence Thomas dalle accuse di molestie sessuali di Anita Hill (1991), sia per episodi di eccessiva intimità rinfacciati da alcune donne del suo partito. Sanders punta a surclassare l’exploit del 2016 cioè un’insurrezione della base che sposti l’asse del partito, mobilitando i giovani che spesso non votano. Le sue proposte più radicali abbracciano il Green New Deal lanciato dalla deputata Alexandria Ocasio-Cortez: un vasto programma di investimenti pubblici per riconvertire l’economia americana a zero emissioni. E il Medicare For All, che traghetterebbe gli Stati Uniti verso un sistema sanitario nazionale a gestione pubblica, sul modello europeo. Tutti e due cercheranno di sottrarre voti operai a Trump con politiche più aggressive su immigrazione e globalismo. Prenderanno le distanze dalle multinazionali e dalle frange della sinistra radicale che predicano le frontiere aperte. Sull’immigrazione il ripensamento della sinistra americana è confermato da opinionisti come Thomas Friedman del «New York Times», il primo a spezzare il tabù sul Muro («è utile, se accompagnato da altre politiche») e David Frum il cui saggio-shock appare su «The Atlantic» col titolo: Quando l’immigrazione è troppa? Se i progressisti non controllano le frontiere, lo faranno i fascisti. Com’è inevitabile in questa fase di selezione darwiniana, assisteremo ad un gioco al massacro: la sinistra ancor più della destra eccelle nello sport di far fuori i propri compagni… per poi far vincere l’avversario. Su Biden si scatenerà il fuoco del movimento femminista #MeToo ma non solo quello. Ho sentito dei giovani nei campus californiani dire: «I draw a line with
Biden». Tradotto: l’ex vicepresidente è una linea rossa, di demarcazione, se il partito democratico lo candida io non vado a votare. È un atteggiamento che nel 2016 contribuì a portare Trump alla Casa Bianca. I Millennial e la Generazione X quattro anni fa si entusiasmarono per Sanders. Visto che le primarie incoronarono la Clinton, molti giovani il giorno dell’elezione rimasero a casa. Oppure votarono per la candidata dei Verdi, che disperse circa il 2% dei voti: più che sufficienti a far vincere Trump. La sinistra «purista» ha questo dono, sa lavorare alacremente per rimanere all’opposizione. Ci sono anche dei puristi che hanno da ridire su Sanders. Già gli rinfacciano di essere entrato nel «club dell’un per cento»: grazie ai diritti d’autore sui suoi libri, il senatore del Vermont è diventato un «ricco». Poca cosa rispetto a Trump, ma la polizia etica del politically correct ci trova da ridire. I maggiori attacchi però per Sanders verranno da tutt’altra parte. Trump ha già detto che se passa un candidato della sinistra socialista, gli Stati Uniti diventeranno come il Venezuela di Maduro. Qualcuno è rimasto sorpreso che la Fox News (tv di destra) abbia invitato proprio Sanders per la prima tribuna elettorale in formato town-hall. Forse Trump sogna un avversario come Sanders per impallinarlo alla fine, demonizzando le sue proposte e spaventando anche i centristi del partito democratico.
Il gioco al massacro non risparmia i candidati «minori», cioè tutti gli altri. Kamala Harris, per esempio: la senatrice della California partiva col vantaggio di essere donna e di discendenza etnica mista; ma l’ala sinistra del suo partito proprio in California non le perdona di essere stata un severo ministro della Giustizia in quello Stato, con una linea dura contro il crimine. Un altro finito nel tritacarne è Pete Buttigieg, ex sindaco di una città dell’Indiana. Giovane, gay dichiarato e sposato con un uomo, avrebbe tutto per piacere alla sinistra radicale. Però è accusato di non aver difeso un poliziotto nero dal razzismo dei suoi colleghi, e rischia di alienarsi un elettorato cruciale come quello afro-americano. Da Elizabeth Warren a Kirsten Gillibrand, da Beto O’Rourke a Amy Klobuchar, tutti gli altri hanno lo stesso problema: se il partito democratico si caratterizza come una coalizione di minoranze suscettibili e permalose, sempre gonfie di risentimento per i torti subiti, ciascuno dei candidati sarà attaccabile per qualche manchevolezza del suo passato. Trump è un presidente tutt’altro che forte. Il suo livello di consensi ha oscillato tra un massimo del 45% e un minimo del 35%. Non dovrebbe essere difficile sconfiggerlo. Ma può ripetere il miracolo del 2016 se ricompatta la minoranza di americani che lo votò allora. Anche la questione dell’impeachment, rischia di risolversi in suo favore: per
Trump è stato salvato dall’impeachment grazie ai tanti «no» dei suoi collaboratori. Rifiutandosi di eseguire ordini probabilmente illegali, gli insubordinati del suo staff hanno evitato in extremis che il presidente scivolasse nel reato da interdizione, «ostruzione della giustizia». E così facendo, forse, hanno anche salvato lo Stato di diritto nella più antica delle democrazie liberali. Le letture divergono, tra chi (a destra) sottolinea come Robert Mueller non abbia trovato il presidente colpevole di reati da impeachment – la collusione coi russi – e chi invece (a sinistra) sottolinea la conclusione più problematica di quell’istruttoria: il passaggio in cui Mueller dice di «non poter proclamare l’innocenza del presidente» sul reato di ostruzione della giustizia. Il Rapporto delega la vera conclusione alla Camera, dove i democratici sono divisi sul da farsi. Il Russiagate avrebbe preso tutt’altra piega, se tutti gli ordini di Trump fossero stati eseguiti. Quello che emerge dalle 448 pagine del Rapporto Mueller, è il quadro di una Casa Bianca nel caos, dove la catena di comando spesso gira a vuoto. In particolare un episodio, avvenuto nel giugno 2017 tra il presidente e colui che all’epoca era il massimo consigliere legale della Casa Bianca, Donald McGahn. Trump ordinò a McGahn di far licenziare Mueller accusandolo di «conflitti d’interessi». McGahn, un giurista rispettato come lo stesso Mueller, rifiutò di eseguire l’ordine. Se Mueller fosse stato cacciato nel bel mezzo della sua indagine, con ogni probabilità Trump oggi sarebbe imputato di ostruzione alla giustizia. La lettura ottimista di queste insubordinazioni conclude che la liberaldemocrazia americana è sana, continua ad avere degli anticorpi che impediscono derive illiberali. C’è una lettura pessimista nella sinistra radicale: se il Congresso non esercita il suo dovere di vigilanza, se non va in fondo alla questione concludendo la parte incompiuta dell’inchiesta Mueller, allora non è più vero che la legge si applica a tutti e lo Stato di diritto ne esce indebolito. Oggi è su questo che il partito democratico si spacca. La presidente della Camera Nancy Pelosi, e con lei la maggioranza moderata dei democratici, pensano che perseguire l’impeachment sarebbe un errore e potrebbe favorire la rielezione di Trump.
Il peso di un passato mai superato segue da pagina 1
Allora come oggi i singalesi erano in maggioranza ma a quei tempi senza potere, e sulla spinta di un crescente sciovinismo forgiarono un’identità che poteva crescere solo in contrapposizione agli altri gruppi etnici e religiosi. Questa violenta volontà di affermazione dei singalesi, che si sentivano e si sentono superiori agli altri, portò a scontri dapprima con i cristiani (1883), poi con i musulmani
(1915) quindi con i malay indiani negli anni Trenta, infine con i tamil autoctoni, culminati con i massacri del «luglio nero» del 1983, in cui vennero uccisi a migliaia dopo la prima azione militare delle Tigri di Prabhakaran. Ma non fermiamoci qui: accanto a queste tensioni etnico-religiose, dobbiamo registrare le repressioni avvenute durante la presidenza di Mahinda Rajapaksa (che stroncò le
Tigri al prezzo di migliaia di vittime civili, tamil ovviamente), che nella società singalese comportarono anche l’assassinio di innumerevoli giornalisti indipendenti e alla fine la chiusura dell’unico giornale indipendente, «The Sunday Leader», il cui direttore Lasantha Wickrematunge venne rapito e ucciso e i colpevoli mai trovati. Dunque: Sri Lanka, la perla o la lacrima dell’Oceano indiano? / PS
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Politica e Economia
Riforma fiscale: nuovo tentativo con l’AVS Votazione federale 19 maggio 2019 Un anno dopo la bocciatura popolare, la revisione
dell’imposizione delle imprese torna in votazione, questa volta associata a misure di contenimento del deficit del fondo per il primo pilastro Alessandro Carli Il 19 maggio prossimo, gli Svizzeri dovranno pronunciarsi ancora una volta sulla riforma fiscale delle imprese, contro cui è stato lanciato il referendum. Si tratta di una versione riveduta e corretta del progetto (Riforma III dell’imposizione delle imprese), respinto dal popolo nel febbraio del 2017, perché giudicato non abbastanza equilibrato. La Riforma della fiscalità delle imprese si rende necessaria in seguito alla prevista abolizione dell’imposizione privilegiata delle holding e di altre società straniere, un passo che la Svizzera deve compiere su pressione internazionale. Stavolta, però, si è pensato bene di abbinare la nuova riforma a un’indispensabile iniezione nell’AVS di circa 2 miliardi di franchi supplementari all’anno per contribuire a garantire le rendite, dato che i beneficiari sono sempre più numerosi (vedi articolo di Bonoli a pagina 28). Un versamento necessario che dovrebbe dunque convincere i cittadini ad approvare finalmente anche la riforma fiscale delle imprese, qualcuno pur «turandosi il naso». Frutto di un compromesso, la Legge federale concernente la riforma fiscale e il finanziamento dell’AVS (RFFA) permette – secondo i suoi sostenitori – di prendere due piccioni con una fava: garantisce un’imposizione delle imprese competitiva a livello internazionale e un sistema di previdenza affidabile. Insomma, una soluzione equilibrata per due problemi urgenti. Per gli avversari si tratta invece di uno stratagemma per convincere il popolo ad approvare un’ennesima riforma dell’imposizione delle imprese che «favorisce solo i super ricchi».
Secondo i giuristi dell’Ufficio federale di giustizia, l’unità della materia è preservata, secondo gli avversari no La posta in gioco resta la stessa di due anni fa: appunto a causa della pressione dell’Unione europea, la Svizzera deve rinunciare agli statuti fiscali speciali (privilegi fiscali) accordati a 24’000 società che operano prevalentemente a livello internazionale. Queste società impiegano in Svizzera circa 150’000 persone, garantendo alla Confederazione più o meno la metà e ai Cantoni e Comuni un quinto delle imposte delle persone giuridiche. Per queste imprese, private dei privilegi fiscali, le imposte aumenteranno. Ma attenti a non sopprimere la gallina dalle uova d’oro! Così, per attenuare l’incremento dell’onere fiscale sono previsti nuovi alleviamenti, come un sistema di patent box, che consentirà di ridurre l’imponibilità degli utili da brevetti. Verrebbero accordate deduzioni supplementari per le attività di ricerca e di sviluppo. Inoltre, per evitare alla piazza economica svizzera, sempre a causa dell’abolizione dei privilegi fiscali, di perdere attrattiva, i Cantoni potranno ridurre di propria iniziativa l’aliquota sull’utile per tutte le imprese. A titolo di compensazione – ed è questa la principale misura fiscale della RFFA – la Confederazione verserà loro circa un miliardo di franchi, attraverso un aumento dal 17% al 21,2% della quota cantonale sul gettito dell’imposta federale diretta (IFD). Dal canto loro, i
La nuova riforma fiscale è un classico compromesso: agli sgravi si associano maggiori entrate per l’AVS per 2 miliardi di franchi all’anno. (Keystone)
Cantoni saranno tenuti a indennizzare le città e i Comuni per le eventuali ripercussioni derivanti dalle riforme cantonali. La facoltà dei Cantoni di ridurre l’aliquota sull’utile – secondo il comitato referendario – genererebbe una pericolosa corsa al dumping fiscale intercantonale. A breve termine, per Confederazione, Cantoni e Comuni si stima che le misure fiscali comportino minori entrate pari a circa 2 miliardi di franchi all’anno. Sul medio-lungo termine le entrate sarebbero però più elevate rispetto a quelle che si otterrebbero rinunciando alla riforma. Per il presidente della Confederazione e ministro delle finanze Ueli Maurer, la perdita di oggi è un investimento per il futuro che, oltre a garantire la certezza del diritto, rafforzerà l’attrattiva della piazza economica elvetica, contribuendo a creare posti di lavoro e quindi benessere. La concorrenza fiscale internazionale – ha ricordato il consigliere federale UDC – si è rafforzata negli ultimi anni. Da qui l’esigenza di mantenere il passo, anche per preservare il substrato fiscale attuale. La campagna per il sì alla RFFA è sostenuta da un’ampia alleanza di partiti e organizzazioni economiche di cui fanno parte PLR, PPD, PBD e Partito evangelico, nonché economiesuisse e l’Usam. Anche il Partito socialista, pur non unito, è sceso in campo per sostenere il progetto di legge che – secondo i sondaggi – otterrebbe una debole maggioranza. L’UDC ha invece deciso di lasciare libertà di voto. Come due anni fa, la messa in guardia dei fautori resta la stessa: se la riforma fosse bocciata, le imprese svizzere attive all’estero sarebbero esposte a sanzioni e a doppie imposizioni. Sta di fatto che il cittadino è ancora una volta confrontato con una materia complessa (il testo in votazione contempla 15 pagine di tecnica fiscale) dai risvolti finanziari, economici e sociali. Non riuscendo a capacitarsi e senza dati attendibili, il Sovrano potrebbe nuovamente rinviare tutto al mittente, anche se la
necessità di sostenere l’AVS dovrebbe far pendere la bilancia in favore della RFFA, che riprende parte degli sgravi fiscali della Riforma III. La sinistra aveva sparato a zero contro quest’ultima, contribuendo al suo affossamento (59,1% di no) da parte del popolo nel febbraio del 2017. Una parte degli argomenti di allora sono ripresi oggi da coloro che, nel campo rosso-verde, chiedono ancora di respingere la nuova versione del progetto. Denunciano i regali fiscali ai più ricchi e il citato dumping fiscale intercantonale. Per i Verdi, la riforma andrebbe solamente a favore degli azionisti delle imprese più redditizie. Accettarla significa creare un buco miliardario, con conseguenti tagli nelle prestazioni per l’aiuto sociale o l’istruzione e, non da ultimo, per la protezione del clima. Il PS si distanzia ora da questa campagna. La maggioranza dei socialisti è soddisfatta delle concessioni ottenute. Secondo loro, il Parlamento ha nettamente riveduto il progetto di due anni fa. Saranno applicate regole più severe all’imposizione dei dividendi e al rimborso delle riserve da apporti di capitale delle imprese, ciò che comporterà un maggior onere fiscale per gli azionisti. La riforma sottoposta in maggio al popolo non soltanto corregge il tiro in materia di fiscalità delle imprese – tiene infatti conto delle esigenze espresse nella campagna del 2017, sia da Cantoni e Comuni, sia da sinistra e sindacati, per i quali privilegiava eccessivamente le società a scapito dei lavoratori –, ma vi associa anche una componente sociale: propone di versare 2 miliardi di franchi supplementari all’AVS. Molti si chiedono quale sia il nesso tra fiscalità delle imprese e primo pilastro. Orbene, Ueli Maurer garantisce che, secondo una perizia dell’Ufficio federale di giustizia, l’unità della materia è preservata. A suo dire, si tratta di un tipico compromesso alla Svizzera, senz’altro migliore di un «no» alle urne. Tornando all’AVS, l’invecchiamento della popolazione sta provocan-
do un problema di finanziamento. Senza interventi, tra dieci anni il capitale del fondo di compensazione sarà prosciugato. La riforma in votazione mira proprio a evitare che si formi questa voragine, versando 2 miliardi di franchi supplementari per anno in cambio di ogni franco di sgravio alle imprese. A un aumento degli importi minimi degli assegni familiari, come proponeva il Consiglio federale, le Camere hanno dunque preferito un pacchetto sociale più ampio. Dei 2 miliardi, 800 milioni saranno versati dalla Confederazione e l’importo residuo sarà a carico delle imprese e degli assicurati. I contributi all’AVS saranno leggermente aumentati per la prima volta in 40 anni. L’aliquota di contribuzione sarà aumentata di 0,15 punti per i datori di lavoro e per i lavoratori. Il progetto è giudicato equilibrato, poiché assicura le pensioni senza un aumento dell’IVA. Questa misura permetterà all’AVS di prendere fiato. La minaccia dei deficit grava pesantemente sull’assicurazione. Gli ultimi tentativi di riforma sono però falliti: il decreto federale sul finanziamento supplementare dell’AVS mediante l’aumento dell’IVA (50,05% di no) e la legge sulla riforma della previdenza per la vecchiaia 2020 (52,7% di no) sono stati respinti nella votazione popolare del 24 settembre 2017. Anche questa volta le critiche non mancano. Gli oppositori di sinistra alla RFFA sostengono che non si tratta di una vera compensazione sociale, dato che i pensionati non ricevono il becco di un quattrino. Ma è da destra che le critiche sono più forti. Una parte dell’UDC e i Verdi liberali definiscono un ricatto bello e buono la presentazione di un pacchetto con due progetti (AVS e fiscalità) che non hanno nulla in comune: non si può bocciarne uno senza mandare tutto alle ortiche. Ma non è tutto: le misure previste impedirebbero una vera riforma del primo pilastro e avverrebbero a scapito della classe media. Dei 2 miliardi destinati all’AVS, 1,2 proverrebbero infatti da un aumento
dei contributi dei datori di lavoro e dei lavoratori. Durante i dibattiti parlamentari, l’UDC si è scagliata contro il «mercanteggiamento» costituito dalla nuova riforma. Tra gli oppositori più accaniti figuravano il capogruppo Thomas Aeschi (ZG) e la figlia del «patron» Christoph Blocher, Magdalena Martullo (GR). Ma non tutti i membri del partito la pensano allo stesso modo come, per esempio, il presidente dell’Unione svizzera delle arti e mestieri (USAM) JeanFrançois Rime. Alla fine, l’UDC ha rinunciato – come detto – a una parola d’ordine, evitando così di andare contro il suo ministro delle finanze Ueli Maurer che difende un «compromesso tipicamente elvetico». E fare compromessi – ricorda quest’ultimo – costituisce un punto di forza del nostro sistema politico, non di debolezza. Anche il capo del Dipartimento federale dell’interno, Alain Berset, ha sottolineato l’urgenza di intervenire sull’AVS, la principale assicurazione sociale elvetica che «contribuisce alla coesione sociale del Paese». Dal 2014, le entrate per l’AVS non coprono le uscite. I deficit che ne risultano – siamo a 2,7 miliardi di franchi – sono stati finora compensati dal buon andamento dei mercati finanziari, ma non nel 2018. Per garantire una pensione dignitosa anche nel prossimo futuro, e nell’attesa di una riforma strutturale già avviata col progetto AVS 21 che verrà presentato ancora quest’anno, il primo pilastro ha bisogno di un finanziamento ulteriore, ora chiesto ai cittadini attraverso la RFFA. Se quest’ultima fosse approvata il 19 maggio, il Governo adeguerà di conseguenza la riforma AVS 21. Se invece fosse respinta, il Consiglio federale non esclude – come già aveva annunciato nel 2017 – che all’estero vengano adottate misure nei confronti delle imprese svizzere. Inoltre, senza il finanziamento supplementare i problemi per l’AVS non farebbero che aumentare. A questo punto, per il cittadino la scelta appare obbligata.
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Idee e acquisti per la settimana
Ospiti di Monini
È in Umbria che Monini produce gli oli di oliva conosciuti nel mondo intero. Per Zefferino Monini, responsabile dell’azienda, non è solo il gusto dell’olio di oliva ad avere importanza. Nel moderno Frantoio del Poggiolo agli ospiti Migros ha servito uno dei suoi piatti preferiti Testo Claudia Schmidt; Foto Paolo Dutto
Lungo le strade di campagna attorno alla città umbra di Spoleto, da aprile a inizio maggio si possono vedere dei tavolini con dei contenitori, dove la gente del posto espone alla vendita gli asparagi selvatici appena raccolti. Il prodotto stagionale più tipico del periodo. Zefferino Monini, alla guida dell’omonimo impero dell’olio extra vergine di oliva, ha un palato affinato per i prodotti da frantoio ed è nel contempo un estimatore di tutti i frutti della sua terra. Per il pranzo con gli ospiti provenienti dalla Svizzera, il ritrovo è al «Frantoio del Poggiolo». I cuochi Monini hanno preparato gli strangozzi, una pasta tipica della regione a base di grano duro, acqua e uova, serviti con asparagi selvatici e olio extra vergine di oliva. «Adoro questi asparagi primaverili. Il loro sapore è particolare, molto più intenso di quello degli asparagi coltivati. Non crescono molto lontano da qui», ci racconta con entusiasmo Zefferino Monini. Apprezza i gusti decisi anche negli oli extra vergini di oliva. «Un buon olio extra vergine di oliva non è unicamente quello dal gusto mite e leggermente fruttato: ricorda il profumo dell’erba, ha un sentore speziato di pepe, con delle tendenze amarognole». Sebbene le note amarognole rappresentino una caratteristica qualitativa, dai consumatori vengono spesso fraintese come difetto. Il motivo: per molti decenni sono stati fatti sforzi per coltivare prodotti esenti da note amarognole, anche verdure. Così molte persone hanno perso l’abitudine a questi sapori.
Olio extra vergine di oliva Monini IGP Sicilia 500 ml Fr. 15.60
Olio extra vergine di oliva Monini Toscano IGP 500 ml Fr. 15.80
Presto 100 anni di tradizione familiare L’impresa a conduzione familiare fondata nel 1920 dispone oggi di filiali commerciali negli Stati Uniti e in Polonia. L’unica sede produttiva è comunque sempre rimasta in Umbria, a Spoleto. Zefferino e sua sorella Maria Flora sono la terza generazione a condurre l’impresa. Il moderno impianto di imbottigliamento riesce a confezionare più di 25 000 litri di olio ogni ora in una sola delle molteplici linee di confezionamento. Nel 2018 Monini ha prodotto 30,2 milioni di litri di olio. A Spoleto la famiglia possiede oltre 25 ettari di uliveti, ne possiede anche in altre regioni d’Italia e perfino un’ampia piantagione in Australia.
Il Frantoio del Poggiolo, il moderno oleificio Monini e la casa riservata agli ospiti si trovano non lontano dall’azienda.
L’olio di qualità non va cotto
Olio extra vergine di oliva Monini Bios 750 ml Fr. 17.80
Paolo Dutto
Olio extra vergine di oliva Monini GranFruttato 500 ml Fr. 9.80
Le note piuttosto amare dell’olio extra vergine di oliva derivano dai fenoli. Nell’olio extra vergine di oliva GranFruttato di Monini si evidenziano chiaramente all’assaggio. «Quest’olio, così come l’olio IGP Sicilia, in cucina andrebbe utilizzato solo a crudo come condimento e in ogni caso non andrebbe mai scaldato troppo. Ciò finisce per distrugge le sue preziose proprietà salutari e le ottime fragranze», ci dice Zefferino Monini. Versa alcune gocce di olio extra vergine di oliva sul dessert, una panna cotta. Sorprendentemente si abbina bene alle note speziate dell’olio. Zefferino Monini è cresciuto con l’olio extra vergine di oliva. Siccome il nonno e il padre lavoravano fino a tardi, Zefferino e sua sorella dopo la scuola andavano sempre in azienda, dove lui assisteva alle degustazioni: «A un certo punto ho iniziato a imitare mio nonno e il suo modo di degustare l’olio». Oggi nessun olio viene acquistato senza l’assaggio qualificato di Zefferino, che degusta personalmente ogni olio assieme al suo team. Ma non ci si affida esclusivamente al sapore. In un laboratorio all’avanguardia i chimici possono rintracciare e analizzare ogni elemento contenuto nell’olio e la relativa quantità. Ma gli oli extra vergini che provengono dal moderno frantoio del Poggiolo servono anche a scopo di ricerca. È infatti in questo modo che Monini riesce a migliorare costantemente i suoi oli. E che porta a continue buone valutazione dei suoi prodotti in test indipendenti effettuati nel mondo intero.
Gli strangozzi con asparagi selvatici sono conditi con un filo di olio di oliva. Importante: affinché conservi gli aromi, l’olio di oliva va aggiunto a crudo.
Mentre l’olio extra vergine di oliva «Classico» e «Delicato» sono adatti sia per condire che per cucinare, gli oli di qualità superiore come il «GranFruttato» o gli oli provenienti da una singola zona di produzione, come il «Monini Toscano IGP» o l’«IGP Sicilia», sono perfetti per accompagnare insalate e da utilizzare a crudo.
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Idee e acquisti per la settimana
Ospiti di Monini
È in Umbria che Monini produce gli oli di oliva conosciuti nel mondo intero. Per Zefferino Monini, responsabile dell’azienda, non è solo il gusto dell’olio di oliva ad avere importanza. Nel moderno Frantoio del Poggiolo agli ospiti Migros ha servito uno dei suoi piatti preferiti Testo Claudia Schmidt; Foto Paolo Dutto
Lungo le strade di campagna attorno alla città umbra di Spoleto, da aprile a inizio maggio si possono vedere dei tavolini con dei contenitori, dove la gente del posto espone alla vendita gli asparagi selvatici appena raccolti. Il prodotto stagionale più tipico del periodo. Zefferino Monini, alla guida dell’omonimo impero dell’olio extra vergine di oliva, ha un palato affinato per i prodotti da frantoio ed è nel contempo un estimatore di tutti i frutti della sua terra. Per il pranzo con gli ospiti provenienti dalla Svizzera, il ritrovo è al «Frantoio del Poggiolo». I cuochi Monini hanno preparato gli strangozzi, una pasta tipica della regione a base di grano duro, acqua e uova, serviti con asparagi selvatici e olio extra vergine di oliva. «Adoro questi asparagi primaverili. Il loro sapore è particolare, molto più intenso di quello degli asparagi coltivati. Non crescono molto lontano da qui», ci racconta con entusiasmo Zefferino Monini. Apprezza i gusti decisi anche negli oli extra vergini di oliva. «Un buon olio extra vergine di oliva non è unicamente quello dal gusto mite e leggermente fruttato: ricorda il profumo dell’erba, ha un sentore speziato di pepe, con delle tendenze amarognole». Sebbene le note amarognole rappresentino una caratteristica qualitativa, dai consumatori vengono spesso fraintese come difetto. Il motivo: per molti decenni sono stati fatti sforzi per coltivare prodotti esenti da note amarognole, anche verdure. Così molte persone hanno perso l’abitudine a questi sapori.
Olio extra vergine di oliva Monini IGP Sicilia 500 ml Fr. 15.60
Olio extra vergine di oliva Monini Toscano IGP 500 ml Fr. 15.80
Presto 100 anni di tradizione familiare L’impresa a conduzione familiare fondata nel 1920 dispone oggi di filiali commerciali negli Stati Uniti e in Polonia. L’unica sede produttiva è comunque sempre rimasta in Umbria, a Spoleto. Zefferino e sua sorella Maria Flora sono la terza generazione a condurre l’impresa. Il moderno impianto di imbottigliamento riesce a confezionare più di 25 000 litri di olio ogni ora in una sola delle molteplici linee di confezionamento. Nel 2018 Monini ha prodotto 30,2 milioni di litri di olio. A Spoleto la famiglia possiede oltre 25 ettari di uliveti, ne possiede anche in altre regioni d’Italia e perfino un’ampia piantagione in Australia.
Il Frantoio del Poggiolo, il moderno oleificio Monini e la casa riservata agli ospiti si trovano non lontano dall’azienda.
L’olio di qualità non va cotto
Olio extra vergine di oliva Monini Bios 750 ml Fr. 17.80
Paolo Dutto
Olio extra vergine di oliva Monini GranFruttato 500 ml Fr. 9.80
Le note piuttosto amare dell’olio extra vergine di oliva derivano dai fenoli. Nell’olio extra vergine di oliva GranFruttato di Monini si evidenziano chiaramente all’assaggio. «Quest’olio, così come l’olio IGP Sicilia, in cucina andrebbe utilizzato solo a crudo come condimento e in ogni caso non andrebbe mai scaldato troppo. Ciò finisce per distrugge le sue preziose proprietà salutari e le ottime fragranze», ci dice Zefferino Monini. Versa alcune gocce di olio extra vergine di oliva sul dessert, una panna cotta. Sorprendentemente si abbina bene alle note speziate dell’olio. Zefferino Monini è cresciuto con l’olio extra vergine di oliva. Siccome il nonno e il padre lavoravano fino a tardi, Zefferino e sua sorella dopo la scuola andavano sempre in azienda, dove lui assisteva alle degustazioni: «A un certo punto ho iniziato a imitare mio nonno e il suo modo di degustare l’olio». Oggi nessun olio viene acquistato senza l’assaggio qualificato di Zefferino, che degusta personalmente ogni olio assieme al suo team. Ma non ci si affida esclusivamente al sapore. In un laboratorio all’avanguardia i chimici possono rintracciare e analizzare ogni elemento contenuto nell’olio e la relativa quantità. Ma gli oli extra vergini che provengono dal moderno frantoio del Poggiolo servono anche a scopo di ricerca. È infatti in questo modo che Monini riesce a migliorare costantemente i suoi oli. E che porta a continue buone valutazione dei suoi prodotti in test indipendenti effettuati nel mondo intero.
Gli strangozzi con asparagi selvatici sono conditi con un filo di olio di oliva. Importante: affinché conservi gli aromi, l’olio di oliva va aggiunto a crudo.
Mentre l’olio extra vergine di oliva «Classico» e «Delicato» sono adatti sia per condire che per cucinare, gli oli di qualità superiore come il «GranFruttato» o gli oli provenienti da una singola zona di produzione, come il «Monini Toscano IGP» o l’«IGP Sicilia», sono perfetti per accompagnare insalate e da utilizzare a crudo.
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Politica e Economia
AVS: nuovo grosso deficit
Primo pilastro I 2,2 miliardi di perdite sono inferiori solo a quelli dell’anno di crisi 2008 e le prospettive
non sono incoraggianti. Un po’ di sollievo ci sarà se passa il progetto in votazione in maggio. In agosto la nuova riforma. Intanto, sorgono problemi anche per l’Assicurazione Invalidità
Ignazio Bonoli Anche per il 2018 l’AVS deve annunciare una perdita di 2,2 miliardi di franchi. Preoccupa il fatto che un risultato negativo viene annunciato ormai per la quinta volta consecutiva. Questo conferma una tendenza di fondo che vede l’AVS sempre più in difficoltà nel rifocillare il conto che deve garantire almeno un anno dei contributi da versare ai pensionati. In termini monetari, per lo scorso anno questo si traduce nel fatto che i contributi versati dagli assicurati attivi sono stati di 1,04 miliardi di franchi inferiori alle rendite percepite. Se nel 2017 i rendimenti del fondo AVS (oggi detto Compenswiss) sono stati sufficienti a coprire una perdita analoga, nel 2018 non lo sono più stati. Già in febbraio Compenswiss aveva avvertito che negli investimenti si registrava una perdita di 1,2 miliardi. Oggi abbiamo i dati concreti della perdita dell’AVS nel 2018, che è stata di 2,2 miliardi di franchi. Solo nell’anno della crisi finanziaria del 2008 si era registrato una perdita superiore. Sui mercati dei capitali erano, infatti, andati persi circa 4 miliardi di franchi. Le cifre sono importanti, ma confrontate con il totale delle spese dell’AVS nel 2018 si tratta in sostanza del 5%. Le uscite sono state, infatti, pari a 44 miliardi di franchi, la maggior parte delle quali è dovuta al pagamento delle rendite. Le spese d’amministra-
zione sono state di circa 200 milioni di franchi. Impressionante è però il ritmo d’aumento delle uscite totali. Solo a partire dal 2013 le spese dell’AVS sono aumentate del 10%, salendo da 40 a 44 miliardi di franchi. Si valuta inoltre che questo aumento tenderà ad accelerare. Secondo le proiezioni, entro il 2023, le spese saliranno a 49,4 miliardi di franchi, ma nei successivi cinque anni raggiungeranno la cifra di 57 miliardi. Si constata, infatti, che durante questi anni giungeranno all’età di pensionamento i figli del cosiddetto «baby boom». Secondo lo scenario di riferimento dell’Ufficio federale di statistica, il numero di donne e uomini che raggiungeranno l’età di pensionamento di 65 anni e oltre salirà nel 2035 da 1,6 a 2,4 milioni. A quel punto, l’evoluzione demografica, cioè l’invecchiamento della popolazione, si ripercuoterà pienamente sui conti dell’AVS. Non solo, ma se fino a pochi anni fa le cifre di previsione dell’AVS potevano essere considerate piuttosto pessimistiche, oggi sono invece piuttosto precise. Infatti, per il 2018 il divario tra contribuenti e beneficiari di rendite era stimato in 1,032 miliardi, nella realtà è risultato di 1,038 miliardi di franchi. Risultati e proiezioni sottolineano la necessità di una riforma del primo pilastro. Che non può consistere solo nel pacchetto su cui si andrà al voto il 19 maggio. Si tratta in ogni caso di una
L’invecchiamento della popolazione sta accelerando, in Svizzera. (Keystone)
iniezione di soldi benvenuta, soprattutto perché accompagnata da un aumento dello 0,3% dei contributi sui salari a carico di dipendenti e datori di lavoro. Gli introiti previsti basteranno a riportare in attivo i bilanci dell’AVS solo
fino al 2022, mentre oggi il fondo AVS si vede costretto a vendere ogni mese titoli in misura di 125 milioni, al fine di disporre della necessaria liquidità. Nel prossimo mese di agosto, il Consiglio federale prevede di sotto-
porre alle Camere il nuovo messaggio per la riforma dell’AVS. Esso prevede in particolare un ulteriore aumento delle entrate attraverso l’IVA, mentre si cercherà per l’ennesima volta di parificare l’età di pensionamento di donne e uomini a 65 anni. Un primo passo per quello che sarà probabilmente un generale aumento dell’età di pensionamento, come già avvenuto in parecchi altri paesi. Ma gli appelli ai contribuenti per salvare le istituzioni sociali non finiscono qui. Anche l’Assicurazione contro l’invalidità (AI), per la prima volta dopo il 2011, chiude i conti con un passivo di 65 milioni di franchi, su un totale di uscite di 9,3 miliardi. La riforma del 2009 prometteva conti in pareggio e dal 2011 l’AI riceveva un miliardo di franchi, grazie a un supplemento di imposta. Supplemento che però è terminato nel 2017. La cosa preoccupa anche l’AVS, poiché il suo fondo è ancora creditore di 10,3 miliardi dall’AI, e non sono prevedibili ammortamenti nei prossimi anni. L’Ufficio federale delle assicurazioni sociali continua a prevedere un’estinzione del debito nel 2030. Ipotesi piuttosto ottimistica, considerato che si riflette ancora su come risanare l’AI. Alcune riforme sono state fatte, quella sulla riduzione delle indennità ai minori è in corso, ma se si decideranno nuovi finanziamenti esterni, la volontà di risanare potrebbe venir meno. Annuncio pubblicitario
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Politica e Economia
Sostituire il vecchio riscaldamento: pianificazione e finanziamento ottimali La consulenza della Banca Migros
Jeannette Schaller
Jeannette Schaller è responsabile della pianificazione finanziaria alla Banca Migros
Se interrogati sul tema della sostituzione degli impianti di riscaldamento, i proprietari di immobili danno risposte che gettano luce sul problema. Qual è stato il motivo che li ha spinti a sostituire la caldaia del vecchio impianto di riscaldamento a olio? Nella maggior parte dei casi i proprietari degli edifici si sono ritrovati ad affrontare una situazione di emergenza. Il caso classico: in una fredda giornata invernale il riscaldamento smette di funzionare e deve essere sostituito immediatamente. È invece consigliabile riflettere già in anticipo sull’intervento da realizzare, quando l’impianto di riscaldamento è in funzione da circa 15 anni. Può essere d’aiuto consultare siti web come ilprogrammaedifici.ch ed energiefranken.ch, oppure, a seconda del cantone, richiedere la consulenza energetica di Migrol. Quando si tratta di finanziare questi e altri interventi di risanamento, la Banca Migros sostiene i proprietari mediante l’agevolazione Eco sulle ipoteche fisse, a condizione che l’immobile soddisfi determinati standard energetici e sia destinato all’uso proprio. In questi casi la Banca Migros concede una riduzione sul tasso d’interesse pari allo 0,15% annuo per i primi cinque anni. In alternativa è possibile finanziare il risanamento o la ristrutturazione
Quando l’impianto di riscaldamento è in funzione da 15 anni, è tempo di pianificare una sostituzione. (Keystone)
anche con un prelievo anticipato del capitale dal pilastro 3a. In molti cantoni, in particolare, chi sceglie di ricevere gli averi previdenziali in versamenti scaglionati va incontro a oneri fiscali minori rispetto a chi preleva l’intero capitale in una soluzione unica. Sul piano fiscale si può beneficiare di un doppio vantaggio: gli investimenti per il risanamento energetico del ri-
scaldamento e dell’involucro dell’edificio sono fiscalmente deducibili, a partire dal 2020 addirittura sull’arco di tre anni. Va tuttavia ricordato che all’inizio dell’anno la Commissione dell’economia e dei tributi ha proposto l’abolizione di questa deduzione, insieme all’eliminazione dell’imposta sul valore locativo. In questo modo rischia di venire a mancare un importante
incentivo per i proprietari di immobili e una grande leva per favorire la protezione del clima. In Svizzera gli edifici sono infatti responsabili della metà del consumo totale di energia. Esistono ancora molti vecchi impianti di riscaldamento a olio che andrebbero sostituiti. E non solo quando smettono di funzionare in una fredda giornata invernale. Annuncio pubblicitario
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Politica e Economia
«Redditi di cittadinanza» o «rendite di residenza»?
Dibattito Analisi dei meccanismi di funzionamento delle misure di sostegno finanziario messe in atto in Italia
Edoardo Beretta Si è già avuto modo nell’articolo dal titolo Reddito e rendita, simili eppur diversi apparso sul numero 15 di «Azione» (2016) di trattare nel dettaglio la differenza fra i concetti economici di «rendita» e «reddito». Tale distinzione − fondamentale ma trascurata nelle decisioni di policy economica − non deve essere data per scontata in tempi in cui il dibattito mediatico ha occupato ampio spazio dedicato a temi come quelli del «reddito di cittadinanza». È questo il caso della vicina penisola italiana, che con decreto legge (D.L.) 4/2019 dal titolo Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni ha introdotto una misura di sostegno finanziario (rivolta al successivo reintegro nel mondo lavorativo) laddove in possesso di certi requisiti fra cui economici quali un ISEE (Indicatore di Situazione Economica Equivalente) aggiornato inferiore a 9360 Euro annui e patrimonio immobiliare (oltre a quello della casa di abitazione) non superiore a 30’000 Euro. Il tutto per un beneficio, il cui importo complessivo non può eccedere 780 Euro mensili. Si deve, però, dire che tale «reddito di cittadinanza» dovrebbe per le sue stesse caratteristiche essere ribattezzato in «rendita di residenza» come si andrà a breve ad illustrare. Salta an-
cora una volta all’occhio la profonda diversità che sussiste fra la nozione di «reddito» (che deriva solo ed esclusivamente da una nuova produzione di beni e servizi a vantaggio della Nazione nel suo complesso) rispetto appunto a quella di «rendita» (che implica invece il trasferimento di risorse economiche non nuove, ma preesistenti). Se il reddito arricchisce il Paese nella sua generalità aumentandone le risorse complessivamente disponibili, le rendite, alias i trasferimenti, non sono altro che un meccanismo a somma nulla, cioè il segno «meno» nel conto economico dell’uno (quale lo Stato ed i suoi contribuenti che cederanno risorse) è compensato dal segno «più» per chi li percepisce. In altri termini, ogni forma di sussidio, reddito minimo garantito (guaranteed minimum income nella terminologia internazionale) − pertanto, anche il cosiddetto «reddito di cittadinanza» – non è altro che un mero trasferimento di risorse, cioè «rendita», ma certamente non «reddito». Essere consapevoli di tale differenziazione è fondamentale, poiché in assenza di essa si potrebbe erroneamente pensare che simili forme di supporto statale saranno (perlomeno, direttamente) fonte di benessere economico: certamente, esse possono sì esserlo indirettamente laddove il beneficiario (ri)trovi presto un’occu-
pazione remunerata, che gli permetta di (re)integrarsi nei meccanismi lavorativi e di produrre egli stesso nuovo reddito, ma non possono certo esserlo per via diretta. È evidente che, se tale meccanismo di trasmissione (con cui un sussidio dovrebbe trasformarsi in incentivo occupazionale così da generare nuovo reddito) non dovesse per qualsivoglia ragione funzionare, la rendita rimarrebbe tale senza creare alcun effetto di PIL (cioè nuovo «reddito») per il Paese nel suo complesso. Tornando allo spunto di riflessione iniziale, non si può evitare di rimarcare che non soltanto tale «reddito» è in realtà una «rendita» ma anche che il concetto di «cittadinanza» deve essere altresì sostituito con quello di «residenza». Infatti, i requisiti della neo-introdotta misura lo confermano: perciò, uno dei criteri principali per accedervi − al di là dell’aspetto finanziario-patrimoniale − è proprio la «residenza», cioè quel «luogo in cui una persona vive abitualmente, formalmente indicato nei registri anagrafici comunali»1, e non la «cittadinanza», cioè quel «vincolo di appartenenza di un individuo a uno Stato». Infatti, come indicato alla pagina informativa del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, «[i]l richiedente deve essere cittadino maggiorenne italiano o dell’Unione Europea, oppure, suo familiare che sia titolare del diritto di
Figura tratta da: https://osservatoriocpi.unicatt.it/cpi-21_Redditto_cittadinanza. pdf con valori al 2016, mentre per l’Italia è preso in considerazione il Disegno di Legge del Movimento 5 stelle del 29 ottobre 2013 sul reddito di cittadinanza.
soggiorno o del diritto di soggiorno permanente o cittadino di Paesi terzi in possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo. È, inoltre, necessario essere residente in Italia per almeno 10 anni, di cui gli ultimi due in modo continuativo». Et voilà, ecco che il «reddito di cittadinanza» diviene necessariamente una «rendita di residenza». Solo un problema terminologico, quindi? Non necessariamente poiché − se da un lato la pericolosità di non differenziare fra «reddito» e «rendita» è già stata illustrata ampiamente − anche la mancata distinzione fra «cittadinanza» e «residenza» non pare cosa da poco: in caso contrario, gli italiani
residenti all’estero dovrebbero potere accedere a tali misure di sostegno semplicemente in forza della loro immutata cittadinanza. Cosa che, invece, non possono, sebbene proprio nelle scorse settimane da fonti importanti di Governo siano giunte rassicurazioni circa l’estensione agli italiani expat. Ancora una volta, pare quanto mai importante operare distinzioni lessicali al fine di inquadrare con altrettanta precisione ogni problematica in esame. Nota
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Dieci anni senza il segreto bancario Sono trascorsi dieci anni da quando, il 13 marzo 2009 per l’esattezza, il consigliere federale Merz annunciò ufficialmente che la Svizzera accettava lo standard dell’OCSE in relazione all’aiuto amministrativo in questioni fiscali. In altre parole il governo svizzero si impegnava a trasmettere alle autorità fiscali straniere informazioni relative ad eventuali depositi di loro contribuenti in banche svizzere. Fino ad allora, e per anni, la Svizzera si era rifiutata di seguire questa prassi, facendo valere che il diritto svizzero distingueva tra evasione e frode fiscale e che di conseguenza informazioni ad autorità fiscali straniere poteva essere concesso solo in caso di provata frode. Accettando di trasmettere informazioni sui clienti stranieri delle nostre banche il Consiglio federale decretava la fine del segreto banca-
rio che durava praticamente dagli anni Trenta del secolo scorso e aveva largamente contribuito, occorre riconoscerlo, allo sviluppo delle piazze finanziarie elvetiche, non da ultimo di quella ticinese. Forse qualche lettore si ricorderà che, alcune settimane prima di questo annuncio, l’UBS, che allora si trovava in cattive acque, dando seguito a una ingiunzione della FINMA, aveva trasmesso alle autorità fiscali degli Stati Uniti informazioni su 300 dossier di clienti senza attendere che fosse terminato il procedimento per la richiesta di aiuto. Lo aveva fatto per evitare di essere coinvolta, negli Stati Uniti, in un processo che avrebbe potuto mettere a rischio la sua sopravvivenza. Due anni dopo il Tribunale federale decideva che sull’ingiunzione della FINMA non c’era proprio niente da eccepire ro-
vesciando la decisione del Tribunale amministrativo federale che invece aveva sostenuto che la FINMA non aveva le competenze per prendere una simile decisione. Era la fine del segreto bancario. È noto come la situazione si sia poi sviluppata con la cosiddetta strategia del «denaro pulito» fino all’introduzione, con il primo gennaio 2017, delle norme giuridiche per lo scambio automatico di informazioni con le autorità fiscali straniere. Un tabù che sembrava intoccabile è così caduto per la pressione esercitata sulla Svizzera dagli Stati Uniti e dall’OCSE. Non sono mancate naturalmente le critiche contro queste decisioni. Più d’uno, e non soltanto nel mondo della finanza, ha sostenuto che le autorità svizzere avrebbero dovuto dimostrare maggiore resistenza contro le pressioni internazionali. Dall’altra parte
c’era però il rischio di finire sulla lista nera dei paradisi fiscali dell’OCSE e di incorrere così nelle sanzioni previste per chi non rispetta gli standard fiscali stabiliti da questa organizzazione. La fine del segreto bancario ha avuto conseguenze negative sullo sviluppo delle banche elvetiche. I capitali di clienti esteri sono diminuiti e diminuito è pure il contributo che le banche davano al valore aggiunto dell’economia elvetica. Per fortuna le banche sono riuscite a attutire il colpo sviluppando le attività con la clientela svizzera. La scomparsa del segreto bancario ha poi accelerato un processo di ristrutturazione del settore che si era avviato già da qualche anno. Così sono andati persi migliaia di posti di lavoro e si è manifestata una significativa erosione nei margini di guadagno. Due altri aspetti vengono
citati in relazione con la strategia cosiddetta del «denaro pulito». Da un lato le banche devono spendere somme significative per controllare che il denaro che viene depositato sia stato legalmente dichiarato. D’altra parte si afferma che il denaro pulito sia molto più mobile di quello che, prima, era coperto dal segreto bancario. Insomma le banche svizzere sono oggi obbligate ad agire in un quadro legislativo che rende loro più difficile conseguire dei guadagni sostanziosi. Un’ultima osservazione per quanto riguarda il Ticino. La riduzione della quota di valore aggiunto consentita dalle banche ha indotto in Ticino anche una diminuzione della produttività aggregata. È come se il motore dell’economia ticinese si fosse inceppato. Ma i lettori non si spaventino: sopravviveremo anche alla fine del segreto bancario.
«quelli di prima». Il governo resta popolare perché è ancora percepito dalla maggioranza degli italiani come l’espressione di «Noi» contro «Loro»: l’Europa, le banche, i globalisti, i migranti… Al ritmo di un nemico al giorno, leghisti e grillini si confermano abilissimi propagandisti. Certo, la realtà è un’altra cosa. Prima o poi le difficoltà dell’economia presenteranno il conto. La politica del governo è fallimentare su quasi tutti i fronti, a parte la stretta sugli sbarchi cominciata in parte già con Minniti (ma che ora rischia di essere vanificata dal precipitare della crisi libica). Però al momento né Forza Italia, né il partito democratico appaiono all’opinione pubblica come alternative credibili. La loro traversata del deserto sarà ancora lunga. Di Maio ha scelto di rispondere a Salvini con le sue stesse armi: colpo su colpo. Questo spiega i toni improvvisamente alti che caratterizzano la dialettica all’interno della maggioranza. I Cinque Stelle insistono: il sottosegretario Siri, indagato per
oscuri rapporti con personaggi in odore di mafia, deve dimettersi. La Lega risponde che a dimettersi dovrebbe essere semmai la sindaca di Roma, pluri-intercettata e pluri-indagata. Probabilmente il governo non cadrà però su questioni personali, ma su questioni economiche. Nessun partito vuole intestarsi la prossima legge di bilancio, destinata a divenire rapidamente impopolare. Per il momento però si litiga sui simboli più che sulla sostanza. Salvini ha rifiutato di celebrare la Liberazione dai nazifascisti. Certo, ha condannato la provocazione degli ultras della Lazio, che a Milano hanno srotolato uno striscione che inneggiava a Benito Mussolini; ma è chiaro che quegli ultras si sono sentiti incoraggiati da un leader politico che rifiuta di festeggiare il 25 aprile. All’evidenza, il leader della Lega considera quella data come una «cosa di sinistra», anche se molti resistenti erano monarchici, cattolici, liberali o semplicemente persone senza partito che dissero no al nazifascismo nei
molti modi in cui fu possibile dirlo. Ai Cinque Stelle del 25 aprile non importa molto più di nulla; ma ogni occasione è buona per segnare il territorio e tenere testa al leader emergente, accreditato nei sondaggi di un mostruoso 37 per cento. Forse, se alle Europee il partito democratico resterà inchiodato al 18 per cento delle Politiche, il suo leader Nicola Zingaretti sarà costretto a cercare alleati. E l’unico alleato possibile per la sinistra sono i Cinque Stelle, soprattutto se la competizione con la Lega si farà sempre più serrata. A quel punto Renzi, contrarissimo al dialogo con il movimento fondato da Beppe Grillo, avrà il pretesto per andarsene e formare un nuovo partito, che guardi al centro anche in vista dell’inevitabile declino di Berlusconi. L’impressione è che l’estrema destra leghista e il populismo grillino non abbiano ancora molta strada da fare insieme. Il prezzo che il Paese pagherebbe sarebbe troppo alto. Anche se gli italiani non sembrano rendersene conto.
ologie contrapposte e devastato da due tremende guerre mondiali. Il regime consociativo, inaugurato nel 1922 con l’ingresso del socialista Canevascini nella compagine governativa, è rimasto tale fino ai nostri giorni, ma il suo cammino non è mai stato quieto come forse sperava in cuor suo l’inventore della formula, il cattolico-conservatore Giuseppe Cattori. Il primo serio banco di prova l’offrì l’ascesa del fascismo. La parte moderata (cattolici e liberali) inclinava a giudicare positivamente la figura di Mussolini e le sue opere volte a riportare l’ordine nel paese. Ma proprio questa condiscendenza fu all’origine del dissidio ideale che nel 1934 portò alla nascita del Partito liberale radicale democratico ticinese, la frangia giovanile del movimento liberale attiva fin dal 1926, dalle colonne del giornale «Avanguardia». Furono proprio questi giovani antifascisti ad allertare l’opinione pubblica, e a denunciare pubblicamente le malefatte del Duce. La ricomposizione tra i due
tronconi avvenne solo a guerra finita, nel 1946, sullo slancio di una vittoria morale che subito dopo avrebbe portato all’intesa radico-socialista. La seconda grande scissione ebbe luogo cinquant’anni fa: il 27 aprile del 1969, a Mendrisio, vide la luce ufficialmente dalla costola intransigente del PST il Partito Socialista Autonomo. Uno sbocco che, anche in questo caso, era stato preparato negli anni precedenti da una testata giornalistica, il periodico «Politica Nuova» fondato nel 1965. Gli anni erano quelli effervescenti dei movimenti giovanili e studenteschi del maggio ’68; di lì a qualche mese, in Italia, sarebbe esploso l’«autunno caldo» dei lavoratori. Al vecchio PST la novella formazione rimproverava di aver smarrito per strada la sua originaria vocazione anticapitalistica. Partito «anti» (anticapitalista e antimperialista), il PSA si proponeva il «rovesciamento della struttura capitalista nella quale siamo inseriti».
Terza rottura: l’avvento della Lega dei Ticinesi, nel 1991. Ancora una volta aveva dissodato il terreno un giornale, «Il Mattino della Domenica». Qui l’obiettivo polemico era la casta, il potere delle grandi famiglie, i funzionari statali aggrappati alla mangiatoia, definiti «fuchi». Fortemente gerarchizzata al suo interno, retta da un «presidente a vita» (Giuliano Bignasca), la Lega riuscì nel giro di pochi anni ad incanalare le insoddisfazioni e le frustrazioni serpeggianti nel paese, e che i partiti tradizionali non avevano saputo intercettare. Queste, dunque, le tre fratture che hanno movimentato il Novecento politico ticinese, un campo di forze in buona parte riconfermato dalla tornata che abbiamo appena archiviato. E tra quattro anni, cosa succederà? Nel 2023 il corpo elettorale riproporrà il medesimo schema, con le solite, minime variazioni? Troppe le variabili in gioco per arrischiare ora congetture.
In&outlet di Aldo Cazzullo Leghisti e grillini ai ferri corti Il governo italiano sta cadendo a pezzi. L’alleanza di comodo tra leghisti e Cinque Stelle è sul punto di cedere. Qualcuno dice che tra le due forze che compongono la maggioranza sia in corso una schermaglia. Personalmente credo invece che i contrasti tra Lega e Cinque Stelle siano reali. Hanno elettorati diversi, e politiche economiche incompatibili. Non ci sono i soldi né per il reddito di cittadinanza né per la flat tax, figuriamoci per tutte e due le cose. Eppure alle Europee le
due forze di governo supereranno abbondantemente il 50 per cento. La cosa potrebbe apparire incredibile, vista la modestissima prova di molti ministri, e la situazione economica del Paese: la peggiore d’Europa. Però sia Salvini sia – in minor misura – Di Maio sono abili a non presentare la maggioranza di governo come un’alleanza, ma come una coabitazione tra diversi, uniti dall’avversione verso l’establishment europeo e nazionale, accomunati dal rigetto di
Di Maio e Salvini: una coabitazione più che un’alleanza. (Keystone)
Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti Uno stagno increspato di onde Elezioni cantonali 2019: ha dunque prevalso la stabilità, come più di un commentatore ha sostenuto? Il Ticino cantone immobile, vischioso, ancorato alla tradizione, che recepisce tardi i mutamenti che altrove provocano rivolte e sconquassi? A prima vista sembra questa un’interpretazione condivisibile. Nessun terremoto, solo piccole scosse di assestamento che non hanno alterato gli equilibri politici fondamentali. A prima vista, abbiamo detto; in realtà qualcosa si è mosso anche il 7 aprile. Movimenti sotterranei come per esempio l’avanzata della rappresentanza femminile (onda rosa), o come la rigenerazione degli ecologisti, giunti all’appuntamento dopo molti litigi interni e una deputazione spaccata (onda verde). O come, infine, la progressione delle frange di opposizione, posizionate ai due estremi opposti dell’«arco costituzionale»: a sinistra il MpS (eredi della Lega marxista rivoluzionaria) e il Partito comunista (onda
rossa); a destra, l’Unione democratica di centro, a lungo rimasta confinata nel cono d’ombra della Lega (onda grigia). Tra quattro anni sapremo se tutte queste piccole onde provocheranno una mareggiata, oppure no. Molto dipenderà da come evolverà il quadro nazionale e internazionale, dall’esito delle ormai imminenti elezioni europee, dalla piega che assumeranno le guerre commerciali in atto e, non da ultimo, dal grado di vitalità che le singole aree economiche sapranno esprimere. Il paesaggio politico ticinese è sempre stato una carta assorbente. Tutto quanto avveniva oltre i confini cantonali si ripercuoteva immediatamente all’interno, influenzando orientamenti, scelte programmatiche e persino il vocabolario. Pensiamo all’Ottocento: turbolento, punteggiato di risse, con la politica prigioniera della logica amiconemico. Oppure al Novecento, secolo «breve» ma tragico, avvelenato da ide-
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 29 aprile 2019 • N. 18
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Cultura e Spettacoli In gipsoteca Alla Gipsoteca Giudici di Lugano sono esposte le opere di Spector, Ferrario e Torriani
Una danza che non è una danza In maggio il Maestro giapponese Masaki Iwana sarà ospite di un workshop all’interno del Progetto Brockenhaus
Introspettiva Femminis Nel suo nuovo romanzo l’autrice ticinese Doris Femminis, si occupa di malattie psichiatriche
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Roedelius a Chiasso A Chiassoletteraria (1-5 maggio) anche il grande protagonista della musica ambient e krautrock Roedelius pagina 51
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I figli mentali di Theo Jansen Mostre A Milano le impressionanti
Strandbeest, bestie da spiaggia
Ada Cattaneo Theo Jansen (Scheveningen NL, 1948) racconta che il mare gli è sempre mancato, ogni volta che se ne è dovuto allontanare, soprattutto in quei sette anni all’università di Delft per studiare fisica. Fin da bambino, gli piaceva trascorrere il tempo sulle lunghe spiagge di fronte all’Aja, che si affacciano sul Mare del Nord. Comincia così la sua conferenza a Lugano, lo scorso 16 aprile, organizzata dalla Fondazione IBSA, che sostiene anche la mostra dell’artista presso il Museo della Scienza e della Tecnologia di Milano. Il pubblico ha iniziato dunque a fare conoscenza con questo autore anomalo, in perfetto equilibrio fra scienza ed arte. Solo più tardi egli è passato a raccontare la vicenda delle Strandbeest («animali da spiaggia»), fantastiche creature di sua invenzione, nate per sopravvivere sulle spiagge del nord, nutrendosi di vento. La verità è che, al termine degli studi, una forte delusione amorosa e l’idea di chiudersi in un istituto di ricerca scoraggiano Jansen dal proseguire la carriera universitaria, egli decide allora di seguire un’altra via. Intraprende l’attività artistica, dedicandosi alla pittura – che confessa di non avere mai abbandonato – e alla scrittura. Ma è solo nei primi anni Novanta che egli trova un modo alquanto suggestivo per coniugare le sue molteplici inclinazioni. L’idea è quella di sviluppare una nuova forma di vita basata su di un’unica sostanza, proprio come avviene con le proteine per gli esseri umani: Jansen sceglie semplici tubetti in PVC, facilmente reperibili, poco costosi e a lui ben noti fin dall’infanzia, quando li usava come cerbottana. Con questa umile materia, grazie alla ricerca durata quasi un trentennio, egli dà vita alle sue installazioni cinetiche. Dapprima si tratta di semplici strutture, che resistono solo pochi secondi alle intemperie. Ma presto si trasformano, grazie alla sperimentazione e a macchinosi calcoli per determinare la soluzione migliore, in creature complesse. Le Strandbeest hanno una loro propria genealogia che ne rispecchia l’evoluzione e oggi, dopo vari decenni di tentativi, sono in grado di muoversi sulla spiaggia senza tecnologie complesse, ma grazie al proprio «sistema nervoso»: curiose pale eoliche, una serie di bottiglie in plastica dove viene immagazzinato il vento, sensori che gli consentono di scappare dall’acqua e altro ancora.
Prima della conferenza luganese, Jansen ha risposto ad alcune domande per i lettori di «Azione». Da dove proviene l’ispirazione che ha dato vita alle Strandbeest?
Leonardo da Vinci, con le sue macchine, è stato sicuramente una fonte di ispirazione. Questo motiva anche la mia mostra al Museo della Scienza di Milano, dedicato proprio a Leonardo, di cui ricorrono i 500 anni dalla morte. Ma a parte questo, lo scienziato inglese Richard Dawkins è stato per me determinante: dopo avere letto i suoi libri, ne sono rimasto davvero impressionato. Allora ho cominciato a costruire i miei piccoli animali digitali e, in seguito, le Strandbeest. Inizialmente si trattava di creature esistenti solo sullo schermo, virtuali: cercavo soprattutto di determinare i criteri secondo i quali sarebbero potute sopravvivere nella vita reale. Il processo evolutivo era solo nel computer. In seguito sono passato alla loro realizzazione concreta.
Come avviene l’evoluzione di questa «specie animale»? È una selezione dettata dalla tecnica o piuttosto una scelta personale dell’autore?
Tutto è una questione tecnica, anche la nostra evoluzione. Per le Strandbeest, all’inizio tutto era incentrato esclusivamente su fattori tecnici, basati su criteri matematici. Un buon esempio è la struttura delle loro gambe, che gli permette di camminare sulla sabbia, a pelo d’acqua: ho scritto un programma che permettesse al computer di determinare l’anatomia delle articolazioni, la lunghezza degli arti e il loro movimento. La proporzione fra numeri che permette a questi esseri di muoversi è tutta matematica. Ma d’altro canto, in quest’ultimo periodo di evoluzione delle Strandbeest, ho contribuito in maniera più personale al loro sviluppo. Ho imparato dagli errori, soprattutto confrontandomi con gli elementi naturali della spiaggia. Se durante i test a bordo mare, riportano danni troppo importanti, decido per l’estinzione dell’esemplare, che a quel punto può essere esposto al pubblico. Quindi si tratta di un percorso molto pratico e concreto.
Molto pratico, non tanto basato sull’intelligenza, ma piuttosto sulla constatazione: «Proprio non funziona». E poi a un tratto osservi qualcosa, un dettaglio, un imprevisto e ti rendi conto che potresti imparare proprio da questo. Dalle situazioni che si creano sulla
Una suggestiva Strandbeest di Theo Jansen. (museoscienza.org)
spiaggia, ricavo degli insegnamenti che mi indicano come procedere. Possiamo chiamare le Strandbeest una forma di intelligenza artificiale?
No, non direi. L’intelligenza artificiale è qualcosa che si basa su computer e processi informatici di altissimo livello. Si tratta di sistemi molto complicati, che apprendono da se stessi e dalle proprie azioni. Il cervello delle Strandbeest, invece, è primitivo, molto più primitivo di quello dei dinosauri, che era davvero minuscolo. Forse potremmo parlare di una forma di «vita artificiale». Potrei definire questi esseri i miei «mental children»: li creo per la stessa ragione per cui si hanno dei figli. Non si sa perché, eppure non se ne può proprio fare a meno. Credo che non sia stato semplice farsi accettare nel sistema dell’arte, avendo una formazione scientifica.
È vero: finisci sempre per essere relegato in un’altra categoria, a sé. Se ti muovi entro più ambiti, se per esempio sei scrittore e pittore, i pittori diranno
sempre: «Beh, in effetti è uno scrittore, non è davvero uno di noi». Lo stesso faranno gli scrittori: «Sì, scrive bene, ma in definitiva è un pittore». La gente ha bisogno di metterti un’etichetta, di catalogarti. Le persone non vogliono rischiare, specialmente nel mondo dell’arte, dove c’è un curatore che deve scegliere l’artista e garantire per la sua qualità. Se non riscuote successo, è la sua stessa carriera a essere messa a repentaglio. Io ho smesso di preoccuparmi di queste dinamiche perché, mentre lavoro su quella spiaggia, le etichette di questo genere risultano del tutto irrilevanti. Tutti gli istituti di ricerca, i musei o le gallerie sono molto lontani, se riesci a godere di ciò che stai facendo. Fra le sue prime opere, c’era UFO, una sorta di versione artistica della Guerra dei mondi di Orson Welles. Può descrivercela?
Si trattava di un disco volante che feci volteggiare nel cielo di Delft. Per un’illusione ottica, risultava molto più grande del reale. Sì, era più o meno una versione
del lavoro di Orson Welles, trasformata però in un oggetto. Ci si potrebbe in effetti interrogare sulle ragioni di questo progetto artistico. Amo sempre l’equilibrio fra realtà e favola. Tutti i miei lavori sono in bilico fra questi due ambiti, anche le Strandbeest: si tratta di fantasia per quanto riguarda il mio tentativo di convincere che sto generando un nuovo animale, che può vivere nel mondo autonomamente. Al contempo, però, tutto è basato sulla realtà, perché funziona grazie a una sua logica fisica. Può sembrare un atteggiamento piuttosto pretenzioso, ma non se si considera il lato fantastico. UFO, a posteriori, significava solleticare l’immaginazione della gente. Lo stesso vale oggi per le Strandbeest. Dove e quando
Dream Beasts. Le spettacolari creature di Theo Jansen. Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia Leonardo da Vinci, Milano. Fino al 19 maggio 2019. museoscienza.org
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Cultura e Spettacoli
Sculture a colloquio
Insieme per sempre
Mostre Le opere di tre artisti ticinesi dialogano negli spazi della Gipsoteca Giudici di Lugano Cinema Immer
Alessia Brughera «Lo scultore ha come scopo fondamentale e nativo il perseguimento della forma, la quale vaga nella sua mente, ma sfugge talvolta alla sua mano attenta che cerca di afferrarla. Questo è il continuo tormento dello scultore, che, sollecitato dalla realtà oggettiva, si pone di fronte a essa con gesto provocatorio e di sfida»: è con tali parole che Gianluigi Giudici definiva l’essenza del suo lavoro di artista. Nato nel 1927 in un piccolo paese in provincia di Como poco distante dal confine elvetico, Giudici è stato, nei suoi oltre cinquant’anni di attività, un instancabile esploratore della forma e dello spazio, capace di maturare un profondo senso della plasticità attraverso cui penetrare il reale per restituirne una visione dalla grande energia espressiva. Il cammino artistico di Giudici si è evoluto per tappe: gli esordi dedicati alla lavorazione a cesello, quando era poco più che adolescente, lo hanno introdotto prima alla pratica dello sbalzo su rame, poi al basso e all’altorilievo, e infine, quale sbocco naturale, lo hanno accompagnato verso la scultura a tutto tondo. In questo percorso portato avanti con dedizione l’artista comasco ha sviluppato un linguaggio personale che ha toccato la figurazione così come l’astrazione, in una proficua contaminazione tra le due da cui sono scaturite soluzioni originali affinate nel tempo. Ecco allora da una parte i suoi corpi umani, semplificati e ridotti all’essenziale ma sempre saldi e ben eretti, a esprimere il dissidio tra lo stento del fisico e la resistenza dell’animo, dall’altra i suoi «organismi» composti dalla fusione armoniosa di forme primarie che generano strutture dal sapore arcaico, a simboleggiare un nuovo approccio all’interpretazione della realtà. E poi c’è l’arte sacra, capitolo importante della carriera di Giudici e ambito in cui, sebbene legato alle esigenze della committenza, egli ha saputo coniugare suggestioni antiche e intuizioni moderne. Allo scopo di conservare e far conoscere l’articolata produzione dell’artista, che tanto ha lavorato in Svizzera e soprattutto in Canton Ticino, è stata aperta a Lugano una gipsoteca a lui dedicata. Nell’itinerario espositivo di questo spazio trova posto una raccolta di pezzi, sessanta circa, costituita principalmente dalle opere in gesso dalle quali
hanno preso poi vita gli esiti in bronzo. Vocazione del neonato museo, però, è anche quella di organizzare rassegne di autori ticinesi contemporanei che con Giudici spartiscono l’affidarsi alla tridimensionalità e a una vibrante manipolazione della materia per dare corpo al proprio pensiero. Gli artisti invitati a partecipare al secondo appuntamento del ciclo di mostre intitolato Dialoghi di scultura sono Aldo Ferrario, Gabriela Spector e Gianmarco Torriani, chiamati anche a selezionare un lavoro da porre in stretta relazione con uno dei gessi di Giudici per favorire un colloquio diretto che possa far emergere i punti di contatto delle rispettive ricerche. Nelle opere di Aldo Ferrario, artista di Carona con alle spalle importanti esperienze a Zurigo e a Parigi, affiora il mai sopito interesse per l’uomo: i suoi lavori in bronzo dalla forte componente narrativa sono piccoli allestimenti di gruppo, quasi dei teatrini, in cui lo scultore mette in scena brani dell’esistenza per rivelare la dimensione intima dell’individuo. Anche nel legno, che grazie alla sua conformazione perpendicolare asseconda bene l’effigie del corpo umano, l’uomo diviene protagonista assoluto. Emblematica è quella Figuretta lignea del 2018 che Ferrario ha collocato in mostra accanto al San Francesco di Giudici, con cui condivide spinta ascensionale e vigore espressivo. La scultura come racconto è prerogativa anche della produzione di Gabriela Spector, artista argentina di nascita e ticinese dalla metà degli anni Novanta. Delicate ed evocative, le sue opere indagano il sentimento umano svelando in particolare, con una grazia tutta femminile, le difficoltà del legame tra uomo e donna. I suoi lavori presentati a Lugano sono stati realizzati in occasione della rassegna dopo aver sondato l’universo creativo di Giudici: ne sono nate sculture cariche di vissuto e di memoria in cui la lavorazione della materia, come accadeva per l’artista comasco, viene lasciata in evidenza, a suggellare attraverso le tracce depositate dalla mano l’unione tra autore e opera. È l’uomo in relazione alla madre terra a coinvolgere invece la ricerca di Gianmarco Torriani, artista eclettico e amante della sperimentazione che si è confrontato con diversi materiali e tecniche. Dopo gli studi a Brera, Torriani è
und ewig, il nuovo, toccante film di Fanny Bräuning Nicola Mazzi
Gianmarco Torriani, Terra compagna tradita, bronzo.
stato attivo per molti anni a New York e a Basilea, entrando in contatto con il fervido clima artistico delle due città. Le opere esposte in mostra sono significative delle tematiche sviluppate dallo scultore ticinese con il suo linguaggio metaforico, lavori incentrati sul rapporto sempre più conflittuale dell’individuo con la natura che lo circonda, tra prevaricazioni e tentativi di difesa. Terra compagna tradita, scultura in bronzo del 2008, esemplifica bene questo concetto: alcune teste umane sono intente a divorare il globo terrestre mentre paiono sprofondarci dentro,
dando luogo a un’inquietante visione che sprona a riflettere sulla condizione dell’uomo e sul suo ruolo nel mondo, proprio come ha sempre fatto Giudici nel suo lungo viaggio nell’arte plastica.
Meritato vincitore dell’undicesimo Premio di Soletta, il secondo documentario di Fanny Bräuning (già premiata con lo stesso premio nel 2009 per No More Smoke Signals) è un viaggio: nel tempo, nello spazio e alla scoperta dei propri genitori. La madre, Annette, è paralizzata dal collo ai piedi da ormai vent’anni e il padre, Niggi, l’accudisce e la porta in giro con un furgone per l’Europa. Vuole mostrarle le bellezze del mondo, poiché «l’unica cosa che mi resta sono gli occhi», dice a un certo punto Annette. Fanny accompagna i suoi genitori e li filma nella quotidianità di una vacanza al mare. E noi spettatori saliamo insieme a loro sul van e scopriamo una storia meravigliosa. Attraverso le foto in bianco e nero che ritraggono la coppia giovane e felice, inserite nel filmato a colori della stessa coppia anziana, ma altrettanto innamorata, entriamo in confidenza con i due protagonisti. Come ha affermato la giuria di Soletta nella motivazione al premio: «il film ci interroga in modo diretto e così ci domandiamo se l’amore totale di questi due esseri umani può servirci da modello. Le risposte possono essere differenti in quanto la pellicola ci apre a tutte le alternative». Infatti, in più di un’occasione, la figlia sollecita il padre sulle ragioni che lo hanno spinto a restare al fianco della moglie invece di metterla in un istituto. «Per me era inimmaginabile» le risponde, in modo chiaro e netto come se non ci fosse altra possibilità. Una decisione che lo costringe anche ad abbandonare il lavoro. Una scelta drastica, radicale e che non ci lascia via di scampo: l’avremmo fatta anche noi? Ci sono momenti davvero toccan-
Dove e quando
Dialoghi di scultura 2. Aldo Ferrario – Gabriela Spector – Gianmarco Torriani. A cura di Luigi Cavadini. Gipsoteca Gianluigi Giudici, Lugano. Fino all’11 maggio 2019. Orari: da me a sa dalle 14.00-18.00. www.fondazionegiudici.com
La Resistenza nel paesaggio Fotografia Quando l’immagine si incrocia con storia e letteratura Giovanni Medolago Innumerevoli sono i modi con cui coniugare il concetto di fotografia, arte nobile pronta altresì a mettersi a disposizione di altre discipline. La storia, innanzitutto, quale «fedele testimone del tempo». Talvolta però anche della letteratura: l’intreccio tra fotografia, storia e belle lettere è quanto propone il volume Paesaggi della Resistenza nei romanzi di Calvino, Fenoglio e Meneghello, apparso a cura di Publinova Edizioni Negri. Ne sono autori Enzo Laforgia, storico appassionato di letteratura e in particolare della biografia di scrittori (ha già dedicato parecchie ricerche a Curzio Malaparte); e il fotografo varesino Carlo Meazza. Un omaggio al Partigiano Johnny e a chi scelse di battersi per la libertà inerpicandosi sui sentieri dei nidi di ragno dove talvolta capitava d’incrociare piccoli maestri come Antonio Giuriolo, trucidato dai soldati tedeschi dopo aver guidato una formazione di par-
tigiani reclutati tra i suoi studenti vicentini (la vicenda è narrata nel film di Daniele Lucchetti, 1997, interpretato da due allora giovani attori come Stefano Accorsi e Marco Paolini). Laforgia analizza i tre romanzi con attenzione da entomologo, ricordando anche le polemiche che seguirono la loro pubblicazione (lontani dalla retorica e ol-
tremodo realistici, non potevano piacere all’ideologia imperante all’epoca), offrendoci una documentatissima disamina di quanto scrissero e annotarono critici, giornalisti, politici ed ex partigiani. In questo contesto spiccano i nomi di Cesare Pavese («La Resistenza rappresentò la fusione tra paesaggio e persone»), Dante Isella, Maria Corti e tra gli altri Norberto Bobbio. Dopo l’8 settembre 1943, il ventenne Italo Calvino salì sulle Alpi liguri; Beppe Fenoglio dalla sua Alba si nascose nelle Langhe piemontesi e Luigi Menegello fece altrettanto sull’altopiano di Asiago («Lassù, per la prima volta in vita nostra, ci siamo sentiti veramente liberi e quel paesaggio s’è associato per sempre alla nostra idea di libertà»). È in questi luoghi che Carlo Meazza è tornato, a 70 anni dagli accadimenti, cercando di trasmetterci cosa volesse dire «andare in montagna». Il suo obiettivo la prende alla larga, con inquadrature apertissime per ritrarre villaggi abbarbicati sul-
le montagne come Realdo (bella foto in copertina) e poi scende – proprio come fece Johnny – per avvicinarsi ai campi coltivati, agli uliveti e ai vigneti, ponendo infine il suo zoom tra i fili d’erba d’un prato e allora è «facile» immaginare la paura e l’angoscia di chi sui quei prati cercava di sfuggire a retate e fucilazioni sommarie. Non c’è una sola figura umana nei suoi scatti (tutti rigorosamente in bianco e nero), scelta molto significativa. Il ricordo degli eroi – questo ci sembra l’intento ultimo del libro – non si può certo catturare con un click. Protagonista resta il paesaggio, dal quale Meazza, proprio come il partigiano Johnny, esclude «i segni e gli indizî degli uomini». Bibliografia
Paesaggi della Resistenza nei romanzi di Calvino, Fenoglio e Meneghello, Enzo R. Laforgia e Carlo Meazza, Gallarate, Pubblinova Edizioni, Negri, 2018.
Protagonisti della pellicola sono i genitori della regista.
ti in Immer und ewig. Legati a piccoli gesti come una carezza, un bacio, un massaggio alle mani e al viso, oppure un sorriso di Annette per le attenzioni ricevute. E ci sono momenti in cui ci si dimentica della disabilità. Succede quando, per esempio, Annette sceglie i vestiti da portare in vacanza e si lamenta del fatto che Niggi reclama sempre sulla quantità, proprio come succede in ogni coppia. E anche i capelli devono essere pettinati per bene, non arruffati come invece fa Niggi. Lei non perde la sua femminilità e resta una donna in tutto e per tutto. Immer un ewig è un bellissimo viaggio al mare (la fotografia vale la proiezione in sala) e nella storia personale dei genitori di Fanny. Ma, soprattutto, ci sollecita e ci costringe a scavare all’interno di noi stessi per trovare la risposta alla domanda precedente. E ce ne è solo una possibile. Quella che Niggi ha trovato in Annette.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 29 aprile 2019 • N. 18
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Cultura e Spettacoli
L’eterna danza del demone
Danza Progetto Brockenhaus propone in Ticino un workshop di danza butō del maestro Masaki Iwana
Daniele Bernardi Credo fosse il 2003 quando, per la prima volta, vidi danzare Masaki Iwana. Il Festival Trasformazioni – evento che, negli anni, ha notevolmente accresciuto l’interesse per il butō in Italia – era quindi alla sua terza edizione e, quella sera, a Roma, l’artista giapponese si sarebbe esibito in un assolo intitolato Floating Atop the Hesitant Heart. La sala del Teatro Furio Camillo era affogata nella penombra. Il pubblico occupava fittamente la sala. Quando le luci della platea si spensero, per un tempo indefinito restammo lì, in attesa, senza ben capire cosa accadesse. Dapprincipio non c’era musica, solo un bagliore debole e diffuso. Sul palco, come un assurdo trono, campeggiava un cesso. Il tempo passava e non succedeva nulla. Poi, avvenne: senza che nessuno lo avesse visto entrare, Masaki Iwana era in scena. Lo si poteva scorgere oltre il centro dell’assito, ma senza ben distinguerne la figura: indossava unicamente una sorta di tunica che lo copriva pesantemente. Il corpo nudo, sotto quel drappo, si muoveva con la lentezza di un fiore. Una strana tensione permeò la sala. I cigolii delle sedie, il fiato degli spettatori, i radi colpi di tosse: tutto sembrava assorbito dal magnetismo di quell’apparizione. Iwana, con un’azione estenuante, si scoprì parzialmente raggiungendo la tazza. Lì, non ricordo come, si inerpicò sui bordi delle maioliche portando le proprie gambe sopra le spalle: pareva un mostro dolente o un assurdo insetto; i
lunghi capelli ricadevano in avanti, nascondendogli il capo. Quindi cominciò energeticamente a sbattere i piedi, come se volesse romperli contro il water; i colpi percuotevano l’oscurità con violenza. Abbandonata quella situazione Iwana prese a danzare in modo dinamico, spingendosi all’estrema sinistra – nuovamente percuoteva col corpo quanto gli era a tiro: la parete, i mantegni, le corde di canapa. Infine, liberatosi definitivamente della veste, nudo, in un gioco di continui disequilibri sulle mezze punte e con le braccia levate, scomparve in un fascio di luce che, smorzandosi, sembrò cancellarlo come acqua al sole. Sul programma di sala di quella memorabile performance – che tuttora conservo – era scritto: «Ecco una stanza in cui nessuno deve entrare. Ecco una stanza che non esiste. Ciò nonostante ci abitavo. Nel mezzo c’era un vecchio gabinetto malandato. Intorno al gabinetto “memorie”, quasi marcenti nel giallo, lasciate giacere là intorno. Sono io un demone che vive lì in eterno?» Oggi, dopo aver partecipato a più workshop di questo straordinario artista, posso dire che chi volesse avvicinare lo spirito autentico di quella tendenza della danza che prende nome di butō dovrebbe, assolutamente, conoscere e frequentare il lavoro di Masaki Iwana. Nato a Tokyo nel 1945, Iwana comincia la sua carriera come attore per poi votarsi alla danza a partire dai trent’anni. Ma diversamente da altri suoi colleghi, sceglie di lavorare da solo e di formarsi come autodidatta. Nel 1977 debutta con la sua prima performance (Dancing
Boy) per poi elaborare i molti altri assoli che lo porteranno in Francia nel 1983. Qui crea pezzi memorabili come Susabi (Divertirsi, del 1989), dove il pubblico lo vede danzare su una lastra di vetro poggiata su quattro pericolanti bicchieri destinati a frantumarsi, e fonda la Maison du Butō Blanc, una casa-laboratorio in Normandia, a Réveillon, in cui tiene corsi e organizza il festival Verda Utopio. Ora, settantaquattrenne, Masaki Iwana continua a danzare e a insegnare in tutto il mondo. Inoltre, nel 2008 ha esordito come regista cinematografico col lungometraggio Vermilion Souls, al quale sono seguiti A Summer Family (2010), Princess Betrayal (2012) e Charlotte-Susabi (2017). In cosa consiste l’insegnamento di Iwana e del suo butō? Difficile spiegarlo brevemente poiché, al pari dello Zen, tale pratica rifugge le esemplificazioni della mentalità occidentale. Uno degli aspetti chiave è forse nella distinzione fra due «scuole» di pensiero: quella della rappresentazione e quella, radicalmente opposta, della trasformazione. «Parlo spesso della differenza fra diventare qualcosa ed esprimere qualcosa», ha affermato il maestro in un’intervista del 1991. «Se vogliamo esprimere qualcosa, dobbiamo sempre avere una qualche distanza con l’oggetto. Per esempio, se io voglio esprimere questa tazza e me stesso, noi dobbiamo avere qualche distanza. Ma se io divento la tazza, non c’è distanza, essa è già realizzata. Naturalmente questa realizzazione è molto difficile, ma noi siamo già una cosa sola».
Il maestro Masaki Iwana sarà in Ticino il prossimo maggio. (Keystone)
Durante le lezioni Iwana non mostra mai come danzare, né dà indicazioni in questo senso: il compito di ogni partecipante è quello di trovare la propria danza, il proprio personale processo di trasformazione. Quindi, dopo le ore dedicate al puro allenamento – un training estremamente intenso, realizzato attraverso lo stretching dei mudras e una serie di esercizi che mirano a un completo controllo dei piedi, delle gambe e del baricentro – Iwana propone precisi temi di danza che portano l’allievo, da un lato, al confronto costante coi propri limiti, dall’altro, alla ricerca di un paesaggio interiore che faccia da nutrimento alla danza. Nel mese di maggio la compagnia ticinese Progetto Brockenhaus orga-
nizzerà un laboratorio di quattro giorni (dal 9 al 12) con questo grande artista presso lo Studio Dasein di Tesserete. Il corso è aperto a «professionisti delle arti sceniche, performer, danzatori, musicisti, cineasti, artisti visivi e a tutti coloro che sono profondamente interessati ad una ricerca sul corpo». Posso assicurare che è raro, nel proprio percorso, incontrare personaggi di tale levatura: si consiglia, quindi, caldamente, la partecipazione al workshop emblematicamente intitolato L’intensità del nulla. Iscrizioni e informazioni
Progettobrockenhaus@gmail.com; tel. +41/79.595 .97 .01. Annuncio pubblicitario
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Idee e acquisti per la settimana
Innovare la tradizione
Un incontro con Vittore Beretta, parlando con lui della storia della sua azienda, di salami, di prosciutti, di tradizione gastronomica italiana... e di calcio Testo Alessandro Zanoli; Foto Paolo Dutto La Fratelli Beretta produce per Migros finissima salumeria
Vittore Beretta, presidente dell’azienda che ha il suo stabilimento centrale a Trezzo d’Adda, pochi chilometri fuori da Milano, ci accoglie nel modernissimo spazio della sua «Beretta Academy», un ambiente arredato con gusto e attenzione, quasi un set televisivo. Vi si tengono riunioni, presentazioni di prodotti e degustazioni. «Qualche sera fa avevamo qui la dirigenza delle due squadre di Milano, Milan e Inter. Un incontro davvero storico», ci racconta con soddisfazione. Beretta è una persona simpatica e alla mano, ma la sua affabilità è accompagnata da un precisa attenzione ai dettagli e al significato del nostro incontro. Nonostante la distanza geografica i suoi contatti con la Svizzera e in particolare con Migros sono regolari e molto stretti, già dal 1994: venticinque anni di un lavoro comune improntato alla massima serietà. Tanto che in tempi recenti la partnership si è concretizzata nella realizzazione di allevamenti all’avanguardia come quello della Panizzina, in Lomellina, in cui i maiali vengono allevati secondo le regole legate al rispetto del benessere animale che vigono in Svizzera. «Sappiamo che entro il 2021 entreranno in vigore da voi le direttive obbligatorie per l’Animal Welfare. Quindi per quella data dobbiamo essere pronti a fornire a Migros carni che rispettino i vostri criteri». Nel frattempo Beretta ha aperto in Italia diversi altri stabilimenti secondo quel concetto. È un trend che si diffonde e va assecondato, per il benessere di tutti. Un altro settore in cui l’azienda è molto impegnata, tra l’altro, è quello della produzione di insaccati completamente esenti da ogni tipo di antibiotici. Un tema a cui i consumatori, in Italia e all’estero, sono molto sensibili e che vedrà in futuro un ulteriore sviluppo sui mercati. L’azienda di Vittore Beretta è sicuramente una delle più grandi in Italia nel settore della produzione e trasformazione industriale di carni e di alimentari. Le cifre della sua attività per il 2018 rendono l’idea: un fatturato da 830 milioni di Euro; 30 stabilimenti in Italia e all’estero con 2500 dipendenti; una capacità produttiva di 120 mila tonnellate di salumi e 32 mila tonnellate di piatti pronti; 19 luoghi di produzione di specialità di origine controllata. Un profilo che mantiene però saldamente le sue radici nel passato e nella tradizione. Vittore Beretta ci racconta: «La nostra azienda è nata a Barzanò, piccola località nel nord della Lombardia, all’inizio dell’800. Oggi siamo arrivati alla ottava generazione di famiglia. Ma il mutamento importante, quello che ha portato all’industrializzazione dei processi produttivi, l’avevano messo in atto mio padre, Mario, e mio zio Felice, subito dopo la Prima Guerra mondiale». A rendere possibile il cambiamento ci sono volute scoperte tecnologiche che permettessero la creazione della «catena del freddo». Solo a questa condizione si è potuto rendere la macellazione un processo costante, da esercitare durante tutto l’anno. «Poi, più tardi, nel periodo tra le due guerre, l’avvento della motorizzazione ha consentito ai nostri prodotti di raggiungere un mercato più ampio. E il nostro raggio di azione è diventato nazionale». Il salto di qualità comunque l’azienda l’ha compiuto grazie all’impegno
Beretta Mortadella 100 g Fr. 3.05
Tradizione di famiglia all’ottava generazione
Il prosciutto Carpegna viene sapientemente tagliato a fette sottilissime nella «Beretta Academy».
del signor Vittore e del fratello Giuseppe nel Secondo dopoguerra. «È da allora che si sono diffuse le nuove tecniche di preparazione, l’affettatura, la conservazione sottovuoto e in atmosfera controllata». Nel nuovo mercato dell’era del boom economico i prodotti Beretta rispondevano in modo ottimale alle richieste delle nuove catene di vendita e dei consumatori. E nel 1996 da Barzanò l’azienda si trasferisce nel moderno stabilimento di Trezzo, più vicino alle vie di collegamento con tutta l’Italia. Queste innovazioni (un perfezionamento che continua anche oggi e considera con attenzione le esigenze della clientela moderna) non contraddicono la volontà di mantenere una produzione strettamente legata alla tradizione gastronomica lombarda e italiana. «Salame, coppa, prosciutto crudo e cotto, mortadella, sono prodotti con le ricette di sempre. Anzi, occorre dire che in Italia in questo settore possiede una ricchezza talmente ampia da offrire delle varietà diverse addirittura da provincia a provincia». Per questo motivo, per garantire l’ottenimento delle denominazioni DOP (Denominazione di Origine Protetta) e IGP (Indicazione Geografica Protetta), Beretta ha scelto di costruire i propri impianti nelle regioni stesse di produzione. «Solo per il prosciutto crudo ad esempio, abbiamo fabbriche nell’area di Parma, in Emilia; di San Daniele, in Friuli; poi in Toscana e a Carpegna, all’incrocio tra Marche, Romagna e Umbria». E la stessa cosa vale per ognuna delle specialità proposte, compresa la bresaola, prodotta in uno stabilimento della Valtellina, e il
formidabile salame di Varzi, creato in un area piccolissima della Lombardia ma non per questo meno prestigioso. Con il passare degli anni, e con il modificarsi delle dinamiche economiche sui mercati, la dimensione dell’azienda è andata progressivamente espandendosi. Oggi possiede filiali e stabilimenti anche negli Stati Uniti e in Cina, dove porta sia prodotti specifici per quei mercati, sia quelli tradizionali della salumeria italiana. I sapori italiani, insomma sanno conquistare il mondo e i clienti di Migros, che da anni apprezzano i prodotti Beretta, possono confermarlo. Il divertente spot televisivo che è andato in onda di recente (ed è visibile sul sito web www.fratelliberetta.ch) mostra come l’ampio assortimento offra una panoramica gustosa e genuina sul meglio della tradizione gastronomica italiana. Il tutto garantito da un’attenzione alla qualità unica al mondo. Un’altra passione di Vittore Beretta è comunque lo sport. «Da anni siamo presenti in campo sportivo e in quello del calcio in particolare. In Italia siamo sponsor del Torino e con una nostra marca sosteniamo la Juventus. Abbiamo rapporti di collaborazione poi con Inter e Milan. E anche in Svizzera siamo stati presenti... Abbiamo sponsorizzato il Grasshoppers nel 1994 e nei primi anni 90 anche l’Etoile Carouge». La storia della vicinanza della famiglia Beretta con la Svizzera si lega dunque anche a fattori che non sono strettamente gastronomici ma dimostrano un’attenzione e una partecipazione rare e molto concrete.
La Fratelli Beretta è stata fondata nel 1812 nel nord della Lombardia. Già all’epoca l’azienda produceva finissima salumeria. Con i progressi tecnici nella lavorazione della carne il nome si fece presto conoscere a livello nazionale. Oggi l’azienda possiede 30 siti di produzione e impiega 2500 collaboratori in Italia e all’estero, tra cui Stati Uniti e Cina. Con la salumeria e i prodotti pronti nel 2018 Beretta ha raggiunto una cifra di 830 milioni di Euro. Alla Migros i prodotti Beretta sono in vendita dal 1994. Da qualche anno la carne di maiale utilizzata per la salumeria esportata in Svizzera è prodotta secondo le norme della Protezione Svizzera degli Animali.
Beretta Salame Milano 100 g 4.95
Beretta Bresaola della Valtellina IGP 104 g Azione Fr. 6.95 invece di 8.70
Beretta Prosciutto crudo di Parma 118 g Azione Fr. 6.95 invece di 8.70
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 29 aprile 2019 • N. 18
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Vittore Beretta, presidente dell’azienda che ha il suo stabilimento centrale a Trezzo d’Adda, pochi chilometri fuori da Milano, ci accoglie nel modernissimo spazio della sua «Beretta Academy», un ambiente arredato con gusto e attenzione, quasi un set televisivo. Vi si tengono riunioni, presentazioni di prodotti e degustazioni. «Qualche sera fa avevamo qui la dirigenza delle due squadre di Milano, Milan e Inter. Un incontro davvero storico», ci racconta con soddisfazione. Beretta è una persona simpatica e alla mano, ma la sua affabilità è accompagnata da un precisa attenzione ai dettagli e al significato del nostro incontro. Nonostante la distanza geografica i suoi contatti con la Svizzera e in particolare con Migros sono regolari e molto stretti, già dal 1994: venticinque anni di un lavoro comune improntato alla massima serietà. Tanto che in tempi recenti la partnership si è concretizzata nella realizzazione di allevamenti all’avanguardia come quello della Panizzina, in Lomellina, in cui i maiali vengono allevati secondo le regole legate al rispetto del benessere animale che vigono in Svizzera. «Sappiamo che entro il 2021 entreranno in vigore da voi le direttive obbligatorie per l’Animal Welfare. Quindi per quella data dobbiamo essere pronti a fornire a Migros carni che rispettino i vostri criteri». Nel frattempo Beretta ha aperto in Italia diversi altri stabilimenti secondo quel concetto. È un trend che si diffonde e va assecondato, per il benessere di tutti. Un altro settore in cui l’azienda è molto impegnata, tra l’altro, è quello della produzione di insaccati completamente esenti da ogni tipo di antibiotici. Un tema a cui i consumatori, in Italia e all’estero, sono molto sensibili e che vedrà in futuro un ulteriore sviluppo sui mercati. L’azienda di Vittore Beretta è sicuramente una delle più grandi in Italia nel settore della produzione e trasformazione industriale di carni e di alimentari. Le cifre della sua attività per il 2018 rendono l’idea: un fatturato da 830 milioni di Euro; 30 stabilimenti in Italia e all’estero con 2500 dipendenti; una capacità produttiva di 120 mila tonnellate di salumi e 32 mila tonnellate di piatti pronti; 19 luoghi di produzione di specialità di origine controllata. Un profilo che mantiene però saldamente le sue radici nel passato e nella tradizione. Vittore Beretta ci racconta: «La nostra azienda è nata a Barzanò, piccola località nel nord della Lombardia, all’inizio dell’800. Oggi siamo arrivati alla ottava generazione di famiglia. Ma il mutamento importante, quello che ha portato all’industrializzazione dei processi produttivi, l’avevano messo in atto mio padre, Mario, e mio zio Felice, subito dopo la Prima Guerra mondiale». A rendere possibile il cambiamento ci sono volute scoperte tecnologiche che permettessero la creazione della «catena del freddo». Solo a questa condizione si è potuto rendere la macellazione un processo costante, da esercitare durante tutto l’anno. «Poi, più tardi, nel periodo tra le due guerre, l’avvento della motorizzazione ha consentito ai nostri prodotti di raggiungere un mercato più ampio. E il nostro raggio di azione è diventato nazionale». Il salto di qualità comunque l’azienda l’ha compiuto grazie all’impegno
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Cultura e Spettacoli
La normalità ci salverà
L’arte nei giardini
della scrittrice ticinese Doris Femminis
cultural-naturalistico organizzato nel suggestivo ambiente del Monte Verità
Pubblicazioni La malattia psichiatrica nel romanzo Fuori per sempre
Laura Marzi Il secondo romanzo di Doris Femminis, autrice ticinese, dopo Chiara cantante e altre capraie, ci riporta di nuovo in una valle di montagna per raccontare una storia che, come faceva l’esordio, narra di donne e delle loro sofferenze. Sono varie, infatti, le vite femminili che Femminis riesce a cucire insieme nello scenario del paesino di Giusello. La protagonista del romanzo è Giulia, una ragazza che per un tentato suicidio si ritrova ricoverata nell’ospedale psichiatrico di Mendrisio: interessante a questo proposito il riferimento che la scrittrice fa alla trasformazione radicale che la psichiatria cantonale ha attraversato, a partire dalla rivoluzione attuata in Italia da Franco Basaglia, accolta e potenziata dal sistema svizzero. Nel romanzo il racconto di questo centro di cura è fondamentale e leggendolo si riconosce la peculiarità del punto di vista di chi, come Femminis, è un’infermiera psichiatrica di professione. Infatti la narrazione di questi personaggi secondari nel romanzo, le infermiere e gli infermieri, denota un equilibrio tra il riferimento alle loro vicende personali e la descrizione del loro ruolo professionale, che conferisce loro il giusto spessore. Campeggia la pazienza con cui si prendono cura di coloro che non sanno prendersi cura di loro stessi, la preoccupazione sincera che hanno per le persone come i pazienti psichiatrici, che nel mondo difficilmente trovano comprensione. Femminis, però, non indulge in nessuna forma di buonismo o di eroismo: la prospettiva che sceglie predilige il racconto di come funziona il sistema delle cure, frutto di una visione rivoluzionaria della psichiatria incarnata dal personaggio della dottoressa Elena Sortelli, e del lavoro di squadra all’interno dell’ospedale. Anche Elena ha la sua storia, che Femminis riesce a inserire all’interno del romanzo con armonia: forse uno dei pregi maggiori di questo testo è proprio la capacità dell’autrice di raccontarci una vicenda corale, come a voler testimoniare che nella sofferenza di Giulia sta inscritta la solitudine di un intero paese. Della madre della ra-
La scrittrice ticinese Doris Femminis. (viceversa letteratura.ch)
gazza, per esempio, che nella dura vita di sacrificio e lavoro, quale quella della montagna, ha perso la capacità di essere felice, oppure quella di suo fratello, che vive la difficoltà della propria omosessualità in un luogo in cui essere gay significa ancora portare una colpa che non si può fare altro che espiare, giorno dopo giorno. Femminis nel romanzo racconta, però, anche di un nucleo familiare, quello di Esteban, migliore amico di Giulia, mostrando come la serenità sia possibile pur vivendo in un piccolo centro di poche anime: il segreto sembra essere il rapporto con il territorio, in questo caso la montagna, il desiderio e la capacità di vivere in essa, di trovarvi rifugio piuttosto che considerarla un ostacolo insormontabile per l’accesso alla vita di città, allo sfavillio del contesto urbano. Forse la scelta di raccontare le storie di coloro che vivono con Giulia, dei familiari, degli amici, deriva dalla volontà di rappresentare come il malato psichiatrico non sia mai una monade isolata dal proprio contesto, e dal desi-
derio di dare spessore anche agli altri, agli affini, che spesso vengono oscurati dalla malattia mentale di un loro congiunto, risucchiati e cancellati da tanta invincibile sofferenza. Il dolore di Giulia viene narrato, poi, con la sapienza di chi conosce da vicino i disturbi psichiatrici, riuscendo a far entrare la lettrice e il lettore nella realtà parallela in cui vive la ragazza. Anche in questa sezione l’autrice offre un quadro composito di storie, quelle dei pazienti con cui Giulia entra in relazione in ospedale. Giungendo alla conclusione del libro a colpire è la constatazione – tanto evidente quanto dimenticata nel nostro approccio spesso disattento all’esistenza – che niente ci salva quanto la normalità, intesa non come norma a cui aderire, bensì come lo scorrere dei giorni, la possibilità di vivere coi propri cari e di muoverci con gioia nella terra in cui abbiamo scelto o ci è capitato di vivere. Bibliografia
Doris Femminis, Fuori per sempre, Marcos Y Marcos, Milano, 2019.
Manifestazioni Ritorna l’appuntamento
Il Monte Verità, oltre che essere suggestivo e ricco di storia, è anche un luogo di indescrivibile bellezza naturalistica. Ed è proprio nel tentativo di sfruttare il magico binomio tra arte e natura, che dal 3 al 5 maggio ritorna per la seconda volta l’appuntamento di Giardini in Arte. Molte le forze attive sul territorio coinvolte nell’organizzazione di questo secondo appuntamento, al fine di offrire nuovamente un’esperienza che l’anno scorso aveva attirato ben oltre cinquecento persone. Venerdì 3 maggio si inizia alle ore 18.30 con l’inaugurazione della doppia mostra Trees Of Life, che prevede l’esposizione delle opere scultoree di Pascal Murer nel lussureggiante giardino, e People I Know, che propone gli acquarelli e le sculture di Ivana Falconi all’interno dell’albergo. Sabato 4 maggio, al termine della degustazione di dodici té (ore 16), prenderà il via il percorso narrativo, per immagini e musicale, ispirato a Muro, io ti mangio!, dedicato a quella che viene definita dagli organizzatori una «meravigliosa dozzina di piante commestibili». Oltre ai musicisti V. Zitello, G. Galfetti e C. Bava, saranno presenti anche la narratrice Maria Cristina Pasquali, l’artista Alessia Zucchi, il poeta Alberto Nessi e la poetessa Elisabetta Motta. Particolarmente fitto il programma di domenica 5 maggio, che prevede due passeggiate didattiche (in italiano e in tedesco, ore 10.30 e 14.00), a cura dell’Istituto Alpino di Olivone. Alle 11 Emanuela Busi racconterà la storia di una delle grandi aziende famigliari di successo svizzere, quella che ha inventato la mitica Ricola. Alle ore 14 è previsto un momento
Amarcord con Francesca Gemnetti (segretaria generale CORSI) e Cristina Bettelini (Presidente Associazione Nel, fare arte nel nostro tempo), durante il quale si avrà l’occasione per vedere contributi video provenienti dagli archivi della RSI. Dalle ore 10 alle 16.30 sono previsti diversi laboratori organizzati dall’Associazione culturale GABARE, con Maria Cristina Pasquali e Alessia Zucchi, durante i quali sarà possibile apprendere a dipingere con pigmenti naturali e a realizzare delle stampe, utilizzando un torchio manuale. Dal canto suo il Centro Professionale di Mezzana e la Società Ticinese di Apicoltura propongono alcuni impieghi dei prodotti delle api. Alle 13 e alle 15 sarà possibile degustare nuovamente le dodici qualità di té. Nel corso di tutta la giornata all’interno della Casa dei Russi saranno inoltre esposte le tavole artistiche di Alessia Zucchi dal libro Muro, io ti mangio!. Durante tutta la manifestazione sarà possibile fare un pic nic nel parco del Monte Verità, oppure rivolgersi al punto ristoro. Domenica sarà organizzato un servizio navetta con partenza dal cimitero di Ascona. / Red. Dove e quando
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 29 aprile 2019 • N. 18
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 29 aprile 2019 • N. 18
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Cultura e Spettacoli
La stampa e i suoi caratteri
Storia della grafica La Svizzera ha giocato un ruolo di primo piano nella creazione dei caratteri tipografici
Orio Galli Anche se il direttore del Politecnico di Zurigo ha annunciato la prossima morte delle biblioteche, da parte mia ritengo più probabile l’ipotesi formulata da Umberto Eco: quella che il libro – come oggetto/strumento – per la sua essenzialità e funzionalità (come il martello, la forbice, il cucchiaio…) abbia a durare sempre nel tempo. E ciò indipendentemente da qualsiasi aggeggio digitale venisse creato anche in futuro per la lettura di un testo. Una lettura – quella su carta – che riuscirebbe a «raggiungere il profondo della nostra mente», così come hanno recentemente affermato alcuni luminari delle neuroscienze. Durante il Rinascimento Claude Garamond (Parigi 1480-1561) disegnò il carattere Garamond che ancora oggi rimane per sua eleganza e leggibilità il font più usato nel campo dell’editoria. Su di lui la regista, giornalista e scrittrice Anne Cuneo scrisse (1936-2015) l’interessante libro: Il maestro di Garamond (Neri Pozza). Solamente quattro secoli dopo Claude Garamond, nel 1931, Stanley Morison (1889-1967) per poter disporre di un «font» adatto a far rientrare un numero massimo di caratteri nelle pagine di un giornale (il «Times» di Londra) disegna il carattere chiamato per l’appunto Times, ancor oggi molto usato anche con i computer. In Italia Giovanbattista Bodoni (1740-1813) disegnerà invece nel diciottesimo secolo il famoso carattere che porta il suo cognome: Bodoni. Un
alfabeto dalla massima eleganza ma che presenta, soprattutto per testi di una certa lunghezza, problemi di leggibilità. Emblematico che di questo font abbia fatto largo uso per le sue pubblicazioni un raffinatissimo editore com’è Franco Maria Ricci. Libri e riviste, le sue, che sono più da guardare e da ammirare che da leggere. Se i tre caratteri appena citati possiedono tutti le «grazie» – come vengono chiamati i terminali («empattements») delle lettere dell’alfabeto – nel Novecento, sulla scia del «razionalismo», nascono i caratteri lineari senza grazie. Si tratta di font dalla forma geometrica essenziale, come il Futura di Paul Renner (1878-1956) creato nel 1927 sulla scia dell’estetica funzionalista della famosa scuola germanica Bauhaus che ha da poco festeggiato i cent’anni. Tre nuovi diversi caratteri tipografici senza grazie, definiti anche «groteschi» per distinguerli dagli «antichi», nascono, quasi in contemporanea, negli anni 50 del Novecento. Tutti e tre progettati da disegnatori svizzero tedeschi: caso unico nel panorama mondiale del graphic design. Sono l’Helvetica di Max Miedinger (1910-1980), l’Univers di Adrian Frutiger (1928-2015) e il Syntax di Hans Eduard Meier (1922-2014). Soprattutto Frutiger e Meier disegneranno altri caratteri, ma saranno i tre font sopra elencati a renderli famosi a livello internazionale. Su Miedinger, in occasione dei 50 anni dalla nascita dell’Helvetica, nel
Helvetica, un font celebre in tutto il mondo. (Keystone)
2007 la televisione realizzò un documentario – da notare che proprio nelle scorse settimane è stata presentata una nuova versione di Helvetica, Helvetica Now, un font che ben si adatta alle esigenze digitali della nostra epoca; la già citata Anne Cuneo realizzò invece un bel documentario su Frutiger nel 1999. Su H.E. Meier, del quale ho avuto la fortuna d’essere stato allievo ai Corsi di calligrafia nei primi anni Sessanta a Zurigo, la RSI ha prodotto un servizio nel 2013, affidandolo al regista Vito Robbiani. Fortunatamente in tempo, prima che Meier se ne andasse, l’anno seguente (trasmissione «Svizzera e din-
torni», 90 anni e un nuovo carattere). Naturalmente i libri non sono solo da leggere, ma anche da guardare, da sfogliare, da annusare… Per cui l’impaginazione, la carta, la rilegatura, tutto ha, o dovrebbe avere un senso, un valore, un significato. In primis l’immagine della copertina, per progettare la quale stampatori e/o editori si affidano a professionisti. Se a livello teorico le nuove tecnologie digitali dovrebbero offrire nuovi spazi operativi e possibilità creative per la grafica contemporanea – grafica che, per la progettazione, rimane sempre alla base di ogni prodotto visivo
– nella realtà le cose non stanno purtroppo così. Anche perché l’accesso ai computer e ai plotter casalinghi è oggi per principio consentito e facilitato a tutti. Soprattutto a troppe persone che, seppur sprovviste dell’indispensabile cultura umanistica e di un’adeguata formazione professionale nel campo del visivo, si ritengono competenti. Stesso discorso potrebbe esser fatto per la progettazione-realizzazione di riviste, giornali, cataloghi, scritte, prospetti, immagini coordinate, logotipi, marchi… Ma ormai oggi purtroppo in molti campi imperano superficialità e improvvisazione. Annuncio pubblicitario
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Cultura e Spettacoli
Hans-Joachim Roedelius, l’highlander della ricerca musicale Musica A Chiassoletteraria uno dei protagonisti della musica del Novecento tra ambient e krautrock
Zeno Gabaglio Quella di cui Hans-Joachim Roedelius ha fatto attivamente parte è stata una specie di rivoluzione copernicana dell’ambito musicale. Prima di allora – e si trattava degli anni Sessanta – ogni fenomeno sonoro veniva affrontato con i codici tramandati dalla cultura occidentale, ed era proprio simile al guardare l’universo tenendo ben salda la terra come centro irradiante e normativo. Con tutte le conseguenze di parzialità e miope distorsione che questo comportava. Hans-Joachim Roedelius – attraversando da pioniere esperienze progressive, krautrock e ambient – ha invece segnato dei percorsi nuovi e diversi, abbandonando certezze di forma e contenuto (il senso del rumore, le costrizioni formali, i limiti spaziali, la retorica progressista) e abbracciando nuove idee di ciò che può essere musica, di ciò che può essere cultura. Si obbietterà che alcune di queste istanze erano già state portate avanti da vari alfieri della «musica colta» prima di lui: vero, ma quello che loro facevano in marginali contesti di ricerca Roedelius lo ha fatto a beneficio di (quasi) tutti, partendo non dai castelli dell’alta cultura, ma dai bassifondi dell’underground, legando inoltre il proprio cammino a vere e proprie genialità quali Dieter Moebius (il mai troppo celebrato, mai troppo rimpianto artista appenzellese), Conrad Schnitzler (già iniziatore dei Tangerine Dream), Michael Rother (demiurgo nei Neu! ma anche membro dei Kraftwerk) e soprattutto Brian Eno, colui che negli ultimi cinquant’anni ha sempre preso e
compreso l’evoluzione musicale prima di chiunque altro. Ebbene, all’alba degli ottantaquattro anni di età, Hans-Joachim Roedelius sarà per la prima volta dal vivo nella Svizzera italiana: dal 2 al 4 maggio prossimi per Chiassoletteraria dove – su invito dell’associazione Grande Velocità – darà dapprima vita all’installazione The Roedelius Cells (co-curata con Tim Story, inaugurazione giovedì 2 maggio alle ore 18.30 presso lo Spazio Lampo di Chiasso) e poi a un concerto tra acustico ed elettronico, al Cinema Teatro di Chiasso la sera di sabato 4 maggio. Occasione migliore per porre qualche domanda al grande musicista non ci poteva essere. E la brevità delle risposte non è tanto segno di indisponibilità, quanto cifra stilistica e umana di un’esistenza condotta per sottrazione retorica, dove l’importanza delle cose è data in massima parte alle cose stesse. Lei è conosciuto e riconosciuto come pioniere della musica elettronica, ma nel corso degli anni ha suonato spesso anche il pianoforte acustico. Che tipo di set prevede per il concerto di Chiasso?
Mi è stato comunicato che ci sarà un pianoforte a coda e quindi mi concentrerò sul suono di quello strumento. Senza tuttavia rinunciare a un soundscaping elettronico.
Nell’eterna dialettica tra martelletti e corde del pianoforte acustico contro oscillatori e valvole dei sintetizzatori lei da che parte sta?
Ora sento di preferire martelletti e corde.
La vita giusta per CoCo Questo nuovo sound Corrado, il rapper
napoletano un po’ diverso Tommaso Naccari Nel sottobosco del rap italiano capita sovente che ci sia un nome che merita più attenzione di altri, ma che per qualche motivo, nonostante la vicinanza a nomi altisonanti e le indubbie qualità, fatica ad emergere, acquisendo con sempre più convinzione il ruolo di underdog. Uno dei nomi che in questi giorni sento rompere questo argine è CoCo, già Corrado, rapper napoletano. Non ho più amici con Gemitaiz è l’ultimo episodio, pubblicato lo scorso venerdì, nonché il suggello a un percorso lungo, faticoso, ma tremendamente identitario. Corrado porta con sé un immaginario che dir americano è dir poco, tanto che stona quasi con la musicalità a cui l’Italia è da sempre abituata e questa può essere una giustificazione al suo successo ancor scarno – seppur presente. Non ho più amici è un conscious banger, una hit introspettiva, dal linguaggio e dalle sonorità semplici, ma che comunque stupiscono. Non c’è mai banalità o ripetizione nelle melodie, c’è sempre una ricerca che non può che far entrare convintamente nel viaggio in cui CoCo cerca di introdurci almeno da tre/quattro anni (in realtà da molto di più, ma i primi tasselli di questo nuovo percorso sono stati messi con La Vita Giusta Per Me, il suo album ufficiale per Roccia Music). Proprio nel titolo del suo disco citato in precedenza, infatti, si trova tutta la sofferenza e il travaglio nella sua produzione artistica: qual è la vita giusta
La vita giusta per me, di CoCo.
per CoCo? Al momento in Italia non esiste, la ricerca artistica è un dramma ed è sempre più complesso uscire dalle etichette: nonostante ciò che la musica rap ci sta portando in classifica, CoCo è troppo melodico per i rapper, troppo rapper per chi non ascolta rap. Ed è raffinato, un elemento che in Italia è spesso un malus anziché un bonus. Anche nel suo primo disco, parlava di dipendenze, droghe, donne e bella vita, ma con un tatto e con la totale assenza di ego-trip. Eppure era efficace, Non Dirmi di No è un film, non un brano, ogni singola azione descritta è perfettamente immaginabile nella nostra testa. A maggio uscirà un nuovo album, dopo appunto un Ep, collaborazioni con Luché e Mecna. L’impressione è che finalmente l’Italia possa apprezzare, per la prima volta. Ma forse, più che un’impressione è una speranza...
intorno a me. Continuo a ritenere che tutto ciò che faccio si riferisca a quella che è stata la mia prima professione: la fisioterapia – particolari massaggi che possono essere cura per i moribondi.
Due anni fa ha pubblicato con Arnold Kasar il disco Einfluss per l’etichetta Deutsche Grammophon. Quando negli anni 60 fondò lo Zodiac Free Arts Lab (collettivo artistico berlinese, sperimentale e antiborghese) avrebbe mai pensato di pubblicare per l’etichetta che – più di ogni altra – ha rappresentato il massimo ideale della musica classica e borghese?
Naturalmente non lo avrei mai immaginato, ma ho sempre fatto quello che mi piaceva e nel modo in cui lo volevo. Forse sono cambiati più loro di quanto non sia cambiato io.
Nei giorni di Chiassoletteraria si potrà ascoltare l’installazione sonora The Roedelius Cells, che è un percorso di riscoperta e ricomposizione di tante sue improvvisazioni pianistiche. Che tipo di risultato possiamo aspettarci? In primo piano, Hans-Joachim Roedelius. (Camillo Roedelius, Bureau-B) Chiassoletteraria quest’anno ha per tema «Il mondo nuovo». Per lei, che con la sua carriera ha contribuito a creare infiniti nuovi mondi musicali, la novità può costituire un valore in sé?
Quello che ho sempre sentito di dover fare è creare storie sonore autentiche, derivanti dalle impressioni e dalle circostanze di ogni momento reale. Non sono mai stato succube dell’idea di
creare musica nuova solo per la ricerca della novità. La musica dev’essere rappresentazione della persona di chi la fa.
Se oggi si guarda attorno, in quale genere o stile le sembra di vedere nuovi mondi musicali?
Nel campo delle arti sono sempre stato un indipendente, a tratti anche ribelle, e non mi rendo esattamente conto di quello che sta succedendo nella musica
Sentirete la musica di un compositore – cioè la mia – che si trasforma nella musica di un altro compositore, Tim Story, per un risultato piuttosto incredibile. Dove e quando
L’artista Hans-Joachim Roedelius sarà presente alla Spazio Lampo di Chiasso (Via Livio 16) giovedì 2 maggio alle 18.30. Per ulteriori informazioni riguardo al programma del festival di letteratura di Chiasso: www.chiassoletteraria.ch
Conoscersi dentro
Musica Grazie ad Andy Burrows, il memoriale di Matt Haig diviene
esperimento musicale a cavallo tra pop e suggestioni cantautorali Benedicta Froelich Quando, nel 2015, lo scrittore inglese Matt Haig pubblicò Reasons To Stay Alive – coraggioso volumetto a cavallo tra autobiografia e «self-help manual», che raccontava con brutale onestà della sua lotta impari contro una depressione quasi fatale – non poteva certo immaginare come, in breve tempo, il suo memoriale sarebbe divenuto un bestseller nazionale; un risultato ottenuto principalmente grazie alla capacità dell’autore di andare oltre la semplice cronaca della propria esperienza personale, trasformando il racconto in un atto di incoraggiamento rivolto a tutti coloro si trovino a lottare contro il subdolo «black dog» (nome con cui da sempre gli anglosassoni definiscono ciò che per noi italofoni è piuttosto «il male oscuro», secondo l’indimenticata definizione dello scrittore Giuseppe Berto). Oggi, il bestseller di allora è divenuto un progetto discografico, nato dall’incontro di Haig con il cantautore Andy Burrows – nome perlopiù sconosciuto al grande pubblico, eppure rappresentativo dell’archetipo dell’onesto e professionale musicista indie anglosassone. Incontratisi sul social network Twitter, i due hanno subito intrapreso un progetto a quattro mani, che li ha visti «musicare» il libro di Haig sulla base di liriche fornite dall’autore stesso; e per quanto rischiosa l’idea possa apparire, la commistione funziona, tanto che il risultato si fa apprezzare non soltanto per le (pur lodevoli) intenzioni degli autori, ma anche e soprattutto per la qualità intrinseca del lavoro.
Così, se, da un lato, Reasons To Stay Alive potrebbe definirsi una sorta di «adattamento musicale» dell’omonimo libro, allo stesso tempo costituisce ben più di una semplice trasposizione in salsa pop-rock del testo di partenza. Sebbene la title track rappresenti la perfetta sintesi del messaggio che Haig ha tentato di trasmettere ai suoi più o meno disperati lettori («…dopo l’incubo viene il giorno / tornerai a sentirti vivo»), la grande semplicità e pulizia degli arrangiamenti concepiti da Burrows fanno sì che l’album sfugga al rischio di scadere nell’enfasi o in qualsiasi forma di retorica, pur riuscendo comunque a conservare lo spirito del testo originale. Un esempio ne è la ballata Hero, in cui viene introdotto l’immancabile personaggio femminile destinato a risollevare il protagonista dalla sua sofferenza – privilegio che, nella realtà, ben poche persone affette da depressione possono vantare, considerando l’isolamento so-
Reasons to Stay Alive nasce da un incontro fortuito.
ciale con cui ogni malato si trova a doversi confrontare. Eppure, questo senso di possibile salvezza – inteso come l’opportunità di cogliere e «scroccare» una qualche sorta di felicità al proprio destino – si ritrova anche in brani solari come Barcelona (in cui il cliché della città spagnola tanto amata dai cantanti pop-rock diviene non solo luogo dell’anima, ma anche di fuga dal proprio dolore) e la curiosamente spensierata Lucky Song. Tuttavia, le tracce più efficaci e suggestive del CD restano quelle in cui l’ottimismo lascia il posto alla riflessione e all’introspezione più istintive: come nelle toccanti How to Stop Time e, soprattutto, Handle With Care, empatica descrizione delle opprimenti percezioni quotidiane di un depresso. Ma, più di ogni altra, è la traccia finale – la surreale Lost in Space – a cogliere davvero nel segno, paragonando la condizione di una persona affetta da depressione a quella di un alieno che, lontano anni luce dal suo pianeta natale, si ritrovi solo ad affrontare un mondo ostile e indecifrabile. Certo, è difficile negare come vi sia una certa componente didattica nel sottotesto di quest’album, evidenziata dall’insistenza di Haig nel sottolineare come la salvezza sia possibile e come ci siano, appunto, «così tante ragioni per rimanere in vita»; eppure, i brani più riusciti rivelano come l’etereo senso di speranza che pervade l’intero lavoro sia, in realtà, solo apparentemente ingenuo – e finisca per trascinare l’ascoltatore in un viaggio non solo sonoro, ma anche di vera e propria esplorazione del sé.
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