Azione 19 del 6 maggio 2019

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Cooperativa Migros Ticino

Società e Territorio Gianni Clocchiatti ci spiega come funziona la creatività e ci suggerisce idee per trovare... idee

Ambiente e Benessere Pubblichiamo il primo di quattro articoli dedicati alle strategie complementari per far fronte ai cambiamenti climatici iniziando dal tema del «fuoco»

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXII 6 maggio 2019

Azione 19 Politica e Economia La guerra fra Maduro e Guaidó è uno scenario che promette di durare ancora a lungo

Cultura e Spettacoli Morte e rinascita di Veit Kolbe, protagonista del nuovo libro dell’austriaco Arno Geiger

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Un Trono che è già cult

Keystone

di Mariarosa Mancuso pagina 50

L’ossatura del futuro ordine mondiale di Peter Schiesser La Belt and Road Initiative (BRI), la nuova e ramificata Via della Seta, sarà l’ossatura del nuovo ordine economico euroasiatico, attraverso mari e continenti, con un impatto mondiale, a guida e dominanza cinese. Nessuno può prevedere quali contorni avrà, come si svilupperà questo planetario progetto di opere infrastrutturali, se avrà successo, ma il fatto che fin qui siano stati liberati 1000-1300 miliardi di dollari fa capire che si sta facendo sul serio. Lo ha dimostrato anche il secondo forum dedicato alla BRI a Pechino, alla presenza di rappresentanti di 150 paesi, 37 capi di Stato o di governo, fra cui il presidente della Confederazione Ueli Maurer. Negli Stati Uniti, per fare un confronto, la promessa elettorale di Trump di rimettere a nuovo autostrade e ponti è rimasta lettera morta e la richiesta di poco meno di 6 miliardi di dollari per il muro con il Messico ha provocato la chiusura per settimane dell’amministrazione statale. Certo, qualche brivido lungo la schiena corre, a vedere con quanta solerzia e acriticità mezzo mondo accorre a Pechino alla corte del nuovo imperatore celeste: con Xi Jinping la Cina è tornata piena-

mente sotto il controllo del partito comunista, le voci dissidenti sono ancora meno tollerate, nello Xinjiang un milione (!) di uiguri sono finiti in campi di rieducazione, c’è un controllo sempre più pervasivo della popolazione. Ma di diritti umani gli europei neppure parlano più quando si recano in Cina, si accontentano di non farsi fagocitare economicamente, di non dover cedere il loro sapere tecnologico, di chiedere aperture economiche, non certo politiche. Pare ormai chiaro che la Cina non diverrà un paese democratico, non in senso occidentale, e nella mente di molti politici e imprenditori europei tanto vale arrangiarsi con questa realtà, traendone i vantaggi possibili, perlomeno evitando gli svantaggi. A dire il vero, in Occidente molti politici e osservatori guardano ancora con molto sospetto alla Cina, benché non tutti. Il governo degli Stati Uniti sta cercando di convincere gli alleati europei a rifiutare la tecnologia della cinese Huawei sul 5G, con alterni successi, e l’Unione europea ha definito «avversario strategico» la Cina. Tuttavia, l’Italia, come primo paese dell’Ue, ha firmato un Memorandum of Understanding con la Cina in relazione alla BRI, la Grecia e l’Ungheria (destinatarie di investimenti cinesi) bloccano ri-

soluzioni di condanna della Cina in materia di diritti umani. «Dividi e lega», anziché «dividi e impera», ha definito in un’intervista alla NZZ (25.4.19) la strategia della Cina l’ex ministro portoghese per gli affari europei Bruno Maçaes, oggi analista a Pechino: la Cina teme un’Europa forte, quindi tende a creare divisioni. Allo stesso tempo, dice Maçaes, questa è una chance per l’Europa per rafforzare la sua unione: in passato non ne ha mai davvero avuto bisogno, ora, con un avversario così formidabile come la Cina, potrebbe essere giunto il momento – tuttavia deve trovare una forma d’intesa con la Cina. E la Svizzera? Anche Ueli Maurer, accolto in pompa magna a Pechino, ha firmato un Memorandum of Understanding sulla BRI, ma non tanto in quanto paese di transito della nuova Via della Seta, bensì per migliorarne il concetto stesso, affinché diventi più rispettosa dell’ambiente, trasparente, con responsabilità sociale, aperta a capitali privati, vantaggiosa per tutti, e non diventi una trappola del debito per i paesi che accettano i crediti cinesi. Xi Jinping ha promesso di muoversi in questa direzione. Si misurerà la Cina con i fatti, ma per ora non pochi hanno accusato Maurer, e quindi la Svizzera, di estrema ingenuità e di essere stato soprattutto utile per la propaganda cinese.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 6 maggio 2019 • N. 19

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Attualità Migros

I dipendenti di Migros Ticino sono soddisfatti

Management Sono stati resi noti i risultati del sondaggio che la cooperativa ticinese ha svolto

presso i propri collaboratori. Ne parliamo con Rosy Croce, Responsabile del dipartimento Risorse umane I collaboratori di Migros Ticino assegnano un valutazione media di 80 punti su 100 al proprio datore di lavoro: si tratta di un risultato molto importante, a detta della stessa azienda esterna che si è occupata di realizzare il sondaggio, denominato «Soddisfazione dei collaboratori 2019». Particolarmente significativi, secondo il parere degli esperti, sono sia il grande numero dei partecipanti che ha accettato di rispondere alle domande (il 92% dei dipendenti), sia l’alto punteggio delle valutazioni espresse. Se consideriamo che la scala generale dei punteggi vede il limite della «sufficienza» fissato sui 60 e quello dell’«eccellenza» fissato dai 90 punti in su, il risultato medio che è scaturito dal sondaggio corrisponde a una valutazione di «molto buono». Ciò significa che, malgrado la situazione attuale sul mercato del lavoro sia molto complessa, i dipendenti di Migros Ticino sono favorevoli alle politiche verso i collaboratori applicate dall’azienda e considerano favorevolmente il modo con cui l’azienda esprime il suo rispetto ai collaboratori. In qualità di Responsabile delle risorse umane da oltre 15 anni, Rosy Croce (un esempio di leadership al femminile sul nostro territorio), ci tiene a sottolineare come i risultati del sondaggio confermino la bontà dei presupposti con cui è impostato il lavoro di Migros Ticino. «Tutta l’azienda, dal Management al collaboratore, è oggi molto più attenta e sensibile ai

temi legati ad una politica di gestione partecipativa, attraverso una conduzione attenta ai bisogni del singolo nell’ottica dei bisogni aziendali. È importante che quanto viene proposto abbia un senso per il collaboratore e per l’azienda e che l’esito di questo investimento si possa concretizzare in risultati tangibili in termini di soddisfazione dei collaboratori, di motivazione, di riduzione delle assenze e di ottimizzazioni per l’azienda». E il risultato del sondaggio sembra proprio confermare che tale impostazione è apprezzata, conclude Rosy Croce. Il tema si collega del resto a quello fondamentale della promozione della salute in azienda: «Integrare la promozione della salute e la sicurezza sul lavoro nella politica di gestione dei collaboratori è un obiettivo che Migros Ticino persegue anche attraverso prestazioni all’avanguardia. Una delle risposte formulate nel corso dell’inchiesta premia in particolare questo tema, con una valutazione di 82 punti su 100» continua la Responsabile delle Risorse umane. «L’elemento fondamentale che contribuisce alla percezione di sicurezza, comunque, è l’esistenza di un solido contratto di lavoro. Il Contratto collettivo di lavoro nazionale Migros (CCLN, in vigore dal 1983 e rinegoziato ogni 4 anni) offre condizioni di lavoro tra le migliori a livello svizzero, tra cui un sistema di cassa pensione fra i più favorevoli per i lavoratori, basata sul primato delle prestazioni e finan-

ziata per i 2/3 dall’azienda, una politica di sostegno alla famiglia generosa (congedo maternità di 18 settimane al 100%; congedo paternità di 3 settimane al 100% + 2 settimane facoltative) e un’attenzione costante alle esigenze di formazione e sicurezza dei suoi collaboratori». Anche questi due fattori (soddisfazione a proposito della politica salariale e sociale dell’azienda, e

possibilità di sviluppo nella formazione) sono confermati dai risultati ottenuti nel sondaggio, avendo ottenuto una valutazione tra «buono» e «molto buono». «Va ricordato» continua Rosy Croce «che nella gestione delle risorse umane, dal 2007 Migros Ticino applica la metodologia M-FEE, una sistematica a sostegno della conduzione,

Siamo con te anche d’estate

Formazione La Scuola Club di Migros Ticino lancia la sua Summer School 2019 «Per me lo scorso anno scolastico non si è chiuso benissimo» racconta Luca, uno degli studenti che nel 2018 hanno frequentato la Summer School della Scuola Club di Migros Ticino. «C’era tedesco da recuperare. Mia mamma ha saputo di questa possibilità e mi ha iscritto subito. Dopo un test d’ingresso gratuito sono stato inserito in un piccolo gruppo di ragazzi che come me dovevano mettersi in pari e ho iniziato il corso con una docente molto disponibile e simpatica». Si rassicurino coloro che si staranno chiedendo come è andata a finire l’estate di Luca. Il suo impegno, supportato dai formatori della Scuola Club, ha dato buoni frutti e l’esperienza si è chiusa con un risultato più che positivo, con grande soddisfazione di Luca e dei suoi genitori. Anche quest’anno la Scuola Club di Migros Ticino rinnova il suo impegno estivo e nei prossimi mesi di giugno, luglio e agosto aprirà le porte delle sue quattro belle sedi ad una nuova avventura formativa con un calendario ricco di opportunità per tutti. Grande attenzione sarà anzitutto dedicata agli studenti che desiderano recuperare alcune materie e ripartire alla grande il prossimo anno scolastico.

Con la possibilità di un test gratuito di ingresso per la formazione dei gruppi di studio, le lingue – in particolare il tedesco – si confermano in pole position ma non mancano percorsi di recupero anche in matematica, chimica e fisica. Per tutti coloro, invece, che desiderano mettere a frutto il tempo dell’estate per fare un balzo in avanti nella pro-

Azione

Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

pria storia professionale e arricchire il CV non c’è che l’imbarazzo della scelta. Il calendario prevede un percorso super concentrato di contabilità: in poche settimane, con 90 ore di impegno, sarà possibile, partendo da zero, raggiungere risultati solitamente ottenibili con corsi della durata di un intero anno scolastico.

Un posto al sole per studiare...

La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31

Per gli interessati ad entrare nel campo della formazione degli adulti è in partenza un nuovo corso FFA-M1, mentre chi vuole sperimentarsi nel ruolo potrà accedere al corso di introduzione all’insegnamento. Vuoi ampliare le tue competenze digitali? Nessun problema: ti aspettano corsi di Introduzione Excel, Operatore Office con Certificato, Web Marketing Design con Certificato. Cruciale, per tutti, il potenziamento linguistico, settore in cui la Scuola Club Migros è leader nazionale, con corsi intensivi di tedesco e di italiano. «Che l’estate possa essere anche un momento di crescita personale e professionale è un’idea ormai condivisa da molti. Il numero crescente di partecipanti lo conferma» spiega la responsabile delle sedi di Lugano e Mendrisio, Mara Pedraglio. «Una vita sempre più piena di impegni rischia di penalizzare anche il desiderio di mantenersi in formazione, fattore chiave, oggi, per l’inclusione professionale e sociale». Le fa eco la collega Lisa Nani, referente delle sedi di Bellinzona e Locarno: «Il tempo estivo è il momento giusto per dare spazio alla cura di sé! Conquistare un attestato, perfezionare la preparazione a un esame di lingua o avvicinarsi al linTiratura 102’022 copie Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch

dello sviluppo e della retribuzione dei collaboratori basato sul rispetto, sulla conduzione partecipativa e l’equità di trattamento, che permette di motivare e coinvolgere i collaboratori». Grazie a questo impegno la Cooperativa può fregiarsi del Label «Friendly Work Space», un riconoscimento che la accredita e la distingue nella gestione del rapporto con i propri collaboratori.

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Tedesco, Inglese, Francese, Matematica. Dal 15 luglio al 26 luglio oppure dal 19 agosto al 30 agosto. Sedi Bellinzona, Locarno, Lugano, Mendrisio. Contabilità

Percorso completo Dal 1. luglio al 30 agosto. Anche possibilità di percorsi modulari. Sede di Bellinzona, Locarno, Lugano. Lingue

Tedesco intensivo. Dal 1. luglio al 26 luglio. Sedi di Bellinzona, Locarno, Lugano, Mendrisio. Formazione FFA- M1

Dal 19 luglio al 19 ottobre. Sede di Lugano, Bellinzona. www.scuola-club.ch Bellinzona 091 821 78 50 Locarno 091 821 77 10 Lugano 091 821 71 50 Mendrisio 091 821 75 60 guaggio digitale può fare la differenza. Noi ci siamo, felici di rendere la vostra estate un’indimenticabile avventura formativa». Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 6 maggio 2019 • N. 19

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Società e Territorio Aiuti umanitari La FOSIT, Federazione delle ONG della Svizzera italiana, compie 20 anni. Intervista a Pietro Veglio e Marianne Villaret

La lana tra i «nostrani» della Migros Morbida, colorata e naturale: è la lana ticinese lavorata a Gordola grazie a un progetto della Pro Verzasca in collaborazione con la SUPSI pagina 8

Protezione dell’infanzia La campagna di prevenzione «Idee forti: c’è sempre un’alternativa alla violenza» mostra tutti i vantaggi di un’educazione senza punizioni pagina 10

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L’idea geniale

Creatività Un manuale appena pubblicato

suggerisce una serie di trucchi ed esercizi per diventare più creativi. Intervista all’autore Gianni Clocchiatti, scrittore, docente e coach di innovazione

Stefania Prandi Non è semplice farsi venire l’idea che manca, che potrebbe fare la differenza. Esistono modi diversi per spremersi le meningi: c’è chi cammina, chi legge i tarocchi, chi entra in un rilassamento profondo, chi parla con tutte le persone che incontra di quello che sta cercando. 99 idee per trovare idee (Franco Angeli) suggerisce una serie di trucchi ed esercizi per diventare più creativi, allenando la mente e lo spirito. Il libro è il risultato di un lavoro di rete nato da seminari, sessioni formative, ricerche e letture. Gli autori sono Guy Aznar, psicologo e pioniere al mondo della creatività in Francia, Anne Bléas, consulente di marketing strategico e Gianni Clocchiatti, scrittore, docente e coach di innovazione, cambiamento personale e organizzativo. «Azione» ha raggiunto Clocchiatti al telefono. Gianni Clocchiatti, come funziona la creatività?

La creatività funziona in maniera associativa, considerando il problema oppure la difficoltà da risolvere sotto punti di vista inediti, combinando piani e ambiti diversi. Ad esempio, se voglio creare un nuovo paio di scarpe e penso solo a quante e quali siano le calzature che esistono già, difficilmente mi verrà in mente qualcosa di originale. Se invece faccio un’associazione con qualcosa che non c’entra nulla, per esempio un orologio, potrò immaginare delle scarpe «a tempo», legate alla quantità di ore in cui cammino, oppure che uso in una certa ora del giorno. Le idee che mi verranno sono germogli, non soluzioni: vanno coccolate, fatte crescere e poi scelte. La creatività è metodo e tecnica, tutti quanti la possediamo, semplicemente dobbiamo sospendere il giudizio. Uno dei principali ostacoli, infatti, è il giudizio degli altri, perché il mondo è pieno di chi dice: non si può fare, è una sciocchezza, lascia perdere. Come si può superare il giudizio degli altri?

Il giudizio è pericoloso, è il «killer» delle idee perché impedisce che germoglino. Una tecnica che propongo nei miei seminari per superare il giudizio è quella dei foglietti di carta. Lascio un blocchetto in mezzo al tavolo e quando una persona percepisce che

qualcuno dei partecipanti ha espresso un giudizio, una «killerata» come la chiamo io, è autorizzata ad appallottolare un foglietto e a lanciarglielo addosso, senza spiegazioni. È un modo buffo e scherzoso per dare un feedback immediato e ha un’efficacia incredibile. Il primo giorno di formazione volano foglietti in continuazione, mentre dal secondo al terzo giorno il gioco finisce spontaneamente perché si imparano a riformulare i pensieri togliendo il giudizio. Lei è un docente di creatività. Come è nata questa passione?

Ho un passato nel mondo del design: la creatività, così come la curiosità, sono sempre state importanti nella mia professione. Ho iniziato a indagare perché certe persone avessero più inventiva di altre, ho studiato le biografie di chi eccelle, ho lavorato con i migliori al mondo cercando di «rubare» la loro esperienza. Con prove ed esperimenti sul campo ho trovato il mio metodo. Si crede spesso che il creativo abbia un talento nascosto, un dono innato, ma è una mitologia: la creatività è democratica, semplicemente c’è chi sa di averla e si diverte e chi non lo sa e si arrabbia. È affascinante che ci sia un interstizio della società, ancora poco conosciuto, che si occupa di creatività in modo sistematico: esistono workshop, lezioni, corsi e incontri. Nei seminari internazionali persone con formazioni molto diverse si incontrano e sperimentano. Secondo me sono i momenti più fertili e divertenti. Alla fine del libro faccio un elenco di queste iniziative. Nel vostro manuale vengono proposti vari percorsi per trovare nuove idee. Come funziona il metodo che prevede di «invitare un personaggio di un romanzo o di una serie TV»?

Si tratta di un metodo «a trasposizione». Se quando siamo di fronte a un problema immaginiamo di chiedere consiglio a un personaggio che ci piace, che provenga da un romanzo oppure da una serie tv, possiamo sperimentare nuovi modi di pensare. Immaginiamo di invitarlo al nostro tavolo e di esaminare il problema dal suo punto di vista, ipotizzando quali sarebbero le soluzioni che lui ci indicherebbe in base alla sua personalità e alle sue caratteristiche. Usiamo i suoi occhi. Tra i suggerimenti c’è anche quello di «giocare ai tarocchi». Ce ne parla?

Secondo Clocchiatti la creatività è metodo e tecnica, tutti quanti la possediamo, l’ostacolo è il giudizio degli altri. (Marka)

Questa è una tecnica «proiettiva». I tarocchi sono molto conosciuti, vengono usati come oracoli ma hanno anche dei personaggi simbolici. Utilizzando le carte, mettiamo in atto una proiezione di chi ci appare: il personaggio che incontriamo ci indica un percorso. In questo modo entriamo nel mondo dell’impossibile, dove i giudizi sono del tutto sospesi, e sperimentiamo la libertà di spaziare senza limiti. Troveremo germogli, punti di partenza, per elaborare soluzioni impreviste. Anche i sogni ad occhi aperti sono un approccio per la ricerca di nuove idee. Come si fa?

Questa è una tecnica un po’ più complessa perché prevede un contesto adatto, un ambiente tranquillo e tecniche di rilassamento che si ritrovano in

discipline come lo yoga. Serve un certo allenamento: attraverso la respirazione e stimoli uditivi, entriamo in uno stato di semi-trance, in un momento sospeso, in cui siamo vigili anche se stiamo sognando. Nella fase di abbandono controllato siamo liberi dal tempo, dalle scadenze e dal giudizio. Quasi non sentiamo la forza di gravità e le idee emergono, potenti. Dato che non possiamo scrivere perché altrimenti perdiamo la concentrazione, è importante che ci sia qualcuno che prenda nota di quello che diciamo, delle visioni che ci appaiono. Altrimenti possiamo fare da soli, con un registratore. Un consiglio divertente che si trova nel libro è: «Parlate del vostro problema a tutti».

Tendiamo ad avere paura di essere in-

vadenti e invasivi se parliamo dei nostri problemi. Invece può essere molto utile perché le persone che hanno voglia di ascoltarci – può succedere che qualcuno si infastidisca, certo, ma peggio per lui – tirano fuori delle idee interessanti, magari sotto forma di consigli, oppure con delle battute ironiche. È tutto materiale che può farci comodo. Inoltre, il fatto di parlare apertamente del nostro problema funziona da autoipnosi, ci porta cioè a doverlo risolvere. Quando, infatti, incontriamo di nuovo quelle persone ci chiederanno come procedono le cose, a che punto siamo. Se teniamo tutto in testa non otteniamo lo stesso risultato perché a un certo punto arriva lo scoraggiamento: è una fase naturale del processo creativo che, se non si supera, ci può bloccare.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 6 maggio 2019 • N. 19

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Idee e acquisti per la settimana

Dai campi direttamente alla Migros Attualità Per il terzo anno consecutivo l’orticoltrice Manuela Krauss di S. Antonino rifornisce

Migros Ticino delle sue saporite fragole nostrane

Manuela Krauss e la figlia Sevenja da tre anni coltivano con passione uno dei frutti in assoluto più amati da adulti e bambini: le fragole. Una sfida che le due coltivatrici bellinzonesi hanno raccolto con entusiasmo è che, malgrado le fatiche quotidiane che comporta la conduzione di un’azienda agricola, è stata premiata dalla clientela di Migros Ticino, che ha fin dall’inizio apprezzato il loro pregiato prodotto. Sul Piano di Magadino le piantine di fragole si trovano a proprio agio e possono svilupparsi in modo ottimale. «Il nostro clima è ideale per la coltivazione delle fragole», spiega Manuela Krauss. «Inoltre è essenziale disporre di un terreno sabbioso, di un’irrigazione regolare e proteggere i frutti dalla pioggia con una copertura». Per il resto le fragole non richiedono praticamente nessun trattamento, se non, solo in caso di necessità, quello effettuato contro il marciume all’inizio della coltura. «Un altro “alleato” importante è il vento, che qui soffia costantemente e permette di mantenere le fragole sempre belle asciutte, tenendo lontani parassiti e malattie», aggiunge Manuela. Da qualche giorno nel fragoleto di 20’000 metri quadrati dell’azienda Krauss è iniziata la raccolta dei rossi frutti. Un’operazione delicata che viene eseguita rigorosamente a mano. Le fragole vengono colte al mattino presto e nel pomeriggio sono già fornite alla centrale di distribuzione Migros di S. Antonino, da dove il giorno seguente prendono la via di tutti i supermercati del Cantone. Consigliamo di consumare le fragole nostrane appena acquistate quanto prima: in questo modo potrete approfittare al meglio del loro dolce aroma e delle preziose sostanze nutritive che contengono. A proposito: l’azienda Krauss da quest’anno ha iniziato a coltivare anche lamponi. Queste piccole meraviglie di bacche saranno disponibili a partire dal mese di giugno nel vostro supermercato Migros di fiducia.

Manuela Krauss nel suo campo di fragole. (Tresol Group/Däwis Pulga)

Una mamma bellissima

Attualità Idea regalo per la Festa della Mamma del 12 maggio A disposizione nelle maggiori filiali di Migros Ticino una linea completa per il trattamento e la cura del viso: il mitico tonico, i prodotti per la detergenza quotidiana, gli struccanti e le creme viso specifiche. Perché non stupire la mamma con un prodotto della linea Acqua alle Rose, elisir di eterna bellezza e simbolo di un legame inossidabile nel tempo come la fragranza delle preziose rose? Ricordatevi di lei in questa giornata speciale e donatele una rosa di bellezza. Per una pelle giovane, bella e senza età: come la vostra dolce mamma!

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Idee e acquisti per la settimana

Una giornata di movimento e svago

Sponsoring Migros Ticino sostiene la quinta edizione del Walking

Voglia di grill

Attualità Tutto pronto nei Do it + Garden

Migros per la nuova stagione delle grigliate

Mendrisiotto

Domenica 2 giugno 2019 avrà luogo la quinta edizione dell’apprezzato Walking Mendrisiotto. Grande novità di quest’anno è Walk&Dog, un percorso interamente pensato per gli amici a quattro zampe e i propri padroni. Il tracciato di 8.4 km prevede soste e punti di ristori per entrambi con acqua, cibo e zone d’ombra per riposarsi e giocare. L’evento propone altre 4 scelte di percorso, walking o nordic walking, di diverse distanze e difficoltà. Il più impegnativo è il tracciato denominato «Salorino» (14.6 km e 570 m di salita), uno splendido trac-

Iscrizioni da vincere! «Azione» mette in palio 10 iscrizioni gratuite per una gara a scelta al Walking Mendrisiotto del 02.06.2019 (escluso Walk&Dog). Per aggiudicarsele basta telefonare mercoledì 8 maggio 2019, a partire dalle ore 10.30, al numero 091 850 82 76. Buona fortuna!

Dai grill a gas a quelli a carbonella, dai modelli elettrici a quelli portatili fino agli accessori originali più ingegnosi, il marchio svizzero Sunset BBQ offre tutto ciò che serve per delle grigliate sempre riuscite. I prodotti si caratterizzano per l’alta qualità dei materiali e per la scelta capace di soddisfare qualunque necessità e budget. Tra le novità di quest’anno

ciato dal punto di vista paesaggistico e dedicato ai camminatori più allenati che desiderano mettersi alla prova. Il secondo in ordine di lunghezza è «Castello» (10.8 km), di media difficoltà, 380 m di dislivello, che passa da Corteglia, Castel San Pietro, Obino, per poi rientrare a Mendrisio. Novità di quest’anno è il tracciato pianeggiante di 7.7 km «Chiasso», che parte da Chiasso e arriva a Mendrisio (il luogo di partenza è facilmente raggiungibile con i mezzi pubblici, biglietto incluso nell’iscrizione). Infine, vi è il percorso «Famiglia» di 3.6 km, facile e pia-

neggiante e senza ostacoli, lungo il quale per la prima volta i più piccoli troveranno intrattenimenti e simpatici giochi. Gli interessati trovano tutte le informazioni dettagliate, come pure la possibilità di iscriversi, sul sito dell’evento www. walkingmendrisio.ch. La quota d’iscrizione include una t-shirt in tessuto tecnico, un buono pasto per la zona ristorazione dell’evento, un pettorale con inserita la carta giornaliera Arcobaleno (tutte le zone, 2a classe, valida il giorno dell’evento), i rifornimenti e servizio sanitario lungo il percorso.

segnaliamo per esempio l’innovativo grill elettrico HLS, un apparecchio con tecnologia a infrarossi, operativo in tempi rapidi e con prestazioni simili al grill a gas e il grill a gas Korsika con 3 bruciatori in acciaio inox e griglie in ghisa per prestazioni di alto livello. Infine, potrete scoprire i prodotti Sunset BBQ in occasione di alcune giornate di dimostrazione, previste presso i Do it + Garden Migros di Losone (sabato 11 maggio), Agno (sabato 18 maggio) e Grancia (mercoledì 29 maggio).

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 6 maggio 2019 • N. 19

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Società e Territorio

La solidarietà è il fulcro della cooperazione

Aiuti umanitari La FOSIT, Federazione delle ONG della Svizzera italiana, compie 20 anni. Bilancio e prospettive

Fabio Dozio «Per quanto il baobab sia grande – recita un proverbio africano – ha sempre un piccolo seme come genitore». La Svizzera italiana è un paese altruista e generoso. Lo dimostra anche il numero di organizzazioni non governative che intervengono in tutto il mondo raccogliendo fondi e mettendo a disposizione volontari. L’aiuto umanitario è un gesto di generosità e di solidarietà con chi, lontano da noi, è confrontato con la povertà e l’indigenza. I gesti solidali fanno bene a chi riceve, ma anche alla coscienza di chi offre o dona. Il dibattito sul senso degli aiuti umanitari resta aperto: prima di tutto gli aiuti devono rispondere a criteri di qualità e di efficacia, per offrire credibilità e ottenere fiducia. Anche per questo motivo fondamentale è nata venti anni fa la FOSIT, la Federazione delle ONG della Svizzera italiana, che oggi raggruppa una sessantina di organizzazioni di pubblica utilità attive nell’ambito della cooperazione internazionale allo sviluppo in Africa, America latina, Asia e nei paesi dell’Est europeo. «Per chi ha creato la sua ONG con grandi difficoltà in villaggi sperduti dell’Africa o dell’Asia, questa attività può diventare la sua ragione di vita – ci dice Marianne Villaret, segretaria generale della FOSIT. Si fa questo lavoro umanitario per gli altri, ma anche per se stessi. Lo slancio umanitario va benissimo, ma poi si deve professionalizzare. Bisogna ascoltare il partner sul posto, partire dai bisogni locali per costruire qualcosa di sostenibile. La piccola ONG ha un grande impatto locale, ma va evitato di creare una swissminiatur, bisogna puntare all’autonomia, e pianificare quanto restare ad aiutare e quando smettere lasciando fare ai locali». Il programma strategico della

Marianne Villaret, segretaria generale della FOSIT. (Stefano Spinelli)

FOSIT per gli anni 2019-22 si propone come obiettivo generale di sostenere e promuovere la cooperazione internazionale, lo sviluppo sostenibile e le ONG della Svizzera italiana, assieme a

Nuovi Bandi FOSIT Il 7 maggio vengono pubblicati i nuovi Bandi per il finanziamento di progetti di cooperazione allo sviluppo tramite la FOSIT. Per il 2020 vengono messi a disposizione delle ONG della Svizzera italiana 600’000 franchi. Tutte le informazioni saranno consultabili su www.fosit.ch

una solida rete di partner. Gli obiettivi specifici per questi anni sono quattro: consolidare una rete dinamica di membri che svolgono un lavoro di qualità, essere riconosciuti come polo regionale di competenze in materia di cooperazione allo sviluppo, promuovere nelle ONG e nell’opinione pubblica i temi della cooperazione internazionale e dello sviluppo sostenibile, garantire strutture finanziarie adeguate per compiere la missione. La FOSIT può contare su un finanziamento annuale della Confederazione di circa 400mila franchi, 100mila sono destinati all’attività dell’associazione e 300mila ai progetti dei membri. A questi si aggiungono altri contributi destinati ai progetti: 250mila franchi

dal Canton Ticino e 200mila dai Comuni partner o da privati. L’anno scorso i progetti finanziati sono stati 49, in 23 Paesi. La sessantina di ONG affiliate alla Federazione raccoglie contributi della popolazione per un volume complessivo di circa 9 milioni di franchi l’anno. Assieme ai soldi, va citato il numero dei volontari, che sono complessivamente oltre 600, attivi nella Svizzera italiana o nei Paesi terzi. «Noi controlliamo continuamente, – precisa Villaret – su richiesta dei membri, alcuni aspetti istituzionali. Ogni anno le ONG devono convocare l’assemblea, approvare e sottoporre a revisione i conti, stilare un verbale. Insomma, accertiamo che tutto sia a norma. La richiesta di fondi passa dap-

prima all’esame della nostra commissione tecnica. Poi c’è la verifica delle operazioni e degli interventi, quando l’ONG ha ricevuto finanziamenti per un progetto». La FOSIT fa riferimento a una carta dei principi e degli obiettivi che elenca una serie di valori cui attenersi: giustizia sociale, equità e rispetto dei diritti umani, coinvolgimento della società civile nella cooperazione allo sviluppo, pari opportunità tra uomo e donna, educazione allo sviluppo: «Le ONG della Svizzera italiana sono convinte che occorra rivolgere un’attenzione e un sostegno particolari ai gruppi sfavoriti delle comunità con le quali lavorano, soprattutto ai bisogni dei bambini, delle minoranze e delle altre categorie a rischio». «In questi venti anni di vita della FOSIT – annota Marianne Villaret – è cambiato l’approccio del volontariato. Si lavora più alla pari, evitando di volersi sostituire alle persone del posto. Se si sostiene un ospedale non si manda un medico, ma si forma uno del posto. Non bastano le attività assistenziali, bisogna formare i volontari perché possano dotarsi degli strumenti adeguati per intervenire». Da parte sua, la Confederazione dovrà definire i nuovi obiettivi dell’aiuto allo sviluppo. Recenti anticipazioni di stampa hanno rivelato che Ignazio Cassis, responsabile del dossier, intende «riorientare l’aiuto allo sviluppo e destinare i fondi tenendo maggiormente conto degli interessi della Svizzera. Il ministro degli esteri, intende destinare 11,37 miliardi di franchi alla cooperazione allo sviluppo (quadriennio 2020-2023). I fondi dovranno però essere investiti in maniera più mirata ed efficace». Si tratterà di vedere cosa significheranno questi nuovi intenti. In ogni caso, la Svizzera continua a investire lo 0,45% del Reddito nazionale lordo, una quota inferiore all’obiettivo fissato dal Parlamento a 0,5%.

Nessuno venga lasciato indietro Intervista A colloquio con Pietro Veglio, Presidente uscente della FOSIT FOSIT fa riferimento all’Agenda 2030 dell’ONU. Che cosa significa concretamente?

L’Agenda 2030 dell’ONU ha una dimensione universale e si applica a tutti i Paesi. In un mondo sempre più interdipendente, sfide come il cambiamento climatico, la gestione delle risorse idriche e delle migrazioni ma anche la povertà e i conflitti armati non conoscono confini. L’azione individuale dei Paesi non è sufficiente per far fronte a tali sfide, né ad eliminarne le cause. Da qui l’urgenza di un impegno collettivo globale, nazionale e locale. Evidentemente ogni Paese deve contribuire alla loro soluzione a seconda delle proprie possibilità. I 17 obiettivi mirano a che nessuno venga lasciato indietro: tutti i Paesi, tutti i popoli e tutti i ceti sociali devono beneficiarne, in primis i più sfavoriti. E l’Agenda implica il coinvolgimento attivo del settore imprenditoriale e finanziario privato. L’Agenda costituisce un quadro di riferimento non solo per la cooperazione internazionale della Svizzera ma rientra anche fra gli impegni a livello nazionale dalla Strategia di sviluppo sostenibile approvata dal Consiglio federale il 27 gennaio 2016. La FOSIT condivide questi obiettivi e si impegna affinché i propri membri collaborino con i loro partner istituzionali nei Paesi in sviluppo al raggiungimento degli stessi, in particolare implementando

piccoli progetti per migliorare la qualità della salute, educazione e formazione professionale; l’approvvigionamento in acqua potabile e l’igiene sanitaria; l’uguaglianza di genere; lo sviluppo comunitario, ecc.

Gli interventi delle ONG possono avere un’influenza sulle migrazioni verso l’Europa?

Le ONG svizzere chiedono alla politica, all’Amministrazione federale, all’economia privata, al mondo scientifico, alla società civile di promuovere una politica nei confronti dei rifugiati, dei migranti e dello sviluppo dei paesi di origine di queste persone che sia coerente con la tradizione umanitaria svizzera. Grazie ad una politica estera aperta e ad una cooperazione allo sviluppo a lunga scadenza la Svizzera può contribuire al miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro nei Paesi di origine dei migranti, permettendo loro di rinunciare a migrazioni pericolose e spesso con poche prospettive positive. Questo implica lottare contro le cause delle migrazioni e negoziare soluzioni a livello internazionale per aiutare i paesi in sviluppo a gestire gli sfollamenti interni che concernono oggi ben 70 milioni di persone, in particolare co-finanziando i costi addizionali dei servizi sociali e infrastrutturali necessari. Le piccole ONG che intervengono per anni nella stessa situazione

non rischiano di creare privilegi e passività?

Il rischio di creare privilegi, passività e di conseguenza anche eccessiva dipendenza dagli aiuti è reale. Le piccole ONG possono evitarlo o per lo meno minimizzarlo rafforzando istituzionalmente i loro partner nei Paesi del Sud. Per essere sostenibile la cooperazione allo sviluppo deve infatti essere basata su un partenariato solido, regole precise e trasparenti, flessibilità operativa per adattarsi alle mutevoli circostanze e con un orizzonte temporale realista. È importante evitare il paternalismo che a volte ha caratterizzato gli interventi di alcune ONG, e non solo le piccole. È interessante osservare che alcuni Paesi poveri vogliono ridurre il loro grado di dipendenza dagli aiuti internazionali. L’attuale presidente del Ghana Akufo-Addo ha dichiarato: «Non è corretto che il Ghana, a 60 anni dall’indipendenza, dipenda ancora dalla generosità e dalla carità dei contribuenti europei per finanziare la spesa pubblica per la salute e l’educazione nazionale. Dovremmo infatti essere in grado di finanziare autonomamente i nostri bisogni fondamentali.

Lei lascia la presidenza, qual è la cosa più importante che le rimane di questa esperienza?

Sono felice di aver potuto lavorare nell’ambito di una piccola federazione cantonale come la FOSIT. Spero di

Dopo otto anni Pietro Veglio lascia la presidenza della FOSIT. (S. Spinelli)

aver contribuito a dare un impulso alla sua crescita qualitativa e a quella dei suoi membri. Grazie all’ottima collaborazione con la SUPSI, la FOSIT ha contribuito a formare 60-70 persone sulla tematica della cooperazione internazionale. La FOSIT basa il suo impegno sul volontariato professionale, non sempre conosciuto a livello di opinione pubblica. Il volontariato merita rispetto e riconoscenza, soprattutto considerando che oggi le esigenze sono aumentate a fronte di impegni professionali e privati individuali sempre più intensi. Oggi la FOSIT è riconosciuta come un partner affidabile e competente a livello federale, dei cantoni Ticino e Grigioni, di vari comuni ticinesi e di partner privati che ci hanno sostenuto finanziariamente. La Svizzera non ottempera l’impegno di stanziare lo 0,5% del RNL. Qual è il suo giudizio?

Sì, purtroppo negli ultimi due anni le spese per la cooperazione internazionale della Svizzera sono diminuite, principalmente per i tagli decisi dal Parlamento. È una tendenza che mi preoccupa, anche perché – grazie ad una gestione oculata delle finanze pubbliche – la Confederazione gode di una situazione di eccedenza di bilancio e il raggiungimento dello 0,5% del RNL è più che realizzabile. La Svizzera beneficia su larga scala della globalizzazione ed è quindi chiamata a esserne un attore responsabile. Il suo successo, la sua prosperità ed i suoi valori la predestinano a mettere le sue forze al servizio del mondo, fedele al principio che la solidarietà è il fulcro della cooperazione internazionale. Ho spesso constatato che all’estero la nostra cooperazione internazionale gode di una buona reputazione. Questa immagine positiva merita di essere ulteriormente rafforzata. / F.D.


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Società e Territorio

Un «nostrano» morbido e colorato

Artigianato Un innovativo progetto promosso dalla Pro Verzasca in collaborazione con la SUPSI permette di lavorare

a Gordola la lana di pecora ticinese: una lana 100% naturale che ora si può trovare anche nei negozi di Migros Ticino

Elia Stampanoni Nata nel 1933 con lo scopo di aiutare le famiglie rurali della valle, la Pro Verzasca ha mantenuto in questi anni alcune delle sue attività iniziali, tra cui la lavorazione della lana. Fu infatti questa una delle prime iniziative promosse dal gruppo di verzaschesi che fondò l’associazione e che ha coinvolto diverse persone in ambito artigianale. Tintura, filatura ed elaborazione iniziarono negli anni ’30 con lana locale, che venne però poi abbandonata a favore di materia prima importata. La lana nostrana finì invece un po’ nel dimenticatoio, considerata quasi come scarto. Non che quella ticinese fosse carente, anzi, sia a livello di quantità che di qualità aveva (e ha) tutti i requisiti necessari, ma mancava un anello importante nel processo di trasformazione: il lavaggio. Per far fronte alla situazione nel 2012 è nato il progetto WoolTI, frutto della collaborazione tra la Pro Verzasca

e la Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana (SUPSI), che ha trovato una valida soluzione al problema, come ci spiega Marcel Bisi, presidente dell’associazione e coordinatore dell’iniziativa: «Oggi raccogliamo la lana di circa cinquanta allevatori ticinesi, che viene di seguito smistata. In parte viene lavorata dalla Pro Verzasca, in parte commercializzata in Svizzera tedesca quale materiale isolante o edile». Ogni anno l’associazione raccoglie e valorizza circa 150 quintali di lana ticinese, dei quali circa mille chilogrammi confluiscono nell’innovativo impianto di lavaggio a Gordola, che ha colmato lo stadio mancante di un processo ora interamente locale. «Il progetto è stato sviluppato congiuntamente al Dipartimento tecnologie innovative della SUPSI – illustra il presidente della Pro Verzasca – e ha permesso d’installare un impianto di piccole dimensioni, che garantisce però i livelli qualitativi delle grandi attrezzature presenti per esempio nella vicina

La lana della Verzasca nei Nostrani del Ticino La lana cardata ticinese 100% naturale è in vendita nelle filiali Do it + Garden di Losone, Taverne, Agno, Serfontana, Grancia e le filiali Migros di San Antonino e Lugano. Sul sito web www.azione.ch potete

trovare una scheda speciale che permette di realizzare un fiore profumato in feltro con lana cardata della Pro Verzasca: una piccola idea regalo in occasione della Festa della mamma del 12 maggio.

Italia, dove si manipolano fino a 17mila chili di lana al giorno, mentre a Gordola ne lavoriamo una ventina». Una filiera su scala ridotta quindi, che consente di ottenere un prodotto di nicchia altamente sostenibile, anche perché il nuovo sistema di lavaggio all’avanguardia è stato pensato in modo da ridurre l’utilizzo d’acqua ed eliminare l’uso di sostanze chimiche, come la soda per esempio. Le alternative adottate sono state l’utilizzo degli ultrasuoni nella fase di pulizia, un sistema con riciclo dell’acqua e il dimensionamento dell’impianto che, come sottolineato, è adatto ai piccoli volumi: «Nella fase di lavaggio, a differenza delle strutture di grandi dimensioni, siamo riusciti a ridurre drasticamente il consumo di acqua ed energia, contenendo pertanto anche i costi e rendendo possibile l’elaborazione di piccoli lotti», commenta Marcel Bisi aggiungendo che a Gordola si trattano anche partite di solo alcuni chilogrammi per volta. La lana succida, quella appena tosata, viene raccolta sul territorio ticinese e anche i piccoli allevatori possono consegnare direttamente a Gordola quantitativi minimi da lavorare separatamente (anche lana di alpaca, lama o capra per esempio). Dai circa mille chili trattati in media annualmente si ottengono approssimativamente 700 chili di lana in fiocchi, privata del grasso in eccesso, da impurità, terra e sporcizia. «Questa lana viene anche cardata ed è di alta qualità. Si può adoperare per il bricolage, per fare del feltro oppure per

La Casa della lana di Sonogno. (Pro Verzasca)

essere filata e quindi poi utilizzata per la maglieria», spiega Marcel Bisi. Un prodotto disponibile da novembre 2018 anche presso alcuni punti vendita Migros Ticino sia nella versione grezza, sia in cinque diversi colori, ognuno in tre gradazioni differenti. La tintura della lana continua ad essere eseguita dalla Pro Verzasca, che utilizza dei coloranti disponibili in natura, quali foglie, radici o frutti. Una fase che si svolge a Sonogno, nella Casa della lana, solitamente in primavera e in autunno. Dopo essere asciugata all’aria, la lana viene cardata, un procedimento con cui si sbrogliano i nodi in modo che le fibre possano essere allineate e ottenere quindi la lana pronta per essere filata, per fare del feltro oppure per il «fai da te».

Un’attività che, adattandosi ai mutamenti della società, è tornata a rivivere con rinnovato slancio permettendo di valorizzare un prodotto locale e avvalendosi delle persone e delle conoscenze regionali. «Sì, direi proprio che il progetto stia riuscendo, consentendo di coinvolgere gli allevatori e la popolazione in un contesto locale per creare nel contempo anche posti di lavoro», conclude Bisi. Attorno al progetto della lana ticinese, nel quale Migros Ticino collabora per la commercializzazione della lana cardata, si stanno anche rilanciando altre iniziative ad essa legata, come corsi di tintura e di filatura, visite o altri eventi con l’obiettivo di promuovere la cultura e sostenere la produzione artigianale. Annuncio pubblicitario

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Società e Territorio

Ai genitori forti non serve la violenza Protezione dell’infanzia La campagna di prevenzione «Idee forti: c’è sempre un’alternativa alla violenza»

intende mostrare i vantaggi di crescere i figli senza ricorrere alle punizioni psicologiche e fisiche

Alessandra Ostini Sutto «Spesso i bambini ci spingono al limite della sopportazione. È quello che mi succede regolarmente con i miei figli quando hanno le crisi di rabbia alla cassa del supermercato o si rifiutano di fare ordine. Reagire in maniera corretta in queste situazioni è una vera e propria sfida. Nel contempo, però, i nostri figli sono completamente in balia di noi adulti (…) Per questo motivo i bambini hanno bisogno del nostro sostegno e della nostra attenzione». Queste parole del cabarettista, musicista e attore Nils Althaus, che si leggono sul sito di Protezione dell’infanzia Svizzera, dipingono bene una situazione nota ai genitori. Generalmente sono proprio situazioni banali, in cui i bambini non si comportano come vorremmo, e a cui si sommano le preoccupazioni quotidiane, che portano a reagire d’istinto, come razionalmente non avremmo voluto. Per evitare di perdere il controllo, usare parole inadeguate o passare alle maniere forti, è utile riflettere su se stessi ed interiorizzare dei comportamenti alternativi per gestire in maniera costruttiva le situazioni educative difficili. Anche perché, volenti o nolenti, i genitori fungono da modello per i figli, che imparano molto per imitazione. «Proprio per questo cerco di essere un buon esempio per i miei figli. Sono convinto che sia tutto quello che posso fare per accompagnarli nella loro vita e per continuare a essere un punto di riferimento per loro», sostiene a proposito Christian Lüber, autore di musica per i più piccoli, sempre sul sito della fondazione Protezione dell’infanzia Svizzera, che si impegna affinché i bambini possano crescere senza violenza, nel rispetto della loro dignità e dei loro diritti. La sua pluriennale campagna «Idee forti: c’è sempre un’alternativa alla violenza», lanciata lo scorso anno, parte da uno studio commissionato all’università di Friborgo sul comportamento punitivo dei genitori. Il principale dato emerso è che in Svizzera un bambino su due è confrontato con pratiche educative violente. «La campagna di sensibilizzazione vuole affrontare, senza giudicarla o criminalizzarla, la norma sociale al momento predominante secondo la quale “quando ci vuole, ci vuole”. Spesso i genitori si comportano così perché non sanno che altro fare. È proprio su que-

sta difficoltà che la campagna intende intervenire per mostrare i vantaggi di crescere i figli senza ricorrere alle punizioni psicologiche e fisiche», afferma Xenia Schlegel, direttrice di Protezione dell’infanzia Svizzera. In una prima fase, «Idee di bambini forti per genitori forti», alcuni bambini raccontano in un video come reagiscono i loro genitori quando non ubbidiscono o combinano un pasticcio. Si capisce subito che non sono pochi gli adulti che ricorrono a punizioni che fanno soffrire i bambini. Molti genitori si riconosceranno in queste testimonianze, perché si riferiscono a situazioni che affrontano nella loro quotidianità e che spesso li portano a confrontarsi con i propri limiti. Ma come migliorare il proprio comportamento? La Fondazione lo ha chiesto ai protagonisti della campagna. Anche se apparentemente semplici, le «Idee di bambini forti per genitori forti» – stampate, nelle quattro lingue nazionali, su delle magliette – possono rivelarsi efficaci. Proposte quali «Dai mamma, conta fino a dieci» oppure «Papà, mangia un po’ di cioccolata», hanno infatti il pregio di evidenziare che spesso basta fermarsi un momento per calmare le acque e reagire in maniera ponderata. Questa prima fase della campagna nazionale mira a migliorare la consapevolezza di quello che provano i bambini. «A volte dimentichiamo che i bambini non nascono già grandi e che siamo stati tutti bambini. Vedere le cose da un’altra prospettiva fa bene a tutti. Ci aiuta a interagire con i bambini da pari a pari e a capirli meglio», afferma, sul sito della Fondazione, Olivia Abegglen, blogger del sito fraueleintiger.ch e madre di due bambini. Secondo lo studio, quasi la metà dei genitori interpellati ha motivato l’ultima occasione in cui ha ricorso alla violenza fisica con il fatto che il bambino li avesse fatti arrabbiare, scocciati o provocati. Quando, insomma, le cose gli erano sfuggite di mano. Non solo, però, a causa dei figli, dal momento che circa un quarto degli intervistati ha ammesso di essersi sentito, che in quel determinato episodio, stanco, irritato o con i nervi a fior di pelle. Il ricorso a punizioni che feriscono nel corpo e nella psiche non fa quindi in genere parte di un «progetto educativo», come dimostra pure il fatto che la maggior parte dei genitori si pente delle proprie azioni. Nell’ambito dello studio, quali mi-

La campagna ha coinvolto direttamente i bambini. (www.protezioneinfanzia.ch)

sure punitive, sono state spesso citate le «sgridate» e il «divieto di usare media elettronici». Tra le reazioni che per gli studiosi vanno considerate atti di violenza corporale, le sculacciate sono le più frequenti (30,7%). Più raramente i bambini vengono, per esempio, picchiati con un oggetto (1,4%) o messi sotto la doccia fredda (4,4%). Un genitore su venti ricorre spesso alla violenza fisica, uno su tre la usa di rado. Più frequente il ricorso alla violenza psicologica: il 68,6% dei genitori interpellati vi ha già fatto ricorso, mentre il 25,15% ammette di servirsene regolarmente o molto spesso. Le forme più usate sono la volontà di ferire il bambino a parole e gli insulti. Succede però anche che i

genitori minaccino i figli di picchiarli o li privino temporaneamente del loro amore. A breve termine tali punizioni potranno anche funzionare, ma a lungo termine la violenza produce conseguenze negative, che pregiudicano la salute psicofisica e lo sviluppo dei bambini. Ne risente, quasi sempre, l’autostima, ma spesso anche le note scolastiche e, più in là, il successo professionale. Cresce inoltre il rischio di sviluppare disturbi psichici e dell’instaurarsi di problemi relazionali nell’età adulta. Le punizioni psicologiche e corporali insegnano infatti ai bambini che il mondo, a partire dalle relazioni più strette, non è completamente

degno di fiducia. La violenza diventa inoltre una variante normale nei rapporti con gli altri, con tutto ciò che ne consegue. Educare senza punire in modo inadeguato è però – ovviamente – possibile. Serve che, per diventare forti, i bambini abbiano alle loro spalle dei genitori forti, disposti a porre dei limiti con costanza e amorevolezza. Ed è proprio ai genitori, e ai nonni, che viene dato spazio nella seconda parte della campagna, appena lanciata, denominata, «Idee di persone forti per genitori forti». Nel breve video che l’accompagna – visionabile sul sito www.kinderschutz.ch – genitori e nonni raccontano le esperienze di violenza vissute nella loro infanzia oltre che nella vita quotidiana con i loro figli e nipoti. Il filmato evidenzia come le misure violente sono ricordate molto bene anche a distanza di anni. Come avevano fatto i bambini, i protagonisti della seconda fase della campagna propongono semplici alternative, visibili – tra l’altro – sui cartelloni attualmente affissi lungo le strade che percorriamo ogni giorno. «Se i bambini combinano un pasticcio, conto fino a dieci» è, per esempio, la soluzione adottata da mamma Sophia. In situazioni di questo tipo altri genitori respirano profondamente oppure canticchiano. Poco importa la soluzione scelta, conta che su se stessi funzioni, come dimostra la testimonianza di Yvonne Feri, consigliera nazionale e presidente del Consiglio di fondazione di Protezione dell’infanzia Svizzera: «Come madre sola e attiva professionalmente, che ha cresciuto due figlie ormai adulte, il tema dell’educazione mi sta particolarmente a cuore (…) Nei momenti di difficoltà mi ha aiutata fare movimento: uscivo all’aria aperta da sola o con le mie figlie e generalmente le mie frustrazioni svanivano molto in fretta». Trovando la personale chiave che consente di allentare la tensione, i genitori riusciranno meglio a trasmettere regole e limiti chiari in un ambiente comprensivo e premuroso. Allentare la tensione consente pure di apprezzare maggiormente i momenti piacevoli con i propri figli e le loro caratteristiche positive. Manifestandole, essi sapranno cosa ammiriamo di loro. Ciò farà loro sicuramente del bene e avrà pure la probabile – e piacevole – conseguenza che i bambini saranno più portati a comportarsi come noi genitori riteniamo adeguato.

Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Enid Blyton, serie «La Banda dei Cinque», Mondadori. Da 8 anni Non sono molti i gialli per ragazzi contemporanei. Nel senso tradizionale di storie di indagine vere e proprie, non nel senso di thriller, horror o avventure dark. Ben venga dunque l’opportuno recupero, che Mondadori da qualche tempo sta facendo, della buona vecchia serie della grande Enid Blyton, «La banda dei Cinque» (Famous Five nell’originale inglese), ormai giunta al settimo volume, Avventura in campeggio. Una ristampa accolta con favore anche dai bambini del Terzo Millennio, perché sono storie che, alla prova del tempo, non hanno perso la loro freschezza. Già i titoli dei sette volumi finora usciti ci evocano immediatamente quei luoghi tipici e sempreverdi dell’immaginario infantile, alludendo, oltre al topos del campeggio come luogo avventuroso, a isole misteriose, passaggi segreti, circhi misteriosi, mappe segrete. Eppure sono storie che furono pub-

blicate tra gli anni Quaranta e gli anni Sessanta del secolo scorso, venendo trasferite anche in teatro, al cinema, sul piccolo schermo. I loro punti di forza sono parecchi: innanzitutto il ritmo, vivace, sostenuto. Poi il fatto che mettono in scena – come è tipico dei gialli per ragazzi tradizionali, sulla scia del capostipite Emilio e i detective, di Erich Kästner – una banda di bambini che agisce socialmente (nel senso che non si tratta mai di un bambino solo angosciato di fronte al crimine, e questo è rassicurante) e autonomamente (nel senso che gli adulti sono lasciati fuori, e

questo è eccitante). Inoltre uno dei cinque non è un bambino ma un cane: la banda è costituita infatti da Julian, Dick, Anne, dalla loro cugina Georgina detta George (perché ogni tanto vorrebbe essere un maschio), e dal suo cane Timmy. Bentornati Famous Five! Guido Sgardoli, Oltre il sentiero, illustrazioni di Alessandro Sanna, De Agostini, collana «I diamantini». Da 9 anni Questo romanzo è pubblicato da De Agostini, nella collana «I diamantini»: prima di parlare del romanzo vorrei segnalare la collana, che in toto merita apprezzamento, per vari motivi. Prima di tutto perché si rivolge a quella fascia d’età, tra infanzia e preadolescenza, non sempre ricca di proposte adeguate. Poi perché gli autori scelti sono di primissimo piano nel panorama italiano (oltre a Sgardoli, ad esempio Annalisa Strada e Cecilia Randall); e così gli illustratori, ai quali viene dato ampio

spazio nelle pagine. Inoltre perché si tratta di romanzi brevi, e questa brevità non spaventa i lettori più riottosi. Infine per il formato: piuttosto grande, con la copertina rigida, bello e efficace, che ricorda un po’ le storiche edizioni per ragazzi come La Scala d’Oro o i classici Mursia. Oltre il sentiero, di Guido Sgardoli con le suggestive illustrazioni di Alessandro Sanna, ci racconta un’avventura in montagna, tutta al maschile, tra un padre e un figlio. Albi ha quasi dodici anni, ama camminare in montagna con suo padre, esperto alpinista, e quella volta l’escursione si preannun-

cia una cosa da «grandi», più emozionante e impegnativa del solito. In realtà per Albi si tratterà davvero di una sorta di rito di iniziazione alla vita da grandi, ma non nel modo che aveva previsto. Sarà un’avventura drammatica e in solitario, quella che dovrà vivere il ragazzino, con il cuore in gola, la fatica, la paura di non farcela: l’avventura di doversela cavare a chiamare i soccorsi, per salvare il padre ferito e finito in un crepaccio. Il lettore segue il giovane protagonista nel suo affannoso cercare un sentiero per scendere a valle, dalla parte giusta, senza bussola (gli era scivolata nel torrente), con la torcia non più funzionante (si era rotta nella caduta), affrontando le condizioni meteorologiche repentinamente avverse, e il buio che cominciava a calare. Il fascino e il pericolo della montagna. Questioni di vita o di morte, quelle che Albi deve affrontare: «cose grandi, ma non necessariamente per grandi». A volte però, affrontandole con coraggio, si diventa più grandi dentro.


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Società e Territorio Rubriche

L’altropologo di Cesare Poppi Il ritorno del Cetorino Se ne sentiva la mancanza. Da settimane se non da un paio di mesi. Tutti, da questa parte dell’Arco alpino, si chiedevano il perché. Intendo gli squali. I nostri cari, amati, terrificanti squali, quelli che ci fanno morire di fantasia e di paura, cifra di quest’epoca dove all’insicurezza reale si rimedia facendosi paura con la fantasia, come fanno i bambini che spengono apposta la luce per vedere quanto resistono. Ma per fortuna sono tornati, virali come un’influenza natalizia, rimbalzati in rete e sui cellulari come una rovesciata di Messi. «Squalo Elefante avvistato alle foci del Po» titolavano i quotidiani nazionali un mesetto fa. Con tanto di video da record di cliccate. Tutti gli otto metri del mostro che solo il nome mette i brividi: Cetorhinus Maximus. Una bocca che ci sta dentro un vitello, sempre spalancata, sempre pronta ad inghiottire, sempre affamata. Solo che il poveraccio non ha denti. Neanche uno. È costretto a nutrirsi di plancton,

e per mantenere tutta quella ciccia di plancton ce ne vuole a vagonate. Ecco perché lo si vede aggirarsi piano piano a pelo d’acqua mentre cerca come può di fare il pieno. È lento come un treno merci – appunto: gli inglesi lo chiamano basking shark – «squalo che si crogiola al sole». Sta in superficie e le navi ci vanno a sbattere perché è troppo lento e pure un po’ tonto. Però è gigantesco e fa paura. In italiano lo chiamano anche Squalo Pellegrino per via del fatto che va in giro per i sette mari sempre con la fame addosso a cercare di riempirsi la pancia e allora te lo trovi anche alle foci del Po dove penseresti ci siano solo nutrie e pantegane. Insomma l’opinione pubblica non era molto soddisfatta perché dopo il primo brivido ci si è resi conto di come non fosse proprio il caso ed è stata una delusione. Tranquilli: a rincarare la dose ci ha pensato il quotidiano nazionale più venduto qualche giorno dopo: «Squalo bianco di quattordici metri pescato a

Taiwan» – e poi: «era femmina incinta di quattordici cuccioli». Allora uno dice: «Ohibò! In cosa consiste la notizia? Non si può più nemmeno essere incinte di quattordici cuccioli – posto tu sia uno squalo bianco femmina – senza finire sui giornali? In che mondo viviamo?!». In effetti deve esserselo chiesto anche il redattore, che ha provato di rimpolpare in qualche modo la notizia con un «venduto per duemila dollari» – che francamente non ha rimediato granché... Insomma, ce ne voleva ancora per sfamare un’opinione pubblica affamata di squali. E difatti, pochi giorni dopo, sul sito dello stesso quotidiano finalmente una notizia succosa: «Giappone: squalo bianco di due tonnellate soffocato da una testuggine marina in bocca» (perché, dove altro avrebbe potuto avere la testuggine marina?). Finalmente una notizia seria sugli squali. E poi quell’altra, di qualche giorno fa. Il titolo è – converranno i lettori dell’Al-

tropologo – ghiotto: «Avvistato lo squalo bianco più grande del mondo». Come si faccia a dire che si tratti dello squalo più grande del mondo resta un mistero. A meno che qualcuno che non aveva nient’altro da fare se ne sia andato in giro a misurarli tutti. Ma mi sembrerebbe improbabile. Insomma, quando si parla di squali bisogna poter esagerare sennò che squali sono. E dire che qui in Veneto il pesce che i pescatori chiamano «squao» – forma dialettale per squalo – altri non è che il prosaico cavedano, pesce d’acqua dolce neanche tanto grande carni poco pregiate e anche un po’ scemo. Nome latino? Squalius Cephalus, traducibile con l’italiano «squalo testagrossa» per via della notevole capoccia. Altro che Squalo Bianco: gli squali nostrani (e scommetto anche quelli del Lago di Lugano) sono pesciacci d’acqua dolce neanche tanto buoni da mettere arrosto. E così per soddisfare la nostra voglia di paura ci dobbiamo accon-

tentare dello Squalo Pellegrino o delle notizie (improbabili?) che ci arrivano dalla Cina come i calzettini a buon mercato. Certo fra i Confederati le cose vanno meglio – e ci auguriamo tutti che continui così – ma qui, da questa parte, il Ministero della Paura fa del suo meglio per alimentare ansia ed insicurezza: non solo il Signor Ministro della Fifa mette in rete i selfie con la divisa della Polizia (che se lo indossa un normale cittadino lo mettono in galera per sempre), ma si fa fotografare alla Sagra della Doppietta di Brescia o dove diavolo mentre punta un fucile – oppure mentre brandeggia un mitra con espressione fra il trucido e il tontolone. Voglia di paura nel Bel Paese innamorato dei pescicani: tanto che qui in riviera romagnola, da dove chiudo il pezzo odierno, i bagnini stanno pensando di montare un cannone sui pedalò. La legittima difesa è servita: gli squali sono avvertiti.

Può sembrare noiosa la constatazione che, nella coppia, i torti non sono mai da una sola parte, ma l’esperienza m’insegna che è proprio così. Lei invece lancia un’accusa («è una pazza») senza concedere all’imputata nessuna attenuante. Purtroppo la «stanza del dialogo» si presta alla confidenza più che al confronto, ma potrebbe avvenire dopo, una volta condiviso il messaggio. Mi ostino a credere che, se le concedessimo la parola, sua moglie risulterebbe meno folle di come lei la presenta. Indubbiamente è esploso un conflitto, ma perché non affrontarlo prima di eluderlo? Quando le botte sostituiscono il dialogo significa che è avvenuta una perdita di umanità. Litigare può far bene se si ha la forza di esporre il proprio disagio, di comunicare il proprio malessere. Invece lei si limita a controbattere le accuse, come se fosse in un commissariato di polizia o in uno dei tanti telefilm giudiziari. Probabilmente stiamo assistendo allo scontro di due insicurezze: quella di sua moglie nasce

dalla confusione tra amore e possesso, la sua dal timore di buttare all’aria un equilibrio che per certi aspetti le va bene. La tentazione di tradire per ripicca non fa che esasperare la situazione. Non è così che può rassicurare sua moglie e non è così che potrà costruire un’altra storia. Nelle vene del suo resoconto non circola neppure un filo d’amore, non trapela alcun ricordo piacevole, nessun barlume di speranza consolatoria. Prima di distruggere una parte comunque importante della vostra vita, provate a ricavare, magari con l’aiuto di un terapeuta, uno spazio di incontro, di interazione, di mediazione. In modo sbagliato, con impeti di rabbia, sua moglie sta tentando di rompere l’inerzia che immobilizza la vostra relazione, perché non ci prova anche lei prendendo in mano la situazione, smettendo di comportarsi come uno spettatore della propria vita? Accetti la sua parte di coniuge e se la giochi. Può darsi che tutto sia ormai compromesso ma non credo che le basterà trovare

un’altra donna per diventare padrone della sua esistenza. Non conosco la vostra età anagrafica ma mi sembrate entrambi immaturi per cui l’unico modo per mettere in moto un cambiamento evolutivo è di fare i conti con voi stessi prima che con l’altro. Le coppie rimangono spesso catturate in un gioco di specchi che confonde i loro desideri e può darsi che sua moglie proietti in lei un desiderio di tradimento che non riesce ad ammettere in se stessa e che lei trovi un inconfessabile godimento nel sentirsi così desiderato. Il resto sta al vostro coraggio, alla voglia di trasformarvi da comparse a protagonisti della vostra vita. Non è mai troppo tardi per crescere, per diventare grandi.

sull’affinità, non ha avuto effetti rilevanti sulla stabilità dell’unione. Il rischio di divorzi e separazioni rimane alto, intorno al 40%, anche nei 20 paesi europei, Svizzera compresa, dove, secondo una ricerca dell’OCSE, il fenomeno è largamente diffuso. Con ciò, si tratta di un modello coniugale che ben riflette un’evoluzione irreversibile: verso una convivenza al riparo dall’autoritarismo maschile e dalla sottomissione femminile. Che non è cosa da poco. Tuttavia l’avvento di questa coppia alla pari non ha fatto l’unanimità. Anzi, sta suscitando inattese reazioni di dissenso e preoccupazione in alto loco, nei cosiddetti think tank, dove sociologi, economisti e politologi d’avanguardia considerano le unioni tra simili una situazione di stallo, che consolida le disuguaglianze in una società «ingessata». Si parla, in proposito, di «omogamia», neologismo

inventato, nel 2008, dall’economista serbo-americano Branko Milanovic, figura di pensatore, spesso scomodo, impegnato nello studio delle disuguaglianze. Dalle sue ricerche emergono i dati paradossali che scuotono le coscienze: da un lato, l’1% che diventa sempre più ricco, dall’altro, la stragrande maggioranza che s’impoverisce, compreso un ceto medio occidentale, impaurito dalla concorrenza dei paesi emergenti. Ospite, recentemente, di un convegno a Zurigo, dedicato al tema delle disuguaglianze nell’era della globalizzazione, Milanovic ha ribadito la sua tesi, senza nasconderne però le contraddizioni. Certo, ha riconosciuto, convolare a nozze con chi meglio ti pare rappresenta una scelta di libertà e maturità, circoscritta all’ambito individuale. Ne derivano, però, conseguenze allargate, sul piano sociale: ostacolando scambi

La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi La coppia tra amore e possesso Cara signora, sono sposato da tre anni e non abbiamo ancora programmato un figlio, anche perché il nostro rapporto non si può certo dire riuscito. La responsabilità è la gelosia folle di mia moglie che esercita sulla mia vita un vero e proprio assedio. Controlla continuamente il mio cellulare, Facebook, la posta, il collo della camicia caso mai vi fossero tracce di rossetto, senza parlare delle occhiate che, a suo dire, indirizzerei su ogni donna più giovane di lei. Ogni motivo è buono per terribili scenate e anche per colpirmi con sberle e calci, che non sono micidiali solo perché è piccola e mingherlina e, da parte mia, mi guardo bene di contraccambiare. Basta mezz’ora di ritardo e casca il mondo! Le mie giustificazioni sono inutili e i sospetti dilagano. Quando eravamo fidanzati ho sottovalutato la questione perché mi sembrava una prova d’amore, ma adesso non ne vedo la fine. Quando la confronto con le mogli di amici e colleghi mi rendo conto che è una pazza e, visto che le

sue reazioni non dipendono dai miei comportamenti, ho la tentazione di tradirla davvero. Lei che ne dice? / Giancarlo Caro Giancarlo, è proprio così innocente come si presenta? Sicuro di non aver alcuna responsabilità per la gelosia patologica di sua moglie? Nei primi anni di matrimonio può accadere che l’insicurezza alimenti sospetti e paure, che la fragilità susciti reazioni eccessive ma, se vi è una base positiva, il veleno diluisce, anche se è difficile che scompaia del tutto. Possessività, invidia e gelosia – un tris strettissimo – dipendono infatti da esperienze precoci e dal temperamento personale. Mi stupisce però, nella sua lettera, l’assenza di qualsiasi considerazione positiva. Se vi siete sposati, in un’epoca in cui non vi è alcun obbligo di legalizzare le relazioni, avrete avuto certamente delle buone ragioni. Ora, dopo solo tre anni di matrimonio, dove sono finite?

Informazioni

Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch

Mode e modi di Luciana Caglio Si convola tra simili A prima vista, il dato potrebbe far pensare che l’istituto matrimoniale non è poi così malmesso. Come emerge dalle statistiche, ci si sposa sempre più tardi, quando insomma si è messa la testa a posto: in Ticino, per esempio, in media a 34,3 anni lui, e 32,3 lei. Oltre al fattore età matura, a rendere più solide le unioni, interviene la crescente similitudine dei futuri coniugi. La fatale scintilla dell’innamoramento si accende, spesso, tra persone affini, e in termini concreti. Hanno conseguito, entrambe, un diploma o una laurea equivalenti, svolgono attività in settori paralleli, occupano posizioni paragonabili, incassano lo stesso salario (almeno in teoria dovrebbe succedere). Per lo più, provengono da famiglie dello stesso ceto e ambiente socialeculturale. Si delinea una nuova forma di unione coniugale all’insegna dell’analogia e della parità di

genere. Proprio così, aumentano le coppie tra colleghi e, invece, è in calo un classico del repertorio di tipo gerarchico: il primario che sposa l’infermiera, il direttore la segretaria o il caporeparto la commessa. Casi che succedono ancora, ma non sono più rappresentativi. Nelle mentalità correnti e persino nell’immaginario collettivo va scomparendo la sindrome di Cenerentola. Alimenta, semmai, favole cinematografiche spassose e irreali, come Pretty Woman, che comunque risale al lontano 1990. Del resto, il nostro linguaggio, specchio dei tempi, lo conferma. Parole come buon partito, accasarsi, zitella, scapolone, fidanzati ufficiali e matrimoni combinati sono in disuso. Si preferisce parlare di partner, un termine neutrale che definisce un diverso approccio alla vita di coppia, adesso paritaria. Finora, questo matrimonio, basato

fra ceti, ambienti, tradizioni che possono rivelarsi salutari, incentivi alla diversificazione, al cambiamento, alla curiosità anche culturale. Insomma, come avviene in fisica, a volte gli opposti si attraggono con effetti positivi. D’altronde anche le unioni tra simili non mantengono tutte le loro promesse. In Svizzera, secondo il Centro competenze e scienze sociali, nelle coppie fra laureati, spesso è la donna a ridurre l’attività rinunciando a una carriera di prestigio che rimane un obiettivo maschile. Intanto, ed è un altro aspetto del tema, il matrimonio, solido o fragile che sia, ha creato un business fiorente, che coinvolge una folta schiera di addetti ai lavori: specialisti in abiti da cerimonia, parrucchieri, truccatori, ristoratori, arredatori, consulenti turistici, e persino astrologi. Affidarsi allo zodiaco magari aiuta.


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Idee e acquisti per la settimana

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Gigantoni Garofalo 500 g Fr 2.90

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Pesto alla genovese 180 g Fr. 3.80


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Parlando di pasta a Napoli Il miglior espresso si beve a Napoli, la città portuale ai piedi del Vesuvio. La miglior pasta nasce invece sull’altro versante del vulcano, a Gragnano Testo Claudia Schmidt; Foto Paolo Dutto

Se si chiede agli italiani quale è la migliore pasta, in genere non si riceve l’indicazione di un marchio, bensì di un luogo: Gragnano, una cittadina a sud di Napoli. Massimo Menna, patron del gigante della Pasta Garofalo, che produce nella citata Gragnano, durante il pranzo a «Palazzo Petrucci» a Napoli ce ne spiega il motivo: «Le navi con il grano attraccano alla costa già da secoli. Dalle montagne sgorga acqua limpida. Inoltre, dal mare soffiano venti secchi, mentre grazie alla vicinanza alle montagne la sera c’è sufficiente umidità. Sono tutti requisiti per ottenere una pasta perfetta. Da qui la notorietà di Gragnano». Talmente conosciuta che un consorzio di produttori è riuscito a far ottenere alla loro pasta un marchio di origine geografica protetta: IGP, «Indicazione geografica protetta». Il cuoco Lino Scarallo, che da 12 anni ha ottenuto il riconoscimento di una stella Michelin, come primo porta in tavola degli spaghetti. Con un sugo di pomodoro, molto leggero ma nel contempo fruttato. Massimo Menna apprezza i sughi leggeri. Si accordano perfettamente al gusto della pasta. Massimo Menna è orgoglioso della sua Pasta Garofalo. Per esempio della tenacità della pasta, che non scuoce facilmente. Della trafilatura al bronzo, che conferisce alla pasta una superficie leggermente porosa. In tal modo le salse aderiscono meglio. E naturalmente delle innovazioni, come la pasta senza glutine. È difficile per il discendente di una famiglia conosciuta per la sua pasta avere una produzione che non contempla l’utilizzo del grano? «Amiamo la pasta. E vogliamo dare la possibilità di gustarla anche alle persone che per ragioni di salute non possono godere dei nostri prodotti», ci spiega Menna. Dopo alcuni mesi di sperimentazioni, lo chef è stato invitato nel laboratorio di cucina per una degustazione. «In un primo momento ho pensato mi volessero fare uno scherzo servendomi una normale pasta, tanto era buona la variante senza glutine». Attualmente Garofalo la produce in diversi formati, tre dei quali sono disponibili anche alla Migros. Menna stesso è cresciuto con l’odore dell’essicazione della pasta. «La pasta è la mia vita», racconta. A lui piace il sugo preparato con i pomodori freschi, così come il ragù genovese, una specialità napoletana che non ha nulla a vedere con la città ligure. Si tratta di un ragù di manzo con molte cipolle. Sin dall’infanzia a casa sua venivano preparati piatti tipici della cucina povera, piatti tradizionali preparati con pochi ingredienti. «Mangiavamo spesso pasta con legumi», racconta. «Oggi nella maggior parte dei casi si tratta di lenticchie». Conosce il fatto suo anche per quel che riguarda la cottura della pasta: «Molti non mettono il coperchio alla pentola. In tal modo si spreca tempo ed energia». E aggiunge con un sorriso: «Ma il più grande errore è scegliere la marca di pasta sbagliata».

Da oltre un decennio alla Migros Garofalo, azienda di Gragnano, nel 1789 ricevette l’autorizzazione a esportare pasta dal re dei Borbone. Il pastificio nella sua veste più moderna risale al 1920. Nel 2014 la famiglia Menna ha venduto il 52 percento dell’azienda all’impresa spagnola Ebro Foods. Massimo Menna è però ancora responsabile della pasta. L’impresa produce numerose qualità di paste tradizionali e moderne. L’assortimento comprende la pasta integrale così come quella senza glutine. Nel frattempo si è inoltre aggiunta la pasta fresca, imbottita e non. La pasta premium Garofalo è disponibile alla Migros dal 2007. Fino al 26 maggio l’assortimento di salse Garofalo si completa con il Pesto alla genovese, il Pesto rosso calabrese, così come il Sugo scamorza e pancetta.

Spaghetti al sugo di pomodoro. Un classico che a Napoli si trova anche sui menu dei cuochi stellati.


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Ambiente e Benessere I pueblos mágicos Tra le vie di barocchi paesini messicani, anche un magico bosco di farfalle

Le novità presentate a Shanghai Oltre alla prima elettrica di Aston Martin, elettrico anche lo Sport Utility Vehicle di Volkswagen: ID.Roomzz, che prefigura un tecnologico e grande Suv

L’eccellenza austriaca Anche nei ristoranti più semplici è difficile mangiare male, grazie all’attenzione che viene dedicata alla cucina

Parliamo della plastica L’impegno di Migros Ticino nel settore della protezione dell’ambiente: Generazione M

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Al fuoco, al fuoco!

Cambiamenti climatici Mitigazione

Loris Fedele Da quando le nazioni hanno siglato l’accordo sul clima di Parigi nel 2015 – che pone gli obiettivi di ridurre le emissioni dei cosiddetti gas serra e di limitare l’aumento della temperatura globale a 1,5-2°C rispetto ai livelli preindustriali – si sono levate molte voci critiche, più o meno autorevoli, sulla fattibilità delle misure da adottare per raggiungere l’obiettivo. C’è chi giudica questo compito semplicemente impossibile, perché implica la necessità di cambiamenti politici, industriali e sociali troppo drastici e soprattutto troppo rapidi. Non esiste una governanza mondiale e se per uno che fa, c’è anche uno che disfa, non si arriva da nessuna parte. La preoccupazione maggiore sta nella presa di coscienza che, in tutta la storia dell’umanità, la vita dell’uomo non ha mai dovuto affrontare cambiamenti così veloci, anche se la colpa non è solo nostra. Ma proprio per questo possiamo o, meglio, potremmo invertire certe tendenze e limitare i danni. Il cambiamento climatico è in atto, i suoi effetti sono molto visibili. Ci sono due strategie per combatterlo: ridurre le cause (e si parla di «mitigazione») oppure ridurre gli effetti e l’impatto sull’attività umana (e questo è «l’adattamento»). Se riuscissimo ad applicarle assieme, sarebbe tanto di guadagnato. Ne parleremo qui, su «Azione», in una piccola serie di quattro articoli, che presenterò in altrettanti capitoli, a partire dal presente. Richiameranno con un po’ di approssimazione i quattro elementi: il fuoco, la terra, l’aria e l’acqua, con i problemi che si legano ai cambiamenti in questi ambiti. Poniamo subito l’accento sulle differenze tra le due strategie per combatterli. La mitigazione, cioè la riduzione delle cause (come la riduzione delle emissioni di gas a effetto serra), è lenta e ci vuole tempo per stabilizzarla. Necessita di uno sforzo globale e porta effetti globali. L’adattamento, invece, è locale: per questo è più mirato ed efficace a breve termine. L’importanza di quello che viene definito il «Paris agreement», l’accordo di Parigi, è l’aver messo sullo stesso piano adattamento e mitigazione per tutti i Paesi, da quelli in via di sviluppo a quelli sviluppati. Finalmente a tutti si dà la stessa importanza, almeno sulla carta. Perché l’effetto del cambiamento climatico colpisce tutti, senza distinzioni. Parliamo dunque del fuoco, per

esempio, che negli ultimi anni e anche di recente con incendi disastrosi, ha colpito come non mai la California, l’Indonesia e il nostro Ticino. Sono la frequenza e la violenza accresciuta di questo fenomeno che destano preoccupazione. Gli incendi fanno parte dei fenomeni naturali e si sviluppano per cause e concause che dipendono da molti fattori. Per quanto riguarda il nostro territorio, nel portale sui pericoli naturali della Confederazione svizzera si legge che il 90% degli incendi di boschi è dovuto all’uomo (mozziconi di sigaretta accesi, focolari non spenti, ecc.) e solo il 10% è riconducibile a cause naturali (fulmini). Le regioni più minacciate sono il Vallese, i Grigioni, il Ticino e le valli esposte al favonio. Se ci sono prolungati periodi di siccità e temperature torride, che inaridiscono il suolo, gli alberi e gli arbusti, i fattori di rischio aumentano il pericolo. Come possiamo intervenire preventivamente? Bisogna migliorare la gestione dei boschi. Le foglie lasciate intatte al suolo costituiscono un combustibile che, se secca in fretta, favorirà la propagazione delle fiamme. A questo proposito in determinati luoghi nel mondo si adotta la strategia degli incendi controllati, cioè quella di bruciare la biomassa più regolarmente per evitare accumuli. Tuttavia bisogna sempre ricordare che gli incendi fanno parte delle dinamiche naturali, alle quali diversi ecosistemi si sono adattati e si adattano. Per esempio vi sono alcuni semi che germinano nel terreno bruciato oppure che vengono stimolati dal calore per potersi schiudere. Moltissimi vegetali dipendono dal fuoco per la loro esistenza. Un’altra constatazione può essere quella che le piante più grandi resistono al fuoco, se non è troppo violento, perché si brucia solo parzialmente la corteccia e la pianta si rigenera. In una nuova gestione di bosco potrebbe essere buona norma ripiantare specie adattate e più resistenti al fuoco. In condizioni normali un bosco di latifoglie (querce, faggi, aceri, ontani) favorisce meno gli incendi rispetto a un bosco di conifere. Una piantagione di abeti rossi, per esempio, ha una maggiore propensione per gli incendi; d’altronde anche l’olmo, il frassino e il tiglio sono pure specie sensibili, tanto che la Società forestale svizzera e l’Istituto federale di ricerca per la foresta, la neve e il paesaggio ne denunciano la diminuzione in questi ultimi anni.

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e adattamento, due strategie complementari

Di buono almeno c’è che da noi il pericolo per l’uomo è limitato, perché la legislazione svizzera vieta la costruzione di edifici nei boschi. Non è così in California, dove nel novembre scorso 100mila ettari di foreste e terreni, che ospitavano oltre 7mila caseggiati, sono bruciati in enormi roghi alimentati dal secco e da forti venti. Negli Stati Uniti si costruisce molto col legno. Ciò che genera decine e decine di morti, migliaia di sfollati. Ebbene, la frequenza degli incendi in tutto l’ovest degli USA è quadruplicata negli ultimi cinquant’anni e non può essere un caso. Inoltre si è moltiplicata per sei l’estensione delle superfici bruciate, e per cinque la durata degli incendi. Questi fattori hanno fatto cam-

biare strategia anche ai vigili del fuoco. Mentre in passato si pensava che il meglio fosse spegnere un fuoco il prima possibile prima che diventasse troppo grande, adesso si preferisce intervenire meno drasticamente, limitandosi a controllarne il perimetro e lasciando sfogare l’incendio verso le direzioni meno rischiose per la popolazione. Tutto ciò perché, come ricordato, le fiamme hanno una funzione rigenerativa e se si interviene subito – come si faceva – si lascia a terra un bosco sporco, con un grande accumulo di materiale secco non bruciato, potenzialmente più pericoloso per attizzare o propagare futuri immancabili incendi. Va da sé che non bisogna ostinarsi a riempire di case le zone a rischio, diven-

tate tali anche per fattori ambientali che il cambiamento climatico ha favorito. Il periodo siccitoso in California dura da circa sette anni, accompagnati da un costante deficit idrico, da bacini artificiali ormai prosciugati e da una moria di piante importante negli ultimi tre anni. I dati sono misurati a terra e suffragati da continui rilevamenti effettuati dai satelliti della NASA. Quanto all’Indonesia, lo sapete: per guadagnare spazi all’agricoltura e piantare redditizie palme da olio si sono bruciate enormi aree di foresta tropicale, alterando equilibri millenari e mettendo a rischio numerosi ecosistemi. La politica e la ricerca del profitto stanno ignorando parecchi campanelli d’allarme.


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Ambiente e Benessere

El viaje de las mariposas Viaggiatori d’Occidente Paesi magici e farfalle

nel cuore del Messico

Paolo Brovelli, testo e foto Se dico Messico penso alla pietra. Pietra sono le catene della Sierra Madre, vulcani e monti che dan nerbo al paese, antiche barriere tra i popoli che innalzavano piramidi; e quelle piramidi, veicolo verso le divinità e altare di sacrifici umani, erano anch’esse pietra possente, grigia come il granito, nera di lava secca. La stessa pietra plasmò poi l’architettura coloniale. Sordidi minatori con il piccone in spalla e le bisacce in groppa all’asino, resi impavidi dalla bramosia dell’oro, scarpinavano per le pietraie infestate di crotali sfidando predoni e ribelli, lontani dall’autorità vicereale. Vene d’oro e d’argento furono scoperte subito dopo la conquista, all’inizio del XVI secolo. Il paese fu esplorato e colonizzato, tracciando strade e fondando città, con sontuosi palazzi e chiese e cattedrali. Non lontano da Città del Messico son sparse diverse cittadine un tempo fiorenti proprio grazie all’industria mineraria: sono i pueblos mágicos così chiamati per le bellezze architettoniche e l’atmosfera del tempo andato. Come Valle de Bravo per esempio, a un centinaio di chilometri dalla capitale, sulle rive del lago Avándaro. Si viene qui per volare con il deltaplano o il parapendio, grazie alle forti correnti ascensionali presso gli speroni rocciosi dietro l’abitato: El Peñón è forse il miglior punto di decollo di tutto il Messico, assicurano gli appassionati. Miguel è un istruttore locale con il quale ho volato via col vento per la prima volta. Sospesi a trecento metri sopra l’abitato, mi racconta d’una sua avventura: durante un’ascensione di marzo s’è ritrovato tra migliaia di farfalle monarca nel pieno d’una migrazione. Guarda caso siamo proprio in marzo e, affascinato dal suo racconto (ma sarà vero?), mi dirigo a nord, nella zona della Riserva della biosfera creata nel 1986 e dedicata proprio alle farfalle monarca (dal 2008 patrimonio naturale protetto dall’Unesco). Il territorio

Una via di Valle de Bravo.

La cattedrale di Tlalpujahua, dedicata alla Madonna del Carmine. Un barocco spagnolo coloniale tipico delle zone minerarie messicane, artefici della ricchezza della Spagna secentesca.

della riserva è compreso tra le giurisdizioni degli Stati federati di Messico e di Michoacán. Tra colline e vallate ritrovo alcuni famosi pueblos mágicos come Angangueo, El Oro e Tlalpujahua. Le roboanti facciate barocche delle loro cattedrali raccontano l’antica prosperità delle miniere intorno. Il rumore cadenzato dei miei passi sull’acciottolato lavico delle vie, lungo porticati con colonne di pietra scura e l’intonaco color pastello, richiama alla mente lo scalpitio degli zoccoli dei cavalli del viceré che irrompono nelle piazze, ora occupate da mamme che fan la spesa, mercatini e auto. La gente di qui, con un sorriso gentile, m’indirizza verso El Rosario, l’accesso alla Riserva. La mia guida Carlos mi conduce attraverso il bosco, carico d’una spessa coltre di farfalle: ignare dei confini della zona protetta svolazzano per ogni dove indisciplinate, quasi una prova generale della partenza ormai prossima. Carlos mi racconta di richiami ancestrali, di luoghi magnetici, di istinti primordiali, come se ne avesse avuto esperienza personale:

chissà, magro e lungo com’è, forse nella sua vita precedente era un’anguilla e ha fatto il suo bel viaggio nel Mar dei Sargassi… Racconta che alla fine del mese milioni di farfalle prenderanno il volo verso le dimore estive negli Stati Uniti e nel Canada. La migrazione annuale è una scampagnata di quattromila chilometri, quasi tre mesi di viaggio la sola andata, per poi tornare sui propri passi già in settembre. Le farfalle han vita breve; le femmine depongono le uova per via ed è la seconda o la terza generazione a completare il grande viaggio. Il ritorno in Messico avviene invece in un’unica generazione. I nuovi nati in qualche modo conoscono già la strada e seguono le stesse rotte dei loro antenati. Intanto qui i rami degli alberi s’incurvano (!) sotto il peso di montagne di farfalle. Anche il terreno è pieno d’ali e bisogna fare attenzione a dove si mettono i piedi. Carlos parla sottovoce quasi per non disturbarle e mi racconta come i purépecha, i nativi precolombiani di questa regione, attendessero il loro arrivo per raccogliere il mais, tanto era regolare. S’è documentato Carlos, ma senza trovare una teoria convincente per spiegare questo miracolo: animaletti di pochi grammi che riescono a sfidare gli elementi e a compiere una missione impossibile. Carlos spiega che ricercatori americani hanno cominciato ad applicare loro dei trasmettitori adesivi, per monitorarne il volo. Così forse tra un po’ sapremo di più sulle loro rotte, le tappe e i ritmi. «Non sai quante volte ho sognato di spiccare il volo anch’io e di mescolarmi a quello sciame – sospira Carlos guardandole svolazzare in cielo – per arrivare dove vanno loro e non tornare più. Che qui è una guerra…». E sussurra, come tra sé e sé: «Questi pueblos saranno mágicos per i turisti, ma qui siamo poveri in canna e se alzi la testa te la devi vedere coi Narcos».

Cielo, acqua e terra si riempiono di farfalle nella stagione della partenza per la grande migrazione.

Panorama di Guanajuato, una delle tante città nate grazie alle miniere della zona del Bajío, la regione mineraria a nord di Città del Messico.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 6 maggio 2019 • N. 19

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Ambiente e Benessere

Ashley Balsam

Fino a ieri nel campo, oggi alla tua Migros.

Il prezioso profumo dell’Eucryphia Mondoverde Si presenta come un albero

che non supera mai i quindici metri e che si arricchisce di bei fiori da giugno a settembre

Da marzo a ottobre le nostre insalate provengono prevalentemente dalla Svizzera o persino da regioni svizzere vicine ai punti vendita. Il tragitto dal campo alla filiale è quindi breve.

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Per chi ha la fortuna di avere naturalmente un terreno acido, la primavera regala splendide fioriture, grazie a Pieris, Kalmie, rododendri, azalee e camelie, mentre l’estate si colora con un’altra bella acidofila: la ricca Eucryphia. Originaria dell’America meridionale, Australia sud-occidentale e della Tasmania, questo genere di piante composto da circa sei specie e altrettante varietà, si presenta come un piccolo albero a portamento colonnare, alto fino a quindici metri con foglie persistenti e dalla consistenza cuoiosa mentre i fiori bianchi o rosa, molto profumati, sbocciano da giugno a settembre. Eucryphia lucida «Pink Cloud» arriva a sei metri di altezza e ha fiori rosa tenue tra giugno e luglio, molto bella affiancata a E. lucida «Ballerina» della stessa altezza ma con fiori rosa carico e dagli stami crema. Più vigorosa E. x intermedia «Rostrevor» che arriva ai dodici metri e ha corolle bianche con fioritura autunnale. Come già evidenziato, queste splendide piante necessitano di un

terreno acido, intorno al 5,5-6 di pH o neutro, con pH a 7, ben drenato e fresco, mentre la posizione ideale è in pieno sole o a mezz’ombra molto luminosa. È questo il periodo migliore per la messa a dimora (cioè da marzo a fine aprile), se si desidera che la pianta si adatti alla nuova posizione prima della produzione dei boccioli fiorali. Durante l’estate le irrigazioni devono essere frequenti e per evitare un eccessivo disseccamento delle radici è ottimo l’uso della pacciamatura con uno strato di corteccia di pino. In marzo e ottobre si interviene con una concimazione con prodotti specifici per acidofile o con cornunghia. Tra le varietà più belle e fiorifere, vi consiglio Eucryphia x nymansensis «Nymansay», che oltre ad avere un nome simile a uno scioglilingua, si presenta come una bella pianta alta fino a quindici metri, con una chioma che non supera in larghezza i cinque metri, foglie di un brillante verde scuro, crescita compatta e colonnare, fioritura da agosto fino alla fine di settembre e con decine e decine di fiori bianchi dalle lunghe antere gialle.

Gailhampshire

Anita Negretti

Ulteriori informazioni su: migros.ch/insalate


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Ambiente e Benessere

Gran debutto in Cina per la Aston Martin Rapide E

Motori Tra tante novità, presentata a Shanghai la prima elettrica della storia del prestigioso marchio inglese

Mario Alberto Cucchi Il 2019 secondo l’oroscopo cinese è l’anno del maiale. Animale che per la tradizione orientale rappresenta prosperità e solidità economica: che sia di buon auspicio anche per il mondo dei motori? Forse, ma non è detto. Di fatto, tante, anzi tantissime sono state le novità presentate al Salone Internazionale dell’Auto di Shanghai che si è da poco concluso. Tra queste anche Aston Martin Rapide E. La prima elettrica della storia del prestigioso marchio inglese. Sviluppata in collaborazione con Williams Advanced Engineering, monta una coppia di propulsori elettrici sull’asse posteriore in grado di erogare una potenza combinata di 610 cavalli. L’autonomia di oltre 320 chilometri è garantita da un pacco batterie agli ioni di litio da 65 kWh e tensione di 800 volt che è incapsulato in un involucro di carbonio. Le prestazioni? 250 chilometri orari la velocità massima e meno di 4 secondi per scattare da ferma a cento orari. Riflettori puntati anche su un altro marchio inglese che ha fatto la storia dell’automobilismo sportivo: Lotus. Gli ingegneri britannici hanno confermato la produzione della Type 130 elettrica. Il Ceo di Lotus Phil Popham ha dichiarato in proposito che la «Type 130 sarà la Lotus più dinamica della nostra sto-

La prima elettrica di Aston Martin si chiama Rapide E.

ria. Segna una svolta per il nostro Marchio ed è una vetrina di ciò di cui siamo capaci e di ciò che verrà da Lotus». La vettura in veste definitiva sarà svelata a Londra, città natale di Lotus, alla fine di quest’anno. Elettrico anche lo Sport Utility Vehicle mostrato da Volkswagen. Si

chiama ID.Roomzz e prefigura un tecnologico e grande Suv che dovrebbe arrivare nelle concessionarie nel 2021. Sette posti e due motori elettrici in grado di erogare una potenza massima di 306 cavalli scaricabili a terra dalle quattro ruote motrici. L’autonomia? 450 chilometri. E per ricaricare le batterie

all’80% sarebbero sufficienti solo 30 minuti. Non male. Non è invece elettrico, almeno per ora, il Concept Mercedes GLB. Sotto il cofano, il motore a benzina quattro cilindri M 260 con cambio a doppia frizione 8G-DCT, potenza massima di 224 cavalli e coppia di 350 NewtonMe-

tro. La nuova Stella che affiancherà la versatile GLA ha una lunghezza di 4 metri e 63 centimetri e può ospitare fino a sette persone. Questi sono solo alcuni tra i mezzi che hanno acceso gli entusiasmi del pubblico cinese. Va detto che nonostante il 2019 sia come riferito in apertura l’anno del maiale, il mercato dell’auto cinese non va per ora così bene. Vero che si tratta del primo mercato al mondo, ma vero altresì che marzo ha registrato il decimo calo mensile consecutivo delle vendite. Attenzione però: se da una parte si sta vivendo una flessione nelle vendite generalizzata, dall’altra si prevede un aumento del 40% delle vendite di auto a «nuove energie» ovvero dotate di alimentazioni non tradizionali. Numeri importanti che giustificano la fretta dei costruttori nel voler rendere disponibili al più presto mezzi di nuova generazione. Si parla sempre di nuove tecnologie relative ai propulsori, ma anche il design ha la sua importanza e a ricordarlo ci pensa il Gruppo Renault. Già presente con un dipartimento design in Francia, Romania, Corea del Sud, Brasile e India persegue la sua strategia di espansione internazionale con l’apertura di un nuovo centro di progettazione a Shanghai. Il nuovo Renault Design Center Shanghai progetterà i futuri modelli del Gruppo rispondendo alle aspettative dei clienti cinesi. Annuncio pubblicitario

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Ambiente e Benessere

Il metodo biologico dinamico

Scelto per voi

Il vino nella storia Detto anche biodinamico, questo modo di lavorare la terra e coltivare

prese spunto da alcuni agricoltori polacchi, alla conferenza di Koberwitz nel 1924 Davide Comoli

trattamenti di origine naturale. Quindi niente metabisolfito, carboni attivi, antiossidanti, ecc. La viticoltura biologica dipende dalla maturazione dell’uva e della sua qualità al momento della vendemmia. I vini biologici hanno per anni vissuto sperimentazioni da parte dei produttori, con l’interesse per la loro crescita varie ricerche hanno portato a migliorare la produzione con prodotti naturali che contrastano quella effettuata coi prodotti chimici, cioè hanno portato a migliorare la vinificazione tradizionale. Anche se rimangono ancora delle incertezze sulle leggi europee – che portano, soprattutto da parte dei consumatori, un po’ di perplessità in merito alle etichette dei vini biologici – oggi possiamo degustare ottimi prodotti che rispettano la natura e l’uomo. Sul modo in cui deve essere prodotto un vino biologico o biodinamico (i quali hanno molti punti in comune) le idee sono chiare. Entrambi devono seguire alcune «linee guida» come: la vendemmia deve essere fatta manualmente; le uve devono essere poste in piccole cassette e vinificate il più rapidamente possibile, onde evitare fermentazioni anticipate; alle uve viene applicata una diraspatura e pigiatura soffice, utilizzando presse pneumatiche orizzontali; l’avvio della fermentazione deve essere prodotta con un pied de cuve senza utilizzare additivi e coadiuvanti tecnologici; il mosto deve essere ossigenato tramite follatura; l’uso della SO2 (anidride solforosa) deve essere attento (20 mg/l al massimo) abbinato all’uso di gas inerti quali azoto e anidride carbonica. Nel frattempo il vino «biodinamico» sta assumendo un ruolo di grande rilievo nel mondo viticolo. Dalla filosofia agricola che fa tesoro degli insegnamenti di Rudolf Steiner e prima ancora di Wolfgang Goethe, il francese Nicolas Joly viticoltore della Loira e produttore del famoso Coulée de Serrant ha ideato un metodo che ha rivoluzionato il mondo del vino.

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Tra gli anni Sessanta e Settanta, un gruppo di persone, vignerons, agricoltori, orticoltori e altri, senza che si conoscessero per forza, ebbero un’idea comune: quella di lavorare la terra e coltivare le piante (legumi, cereali, vigne, ecc.), senza ingrassi chimici né erbicidi o insetticidi di sintesi, ciò con lo scopo di poter raccogliere e offrire dei prodotti di qualità esenti da residui nocivi. L’idea del metodo di coltivazione biodinamico a dire il vero venne già più di trent’anni prima a Rudolf Steiner: spirito universale, influenzato dal genio di Goethe. Correva l’anno 1924 quando rispondendo alle domande di alcuni agricoltori durante una conferenza a Koberwitz in Slesia (Polonia), nacque il metodo biologico dinamico. Il metodo fu poi messo a punto da uno dei suoi discepoli, il dottor Ehrenfried Pfeiffer, che negli anni Cinquanta sperimentò lui stesso in molti Paesi e creò, seguendo le direttive di Steiner, un laboratorio biochimico a Dornach. La preoccupazione per la salute umana e per l’ecologia ha rafforzato ne-

gli ultimi tempi la ricerca dei prodotti biologici. Questo tipo di agricoltura propone il raggiungimento di obiettivi di carattere ambientale come la salvaguardia del territorio e lo sfruttamento meno intensivo dei terreni, usando metodi naturali per la lotta ai parassiti. A interessare anche noi del mondo del vino al fenomeno Bio, sono le decine di bottiglie marchiate con questo brand che ormai si trovano sugli scaffali un po’ ovunque. Come viene prodotto un vino biologico? Qual è la differenza tra questi e un vino tradizionale? Già nella sua De Naturalis Historia, Plinio sottolineava «che i frutti fermentano spontaneamente», quindi la vinificazione non è nient’altro che cercare di perfezionare questo processo naturale. L’obiettivo dell’agricoltura biologica vuole mantenere, finanche esaltare questa produzione «naturale», non utilizzando prodotti chimici di sintesi per la concimazione e la difesa dai parassiti. Per cui la concimazione viene effettuata con l’uso di concimi organici (letame), mentre per la difesa delle colture si interviene con tecniche di coltivazioni preventive e per l’appunto con

Queste le sue regole di produzione: la vinificazione viene fatta in correlazione con particolari configurazioni planetarie; il confezionamento, con imballi riciclabili e in cantina; le vasche sono raffreddate; le sostanze immesse sono: il bianco d’uovo Demeter o biologico; la Bentonite è certificata priva d’impurità; carbone vegetale per i vini frizzanti; uso solo di anidride carbonica e azoto; stabilizzazione a freddo; filtrazione con filtri a cellulosa e terre diatomee. Inoltre il biodinamico usa piccole quantità di proporzioni naturali specifiche basate su sinergie tra regno animale e vegetale. Anche noi fummo sorpresi nell’apprendere che alcuni grammi per ettaro di queste preparazioni dinamizzate nell’acqua possono avere effetti importanti. In pratica, nella biodinamica vengono usate la capacità energetica della terra e delle piante, aiutandole a ricevere meglio le forze della vita. In questo genere d’agricoltura non viene usato nessun trattamento che non sia naturale, si lascia quindi che la natura faccia il suo lavoro. Eppure, ad esempio, passando 100 grammi per ettaro di una preparazione di feci di mucca che è stata sotto terra per tutto l’inverno in un corno di mucca dinamizzato per un’ora, si riescono ad avere degli effetti di fertilità superiori all’uso del solito letame. Queste preparazioni vengono passate più volte all’anno. È da pochi giorni che i deputati del Cantone di Neuchâtel hanno approvato una mozione (65 favorevoli, 35 contrari), che chiede al più presto un piano di conversione delle proprietà agricole e viticole del Cantone in coltura biologica. Ma attenzione, la maggior parte del gusto dei vini tradizionali è ottenuto con lieviti aromatici, ciò che non succede nei vini biologici, per cui non vi resta che provarli. Secondo noi, questi vini preparati con tecniche e criteri particolari, vi conquisteranno per la loro bontà e soprattutto la loro tipicità.

Falanghina – Feudi S. Gregorio

La Falanghina è un antico vitigno che forse costituiva la base del famoso «Falerno». Troviamo la prima citazione di questo vitigno tra le varietà coltivate nei dintorni di Napoli nel 1825 (Acerbi). Il nome Falanghina sembra derivi dal fatto che la vite, a portamento espanso, veniva legata a pali di sostegno detti falanga, perciò Falanghina «vite sorretta da pali». Feudi di San Gregorio di Sorbo Serpico (AV) è un modello di studio aziendale analizzato in diverse Università, in quanto si tratta di una delle aziende meglio strutturate del sud Italia, con circa 250 ettari vitati. La Falanghina è un vitigno di enorme potenziale, dal colore giallo paglierino intenso e luminoso, al naso scopriamo toni di frutta gialla tropicale, alle quali s’intrecciano profumi di nocciole e delicate spezie. In bocca è molto piacevole e intrigante, ma anche molto fresco. Lo consigliamo con del salmone fresco o lievemente affumicato, appena scottato, ma anche con pesce spada o tonno e sformati di verdure. / DC Trovate questo vino nei negozi Vinarte al prezzo di Fr. 15.90. Annuncio pubblicitario

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Ambiente e Benessere

Una passione per la cucina austriaca Gastronomia Dai Würste ai Marillenknoedel, la cucina dell’Austria è piacevolmente contaminata

Oggi parliamo della cucina austriaca. Devo fare una premessa. Adoro l’Austria. A 17 e 18 anni ci sono stato a lungo per studiare il tedesco, ospite di un’amica di mio padre che amava molto la cucina e che mi fece conoscere Vienna e il meglio della cucina viennese. Poi per moltissime ragioni l’ho sempre frequentata, in lungo e in largo. Mangiando sempre bene.

La cucina austriaca è un mix di influssi ebraici, ungheresi, slavi, italiani, tedeschi e anche della grande tradizione turca Una cosa su tutte: anche nei ristoranti più semplici, era difficile mangiare male: c’era una cura e attenzione al lavoro ben fatto veramente esemplare. Quindi, se vogliamo parlare di «casa» – ma in tedesco suona meglio, Heim, che è il focolare domestico – appena dopo il mio paese, l’Italia, per me viene l’Austria. Sicuramente nella cucina austriaca hanno esercitato un grande ruolo gli influssi ebraici, ungheresi, slavi, italiani, tedeschi e anche della grande tradizione turca, che si mescolano nella cultura gastronomica di questo paese, a ricordo dei fasti del grande impero prima austriaco e poi austroungarico. Tuttavia, la cucina austriaca ha un’identità propria, che non deve essere ricondotta unicamente a quella viennese: anche le altre regioni hanno molto da offrire. Accanto a piatti semplici, offre preparazioni raffinate ed eleganti, che danno il loro meglio nelle torte, vera gloria nazionale. Piatti onnipresenti su tutto il territorio sono i Würste (al singolare Wurst; la grafia würstel o wurstel è solo italiana) e la cotoletta alla viennese o il pollo impanato e fritto. Altri piatti

diffusi sono il Tafelspitz, un bollito di manzo accompagnato da salse varie, tipico una volta della domenica, o la carne affumicata con crauti e Knödel – gli gnocchi di pane chiamati in italiano «canederli» – che possono essere anche arricchiti con fegato o maiale e serviti sotto forma di zuppa. Alle tavole austriache si possono gustare anche stufati di cervo con mirtilli o pesci di fiume, come la trota affumicata. Non è insolito trovare il gulasch, che a differenza di quello ungherese è uno spezzatino più che una zuppa. Al confine con la nazione magiara è molto apprezzata l’oca, mentre la regione della Stiria è nota per la produzione di zucche (dai cui semi si ricava un olio pregiato, perfetto per le patate). Il Tirolo preferisce invece lo speck e i piatti robusti come il Groetl, a base di patate, cipolle e manzo tritato. La Bassa Austria è poi famosa per le albicocche, che vengono distillate per ottenere un liquore oppure avvolte in una pastella e fritte (Marillenknoedel). Nel regno dei dolci, il trono spetta alla Sacher, affiancata dalla Dobos (di origine ungherese, farcita e ricoperta di cioccolato e caramello), dallo Apfelstrudel (strudel di mele) servito con crema alla vaniglia, dalla Linzer (una crostata nel cui impasto entrano mandorle tritate, cannella e chiodi di garofano). Esistono anche dolci semplici, come i già citati Marillenknoedel (nella fotografia); gli Arme Ritter, crocchette di pane bianco farcite con prugne schiacciate e fritte; il Kaiserschmarren (così detto perché gradito al Kaiser), sorta di frittata dolce con albumi montati a neve, servita a pezzettini; i Salzburger Nockerln, soffici, aromatizzati variamente e guarniti con marmellate o salse. Famoso anche il caffè austriaco, disponibile in varie versioni, dal piccolo Mokka – sorta di espresso – all’abbondante grosser Schwarzer. Panna (montata o liquida) o latte accompagnano spesso questa bevanda.

CSF (come si fa)

Denna Jones

Allan Bay

Pixabay.com

da più culture culinarie

L’avena è una pianta erbacea della famiglia dei cereali, ha chicchi lunghi e stretti, gusto dolce e al contempo lievemente amarognolo. Coltivata fin dall’età del bronzo, conosce maggiore diffusione nei paesi nordeuropei in quanto più adatta a quei climi, sia come alimento sia come necessità colturali. L’avena ha un profilo nutrizionale interessante, grazie alle buone

quantità di amidi, vitamine, sali minerali, fibre e grassi polinsaturi; si rivela così un cibo nutriente ed energetico. Si trova comunemente sotto forma di fiocchi, ottimi nel latte o nello yogurt per la prima colazione, ma anche in zuppe o minestre. Vediamo come si fa la classica zuppa di fiocchi di avena con verdure di stagione. Ingredienti per 4 persone. Tagliate a dadini 600 g (peso netto) di verdure di stagione e sbollentatele per 2’. Portate a ebollizione 1 litro di brodo vegetale aggiungendo qualche fettina di radice di zenzero. In una casseruola fate appassire 1 porro mondato e tritato con 1 filo di olio o 1 noce di burro, poi unite le verdure e cuocete per 5’. Aggiungete il brodo filtrato e cuocete per 10’. Unite i fiocchi di avena e lasciate

sul fuoco ancora 5’. Regolate di sale e di peperoncino. Più difficile da trovare è l’avena in grani, che si può consumare in insalate e zuppe o come primo piatto. I grani, dopo qualche ora di ammollo, si cuociono per assorbimento (3 parti di acqua per 1 di cereale); la cottura deve avvenire a casseruola coperta e a fiamma bassa, per 1 ora circa. Dai grani adeguatamente trattati si ottiene anche il così detto latte d’avena, una bevanda da utilizzare al naturale, calda o fredda, oltre che per preparare frullati di frutta, budini e altro. Tostati e macinati, i chicchi danno un surrogato del caffè. La farina, utilizzata industrialmente per confezionare biscotti e altri dolci dal gusto gradevole e delicato, è la base del celebre porridge (nella foto), sorta di polentina tipica di Scozia e Irlanda.

Ballando coi gusti Oggi due antipasti a base di uova e latte, ma se aumentate le dosi sono anche piatti da pranzo o comunque piatti forti

Budino ai funghi

Omelette al formaggio

Ingredienti per 4 persone: 5 dl di latte · 2,5 dl di panna · 100 g di funghi a piacere ·

Ingredienti per 4 persone: 6 uova · 9 cucchiai di farina · 100 g di formaggio grattugiato · 2 dl di latte · burro meglio se chiarificato · sale.

Mondate i funghi, spezzettateli e fateli saltare con poco burro per qualche minuto, spegnete, levate e fate intiepidire. Versate in un pentolino il latte e la panna e fateli scaldare un poco a fiamma bassa. Sbattete con una forchetta le uova e i tuorli, unite un cucchiaio di farina e amalgamatelo; versate a filo il latte e la panna, continuando a mescolare. Insaporite con 4 cucchiai di grana, unite i funghi, salate, pepate, profumate con noce moscata grattugiata. Versate in 4 stampini individuali imburrati e infarinati. Ponete gli stampini in una teglia in cui avrete versato un dito di acqua e cuocete a bagnomaria in forno a 190° per 30’. Sfornate e servite caldo.

Sbattete le uova con la farina setacciata, il latte e un pizzico di sale. In una padella larga, scaldate del burro, quindi versatevi un quarto delle uova sbattute e sollevate i bordi con l’aiuto di una paletta, muovendo il tegame in modo che l’omelette non attacchi. Appena tende ad asciugarsi, distribuite sopra 1 quarto del formaggio, piegatela a metà con la paletta, toglietela dalla padella e proseguite con il resto delle uova, in modo da preparare 4 omelette. Fatele intiepidire. Al momento di andare a tavola, passarle nel forno a 180° per qualche minuto.

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Ambiente e Benessere

A proposito di plastica...

Ecologia Il tema della raccolta e della separazione dei rifiuti plastici è di grande attualità: ecco le linee guida

che caratterizzano l’impegno di Migros Ticino in questo importante settore

Migros è da sempre attenta all’ambiente e promuove politiche in favore della sostenibilità. Una sensibilità che nel 2014 e nel 2018 le è valsa l’assegnazione, tra gli altri, del prestigioso riconoscimento di «dettagliante più sostenibile al mondo», conferito dalla società di rating Oekom di Monaco e risultato dall’analisi di più di 100 criteri sociali ed ecologici: annualmente sono oltre 3500 le imprese valutate, divise per categoria. Dal 2012 la Comunità Migros si impegna dichiaratamente con il programma Generazione M a trovare soluzioni equilibrate, che sappiano conciliare aspetto economico, ecologico e sociale. Migros è consapevole e sensibile alle problematiche legate alla plastica e al packaging. Le promesse concrete e vincolanti del programma Generazione M rappresentano l’impegno concreto di Migros per le generazioni di domani.

Sono numerose le misure in tale ambito intraprese nel corso degli anni. Alcuni esempi: • Progetto di ottimizzazione degli imballaggi: ha preso avvio nel 2013 e a oggi ha permesso un risparmio di 3850 tonnellate di materiale di imballaggio. All’insegna del motto «evitare, ridurre, riutilizzare», l’azienda si impegna a ottimizzare costantemente e sistematicamente gli imballaggi, utilizzare più spesso materiali riciclati e migliorarne il riutilizzo. • 2008: introduzione della borsa per la spesa in PET riciclato (rPET). Comoda, resistente e capiente (15 kg/ 29,9 litri) è oggi molto utilizzata dalla clientela in Ticino e in Svizzera. • Ampliamento dei materiali raccolti nelle pareti ecologiche Migros: dal 2012 CD e DVD, consegnati alla reDisc Recycling (cd-recycling.ch); dal 2013 flaconi in PE, consegnati a

Una sinergia con il Comune di Sorengo Lo scorso 1° aprile il Comune di Sorengo ha stipulato un accordo di collaborazione con Migros Ticino, per offrire ai suoi abitanti un servizio di riciclaggio della plastica. In pratica, nei punti di raccolta dei rifiuti del Comune luganese si troveranno raccoglitori adibiti al conferimento di flaconi di detergente, prodotti di pulizia, shampoo, ecc. I quantitativi raccolti saranno poi avviati per lo smaltimento al servizio attualmente attivo

all’interno della cooperativa Migros Ticino, nella Centrale di Sant’Antonino. Per la raccolta saranno utilizzati gli stessi parametri che sono oggi in uso nelle «pareti per il riciclaggio» presenti nelle filiali di Migros Ticino. L’accordo siglato conferma la volontà concreta della cooperativa ticinese di collaborare con il territorio per offrire soluzioni sostenibili utili a tutta la comunità.

Loacker Swiss Recycling (loacker.ch). •2016: stop ai sacchetti gratuiti alle casse e introduzione di un sacchetto a pagamento, con conseguente diminuzione di oltre l’80% del volume di sacchetti distribuiti. •2017: stoviglie riutilizzabili per i takeaway (deposito di 5 franchi). •2017: introduzione dei sacchetti Veggie bag nei reparti frutta e verdura. Si tratta di confezioni trasparenti, riutilizzabili, lavabili a 30° C e appositamente studiate per riporre i prodotti ortofrutticoli in vendita al libero servizio. Il cliente può scegliere altri tipi di confezioni riutilizzabili, l’importante è che contenuto e peso siano corretti e corrispondenti all’etichetta apposta all’esterno, e che la merce sia visibile e facilmente verificabile dal personale di cassa. Precisiamo che in genere uno stesso prodotto ortofrutticolo proposto sia imballato che sfuso è in vendita al medesimo prezzo. • È consentito l’uso di contenitori personali anche ai banchi a servizio per carne (eccezione il pollo crudo e gli alimenti che lo contengono), salumeria, pesce, formaggi, gastronomia... L’importante è che i contenitori siano puliti e idonei all’uso; uno per ogni tipo di alimento, per evitare contaminazioni crociate (direttiva I03 – allergeni nella vendita sfusa). Naturalmente non si ferma qui la sfida Migros per ridurre l’impatto ambientale delle sue attività. Nella ricerca di soluzioni alternative per gli imballaggi ogni misura deve però tenere conto di due aspetti ben distinti ma particolarmente importanti:

L’ambiente come priorità. (Generazione M)

• il grado di accettazione delle diverse misure da parte della clientela; • la valutazione della soluzione ottimale sulla base di un bilancio ecologico complessivo, che deve tener conto dell’intero ciclo di vita del prodotto e dell’imballaggio, considerando nel contempo il ruolo che la confezione deve svolgere (protezione del prodotto, informazioni su origini e ingredienti, idoneità al trasporto e alla conservazione,…). Dai calcoli effettuati può per esempio risultare che un imballaggio in plastica evidenzi un miglior bilancio ecologico rispetto a uno in carta o cartone, poiché per avere uguale stabilità un sottile strato di plastica andrebbe sostituito con un maggior volume di carta o cartone. Un esempio concreto: un cetriolo sfuso, di principio, dopo tre giorni non è più vendibile, mentre

1,5 grammi di imballaggio plastico lo mantengono fresco per 14 giorni. Il minor spreco di prodotti alimentari grazie all’imballaggio si traduce in un minor impatto ambientale (che nel caso dello spreco di un prodotto bio sarebbe ancor maggiore). Come già accennato, per valutare il minor impatto possibile sull’ambiente è dunque necessario valutare molto bene l’ecobilancio complessivo. Questa serie di interventi dà un’idea della serietà, dell’impegno e della responsabilità con cui Migros guarda al futuro. Maggiori informazioni sulle misure sopra indicate e sull’impegno delle aziende della Comunità Migros a favore dell’ambiente e della sostenibilità sono disponibili sul sito migros.ch nelle pagine dedicate al progetto Generazione M.

Giochi

Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku

Cruciverba La Mannino racconta: «Un’amica mi ha chiesto: “Com’è possibile che ultimamente quando mi guardo allo specchio mi vedo più giovane di quando avevo vent’anni?” Io le ho risposto: “…”». Termina la frase leggendo, a cruciverba risolto, le lettere evidenziate. (Frase: 2, 5, 7, 2, 9)

ORIZZONTALI 1. Due quarti di luna 3. Fu costruita sotto le direttive di Dio 7. Abituato, solito 9. Se fugge sono guai!... 10. La sua capitale è l’Avana 12. Le iniziali del regista Scorsese 13. Solcare col vomere 15. Le iniziali della Marcuzzi 16. Attiguo, adiacente 22. Il male nel cuore... 24. Ardito, temerario 25. Congiunzione 26. Fanno le arcate... con arte 28. Il settentrione d’Italia... 30. Più piccola della rana 32. Il tesoro pubblico 35. Numero delle ossa del carpo 37. Biblica moglie di Isacco 38. Primo cardinale tedesco VERTICALI 1. L’attore Zingaretti 2. Pratica illegale sugli interessi 4. Le iniziali del pittore Guttuso 5. Un figlio di Noè 6. Approvazioni liberamente espresse 8. Il famoso Barack 11. Si ripetono nel parlare 14. Le iniziali dell’imitatrice Aureli 17. Un avverbio 18. Dio sbuffante 19. In forse... 20. Famoso quello di Pericle ad Atene 21. Aspro in latino 23. Antichi strumenti a corde 27. Desinenza verbale 29. È ripetitivo 31. La piantagrane dell’Olimpo 33. Le iniziali dell’attore Banderas 34. Antica lingua provenzale 36. Pronome personale

Sudoku

Partecipazione online: inserire la

luzione, corredata da nome, cognome, indirizzo, email del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui

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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch

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I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.

soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-

Soluzione:

Scoprire i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.

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Soluzione della settimana precedente

I VERSI DEGLI ANIMALI – I versi di giraffa, tacchino e cavalletta: LANDISCE, GLOGLOTTA, ZILLA.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 6 maggio 2019 • N. 19

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Politica e Economia Quale Europa? Nonostante il risultato spagnolo abbastanza rassicurante, si aggira per l’Europa lo spettro del radicalismo xenofobo, con forti venature neofasciste e neonaziste

Perché Trump è saldo al suo posto Dopo il rapporto Mueller i democratici scelgono una strategia di basso profilo nei confronti di Donald Trump. Ma è una scelta politica azzeccata? pagina 31

In gioco c’è Schengen Il 19 maggio si vota sulla revisione della legge sulle armi, resa necessaria dalla nuova direttiva UE

Troppi sussidi federali? Ogni anno la Confederazione spende 40 miliardi di franchi in sussidi, ed è quasi impossibile ridurli

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Solo un miracolo salverà il Venezuela Duello Maduro-Guaidó Una guerra civile a bassa intensità è la prospettiva più probabile. La Cia dietro i tentativi

di destituire Maduro Lucio Caracciolo

Un sanguinoso stallo sembra lo scenario meno improbabile per il Venezuela, alle prese da ormai tre mesi con il duello fra il presidente in carica, Nicolas Maduro (foto), e il suo autoproclamato rivale, Juan Guaidó. La recente spallata di Guaidò, con il colpo di mano in una base aerea di Caracas che ha portato alla liberazione, grazie al sostegno di un gruppetto di militari, del leader dissidente Leopoldo Lopez, non ha portato alla disgregazione del regime. Malgrado crescenti segni di inquietudine e incertezza, il grosso delle Forze armate venezuelane resta schierato con il regime. Lo scontro si è quindi trasferito per le strade e nelle periferie del grande Paese sudamericano, dove sono cadute le prime vittime. I sostenitori di Guaidò organizzano scioperi e manifestazioni improvvisate, represse con

mano sempre più dura dalla polizia. Maduro, malgrado la crescente pressione interna e internazionale, non sembra disponibile alla resa. E i militari che lo sostengono non si fidano delle promesse dell’opposizione, mentre temono le rappresaglie del capo. Sullo sfondo, uno dei più grandi produttori mondiali di petrolio, dotato delle riserve più ampie al mondo, superiori (300 miliardi di barili) persino a quelle saudite, è al disastro economico e sociale. Rispetto a un picco produttivo di circa 3 milioni di barili al giorno, dal bacino dell’Orinoco se ne estraggono ormai meno di un milione, mentre l’embargo americano – gli Stati Uniti erano il principale cliente della Pdvsa, la compagnia di Stato locale – ha disseccato le casse del Venezuela. Oramai la moneta locale è priva di valore, si sopravvive di baratto, mercato nero, improvvisazioni. Milioni di

venezuelani sono fuggiti in Colombia, Brasile e altri paesi della regione, creandovi fra l’altro situazioni piuttosto critiche. La pressione di quasi tutti i paesi sudamericani per una rapida soluzione della crisi – naturalmente a favore dell’opposizione – si spiegano anche con questa emergenza. Ma il caso venezuelano riguarda direttamente le massime potenze mondiali. Gli Stati Uniti sostengono apertamente Guaidò. È stata la Cia, d’accordo con la Casa Bianca, a invitare il giovane leader dell’opposizione democratica a fare il gran passo dell’autoproclamazione a presidente, avvertendolo che i militari, stanchi di Maduro, l’avrebbero appoggiato. Grave errore di calcolo, che ha messo Guaidò in una situazione estremamente difficile. I regimi si cambiano al volo, oppure tutto diventa azzardato e rischioso. Il tempo gioca a favore di Maduro. E l’appoggio americano, a

meno che non si materializzi in intervento armato, non sbloccherà da solo la crisi. In verità, la linea dura verso Maduro è voluta soprattutto dagli eredi dei neoconservatori nell’attuale amministrazione, a cominciare dal responsabile del Consiglio per la Sicurezza Nazionale, John Bolton. L’idea è di far saltare il regime bolivarista a Caracas e, sulla scia, anche quelli ideologicamente affini e alleati a Cuba e in Nicaragua. Così da omologare agli standard di Washington l’intero cortile di casa dell’impero americano. Maduro può contare – vedremo in che misura e fino a quando – sul sostegno di Mosca e Pechino, in funzione schiettamente antiamericana. Istruttori russi sono presenti e attivi a Caracas, insieme ai cubani, mentre i cinesi, che hanno molto puntato sul Venezuela non solo per attingere alle sue materie prime, paiono più cauti. Quanto

agli europei, si sono come d’abitudine divisi, dopo il patetico ultimatum di otto giorni dato a Maduro nei primi giorni di crisi, nella convinzione errata che il suo tempo fosse scaduto. La prospettiva di una degenerazione progressiva verso la guerra civile, magari a bassa intensità, sembra materializzarsi ogni ora di più. Anche se una parte delle Forze armate cambiasse campo, un’altra parte resterebbe con Maduro, accentuando il rischio di un copioso e incontrollabile spargimento di sangue. La soluzione politica, ovvero un accordo fra i due litiganti per nuove elezioni, appare in questo contesto assai lontana. Dello Stato venezuelano non resta molto, visto che si fronteggiano due presidenti, due assemblee elettive, due corti supreme, che tutte si pretendono legittime. A meno di miracoli, il Venezuela si sta avviando ad allungare la lunga lista degli Stati falliti.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 6 maggio 2019 • N. 19

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Politica e Economia

I valori democratici prevarranno?

Dibattito Se l’Europa stia rischiando un’involuzione autoritaria e xenofoba non è cosa chiara. Di sicuro

sta attraversando una fase di ridefinizione dei suoi connotati ideologici

Alfredo Venturi C’è chi inneggia apertamente ai regimi degli anni Trenta, come quegli italiani in camicia nera che urlano slogan di omaggio a Mussolini e salutano col braccio levato la sua tomba in quel di Predappio. O come gli ungheresi di Jobbik che rimpiangono Miklos Horthy, il paradossale ammiraglio che resse con pugno di ferro quel Paese senza sbocco sul mare. O come i greci di Alba Dorata, il cui capo Nikolaos Michaloliakos considera Auschwitz una bufala colossale. O gli spagnoli di Vox con le loro venature neo-falangiste, che vorrebbero riconquistare Gibilterra e intanto sono entrati nel parlamento di Madrid con il dieci per cento dei voti. Tutti contro gli immigrati, contro l’euro, contro le istituzioni di Bruxelles. Sempre caratterizzata da questi tre connotati e a volte da un discreto tasso di antisemitismo c’è anche una destra più prudente e più «politica», attenta a evitare le provocazioni ideologiche, meno portata ad agitare le bandiere delle dittature del secolo scorso, ma altrettanto decisa a scardinare il sistema nel nome di una restaurazione sovranista. Al punto che sono in molti a porsi una questione piuttosto allarmante: l’Europa sta rischiando un’involuzione autoritaria? Si vanno a rivedere le condizioni che nel periodo fra le due guerre mondiali fecero sì che non soltanto la Germania e l’Italia ma anche molti altri paesi del Vecchio continente abbandonarono i meccanismi democratici e si diedero governi dotati di poteri assoluti. A volte la transizione fu fatta con atti di forza, come in Spagna o in Bulgaria o in Portogallo. Più frequentemente per via elettorale, come in Italia o in Germania, anche se molti dubbi di regolarità gravano su consultazioni viziate dall’intimidazione e dalla pressione violenta. Ma a parte le modalità troppo

spesso rudi dell’avvicendamento nella guida dei governi, non si può negare che quelle esperienze politiche furono favorite, almeno inizialmente, da consensi generalmente vasti, più tardi erosi lungo il piano inclinato che precipitava l’Europa verso la guerra. Scontenti della sistemazione postbellica (la «pace punitiva» per i tedeschi, la «vittoria mutilata» per gli italiani), impoveriti dalla grande crisi dell’economia, impauriti dal comunismo trionfante in Russia, guardavano con favore alle prospettive aperte, almeno a parole, dagli uomini nuovi dell’assalto alle democrazie. Hitler, unsere letzte Hoffnung, si leggeva in un manifesto tedesco nel 1933, l’anno della Machtergreifung, la presa del potere da parte dei nazisti. Un insieme di delusioni e frustrazioni induceva, non soltanto in Germania, a collocare l’«ultima speranza» nel demagogo di turno. Fatte le dovute proporzioni, non è esattamente quello che sta accadendo oggi in molti paesi d’Europa? Ci sono alcuni punti di contatto fra quella esperienza e l’attuale: è vero che gli europei stavolta non se la prendono tanto con i trattati di pace, né si aggira nel continente uno spettro da esorcizzare come fu a suo tempo quello dei soviet: ma ad affliggerli sono una volta ancora le condizioni insoddisfacenti dell’economia, e nella parte orientale dell’Europa gli sviluppi successivi al collasso del Patto di Varsavia. A spaventarli è la crescente pressione migratoria, spregiudicatamente cavalcata da chi se ne serve come di un’arma. Un altro elemento che ripropone la situazione degli anni Venti e Trenta è la debolezza della sinistra, come sempre divisa davanti ai cruciali appuntamenti con la storia. L’analogia delle condizioni dovrà necessariamente portare a conseguenze analoghe? Non è detto, è lecito sperare che l’esperienza di allora possa funzio-

Marcia della pace del 1. maggio a Varsavia in difesa della democrazia. (AFP)

nare come deterrente frenando le sbandate autoritarie. Nel dibattito aperto dalle provocazioni nostalgiche è stato detto che il fascismo non è soltanto un sistema di governo, ma anche una mentalità. Ci si può augurare che il suo annidarsi nella memoria collettiva sia anche un contravveleno, che l’Europa possa considerarsi immunizzata da ciò che ha sperimentato negli anni di Hitler, di Mussolini, di coloro che incanalarono tutti i problemi del mondo in costruzioni statuali repressive e totalitarie. Inoltre se negli anni ruggenti la contestazione autoritaria prendeva di mira la Società delle Nazioni, oggi attacca le istituzioni dell’Unione Europea, molto più invasive, dunque in grado di difendersi meglio, rispetto alla quasi impotente organizzazione ginevrina. Non a caso i sondaggi, occasionalmente confermati da risultati elettorali come quello recente in Spagna, rivelano che di fronte alla frangia rumorosa che rimpiange le camicie brune o quelle

nere esiste una massiccia maggioranza che si ostina a credere nei valori rappresentati dalla comunità dei Ventisette: anche se tutti chiedono istituzioni più moderne e più vicine ai cittadini. Tuttavia i sovranisti non esplicitamente fedeli a un passato impresentabile, ma ugualmente nemici di quelle che considerano le costrizioni brussellesi, hanno messo a segno alcuni punti. Per esempio controllano, da soli o condizionati dalla necessità di alleanze, alcuni governi come a Varsavia o a Roma, o nella Budapest della «democrazia illiberale» di Viktor Orbán, e ne insidiano molti altri. Insistendo soprattutto sull’Europa cristiana minacciata dall’invasione dei diseredati, alimentando la paura della contaminazione etnica e religiosa, che secondo il leader ungherese sarebbe pianificata dalla lobby ebraica di George Soros, contano sul rinnovo imminente del parlamento europeo. Gli oltranzisti sognano di entrare nell’assemblea di Strasburgo per

compiervi azioni di disturbo, i sovranisti più moderati progettano di imprimere una svolta alle politiche dell’Unione condizionando dall’interno le formazioni maggiori. Comunque vada a finire, è chiaro che l’Europa sta attraversando una fase di ridefinizione dei suoi connotati ideologici. Se avremo una riaffermazione o un superamento di quei principi dipenderà dagli elettori. Ma perché si riaffermino i valori democratici è necessario che tutti, a cominciare dagli stessi sovranisti moderati visto che proprio loro rischiano di pagare il conto dei rigurgiti nostalgici, sappiano isolare i gruppi neo-hitleriani, neo-mussoliniani, neo-franchisti. In fondo anche costoro sentono a volte il bisogno di differenziarsi da modelli di riferimento così ingombranti. Non sempre lo sanno fare in modo convincente, certo non quei militanti italiani di CasaPound che si autodefiniscono così: certo che siamo fascisti, ma del terzo millennio!

Gli affari esteri saranno un problema per Madrid

Spagna Nei confronti dell’America latina e del Venezuela in particolare il governo di Pedro Sanchez dovrà mettere

insieme visioni del mondo molto diverse e soprattutto un arco di alleanze totalmente opposte

Incompatibilità nella visione degli affari esteri della Spagna. Questa è la grande difficoltà nel lungo periodo della maggioranza più probabile del prossimo governo spagnolo: socialisti e Unidos Podemos insieme agli indipendentisti, cioè una maggioranza guidata dai socialisti e vincolata alle richieste degli indipendentisti. Se Pedro Sanchez (nella foto), premier socialista uscente e unico reincaricabile, scommetterà, dopo aver atteso l’esito delle prossime europee, su di un’alleanza con Pablo Iglesias di Unidos Podemos, potrà con agio trovare

mediazioni sulle questioni interne e sui rapporti da tenere insieme a Podemos con gli indipendentisti, ma non potrà nascondere le difficoltà nella gestione degli affari esteri, dove le posizioni e le alleanze internazionali dei due partiti, Psoe e Podemos, sono diametralmente opposte da sempre. Il Psoe ha un antico tessuto di relazioni estere con forze di origine liberal progressista. Podemos, al contrario, ha ereditato rapporti con forze populiste o di sinistra radicale classica, anche veterostaliniste. Due posizioni incoinciliabili e due schemi di alleanze incompatibili. Questo è molto evidente in America latina, dove la Spagna come ex potenza

AFP

Angela Nocioni

coloniale coltiva intense relazioni economiche e politiche. Inevitabilmente, per esaminare solo l’eventualità più incombente, un avvitarsi tragico della crisi venezuelana, per esempio, metterebbe in grave difficoltà una maggioranza spagnola fatta da Psoe e Unidos Podemos perché Sanchez ha relazioni strette con l’operazione internazionale che ha portato all’autoproclamazione di Guaidò alla presidenza ad interim e ha subito riconosciuto l’oppositore come legittimo presidente ad interim, anche se ha sconfessato in anticipo colpi di mano militari. Podemos, al contrario, ha stretti legami con i chavisti e non ne vuol sapere di Guaidò. Poiché la Spagna è la deputata naturale a guidare ogni processo di mediazione politica in quell’area – lo ha fatto con successo con Cuba insieme al Vaticano – e poiché un suo sottrarsi aprirebbe ancor più spazio agli Stati Uniti, che già nella vicenda venezuelana di spazio ne hanno preso parecchio, problema non da poco sarebbe per un futuro governo spagnolo fatto da Sanchez più Iglesias doversela vedere con il dossier del Venezuela in fiamme. Che fare? Difficile mettere d’accordo il Psoe con le esigenze di riconoscenza che Podemos deve a Caracas. S’è già visto in passato, quando Maduro tentò il colpo di mano ed esautorò il Parlamento via Tribunale supremo. Succede che il Tribunale supremo di giustizia, in mano al governo, esautora

il Parlamento, dove l’opposizione è in maggioranza. Avoca a sé le facoltà legislative. Regala al presidente Maduro i superpoteri che lui cerca invano da anni. E Podemos in Spagna cosa fa? Si precipita a difendere il colpo di Stato, a spiegare al mondo che non si tratta di un golpe. Pablo Bustinduy dice che bisogna «capire la complessità della questione», che «si tratta di un conflitto tra il legislativo e l’esecutivo». Bustinduy è il responsabile esteri del partito. Ha pure brigato parecchio per diventarlo. E infatti i compagni gli sono andati subito tutti dietro con dichiarazioni spericolate. Le ragioni sono supponibili. La rivoluzione chavista è stata molto generosa con Podemos in passato. L’ha tenuto a balia per anni. Le relazioni sono incontestabili, anche se Iglesias e compagni di solito sminuiscono e tergiversano in proposito sempre. Anni fa, per esempio, grande eco ebbe in Venezuela la notizia dell’incontro a Ginevra tra Juan Carlos Monedero, allora numero tre di Podemos, e due funzionari chavisti, a ridosso di una conferenza sui diritti umani nella sede delle Nazioni Unite. Qualche giorno dopo Podemos si rifiutò di appoggiare una risoluzione del Parlamento europeo di condanna alla detenzione di alcuni leader dell’opposizione venezuelana. Podemos non trova nulla da eccepire se in Venezuela i principali esponenti dell’opposizione finiscono

in carcere con le accuse più varie e ci rimangono per anni. In quell’occasione contestò la definizione di «arresto arbitrario». Anche allora raccomandò di «comprendere la complessità della situazione», nonostante i leader dell’opposizione sbattuti in galera (non furono i primi, né gli ultimi) erano stati arrestati con ogni evidenza a causa dello svolgimento della loro attività politica. Come tramite fondamentale degli scambi tra regime chavista e l’ambiente politico da cui venne fuori Podemos è sempre stata indicata una fondazione culturale spagnola dalla storia curiosa, il Centro di studi politici e sociali, il Ceps. Il luogo di costituzione è Valencia, la creano Roberto Viciano, un professore di Valencia con stretti legami con il regime, il suo amico Roberto Martinez e altri del giro chavista spagnolo. Secondo quanto risulta al giornale venezuelano «El Nacional» sarà il Ceps a fare da tramite tra il Venezuela e la Spagna per far piovere su Podemos milioni di petrodollari chavisti. Podemos nega che ci siano vincoli tra il Ceps e il movimento politico di Iglesias e compagni. «El Nacional» sostiene invece che da quando, il 26 novembre del 2002, il Ceps ha aperto un ufficio a Caracas e ha autorizzato una cittadina spagnola a rappresentarlo di fronte alle istituzioni locali, si è aperta un’autostrada a carichi di quattrini spostati a vario titolo dalle casse chaviste a quelle della fondazione.


Ora sugli scaffali Migros: l’Ice Tea creato da te Solo per breve tempo

t uo l i a t o V t o su i r e f e r p a t s .ch e B a e T Ice

La Migros è della gente. Ecco perché abbiamo chiesto anche a te di creare il nuovo gusto di Ice Tea. Quattro gusti sono arrivati in finale e quindi sugliscaffali Migros. Su IceTeaBeats.ch puoi decidere quale mix resterà in assortimento!


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 6 maggio 2019 • N. 19

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Politica e Economia Trump si rivolge al Congresso a Capitol Hill: alle sue spalle Nancy Pelosi e Mike Pence. (AFP)

Colombo e le teorie del complotto Scenari L’india avrebbe organizzato gli

attentati di Pasqua per distruggere le relazioni fra Pakistan e Sri Lanka Francesca Marino

Una battaglia partigiana Usa Più che il rapporto Mueller – che non ha messo sotto accusa

il Presidente Trump –, colpisce il silenzio dei vertici democratici al Congresso, a cominciare dalla speaker Nancy Pelosi Christian Rocca Non vivessimo i tempi in cui viviamo, Donald Trump non avrebbe alcuna chance di essere rieletto presidente degli Stati Uniti. Probabilmente non avrebbe nemmeno la possibilità di ricandidarsi, come aveva predetto due anni fa il suo ex stratega Steve Bannon, oggi guru dell’internazionale populista. Invece il presidente americano è ben saldo alla Casa Bianca e dichiara pubblicamente che le inchieste nei suoi confronti lo hanno infine liberato dal peso di doversi difendere dall’ingiusta accusa di essere stato in combutta con i russi per corrompere il processo democratico americano del 2016 a danno di Hillary Clinton. Eppure ora sappiamo che, al momento della nomina di Robert Mueller a procuratore del Russiagate, è stato proprio Trump a dire, con parole non smentite, che l’apertura dell’inchiesta era una notizia terribile e letale, in pratica la fine della sua presidenza.

I fatti riguardanti il Russiagate sono i comportamenti più incriminabili per un presidente, ma la palla ora è nel campo della politica Il rigoroso senso dello Stato di Mueller, e una certa ingenuità nel non prevedere che Trump avrebbe abilmente manipolato le conclusioni del rapporto, hanno comunque assegnato una notevole vittoria mediatica al presidente, il quale non solo si potrà ricandidare ma affronterà i mesi che lo separano dal voto del novembre 2020 assistendo alla battaglia tra ventuno, almeno per ora, impacciati candidati democratici ancora indecisi sul da farsi. Solo Joe Biden, l’ex vicepresidente di Barack Obama e l’ultimo dei democratici a scendere in campo, per esperienza e autorevolezza sembra in grado di sostenere lo scontro con Trump. Gli altri tendenzialmente lo ignorano, anche dopo che è naufragata la speranza che fosse Mueller, e non loro, a liberare il Paese da Trump. Nonostante la narrazione di Trump sia quella dell’assoluzione sotto ogni punto di vista, il rapporto Mueller dice altro. Mueller non ha incriminato il presidente perché le linee guida del Dipartimento di Giustizia, sostenute con gran vigore dall’attuale Attorney General William Barr, nominato da Trump esattamente per questo motivo, sostengono che un presidente in carica

non possa essere processato. Mueller ha smontato il ragionamento legale del Dipartimento, ma vi si è lealmente attenuto, non pronunciandosi sulle ipotesi di reato del presidente, pur raccogliendo una quantità imponente di prove che dimostrano i tentativi ripetuti di Trump di fermare il corso dell’inchiesta, in molti casi evitati grazie al rifiuto dei funzionari dell’Amministrazione. Mueller, però, non solo ha lasciato aperta la possibilità che Trump possa andare sotto inchiesta una volta lasciata la Casa Bianca, da privato cittadino, ma ha affidato al Congresso, l’organo politico preposto a mettere in stato d’accusa e poi a giudicare il presidente, il compito di preservare il corretto funzionamento delle attività formali dello Stato americano di fronte ad atti come quelli dimostrati nell’inchiesta. Insomma, i fatti sono evidenti e la palla ora è nel campo della politica. Il giorno dopo la pubblicazione parziale del rapporto, la senatrice e candidata presidenziale, Elizabeth Warren, molto indietro nei sondaggi malgrado sia una delle più preparate e l’unica ad aver presentato una serie di proposte concrete, ha provato a distinguersi dal gruppo chiedendo pubblicamente l’apertura della procedura di impeachment nei confronti del presidente. Soltanto la collega senatrice Kamala Harris, anche lei candidata, ha aderito sia pure con moderazione all’idea. Ma a colpire è stato il silenzio, se non la contrarietà, dei vertici democratici al Congresso, a cominciare dalla Speaker Nancy Pelosi. Secondo la Costituzione americana, l’incriminazione del presidente è compito della Camera dei deputati, ora guidata dalla Pelosi. In teoria i numeri ci sarebbero, così come i possibili capi di imputazione, ma l’abilità di Trump nel far passare la sua narrazione, «no collusion, no obstruction», hanno trasformato la questione in una battaglia partigiana tra trumpiani e antitrumpiani, non sui comportamenti del Commander in Chief né sul merito dei fatti contestati che, uno per uno, sono di gran lunga più seri e gravi di quelli presi in considerazione negli unici tre precedenti di impeachment nella storia degli Stati Uniti. Nessun presidente americano è mai stato formalmente rimosso dal Congresso, perché in due casi, Andrew Johnson (1868) e Bill Clinton (1998), la Camera li ha messi sotto accusa e il Senato, che nella procedura costituzionale fa da giudice, li ha assolti (nel caso di Johnson, per l’unico voto di un senatore). Nel 1973, invece, Richard Nixon si è dimesso da presidente, in cambio della grazia, prima ancora che iniziasse il procedimento e per evitare l’onta dell’impeachment. Gerald Ford, il suc-

cessore di Nixon, in quell’occasione disse che ciò che determina l’incriminazione del presidente è «qualsiasi cosa una maggioranza della Camera considera tale in quel determinato momento della storia». Nel 1868, Jackson fu incriminato per aver oltraggiato, disonorato e ridicolizzato la presidenza, non per aver commesso un reato. Nel caso di Clinton, alla maggioranza repubblicana era stato sufficiente che avesse mentito alla giuria sui rapporti sessuali intercorsi con una stagista, mentre a Nixon il Congresso contestava di aver osteggiato un’inchiesta federale, abusato dei suoi poteri e ignorato le richieste di deposizione sotto giuramento, tutti comportamenti che, secondo Mueller, ha tenuto anche Trump. Il Russiagate è ancora più grave perché provare a fermare un’inchiesta sull’ingerenza esterna nel processo democratico e accettare l’aiuto di una potenza straniera sono i comportamenti più incriminabili possibili per un presidente. Mueller ha esonerato Trump soltanto dall’accusa di essersi coordinato con il governo russo e le sue attività di interferenza elettorale in America, nonostante entrambi lavorassero allo stesso obiettivo e fossero anche disponibili ad aiutarsi a vicenda. L’elenco degli aiutini russi a Trump, e delle manovre trumpiane per sfruttarli, in tempi normali avrebbe creato una solida maggioranza bipartisan e patriottica contro il presidente alleato di Mosca, invece – tranne un paio di eccezioni – i repubblicani stanno tutti con Trump e, avendo la maggioranza al Senato, è improbabile che la procedura di impeachment possa portare a una condanna del presidente. I democratici lo sanno e prendono tempo: da un lato sperano che le inchieste ordinarie dei magistrati di New York sugli affari di Trump possano aprire altri fronti, dall’altra proveranno la strada delle audizioni al Congresso per portare tutto alla luce del sole. Il timore di Nancy Pelosi e degli altri è che i tentativi di rimuovere Trump possano aiutare il presidente a costruirsi l’immagine di vittima di oscure manovre di palazzo e, allo stesso tempo, a mettere in difficoltà i democratici nei collegi dove la differenza tra i due partiti è minima. Ma far finta di niente di fronte a un presidente che ha flirtato con l’attacco straniero alla democrazia americana ha altrettante controindicazioni politiche: l’elettorato democratico potrebbe giudicare inetti e inadeguati gli attuali candidati di partito e, cosa ben più pericolosa per il futuro dell’America, farebbe credere ai prossimi leader che basta saper manipolare l’opinione pubblica per essere considerati al di sopra della legge e farla franca.

Era solo questione di tempo, prima che le teorie del complotto cominciassero a circolare in rete a proposito degli attentati di Pasqua nello Sri Lanka. L’attentato più sanguinoso della storia recente dell’Asia del sud, difatti, è ancora per molti versi non del tutto comprensibile. A parte la rivendicazione da parte dell’Isis non sono del tutto chiari né i mandanti né il movente di quella che agli occhi di molti è apparsa come una vera e propria azione di guerra. Così, in assenza di riscontri ufficiali dettagliati e univoci, fioriscono su media e siti web quel genere di teorie che riscuotono grande successo di pubblico e diventano reali per una fetta di fruitori dell’informazione soltanto in base alla reiterazione dell’enunciato. Dopo l’attentato alle Torri gemelle dell’11 settembre, una delle teorie più accreditate da analisti da bar e teorici del complotto era: «Nessun ebreo è morto nelle torri gemelle». Falso, ma tanta gente ci crede ancora. Nei giorni scorsi, puntualmente, il quotidiano pakistano «Daily Mail» ha pubblicato, con tanto di titolo a effetto, un articolo che recita testualmente: «nessuna proprietà o luogo di culto induista e nessuna attività commerciale indiana sono state colpite durante gli attacchi di Colombo. È interessante notare che gli attentatori suicidi sembra siano stati molto attenti a non colpire nessuna attività commerciale indiana visto che, mentre hanno attaccato tutti i maggior hotel della zona, inclusi il Cinnamon Grand Hotel e il Kingsbury hotel, hanno preferito ignorare uno dei maggiori alberghi indiani, il Taj Samudra, che si trova a ridosso degli altri due». Il Taj Samudra era in realtà uno dei bersagli previsti, e i suoi ospiti sono scampati al massacro soltanto perché l’attentatore non è riuscito a far detonare il suo zainetto con esplosivo d’ordinanza. È stato ripreso dalle telecamere di sicurezza dell’albergo e le riprese video circolano in rete e nelle redazioni dei giornali da giorni. Eppure, esattamente come nel caso delle Torri gemelle, la notizia continua a essere rilanciata e commentata in Pakistan e adoperata per convalidare un’altra teoria del complotto: l’India, nonostante avesse ufficialmente avvertito il governo dello Sri Lanka della concreta possibilità di attentati, ha in realtà organizzato gli attentati per distruggere le relazioni tra Pakistan e Sri Lanka. Il fatto è che Islamabad ha la necessità assoluta di provare la sua totale estraneità a un’azione di guerra che è simile, troppo simile a quella di Mumbai del 2008. E i fatti non aiutano. Dal

L’ex presidente singalese Rajapaksa. (AFP)

2004, difatti, all’indomani dello tsunami, la Lashkar-i-Toiba ha cominciato a infiltrare lo Sri Lanka e le Maldive per mezzo delle sue organizzazioni umanitarie. La presenza di cittadini dello Sri Lanka è stata registrata nei campi di addestramento della LiT in Punjab e nel Khyber Pakhtunkhwa e la presenza di basi della LiT era stata confermata nel 2010 anche dall’ammiraglio americano John Willard. Negli anni sono sorte come funghi madrasa finanziate dai sauditi in cui si studia su libri di testo direttamente importati dal Pakistan, e l’Isi, i servizi segreti di Islamabad, è stata negli anni particolarmente attiva a livello diplomatico. Ha fornito armi e assistenza all’ex-presidente Rajapaksa per sconfiggere definitivamente le Tigri Tamil. E lo stesso Rajapaksa ha stipulato gli accordi che hanno permesso a Colombo di entrare ufficialmente nella Belt and Road cinese per ritrovarsi poi strangolata dai debiti. Voci di corridoio mai provate sostenevano inoltre che la Thowheet Jamaat, il gruppo locale accusato di aver condotto materialmente l’attacco, fosse stata fondata proprio dallo stesso Rajapaksa. L’organizzazione, affiliata idealmente al franchising dell’Isis, secondo gli organizzatori ha agito con la partnership di uno sconosciuto gruppo chiamato Jamaat-ul-Mujahidin India. L’unica Jamaat-ul-Mujahidin nota alle cronache però è quella del Bangladesh, che nei giorni scorsi ha rivendicato un paio di attentati minori a Dakha e che è stata finanziata per anni dalla pakistani High Commission in Bangladesh. Quest’anno nello Sri Lanka si vota. E Rajapaksha negli ultimi due anni ha fatto diversi viaggi in Pakistan invitato dall’esercito e dall’Isi. In particolare, in un evento organizzato alla Pakistan National Defence University, è stato apertamente elogiato da ministri e generali che hanno testualmente dichiarato: «Il Pakistan sarà al tuo fianco in ogni situazione». L’attuale governo, che è stato scientemente tenuto all’oscuro dai servizi segreti dell’informativa indiana, è piuttosto inviso sia ai cinesi che a Islamabad. E, dopo la strage di Pasqua, sembra non abbia possibilità alcuna di vincere le elezioni. Si candida invece il fratello dell’ex presidente Rajapaksa, Gotabaya, un signore denunciato dagli Stati Uniti per tortura e crimini contro l’umanità. Attenersi ai fatti documentati e domandarsi a chi giova l’attentato di Colombo e dintorni, e chi aveva le capacità logistiche, finanziarie e tecniche per appaltare alle tuniche nere la paternità dell’azione, sarebbe forse un esercizio da consigliare a chiunque, in rete e nella vita reale.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 6 maggio 2019 • N. 19

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Armi: è Schengen la vera posta in gioco

Politica e Economia

Votazione federale 19 maggio Le associazioni di tiro svizzere sostenute dall’UDC hanno lanciato il rerefendum

contro la modifica della legge federale sulle armi, resasi necessaria dalla modifica della direttiva UE sulle armi

Alessandro Carli La regola vuole che i militi svizzeri portino a casa l’arma di servizio che consente loro di assolvere i tiri obbligatori e i corsi di ripetizione. È una tradizione radicata, una peculiarità del nostro esercito di milizia. Insomma, nessuno si scandalizza nel vedere in pubblico giovani col fucile d’assalto a tracolla. Ma proprio le armi sono oggetto della prossima votazione federale: il 19 maggio, gli Svizzeri dovranno infatti dire se accettano la trasposizione nel diritto svizzero di una modifica della direttiva UE sulle armi. Con l’adattamento della nostra legge non si vuole abolire la citata tradizione, ma imprimere un giro di vite ai controlli per lottare più efficacemente contro gli abusi. Tuttavia, per gli oppositori che hanno lanciato il referendum, questa revisione compromette la tradizione del tiro come sport di massa in Svizzera. Inoltre, essa non serve per lottare contro il terrorismo e la criminalità. Ma i fautori replicano che una bocciatura annullerebbe la partecipazione elvetica allo spazio di Schengen/Dublino. Risultato: fine della collaborazione tra gli organi di polizia e niente più accesso alla banca dati del Sistema d’informazione Schengen (SIS). È veramente il caso di rinunciarvi, mettendo a repentaglio la nostra sicurezza?

Secondo le associazioni di tiro, la modifica della legge non permette di lottare più efficamente contro il terrorismo, limita invece le libertà degli Svizzeri La votazione non riguarda solo le armi, ma appunto anche gli accordi di Schengen e Dublino, di cui la Svizzera fa parte. Il diritto elvetico in materia di armi, così come quello europeo, ha l’obiettivo di lottare contro l’uso illecito di quest’ultime. Con la revisione parziale della legge sulle armi, quelle semiautomatiche verranno inserite nella categoria delle armi vietate. In particolare, la legge vuole proibire le armi da fuoco semiautomatiche con un caricatore di almeno 10 proiettili. Per le pistole il divieto vale a partire da 20 cartucce. Tali armi potranno comunque essere utilizzate nel tiro sportivo e comperate, anche se il permesso d’acquisto sarà sostituito da un’autorizzazione eccezionale, già oggi rilasciata per le armi della categoria delle armi vietate. Le persone interessate dovranno inoltre provare, dopo cinque e dieci anni, che fanno parte di una società di tiro e che praticano regolarmente questo sport. Chi possiede già una simile arma può tenerla, ma deve dichiararla entro tre anni all’autorità cantonale competente, ove l’arma non fosse ancora registrata. Se invece lo è, non occorre fare nulla. Per l’acquisto, ci saranno anche novità amministrative per tiratori, collezionisti e musei. L’Unione europea, alla luce anche degli attentati terroristici di Parigi, Bruxelles e Copenaghen, ha modificato nel 2017 la propria direttiva sulle armi. Certe armi utilizzate in tali attentati erano appunto armi semiautomatiche. Dal momento che fa parte di Schengen/ Dublino, il nostro Paese deve trasporre nel proprio diritto la nuova direttiva

La consigliera federale Karin Keller-Sutter ha assicurato che nessuno in Svizzera verrà disarmato, con la revisione della legge sulle armi. (Keystone)

europea se non vuole perdere lo statuto di Stato partecipante. In caso di voto contrario, i relativi accordi cessano infatti automaticamente di essere applicabili al nostro Paese, a meno che il Comitato misto (Svizzera, tutti gli Stati membri dell’UE e la Commissione europea) non accetti, entro 90 giorni dalla notifica elvetica, di fare una concessione a Berna.

Il Consiglio federale sottolinea che bocciando la legge si dovrà uscire dallo Spazio Schengen, con conseguenze anche finanziarie nell’ordine di miliardi di franchi Per il Consiglio federale e il Parlamento non vi sono margini di interpretazione. Il messaggio è chiaro. Per la Svizzera è indispensabile che possa continuare ad accedere al servizio informatico di Schengen, utile in numerosi settori, dalla sicurezza all’asilo, dal turismo all’economia. La posta in gioco è anche finanziaria: secondo il Consiglio federale, la Svizzera perderebbe svariati miliardi di franchi all’anno nel caso in cui dovesse reintrodurre controlli nel traffico frontaliero quoti-

diano e negli aeroporti. Inoltre, polizia e guardie di confine non potrebbero più usufruire dei sistemi di informazione e di segnalazione di Schengen e Dublino e non riceverebbero più automaticamente l’attuale flusso di notizie. Le persone che viaggiano in Europa e intendono visitare il nostro paese dovrebbero richiedere, oltre al visto di Schengen, anche un visto supplementare per la Svizzera. Si tratta di «minacce» respinte dalla Comunità d’interessi del tiro svizzero (CIT), che ha lanciato il referendum e che rappresenta 14 organizzazioni. Per gli oppositori, che respingono al mittente l’accusa di voler rimettere in discussione la partecipazione della Svizzera a Schengen, il Consiglio federale cerca di dirottare l’attenzione dalle vere questioni. Recentemente, la nuova responsabile del Dipartimento federale di giustizia e polizia Karin Keller-Sutter ha affermato che con la revisione «nessuno viene disarmato». Per rassicurare gli oppositori, ha ricordato che la Svizzera è riuscita a ottenere concessioni su alcuni aspetti della direttiva europea, in particolare sull’arma d’ordinanza, e a preservare alcune particolarità, tutelando la tradizione elvetica del tiro. Non ci saranno né test psicologici, né registro centrale delle armi, né obbligo di appartenere a una società di tiro. Anche per i cacciatori non cambia nulla.

L’inasprimento della legge sottoposto al popolo – ha aggiunto la consigliera federale – non rimette in questione né le gare di tiro, né le manifestazioni popolari come il tiro in campagna. Secondo il testo in votazione, il fucile d’assalto non sarà registrato nella categoria delle armi vietate nel caso in cui il proprietario decidesse di tenerselo alla fine del servizio militare. Sarà «vietato» soltanto se trasmesso a un erede o venduto. Ma sono argomenti che non convincono i fautori del referendum, sostenuti dall’UDC. Intanto, essi rimproverano al Consiglio federale di non aver mantenuto la promessa fatta prima della votazione del 5 giugno 2005 sull’adesione all’Accordo di Schengen, ossia che ogni timore in merito a possibili restrizioni di peso nel diritto elvetico sulle armi era ingiustificato. Se allora le società di tiro avevano sostenuto l’accordo, ora non possono che opporsi alle nuove scelte di governo e parlamento. Secondo il presidente della CIT Luca Filippini, più dell’80% delle armi utilizzate da chi pratica il tiro sportivo (fucili d’assalto 57 e 90) saranno immediatamente vietate in caso di approvazione della revisione. Gli acquisti saranno possibili solo con autorizzazioni eccezionali, costose e assoggettate a severe condizioni. Tutto ciò – secondo i promotori del referendum – è contrario al diritto alle armi, fondamentale

per «garantire la libertà individuale». Per gli ambienti del tiro, la revisione è inutile per quanto riguarda la lotta contro il terrorismo. Non vi è alcun nesso tra gli inasprimenti previsti e l’obiettivo che si vuole raggiungere in materia di sicurezza. Gli oppositori ricordano che nessuno degli attentati messi a segno negli ultimi anni in Europa è stato commesso con un’arma legale. Non è stato possibile tracciarne la provenienza. Un aspetto questo evidenziato in Parlamento persino dai portavoce del PLR e del PPD, favorevoli alla nuova direttiva sulle armi. Infine, la CIT sottolinea che la revisione della legge genererà ulteriore burocrazia per i tiratori e gli uffici delle armi. Per la Comunità d’interessi dei tiratori, la polizia sarà distolta dai suoi compiti di sicurezza sul territorio, ivi comprese le misure contro il terrorismo. Attualmente, i controlli effettuati sulle armi sono sufficienti. È inutile incrementarli con l’illusione di porre fine agli atti terroristici. Alla luce dell’inasprimento dei controlli – ha ironizzato il presidente della CIT Luca Filippini – «sembra che oggi le armi siano in vendita al supermercato e che chiunque possa comprarle». Fortunatamente, non è così. Già oggi su fucili e pistole le componenti principali sono punzonate con numeri di serie, ciò che permette di stabilirne la provenienza, il lotto e il produttore. Ciononostante, il progetto in votazione prevede che tutte le parti essenziali delle armi devono essere contrassegnate. Inoltre, i commercianti devono comunicare per via elettronica all’autorità cantonale competente tutte le vendite e gli acquisti di armi e di componenti delle stesse. Ciò consentirà alla polizia di stabilirne più facilmente la provenienza. Grazie alle nuove misure, la polizia elvetica può sapere più facilmente a chi all’estero è stata negata la consegna di un’arma per motivi di sicurezza e potrà fare altrettanto. L’inasprimento della legge sulle armi è difeso da un’ampia alleanza politica. Due i citati vantaggi: maggiore sicurezza e partecipazione garantita agli accordi di Schengen e Dublino. Del comitato sostenitore fanno parte PLR, PS, PPD, Verdi liberali, Verdi, PBD e Partito evangelico. Sebbene le campagne dei vari partiti siano indipendenti e gli argomenti diversi, l’obiettivo resta lo stesso. Come detto, l’UDC, che ha promosso il referendum assieme alle associazioni dei tiratori, è l’unico schieramento politico di governo che raccomanda di bocciare la nuova direttiva sulle armi. Secondo i sostenitori, le disposizioni dell’UE rispettano le peculiarità e le tradizioni elvetiche in materia di tiro. Essi ricordano che un «sì» migliorerà la lotta contro il traffico illegale di armi e garantirà una migliore tracciabilità dei vari modelli. Ma ciò che più conta è che continueremo a far parte del sistema Schengen. Ed è questa – ricordiamolo – la vera posta in gioco. Il nostro Paese, isolato a livello internazionale, si troverebbe a dover affrontare un grosso problema di sicurezza. «Non si tratta di un diktat europeo, né di un disarmo dei cittadini, ma di dar prova di razionalità e lungimiranza», mettono in guardia i fautori. Per il momento, i sondaggi sembrano dar loro ragione: a metà aprile, i sostenitori della direttiva sulle armi erano il 55% (in aumento di due punti). Il 44% voterebbe no e l’1% è indeciso. Vedremo se queste tendenze troveranno conferma nelle urne.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 6 maggio 2019 • N. 19

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Politica e Economia

Come ridurre la pletora di sussidi federali?

Spesa pubblica Il rapporto del controllo delle finanze ne enumera circa 300 per un costo di 40 miliardi all’anno.

La competenza di ridurli spetta comunque dal Parlamento, nel quale alcuni contributi sono «intoccabili», mentre per altri vi sono troppi interessi particolari Ignazio Bonoli L’ultimo rapporto dell’istanza di controllo delle finanze federali conferma quanto si andava prevedendo da tempo: un costante aumento del volume dei sussidi e la totale mancanza della volontà di correggere questa evoluzione. Non si può però dire che in questo campo manchi la trasparenza. Infatti, l’Amministrazione federale delle finanze pubblica regolarmente in Internet una banca dati con tutte le forme di sussidi federali. Questa lista comprende circa 300 posizioni, per un volume totale di quasi 40 miliardi di franchi all’anno. Tra queste ve ne sono alcune di grande importanza. Ad esempio i contributi all’AVS (8,6 miliardi di franchi), quelli all’AI (3,6 miliardi) o quelli alle Scuole politecniche federali (2,4 miliardi). Accanto a questi interventi importanti e ormai diventati indispensabili, ve ne sono alcuni di carattere particolare: ad esempio 8,6 milioni di franchi versati alle società di tiro, quali contributo all’organizzazione del «tiro fuori servizio», oppure i sussidi alle radio locali in regioni montane discoste (700’000 franchi), o anche quelli destinati ai servizi per la salute degli animali (1,5 milioni). La lista dei sussidi è molto lunga e va dai contributi alle associazioni de-

gli Svizzeri all’estero a quelli agli editori di giornali in Svizzera. Secondo la legge, la Confederazione deve procedere almeno ogni sei anni a un esame della situazione. Essa deve in particolare controllare l’economicità e l’efficacia del sussidio. Questo lavoro viene poi compendiato nel rapporto di cui si diceva all’inizio. Il risultato di questo esame avrebbe dovuto provocare una seria riflessione nella discussione di questi interventi e suscitare qualche decisione politica sulla loro necessità e la loro efficienza. Tale speranza sembra però andata delusa. Nel 2008, il Consiglio federale aveva constatato una necessità di intervenire su una settantina di sussidi. Il volume di questo intervento era stimato in 9,9 miliardi di franchi. Nel frattempo questa cifra è però salita a 12,7 miliardi, come indica il rapporto del controllo delle finanze. La crescita maggiore di questi sussidi è dovuta alla cooperazione allo sviluppo, nonché alle università e alle aumentate domande di asilo. Il controllo delle finanze avverte però che il confronto su più anni è reso difficile dal fatto che molti dei crediti concessi sono stati ristrutturati. Inoltre, l’aumento della spesa totale non significa che la Confederazione non abbia soppresso nessun sussidio. L’istanza di controllo constata, infat-

In alcuni settori, quali agricoltura e turismo, anche quando vengono pianificate, le riduzioni dei sussidi sono difficilmente attuabili. (Keystone)

ti, un alleggerimento di 128 milioni nei sussidi versati. Questa cifra è però praticamente scomparsa nell’aumento dei rimanenti sussidi versati. La conclusione del rapporto su questo aspetto genera però qualche perplessità: si dice, infatti, che questo sviluppo riflette in sostanza la tendenza alla crescita costante dei sussidi quale risultato di una volontà politica. Il rapporto del controllo delle finanze, pur mantenendosi su un piano di analisi neutrale, lasciare trasparire che

un eventuale rallentamento della crescita dei sussidi è compito della politica. Laconicamente conclude dicendo che, vista la situazione, non ha senso proporre qualche raccomandazione all’Amministrazione federale. Vi sono, infatti, alcuni settori nei quali è impossibile agire, se non attraverso il Parlamento. Gli esempi classici sono l’agricoltura e il turismo, settori nei quali alcune riduzioni pianificate non sono state attuate. Non mancano tuttavia alcuni sforzi nella giusta direzione. Per esempio,

ogni anno, almeno un dipartimento deve esaminare a fondo i sussidi concessi. Nel 2018, questo compito è toccato al Dipartimento dell’economia. Risultato: il Consiglio federale vuole in ogni caso sopprimere due sussidi ed eventualmente altri due. Si tratta del sussidio di 1,1 milioni alle scuole di lingua francese di Berna. È un compito solitamente a carico del Cantone, ma nel 1960 il sussidio federale venne creato per i figli dei dipendenti federali di lingua francese che frequentavano la scuola di Berna. Un altro sussidio da sopprimere, sarebbe quello destinato all’Ufficio di Svizzera turismo. In entrambi i casi le opposizioni non mancheranno. Altri due sussidi in forse sono quello di 47 milioni per l’eliminazione degli scarti animali dei macelli, sussidio che comunque resterà nell’agricoltura. Inoltre, è prevista la soppressione dei 3,3 milioni di sussidi al servizio civile per uomini impiegati nella protezione dell’ambiente o di beni culturali. Anche in questi casi le previsioni sono difficili. Finora l’unico sussidio realmente soppresso è quello destinato alla formazione di capitani di marina o di marinai. Qui il costo della gestione era perfino superiore al sussidio da versare (20’000 franchi). Per gli altri, una soppressione nell’anno delle elezioni sarà sicuramente molto difficile. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Un monumento agli evasori confessi Ai lettori non sarà sfuggito che, nel corso degli ultimi due anni, la situazione finanziaria degli enti pubblici svizzeri è migliorata di molto. Da quegli zeri rosso o neri dei bilanci di qualche anno fa si è passati ad eccedenze di milioni, se non addirittura di miliardi. Se si vanno a cercare le ragioni di questo miglioramento si sentono di solito suonare tre campane. La prima, quella dei teorici della finanza pubblica, insiste sul carattere ciclico dei risultati di bilancio dovuto ai diversi tipi di freno alle spese introdotte da Confederazione e Cantoni, ma anche al fatto che le leggi finanziarie prevedono che, nel medio termine, i deficit devono essere eliminati. Dopo di che i teorici si accapigliano per trovare una definizione accettabile del medio termine. Di solito, quando è specificato nella

rispettiva legge finanziaria, il medio termine è un periodo di 4 o 5 anni. Quel che è certo è che queste misure, dopo qualche anno di deficit, magari anche mostruosi, fanno tornare i conti in pareggio e producono addirittura eccedenze consistenti. La seconda campana è quella del contenimento della spesa. Qui ad aiutare le autorità cantonali e federali non sono stati tanto i programmi di risparmio quanto l’introduzione, a partire dal 2015, degli interessi negativi. Interessi negativi significa che se fai un debito oggi ricevi praticamente il credito corrispondente gratis. Siccome nei Cantoni più spendaccioni non era infrequente che il carico degli interessi passivi superasse il 5, quando non addirittura il 10% del totale della spesa, l’alleggerimento consentito dai tassi di interesse

negativi non è certo da considerare come un fattore trascurabile nella riconquista dell’equilibrio di bilancio. La terza campana si interessa a quanto è successo dal lato delle entrate. Si danno un bel daffare i nostri ministri delle finanze per relativizzare il peso delle sopravvenienze di questi ultimi anni, ma le cifre sono lì per testimoniare che anche l’aumento dei ricavi, in particolare dei ricavi fiscali, li ha aiutati a ritrovare il cammino delle eccedenze. E a gonfiare i ricavi fiscali sono venute le entrate straordinarie dovute agli evasori pentiti che, in seguito all’amnistia «light» introdotta nove anni fa, si sono autodenunciati, dichiarando le sostanze, che detenevano all’estero, e che fino ad allora avevano nascosto al fisco. Chi sono questi evasori? La maggioranza di loro sono persone residenti in Sviz-

zera ma di origine straniera: italiani, portoghesi e spagnoli che possiedono nei loro paesi d’origine conti bancari o proprietà immobiliari non dichiarate. Quanti sono questi evasori? Per l’intero periodo di amnistia dovrebbero essere tra i 100’000 e i 150’000, vale a dire una percentuale relativamente poco importante della popolazione di contribuenti del nostro paese. Anche le fortune nascoste dichiarate dalla maggioranza di questi pentiti non sono rilevanti. Questo è almeno l’avviso della «Neue Zürcher Zeitung» che, recentemente, ha dedicato un lungo articolo a questo problema. Tuttavia la somma di tante piccole fortune ha portato al fisco un incasso supplementare che si lascia citare: quasi 4 miliardi di imposte supplementari in 9 anni per l’intera Svizzera. Di conseguenza an-

che il fisco ticinese qualche decina di milioni in più li avrà incassati, grazie a questa amnistia fiscale. Se guardiamo infatti alla classifica dei Cantoni per numero di evasori confessi troviamo al primo posto, e non è una sorpresa, le due maggiori piazze finanziarie, ossia Zurigo e Ginevra. Poi vengono il Vallese e Berna e, al quinto posto, il Ticino. L’articolo della NZZ termina segnalando che l’evasione fiscale, che, ancora un decennio fa, veniva considerata, da noi, come una trasgressione perdonabile, viene ora considerata come un delitto. Ma, aggiunge il giornalista, non è quasi mai la cattiva coscienza che porta l’evasore a dichiarare le sostanze nascoste. Molte volte è la sua banca, preoccupata di detenere solo denaro pulito, che fa pressione perché lo faccia.

biente di intellettuali. Ma viene da una famiglia che credeva nella cultura. Suo nonno era analfabeta. Caduto il franchismo, si iscrisse alla scuola serale, in uno dei quartieri popolari di Madrid, Carabanchel. La pagina più bella della sua autobiografia, intitolata non a caso «Manuale di sopravvivenza», è quella in cui racconta del nonno che imparava a leggere e a scrivere. Il piccolo Pedro invece imparò ad andare in bicicletta nel cortile della facoltà di economia dell’università Complutense di Madrid, dove il padre, studente lavoratore, seguiva le lezioni tenendolo d’occhio dalla finestra. Papà aveva solo 21 anni quando lui nacque; la mamma 19. Impiegata negli uffici della previdenza sociale, si iscrisse all’università a quarant’anni; e l’attuale premier la ricorda con tenerezza preparare gli esami alle tre del mattino, per poi scrivere una lettera all’altro figlio – che studiava composizione e direzione d’orchestra a Mosca – e dormire qualche ora prima di alzarsi per andare al lavoro. Ovviamente, Sánchez è un politico scafato, anche cinico se necessario. È stato

abile a sfruttare l’allarme antifranchista e antireazionario, agitando lo spauracchio dell’estrema destra, che non era così forte come si temeva (o si sperava). Anche per questo si sono mobilitate le regioni più segnate dalle fratture della guerra civile, e da quelle recenti del conflitto tra separatisti e centralisti, tra Barcellona – e Bilbao – e Madrid. Ma Sánchez ha capito una cosa essenziale: anche coloro che rifiutano il populismo arrembante, sentono l’esigenza di volti nuovi. Non ne possono più dei baroni corrottissimi e anche dei grandi vecchi come Felipe González. Così, quando la burocrazia del partito decise di astenersi in Parlamento per lasciar nascere il governo di destra, Sánchez si dimise da segretario, rinunciò pure al seggio, e riprese a far politica da militante, girando in macchina le sezioni socialiste della Spagna profonda, e intercettando quella rivolta antisistema che è il vero segno del nostro tempo. Slogan: «No es no»; no vuol dire no. Lo stesso che i suoi sostenitori ritmavano domenica notte sotto il balcone. Nel frattempo Sánchez

ha vinto le primarie contro la pupilla di González, l’ex presidenta andalusa Susana Dìaz, ha rimontato nei sondaggi, e ha colto una vittoria che non è certo di sfondamento ma è pur sempre in controtendenza. Le forze di sinistra hanno gli stessi voti di quelle di destra: circa 7 milioni e 200 mila. Ma la legge elettorale premia i partiti più grandi, rappresentati in tutto il territorio nazionale; il Pp invece si è diviso, e nel Paese basco come in Catalogna non esiste quasi più. Qui c’è l’altra causa dell’eccezione spagnola (confermata dal governo portoghese, che tiene insieme riformisti e movimentisti). Basta andare in un comizio del Psoe, magari in un palazzetto un po’ fatiscente, guardare la gente, notare i loro vestiti, ascoltare i loro accenti, e paragonarla a quella vista mille volte in piazza Navona e in altre magnifiche piazze romane, alle manifestazioni della sinistra italiana. Là il popolo; in Italia professori, dipendenti pubblici, intellettuali, gente di cinema. Anche questo spiega l’eccezione che Madrid oggi rappresenta in Europa.

gerazione o riscaldamento, distribuzione, comunicazione ecc.). Lo stralcio del caffè dalle scorte obbligatorie non dovrebbe causare problemi alla popolazione, tanto che ci si chiede come mai siano stati esclusi il tè o la cioccolata... Come riferiva «la Regione», commentando la notizia dell’avvio della procedura di consultazione, sono diversi i fattori a sostegno di questa decisione: alimento praticamente privo di calorie, il caffè non può essere considerato un bene con valore nutrizionale ai fini della sicurezza alimentare. Oltretutto il rischio di problemi riguardanti l’approvvigionamento è minimo, dato che i raccolti avvengono in continenti diversi e sull’arco di tutto l’anno. Probabilmente anche i mutamenti intervenuti nella conservazione e nella commercializzazione (capsule) di questo prodotto, hanno favorito la richiesta dello stralcio. Saranno comunque le Camere, già nell’autunno prossimo, a decidere se la Confederazione potrà escludere il caffè dalle scorte obbligatorie a partire dal 2022. Anche se tutte le informazioni sulla

costituzione di scorte obbligatorie possono facilmente essere reperite sul web, e più precisamente consultando l’ultimo rapporto sull’approvvigionamento economico sul sito (www.bwl. admin.ch) del citato Dipartimento federale dell’economia, la proposta del Consiglio federale offre lo spunto per un rapido sorvolo su un impegno previdenziale tipicamente svizzero. Il dato più sorprendente? Sicuramente quello dei costi di questo complesso e delicato impegno politico gestito da Confederazione e partner economici: sull’arco degli ultimi vent’anni le spese sono diminuite di due terzi! Si è passati dai 307 milioni di franchi del 1995 ai 108 del 2014, costi che per abitante sono scesi da 43 a 13 franchi. Non potendo entrare nei dettagli vale la pena indicare almeno i quantitativi dei prodotti che sottostanno ai vari obblighi e ordinamenti e dire che «in dispensa» ci sono 69’000 tonnellate di zucchero (fabbisogno per 3 mesi sia per consumi privati sia per usi industriali); 32’750 t. di oli e grassi commestibili (4 mesi); 14’000

t. di riso (4 mesi); 195’000 t. di grano tenero e duro per consumo da tavola (4 mesi) e 140’000 t. di grano tenero per uso da tavola e anche animale (3-4 mesi); 130’000 t. di cereali da foraggio e 52’000 t. di mangimi per animali. La lista comprende anche 17’000 t. di azoto per concimazione, 916 t. di ingredienti per lievito e si accenna che in futuro potrebbero essere proposte scorte di sementi, prodotti fito-sanitari e latte artificiale. Nel settore energetico (le cifre non dicono molto, essendo espresse in metri cubi) oltre alle barre di uranio necessarie per le centrali nucleari, sono contemplate riserve di benzina, diesel, cherosene, gas e oli da riscaldamento per almeno 4 mesi e mezzo. Stessa durata viene osservata anche per le scorte del comparto agenti terapeutici, dove figurano medicinali e utensili per garantire un normale esercizio di ospedali e cliniche (dall’insulina al Tamiflu, dalle mascherine di protezione e ai guanti da visita dei medici). Un ultimo dato: il valore complessivo delle scorte si aggira attorno ai 3 miliardi di franchi.

In&outlet di Aldo Cazzullo Un voto contro l’estrema destra A volte la politica riesce ancora a emozionare. Era la sesta volta che seguivo le elezioni spagnole. Nel 2004 vidi vincere i socialisti. Si capì che sarebbe accaduto quando si videro la Catalogna e i Paesi baschi andare ai seggi in massa per punire il governo di destra del partito popolare, che aveva tentato fino all’ultimo di nascondere la matrice islamica della strage della stazione di Atocha (192 morti). Stavolta, in un contesto molto diverso, è accaduto qualcosa di simile: quando ho visto in tv le code di elettori catalani e baschi fuori dai seggi, mi sono reso conto che un pezzo di Spagna si mobilitava contro l’estrema destra. Alla fine la maggioranza degli spagnoli ha avuto più paura di Vox che dei separatisti catalani. Il risultato rispetta i sondaggi, che davano i socialisti nettamente primo partito, con il crollo dei popolari, il calo di Podemos, la tenuta dei centristi di Ciudadanos, e la novità di estrema destra, appunto Vox. Eppure la sensazione alla fine è stata di sorpresa. Potremmo chiamarla l’eccezione

iberica. In un momento in cui il mondo va a destra, vince la sinistra. In una fase dominata dai sovranismi, si afferma un leader, Pedro Sánchez, che dice: «Abbiamo un messaggio per il mondo: sconfiggere la Reazione è possibile. Ora faremo un governo pro-Europa». Due anni e mezzo fa, il partito socialista operaio spagnolo era morto. Sotto il 20% nei sondaggi, quarto partito dopo Ciudadanos, Pp, Podemos. C’erano le premesse perché al Psoe accadesse quel che è accaduto al Labour israeliano, fondatore dello Stato e sceso a percentuali irrilevanti; proprio come il partito socialista francese. Nella migliore delle ipotesi, il Psoe poteva ritagliarsi un ruolo residuale, magari tattico, ma incapace di restituirgli centralità; un po’ quel che succede all’Spd in Germania, e al partito democratico in Italia. Se oggi il Psoe è l’unica forza riformista alla guida del governo in uno dei grandi Paesi dell’eurozona, lo si deve sia alla profondità delle sue radici nella storia di Spagna, sia alla formazione del suo capo. Sánchez non è cresciuto in un am-

Zig-Zag di Ovidio Biffi Tra provvedere e prevenire Al telefono si sta parlando dell’intenzione del Consiglio federale di escludere il caffè dalla lista delle scorte alimentari obbligatorie. Faccio notare come il maggior risalto alla notizia sia giunto da un giornale online italiano e subito l’amico di Cham ne approfitta per una delle sue sulfuree perle: «Comprensibile. Per gli amici della vicina Repubblica le scorte sono solo quelle dei politici e dei personaggi scomodi. Naturale che si meraviglino che da noi ci siano scorte per degli alimenti, a maggior ragione trattandosi di scorte per il caffè...». Facezie a parte, l’uso del termine «scorta» sia per l’approvvigionamento economico, sia per il gruppo che cura l’incolumità di una persona, non è casuale: in filigrana c’è il concetto del «Prevedere per provvedere e prevenire». L’antico proverbio potrebbe benissimo sostituire lo slogan «Scorte d’emergenza – per ogni evenienza» che troneggia nelle pubblicazioni dell’Ufficio federale per l’approvvigionamento economico (UFAE) del Dipartimento federale dell’economia,

la piattaforma che, in collaborazione con l’economia privata, si impegna per evitare che la popolazione incontri difficoltà negli approvvigionamenti di alimentari, energia, medicina e beni. Certo, a suggerire scorte di previdenza oggi non sono più i conflitti o le crisi di lunga durata, come durante la Guerra fredda, quando anche lo slogan rivolto ai cittadini era più esplicito («Scorte d’emergenza – Saggia previdenza»). Il contesto è mutato radicalmente. Sussiste però la consapevolezza che emergenze nuove, riconducibili più a disastri naturali o a pandemie piuttosto che a minacce riguardanti la sicurezza, possano bloccare in poche ore i nostri approvvigionamenti dall’estero come pure la disponibilità di beni di prima necessità. Inimmaginabili, ad esempio, le conseguenze di un sempre meno utopico «blackout» energetico che arrivi a disturbare o a compromettere quanto oggi dipende dall’elettricità, quindi a colpire sia l’economia (sicurezza, servizi informatici, logistica, import-export ecc.) che la popolazione (alimenti, refri-


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 6 maggio 2019 • N. 19

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Idee e acquisti per la settimana

Cucinare senza glutine e senza lattosio

Chi non consuma latticini e cereali, alla Migros trova un assortimento sempre più ampio di prodotti sicuri e compatibili. Cinque ricette mostrano che con questi ingredienti è possibile preparare di tutto. È così gustosa la primavera!

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Crema di fragole con biscotti al cioccolato

Tagliare finemente 250 g di fragole. Ridurre in purea 200 g di fragole con 20 g di zucchero a velo. Mantecare 200 g di crème fraîche aha! con 150 g di formaggio fresco e una bustina di zucchero vanigliato. Disporre sul piatto e unire le fragole tagliate e metà della purea. Cospargere con 4 biscotti al cioccolato aha! grossolanamente spezzati. Guarnire con le fragole e con gocce della rimanente purea.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 6 maggio 2019 • N. 19

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Tsatsiki

Grattugiare ½ cetriolo senza buccia con la grattugia per bircher. Salare e lasciar riposare per ca. 15 minuti. Scolare l’acqua del cetriolo e strizzarlo. Mantecare con 150 g di yogurt nature aha! e 4 cucchiai di panna intera aha!. Aggiungere una fesa di aglio schiacciato. Condire con pepe e paprica. Cospargere con 2 rametti di aneto tagliati fini.

Salsina all’aglio

Aggiungere l’aglio tostato e schiacciato a 100 g di crème fraîche. Aggiungere 2 cucchiai di veganaise aha! e mescolare. Aggiustare con sale, pepe e paprica.

Baguette croccante

Tagliare per il lungo 4 baguette precotte aha! e ricavarne 6 tranci. Spennellare con 2 cucchiai di burro fuso aha! e disporre su una teglia ricoperta con carta da forno, aggiungendo 1 spicchio d’aglio (serve per la salsina all’aglio). Mettere nel forno preriscaldato a 200 °C per ca. 10 minuti fino a raggiungere una tostatura dorata.

Insalata di verdure con mela e formaggio

Affettare finemente 2 zucchine tagliate per il lungo a metà. Tagliare a rondelle fini 2 peperoni rossi allungati e 2 cipollotti, a striscioline fini una mela verde e a fettine 150 g di formaggio per insalata aha!. Tagliare finemente un po’ di aneto e di menta. Distribuire il tutto su un piatto. Mischiare bene 3 cucchiai di succo di limone, 4 cucchiai di olio di oliva e 1 cucchiaio di veganaise aha! e aggiungere sale, pepe e paprica. Condire l’insalata e cospargere con 2 cucchiai di pinoli tostati.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 6 maggio 2019 • N. 19

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Cultura e Spettacoli Il talento di Gazzelloni Il grande flautista ciociaro, definito fauno e satiro, nasceva esattamente cent’anni or sono

Sulle nostre scene Un programma ricco, quello ticinese, con un Festival di Performance e un nuovo Tell

150 anni di lingue romanze Il Romanisches Seminar (RoSe) di Zurigo festeggia un importante traguardo

La fine del Trono di Spade Chi salirà sul trono? Eserciti di fan di tutto il mondo non vedono l’ora di saperlo pagina 50

pagina 45

pagina 43

pagina 49

La speranza del riscatto

Narrativa Il Reich fa da sfondo a Sotto

la parete del drago, il nuovo romanzo dell’austriaco Arno Geiger

Luigi Forte Veit Kolbe ha appena ventiquattro anni e un’esperienza pesante alle spalle. È stato ferito da una scheggia di granata sul fronte russo, poi curato in vari ospedali militari ed ora è rientrato a Vienna in convalescenza. Non pensa, come suo padre, di vivere in tempi importanti, anzi, ne ha abbastanza di tutta quella follia e non esita a lasciare la famiglia per trasferirsi, il giorno di capodanno del 1944, in un piccolo paesino del Salzkammergut, a Mondsee, dove c’è uno zio poliziotto. Una località tranquilla ma non isolata, e soprattutto lontana dalle vie militari. Da quella provincia un po’ antiquata si odono solo gli echi della guerra, le notizie giungono attutite e la vita prosegue quasi indisturbata con un ritmo lento e monotono. È questo l’osservatorio che l’austriaco Arno Geiger ha scelto per il suo ultimo romanzo, Sotto la parete del drago, proposto da Bompiani nell’ottima versione di Giovanna Agabio, per cogliere lo smarrimento di un’epoca e la sua rinascita nel segno del dialogo e dell’amore. Ancora una volta l’austriaco Arno Geiger, nato a Bregenz nel 1968, è riuscito ad evocare drammatici momenti della storia del Novecento nei gesti della quotidianità senza impalcature ideologiche o eccessivi richiami storici. Come anni prima nella saga familiare Va tutto bene (Bompiani 2008), dove la percezione dolorosa del tempo che dissolve e frantuma era colta con leggerezza e una punta d’ironia nel gioco contrapposto delle solitudini. A distanza di tempo il suo linguaggio, evocatore di molteplici sensibilità, si è fatto ancora più morbido e avvolgente, capace di trasformare un giovane reduce nel consapevole testimone e avversario di una feroce barbarie. Veit ha propensione per la scrittura e tiene un diario che aggiorna il lettore su eventi e figure di quell’angolo remoto. A cominciare da

Margot, la donna di Darmstadt, una tedesca del Reich sposata a un austriaco di Linz da tempo al fronte. Lei e la figlia Lilo di pochi mesi vivono in una stanzetta accanto a quella del soldato. E poi c’è l’insegnante di un gruppo di ragazze viennesi della scuola media, Grete Bildstein, che Veit guarda con interesse ma senza successo. Come già in altri romanzi (ad esempio Tutto su Sally del 2015) anche qui le donne appaiono emotivamente più stabili e mature. Resta il buco nero dell’affittacamere, una sorta di Cerbero, intrigante e astiosa, sposata a un nazista violento e sbruffone. Sul fronte opposto emerge la figura più originale di tutto il romanzo: il giardiniere Roman Raimund Perttes detto il «brasiliano», che in quel lontano paese aveva fatto il biologo dietista, e nutre una nostalgia infinita per l’allegria della sua gente, l’intensità dei colori, il paesaggio di sogno. Un uomo scarno con il naso adunco, freddo e introverso, che coltiva, tra le altre cose, splendide orchidee. Col tempo Veit diventerà il suo confidente scoprendo che dietro quell’individuo taciturno si nasconde un convinto antinazista, che rifiuta di vivere in una società di assassini, non esita a insultare il Führer e a dichiarare apertamente che «l’orribile europeismo in cui l’odio è considerato una conquista culturale, ha fatto il suo tempo». Verrà arrestato e trascorrerà alcuni mesi in carcere, mentre Veit e Margot, la cui amicizia si fa via via più tenera e affettuosa, diventano gli attivi custodi del suo vivaio. Il loro amore matura in una sorta di apparente idillio, dove tuttavia la scomparsa della giovane Nanni, una delle ragazze della colonia, crea un senso di generale inquietudine e una certa tensione narrativa. Ma le voci del mondo arrivano anche in quel piccolo borgo in riva al lago Mondsee: i sovietici che avanzano e a maggio occupano la Crimea, gli alleati che sbarcano in Normandia. E poi le lettere di amici e parenti che Geiger in-

Via dalla pazza folla: il protagonista del libro di Geiger si ritira nel Salzkammergut, a Mondsee. (Keystone)

serisce nel romanzo come veri e propri capitoli. La guerra rimbalza, sia pure attutita, tra le case del paese e nei cuori dei protagonisti. Margot si dispera alla notizia comunicatale dalla madre che gran parte della sua città, Darmstadt, è stata distrutta, amici e parenti scomparsi, un’esistenza collettiva sconvolta dalle inevitabili, drammatiche conseguenze della violenza nazista. E il destino della povera Nanni il cui cadavere è stato ritrovato sul monte sovrastante il paese, la parete del drago, si condensa nelle mille riflessioni di sua madre e nelle parole intense e accorate del giovane cugino, che nutriva per quell’adolescente un profondo affetto. Sono storie che animano la scena della narrazione e la proiettano su schermi diversi. Come le lettere dell’ebreo Oskar Meyer alla cugina Jeannette che lo aveva esortato a lasciare tempestivamente Vienna e la stessa Europa. Andrà a

Budapest con la moglie Wally e il figlio Georgili, che però un bel giorno scompariranno per finire poi ad Auschwitz. Anche nel piccolo idillio di Mondsee s’insinua il dolore del mondo perché il male – sembra suggerire il romanzo con i suoi molti tasselli – è pervasivo e totale. Non a caso il soldato Veit a più riprese viene colto da improvvise crisi di panico, dove ancora risuona l’eco della guerra al fronte. Aveva ragione il brasiliano a dire: «Il cuore si placa soltanto quando siamo diventati quello che dobbiamo essere». In una sorta di iniziazione, l’intensa, incalzante scrittura di Geiger trasforma attraverso l’esperienza dolcissima dell’amore per Margot e Lilo la natura stessa del protagonista ormai contrario a ogni forma sopraffazione. Forse questo è il senso dell’impulso che lo spinge a uccidere lo zio per mettere al sicuro l’amico brasiliano. Richia-

mato al fronte Veit è disposto perfino a falsificare documenti pur di rimandare, inutilmente, la partenza. Ma poi, ci aggiorna l’autore in un paio di note supplementari che sembrano suggerire l’ingannevole idea che il romanzo sia costruito su una storia vera, il nostro eroe tornerà a casa pochi mesi dopo, nel 1945, e l’anno seguente sposerà Margot ormai divorziata. Fantasia e supposta realtà si danno la mano per lasciare inalterata la speranza di un riscatto. Nell’idillio ombreggiato dalle tragedie circostanti e da un dolore incancellabile il giovane Veit ha imparato a conoscere un altro mondo e forse ora il suo cuore davvero si placherà per sempre. Bibliografia

Arno Geiger, Sotto la parete del drago, traduzione di Giovanna Agabio, Bompiani, p.441, € 19.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 6 maggio 2019 • N. 19

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Cultura e Spettacoli

Gazzelloni, fauno e satiro

Anniversari Cento anni or sono nasceva il grande musicista ciociaro

che diventò un’icona internazionale del flauto

Netflix Il ritorno

di American Crime Story con Versace

Giovanni Gavazzeni Flauto magico. Flauto d’oro. Flauto di fuoco. Il flauto in questione era quello di Severino Gazzelloni, virtuoso nato cento anni fa (1919-1992) come Severino Gazzellone a Roccasecca (provincia di Frosinone), il paese della Ciociaria che diede i natali a San Tommaso d’Aquino.

Alessandro Panelli

Il critico italiano D’Amico sosteneva che Gazzelloni riducesse il fraseggio a interiorità pura Negli anni sessanta, settanta, ottanta del secolo passato, Gazzelloni divenne l’icona del suo strumento. Gazzelloni era ovunque: intervistato alla Festa dell’Unità, sulla sua passione per gli UFO o per una rubrica di cucina; ospite in televisione di Gianni Minà circondato dalle percussioni di Tullio De Piscopo, svolazzante con aplomb mentre accanto «si buttava» il molleggiatore-twist Rocky Roberts. Gazzelloni sorrideva anche dai manifesti reclamizzanti l’amaro schietto, i vestiti confezionati, gli orologi economici. Facile che molti finirono per torcere il naso davanti all’onnipresenza del musicista ciociaro, svalutandone gli indiscutibili meriti musicali e preferendogli un grande artista di segno opposto, l’aristocratico Jean-Pierre Rampal. «Per attestare la supremazia mondiale del nostro flauto d’oro sui suoi colleghi», ha scritto uno dei maggiori critici musicali italiani del Novecento, Fedele d’Amico, «si usa citare il fatto che un centinaio di compositori di oggi hanno scritto per lui; e va bene. Niente poi vale, a questo scopo, quanto ascoltare lui alle prese con la musica di prima del diluvio, da Vivaldi a Prokof’ev». Per Gazzelloni hanno scritto forse anche molti più compositori che il centinaio menzionato da d’Amico – sarebbe meglio dire chi non ha scritto per lui – ma il critico romano aveva

Severino Gazzelloni sul tetto di un’abitazione romana negli Anni Sessanta. (Keystone)

perfettamente ragione nel sottolineare non solo la sua passione nel tradurre «in musica geroglifici all’apparenza incomprensibili», ma nel difendere una tradizione italiana del flauto, incarnata in un disco a suo tempo celebre, realizzato con i Musici: una silloge di concerti di Vivaldi, Tartini, Boccherini e Mercadante. Una biografia di Gian Luca Petrucci (Severino Gazzelloni – il flauto protagonista, ed. Zecchini, € 29), non dimentica il centenario corredando la narrazione libera con testimonianze ammirate (da Stravinskij a Petrassi e Berio), il numericamente incredibile catalogo delle registrazioni, i non meno sorprendenti elenchi di brani appositamente composti per il suo flauto e i nomi degli allievi di tutto il

mondo che affollavano gli storici corsi al Conservatorio di Pesaro e di Santa Cecilia a Roma, i corsi di perfezionamento all’Accademia Chigiana di Siena o i Ferienkurse di Darmstadt. Nitore e bellezza del suono di Gazzelloni sono stati storicamente inquadrati da d’Amico in un articolo di cinquant’anni fa ancora oggi non superato: «Forse nessuno colse mai così direttamente la vocazione del flauto, quanto il suo modo di disincarnare il suono, riducendo il fraseggio a interiorità pura e quasi illudendoci che il suono sia un’efflorescenza secondaria della musica, invece che la sua base fisica; ma pure fornendoci di questa efflorescenza, una gamma incredibilmente ricca, e adoperandola secondo scelte infallibili».

Nel libro c’è anche Gazzelloni prima di Gazzelloni, vale a dire la storia della sua volontà di ferro come studente a Santa Cecilia, l’ingresso nel famoso complesso dei Musici, la parallela attività come primo violoncello dell’orchestra della RAI di Roma e come elemento di spicco del Quintetto di fiati della Rai, insieme ad altri insigni e dimenticati strumentisti, Pietro Accoroni, Giacomo Gandini, Carlo Tentoni e Domenico Ceccarossi. Luciano Berio lo ha dipinto con un pizzico di ironia mordace, quando scrisse che Gazzelloni «esibiva la misteriosa dignità di un fauno, ma anche l’insopprimibile cupidigia di un satiro che vuole possedere per intero il corpo della signora Musica, in tutte le sue curve e tutti i suoi anfratti».

Ispirazione dal Sol Levante

Mostre Alla Fondazione Baur di Ginevra si traccia la storia dell’influenza cinese

e giapponese sulla moda di inizio Novecento in Europa Marco Horat Una mostra che apre una finestra su un mondo forse non molto conosciuto: quello delle riviste di moda femminile. Siamo nei primi decenni del ’900 e per lo più nell’editoria francese, ma anche in quella di altri paesi come l’Italia, fioriscono pubblicazioni che si rivolgono soprattutto alle donne dei ceti superiori, talvolta con uno sguardo scanzonato al mondo che le circonda, in una società che vive il tragico momento a cavallo tra le due guerre. Moda, villeggiatura, arte, cucina, buone maniere... fors’anche come evasione per non vedere quello che stava succedendo in Europa. La grande moda che detta legge nel mondo è da sempre quella francese con i nomi illustri che a partire da quel periodo si affermeranno fino a diventare marchi internazionali ancora presenti ai nostri giorni; e le riviste di moda, presto passate al colore, ne sono la cassa di risonanza: «La Gazette du bon ton», «Modes et Frivolités», «Journal

Personalità a confronto, killer e vittima

Vestaglia per interni di Doucet, Parigi, «Gazette du bon ton», 1913, a opera di Robert Dammy. (© Bibliothèque d’art et d’archéologie des Musées d’art et d’histoire, Ginevra)

des modes», «Vogue» in Francia, mentre per l’Italia le cronache ricordano «Lidel» – con contributi tra gli altri di Grazia Deledda e Luigi Pirandello – e

negli anni seguenti «Grazia» e «Annabella», tanto per citare due nomi noti anche da noi. In Ticino si potrebbe ricordare l’«Illustrazione ticinese» fondata agli inizi degli anni 30, seppure con intenti redazionali più ampi e interessi più generali. Una grande storia di costume quella appena accennata, che concerne la società nel suo complesso, essendo il capitolo della presenza femminile una parte di un insieme articolato con agganci all’economia, all’educazione, al costume; temi che studiosi di antropologia culturale e sociologia hanno approfondito con studi e pubblicazioni, compito che esula da queste brevi note. Torniamo alla mostra ginevrina aperta alla Fondation Baur, che vuole mettere in scena l’influsso delle mode cinesi e giapponesi nella sartoria di élite francese, dando spazio a una ricca collezione di tessuti artistici di sua proprietà, così come a una raccolta di preziosi kimono donati da privati in questi ultimi anni; messi accanto ai disegni originali di modelli di haute couture pa-

rigina con i quali dialogano idealmente. Vari tipi di tessuto, forme, colori, soggetti esotici irrompono nella moda europea durante i primi decenni del secolo scorso, così come influenzano le arti dell’epoca, il gusto dei grandi collezionisti occidentali e quello dei musei. Le curatrici della mostra ricordano in particolare il caso del citato kimono che con il suo taglio ampio, l’armonia delle linee, la scelta dei soggetti e il fascino degli accessori, conquista i grandi couturiers che intravedono oltre l’abito la figura di una donna libera da costrizioni, per esempio dal vecchio corsetto; una liberazione anche simbolica che affianca le lotte femminili per i diritti civili, politici e di comportamento sociale.

La seconda stagione di American Crime Story (creata da Scott Alexander e Larry Karaszewski, distribuita da FOX) ci riporta alla vera storia dell’omicidio di Gianni Versace (The Assassination of Gianni Versace è il titolo) e dell’uomo che ha compiuto il gesto nel 1994 a Miami Beach. Questa miniserie, vincitrice di nove Emmy Awards e di due Golden Globes, viene raccontata in nove episodi di 45 minuti. Il cast è capitanato da Darren Criss nei panni dell’assassino Andrew Cunanan (Glee, The Flash, American Horror Story), coadiuvato da Penélope Cruz nel ruolo di Donatella Versace, e da Èdgar Ramìrez (La ragazza del treno, Joy) nel ruolo di Gianni Versace. La composizione narrativa della serie TV è inversamente cronologica, infatti la scena dell’omicidio si svolge nei primi minuti dell’episodio pilota, i personaggi vengono presentati solo in seguito. Protagonista assoluto della vicenda è Andrew Cunanan, omicida seriale che negli ultimi tre mesi della sua vita uccide cinque persone. Darren Criss è riuscito a interpretare alla perfezione un personaggio dalle altissime doti deduttive e manipolatorie, delineando ogni sua caratteristica e innescando nello spettatore sentimenti contrastanti: dall’odio per la sua falsità e il suo essere viziato e protetto dal padre, all’ammirazione per la sua ambizione nel raggiungere una posizione sociale; dall’empatia alimentata dalla scoperta del suo passato burrascoso in un ambiente immorale, al disprezzo quando sopprime le sue vittime motivato da un morboso egoismo. Per quanto riguarda la vita di Gianni Versace gli sceneggiatori hanno deciso di raccontare una piccola parte della sua infanzia, per poi ripercorrere brevemente la strada che lo ha portato al successo come stilista, focalizzandosi molto anche sull’immagine della sorella Donatella, sua musa ispiratrice. In questo modo vengono messi implicitamente a confronto Versace e Cunanan. Il primo ha una sua moralità, ci insegna la filosofia dell’hard working e permette di dipingere una società americana basata sulla meritocrazia. Il secondo invece rincorre il successo attraverso la corruzione, la malvagità, la manipolazione e l’omicidio, delineando così un’altra America. Così come nella prima stagione (The People v. O.J. Simpson), anche in questa c’è la contestualizzazione sociale del periodo storico: in questo caso contraddistinta dall’omofobia, ancora diffusa negli States, dove i gay erano costretti a nascondere la propria identità per condurre una vita normale. Questa miniserie mantiene alta l’attenzione dello spettatore, ed è caratterizzata fortemente dai suoi per molti versi indimenticabili personaggi, sostenuti da una solida sceneggiatura che riesce a toccare nel profondo tematiche sociali, personali ed esistenziali.

Dove e quando

Asia Chic, L’influence des textiles chinois et japonais sur la mode des Années folles, Ginevra, Fondation Baur. Orari: ma-do 14.00-18.00. Fino al 7 luglio 2019. fondation-baur.ch

La locandina della serie, proposta inizialmente da FOX.


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Cultura e Spettacoli

Svizzeritudine fra mito, leggenda e ossa rubate

In scena Oltre a Tell del ticinese Flavio Stroppini, è andato in scena anche il nono appuntamento di Performa,

il festival di Arbedo ideato dal coreografo Filippo Armati Giorgio Thoeni Applausi meritati e ampia soddisfazione hanno accompagnato il recente debutto al Teatro Sociale di Bellinzona di Tell, atto unico fra giallo, commedia e pochade musicale magrittiana. Un lavoro nato dalla penna di Flavio Stroppini e Monica De Benedictis, diretto dallo stesso Stroppini e interpretato da Matteo Carassini, Igor Horvat, Silvia Pietta, Flavio Sala e Massimiliano Zampetti. Una squadra affiatata che ancora una volta ha permesso di sottolineare la volontà di Gianfranco Helbling nel caratterizzare una produzione bellinzonese, la sesta dal 2013, come un ulteriore e importante capitolo nell’affermazione di un teatro svizzero di lingua italiana. Un processo indentitario importante per il territorio, che valorizza talenti e scrittura attraverso contorni professionali maturi per molte delle voci che compongono un allestimento teatrale: dagli attori alla regia, dalle musiche alla scenografia, dalle luci ai costumi. Tell li mette in campo tutti, sono gli ingredienti di un gruppo che dà corpo e sostanza a un progetto articolato anche sul piano dell’intrattenimento senza rinunciare a riflessioni sulla contemporaneità. La chiamata in campo della leggendaria figura del nostro eroe nazionale evidentemente è un pretesto.

Come il furto delle sue ossa poi ritrovate in tre valigie nella stiva di un aereo diretto a Istanbul: fra i preziosi resti anche 50 passaporti svizzeri con nomi arabi e dei piani trafugati al CERN… Tre persone sono fermate dalla polizia. I dialoghi inizialmente sono dilatati: ci fanno conoscere i personaggi. Si fanno più ritmati quando una vice ispettore di polizia inizia gli interrogatori. Accelerano quando un ambizioso commissario entra in gioco alla ricerca dei colpevoli. Sullo schermo sfilano in volo figure colorate, attimi di fantasia, icone, allusioni per appassionanti videoscenari dal taglio surrealista. E la canzone diventa accompagnamento in playback per i sogni dei personaggi. La platea si diverte. La regia è brillante. Scopriamo la vis comica di Carassini, l’efficace double face seriosa di Sala, si riafferma la bravura del trio Zampetti, Horvat e Pietta (in versione pré-maman). Lo spettacolo replica ancora il 9 e 10 maggio (20.45). Piccolo è bello per happening e performance

Comunicazione, empatia, scoperta e (perché no?) trance estetica. Sono le linee guida che hanno contraddistinto il festival Performa che da pochi giorni ha archiviato la sua nona edizione. La rassegna, creata e diretta dal danza-

tore e coreografo di Gorduno Filippo Armati, ha nuovamente registrato un lusinghiero successo. Lo si deve alla caparbietà dell’ideatore della manifestazione, sostenuta anche dal Percento culturale di Migros Ticino e da un pubblico non folto, ma che si è dimostrato fedele e attento nel seguire le proposte che si sono avvicendate sull’arco di una decina di giorni. Un piccolo festival, beninteso, che, dopo esser stato in un certo modo itinerante, ha ormai trovato in Arbedo la sua sede ideale per presentare le varie produzioni sia ne Lo Studio, stabile situato nell’area industriale, sia nella sala multiuso dello Spazio Civico (chiamata per l’occasione un po’ pomposamente Teatro di Arbedo) ma anche in case private del nucleo del piccolo comune del distretto bellinzonese. Performa, nonostante i mezzi molto limitati, riesce a convincere per il suo carattere informale, per la professionalità dei performer e per il seguito che ottiene da chi accetta di lasciarsi trasportare in dimensioni diverse, inconsuete, in una realtà particolarmente giovane e originale, non paragonabile a quelle che sono proposte da manifestazioni più blasonate e forse meno a fuoco sul tema. Dagli spettacoli brevi a momenti di danza, da jam improvvisate con danzatori e musica (come quella con l’eclettico percussionista Ivano

Un momento dello spettacolo Tell di Flavio Stroppini. (Paolo Battaglia)

Torre) ai workshop, passando per happening sonori, dj set electrobeat e installazioni video e fotografiche. Due dozzine di appuntamenti hanno alimentato l’atmosfera di nicchia di un festival molto particolare e prezioso, grazie alla presenza di artisti svizzeri e internazionali. Non ce ne vogliano se non li elenchiamo tutti, ma un paio di esempi meritano di essere ricordati. A cominciare dal performer e danzatore australiano James Batchelor, fra i più quotati e innovativi,

straordinario nell’esibire uno studiato minimalismo nel movimento per una minuziosa mappatura dello spazio: da solo (Hyperspace) o in duetto con Chloe Chignell (Deepspace). La compagnia belga Tumbleweed (Angela Rabaglio e Micaël Florenz) con The Gyre, ipnotica rotazione dei corpi attorno a un punto centrale. O ancora Julie Semoroz con Hygge Secret, sculture sonore accompagnate dalle riflessioni sul tempo e la ricerca di una felicità non materialista (e un massaggiatore). Annuncio pubblicitario

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Idee e acquisti per la settimana

Nobile confezione per cremosi gelati

Coppa di gelato alla vaniglia con coulis di fragole ■ Tagliare a pezzetti 100 g di fragole. ■ Ridurre in purea altri 100 g di fragole aggiungendo 2 cucchiaini di miele di acacia. Sbriciolare 4 mini meringhe. ■ Distribuire la purea di fragole sul piatto. ■ Accomodarvi sopra 2-4 palline di gelato alla vaniglia e guarnire con le fragole a pezzetti. Cospargere il tutto di briciole di meringa. ■ Decorare con panna montata e scaglie di mandorle tostate.

Crème d’Or inaugura la stagione dei gelati 2019 con delle nuove confezioni. Il loro design è stato leggermente rivisto, mentre il contenuto rimane quello cremoso di sempre – e, come novità, al 100% naturale: le nuove ricette contengono infatti esclusivamente ingredienti naturali, come latte e panna svizzeri. Le diverse specialità di gelato in vaschetta o cornetto sono tutte prodotte dall’azienda del gruppo Migros, Midor SA, sul lago di Zurigo.

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Cultura e Spettacoli

Un piccolo mondo romanzo

Università Il Romanisches Seminar festeggia i 125 anni di esistenza con un nutrito programma di manifestazioni

– Ne abbiamo parlato con la sua direttrice, la professoressa Tatiana Crivelli Alessandro Zanoli Un istituto ad alto tasso di interculturalità: il Romanisches Seminar dell’Università di Zurigo può sicuramente segnare un primato. Le sue studentesse e studenti sono confrontati con compagni di corso che approfondiscono la conoscenza di ben cinque lingue romanze, senza contare l’ormai inevitabile presenza in ambito accademico dell’inglese, lingua franca tra gli studiosi di tutto il mondo e, naturalmente, il tedesco che è la lingua ufficiale dell’Ateneo. E come si lavora in un ambiente linguisticamente così vario e sfaccettato? Le assistenti, a cui poniamo la domanda, sorridono confermando che non è un grave problema, ma occorre di volta in volta capire qual è la lingua in cui intavolare le varie conversazioni. Il francese e l’italiano, in un modo o nell’altro lo parlano più o meno tutti. E se molti sanno lo spagnolo, non così tanti praticano il portoghese o il rumeno... per non parlare del romancio. La docente di letteratura italiana Tatiana Crivelli, che è la Direttrice del Romanisches Seminar, invece, ci spiega che proprio questa «biodiversità» linguistica è una carta importante da giocare, soprattutto sul piano didattico. «Come Romanisches Seminar abbiamo ottenuto uno dei tre finanziamenti per progetti innovativi digitali messi a disposizione dal rettorato dell’Università. Stiamo elaborando degli strumenti didattici e metodi di insegnamento nuovi

e moderni, che possano essere utilizzati dagli studenti di tutte le sezioni linguistiche. Si tratta ad esempio di video appositamente sottotitolati, che trattano quegli aspetti della ricerca letteraria che sono comuni per le varie lingue. In questo modo ottimizziamo le nostre risorse e permettiamo agli studenti di familiarizzarsi anche con le altre lingue romanze, condividendo così un patrimonio di competenze linguistiche». Tatiana Crivelli, di origine ticinese, è da due anni a capo del RoSe, una carica che dura un quadriennio e che le conferisce il ruolo di coordinatore delle attività ma anche un’importante responsabilità nella gestione di tutta l’attività progettuale del Seminario. Le Università oggi, lungi dal rappresentare istituzioni garantite e privilegiate, devono combattere anno dopo anno e reperire fondi e finanziamenti per i loro progetti, su un mercato dell’insegnamento in costante evoluzione e caratterizzato da una forte concorrenza. «Oggi le giovani ricercatrici e i ricercatori devono inserire nel loro curriculum, oltre alle necessarie doti di competenza nella loro materia, anche la dimostrazione delle loro capacità di fund-raising indipendente, mostrandosi in grado di reperire un sostegno economico al proprio lavoro» ci spiega la Prof. Crivelli. Eh sì, le cose con il passare degli anni evolvono. Qualcuno ricorderà che, un tempo, i vecchi ordinamenti prevedevano per la formazione universitaria la classica suddivisione in facoltà di Phil. I (quelle a indirizzo umanisti-

Lo stabile ottocentesco è ispirato a modelli mediterranei e si deve a Gottfried Semper. (U. Wolf)

co) e Phil. II (quelle scientifiche). Oggi tale visione è superata. «Dopo la riforma di Bologna, il nostro seminario fa parte della Philosophische Fakultät, una delle sette facoltà che compongono l’Università. Per ciò che riguarda la riforma di Bologna, stiamo già vivendone la terza versione, che prenderà avvio tra breve e che comporterà ad esempio la riduzione delle materie di studio a due (in luogo delle tradizionali tre), una Major e una Minor, entrambe naturalmente incluse nella nuova suddivisione dei curricula in Bachelor (laurea triennale) e Master (laurea specialistica)».

Un anno ricco di proposte Iniziato lo scorso 19 marzo, il calendario degli appuntamenti si concluderà con la Festa di Giubileo il 6 dicembre: ▪ Dal 6 al 10 maggio: settimana delle porte aperte. Un invito a seguire di persona le lezioni impartite dai docenti del RoSe ▪ 7 maggio: conferenza del Prof. Dr. em. Luzius Keller sul tema L’insegnamento ieri, oggi e domani ▪ 13 e 14 giugno: Dies Romanicus Tu-

ricensis: giornata del Romanisches Seminar sul tema Corpus / Corpora tra materialità e astrazione ▪ Dal 18 giugno: la letteratura come dialogo tra le generazioni. Letture per residenti in case per anziani ▪ Dal 19 agosto: corso accelerato di francese per richiedenti l’asilo ▪ 30 agosto – 1. settembre: nell’ambito di Scientifica 2019 il Prof Dr. Eduardo Jorge de Oliveira terrà la confe-

renza Science Fiction – Science Facts ▪ 19-20 settembre: ricerca e festa al RoSe. I dottorandi presentano le loro ricerche in forma scenica ▪ 23 ottobre: Notte del racconto in biblioteca ▪ 14 novembre: il giorno del futuro; workshop L’immaginario medievale ▪ 6 dicembre: Festa del Giubileo con proiezioni notturne, spettacoli e momenti ufficiali (www.rose.uzh.ch)

La struttura degli studi è dunque in continua evoluzione e la scelta di proporre curricula modulati a seconda dei più svariati interessi degli studenti è uno dei modi per mantenere attrattiva l’offerta didattica. «Posso dire di essere piuttosto soddisfatta. All’interno del Romanisches Seminar il settore dell’italianistica mantiene negli anni un numero regolare di iscritti. Esiste quindi un numero costante di persone che vuole continuare a studiare l’italiano, e questo non vale per tutte le altre lingue». In un periodo in cui a livello nazionale l’italiano sembra perdere di attenzione nei programmi scolastici, questa solidità è sicuramente una buona notizia. Il 2019 segna per il Romanisches Seminar, tra l’altro, il raggiungimento di un traguardo molto importante. Si festeggiano infatti i 125 anni dalla sua fondazione. Questo compleanno più che secolare viene festeggiato con una nutrita serie di manifestazioni. «Abbiamo voluto estendere le celebrazioni lungo tutto l’anno, invece che concentrarle in poche giornate. Il calendario che abbiamo approntato comprende appuntamenti più specificamente accademici e momenti invece più conviviali. Oltre a ciò, abbiamo voluto inserire

delle iniziative a sfondo concretamente sociale, proponendo ad esempio dei momenti di lettura in una casa per anziani che ospita lavoratori delle comunità italiana e spagnola, oppure corsi di francese gratuiti per i richiedenti l’asilo». Da ricordare alcune iniziative che saranno fruibili anche da un pubblico più ampio: in particolare la settimana delle porte aperte, prevista dal 6 al 10 maggio, e la serata dedicata ai giovani ricercatori, che presenteranno i loro lavori di dottorato in forma teatrale e con performances il 19 e 20 settembre prossimi. A tutto ciò si affianca un’iniziativa editoriale più tradizionale, una pubblicazione miscellanea sulla storia del Seminario. Il programma completo della manifestazione è pubblicato sul nuovo sito web del RoSe, che ospita anche contributi filmati relativi allo studio dell’italianistica utilizzando il web come canale principale di diffusione. È all’insegna del dinamismo e della multiculturalità, quindi che si festeggia a Zurigo più di un secolo di un intenso lavoro. Un impegno che ha visto anche moltissimi studenti ticinesi muovere qui i loro primi passi accademici ed acquisire solidi strumenti per affrontare con successo la loro professione. Annuncio pubblicitario

Fare la cosa giusta

Quando la povertà mostra il suo volto Per saperne di più su Aïcha: www.farelacosagiusta.caritas.ch

Aïcha (11 anni), Siria, ha perso la mamma in un bombardamento


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Cultura e Spettacoli

Chi resterà sul trono?

Serie Attesa spasmodica a livello planetario: per i fan del Trono di spade questi sono giorni di fuoco,

presto sarà infatti rivelato l’epilogo di una serie che ha fatto la storia del genere

Mariarosa Mancuso Nove anni fa, era di maggio, il finale di Lost (l’ultima delle robinsonate pervenute, scritta da J.J. Abrams e Damon Lindelof, sempre di naufraghi su un’isola deserta si trattava, quasi tre secoli dopo l’originale) oscurò il festival di Cannes. Tutti parlavano della serie, anche i distratti e i contrari, se non altro per chiedere «Davvero vi piace? Non si capisce niente». Nessuno, a parte rari e cocciuti cinefili, commentava la Palma d’oro andata all’oscuro e noiosissimo film Lo zio Bonmeee ricorda le sue vite precedenti (quanto al nome del regista tailandese, Apichatpong Weerasethakul, ancora facciamo il copia&incolla). Quest’anno, sempre di maggio che per gli spettatori seriali è il più crudele dei mesi (per T.S. Eliot nella Terra desolata era invece aprile: «genera lillà da terra morta / confonde memoria e desiderio») finisce Game of Thrones. GOT negli hashtag, a imitazione di Via col Vento che per gli americani è GWTW. Finisce dopo otto stagioni, e l’ultima – di sei episodi soltanto – arriva dopo due anni a stecchetto: il prezzo da pagare per una serie spendacciona sparsa tra sette regni diversi. Non sappiamo chi vincerà a Cannes, ma se non sarà Once Upon a Time in Hollywood di Quentin Tarantino, è probabile che tra un mese parleremo di chi ha conquistato il Trono di Spade dimenticando il vincitore della Palma d’oro.

La battaglia di Winterfell vista qualche giorno fa, contro le armate del Re della Notte, è la più costosa mai girata per la televisione. Molti fan hanno protestato con il regista Miguel Sapochnik perché la fotografia era troppo scura, non si capiva bene chi era chi, ed era difficile tenere il conto dei morti. A meno tre episodi dal gran finale (che sia grande, lo si spera) crescono il nervosismo e la curiosità: chi andrà a sedersi sul Trono di Spade, tra le sette casate che a Westeros guerreggiano tra loro (con tregue temporanee solo quando l’Inverno molto annunciato arriva davvero). La risposta degli showrunner, più o meno, è stata la seguente: volevate una serie capace di competere con il cinema? Allora beccatevi anche le licenze artistiche, oltre ai draghi. I draghi non c’erano, quando Game of Thrones prese il via nel 2011: tratta dalla saga di George R.R. Martin intitolata Cronache del ghiaccio e del fuoco (Mondadori), e scritta per la tv da David Benioff e D.B. Weiss. Una televisione via cavo che viveva di abbonamenti – quindi poteva concedersi sesso e altri argomenti adulti come l’incesto – e si presentava con lo slogan «Is not tv, is HBO». Allora le serie non erano celebrate come oggi, bisognava far notare la differenza con la tv generalista (e la HBO aveva già fatto un gran passo con I Soprano di David Chase, iniziata 30 anni fa). David Benioff vantava uno spetta-

Maisie Williams nell’episodio trasmesso il 28 aprile su HBO. (Keystone)

colare curriculum da scrittore: era suo il romanzo La 25a ora, da cui Spike Lee ha tratto il film con Edward Norton, e La città dei ladri, ambientato durante

l’assedio di Leningrado. George R.R. Martin aveva un bel seguito di lettori appassionati, gli stessi che adesso lo odiano – via internet – perché perde

tempo con la televisione invece di finire la saga (mancano gli ultimi due volumi, la tv è più avanti). I draghi non c’erano, nel 2011. C’erano solo tre uova di drago, ricevute come dono di nozze dalla bionda Daenerys Targaryen. Amorevolmente curate, anche se le davano della sciocca: «lo sanno tutti, i draghi sono estinti». E invece no, gli sputafuoco son cresciuti e si son rivelati utilissimi sia in battaglia e sia per cavalcate romantiche assieme a Jon Snow. «Draghi» di solito vuol dire fantasy, genere da cui solitamente ci teniamo alla larga. Nulla ci ha annoiato più del Signore degli Anelli: evitato il malloppo di Tolkien nell’età in cui lo si digerisce senza problemi – dopo, come dice Woody Allen dei peperoni, risulta micidiale come l’uranio impoverito – abbiamo sopportato film interminabili (presi singolarmente e in gruppo, con l’appendice dello Hobbit). Il trono di spade non è fantasy, a dispetto di qualche presenza magica o stregonesca. Avanza con la crudeltà delle tragedie di William Shakespeare, e con cinismo narrativo fa fuori personaggi che fino a un attimo prima sembravano centrali e indispensabili. È stato un grande spettacolo. Ed è stato un grande spettacolo collettivo, anche per le attese, i dibattiti a margine degli episodi, il terrore degli spoiler. Tutto da godere, perché nel frattempo Netflix ha cambiato tutto: le serie si guardano in solitudine, abbuffandosi, chiusi nella bolla dell’algoritmo. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 6 maggio 2019 • N. 19

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Cultura e Spettacoli Rubriche

In fin della fiera di Bruno Gambarotta Angelo Guglielmi e la lingua italiana Lunga vita ad Angelo Guglielmi che il 2 aprile ha compiuto 90 anni. Grazie a lui ho vissuto esperienze indimenticabili lavorando nella direzione programmi della Rai, a Roma. Nel mese di ottobre del 1965 la Rai vara un corso per formare una nuova leva di programmisti, dieci anni dopo quello del 1955, voluto dall’allora direttore Filiberto Guala. Il corso del 1955 aveva avuto fra i discenti nomi diventati famosi, come Umberto Eco e Furio Colombo. Anche in questo caso la Rai si affida alla chiamata diretta, proponendolo a giovani che si erano messi in luce nel mondo della cultura, del giornalismo e dello spettacolo (e nei movimenti giovanili dei partiti di governo). I sindacati si oppongono a questa procedura minacciando il ricorso al tribunale del lavoro. Si aprono trattative e si arriva a una composizione della vertenza: la partecipazione al corso sarà aperta anche ai dipendenti purché muniti di un diploma di laurea e che dovranno, a differenza dei chiama-

ti, superare un esame di ammissione. In quel magico mese di ottobre 1965 io ignoravo del tutto quella lontana vertenza romana. Ero un cameraman felice e sconosciuto, da tre anni lavoravo alla sede Rai di Torino dove ero stato assunto grazie a un diploma di perito industriale fotografo. Avevo chiesto di essere assegnato alle riprese dei concerti di musica classica presso l’Auditorium, potendo così seguire tutte le prove che, come sanno i melomani, sono molto più godibili delle esecuzioni pubbliche. I colleghi mi consideravano un marziano, per loro l’assegnazione ai concerti era una sorta di Cayenna. Nell’ingresso artisti, di fianco all’orologio per timbrare il cartellino, c’erano la macchina del caffè, un distributore di bevande e una bacheca con le circolari dell’azienda. Durante una pausa leggo il comunicato della direzione del personale con la quale si dà notizia della selezione che mi taglia fuori in quanto sono sprovvisto di un diploma di laurea. C’è però un codi-

cillo: chi fosse stato sprovvisto di laurea, ma dotato di diploma di scuola media superiore, avrebbe potuto partecipare alla selezione allegando alla domanda la documentazione di lavori svolti in ambito culturale. Essendo impegnato sul lavoro per lo più di pomeriggio e di sera, nelle mattine libere avevo preso l’abitudine di frequentare le lezioni alla facoltà di lettere moderne. Senza essere iscritto, per farlo occorreva la maturità classica, la liberalizzazione dell’accesso a tutte le facoltà per i diplomati sarebbe arrivata molti anni dopo. A quel tempo c’era libero accesso alle lezioni. In particolare seguivo il Corso di storia della lingua italiana, tenuto dal professor Corrado Grassi e in particolare il seminario su «Lingua e dialetto nella letteratura italiana contemporanea». Grassi dimostrava nei miei riguardi una sorta di affetto poiché aveva avuto a suo tempo un percorso di studi analogo al mio: si era diplomato perito industriale meccanico e, per potere seguire la sua vocazione

umanistica si era sottoposto da privatista all’esame di maturità e l’aveva superato con successo, esortandomi a fare altrettanto. Per completare il quadro del seminario propose a me di trattare il capitolo relativo al «Gruppo ’63», avendo saputo da uno dei suoi assistenti che avevo seguito con interesse i lavori dei suoi aderenti fino dal suo avvio, due anni prima. Avevo allegato alla domanda il volume di Grassi, con le ultime 50 pagine occupate dalla mia relazione. Mi presento all’esame, a Roma, davanti a una folta commissione. Uno degli esaminatori prende in mano il volume, lo sfoglia e dice: «Vedo citato più volte il nome di Angelo Guglielmi, me ne vuol parlare?». Non chiedo di meglio e attacco: nel Gruppo ’63 sul problema della lingua non c’è identità di vedute. Tre esponenti se ne sono occupati a fondo: Umberto Eco, che potremmo collocare a destra, sostiene la tesi della coesistenza pacifica di due forme della lingua, quella comunicativa dello scambio e

quella espressiva dell’arte. Al centro dello schieramento troviamo Edoardo Sanguineti che difende l’alternanza fra avanguardia e museo, dove la lingua della ricerca sperimentale è destinata nel tempo a essere codificata come museo. Infine all’estrema sinistra si colloca la posizione di Angelo Guglielmi, il vero rivoluzionario, un incendiario secondo il quale è dovere di ogni artista opporsi strenuamente a ogni tentativo di normalizzazione, per bloccare sul nascere la tentazione ricorrente di spegnere la carica eversiva che l’opera d’arte deve avere. Condividevo la posizione di Guglielmi, la esponevo con foga, ma notavo nei commissari l’affiorare di strani sorrisini che non riuscivo a spiegarmi. Di Umberto Eco ero amico, Edoardo Sanguineti era presente alla mia relazione, di Angelo Guglielmi ignoravo che faccia avesse, che lavorasse alla Rai e che fosse uno dei componenti della commissione d’esame. Da quel giorno è nato un sodalizio che dura tuttora.

che non c’erano prove contro i templari e che di conseguenza non potevano essere condannati senza offendere Dio e oltraggiare la legge. Quindi il Papa, sostenendo di mantenere un punto di vista indipendente dalle due fazioni, quella che voleva condannare subito il Tempio e quella che sosteneva di non poterlo condannare per mancanza di prove, decide di avocare a sé la decisione. Interrompe il normale procedimento giudiziario e, tramite un provvedimento, sopprime il Tempio. Ecco il cuore della bolla. Con questo indubbiamente abile e repentino cambio di piano, il pontefice non impedisce tanto che i templari siano condannati, ma impedisce che siano assolti. Per il Papato e per la Chiesa, un verdetto di colpevolezza o di innocenza non avrebbe comportato gravi conseguenze: il Papa aveva già provveduto, in caso di colpevolezza, ad addossare tutte le responsabilità a Jacques de Molay e a Hugues de Pairaud. In caso di assoluzione, la Chiesa avrebbe

avuto il merito di restituire la bona fama a un ordine ingiustamente accusato. Ma tutti sapevano che il principale accusatore era il re di Francia. In questo modo Clemente riuscì a salvare l’onorabilità del re. Il papa impedì però ai templari di essere giudicati. Si deve rendere atto a Clemente che, se non ci fossero state le inchieste da lui volute, non sapremmo nulla di ciò che accadde ai templari di Francia durante la loro Passione. Il silenzio e l’oblio avrebbero ingoiato per sempre la conoscenza delle centinaia di templari di cui non ci è giunta la deposizione, le decine che morirono in carcere, o per le torture, o per le rigide e disumane condizioni di detenzione o per i suicidi indotti. Il Tempio si mostrò all’altezza dell’inedito compito di dover fronteggiare un nemico inatteso. Spesso caddero vittime del fuoco amico, ma la loro spiritualità, forse li aiutò ad accettare la morte e la fine dalle mani di chi chiamavano padre, il re di Francia, e madre, il Papa.

del mattino ingoia una sostanziosa dose di barbiturici (scaduti da tempo) e accende il fuoco. Un quarto d’ora dopo i pompieri accorrono e trovano i tre cadaveri e l’assassino in stato comatoso ma ancora vivo. Quando i poliziotti vanno a Clairvaux-les-Lacs per comunicare ai nonni Romand la disgrazia, non possono che constatare l’altra carneficina. Figlio, marito e padre modello, esperto (dilettante) di cardiologia, Romand fu condannato nel 1996 all’ergastolo: il tribunale non prese in considerazione la morte accidentale, nell’ottobre precedente, del suocero, caduto da una scala sotto gli occhi del genero, unico testimone del fattaccio e suo debitore. Ora, il mostro, il mitomane, l’assassino che impressionò la Francia ha ottenuto la libertà condizionata dalla Corte d’Appello di Bourges. Romand è diventato il protagonista del romanzo capolavoro di Emmanuel Carrère intitolato L’avversario (5½) e di un film omonimo con Daniel Auteuil (5). Ha scritto Carrère, ripensando alla

vergogna di essere stato affascinato da quel criminale, con cui ha avuto un lungo scambio epistolare: «A distanza di tempo, credo che ciò che avevo tanta paura di condividere con lui lo condivido, lo condividiamo lui e io, con la maggior parte della gente, anche se per fortuna la maggior parte della gente non arriva al punto di mentire per vent’anni e poi sterminare tutta la famiglia. Penso che anche le persone più sicure di sé percepiscano con angoscia lo scarto che esiste fra l’immagine di sé che bene o male cercano di dare agli altri e quella che hanno di loro stesse nei momenti d’insonnia, o di depressione, quando tutto vacilla e si prendono la testa fra le mani, sedute sulla tazza del cesso. In ciascuno di noi c’è una finestra spalancata sull’inferno; cerchiamo di starne alla larga il più possibile, e io, per una mia precisa scelta, ho passato a quella finestra, ipnotizzato, sette anni della mia vita» (6). Non è la prima volta che una squallida mostruosità genera sublime, grandiosa letteratura.

Postille filosofiche di Maria Bettetini I Templari, uccisi da madre e padre Le fake news non sono un prodotto spacciato solo oggi e solo dai social. In Francia hanno appena tradotto uno dei più importanti lavori sui cavalieri Templari (La Passione dei Templari), opera di una studiosa italiana, Simonetta Cerrini, allieva di Franco Cardini. Il volume intende restituire il diritto alla difesa, di cui i Templari furono privati con determinazione e anche violenza. La loro fine fu una lenta agonia ed è ora che ci sia più attenzione per i frati cavalieri del Tempio – le loro preghiere, i racconti, le articolate difese, le denunce. La narrazione riguarda il gran maestro, seguito subito dopo dal visitatore di Francia (che sarebbe anche il visitatore d’Inghilterra e di Germania), e dai dignitari interrogati a Chinon. È così anche per le autorità civili: per Clemente V (1264-1314) l’unico riferimento è il re Filippo il Bello (1268-1314), e al più nella bolla cita conti, duchi e baroni. Si sa che alla riduzione francese del Tempio si accompagnò la riduzione francese del

Papato. Quando Clemente aprì la sua inchiesta a tutti i Paesi che ospitavano case templari, spinto dall’esigenza di riprendere le redini del processo, si dovette accorgere, troppo tardi, che Filippo non aveva creato solo una bolla finanziaria, come i suoi sudditi sapevano, ma anche una bolla volta a sostenere uno Stato totalitario al cui altare stavano per essere sacrificati i custodi del Tempio di Salomone. C’è un momento in cui il Papa interviene con forza nelle inchieste. Forse per verificare fino in fondo l’attendibilità delle deposizioni? Forse per condizionare l’esito del processo? Qualunque sia stata la ragione, Clemente nel 1311 inviò bolle in tutta Europa per chiedere di rinnovare gli interrogatori e di moltiplicare le torture. Il timore crescente del Papa si manifesta anche a Vienne, quando imprigiona i nove templari che avevano chiesto di poter difendere il Tempio, pur essendo stato proprio lui, nel 1308, a chiedere che i dignitari templari fossero condotti

alla presenza dei Padri del Concilio. L’episodio dei templari giunti a Vienne per difendere il Tempio è senz’altro minimo in sé, ma rivela un’evidenza che il papa cerca di dissimulare: malgrado i ripetuti appelli di Clemente a rinnovare gli interrogatori dei templari usando la tortura, il raccolto di confessioni di apostasia o di eresia dei templari non francesi è davvero misero. All’inizio il Papa voleva un’inchiesta equa, e per questo aveva chiesto che i dignitari del Tempio si presentassero a Vienne per difendere l’ordine. È inoltre indubbio che l’inchiesta internazionale voluta da Clemente sia stata impostata in modo corretto e legale, a differenza di quella gestita dal re di Francia. Ma dopo le inchieste internazionali, la difesa dei templari di Francia, i roghi del 1310, e la posizione della maggioranza dei padri conciliari, Clemente deve aver intuito che il processo poteva avviarsi a un verdetto di assoluzione. La maggioranza della commissione conciliare sosteneva

Voti d’aria di Paolo Di Stefano Romanzo grandioso di una menzogna assassina Chi ha dimenticato Jean-Claude Romand? Nato nel 1954 in un villaggio termale del Giura francese, Lons-leSaunier, Romand ottiene brillantemente la maturità e si iscrive alla facoltà di medicina dell’Università di Lione. Ma dal giorno del 1975 in cui fallisce l’esame di ammissione al secondo anno, diventa un falso studente, tenterà dodici volte di passare gli esami fallendo sempre, poi sarà un falso laureato e dall’86 un falso medico e un falso ricercatore dell’OMS a Ginevra. Il matrimonio, celebrato nel 1980 con la farmacista Florence Crolet, è vero. E sono veri pure i due figli che ne nascono. Per diciotto anni, la sua vita sarà impostata sulla bugia e sul travestimento, finché, non riuscendo più a sostenere le menzogne di fronte alla famiglia e agli amici, poco prima di essere scoperto decide di eliminare le persone più care «per non deluderle». Nella casa di Prévessin-Moëns, regione dell’Alvernia-Rodano, sul confine svizzero, alle otto del mattino di sabato 9 gennaio 1993 Romand uccide sua

moglie colpendola nel letto con un mattarello, poi prepara la colazione ai bambini (Caroline di 7 e Antoine di 5 anni), guarda con loro i cartoni animati in tv, li fa tornare a letto e li colpisce con una carabina calibro 22. A quel punto, dà una sistemata alla casa, ritira la posta, va a comperare il giornale e aspetta mezzogiorno per raggiungere la villa dei genitori, a Clairvaux-les-Lacs: dopo aver pranzato con loro, attira il padre al primo piano e lo uccide con due colpi di fucile, poi infligge la stessa fine a sua madre e al labrador di casa, «affinché – dirà – raggiungesse la bambina, che lo adorava». Non è finita. Romand da quattro anni ha un’amante, Chantal Delalande, un’ex dentista che ha prestato a Jean-Claude ben 900 mila franchi francesi per uno dei suoi investimenti bancari fantasma. Per vivere e far vivere la famiglia a un livello degno di un (falso) medico, Romand ha contratto una quantità di debiti pari a due milioni e mezzo promettendo interessi favolosi del 18%. L’ultimo colpo di genio è

stato di fingersi gravemente malato di cancro: fatto sta che per anni, superato il confine, la doppia vita di Roland era fatta di giornate vuote, non trascorse nel presunto studio di ricercatore, ma dentro la sua auto, parcheggiata vicino all’ospedale ginevrino e trasformata in ufficio e sala lettura (di libri, di riviste porno, di guide turistiche e di periodici medici). Insomma, la sera di sabato 9 gennaio Romand incontra Chantal con la promessa di una cena a Fontainebleau, presso un amico. Ma la cena non c’è e non c’è neanche l’amico. Dunque finge di perdersi e nel (falso) disorientamento, verso le 23 si ferma nel buio di una foresta, tira fuori uno spray lacrimogeno, ma la donna si difende e urla, al punto che Jean-Claude desiste, si scusa e accompagna l’amante a casa. Romand torna sui suoi passi, cioè a casa propria, dove giacciono tre cadaveri. Passa lì, girovagando e guardando la tv, tutta la domenica. In serata cosparge di benzina il solaio, i letti di sua moglie e dei bambini, poco prima delle quattro


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