Cooperativa Migros Ticino
Società e Territorio Gli studi di Steven Sloman e Philip Fernbach ci spiegano perché tutti noi viviamo nell’illusione di sapere tante cose
Ambiente e Benessere Le Maldive sono conosciute come meta turistica da sogno, ma non tutti sanno che una delle loro risorse più apprezzate è la produzione di frutta
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXII 20 maggio 2019
Azione 21 Politica e Economia Fra il 23 e il 26 maggio si svolgeranno le elezioni europee. Un test per il Vecchio Continente
Cultura e Spettacoli L’editore Dadò ha ridato alle stampe Il voltamarsina, romanzo di Francesco Alberti
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Un’alleanza sociale per salvare i Bilaterali
Non lasciamo che la siccità si trasformi in aridità
di Peter Schiesser
di Loris Fedele
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L’alleanza filo-europea è rinata: il Consiglio federale è riuscito a ritrovare un’intesa con i sindacati, con cui ha elaborato un accordo su come contrastare gli effetti negativi della libera circolazione delle persone. Mercoledì 17 maggio ha presentato un pacchetto con sette misure concrete su come sostenere i lavoratori anziani che perdono il lavoro, sia nella ricerca di un nuovo impiego, sia con un appoggio formativo, ma in particolare introducendo una rendita ponte che garantisca 2400 franchi di reddito, affitto e cassa malati gratuiti ai disoccupati che, dai 60 anni in avanti, sarebbero costretti a far capo all’aiuto sociale. Il tutto per un costo stimato di 100 milioni di franchi all’anno all’inizio, fino a 2-300 milioni successivamente, da cui andranno però dedotte (nei conti della Confederazione) le minori spese che dovrà sostenere l’aiuto sociale. Oltre ai sindacati e al mondo economico, che non sopporterà costi, hanno plaudito all’annuncio di massima (il testo definitivo verrà messo in consultazione in estate) anche i partiti di sinistra e di centro; l’unico dal quale è venuto qualche mugugno, a parte l’opposizione di principio dell’UDC, è il PLR, nonostante l’artefice di questo accordo fra le parti sociali provenga dalle sue fila. La questione, in fondo, è molto semplice: il 14 febbraio 2014 la classe di età che ha votato in misura maggiore per l’iniziativa dell’UDC contro l’immigrazione di massa è stata quella fra i 50 e i 59 anni. Anche se le statistiche dettagliate rivelano che fra i 55 e i 64 anni si rischia meno di restare senza lavoro e che deve ricorrere agli aiuti sociali una percentuale inferiore alla media (benché il periodo poi risulti più lungo rispetto ai giovani), fra gli over 50 il timore di finire in quelle condizioni è soggettivamente più forte e influenza il giudizio sulla libera circolazione. Si trattava quindi di rivolgersi soprattutto ai dipendenti più anziani, dando ai sindacati un chiaro segnale in favore della protezione dei lavoratori. La consigliera federale Karin Keller-Sutter (PLR) è stata esplicita: «dobbiamo essere onesti e riconoscere che la libera circolazione non porta solo vantaggi ma anche svantaggi», aggiungendo che «il Consiglio federale non vuole una Svizzera divisa». Non è casuale che accanto al collega Alain Berset sedesse Karin Keller-Sutter (Guy Parmelin era assente per un impegno concomitante): è lei che è stata incaricata dai colleghi di governo di ricucire l’alleanza filo-europea coi sindacati, dopo che l’estate scorsa i passi falsi diplomatici di Cassis e SchneiderAmman avevano spinto i sindacati sulle barricate contro l’accordo istituzionale negoziato con Bruxelles. Keller-Sutter vanta infatti ottimi rapporti personali e politici con Paul Rechsteiner, fino a poco tempo fa presidente dell’Unione sindacale svizzera, fin da quando sedevano entrambi nel Consiglio degli Stati per il canton San Gallo. Al punto in cui erano giunti i rapporti fra sindacati e Cassis e Schneider-Amman, solo lei poteva riuscire a ricucire lo strappo. Era assolutamente necessario per non far crollare l’intero castello delle relazioni con l’Unione europea, e ci si doveva riuscire al più presto. Perché c’è l’accordo istituzionale con Bruxelles da salvare, ma secondo Keller-Sutter ancor di più l’alleanza doveva risorgere per contrastare l’iniziativa dell’UDC sull’abolizione della libera circolazione (e quindi dell’intero primo pacchetto di accordi bilaterali) su cui voteremo presumibilmente l’anno prossimo. Anzi, per Keller-Sutter l’accordo istituzionale con l’UE può attendere ancora un po’. Con la sua svolta sociale il Consiglio federale prende atto di non poter prescindere dalla difesa del mondo del lavoro se vuole salvare i Bilaterali. Si può quindi ripartire con nuovo slancio nelle relazioni con l’UE. Tuttavia, l’impressione oggi è che a dettare ritmi e contenuti sarà più Karin Keller-Sutter che Ignazio Cassis.
VOTAZIONE GENERALE 2019
SABATO 1. GIUGNO 2019
Keystone
Rinnoviamo a tutti i soci l’invito a partecipare alla votazione generale. Ultimo termine per la spedizione o consegna della scheda
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 20 maggio 2019 • N. 21
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Attualità Migros
Riprendiamoci la città...
Immagini in valle, parlano al mondo Calanca Exhibit Un’esposizione che
StraLugano 2019 Il 25 e 26 maggio la città sul Ceresio cambia
è un’iniziativa culturale di grande originalità, attraverso fotografia, scultura, grafica
Fuori le macchine e spazio ai corridori: le vie del centro cittadino vissute in modo diverso, in una dimensione urbana dal volto umano e giocoso. La Stralugano non è solo il più importante appuntamento ticinese con il podismo agonistico, ma anche l’occasione per vivere la quotidianità sotto una nuova luce, in un ambiente rilassato e festoso. La parte competitiva, certo, è quella che attira l’interesse degli sportivi: le gare di sabato 25 (10 km City Run, partenza alle ore 20.00) e della domenica 25 (Half Marathon su 21’079 metri di percorso, in un tracciato omologato da Swiss Athletics, alle 10.00; Monte Brè Vertical Race alle 9.30) saranno al centro dei riflettori per la loro innegabile vocazione competitiva. Ma la gran parte del pubblico, quella che vive la passione per il movimento e per lo sport come un piacere personale da condividere con i
L’ideatrice della manifestazione, Adria Nabekle, è originaria della Val Calanca, ma ha vissuto per 30 anni all’estero. Al ritorno nel suo luogo d’origine ha deciso di realizzare un evento artistico, una sorta di «installazione di installazioni», che porti la Calanca a farsi conoscere nel mondo e porti gli abitanti stessi a contatto con realtà artistiche e con immagini che vengono dal mondo. Un movimento che come dice lei «somigli a un buco nero, che attrae da un lato e poi porta a vivere in una dimensione diversa, dall’altro». L’idea le è venuta riflettendo anche all’esperienza di molte persone della sua famiglia. Dopo essere emigrati, diversi suoi congiunti sono tornati in Calanca portando idee innovative e benessere. L’azione artistica progettata a Santa Maria in Calanca, quindi, avrà luogo su un lungo periodo di tempo, cioè dal 2 giugno al 6 ottobre 2019, e si disporrà su spazi molto particolari. Utilizzando l’Acropoli che comprende la Chiesa, passerà per il Convento e per la Torre, portandosi infine verso una sorta di spuntone di roccia che è come una prua di nave protesa nell’aria. In concreto, vari spazi saranno animati dalle opere esposte, in una porzione di territorio di per sé molto affascinante. Sono previste un’installazione di arte ambientale di Renato Tagli e Sabina Oberholzer; le esposizioni di immagini del fotoreporter Guillaume Briquet, del fotografo brasiliano Tadeu Vilani, del fotografo australiano Nino Ellison e del graphic designer iraniano Reza Mousavi. Il tutto si completerà con una monografica dello scultore altoadesino Franz Canins che espone nei giardini del convento. I quattro mesi in cui la manifestazione avrà luogo serviranno per far conoscere la piccola regione della Svizzera italiana nel mondo e nello stesso tempo per aprirla al contatto con un bacino di contatti esterni molto ampi, in un movimento centrifugo e centripeto che è già stato avvertito e compreso dalle autorità locali. Tutti i comuni del
la sua fisionomia e diventa un grande percorso sportivo all’aperto famigliari e con gli amici, si rivolgerà sicuramente alle altre manifestazioni in programma. Il sabato la «Crazy Marathon» delle ore 15.00 sarà seguita dalle apprezzatissime Kids Run, alle 17.00 e 18.30. Le vie della città quindi saranno lasciate ai più piccoli che, per una volta, non dovranno preoccuparsi del traffico e godranno liberamente dello spazio riconquistato. Altro momento di grande richiamo, che unisce una proposta sportiva all’attenzione per i temi sociali e per la solidarietà con i meno fortunati, è la StraLugano Beach Run 4 Charity, in programma domenica alle 16.00. Migros, che è sponsor principale della manifestazione, insieme a SportXX, Official Sponsor, e «Azione», Media partner, sarà presente con diverse attività: da un lato in Piazza Rezzonico con spazi dedicati al Warm Up, gestiti da Activ Fitness/
Technogym; dall’altro nella postazione Lungolago/LAC proporrà una FanZone, gestita da SportXX, in cui saranno presenti i giovani atleti del FC Lugano e del Volley Lugano. Immancabile il «Pasta party» allestito anche quest’anno da Migros Ticino al Centro esposizioni e attivo per la cena del sabato e il pranzo della domenica. L’invito a tutta la popolazione ticinese è quindi di cogliere questa bella occasione e riappropriarsi degli splendidi spazi sul lungolago, nel parco e sulle strade di Lugano. Informazioni
Informazioni di dettaglio e iscrizioni su: www.stralugano.ch.
StraLugano, 25-26 maggio, Lugano
Un’immagine dall’edizione del 2018.
Il manifesto ufficiale.
Moesano infatti si sono attivati a suo sostegno, contribuendo a concretizzarne l’ambizioso progetto. A detta dell’organizzatrice, tutto il moesano ha colto l’importanza della manifestazione e il suo valore in termini di promozione del territorio. In questo modo la piccola valle Calanca sembra in grado di suscitare un interesse internazionale che la fa diventare in qualche modo una «Calanca Town», come la chiama scherzosamente un amico artista. Un significativo interesse Calanca Exibhit l’ha comunque suscitato ancor prima del suo inizio: l’immagine coordinata della manifestazione, creata dallo studio grafico di Sabina Oberholzer e Renato Tagli, è stata esposta durante una manifestazione speciale destinata alla grafica, un evento che si è tenuto negli scorsi mesi nella Repubblica popolare cinese. Calanca Exhibit
Dal 2 giugno al 6 ottobre 2019 www. calanca-exhibit.net In collaborazione con
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Fare la cosa giusta
Quando la povertà mostra il suo volto Per saperne di più su Aïcha: www.farelacosagiusta.caritas.ch
Aïcha (11 anni), Siria, ha perso la mamma in un bombardamento
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 20 maggio 2019 • N. 21
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Società e Territorio Pets 2 Torna al cinema la vivace brigata di Max, Chloe, Gidget e degli altri scatenati coinquilini: un concorso per i nostri lettori
Il portale Serbinfo.ch Incontro con Vladimir Miletić, giovane luganese ideatore del sito ticinese dedicato alla diaspora serba pagina 9
Nuove gite scolastiche Alcuni esempi di docenti e allievi che invece della classica passeggiata di fine anno scelgono esperienze diverse pagina 11
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Non pensiamo mai da soli Pubblicazioni Gli studi di Steven Sloman
e Philip Fernbach evidenziano come viviamo nell’illusione di sapere e immersi nella comunità della conoscenza
Lorenzo De Carli Inglese trasferitasi negli Stati Uniti, Ann Lesley Brown è stata una psicologa dell’educazione che ha posto al centro dei suoi interessi la rilevanza della comunità di ricerca. Il suo programma denominato Fostering Community of Learners (FCL) concepiva l’attività didattica come un laboratorio sempre aperto, dove la massima rilevanza era data al lavoro di squadra nel corso dell’apprendimento. Ampio spazio alla ricerca e alla pratica didattica di Ann Brown è dato dai due scienziati cognitivisti Steven Sloman e Philip Fernbach, sintetizzando il risultato delle loro più recenti indagini nel libro intitolato L’illusione della conoscenza. Perché non pensiamo mai da soli. I due ricercatori giungono alla conclusione che ciascuno di noi vive nell’illusione di sapere tante cose perché, inconsapevolmente, facciamo affidamento alle conoscenze distribuite nelle cose che ci stanno attorno e nelle menti degli altri, cosicché è tempo di concepire non più l’intelligenza come una prestazione individuale bensì come l’abilità di contribuire al successo di un gruppo. Sullo sfondo del modello sviluppato da Ann Brown stanno le intuizioni dello psicologo russo Lev Semënovič Vygotskij. Vygotskij pensava alla mente come ad un’entità sociale e al pensiero come ad un’attività dialogica. Riflettendo su di noi in quanto specie, Vygotskij osservava che non è tanto la nostra potenza cerebrale individuale a distinguerci, quanto piuttosto la nostra abilità ad imparare attraverso le altre persone e le altre culture. Descrivendo ciò che essi intendono con il concetto di «comunità di conoscenza», Sloman e Fernbach dichiarano apertamente tutto il loro debito nei confronti di Vygotskij e della sua idea che la nostra mente ha un carattere marcatamente sociale. Alle questioni pedagogiche e psicologiche Sloman e Fernbach giungono però solo in un secondo momento,
dopo aver dato una spiegazione alla nostra illusione di sapere: «il punto, per noi, non è che le persone siano ignoranti; è che le persone siano più ignoranti di quanto pensano di essere». Abbiamo un’idea vaga di come funziona un sifone, pur usando più volte ogni giorno; non sappiamo perché l’acqua esce dal rubinetto; pochi sanno disegnare una bicicletta in maniera che davvero possa funzionare – per restare alle cose di tutti i giorni. E quando, poi, dobbiamo spiegare a parole ciò che riteniamo di sapere, allora diventa evidente tutta la nostra ignoranza: «ignoriamo la complessità sopravvalutando quanto sappiamo sul funzionamento delle cose». Secondo Sloman e Fernbach tutto ciò è normale e non serve sorprenderci per due motivi: prima di tutto perché il pensiero è una forma di azione e, quindi, ricordiamo e sappiamo quanto è funzionale alle nostre necessità, secondariamente perché, nel corso della nostra evoluzione, «abbiamo avuto molto successo nel suddividere il nostro lavoro cognitivo». Ciò significa che noi abbiamo l’illusione di sapere «perché sbagliamo nel tracciare una linea precisa tra ciò che è dentro e ciò che è fuori dalle nostre teste». Non ci rendiamo conto fino a quale grado è «sociale» il nostro «personale» sapere. I risultati delle ricerche condotte da Sloman e Fernbach fanno emergere una serie di evidenze che contrastano con alcuni luoghi comuni. Per esempio, i due autori hanno attirato l’attenzione sul fatto che il nostro pensiero è specializzato nell’applicazione del principio di causalità, spingendoci a cercare rapporti di causa/effetto in tutto ciò che incontriamo. Purtroppo, questo principio è spesso inadeguato per descrivere fenomeni complessi perché tende a fornire soluzioni semplicistiche. In generale, non notiamo questa eccessiva semplificazione perché la condividiamo con il gruppo sociale al quale apparteniamo. Inoltre, tendiamo ad usare una rapida scorciatoia, quando ci rendiamo conto che facciamo fatica
Abbiamo l’illusione di sapere «perché sbagliamo nel tracciare una linea precisa tra ciò che è dentro e ciò che è fuori dalle nostre teste». (Marka)
a comprendere dei fenomeni complessi: ricorriamo ai «valori». Questa tendenza è molto evidente nel dibattito politico: i «valori sacri» di una fazione o di un’altra, non solo sono il collante di una comunità, ma sono un ostacolo alla ricerca delle conseguenze delle scelte politiche: «i cittadini, i commentatori e i politici prendono spesso posizione prima di impegnarsi in un’analisi seria dei pro e contro di una proposta di legge». Ciò significa che, in un mondo globalizzato e complesso, nel dibattito politico ci comportiamo come quando vivevamo in minuscole comunità, nelle quali il ricorso ai «valori sacri», in certe situazioni di urgenza, permetteva di tener salda la coesione del gruppo. C’è un altro, importante, aspetto che caratterizza in maniera molto specifica la nostra ignoranza. Steven Sloman e Philip Fernbach l’hanno messo
in evidenza studiando in modo in cui le persone valutano il sapere scientifico. A domande del tipo: «è vero o falso che normalmente i pomodori non contengono geni, mentre i pomodori geneticamente modificati li contengono», la maggior parte dei loro intervistati ha risposto che è vero. Ciò succede perché la comprensione di come funzionano le mutazioni genetiche è molto vaga, cosicché si tende ad equipararla ad altri fenomeni: «le persone pensano alla modificazione genetica così come pensano ai germi». Ma l’aspetto socialmente più interessante osservato da Sloman e Fernbach è che la divulgazione della corretta informazione scientifica non muta questo genere di false convinzioni perché esse «sono strettamente intrecciate con altre credenze, con i valori culturali condivisi e con le nostre identità». Ciò comporta che a certe forme
di ignoranza non possiamo rinunciare perché sono condivise dalla comunità di cui facciamo parte e dalla quale saremmo esclusi se cambiassimo idea. «Le nostre convinzioni non sono proprio nostre, sono condivise dalla nostra comunità. E questo le rende davvero difficili da cambiare». La nostra conoscenza è dunque legata a doppio filo con la comunità in cui viviamo: da un canto, inconsapevolmente, ci appoggiamo sulla «comunità della conoscenza» sia per arricchire le nostre conoscenze sia per illuderci di averne più di quanto effettivamente ne abbiamo, d’altra parte, questa stessa comunità, c’impone credenze e valori che c’impediscono di assumere altri punti di vista e verificare le convinzioni condivise. «Non pensiamo mai da soli» proprio perché siamo tra questi due poli.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 20 maggio 2019 • N. 21
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Idee e acquisti per la settimana
Erbétt par la carna Bio
Novità In perfetta puntualità con l’inizio della stagione delle grigliate
ecco giungere alla Migros una speciale miscela di erbe per carne elaborata in collaborazione con gli utenti della Fondazione San Gottardo
Le settimane dei Nostrani Fino al 27 maggio i prodotti locali saranno protagonisti nei supermercati Migros con diverse azioni e degustazioni speciali.
Sensibilità sociale ed ecologica, nonché attenzione alla realtà locale vanno a braccetto nello sviluppo del nuovo prodotto targato Nostrani del Ticino: la miscela di erbe per condire carni o pollame alla griglia o in padella, oppure per marinature. Una specialità decisamente particolare, che va ad affiancarsi ad altri cinque prodotti venduti da Migros – le Tisane del mattino, della sera, alla malva, nonché l’origano e i peperoncini essiccati – provenienti dalla Fondazione San Gottardo, istituzione attiva nel sostegno delle persone con disagi psichici o problematiche mentali. «Le erbette utilizzate per la miscela, nella fattispecie rosmarino, peperoncino, alloro, aglio orsino e chili, sono tutte coltivate nella nostra azienda agricola sociale Orto il Gelso di Melano, secondo i criteri della produzione biologica e sono certificati bio», spiega Antonio Aiolfi, responsabile della struttura. Anche la lavorazione, l’essicazione e il confezionamento av-
Freschezza all’aroma di moscato
Novità L’apprezzato assortimento di gazose nostrane di Migros
Ticino è stato recentemente arricchito con la variante all’Üga Muscaa
vengono all’interno dell’azienda, in un laboratorio protetto inaugurato lo scorso mese di settembre. «Qui sono attivi professionalmente 25 utenti, accompagnati da un gruppo di referenti educativi. L’attività lavorativa possiede un fine educativo propedeutico, ossia mirato al concetto di integrazione, valorizzazione e normalizzazione della persona», precisa Antonio Aiolfi, che conclude: «Anche se la produzione per noi ha una valenza secondaria, ciò non significa che non siamo attenti alla qualità del prodotto acquistato dai consumatori: vogliamo che quest’ultimi si portino a casa un prodotto buono e di qualità, e non che lo acquistino solo perché è fatto da persone in difficoltà». Infine, va precisato che l’intero ricavato delle vendite della miscele di erbe - come pure degli altri prodotti provenienti da Fondazioni - viene riversato alla Fondazione San Gottardo al fine di sostenere le loro attività e i costi di produzione.
Gustate le dolcissime fragole nostrane Attualità Raccolte oggi e consegnate
l’indomani ai supermercati Migros
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Tresol Group/Däwis Pulga
Sulle Fragole Ticino, 500 g Fr. 4.40 invece di 5.90 dal 21 al 27 maggio
Flavia Leuenberger Ceppi
Dall’idea di proporre alla clientela di Migros una nuova varietà di gazosa che avesse quel sapore di «casa e di tradizione ticinese», è nata la varietà all’aroma di uva moscato, uno dei vitigni nobili più antichi. Questo rinfrescante piacere a base di pochi e semplici ingredienti, senza conservanti, va ad aggiungersi alle altre storiche e classiche gazose locali proposte sugli scaffali dei supermercati, vale a dire limone, mirtilli, lampone, sambuco, mandarino e uva americana. Naturalmente, come tutte le varietà, anche la nuova Gazusa Üga Muscaa è prodotta dalla Sicas SA di Chiasso, azienda che collabora con Migros Ticino da oltre 50 anni e, tra l’altro, può vantare nella sua gamma di prodotti un variegata selezione di succhi di frutta elaborati utilizzando esclusivamente frutta fresca. Grazie al suo sapore aromatico, fresco e fruttato, la gazosa al moscato è una bibita perfetta da sorseggiare freschissima durante la bella stagione, sia per rinfrescarsi in modo sfizioso durante le calde giornate, sia per preparare aperitivi o drink analcolici all’insegna dell’originalità, per esempio con l’aggiunta a piacere di qualche fettina di arancia, delle bacche fresche, delle fette di mela verde oppure ancora delle foglioline di menta.
Erbétt par la carna bio 20 g Fr. 6.90 In vendita nelle maggiori filiali Migros
Gazosa Nostrana all’uva moscato 28 cl Fr. 1.20
Con il loro brillante colore rosso e il profumo inconfondibile, da maggio a fine giugno le fragole ticinesi dell’orticoltrice Manuela Krauss di S. Antonino si mostrano in tutto il loro splendore nei reparti frutta di Migros Ticino. Non c’è nulla di più fresco: raccolte delicatamente a mano al momento giusto e fornite entro poche ore ai negozi, sono bell’e pronte per essere apprezzate nel pieno della loro maturazione e beneficiare così delle loro virtù gustative e salutari. Sono ottime gustate da sole
dopo un breve risciacquo sotto l’acqua corrente, oppure, grazie alla loro versatilità, sono adatte alle più svariate preparazioni e abbinamenti culinari sia dolci che salati: per esempio con gelato alla vaniglia, yogurt, panna montata, rabarbaro, aceto balsamico e spumante; o ancora per preparare risotti, confetture, salse, sciroppi, torte, budini… A proposito: un motivo in più per non lasciarsi sfuggire questi deliziosi frutti rossi, è l’offerta speciale di cui sono oggetto questa settimana.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 20 maggio 2019 • N. 21
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Idee e acquisti per la settimana
Canna invece delle reti Attualità Nell’assortimento di conserve,
Migros propone ora solo tonno pescato a canna, un metodo di cattura tradizionale particolarmente sostenibile no altresì di evitare la cattura dei pesci più giovani.
La Migros si impegna da sempre contro la pesca intensiva e già attualmente, nell’ambito del programma di Generazione M, tutti i prodotti della pesca del suo assortimento provengono da fonti sostenibili, qualificate come raccomandate o accettabili dal WWF. Un ulteriore passo avanti riguarda il tonno: dopo le Maldive, ora anche in Indonesia Migros sostiene i pescatori che praticano la pesca tradizionale a canna invece che con le reti. L’associazione composta da 750 pescatori con la quale la Migros sta stringendo attualmente un partenariato si trova a Sorong, una città sulla costa della parte indonesiana della Nuova Guinea. Essi hanno un approccio totalmente diverso verso la pesca: dispongono di 35 barche e praticano un metodo di pesca tradizionale del tonno: la pesca a canna. «Il rendimento è inferiore, ma in pratica vengono catturati soltanto i tonni, risparmiando così le altre specie marine», commenta Sandra Hinni, specialista dello sviluppo sostenibile presso la Federazione delle cooperative Migros (FCM). I grandi ami permetto-
Si salvaguardano anche gli impieghi
Questo metodo di pesca a canna offre vantaggi non soltanto ecologici, bensì anche sociali. Infatti esso richiede più manodopera rispetto al settore industriale, contribuendo così alla creazione di posti di lavoro. I pescatori di Sorong sono in procinto di ottenere il certificato MSC, che garantisce il rispetto degli ecosistemi marini. Migros acquista da loro il tonno per le sue conserve, offrendo nuove prospettive ai pescatori locali. La Migros sostiene già dal 2013 un progetto «Pole & line» di vaste dimensioni alle Maldive: anche qui, ha siglato un partenariato con i pescatori che praticano la pesca tradizionale a canna del tonno, evitando così catture accidentali e una pesca eccessiva. Grazie al suo nuovo impegno in Indonesia, la Migros ha potuto raggiungere un obiettivo importante: nel suo assortimento di conserve è disponibile ora esclusivamente tonno pescato a canna. Persino il cibo per gatti contiene tonno pescato con il metodo «Pole & line».
I pescatori indonesiani catturano i tonni con la canna, un metodo che richiede molto lavoro ma che salvaguarda l’ambiente.
Gelati Kinder da provare
Attualità Mercoledì 22 maggio, dalle ore 14.00, i primi 100 bambini
potranno gustare il nuovo gelato Kinder Joy nelle filiali Migros di Locarno, Agno, Serfontana, Lugano e S. Antonino
Doccia benefica e sostenibile 1
Kinder, marchio storico di prodotti per bambini (ma non solo) nato nel 1968 ad Alba, in Piemonte, dall’anno scorso propone nel suo assortimento anche alcune versioni «ghiacciate» dei suoi più classici snack. La gamma Kinder Ice Cream introdotta nei supermercati di Migros Ticino include la variante gelata del classico snack Bueno; i cornetti e i mini cornetti con gelato alla nocciola e cioccolato e i sandwich composti da biscotto ai cereali con morbidissimo gelato al latte. Una novità che non mancherà di far felici i piccoli buongustai è la variante gelata del mitico ovetto Kinder Sorpresa, il Kinder Joy, una deliziosa coppetta al latte e salsa al cioccolato con tanto di immancabile sorpresina nascosta al suo interno. I prodotti Kinder sono fatti con ingredienti di elevata qualità per regalare ad ogni bambino indimenticabili momenti di gusto. I loro sapore ha conquistato milioni e milioni di piccoli e grandi golosi in ogni parte del mondo.
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Azione 20% Su tutti i gelati Kinder Ice dal 21 al 27 maggio
Per cominciare bene la giornata o rilassarsi con stile la sera, non c’è niente di meglio di una rinfrescante doccia con i prodotti Kneipp. Questi ultimi si caratterizzano non solo per le loro formulazioni naturali innovative, ma anche per la loro efficacia e sostenibilità. Tutti i prodotti Kneipp sono infatti prodotti nel rispetto dell’ambiente e senza sperimentazione sugli animali. I nuovi articoli per la doccia aromatici regalano a corpo e mente benessere e sensazioni primaverili del tutto naturali. L’imballaggio di alcuni di essi è realizzato con PET 100% riciclabile, mentre le etichette sono in carta di pietra. La scelta spazia dai due prodotti doccia Mandarino & Vetiver e Menta & Rosmarino con oli essenziali per detergere e idratare deli-
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catamente la cute, alla docciacrema con latte di cocco e olio di monoi per una pelle liscia e ben nutrita fino a 24 ore, fino alla doccia cremosa «Umore Estivo» con melone e menta che, grazie alla sua consistenza leggera, lascia sulla pelle una sensazione di freschezza e profumo duraturi. I prodotti sono in vendita nelle maggiori filiali Migros. 1 Kneipp Doccia Schiuma Melone & Menta 200 ml Fr. 6.20 2 Kneipp Doccia Mandarino & Vetiver 250 ml Fr. 7.50 3 Kneipp Doccia Menta & Rosmarino 250 ml Fr. 7.50 4 Kneipp Doccia Cremosa Cocco & Monoi 200 ml Fr. 5.50
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 20 maggio 2019 • N. 21
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Società e Territorio
Vita avventurosa per gli animali d’appartamento
Pets 2 al cinema dal 6 giugno, anche in 3D
Anteprima e concorso Nei cinema ticinesi
© UNIVERSAL PICTURES INTERNATIONAL SWITZERLAND. ALL RIGHTS RESERVED
torna la vivace brigata di Max, Chloe, Gidget e degli altri scatenati coinquilini
Cosa fanno i nostri animali di casa mentre noi non li guardiamo? Il più delle volte dormono, probabilmente. Ma non è il caso di esserne così sicuri. Per i vivaci protagonisti del nuovo film di animazione proposto da Chris Renaud (già regista della serie Cattivissimo Me, Lorax – Il guardiano della foresta e naturalmente del primo film della serie, Pets – Vita da animali, del 2016) il programma giornaliero degli animali soli in casa può essere anche particolarmente impegnativo. Proseguendo le avventure del gruppo di quattrozampe che abbiamo conosciuto nella pellicola precedente, saremo trascinati in una serie di vicende dai colpi di scena assicurati. Nel film, comunque sarà immancabile anche la dose di humor che ci permette di divertirci alle spalle dei nostri amici preferiti… soprattutto quando somigliano ai loro padroni. Le avventure proposte, che come sempre ruotano attorno alla figura del jackrussel Max, comprendono i suoi tentativi di curare i sintomi di una imprevista nevrosi, provocata dal suo
nuovo ruolo di baby sitter, e poi gli insospettabili retroscena della vita da super-eroe del coniglietto Nervosetto. Senza dimenticare, gli esilaranti tentativi di Gidget, una simpatica cagnolina bianca di razza Pomerania, di diventare un gatto, seguendo gli insegnamenti della esperta e austera gatta Chloe. Ma queste sono solo alcune tra le numerosissime vicende che caratterizzano la trama: lasciamo agli spettatori la sorpresa di scoprire la nuova puntata di un sequel che saprà di nuovo farci trascorrere un paio d’ore di divertimento (e ci farà guardare magari con occhi diversi alla vita quotidiana dei nostri compagni coinquilini pelosi e piumati). Numerosi trailer sono già stati pubblicati in rete e offrono un’ottima idea di quello che possiamo aspettarci da Max e compagni. L’hashtag è invece #Pets2: nel profilo sono pubblicate immagini dal film, video e Gif animate. Per partecipare al concorso visitate la pagina web del sito di «Azione» all’indirizzo www.azione.ch/concorsi.
La Universal Pictures International Switzerland e Migros Ticino invitano i lettori di «Azione» a partecipare al concorso dedicato a Pets 2 – Vita da animali, film di animazione. In palio dieci coppie di biglietti gratuiti per partecipare alla proiezione di anteprima ufficiale, con colazione compresa, domenica 2 giugno al Cinestar di Lugano. Il film sarà in programmazione nei cinema ticinesi (anche in 3D) dal 6 giugno. Oltre a questo, sono a disposizione di 4 fortunati altrettanti pacchi regalo che contengono gadget griffati del film, tra cui: ■ una borsa in tela ■ un’agenda ■ un set per la scuola ■ ciondoli a forma di personaggi Biglietti a pagamento per l’anteprima e altre informazioni su: www.arena.ch/lugano
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 20 maggio 2019 • N. 21
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Società e Territorio
Il portale ticinese per la diaspora serba
Sottratti alle famiglie Libri Incontro
Serbinfo.ch Incontro con Vladimir Miletić, giovane luganese che vuole promuovere
la partecipazione politica delle persone di origine serba in Svizzera
con Sergio Devecchi a Bellinzona Barbara Manzoni
Jonas Marti Nel 1847 il popolare scrittore serbo Ljubomir Nenadović si trovò in mezzo a un acquazzone sull’altipiano di Realp. Stava visitando la Svizzera per scrivere un libro su quella «unione nella diversità» tutta elvetica che tanto lo affascinava. Fradicio di pioggia bussò alla porta di una chiesa. Gli aprì un prete, che senza indugio decise di ospitarlo. Anzi, la prima domanda che il religioso rivolse all’improvvisato ospite fu: «preferisce vino francese o vino italiano?» Quello tra Svizzera e Serbia è un legame sconosciuto ai più, ma che ha radici nel tempo. Sul portale Serbinfo. ch ci sono altre storie di questa antica amicizia. C’è, per fare un altro esempio, anche la storia di Nicolas Doxat de Démoret, un ingegnere di Yverdon che nel ’700 fortificò la Belgrado appena strappata ai turchi dagli austriaci. Oppure la vicenda di Mileva Marić, serba, moglie di Albert Einstein, prima donna a studiare fisica al Politecnico di Zurigo. Insomma: sembrerebbe che Svizzera e Serbia si conoscano da molto tempo. Raccontare questi legami è la missione di Vladimir Miletić, intraprendente trentaseienne di Lugano. Nel 2012 ha fondato il portale di informazione Serbinfo.ch con una sola idea: gettare un ponte tra Svizzera e Serbia. «È anche da queste piccole storie del passato che possiamo capire come Svizzera e Serbia siano unite da tempo, ben prima dei flussi migratori degli ultimi decenni. Pochi lo sanno, ma i due paesi hanno molto in comune».
«I primi mesi in Ticino sono stati difficili. È allora che ho capito quanto fosse importante per noi serbi capire meglio la Svizzera» Quando, dieci anni fa, Vladimir ha lasciato Belgrado per arrivare in Ticino – «per amore, ma passare da una città di milioni di abitanti a una piccola cittadina come Lugano è stato strano» – parlava solo serbo e inglese. Ha imparato l’italiano da autodidatta. E oggi lo parla molto bene. In Serbia studiava scienze politiche ed era vicepresidente di una associazione benefica patrocinata dalla casa reale serba. «I primi mesi in Ticino sono stati difficili. È allora che ho capito quanto fosse importante per noi serbi capire meglio la Svizzera. E di riflesso, quanto fosse prezioso anche per gli svizzeri conoscere meglio la Serbia e la nostra cultura». Oggi su Serbinfo.ch si trova (quasi) di tutto. Articoli di storia che parlano di svizzeri in Serbia e di serbi in Svizzera. Informazioni di base per i nuovi arrivati in Svizzera, dalle procedure
Vladimir Miletić ha fondato il portale Serbinfo.ch nel 2012. (Jonas Marti)
per ottenere il permesso di soggiorno, al contratto di locazione, a come trovare un lavoro. Ci sono nozioni di civica: come funzionano le Camere federali? Quanti cantoni ci sono in Svizzera? Ma ci sono anche articoli che spiegano in dettaglio i temi sottoposti a votazione. Tutto tradotto e scritto in lingua serba. E in italiano, «solo per il momento», con l’obiettivo di allargare presto i contenuti anche alle altre aree linguistiche del paese. «Abbiamo una rete di collaboratori in Svizzera tedesca e in Romandia, ma cerchiamo costantemente nuovi volontari per allargare il bacino». Conoscere le fibre di un paese per viverlo consapevolmente, è questa l’idea di Serbinfo.ch. «Ogni anno ci sono nuovi serbi che arrivano in Svizzera, soprattutto in seguito ai ricongiungimenti familiari. Molti giovani serbi che vivono in Svizzera spesso trovano moglie o marito giù. In questo modo ci sono sempre nuovi immigrati. Ed è prima di tutto a loro che ci rivolgiamo», spiega Vladimir. Sono quasi 300mila i serbi in Svizzera. In Ticino qualche migliaio. Molti sono arrivati negli anni 70, come migranti economici, ben prima della guerra in ex-Jugoslavia. Ma dopo molti anni passati all’estero, i legami con la madrepatria rimangono profondi, anche a livello istituzionale. Per fare un esempio, è addirittura il Ministero dell’educazione di Belgrado ad aver mandato un professore di lingua serba in Ticino: un paio di ore di lezione a settimana dopo scuola, in diverse località del cantone, per insegnare ai bambini a scrivere in cirillico e padroneggiare la grammatica. Per la cura delle anime,
la Chiesa ortodossa serba ha invece inviato un prete, che fa messa e presiede i principali eventi religiosi. Poi ci sono numerose associazioni culturali che durante l’anno organizzano feste per mantenere vive, anche nella diaspora, le tradizioni e la cultura serba. Serbi sì. Ma ormai anche svizzeri: negli ultimi anni è in costante aumento il numero degli immigrati serbi che hanno chiesto e ottenuto la cittadinanza elvetica. Per Vladimir però non basta. «Ci sono ancora troppi serbi che conoscono troppo poco il paese. Soprattutto i più anziani, che hanno la testa e il cuore ancora giù: molti decidono di rimanere qui a trascorrere la pensione, ma continuano a guardare solo la televisione serba e a leggere solo giornali serbi. Il caso dei più giovani è diverso. Sono nati qui, hanno studiato qui, lavorano qui. Sono molto più integrati. Ma comunque non partecipano alla vita politica. Vogliamo motivarli, spingerli alla partecipazione attiva. Vogliamo che votino, che si candidino, che siano eletti. Siamo tanti in Ticino, ma non abbiamo nemmeno un rappresentate in un Consiglio comunale». Ma Serbinfo.ch parla anche agli svizzeri. Nel 2016 Vladimir ha organizzato una campagna di sensibilizzazione per presentare la comunità serba alla popolazione svizzera e «sottolineare i benefici legati alle diversità tra le persone». Durante la settimana contro il razzismo promossa dal Cantone, ha organizzato una bancarella in centro a Lugano e una campagna sui social. Il volantino pubblicato mostrava una grande scritta della particella – ić, che si trova spesso alla fine dei cognomi sla-
vi, accompagnata dalla frase «diversità, un valore svizzero» e l’hashtag #svizzeravariopinta. «Anche noi serbi siamo parte di questa società», spiega Vladimir. «Questa diversità che c’è in Svizzera è un valore». C’è discriminazione, ci sono pregiudizi? «Sicuramente. Ma non solo nei confronti dei serbi. In generale, con tutti gli stranieri. Non dobbiamo far finta che i problemi di discriminazione legati ad un cognome straniero non siano una realtà quotidiana. Gli esempi sono molti: discriminazione sul posto di lavoro, difficoltà a inserirsi nel mondo del lavoro, società sportive, sanità, educazione, formazione professionale, ricerca di un alloggio». Da cinque anni Serbinfo.ch beneficia del sostegno del Servizio per l’integrazione degli stranieri nell’ambito del Programma di integrazione cantonale. «Un riconoscimento dell’importanza del progetto nell’unire i nostri due popoli», dice con soddisfazione Vladimir. Pensi di tornare in Serbia un giorno? «Io sono serbo. Mia moglie è portoghese. Ci siamo trovati qui a Lugano, a metà strada dalla nostra madrepatria. I nostri figli sono nati e cresciuti qui. Loro sono svizzeri. L’italiano è la loro lingua madre. Credo che ormai la Svizzera sia la nostra casa». Conoscersi e capirsi. Perché essere cittadini di una nazione vale più di un passaporto. Bisogna mettersi di impegno, sempre, soprattutto nel paese dell’«unione nella diversità». Affinché – come accaduto tra il prete svizzero e lo scrittore serbo in una giornata piovosa di metà Ottocento – anche oggi Svizzera e Serbia si possano incontrare.
Ci sono storie che bisogna conoscere. Ci sono storie che ci coinvolgono, ci chiamano in causa come cittadini ma soprattutto come persone. Ci sono storie che la società per lungo tempo ha preferito far finta di non conoscere. In questi anni le tristi vicende delle vittime delle misure coercitive a scopo assistenziale e degli internamenti amministrativi, messi in atto in Svizzera fino all’inizio degli anni 80, stanno tornando a galla in un lento e doloroso processo di ricostruzione possibile solo grazie alle testimonianze dirette. Nel suo libro Infanzia rubata Sergio Devecchi ripercorre la propria vicenda di bambino sottratto alla madre perché figlio illegittimo e affidato per diciassette anni agli istituti della Fondazione «Dio aiuta», prima a Pura poi a Zizers. Il libro pubblicato in tedesco con il titolo Heimweh e tradotto ora da Casagrande è un vero e proprio pugno nello stomaco per la rudezza dei trattamenti a cui i bambini negli istituti venivano sottoposti, per lo sfruttamento del lavoro minorile, per la totale mancanza di empatia e di competenze educative di chi avrebbe dovuto prendersi cura di bambini e ragazzi, per la prolungata assenza delle istituzioni. Sopravvissuto, e il termine non è esagerato, all’internamento e agli anni altrettanto difficili immediatamente seguenti Devecchi ha dedicato tutta la sua vita a educare bambini e giovani in diversi istituti svizzeri diventando direttore dell’Istituto minorile «Donazione Dapples»: una vita trascorsa in istituto prima subendolo poi modellandolo e lavorando con abnegazione al cambiamento del sistema dei collocamenti. Domani sera, martedì 21 maggio, alle 20.30 al Teatro Sociale di Bellinzona sarà possibile sentire dalla sua voce la storia che ha taciuto a tutti fino al 2009, l’anno del suo pensionamento. La serata è un momento per ripercorrere anche emotivamente questa vergognosa pagina di storia del nostro Paese. Per le ricostruzioni ufficiali, invece, è stato pubblicato quest’anno il rapporto completo (in più volumi) della Commissione peritale Internamenti amministrativi istituita nel 2014 dal Consiglio federale.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 20 maggio 2019 • N. 21
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Società e Territorio
Gite scolastiche: amicizia e pensiero critico Scuola A lcuni esempi di docenti e allievi che invece della classica passeggiata fanno una scelta diversa Sara Rossi Guidicelli «Viaggiare incontrando le persone del posto è tutto diverso. Noi non abbiamo svolto la “solita” gita scolastica, ma una vera e propria gita culturale. Non siamo andati in Romania “solo per divertirci”, ma ci siamo divertiti molto. E ora con alcuni compagni stiamo pensando di tornarci un’estate in vacanza». Patrick Grossen è studente di informatica alla Spai di Locarno, la Scuola Professionale Artigianale Industriale. La sua scuola è gemellata da due anni con una scuola rumena e nell’ambito di questo gemellaggio avvengono scambi di studenti e di classi. Questi viaggi si inseriscono nella filosofia portata avanti da un gruppo di docenti della Spai che ha creato il progetto «La scuola al centro del villaggio». Il progetto comprende sei-sette conferenze l’anno, la settimana del gusto, un progetto di orto nel quartiere e le giornate multiculturali, dove oltre ad ascoltare, imparare e mettersi in gioco intellettualmente si fanno musica, danza e teatro. Per Lorenzo Scascighini, coordinatore del progetto e docente di italiano al Centro Professionale locarnese, lo scopo è sradicare pregiudizi, preparare a una società multiculturale, infondere entusiasmo e stimolare la curiosità nei ragazzi. «Il viaggio in Romania accompagnati da una classe di coetanei che studiano la stessa materia è il modo migliore per avvicinarsi a una nuova cultura. Abbiamo fatto quello su cui di solito non si concentra il turista: uno scambio umano. Ci siamo mossi con una maniera differente di viaggiare, più partecipativa. La nostra filosofia è quella della scoperta e di uno sviluppo sostenibile nel mondo». Si fanno gemellaggi e si inizia a conoscersi. Poi ci si sposta, ci si incontra, si parla, si stringe amicizia. Questi viaggi vengono anche preparati, con letture, visioni di film, incontri di persone (per esempio quest’anno i ragazzi partiti per la Romania hanno avuto un assaggio di cinema rumeno e hanno chiacchierato in classe con una maestra di Timisoara che lavora in Svizzera come badante e una marionettista che da Sibiu è arrivata alla Scuola Dimitri 30 anni fa). «Quando i miei allievi mi dicono che dopo tali attività si sentono più aperti verso il mondo e che hanno potuto abbattere molti pregiudizi, mi convinco che siamo sulla strada giusta», prosegue Scascighini. «La scuola, con i suoi tempi e i suoi ritmi, e soprattutto grazie alla
Gli studenti di informatica della Spai di Locarno insieme agli studenti di informatica di Cluj, in Romania. (Niccolò Zuccolo).
sua natura non utilitaristica, permette nel corso degli anni questa maturazione. Ci piace pensare al nostro istituto come un laboratorio dove si intravede l’embrione di quello che la società potrebbe essere in futuro». La scuola deve aprire mondi e insegnare la libertà. L’anno scorso, dopo la gita culturale in Romania, un allievo ha scritto così: «Sono partito pieno di pregiudizi e chiuso nelle mie idee. Sono rimasto stupito che, contro ogni mia aspettativa, i rumeni non siano ladri e truffatori che cercano di fregarti a ogni passo. Anzi: ho conosciuto persone fantastiche e pronte a tutto per rendere la mia esperienza la più completa e istruttiva possibile. Bisogna provare l’esperienza sulla propria pelle». Esperienza che definisce così: «Una settimana che ha cambiato me e le mie idee sciogliendo i miei pregiudizi come neve al sole» e conclude dicendo che ora, anche se forse non tutto il mondo è pronto per questa apertura verso l’altro, lui sorride, sorride perché «per quante catene mi possano mettere, per quante porte mi possano chiudere, io sarò sempre libero. Libero di pensare, libero di essere e sicuramente più libero di chi mi rinchiude». Tra l’altro, spiega lo studente Patrick Grossen, questo tipo di viaggio è proficuo anche alla conoscenza delle lingue: «Parlavamo con i nostri coetanei in inglese. Una sera abbiamo soggiornato insieme a loro in un albergo deserto, all’interno di un parco protetto. Abbiamo organizzato una festa
tra noi e ho visto miei compagni che in classe sembrano non spiaccicare una parola d’inglese buttarsi a parlare con le ragazze e con i più simpatici dell’altro gruppo». Gli chiedo se aveva già viaggiato così, incontrando persone: «Sì, quando giocavo a tennis ogni tanto viaggiavamo per partecipare a un torneo, senza l’idea di essere in vacanza, e incontravamo persone. Una volta un contadino in Svizzera interna ci ha dato il latte, ci ha fatto vedere la sua stalla e come faceva il formaggio. Ecco, era un po’ la stessa cosa». Conoscere gli altri, fermarsi e interagire, serbare un ricordo vivo, invece che scattare mille fotografie in corsa. Un altro dei ragazzi partiti per la Romania, Damiano Maillard, aggiunge: «Parlare con le persone, soprattutto ragazzi della nostra età, e vedere come vivevano, come erano le loro scuole, ci ha fatto capire molto di più il Paese che se avessimo visitato tutte le sue chiese e i suoi musei. Loro sono stati molto più accoglienti di quanto abbiamo fatto noi quando sono venuti qui: il primo giorno, ci hanno fatto fare il giro della loro scuola e poi siamo andati in mensa; avevano apparecchiato una tavola piena di piatti tipici, poi ci hanno fatto ascoltare musica folkloristica e abbiamo ballato tutti insieme. La prossima volta vorrei portarli in un grotto e poi a visitare Locarno e i Castelli di Bellinzona». I due pilastri principali che sorreggono tutto l’edificio della «Scuola
al centro del villaggio» sono la multiculturalità e la sostenibilità, definite dai docenti coinvolti nel progetto «le vere e proprie sfide della società di oggi e di domani». «Nel 1600 in Francia, in un’epoca in cui il punto di riferimento etico e morale era il cristianesimo, è nato il detto “mettere la chiesa al centro del villaggio”», ricorda Scascighini. «La società oggi è cambiata, si è secolarizzata e ora, in un ipotetico centro, reale e simbolico, troviamo una banca o uno shopping center. Non sarebbe meglio se invece ci fosse la scuola? Non andremmo forse in una direzione migliore, più rispettosa per gli esseri umani e per l’ambiente? Noi pensiamo proprio di sì». Scascighini e la sua squadra non sono gli unici a pensare differentemente le gite scolastiche. A Giornico alcuni docenti delle scuole medie hanno sviluppato il «progetto Nord Sud», proponendo tra i vari percorsi, una settimana sul piano di Magadino. «Ma sore, perché gli altri vanno a Venezia, Roma, Parigi?». Non era facile da motivare, racconta il docente di italiano Daniele Dell’Agnola, che insieme ai suoi colleghi di scienze, storia, geografia ha coinvolto 51 quindicenni di quarta media. Ma alla fine i ragazzi capivano. E apprezzavano quella settimana di ragionamenti sul consumo responsabile, sui conflitti mondiali per il cibo, il commercio, le materie prime, l’importanza del dialogo con le altre culture. Facevano la spesa i giovani studenti,
cercando di usare i prodotti a chilometro zero, provando a capire come arrivano sulle nostre tavole quelli e quegli altri nelle scatolette. Andavano nei centri commerciali a chiedere se tale o tal altro prodotto poteva essere certificato come «costruito con buone condizioni di lavoro». Era una settimana di studio, ma di quelle che arricchiscono anche i rapporti personali e la voglia di vivere bene, in modo giusto. Durante l’anno continuavano a porsi domande attraverso le varie materie in classe e doposcuola dedicati alla scrittura creativa e al teatro. La scuola media di Viganello da alcuni anni, invece, ha deciso che non si esce più dalla Svizzera. «Anche qui, i ragazzi all’inizio sono delusi», spiega un docente di geografia, Tomaso Vadilonga. «Ma poi alla fine sono sempre felici. Quest’anno a Olivone è andata benissimo. Io credo che si debba giocare al ribasso: guardare, toccare (possibilmente la terra, i sassi o le piante) e farsi raccontare dalle persone del posto. Per tutto il resto (Parigi, Barcellona, Amsterdam) va bene google street map, youtube, facebook, instagram». L’esotico non esiste quasi più. Non si viaggia più per stupirsi di fronte a costumi, architetture, modi di concepire la vita completamente diversi. La globalizzazione ha impoverito le diversità, ma restano ancora gli altri, ovvero le persone che possono rendere il viaggio sempre ricco e ossigenante.
Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Annalisa Strada, Una lunghissima notte, Pelledoca. Da 12 anni Una lunghissima notte, quella di Nilla, sola in casa, senza sapere dove sia finita la mamma, senza corrente, al buio più totale, con l’unico appiglio della funzione torcia del cellulare, ma con la batteria del cellulare in esaurimento di carica. Una notte da pelle d’oca, perfettamente in linea con il nome della giovane casa editrice milanese specializzata in storie da brivido per ragazzi, una notte in cui la giovane Nilla dovrà affrontare eventi drammatici, molto più grandi lei. Anche perché i personaggi di questo thriller appartengono alla sfera familiare e quotidiana della ragazzina (la mamma, la nonna, i vicini di casa, la professoressa di storia, la baby sitter) e quindi immaginare che un colpevole possa annidarsi tra loro è qualcosa di molto perturbante. Perturbante proprio nel senso freudiano di unheimlich, che è quell’angoscia di
avvertire una cosa vicina come familiare e estranea al contempo. I lettori seguiranno Nilla nella sua angoscia crescente, sollecitati dalla prospettiva narrativa, che è dentro lo sguardo e la mente della ragazzina, pur essendo il romanzo in terza persona. Annalisa Strada costruisce in modo interessante la sua narrazione, affidandola per la maggior parte, come si è detto, a una scrittura focalizzata nella protagonista, ma dedicando anche delle brevi
parti del romanzo a «interviste realizzate per la stesura del libro», simulando quindi un’indagine giornalistica basata su testimonianze. Ne esce un mondo apparentemente domestico e rassicurante, ma con crepe inquietanti, com’è tipico del genere thriller. Crepe che lasceranno il segno in Nilla, non senza, tuttavia, una luce di speranza per il suo futuro di giovane adulta. Essere guaritrice degli altri può essere la via per guarire se stessi. Jacopo Olivieri, Ipse dixit. Illustrazioni di David Pintor, Einaudi Ragazzi. Da 9 anni Il sottotitolo è «citazioni famose per fare bella figura», ma a prescindere dalla figura che si vuole fare in pubblico, è indubbio che questo libro può essere interessante, a tutte le età, per comprendere l’origine di tanti modi di dire di uso comune. Scopriremo così ad esempio che «è andato tutto a
monte» si riferisce al Monte di Pietà, dove finivano i beni di coloro che non riuscivano a saldare i debiti; o «keep calm and carry on» si deve a un manifesto del governo britannico ideato allo scoppio della seconda guerra mondiale ma rimasto sconosciuto, negli archivi, fino al 2000, quando, rilanciato in molteplici varianti, divenne iconico e popolarissimo. Alcune fonti risalgono all’antichità, dallo Scevola di «ci metto la mano sul fuoco» all’Euclide
di «come volevasi dimostrare»; altre fanno parte della storia più recente, come «fare un quarantotto», dalle insurrezioni del 1848, o «l’importante è partecipare» di De Coubertin; altre ancora hanno origini più pop, dal mondo del cinema («domani è un altro giorno», da Via col vento, o «che la forza sia con te» di Star Wars, o ancora «ho visto cose che voi umani...» da Blade Runner), del teatro, della canzone. Alcune citazioni sono molto note, altre meno, soprattutto per i giovani lettori. Ma tutte, grazie anche all’umoristico apporto dell’illustratore David Pintor, potranno insegnarci qualcosa. L’ultima citazione, in ordine alfabetico, è «veni vidi vici», e con essa mi riallaccio a un altro recente libro analogo pubblicato da Einaudi Ragazzi: Latin lover, del grande Mino Milani, che qui fa fare ad adulti e ragazzi, antichisti e non, una divertente e istruttiva escursione tra celebri detti e motti latini.
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Società e Territorio Rubriche
L’altropologo di Cesare Poppi Infanzia rinnegata Fra le paure diffuse nei confronti delle minoranze etniche nomadi – e nella fattispecie, per quanto concerne l’Europa, nei confronti di Rom e Sinti – riguarda il rapimento dei bambini. Da questa parte delle Alpi poi, con l’apparentemente irresistibile ascesa del cosiddetto sovranismo populista, non sono mancati negli ultimi anni episodi di vero e proprio panico collettivo. Uno studio sociologico condotto su trenta casi di presunto rapimento di bambini da parte di Rom fra il 1986 ed il 2007 ha appurato come in nessun caso le accuse siano state confermate da parte della polizia o della magistratura. Fake news sempre peraltro appetitose. Il tema dell’infanzia rapita ed allevata da alieni è peraltro un classico del folclore europeo da Romolo e Remo agli Alieni passando per il tema narrativo della sostituzione nella culla di infanti umani con la prole mostruosa di personaggi sovrannaturali di ogni ordine e grado presente nella narrativa orale dalla Scandinavia alla Sicilia. «Da noi non ci sono orfani» mi spiegava
anni fa un anziano Vagla in un villaggio del Nord del Ghana. Ed in effetti, date le condizioni demografiche e le circostanze economiche i bambini sono un bene prezioso oltre che scarso. In presenza di condizioni di produzione nelle quali l’input di forza lavoro umana eccede la tecnologia, i bambini fungono da riserva energetica essenziale alla sopravvivenza del gruppo, specie laddove al basso contenuto tecnologico del processo produttivo corrisponde inevitabilmente un alto tasso di mortalità infantile dovuto a malnutrizione ed epidemie. Qui, altropologicamente parlando, non si tratta tanto di cinismo quanto di una questione di pura e semplice sopravvivenza in circostanze men che favorevoli. Come ben sapevano i coloni che dalla costa orientale degli Stati Uniti si spingevano verso l’interno alla ricerca di nuove terre e nuove opportunità. Dal canto loro, i nativi americani, pressati sempre più verso l’interno spesso in condizioni di deficit demografico dovuto alle guerre con coloni e gruppi
indigeni in competizione territoriale ed esposti a nuove, devastanti epidemie dallo stesso contatto coi coloni bianchi, trovavano nella pratica del rapimento di bambini un mezzo marginale ma efficace per contrastare le perdite. Fu così che il 21 maggio del 1758, Mary Campbell, una bambina di 10 anni, fu rapita da un insediamento di coloni a Penn Creek. I suoi rapitori erano una banda di Lenape, nativi americani conosciuti anche col nome di Delaware. Secondo la tradizione locale, dopo essere stata nascosta in una caverna per un certo periodo, Mary fu adottata dalla famiglia di una capo Lenape che la portò nel suo villaggio vicino alle Cascate del Cuyahoga, nell’Ohio contemporaneo. Il nome del suo padre adottivo era Netawatwees – conosciuto fra i coloni, ironia della sorte, come Newcomer, «l’ultimo arrivato». Newcomer avrebbe persuaso la sua gente ad adottare uno stile di vita stanziale simile a quello dei coloni bianchi, e sarebbe stato dunque il fondatore dell’attuale città di Newcomerstown.
Incidenti come quello che vide protagonista Mary Campbell non erano infrequenti dati i turbolenti scambi fra coloni e nativi. Nel 1764 maturarono le condizioni per una crisi che portò prima a scontri armati peraltro di poco conto e poi a un armistizio che comprese lo scambio di prigionieri. Una lista di 60 nomi di coloni liberati dai Delaware datata 15 novembre 1764 comprende anche Mary Campbell. Secondo fonti orali tramandate in famiglia, Mary non era all’inizio affatto contenta di tornare fra i suoi. Sappiamo che dei 60 «liberati» nello scambio di prigionieri/rapiti almeno 30 tentarono di tornare a vivere coi loro rapitori, con la grande sorpresa, scandalo e indignazione da parte dei coloni che lascio immaginare. La nostalgia di Mary per la sua vita fra i nativi non è affatto un caso raro fra coloro che vissero vicende analoghe. Cynthia Anna Parker fu rapita dai Comanche all’età di 9 anni nel 1836. 24 anni dopo fu riunita alla sua famiglia dopo che i Ranger federali avevano attaccato il suo villaggio
e ucciso suo marito, un guerriero Comanche. Iniziò un prolungato sciopero della fame fra ripetuti tentativi di fuga. Eunice Williams visse una simile vicenda ma riuscì a restare con suo marito – un guerriero Mohawk. Mary Jamison passò la sua vita di donna sposata con un guerriero Delaware, sempre rifiutandosi di «tornare a casa». Hermann Lehmann, rapito a 8 anni, visse come un rispettato guerriero Apache fino a quando, riconosciuto da sua madre all’età di 19 anni all’interno di una riserva, si persuase a malincuore che una vita libera «da Viso Pallido» era preferibile ad una vita in riserva «da Pellerossa». Olive Oatman, i Cinque Fratelli Boyd, Theodor Babb, Adolph Korn e tanti altri... Biografie le quali, ciascuna nella sua specificità, testimoniano dell’importanza dell’identità culturale e sociale acquisita negli anni dell’inculturazione primaria. Al di là del primato dello «ius sanguinis» – il «diritto del sangue» e del suo appeal che troppi, oggi, vorrebbero porre a fondamento del nostro essere umani.
gersi della loro famiglia. Facendo due calcoli, mi sembra di capire che sua figlia aveva 16 anni quando il padre se n’è andato. A quell’età una ragazza si attende che il papà, il primo uomo della vita, confermi la sua femminilità, la convinca della capacità di essere ammirata, prescelta ed amata. Se questo non avviene permane un senso profondo di insicurezza e disvalore. I partner successivi non devono essere stati capaci di colmare quel vuoto, di appagare quella fondamentale mancanza e di conseguenza, anche se erano ottime persone, sono stati lasciati per inadeguatezza. L’attuale convivenza con una collega più giovane, che non costituisce una partner ma un’amica, rappresenta una pausa dopo le esperienze precedenti di fallimento. Credo che sua figlia sia stanca, stanca di illudersi e disilludersi che una convivenza felice tra i due sessi sia possibile. Di fatto non è semplicissimo stare insieme e, se manca il desiderio di un figlio, le forze centrifughe, che sempre ci sono, prevalgono più facilmente su quelle centripete. Capisco il suo sconcerto così
come comprendo la sua tristezza per dover rinunciare ad aver un nipotino. Ma non è detto: a 36 anni, l’età di sua figlia, il ciclo della fecondità femminile è ancora aperto e basta poco per ricredersi e riattivare il progetto materno. Il desiderio di un avere un bambino rimane spesso latente nella mente di una donna ma, quando trova le condizioni favorevoli, si presenta spontaneamente nel sogno, nella fantasia, nel sintomo e reclama attuazione. Sono processi inconsci che non si possono programmare e le pretese dei nonni non fanno altro che ostacolarli. Un figlio si può attendere ma non pretendere e questo vale a maggior ragione per i nipoti. La cosa migliore mi sembra considerare la scelta un po’ inconsueta di sua figlia come una tappa lungo la corsa della vita. In certi momenti si avverte il bisogno di riposare, di prender fiato dopo che si sono spese tutte le proprie risorse, o così sembra. Di fronte a questa esigenza a lei non resta che attendere senza patemi, rassicurata dal fatto che sua figlia è «serena e tranquilla». Tanto più serena e tranquilla se potrà
scorgere nei suoi occhi di mamma «fiducia e speranza». Quando i nostri volti si guardano i «neuroni a specchio» accendono una corrispondenza che diventa condivisione, compartecipazione, compassione ad alta intensità emotiva. In questo momento la vita della figlia ha invaso anche la sua, estraniandola dalle sue esigenze, dai suoi desideri. Si conceda la possibilità di non preoccuparsi per lei, che non ne ha bisogno. Ma di occuparsi di se stessa scegliendo esperienze, interessi, svaghi e piacevolezze che prima non ha potuto assecondare. Nel destino di una madre vi è di accettare che i figli si allontanino diventando diversi da come lei li aveva sognati, amati e allevati. È il compito più difficile ma anche quello che rende davvero liberi entrambi.
oggi al servizio di un enorme settore industriale e commerciale, e neppure di un vero e proprio disamore del pubblico per l’abbigliamento. Tuttavia, fra chi propone la moda e chi l’adotta, il rapporto è profondamente cambiato. Com’è cambiato il concetto stesso di moda che, fino agli anni 60, comportava, di stagione in stagione, un rinnovamento in termini perentori. Bisognava adeguarsi alle regole del momento: pantaloni aderenti o a zampa d’elefante, spalle imbottite o morbide, tacchi a spillo o ballerine, colori pacati o squillanti, gonne lunghe, corte o mini, come aveva deciso Mary Quant. Fu lei, probabilmente, l’ultima stilista in grado d’imporre una tendenza di successo mondiale, in un ambito dove conquistava terreno l’opposto: l’antimoda, figlia del ’68, poi, a sua volta, riassorbita dal consumismo e dalla
globalizzazione. Basti pensare, al suo simbolo: i jeans, ai quali, adesso, sarebbe difficile attribuire un significato ideologico. Anzi, presentandosi con buchi e sfilacciature sembrano addirittura un insulto alla povertà vera. Non di meno, il successo universale del denim, passato da tessuto per tute da lavoro a blazer da sera, come pure quello delle sneaker, ex-scarpe da tennis promosse a calzature da città, multicolori e costose, o ancora degli zainetti magari in pelli pregiate confermano una svolta, nei consumi e nelle mentalità: ispirata alla semplicità, al body building, all’unisex e soprattutto al rifiuto dell’autoritarismo. Nell’era antisistema, avanza anche il «fai da te» applicato all’abbigliamento. Detto fra parentesi, meno dannoso di quello politico, almeno se si guarda oltre frontiera. Fatto sta che lo spirito anticasta ha
colpito gli stilisti, in disarmo sul piano mediatico. A prima vista, la loro perdita di potere è parsa una conquista di autonomia per il grande popolo dei consumatori. Nei cui confronti, adesso, ci s’interroga: veramente liberi di vestirci come ci pare? Ora, proprio i consumatori più vulnerabili, i giovanissimi, se ignorano i diktat di Armani, si affidano alle scelte, via social, imposte dagli influencer, fra cui domina la coppia Ferragni-Fedez e bebè. Come dire, non più dipendenti dal potere di un’élite di professionisti ma follower, seguaci di abili imbonitori. Forse, di male in peggio. Intanto, agli stilisti sono subentrati, in qualità di star su teleschermi e giornali, gli chef, autori di capolavori, ancora più effimeri, raffinati dei modelli haute couture, e persino misteriosi. La complessità di certe ricette è da capogiro.
La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi La scelta inconsueta di una figlia Gentile Signora Vegetti Finzi, mia figlia, 36 anni, donna intelligente, affermata, con un buon lavoro, dopo due lunghe storie con uomini molto in gamba, ambedue lasciati da lei, è andata a convivere con una sua collega un po’ più giovane. Devo dire che faccio fatica a capire questa sua scelta, ma lei mi dice che l’amore non guarda il sesso, che finalmente ha trovato la persona giusta e che ritiene ciò del tutto normale. Non si ritiene lesbica e comunque le piacciono ancora gli uomini, anche se non li stima più così tanto come prima perché li trova per la maggior parte egoisti. Inoltre mi ha riconfermato che non ha nessuna intenzione di avere figli. Io sono divorziata da 20 anni: mio marito mi ha lasciata per un’altra donna. Non so se anche questo abbia contribuito a creare un suo pregiudizio nei confronti del sesso maschile... Anche se vedo che mia figlia è serena e tranquilla, continuo a farmi domande. Le sarei grata se, data la sua grande esperienza e saggezza, riuscisse a farmi capire un po’ meglio quello che le sta accadendo. / Una mamma in ricerca
Cara mamma, siamo tutti «in ricerca» da quando gli stampi della tradizione si sono infranti e ci troviamo dinanzi al compito di procedere nel vuoto, senza le costrizioni ma anche senza le rassicurazioni di un tempo. Come si fa a valutare se stiamo facendo la cosa giusta quando si è perduto il canone della giustizia? Alcuni lo trovano nella religione, altri nella tradizione ma a molti non resta che ascoltare la Legge morale che, secondo Kant, è iscritta nel cuore di ogni uomo. Ricorda la famosa frase dell’etica kantiana: «Il Cielo stellato sopra di me, la Legge morale in me»? Sua figlia ha sicuramente vissuto con dolore le relazioni con gli uomini, a partire dal padre che, abbandonando lei, la madre, ha certamente ferito anche la figlia. Si tende a sottovalutare il coinvolgimento dei figli nella separazioni coniugali ma, dopo aver letto duecento lettere dei figli in occasione della scrittura del libro Quando i genitori si dividono: le emozioni dei figli, sono certa che, a qualsiasi età, vivono con grande sofferenza l’infran-
Informazioni
Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch
Mode e modi di Luciana Caglio Stilisti in disarmo? L’ultimo a fare veramente notizia è stato Karl Lagerfeld: per la precisione, il 19 febbraio scorso, giorno della sua morte. In quell’occasione, i media all’unanimità hanno rievocato, in termini elogiativi, il geniale eclettismo di un maniaco del lavoro. «Disegno come respiro»: così spiegava una vena creativa inesauribile e multiforme, amministrata con rigore, che gli aveva aperto le porte dei musei: dove esponeva opere sue, schizzi, figurini, fotografie, scenografie, tessuti come pure oggetti d’arte da lui collezionati. Un personaggio, insomma, che occupò la scena della moda, della mondanità e della cultura, da autentico protagonista, da «Kaiser» com’era chiamato, con rispettosa ironia. Si tratta di un ruolo che, ormai, sembra spettare alla categoria degli «over», per usare un eufemismo. Persone che, sia
pure in buona forma e con disinvoltura, hanno raggiunto e superato le soglie dei 60, 70, 80 e oltre. Tanto da rappresentare una sorta di comune denominatore, un attributo professionale. Lagerfeld aveva 85 anni. Osservando la schiera dei suoi colleghi, ci si deve arrendere all’evidenza: i più noti e capaci, quelli che hanno lasciato un segno sull’estetica popolare e sul nostro guardaroba appartengono, chiaramente, agli «over». Gli esempi si sprecano, in un elenco che vede in testa Valentino, seguito da Giorgio Armani, Calvin Klein, Dolce e Gabbana, Miuccia Prada, Ralph Lauren, John Galliano e via enumerando gli esponenti di una tradizione che, per questioni anagrafiche, pare destinata a esaurirsi. Manca il ricambio generazionale. Sia chiaro: non si sta parlando della totale scomparsa di un talento creativo,
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Ambiente e Benessere L’atollo Alif Alif alle Maldive L’isola di Thoddoo è un’oasi di pace e tranquillità al riparo dalle principali rotte turistiche
Si festeggia alla Mille Miglia Mercedes ha scelto la leggendaria corsa per sottolineare il 125esimo del suo Motorsport pagina 22
Non solo uva da vino Esiste anche l’uva da essiccare, e quella da tavola, che può anche accompagnare piatti salati pagina 25
pagina 21
Gatto nevrotico? Come capita per il cane, si potrebbe dire che anche i gatti somigliano al loro padrone
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Il valore della terra
Cambiamenti climatici Secondo articolo
dedicato a come adattarsi e mitigare le conseguenze dei cambiamenti climatici sul pianeta Terra
Loris Fedele Ricordo una vecchia pubblicità: non so più cosa promuoveva, ma mostrava una mano rugosa di un contadino che stingeva un pugno di terriccio e, mentre lo faceva, affermava che «la cosa più preziosa della Terra è la terra». Mi colpì e mi diede da pensare. Prestiamo poca attenzione al suolo, forse lo sottovalutiamo. Per noi, fondamentale è l’acqua che beviamo, l’aria che respiriamo, il cibo che mangiamo. Ma in tutto questo, c’entra anche la terra, intesa come suolo. Gran parte del nostro cibo dipende da essa, che è anche uno spazio vitale, che filtra e trattiene l’acqua, immagazzina il carbonio ed è una fonte di biodiversità. Si stima che almeno un quarto della biodiversità mondiale risieda nel sottosuolo e favorisca al tempo stesso la biodiversità in superficie. È importantissimo mantenerlo sano e produttivo. Nel 2015, che fu per l’ONU l’anno internazionale dei suoli, la FAO (Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura) denunciò che un terzo dei terreni mondiali risultava degradato a causa dell’erosione, della compattazione, della salinizzazione, dell’acidificazione, dell’impermeabilizzazione e di svariati inquinamenti dovuti a poco sostenibili gestioni dei terreni stessi. I cambiamenti climatici e la forte urbanizzazione stanno dando un importante contributo al degrado dei suoli, ingigantendo le normali fenomenologie. Se non venissero adottati nuovi approcci per mitigarne gli effetti – sono sempre affermazioni della FAO – con le pressioni umane in continua crescita, l’ammontare dei terreni arabili e produttivi nel 2050 si ridurrà a un quarto di quello che era solo sessant’anni or sono. Uno studio universitario inglese da poco pubblicato su «Nature» ha rincarato la dose dicendo che nessun Paese al mondo oggi soddisfa i bisogni fondamentali dei suoi cittadini mantenendo lo sfruttamento delle risorse a un livello sostenibile a livello ambientale. Come ridurre gli effetti e l’impatto dell’attività umana, parlando di suoli? L’adattamento, perché di questa strategia si tratta, va proposto e sostenuto a seconda dei luoghi. In molti Paesi i
periodi di siccità e il degrado del suolo rappresentano una minaccia per la sicurezza alimentare, innescando una serie di problemi anche sociali. L’aiuto allo sviluppo della Confederazione svizzera è cofondatore di un gruppo di ricerca internazionale (il CGIAR) che si preoccupa di rendere più resilienti gli ecosistemi, con progetti mirati. Nell’Africa meridionale vengono provate varietà di mais in grado di resistere alla siccità, già testate in Messico. La siccità è una condizione di deficit idrico temporaneo, alla quale con misure adeguate ci si può adattare. Se le misure adottate non bastano, oppure se intervengono fenomeni esterni di grande portata che fanno diventare permanente il deficit idrico, allora la siccità diventa aridità. A questo punto i terreni non possono più ospitare organismi viventi, vegetali e animali, con una conseguente perdita di fertilità e capacità produttiva: siamo al processo noto come desertificazione. Purtroppo il 70 per cento circa delle cosiddette terre aride si trova nei Paesi a basso tasso di sviluppo, che quindi vanno aiutati. In questo caso le azioni di intervento possono avere un carattere temporaneo, ma per essere efficaci devono durare nel tempo. Nel Centro America, per esempio, si è rimarcato che il rendimento della produzione del caffè, della varietà Arabica, quella che ha bisogno di maggior quantitativo d’acqua, sta lentamente ma costantemente riducendosi a causa della diminuzione delle precipitazioni indotta dai cambiamenti climatici. È un fenomeno ancora poco evidente, ma inequivocabile. Una grande organizzazione non governativa internazionale, con sede negli USA, sta intervenendo per convincere i coltivatori a non sprecare acqua in più per mantenere a tutti i costi l’Arabica, ma piuttosto di rivolgersi ad altre varietà o addirittura di piantare nuove colture, per esempio alberi da frutto, meno sensibili all’inaridimento del suolo. Si passerebbe così in modo graduale a ecosistemi più sostenibili, evitando di ritrovarsi improvvisamente davanti a situazioni catastrofiche per una popolazione locale che non ha saputo guardare lontano. Certo, in questo caso come in molti altri, la motivazione
Il 70 per cento circa delle cosiddette terre aride si trova nei Paesi a basso tasso di sviluppo. (Pxhere.com )
e la collaborazione della popolazione è indispensabile. Negli scorsi decenni un lodevole programma come il Great Green Wall dell’Unione africana, una fascia verde di alberi da piantare attraverso l’Africa, soprattutto nel Sahel e nella zona subsahariana, ottenne poco successo perché gli indigeni non furono ben coinvolti e motivati. Erano venti gli Stati africani implicati, ma l’idea iniziale si frammentò in un mosaico di interventi poco coordinati. Quel programma, oltre a un adattamento di fronte alla desertificazione, sarebbe stato un contributo alla mitigazione del cambiamento climatico. Non ha dato i risultati sperati. Sempre nel continente nero, anche Stati più sviluppati, come il Sud Africa, sembrano non prestare sufficiente attenzione agli equilibri ecologici. Nell’estate 2018 una prolungata siccità compromise la falda freatica. Per parecchie settimane, Città del Capo si
trovò a dover adottare drastiche misure urgenti. Persino negli alberghi mancava l’acqua e si faceva scendere dai rubinetti un gel per lavarsi le mani, la doccia era bloccata a due minuti con l’obbligo di recuperare l’acqua usata, che sarebbe poi finita per l’irrigazione. Queste condizioni ambientali problematiche sono destinate a ripetersi sempre più spesso e quindi l’uso parsimonioso delle risorse è diventato un imperativo categorico. Sempre in Sud Africa si sta verificando un altro fenomeno preoccupante. Sui terreni già poveri d’acqua si sono insediate delle piante invasive, degli arbusti che hanno colonizzato vaste aree rubando l’acqua alle piante autoctone e facendole morire. Si stanno approntando programmi occupazionali per estirpare i cespugli invasivi. Poi bisognerà pensare a ricostruire degli ecosistemi adatti alle mutate condizioni climatiche. A questo riguardo vi è da dire che in molte parti del mondo si è confrontati con vere e proprie invasioni
di specie aliene. Queste specie sono un importante fattore di perdita della biodiversità e hanno un impatto significativo sul funzionamento degli ecosistemi: quando ci si accorge del danno può essere tardi. Un altro fenomeno che colpisce le terre è quello dell’erosione dei suoli. Nelle zone tropicali costiere, dove i fiumi in piena o i mari scavano il terreno e lo fanno franare, la misura di adattamento suggerita è quella di piantare mangrovie, in grado di trattenere il terreno e di creare un habitat adatto all’allevamento di gamberetti e alla riproduzione di alcuni pesci. Rimboschimento, risanamento delle rive, introduzione di nuove varietà resilienti, adattamento di nuove tecniche agricole: appare chiaro che alcune soluzioni esistono, ma certamente hanno bisogno di parecchi anni per dare risultati. Parallelamente il riscaldamento globale aumenta: bisogna tenerne conto e fare le buone scelte.
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Ambiente e Benessere
Thoddoo, l’isola della frutta
Reportage Situata nell’atollo Alif Alif, è la principale produttrice di frutta e verdura dell’arcipelago delle Maldive A sinistra, un fiore di banano; di fianco, un grappolo di Cloud apple, frutto simile alla melarosa; a destra, cocomeri e meloni gialli. (Simona Dalla Valle)
Simona Dalla Valle Cominciamo con un indovinello: qual è la destinazione ideale per un viaggio all’insegna del relax all’ombra di una palma di fronte a una distesa d’acqua che più azzurra non si può? La risposta è semplice: le Maldive. Ma che cosa conosciamo davvero di queste isole, oltre alle iconiche immagini-cartolina che ci fanno sognare, quelle assolate spiagge bianche? Quello delle Maldive è un arcipelago di oltre 1200 isole (delle quali solo 200 sono abitate) raggruppate in atolli: in lingua maldiviana il sostantivo atholhu indica un’unità amministrativa. Le isole sono diverse tra loro sia per grandezza, sia per struttura: molte sono private e occupate interamente da resort esclusivi, mentre altre sono abitate da pescatori e non sono dominate dal turismo, ma ospitano delle modeste guesthouse, alloggiando nelle quali è possibile osservare la vita quotidiana del luogo e interagire con la comunità. A quest’ultima categoria appartiene l’isola di Thoddoo, un’oasi di pace e tranquillità al riparo dalle principali rotte turistiche. Situata nell’atollo Alif Alif a 67 km a nord della capitale Malé,
raggiungibile in poco più di un’ora di motoscafo, l’isola è lunga soltanto 1,7 km e larga 1,2 km ed è abitata da circa 1400 persone. Osservando l’immagine satellitare di Thoddoo ci si rende conto della sua divisione in tre parti pressoché uguali: un terzo dell’isola è occupato dal villaggio, un terzo è vuoto o ricoperto da vegetazione selvaggia, e infine un terzo è occupato da campi coltivati. Proprio questo ultimo «terzo» è ciò che differenzia Thoddoo dalla totalità delle altre isole. Non molti sanno, infatti, che Thoddoo è la principale isola delle Maldive per la produzione di frutta e verdura, prodotti che saranno poi esportati nel resto dell’arcipelago. La conformazione dell’isola, così come la relativa vicinanza a Malé, sono caratteristiche fondamentali in quanto nessun’altra isola ha a disposizione un tale spazio vuoto adibito alla coltivazione di prodotti agricoli. Questo è un grande vantaggio non solo per gli abitanti di Thoddoo, che si sostentano grazie al commercio di frutta e verdura, ma anche per i visitatori, i quali possono assaporare i prodotti deliziosi di questa terra. Ogni abitazione possiede la propria fattoria, in alcune delle quali vi
sono anche allevamenti di pecore, e i pasti sull’isola sono, infatti, preparati quasi esclusivamente utilizzando prodotti locali privi di additivi. Papaya, due varietà di meloni, cetrioli, melanzane, spezie, insalate verdi e rosse, peperoncini, banane, zucche e cocchi sono i principali prodotti di Thoddoo. Un posto di riguardo tra i prodotti della terra è quello occupato dal cocomero; a Thoddoo, il mese sacro del Ramadan è la stagione ideale per la raccolta di questi frutti. Il cocomero è consumato in grandi quantità durante il Ramadan in quanto aiuta a dissetare e reidratare. Essendo un frutto speciale per l’isola e per le sue tradizioni, la coltivazione del cocomero è effettuata direttamente dagli autoctoni. La coltivazione degli altri prodotti è invece principalmente delegata a lavoratori a contratto provenienti dal Bangladesh,
sempre sotto stretta sorveglianza degli indigeni. Accanto a quasi ogni abitazione si può scorgere una pianta di betel, della quale i nativi masticano le foglie e mangiano le noci, ricche di proprietà digestive e stimolanti. Un’altra specialità di Thoddoo sono i fufu, o meloni invernali, i quali sono spesso utilizzati come verdura nella preparazione di piatti speziati insieme alle foglie di curry, anch’esse coltivate sull’isola. Il terreno è utilizzato senza pause ed è dunque necessario di tanto in tanto impiegare costosi fertilizzanti biologici importati dall’estero per recuperarne la fertilità: questo è uno dei motivi del recente innalzamento dei costi di vendita. Una volta che i prodotti agricoli sono contati e numerati, un motoscafo notturno operante tre volte alla settimana li trasporta al mercato agricolo di
Uno scorcio della bikini beach. (Simona Dalla Valle)
Immersione con le tartarughe marine. (Coco Villa)
Vista aerea della moschea Masjid-ul-Aysha. (Coco Villa)
Malé, dove saranno smistati e inviati ad altre isole e ai resort: quasi il 95 per cento della produzione di Thoddoo è destinato alla vendita. Come nelle altre isole dei pescatori, anche a Thoddoo vi sono alcune regole da rispettare: la religione nazionale è l’Islam, ed è dunque possibile fare il bagno in costume solo nelle bikini beach, le spiagge per i turisti. Altrove, le donne devono coprire spalle, gomiti e ginocchia. A Thoddoo la bikini beach è situata nella parte sud-occidentale dell’isola, da dove si può anche ammirare il tramonto. Il turismo in crescita alle Maldive ha rapidamente visto il potenziale di Thoddoo e oggi vi sono oltre quindici guesthouse. Oltre a esse vi sono due campi da calcio, un ospedale, una scuola e due moschee. Una di esse, la moschea Masjid-ul-Aisha, fu costruita dal proprietario di un resort e ancora oggi è la più grande moschea esistente su un’isola. Tre caffetterie, cinque ristoranti e un paio di botteghe e un supermercato completano la struttura del villaggio. Due centri immersioni offrono numerosi sport acquatici comprendenti sci d’acqua, parasailing e SUP (Stand Up Paddle). Sull’isola ci si sposta a piedi o in motorino, mentre i pochi veicoli esistenti sono adibiti quasi esclusivamente al trasporto di frutta e verdura. Se il panorama dei terreni agricoli di Thoddoo è uno spettacolo mozzafiato, il mondo marino offre altrettante meraviglie. La barriera corallina di Thoddoo attira mante quasi tutto l’anno, ma la stagione migliore va da dicembre ad aprile; il modo migliore per osservarle è fare snorkeling o immersioni. Non lontano dal porto vi è inoltre un punto dove è possibile nuotare insieme alle tartarughe marine. Sull’isola il consumo di alcool è proibito, ma in compenso si possono sorseggiare deliziosi succhi di frutta e smoothies. Più a «chilometro zero» di così…
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 20 maggio 2019 • N. 21
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Ambiente e Benessere
La corsa più leggendaria del mondo Motori Alla Mille Miglia vince chi arriva in fondo con la propria auto d’epoca, e intanto la Mercedes che festeggia
i suoi 125 anni di Motorsport ha presentato il suo supertecnologico Suv elettrico EQC MarioAlberto Cucchi Qual è la «corsa più bella del mondo»? Secondo molti appassionati di motori è la Mille Miglia. Sulle strade della leggendaria competizione anche quest’anno si è corsa la rievocazione storica. Quattrocentotrenta equipaggi in gara e 1801 chilometri percorsi in quattro tappe. Partenza alle prime luci dell’alba del 15 maggio da Brescia per poi passare da Ferrara, Urbino, Fabriano, e infine scendere sino a Roma dove le bellissime auto d’epoca sono arrivate il 16 notte. E da lì, di corsa, si torna a percorrere la Mille Miglia, su di nuovo per l’Italia. Radicofani, Siena, Montecatini, Bologna, Parma sino all’arrivo a Brescia, il sabato 18. Chi ha vinto? Tutti quelli che sono giunti sino in fondo. Non scontato, dato che si partecipa con auto da corsa d’epoca su strade più o meno aperte al traffico. Una gara che lascia dietro di sé una scia di benzina e di olio. Una corsa in cui i piloti arrivano sul traguardo con il viso sporco di fumo. D’altronde, come potrebbe essere diverso guidando, ad esempio, una Bugatti T 23 del 1925? «Il museo viaggiante più grande del mondo», così Enzo Ferrari definì la Mille Miglia. Mercedes-Benz quest’anno l’ha scelta per festeggiare i suoi 125 anni di Motorsport. D’altra parte il successo di oggi e di domani spesso affonda le sue radici nelle glorie del passato che ancora infiammano gli appassionati. Lo sanno bene gli uomini della Casa
Mercedes-Benz ha festeggiato 125 anni di Motorsport alla Mille Miglia.
di Stoccarda che, festeggiando i successi del passato e del presente, contemporaneamente hanno annunciato l’entrata in produzione del supertecnologico Suv elettrico EQC. Prodotto nello stabilimento di Brema, è la prima vettura della Stella che rende la mobilità elettrica adatta all’uso quotidiano. EQC 400 4Matic con i suoi 471 chilometri di autonomia è pioniera della nuova idea di mobilità del Gruppo tedesco. Veicoli connessi, autonomi, condivisi ed elettrici.
CASE è l’acronimo che in inglese identifica questa strategia ovvero Connected, Autonomous, Shared, Electric. L’EQC dispone di un caricatore di bordo raffreddato ad acqua con una potenza di 7,4 kW, idoneo dunque per la ricarica con corrente alternata a casa. Ci vogliono 11 ore. Otto ore per l’80 per cento di carica. Tempi che si riducono moltissimo utilizzando una stazione di ricarica veloce a corrente continua (400 volt e 300 ampère). In questo caso bastano circa 40 minuti
per recuperare l’80 per cento della carica. E una volta che le batterie sono cariche bastano solo 5,1 secondi per scattare da ferma a cento orari. Due motori elettrici, uno per asse, per una potenza complessiva di 300 kW, pari a 408 cavalli. La coppia è di 760 Nm. Numeri da capogiro. «L’EQC non è solo sinonimo di progressive design, dinamiche di guida entusiasmanti e di una gamma ideale all’uso quotidiano – ha dichiarato Britta Seeger, membro del Board of
Management di Daimler AG – è un importante driver di servizi intelligenti che anticipano e soddisfano le esigenze dei nostri clienti. L’utilizzo del veicolo a lungo termine e senza preoccupazioni è il nostro focus». Bello guardare la Mille Miglia, ma poi gli automobilisti di oggi vogliono auto sempre più silenziose e meno inquinanti. Comode, sicure e poco impegnative. Se poi si guidano o si potranno guidare da sole, anche meglio. Il prezzo? Da 84’900 franchi svizzeri. Annuncio pubblicitario
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Ambiente e Benessere
I vini del sud-ovest della Francia
Scelto per voi
Bacco giramondo Prima parte – Dall’antica provincia della Guascogna, sul limite
del dipartimento della Gironda al nord, fino alla frontiera spagnola a sud
Davide Comoli Malgrado la diversità di stili di produzione e vitigni che ci sono nel sud-ovest della Francia, i vini hanno delle caratteristiche in comune. La regione di cui parliamo in questo articolo corrisponde pressappoco all’antica provincia della Guascogna, cioè dal limite del dipartimento della Gironda al nord, fino alla frontiera spagnola a sud. In questa zona, i vigneti sono sovente impiantati lungo il corso dei fiumi che si gettano nell’estuario della Gironda: Bergerac sulla Dordogna, Cahors sulla Lot, Gaillac su Tarn e Fronton, Buzet e Marmandais sulla Garonna. Verso est, a monte del Massiccio Centrale, i vigneti diventano più rari, mentre a sud ai piedi dei Pirenei, le regioni vitivinicole hanno identità più marcate. Descriverle in un solo articolo diventa impresa ardua, ecco perché divideremo in due parti la descrizione di questa regione.
Fin da tempi molto lontani, l’influenza della vicina Bordeaux si è fatta sentire sullo sviluppo viticolo della regione. I vini venivano commercializzati in enormi quantità da parte dei negozianti bordolesi, fino a che nel 1911 la frontiera geografica del vigneto di Bordeaux, fu limitato al solo dipartimento della Gironda. La filossera e l’arresto del commercio con Bordeaux colpirono duramente l’attività vitivinicola del sud-ovest. Oggi, pure con qualche patema d’animo, le nuove generazioni di viticoltori hanno saputo far rinascere la reputazione di questi vini, inserendo nelle vigne, insieme ai vecchi ceppi locali, i vitigni della vicina Bordeaux che contribuiscono a dare qualità. Questa tavolozza di vitigni (unici) danno un carattere particolare ai vini di queste zone. Il Gaillac fornisce vini bianchi secchi e leggeri, naturali ma anche frizzanti; a Monbazillac, bianchi, dolci e mor-
Vigneti di Gaillac. (Pethrus)
bidi; mentre sono rossi corposi quelli di Bergerac; strutturati e possenti quelli invece di Madiran e di Cahors. Il clima di questa regione possiede molti punti in comune con quello della vicina (più famosa) Bordeaux, e infatti la maggior parte degli Haut-Pays, nome dato dagli olandesi nel XVI sec., gode di un clima atlantico che si attenua nelle vicinanze del Massiccio Centrale per l’influenza continentale. La parte sud della regione è dominata dai vini dei Pirenei, di cui fanno parte i vini di Madiran, il Jurançon e l’Irouleguy. Il miglior vigneto è senza dubbio quello di Madiran: il vino prodotto con il vitigno Tannat è diventato infatti una delle stelle dell’enologia francese. Furono i (soliti) romani a impiantare le vigne in queste zone , che nel XII secolo, quando erano sotto la dominazione inglese, conobbero una grande ascesa. I loro vini venivano trasportati sino a Bayonne, su barche lungo il fiume Adour con destinazione nord Europa. Ma come scritto prima, il vero rilancio lo si deve nel 1985 ad Alain Brumont, che riuscì a produrre con il non facile vitigno Tannat, il celeberrimo Château-Montus, assolutamente da provare una volta nella vita, con un cinghialetto in umido. Molti viticoltori della zona seguirono i suoi insegnamenti, uno fra tutti fu Patrick Ducournau (l’inventore della micro-ossigenazione dei vini). Il dinamismo che si è sviluppato a Madiran, ha contagiato anche la zona di Pacherenc-du-Vic-Bilh (le colline Charmantes), questa A.O.C. ingloba quattro villaggi con trecento ettari vitati, in un terreno composto da ghiaia e argilla, ideale per il Cabernet Sauvignon, il Merlot e il Malbec. Uscita dal suo torpore, questa zona ha incominciato a produrre vini bianchi da vendemmia tardiva, notevoli, con le uve del Manseng, Corbù,
Sémillon, Sauvignon e un vitigno che ha incominciato ad apparire anche alle nostre latitudini l’Arrufiac, autoctono della zona: provatelo su un dolce al caffè. Molto vicine, si trovano Les Côtes di Saint-Mont, dove vengono coltivati e vinificati da una cooperativa vini prodotti con vitigni locali, che danno rossi speziati, molto strutturati e vini bianchi aromatici, interessanti. Interessante anche il vino bianco che troviamo nell’A.O.C. Mont de Marsan, prodotto con un vitigno locale chiamato Baroque, che unito al Manseng, ci offre un prodotto complesso e fresco d’acidità. Il piccolo comune di Bellocq conta quasi il 90 per cento delle vigne dell’A.O.C. Béarn (210 ettari), qui si producono dei rossi corposi con il Tannat e dei piacevoli rosati con il Cabernet Franc, ma il solo vino veramente importante è il Jurançon. Le vigne a 300-400 m d’altitudine sono piantate sulle scoscese coste Pirenaiche. Anche in zona, la primavera è piovosa, ma la regione beneficia di autunni abbastanza soleggiati, e con l’aiuto di un vento caldo che scende dai Pirenei, i viticoltori possono attendere sino a novembre e a volte dicembre per vendemmiare. In effetti il Petit Manseng dà il meglio di sé con le vendemmie tardive, e molte volte soprattutto in annate non ottimali anche il Gros Manseng e il Corbù concorrono alla produzione di questo vino equilibrato ed elegante, da abbinare al foie gras d’oca, a una torta di noci o se preferite al celebre formaggio Roquefort. Appena dopo Pau, quasi in cima ai Paesi Baschi, troviamo la piccola (200 ettari) A.O.C. d’Irouleguy confinante con la Spagna, nella piccola vallata della Cize. Qui si producono eleganti vini rossi, profumati rosati e qualche rimarcabile vino bianco.
Dôle des Monts Gilliard
La Dôle è il vino rosso vallesano più conosciuto anche fuori dai confini nazionali. La Dôle des Monts è uno degli emblemi della famiglia Gilliard a Sion, maison fondata nel lontano 1885. Questo vino è frutto del matrimonio tra Pinot Nero e Gamay. Anche se alle volte possono essere aggiunte piccole percentuali di vitigni rossi della regione, resta il fatto che il 51 per cento deve essere assolutamente Pinot Nero. Ogni anno un decreto cantonale fissa la percentuale minima di zuccheri nel mosto. La Dôle è un vino molto armonico; le uve del Pinot Nero contribuiscono al suo temperamento e profumo che ben si equilibra con il gusto fruttato del Gamay. Come la maggior parte dei vini vallesani, la Dôle si può bere giovane, ma guadagna se gustata dopo qualche anno. È un vino ideale per ogni pasto, tuttavia – come consigliava la compianta Marianne Kaltenbach – è ottimo sul famoso Geschnetzeltes alla zurighese e con l’Ossobuco di vitello o maiale, anche se noi l’amiamo con il pollo arrosto. / DC Trovate questo vino nei negozi Vinarte al prezzo di Fr. 16.70. Annuncio pubblicitario
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Ambiente e Benessere
Il frutto della vite Oggi parliamo di un frutto, che più mitico non si può: l’uva. È il frutto della vite, composto da acini riuniti in grappoli. Dotata di una polpa succosa, giallina, zuccherina e lievemente acidula, presenta una buccia giallastra o rossiccia. Per quanto concerne il colore, la nomenclatura segue criteri pratici, distinguendo le uve in bianche, rosate, rosse, nere e grigiastre. Il periodo della raccolta, in Europa, cade nei mesi di settembre e ottobre, anche se oggi l’impiego di teloni e l’import da tutto il mondo, soprattutto dall’America Latina, l’ha resa disponibile tutto l’anno.
Generalmente gustata al naturale, può essere anche un ingrediente per la preparazione di molti piatti, anche salati Secondo la disciplina ampelografica – che studia, identifica e classifica i vitigni – le uve si possono distinguere, in funzione dell’impiego, in uve da vino, da tavola, a duplice attitudine (da vino e da tavola) e da essiccare. L’uva da tavola ha in genere buccia sottile, polpa dolce e compatta e semi piccoli; questo tipo d’uva può contare su un buon numero di varietà qualificate, tra cui: la Regina, provvista di acino grosso e carnoso, di colore dorato, e di polpa dolce, che matura durante la prima metà di agosto; la Pizzutello, bianca o nera e caratterizzata dal chicco allungato, con polpa dolce e croccante; lo Zibibbo, con acino grosso, giallo-verde o ambrato, e gusto dolce e intenso; la Malaga, con acino grande e ovale, colore nero quasi violaceo e polpa soda, dolce e succosa; la Concord, meglio conosciuta come «uva americana», derivante dall’uva selvatica; infine, due varietà cilene: la
rossa Crimson, di gusto agrodolce, e la deliziosa Red Globe, con acini rosso chiaro e scuro. Esistono infine uve senza semi, di grande successo commerciale. Per essere buona, l’uva deve raggiungere il giusto grado di maturazione, accertabile dal colore che risulterà, a seconda dei tipi, giallo carico o rosso scuro. Importante è anche la freschezza, valutabile dalla patina chiara che riveste l’acino (detta pruina) e dalla buona aderenza del chicco al grappolo. Da trattare con delicatezza, conservandola al fresco senza schiacciarla, l’uva deve essere lavata solo al momento dell’uso. Generalmente gustata al naturale, può essere anche un ingrediente per la preparazione di macedonie; inoltre, viene spesso usata, alternando acini dai colori diversi, come elemento decorativo in molte preparazioni, dalle crostate alla piccola pasticceria (senza dimenticare una tradizionale focaccia rustica toscana, tipica del periodo autunnale, cosparsa e guarnita appunto d’uva). Il frutto viene anche conservato sotto alcol, per essere poi direttamente gustato o destinato a preparazioni. Non è comunque insolito l’accostamento con i piatti salati. Maiale, selvaggina da penna, fegato e pesce arrosto sono le associazioni più frequenti: l’uva viene poi anche spesso cotta insieme alle quaglie; si rivela inoltre gustosa accompagnata da un formaggio mediamente stagionato e saporito. Dai suoi semi, detti vinaccioli, si ricava un olio alimentare pregiato: è perfetto per le fritture, ma ha l’unico handicap di avere un costo elevato. Detta «latte vegetale» per il suo valore nutrizionale, contiene zuccheri ben assimilabili dall’organismo; tonico muscolare, agisce sul sistema nervoso e si comporta come un vero e proprio depurativo naturale: non a caso molti, in autunno, decidono di disintossicarsi seguendo la cosiddetta «cura dell’uva», che consiste nel consumare unicamente acini per un paio di giorni.
CSF (come si fa)
Takeaway
Allan Bay
Pxhere.com
Gastronomia Può essere bianca, rosata, rossa, nera e grigiastra, ma resta uva
Oggi, vediamo come si fanno due straclassici piatti dei Paesi Bassi. Il primo piatto è l’Hutspot (nella foto). È un piatto che tradizionalmente si prepara il 3 ottobre per ricordare il giorno in cui Leida fu liberata dal dominio spagnolo nel 1574. La città era sotto assedio e la popolazione stremata e affamata. Scacciato il nemico questi lasciò una quantità di cipolle,
patate, carote oltre a qualche barilotto di aringhe salate. La gente, affamatissima, si arrangiò un pasto con questi ingredienti e la ricetta, col tempo è diventata piatto nazionale, che si può fare sia con le aringhe sia con la carne. Gli ingredienti sono per 4 persone. Pelate 600 g di patate e dividetele a metà. Tagliate a bastoncini 300 g di carote. Mondate e tagliate 300 g di cipolle a pezzi. Mettete le verdure in una casseruola, mettete sopra 600 g di muscolo di manzo e coprite a filo d’acqua. Chiudete con il coperchio e dimenticatevi il tegame su fuoco bassissimo – deve sobbollire per almeno 4 ore. A fine cottura regolate di sale. Togliete la carne e mettetela da parte; scolate le verdure. Frullate le verdure fino a ottenere un purè arancione, mantecatelo con 40 g di burro. Servite il purè con
la carne. La stessa preparazione si può fare con aringhe dissalate. Il secondo piatto è il Kip en bier (pollo alla birra). Per 4 persone. Mondate 12 funghi champignon e tagliateli a fettine. Tritate finemente 6 scalogni e 2 spicchi di aglio. In un’ampia casseruola scaldate 1 filo di olio con 1 noce di burro, unite 1,2 kg di pollo tagliato a pezzi e fateli rosolare per 5’. Aggiungete scalogni, aglio, funghi, 1 pizzico di zucchero, 4 carote spezzettate, timo e 2 foglie di alloro. Sciogliete 2 cucchiai di farina in un bicchiere di acqua e versatela. Versate 1 bottiglietta di birra chiara ma corposa e fate cuocere, coperto, a fuoco medio, per 40’ mescolando di tanto in tanto. Scoperchiate la padella e lasciate cuocere per altri 10’ in modo da ridurre la salsa di circa 1 terzo. Regolate di sale e di pepe e servite con prezzemolo tritato.
Ballando coi gusti Oggi un piatto a base di carne e uva, un altro che è una versione nostrana e semplificata di un pollo alla birra.
Filetto all’uva e mirtilli
Pollo alla birra
Ingredienti per 4 persone: 600 g di filetto di manzo · 80 g di prosciutto crudo in una sola fetta · 400 g di uva bianca matura · 100 g di mirtilli · 1 cucchiaio di zucchero · burro · sale e pepe.
Ingredienti per 4 persone: 1 pollo da 1,2 kg · farina · 2 cipolle · 2 bottigliette di
Frullate i chicchi di uva (tenendone da parte alcuni per guarnire) con i mirtilli, poi passate al setaccio. Lardellate la carne con il prosciutto tagliato a listarelle, legatela con spago da cucina. In una casseruola sciogliete 40 g di burro e fate dorare la carne. Bagnate con il succo di uva e mirtilli, unite lo zucchero, coprite e cuocete per 30’, di più o di meno a seconda di quanto amate cotto il filetto. Poi levate la carne, eliminate lo spago, tagliatela in 4 fette e disponetela su una teglietta con il resto dei chicchi di uva; tenetela in caldo in forno a 100°. Rimettete la pentola sul fuoco, aggiungete qualche fiocchetto di burro e fate andare a fiamma vivace per far addensare la salsa. Regolate di sale e di pepe. Servite la carne affettata e nappata col fondo.
birra chiara · olio di oliva · sale e pepe.
Pulite il pollo, tagliatelo a pezzi, infarinatelo leggermente e fatelo rosolare in una padella con un filo d’olio. Unite le cipolle tagliate a fettine, spolveratele di farina, bagnate con la birra, coprite e portate in ebollizione; abbassate il fuoco e continuate la cottura per circa 45’. Scolate il pollo e tenetelo in caldo. Passate la salsa con un colino fine, fatela addensare se necessario, fino ad averne pochi cucchiai, regolatela di sale e di pepe e servite il pollo nappato di salsa.
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Mondoanimale Allo studio il temperamento dei felini e la loro interazione con gli umani
SUDOKU PE
(N. 18 - “La causa?... Saranno le cataratte!”)
Maria Grazia Buletti La convivenza tra il gatto e l’essere umano è qualcosa di tutt’altro che banale. Questo è quanto affermano quasi tutti quelli che vivono con un felino, concordi sul fatto che i gatti hanno una logica tutta loro. Abbiamo raccolto le più disparate testimonianze di «gattofili» alle prese con il raziocinio felino del proprio beniamino, che possiamo riassumere con il comun denominatore dello stupore e dell’incredulità: «Ci sono momenti in cui non comprendo perché il mio gatto snobba la cucciatiragraffi che gli ho appena comperato e preferisce scorticare i braccioli del divano, dormire nel bidet o nei posti più improbabili e meno confortevoli della casa»; «Il mio non apprezza i bocconcini super prelibati (e costosi) che gli ho comprato e preferisce rubare da mangiare nel mio piatto»; «Con me si comporta in modo tenero e affettuoso, con mia figlia gioca e lotta, assalendole anche le gambe quando attraversa un locale, in momenti persino imprevedibili», e così via. Insomma, il gatto pare un enigma che però non smette di affascinare l’uomo, sebbene qualcuno in verità provi sempre a dare ragione del suo temperamento. Uno fra tutti, il comportamentista animale, autore e umorista di origine austriaca, Stephen Baker, che in vita aveva scritto il libro Come vivere con un gatto nevrotico. Sì, perché secondo l’autore, forte di un non meglio specificato censimento condotto sui gatti, riteneva che circa il cento per cento sono nevrotici. Come se non bastasse, Baker ne sortiva una spiegazione tutta sua: «La causa della
Giochi
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nevrosi felina è piuttosto semplice: siete voi proprietari». 7 8 9 Naturalmente più comico che polemico, il libro è datato 1988 (tradot11 to 10 in italiano da Gaetano Salinas12per Rizzoli) ed è interamente illustrato dai 13 disegni di Jackie Geyer. A 14 chiudere il cerchio della presunta natura nevrotica del gatto,15l’autore rincarava 16 la dose17per l’essere umano: «Dopo queste considerazioni, pensate22ancora 21 23 che nel frigori24 fero ci sia il vostro cibo? Avete ancora l’illusione sul 26 27 di potervi28stravaccare 29 divano senza conseguenze? Credete di poter 32 passare una 33 notte tranquilla 34nel vostro letto? Insomma, pensate davvero 37 che la casa in cui abitate vi appartenga? Beh, disilludetevi: la vostra casa non è vostra, appartiene al vostro gatto che, in un’eccezionale dimostrazione di altruismo, vi concede di occupare». Socievole o nevrotico, pare proprio che il gatto sia lo specchio del padrone. O almeno questa è la conclusione a cui sono giunti gli studiosi della Nottingham Trent University inglese 1 attraver2 so un’analisi effettuata su un campione di oltre 3330 proprietari. 6Essi hanno valutato la personalità dei loro felini sulla base di cinque parametri (piace9 volezza, coscienziosità, estroversione, nevrosi, apertura) incrociati con ele11 menti relativi a comportamenti e stile di vita. Lauren Finka e i suoi colleghi 13 14 15 questo 16 loro studio su hanno pubblicato «Plos One», dimostrando che l’indole 18 19 dell’essere umano, così come ha influsso nell’interazione fra persone, può in20 21 fluenzare il felino domestico. Partendo dalla dimostrazione che la23 personalità umana24può avere un influsso sostanziale sulla natura delle cure fornite 27 alle persone a carico, gli
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Una teoria ritiene che anche i gatti siano lo specchio del padrone. (Pixabay.com) 3
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le, e ciò è la somma delle sue esperienze di vita, dalla situazione e dal contesto in 2 si trova in quel 5 momento». 8 6 cui Tina, il suo gatto, dorme sulla poltrona 7 dalla quale scende per5strusciarsi, ma non si lascia ad esempio prendere in braccio: «Ti fa capire subito che non le piace; un giorno se ne sta per i fatti suoi, il seguente arriva e ti fa centomila fusa. Tutto ciò avviene senza mutazioni ap1 dell’ambiente casalingo 6 e mi fa parenti capire che il temperamento del gatto è molto da1 soggetto 6 individuale 2 4 a soggetto». Besomi non si sente di etichettare i gatti 9 come nevrotici: 5 «Nevrotici ne ho visti ben pochi, e più che accostare il loro carattere alle persone (col cane 3 l’affinità), la mia esperienvedo meglio za mi ha fatto maturare la convinzione 5 il gatto sia semplicemente molto 3 che indipendente e individualista, che conserva il suo carattere e la sua identità, 4 6 5 ed è difficilmente influenzabile dall’essere umano». 1
C N.18 I N Q U MEDIO A R E A R A I S R N S O T T O S A L E N T E N D O L E S T A Q U T A T TStefania T Sargentini I M O O
autori studiano l’analogia nel rappor- a loro volta entrambi questi fattori siato col felino: «Il7collegamento è stato no condizionati alle nostre differenze 8 studiato molto bene in genitori e figli, di personalità», affermano, anche se mentre si sa relativamente poco di que- ancora resta da fare luce sui rapporti 10 sta dinamica applicata ai rapporti fra causa-effetto della relazione tra le cal’essere umano e l’animale». Il gruppo ratteristiche dell’essere umano8 e quelle 12 di scienziati inglesi si è quindi concen- del suo felino. trato sui gatti, nel tentativo di associare Ma allora, i gatti sono dei «mini17 le innumerevoli sfumature di miagonoi», oppure sono creature egocentrilio al carattere dei proprietari. «Molti che, minimaliste e nevrotiche, inna2 proprietari stringono con il proprio morate più del divano che dell’umano animale domestico legami molto pro- con cui condividono la vita? Per entrare 9 da noi osfondi, considerandolo 22 come membro in uno degli esempi concreti della famiglia a tutti gli effetti. È quindi servati, abbiamo chiesto a Emanuele Besomi, presidente della Società pro25 assai probabile che 26 gli animali possa8 no essere influenzati dal modo in cui li tezione animali di Bellinzona (che, fra “Azione” - Maggio 2019 gestiamo e28interagiamo con loro, e che Giochi l’altro,per gestisce un vero e proprio gat6
E N T E I I R D O E Z T O R O
3 1con 2 il cruciverba8 Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi A L A 50 N O S C il O3 una cento delle 2ossa cartepiù regalo franchi sudoku 4D I con (N. 20 - ... Il neonato haecirca di unda adulto?) (N. 17 - Landisce, gloglotta, zilla) 1
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VERTICALI 1. Si raccolgono nei boschi 2. Andati per Cicerone 3. Articolo 4. Imposte indirette 5. Gas raro 6. Fu una regina di Spagna... in pena 7. Vocali in coda 8. Coltivate a scopo ornamentale
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31. Nota musicale 32. Una capitale degli Emirati Arabi Uniti 33. Preposizione articolata 34. Sporge dal cappello 35. Produttori di lana
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V E G A E N O Sudoku R I G I N U Soluzione: T Scoprire i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.
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M I L N.Z19 ADIFFICILE N E O N A 12 O T O C H 1 I 8N A C2 I 15 R I A C U 2T A 7 C I O 17 E U N I T 5O O R E6L 19 20 SUDOKU PER AZIONE - MAGGIO 2019 I R I 3S N A S 4A L 8 E (N. 18 - “La causa?... Saranno le cataratte!”) N. 17 FACILE 23 LA RAC 5AT E 2E VSoluzione A N7 I L P USchema 26 27 8U S O 6G A S ’5 8O3 1R 7 6I 2 4 9D ’ 7 R A N A C U C U B A M S 4 2 7 3 4 6 1 8 2 9 5 7 3 30 E A 2R 3A R E 7 6 3O7 9R2 3E 5 4 8 N6 1A I M R AON N E 5SS S U A O 9 7 8 6 5 9 1 7 4 8 3 6 2 5 33 A 4M5A 1IL O 9SDO 8U E B D 7A6 2 I 4 5 11 S 7 3U 9 8L C A I T I L A E 35 3 5 9 7 8 3 5 9 6 2 7 1 4 1 3 6 E T E S A O V I 2N I E R A R I O O T T O 5 4 2 5 8 6 4 1 9 3 7 6
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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch
tile) di raccontarci di Tina, la gatta di A R N.C17AFACILE famiglia. Riflettendo dapprima sull’eSchema sperienza di gestione del gattile, egli G A S racconta: «Ogni gatto può plasmarsi sugli stimoli che riceve dall’esterno A M 8S e può perciò 6 spaziare da un atteggiamento di totale calma a uno di grande R E 4 E aggressività». 2 7 3 Il nostro interlocutore spiega che, A 7N N 2E secondo 3S Sla suaOesperienza:6«Qualsiasi gatto, anche il più buono, sollecitato in un momento sbagliato L D 6 o posto in5una 9O S 7O situazione 8E particolare può diventare piccola tigre, usando istintivaI T I 4L una A E 5 tutte 1 le armi di cui 9dispone per mente difendersi». L’individualismo caratR I O O T che T distingue O l’essere umano è, 3 5 teriale 9 7 secondo lui, proprio anche della natura E C C A E «C’è I quello N più o meno socievofelina:
(N. 19 - Cinquantasei, otto, sette, quattro)
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ORIZZONTALI 1. Organo linfatico addominale 5. Gas per insegne 9. Il gigante figlio di Poseidone 10. Piegata, curva 12. 101 romani 13. Fanno rima con ma... 14. Appuntita, aguzza 15. Pronome dimostrativo 16. Congiunto... ma non parente 17. Città della Russia sull’Oka 18. Un’opera di Mascagni 19. La voce raffreddata... 21. Sono di fronte ai palcoscenici 23. Stanze 24. Un’agile saltatrice 25. Seme delle carte da gioco 28. Mendicante nella reggia di Odisseo 29. Sorelle... di entrambi i genitori diversi... 30. Ti ...seguono in cantina
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Cruciverba Lo sapevi che, anche se molte poi si saldano tra loro, …? Termina la frase risolvendo il cruciverba e leggendo le lettere evidenziate. (Frase: 2, 7, 2, 5, 5, 4, 3, 2, 2, 6).
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11. Capanna inglese... 6 7 9 quanti 8 1gradi 5 Quant’è alta la torre di Pisa, quanti piani ha, quante3 le 4 sue campane 12. Nove nel Paradiso dantesco (N.14. 19Una - Cinquantasei, otto, sette, quattro) di pendenza: CINQUANTASEI, OTTO, SETTE, QUATTRO. moglie di Garibaldi N.18 MEDIO 15. Contengono l’ e ncefalo 1 2 3 4 5 1 16. Pianeta del sistema solare 2 4 9 1 5 7 3 6 C I 6N Q U E 6 7 8 17. Tentare arditamente 8 6 2 A 1R 4E A 5 8 7 6 2 3 1 4 N T 18. Tutt’altro che 9 mesti 10 9 5 6 1 3 4 9 8 5 7 R A I S E I 20. Sinonimo di dentina 12 11 2 3 R N 1 2 5 8 3 6 4 9 21. Le atlete dell’oro S O I R 13 15 16 22.14Regina di Troia 17 9 R A 5T T O 9 6 4 5 7 2 8 1 S 3A L D O 1826. Cuoca senza gemelle... 19 8 4 6 5 3 7 8 9 1 4 6 2 E D E N T E N D E 27. Il pittore Salvador 20 21 22 6 1 8 5 6 7 4 9 2 3 T A O L E S T A Z 29. Orsù, suvvia, in francese 23 24 25 26 30. Suora inglese 3E 1 8T 4A T T O 7 3 1 2 6 5 9 8 M 2 Q U 32.27Antico prefisso nobiliare 28 4 4 9 2 3 8 1 7 5 O 3T T I M O O R O 33. L’ultima della scala...
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N. 19 DIFFICILE I premi, cinque carte regalo Migros (N.Partecipazione la luzione, 20 - ... Il neonatoonline: ha circainserire cento ossa più di uncorredata adulto?) da nome, cogno- concorsi. Le vie legali sono escluse. del valore di 50 franchi, saranno sor- soluzione del cruciverba o del sudoku me, indirizzo, Non è 7possibile 6 4 un1pagamento 8 3 5 in9con2 1 8 email del partecipan2 1 2 3 4 5 6 7 8 teggiati tra i partecipanti che avranno nell’apposito formulario pubblicato te deve essere premi. M I spedita N E Otanti N dei A 5 2I vincitori 9 1 6 7 3saranno 8 4 5 2 7L Z aA«Redazione 10 sito. 11 12 fatto pervenire la soluzione corretta 9 sulla pagina del Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 avvertiti per iscritto. Partecipazione O T O C 6H I N A 3C esclusivamente 2I 8 5 9 4a lettori 7 1 che 6 entro il venerdì seguente la pubblica- 13Partecipazione postale: la lettera o Lugano».5 riservata 14 15 R I A risiedono C 6I 3in O Svizzera. zione del gioco. la cartolina postale che riporti la so- Non corrispondenza 3 si intratterrà 4A C 8U T sui 1 9 7 2 4 5 8
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«Il 40% di riduzione garantisce il 100% di gusto.» Regola per il grill di Céline P.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 20 maggio 2019 • N. 21
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Politica e Economia L’Ue prima della Brexit Londra con grande imbarazzo si appresta a votare per eleggere i suoi 73 eurodeputati, che dopo la Brexit dovranno andarsene pagina 30
Roma sovrana a Strasburgo Secondo i sondaggi grazie anche ai leghisti italiani la visione sovranista sarà più forte a Strasburgo
Riconferma sospesa La commissione giuridica del Nazionale rinvia a settembre la decisione su un terzo mandato per l’attuale Procuratore generale della Confederazione
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Troppo CO2 importato La Svizzera produce poco C02, il bilancio però cambia se si contano i prodotti provenienti dall’estero
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Alle urne 500 milioni di cittadini europei. (AFP)
Quale futuro dell’Ue?
Elezioni europee Tra il 23 e il 26 maggio nei 28 Stati membri dell’Unione europea si sceglieranno i deputati
all’Europarlamento. Un momento importantissimo per capire in che direzione sta andando l’Europa, in piena ondata sovranista e populista nei singoli paesi Paola Peduzzi La campagna per le elezioni europee finisce come era cominciata, con un’enorme spaccatura ideologica e politica sul futuro del continente. Ora è tempo di sondaggi e di previsioni, di ultimi calcoli e di molti allarmismi: i partiti sovranisti che hanno scelto lo scrutinio europeo per urlare il loro antieuropeismo – contraddizione assoluta ma nota: già nel 2014 andò così – sono destinati ad andare bene, anche se l’unico obiettivo che riusciranno a centrare sarà quello della frammentazione, che poi si traduce in cupa ingovernabilità. Un po’ di numeri: il Partito popolare europeo, la famiglia conservatrice, è data a 170 seggi (il totale è 751), in calo di 46 seggi; il Partito socialista europeo è altrettanto in calo, 144 seggi contro gli attuali 182. La maggioranza – che è una grande coalizione – non c’è, bisogna aggiungere i voti dell’Alde e del francese Emmanuel Macron per raggiungerla: questo è l’assetto finale di cui tutti stanno discutendo. Il mondo sovranista ha trovato nel ministro dell’Interno italiano, Matteo Salvini, leader della Lega, il suo capobranco: è lui che ha costruito l’alleanza più forte dei partiti di estrema destra
e il suo gruppo raddoppierà i seggi attuali del gruppo (più ristretto). La federazione completa con gli altri gruppi non gli è ancora riuscita per ovvi motivi: i nazionalisti faticano ad allearsi, sottolineano le loro convergenze ideologiche e trovano nella retorica anti immigrati il loro collante, ma poi su molte questioni la pensano in modo diverso. La sommatoria di interessi «first» non dà un interesse collettivo, e questo si vede in modo chiaro quando si discute di solidarietà economica di cui l’Italia, prima fra tutti i paesi, potrebbe avere in futuro un certo bisogno, considerando che nelle previsioni economiche della Commissione europea è all’ultimo posto. Ma questi sono dettagli che i sovranisti difficilmente discutono, presi come sono dalla costruzione dell’onda mediatica contro il vecchio sistema europeo, alla quale alcuni partiti, compresa la stessa Lega, hanno contribuito con una dedizione spietata. Il Brexit Party, partito nato da pochi mesi nel Regno Unito su iniziativa del superfalco divorzista Nigel Farage, è il simbolo di questa offensiva: in alcuni sondaggi ha più consensi dei Tory e del Labour insieme e anche se poi non dovesse andare così bene di certo questa campagna elettorale è stata sua. Gli
europei si consolano pensando che, se Farage ottiene quello che vuole, cioè la Brexit, il suo posto all’EuroParlamento sarà il primo a decadere, e nella redistribuzione dei seggi inglesi probabilmente ci sarà solo da guadagnare. L’autolesionismo britannico è ormai leggenda, ma le preoccupazioni più grandi arrivano dalla Francia, dove si combatte la madre delle battaglie di queste elezioni: Emmanuel Macron contro Marine Le Pen. La riedizione dello scontro delle presidenziali del 2017 pareva già vinta, il presidente europeista non soltanto era forte in Francia ma stava anche cercando di replicare il progetto di En Marche in Europa, stravolgendo le famiglie politiche tradizionali. Il progetto è naufragato già molto tempo fa perché l’energia di attrazione che il movimento di Macron aveva esercitato in Francia – il segreto del suo successo – non si è concretata in Europa, dove gli interlocutori sono molti e l’abitudine è alta. Il grande fronte europeista e centrista non si è formato: dal Partito popolare europeo – che sarà il primo partito, secondo i sondaggi, ma con una riduzione dei seggi – non ci sono state fuoriuscite e anzi la famiglia conservatrice si è compattata contro Fidesz, il partito al governo in Ungheria, che è stato sospeso. Il Parti-
to socialista europeo, rinvigorito dalla vittoria di Pedro Sanchez in Spagna e dalla presenza del Labour inglese alle elezioni, non ha avuto scossoni, non ancora per lo meno. Macron ha deciso di federarsi con i liberaldemocratici europei, l’Alde, e insieme hanno dato vita a «Renaissance», rinascita, il nuovo gruppo centrista che farà da base per le eventuali alleanze future: la prima campagna acquisti potrebbe essere in Italia, con il Partito democratico. Ma ogni decisione è rimandata a dopo le elezioni: prima bisogna contarsi. La nuova formazione conta di essere la terza gamba della prossima maggioranza all’EuroParlamento, assieme a conservatori e socialisti e il presidente francese vuole anche spezzare il meccanismo dello Spitzenkandidat, il candidato leader di un partito europeo che diventa presidente di commissione. Su questo fronte, la frattura con Berlino è evidente, più con Annegret KrampKarrenbauer, che è destinata a prendere il posto di Angela Merkel, che con la cancelliera stessa (la quale, cinque anni fa, non era molto contenta degli Spitzenkandidaten), ma ancora non si è consumata la battaglia. Intanto i candidati «vorrei ma non posso» si moltiplicano: il più chiacchierato è il francese Michel Barnier, caponegoziatore della
Brexit, che si è messo a girare capitali con fare ambizioso. Macron deve però vincere le elezioni europee: lui che è il cantore dei valori dell’europeismo, che ha molti progetti per riformare l’Europa e che ha invertito la polarità con la Germania di Angela Merkel senza litigare poi troppo, non può essere sconfitto dal sovranismo. Sarebbe un colpo molto forte per gli europeisti, che restano sì maggioranza nonostante il vociare dei nazionalisti, ma che dovrebbero leccarsi ferite dolorose: la Francia macroniana è l’argine del populismo, se venisse intaccata, foss’anche a elezioni che, come si sa, sono viste più come un esperimento che come una scelta consapevole, sarebbe un segnale invero poco rassicurante. I sondaggi per ora sono da colpo al cuore: pareggio, o la Le Pen davanti, nonostante il suo bilancio in Europa sia molto poco rilevante. Questa è un’altra costante dei partiti sovranisti e la dimostrazione che la loro retorica su «buon senso» e «cambiamento» non ha nulla di concreto: all’EuroParlamento sono noti più per l’assenteismo o per i video postati sui social che per i risultati ottenuti. Hanno rubato tutto ai moderati europeisti, le parole soprattutto, ma poi per governare l’Unione europea servono altre qualità.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 20 maggio 2019 • N. 21
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Politica e Economia
La Brexit può attendere
L’imbarazzo di Londra Theresa May, dopo le mancate intese per raggiungere una maggioranza parlamentare
favorevole, ha annunciato che presenterà un nuovo piano al Parlamento a partire dal 3 giugno, con l’obiettivo di completare il percorso del divorzio dall’Ue entro inizio luglio e prima della pausa estiva
Cristina Marconi C’è un imbarazzo tutto britannico nella maniera in cui il Regno Unito si sta dirigendo verso le elezioni europee. I grandi partiti le stanno ignorando come se questo potesse attutire il peso della sconfitta, ampiamente anticipata dai sondaggi e dai risultati delle elezioni locali del 2 maggio scorso, mentre gli unici a sfregarsi le mani sono i partiti di protesta euroscettici, condannati all’oblio quando la Brexit sembrava un obiettivo ormai raggiunto e resuscitati in grande stile da quasi tre anni di indecisione e paralisi politica. L’appuntamento alle urne, come sempre nel Regno Unito, cadrà di giovedì, il 23 maggio per l’esattezza, e come estremo oltraggio per un Paese che voleva sbattere la porta e andare via, i risultati non verranno resi noti che la sera del 26, quando tutti gli Stati membri dell’Unione europea avranno concluso le operazioni di voto. Non si poteva fare altrimenti: i tentativi della premier Theresa May di vedere approvato un accordo al Parlamento prima del rinnovo dell’assemblea di Strasburgo sono falliti miseramente e anche l’ultima speranza di far passare nelle prossime settimane il testo concordato nel lontano novembre 2018 con Bruxelles non nasce sotto una buona stella. La Lady di Gomma, impermeabile all’esperienza, lo porterà di nuovo in aula nella settimana del 3 giugno. La precisazione del sottosegretario della Brexit Stephen Barclay fa quasi sorridere tanto è lapalissiana – «Se i Comuni non lo approvano, l’accordo di Barnier, in questa forma, è morto» – ma il fatto stesso che ci sia bisogno di ribadirlo mostra quanto la situazione sia ormai deteriorata. L’accordo della May è già passato attraverso tre bocciature, e di quelle sonore: a metà gennaio, a metà marzo e a fine marzo, il 29, proprio il giorno in cui il Paese sarebbe dovuto uscire dalla Ue in base ai calcoli ottimistici del 2017, quando chi osava dire che due anni per districare Londra da Bruxelles fossero troppo pochi veniva accusato di essere un inguaribile pessimista. Solo grazie al rinvio concesso dal Consiglio Ue fino al 31 ottobre è stato possibile per il governo evitare quel «no deal» che nessun politico responsabile, a partire dall’inquilina di Downing Street, auspica. Ma neppure sull’utilizzo da fare di questi tempi supplementari c’è accordo tra le forze politiche e i negoziati tra governo e opposizione sono fermi, come fermo è il dialogo tra le varie fazioni dei principali partiti, col risultato che ancora una volta è la posizione della May ad essere in bilico, con nuovi appelli alle dimissioni, come se lo stallo dipendesse da lei e non da chi non ha saputo proporre e difendere una strada alternativa comprensiva di una soluzione per evitare il confine tra Irlanda e Irlanda del Nord. Ora il Labour sostiene di temere di raggiungere un accordo che un nuovo
La premier Theresa May: ancora una volta la sua posizione è in bilico, con nuovi appelli alle dimissioni. (AFP)
premier, magari l’inviso Boris Johnson, potrebbe ribaltare appena arrivato a Downing Street e chiede rassicurazioni sul fatto che qualunque concessione, di cui fino ad ora non si è vista l’ombra, venga tutelata in futuro. Una questione importante, ma marginale rispetto alla confusione con cui è stato affrontato il negoziato.
Neppure ai remainer piace questo voto europeo, senza garanzie e prospettive di rimanere nella Ue a lungo termine Visto che le elezioni non si possono evitare, l’obiettivo dei principali partiti è quello di scongiurare almeno che i deputati britannici, una volta eletti, debbano sedere a Strasburgo: l’ultima speranza è che l’intero processo di ratifica di un eventuale accordo avvenga prima del 2 luglio, quando si terrà la sessione plenaria inaugurale del nuovo europarlamento. Non sono gli unici a sperarlo, i britannici: anche negli altri Stati membri sono in pochi a volere vedere arrivare gli eletti di un Paese in cui il Brexit Party di Nigel Farage sarebbe vicino al 30% secondo i sondaggi. L’ex leader dello Ukip ha deciso
di dedicare il suo tocco magico populista a creare una nuova realtà politica per prendere le distanze dallo sguaiato dibattito, apertamente razzista e dilettantesco, in corso nel suo ex partito, crollato dal 26% al 3%, e per catturare i voti di una classe media, conservatrice o laburista, che voleva la Brexit e non l’ha ancora avuta. In queste condizioni, neppure ai remainers piace questo voto europeo, senza garanzie e senza prospettive di rimanere nella Ue a lungo termine. Secondo la media dei sondaggi condotti da YouGov, ComRes, Opinium e Survation, questi ultimi sarebbero orientati verso formazioni piccole e dalla linea più decisa rispetto al Labour di Jeremy Corbyn, che prenderebbe comunque il 25%, tantissimo solo se confrontato con lo scarno 14% dei Tories, il risultato più basso mai raggiunto da un partito di governo. Dai sondaggi però il sostegno per Change Uk, il movimento di «ribelli» a favore del remain, è solo dell’8%, mentre è cresciuto quello nei confronti dei LibDem, resuscitati dalla drammatica esperienza di governo con i Tories con un promettente 10%. Se a questi si sommano i voti europeisti dei Verdi, al 7%, e delle forze regionali di Snp/Plaid Cymru, si arriva a un 29% di pro-Ue, contro il 32% di Brexiteer. Dal conteggio mancano Labour e Tories, di cui non si sa ancora da che parte stiano.
Un dettaglio che gli elettori, dopo tre anni di paralisi e mentre proseguono trattative sfiatate, non hanno potuto fare a meno di notare. Con 73 eurodeputati da eleggere, come nella legislatura del 2014-2019, il Regno Unito ha posto un problema logistico enorme per la Ue. La soluzione è che appena fatta la Brexit il numero di seggi a Strasburgo calerà da 751 a 705 e i 27 seggi restanti, lasciati liberi dai britannici, verranno riallocati tra gli altri paesi. Che Londra diventi capofila degli euroscettici e dei populisti del Parlamento Ue non sarebbe una novità: nel 2014 Ukip era già il primo partito, con 24 seggi contro i 20 dei laburisti e i 19 dei Tories, e quest’anno i sondaggi lasciano presagire che i deputati sovranisti di tutti i paesi potrebbero essere il 35% del totale. In particolare, gli esperti sottolineano la possibilità che questa volta ci sia una diversa cooperazione tra le varie anime nazionali di un unico fenomeno, dando vita a quel fronte unitario euroscettico in grado di influenzare in maniera massiccia le politiche Ue e tenendo sotto scacco i partiti centristi, sul modello di quanto avvenuto in passato quando l’ex premier britannico David Cameron cedette alle pressioni e decise di indire un referendum sulla Brexit. Con i risultati che conosciamo. La soluzione, per molti governi
nazionali, potrebbe essere quella di sminuire l’importanza di Bruxelles e Strasburgo in modo da togliere ossigeno ai movimenti di protesta che hanno trovato spazio all’europarlamento e finendo con l’indebolire ancora di più un’Europa al crocevia. La Brexit è un «cautionary tale», una storia da cui trarre un grande insegnamento per i sovranisti e i populisti: realizzare l’uscita dalla Ue è un processo troppo complesso e divisivo, mentre mantenere alta la pressione per ottenere un rientro dei poteri a livello nazionale e una maggiore chiusura può sedurre l’elettorato senza costringere ad anni di negoziati distruttivi sull’uscita. Negoziati che, come insegna Londra, hanno un esito tutt’altro che certo e soprattutto segnano la fine dei partiti euroscettici, privandoli di uno scopo. Fortuna che in questo quadro così cupo e imprevedibile c’è chi, come il presidente del Consiglio Donald Tusk, continua ad essere ottimista e a dire che non solo c’è un 30% di possibilità che la Brexit non avvenga, con un secondo referendum dall’esito probabilmente diverso da quello del 23 giugno del 2016. Per lui «la Brexit ha risvegliato un movimento europeista nel Regno Unito», e su questo si può anche essere d’accordo. Il problema è che ne ha risvegliato, rafforzato e motivato uno euroscettico nel resto del Continente. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 20 maggio 2019 • N. 21
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Politica e Economia
Il paradosso italiano
L’Ue chiama Roma Grazie ai leghisti di Salvini la visione sovranista
sarà più forte a Strasburgo ma non al punto da rivoluzionare le politiche dell’Ue
Alfredo Venturi Secondo Matteo Salvini le imminenti elezioni per il rinnovo del parlamento europeo sono un «referendum fra la vita e la morte», addirittura «fra Europa libera e stato islamico». Luigi Di Maio gli risponde così: «l’ultimo che ha parlato di referendum è stato Renzi, e non gli è andata bene». Il capo dei Cinquestelle allude al voto del dicembre 2016 sulla riforma costituzionale proposta dall’allora presidente del consiglio, di cui cominciò il declino proprio a partire da quella sconfitta. I due alleati-rivali che controllano come vicepresidenti il governo nominalmente guidato da Giuseppe Conte continuano a suonarsele di santa ragione, l’avvicinarsi della scadenza elettorale europea non fa che versare benzina sul fuoco di una polemica ormai continua, che abbraccia le più diverse tematiche.
Le posizioni contrapposte dell’alleanza si accompagnano a costanti contrasti con le autorità europee Eppure Salvini vorrebbe fare pace. Non soltanto perché il barometro dei sondaggi e il recente risultato del voto amministrativo in alcune località siciliane segnalano che si è ormai esaurita la lunga fase di ascesa della Lega a scapito dei Cinquestelle. Ma soprattutto perché il leader leghista, dopo avere lanciato da Milano una nuova formazione parlamentare dei sovranisti, che si chiamerà Alleanza europea dei popoli e delle nazioni e comprenderà l’Alternative für Deutschland e il Rassemblement National di Marine Le Pen oltre a gruppi della destra danese e finlandese, vorrebbe che anche i Cinquestelle fossero della partita. In questo caso l’Alleanza potrebbe presentarsi come primo gruppo parlamentare e rivendicare il diritto di contribuire alla gestione politica dell’Unione. Ma Di Maio non ci sta e attacca il rivale accusandolo di frequentare «partiti che negano l’Olocausto». A Strasburgo il Movimento fa parte del gruppo Europa della libertà e della democrazia diretta, con l’imbarazzante e sia pur transitoria compagnia dell’Ukip di Ni-
gel Farage, che con la Brexit si ritirerà oltre Manica. Il gruppo è stato recentemente abbandonato da Alternative für Deutschland che ha preferito l’Alleanza di Salvini e Le Pen. Un febbrile lavoro è in corso per delineare lo schieramento al quale parteciperanno i deputati grillini, sulla base di un programma volto al superamento dell’alleanza attuale fra popolari, socialisti e liberali. Difficilmente questo schieramento potrà comprendere la Lega, con cui i Cinquestelle hanno in comune soltanto la posizione euroscettica, ma con un tasso di sovranismo decisamente inferiore a quello dell’Alleanza di Salvini. Il problema di scegliere i futuri gruppi europarlamentari è condizionato, per le due formazioni governative italiane, da un fenomeno chiaramente percepibile da qualche tempo. Lega e Cinquestelle, che s’imposero all’insegna della guerra alla «casta» e dell’anti-politica ma anche di un superamento delle categorie di destra e sinistra, hanno cominciato a mostrare una netta tendenza alla polarizzazione. Si registrano il malcontento nella Lega a causa di alcune misure «di sinistra» fortemente volute dagli alleati, come il reddito di cittadinanza, e riserve di segno opposto fra i grillini, di fronte a un Salvini non più considerato antisistema e sempre più propenso a sbandare verso posizioni estremiste. Questa crescente divaricazione dell’alleanza di governo potrebbe renderne difficile la sopravvivenza, e favorire da una parte l’incontro fra Cinquestelle e Partito democratico, dall’altra il ritorno della Lega all’ovile del centro-destra. Se Salvini sogna di guidare il principale gruppo parlamentare europeo con il quale condizionare le formazioni di centro e di destra, anche il segretario del Pd Nicola Zingaretti punta a un risultato elettorale che lo rilanci in Italia e in Europa. Supereremo il venti per cento, dice: che non è molto rispetto al quaranta del precedente voto europeo, ma è tanto in rapporto al costante declino che cominciò a ridimensionare il partito proprio all’indomani di quella consultazione. Zingaretti prevede che questo risultato non soltanto assegnerà al Pd, considerato il calo di consensi che affligge la Spd tedesca, il più numeroso gruppo parlamentare della socialdemocrazia europea, ma creerà le condizioni per nuove elezioni e un nuovo governo a Roma dove, nella sua interpretazione,
«Salvini e Di Maio fanno finta di litigare e intanto bloccano l’Italia». Il paradosso italiano scompiglia le alleanze rendendole incompatibili fra Roma e Strasburgo. Per esempio mentre Salvini si allea in Europa con chi vorrebbe travolgere la coalizione popolar-socialista-liberale che regge la Commissione di Jean-Claude Juncker, in Italia i berlusconiani di Forza Italia, che fanno parte proprio del Partito popolare europeo di Juncker, lo invitano a rientrare nei ranghi abbandonando i Cinquestelle e riesumando a Roma un governo di centro-destra. E mentre il Pd punta a un ruolo chiave nella socialdemocrazia europea, i suoi eurodeputati appoggeranno assai probabilmente una riedizione dell’attuale alleanza: saranno dunque al fianco di Berlusconi che corteggia i leghisti. Lo saranno anche se dovessero confluire, come vorrebbe l’ala moderata del partito, in un gruppo riformista e social-liberale gravitante attorno alla République en marche di Emmanuel Macron. Secondo i sondaggi la coalizione uscente reggerà alla prova del voto, sia pure con qualche deputato in meno: complessivamente dovrebbero perdere voti e seggi i socialisti ma questo calo potrà essere almeno in parte compensato dal previsto successo dei liberali. Dunque lo scenario di un’Europa che restituisca sovranità agli Stati e chiuda le frontiere alle migrazioni sembra destinato a rimanere irrealizzato. Anche perché questo fronte si divide su alcune questioni cruciali, per esempio sul rapporto con la Russia di Vladimir Putin, di cui i sovranisti francesi e italiani si proclamano amici, ma non certo i polacchi del Pis (Diritto e Giustizia), che infatti non sono entrati nell’Alleanza. Inoltre pesa la condizione singolare di Salvini: nel momento stesso in cui chiede che l’Europa si faccia carico del problema dei migranti, si allea proprio con coloro che di accoglienza non vogliono nemmeno sentir parlare. Davanti all’ipotesi della redistribuzione i suoi migliori amici, come l’ungherese Viktor Orbán, alzano barriere, e così i migranti restano nei paesi in cui approdano, primo fra tutti l’Italia nonostante la politica muscolare dei porti chiusi. Anche grazie ai leghisti italiani, segnalano i sondaggi, la visione sovranista sarà più forte a Strasburgo: ma non al punto da rivoluzionare le politiche dell’Unione.
Luigi Di Maio, Giuseppe Conte e Matteo Salvini. (Keystone)
Azione
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni
Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31
Facebook: chiuse 23 pagine italiane Social Potrebbero essere una piccola parte
di un più ampio sistema di propaganda
Christian Rocca Vi ricordate il video dei migranti che a colpi di spranga hanno assaltato e distrutto un’automobile dei Carabinieri italiani, ferendo un maresciallo e facendola franca? E la storia dell’ex presidente della Camera, Laura Boldrini, che si era finta disabile per ottenere un posto migliore a bordo di un aereo di linea? Se non vi viene in mente nessuno dei due episodi è perché le due cose non sono mai accadute: il primo video era una bufala tratta da un film di serie b e la seconda notizia era inventata di sana pianta. Eppure queste due fake news politiche sono circolate liberamente e a lungo su alcuni siti di propaganda a favore della Lega e dei Cinquestelle, i due partiti populisti oggi al governo a Roma, e sono state lette e condivise una decina di milioni di volte. La settimana scorsa, Facebook è stata costretta a chiudere 23 pagine italiane, alcune delle quali avevano pubblicato queste falsità e in gran parte concepite per disinformare scientemente a favore del blocco sovranista e populista. Un paio di settimane prima dell’intervento in Italia, la piattaforma di Mark Zuckerberg ha chiuso sette pagine cospirazioniste americane di grande rilievo e i due casi, uno dietro l’altro, segnano una svolta concettuale da parte del colosso di Zuckerberg sul modo di gestire i contenuti che circolano sui suoi server. In seguito alle accuse di aver facilitato le attività di manipolazione orchestrate dagli agenti del caos, in particolare russi, Facebook ha iniziato progressivamente a cambiare atteggiamento: se fino a poco tempo rifiutava di considerarsi una media company e quindi di ritenersi responsabile dei contenuti che veicola, adesso mette in dubbio quella convinzione da sempre sostenuta senza tentennamenti. Le inchieste americane, le denunce internazionali e gli avvertimenti dei governi e dei servizi occidentali sui tentativi di interferenza del Cremlino anche sulle elezioni europee di fine maggio hanno costretto i vertici di Facebook a cambiare registro, a fermare le pagine più palesemente dedite alla disinformazione e a esercitare finalmente un controllo sui contenuti come spetta a tutti gli editori tradizionali. Per arrivare alla decisione di chiudere le 23 pagine italiane è stato necessario un report dettagliato dell’Organizzazione non governativa Avaaz, che si occupa di campagne ambientaliste e a favore dei diritti umani, ma anche la genuina volontà di limitare al minimo il rischio di manipolazione del consenso, e quindi di ulteriori imbarazzi, in occasione delle europee. Tra le pagine chiuse le più attive erano «Vogliamo il M5S al governo» e «Lega Salvini Premier Santa Tiratura 102’022 copie Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch
Teresa di Riva»: tutte insieme avevano circa due milioni e mezzo di follower, un numero superiore di mezzo milione a quello che si ottiene sommando i «mi piace» delle pagine ufficiali dei due partiti di governo. Secondo il quotidiano «La Stampa», uno dei giornali internazionali più attenti all’influenza esercitata dalle fake news sui processi democratici occidentali, le 23 pagine chiuse da Facebook alla vigilia delle elezioni europee potrebbero essere soltanto una piccola parte di un più ampio sistema di disinformazione e di propaganda molto strutturato e capillare che arriverebbe a 104 pagine e a più di 18 milioni di follower. Facebook sembra non essere più in grado di uscire dal vortice in cui è entrato e ormai non si contano più le imputazioni nei suoi confronti: l’elezione di Trump, la diffusione delle fake news, la manipolazione dell’opinione pubblica, la violazione della privacy, l’elusione delle tasse, gli scandali di Cambridge Analytica. Ma il colpo più imbarazzante per l’immagine di Zuckerberg è stato assestato, in questi ultimi giorni, da Chris Hughes, suo ex compagno di università ad Harvard e multimilionario cofondatore di Facebook. In un articolo ospitato dal «New York Times», e da lì rimbalzato sui media di tutto il mondo, Hughes ha presentato un potente e convincente atto d’accusa contro Facebook, suggerendo che il social network che ha contribuito lui stesso a fondare, e grazie al quale è diventato multimilionario, è diventato così pericoloso da aver reso necessario e urgente un intervento legislativo per smantellarlo, per spezzettarlo, per costringerlo a vendere Whatsapp e Instagram, le altre due piattaforme controllate dal gruppo di Zuckerberg, per impedirgli di esercitare la sua posizione dominante sul mercato e sulla società e per fermare un monopolio senza precedenti, ormai diventato rischioso per la democrazia e letale per la concorrenza e l’innovazione. L’appello di Hughes a intervenire con leggi antitrust e con agenzie di controllo indipendenti in grado di proteggere la privacy dei cittadini non è l’unico contributo politico e intellettuale che va in questa direzione: ci sono anche le proposte di legge della candidata alle presidenziali americane del 2020 Elizabeth Warren e molte altre iniziative che segnalano una nuova e matura consapevolezza diffusa sui rischi che i social procurano alla società. Facebook adesso non può più far finta di niente, è costretto a tenere conto delle critiche e a organizzare una difesa, anche perché la cosa che spaventa di più Zuckerberg è la reputazione pubblica della sua creatura, oggi non più smagliante come un tempo. Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–
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Politica e Economia
Lauber, rielezione sospesa Inchieste FIFA I contatti informali e non protocollati fra il Procuratore generale della Confederazione e il presidente
della FIFA Infantino, e le tensioni con l’autorità di sorveglianza inducono la Commissione giudiziaria a rinviarla Marzio Rigonalli Il futuro del Procuratore generale della Confederazione, Michael Lauber, resta incerto. La sua nomina da parte dell’Assemblea federale per un terzo mandato, dal 2020 al 2023, sarebbe dovuta avvenire, su proposta della Commissione giudiziaria, nel corso del mese di giugno, durante la sessione estiva delle Camere. Alla luce di quanto è successo nelle ultime settimane nell’ambito dell’inchiesta sulla FIFA, in particolare alla luce del procedimento disciplinare in corso per gli incontri informali che Lauber ebbe con Gianni Infantino, il presidente della FIFA, la Commissione giudiziaria ha rinviato a settembre la sua presa di posizione. La Commissione vuole raccogliere ulteriori informazioni e attende di poter disporre almeno di un rapporto intermedio sull’inchiesta disciplinare che verrà affidata ad una persona esterna, prima di esprimersi sulla rielezione del Procuratore generale. Per conoscere il suo destino, Lauber dovrà dunque attendere il mese di settembre. Prima della decisione della commissione giudiziaria, il Procuratore generale era stato ascoltato da una delegazione delle due commissioni di gestione del parlamento. Le commissioni avevano ritenuto che l’idoneità professionale o personale di Michael Lauber e dei suoi sostituti non poteva essere seriamente messa in dubbio. Aggiunsero anche che non c’erano indizi suscettibili di indurre a pensare che Lauber non avesse detto la verità nell’ambito dell’inchiesta in cui è coinvolto. Le due commissioni non fecero nessuna proposta per quanto concerne la rielezione di Lauber. Il loro intervento, però, contribuì a rafforzare la posizione del Procuratore generale. A questo punto conviene ricordare brevemente i fatti. Da anni il Ministero pubblico della Confederazione sta conducendo un’inchiesta su alcune operazioni avvenute in seno alla Federazione internazionale di calcio. L’indagine ruota intorno all’assegnazione dei Mondiali di calcio del 2006 in Germania, del 2018 in Russia e del 2022 in Qatar. Attualmente sono in corso ben
Michael Lauber dovrà attendere fino a settembre per conoscere il suo destino. (Keystone)
25 inchieste penali e la Procura federale collabora con 15 autorità straniere. La FIFA è parte lesa e non è accusata in nessuno dei procedimenti in corso. Michael Lauber ha avuto nella primavera del 2016 due incontri con Gianni Infantino, eletto presidente della FIFA pochi mesi prima. Il primo nell’albergo «Schweizerhof» di Berna, il secondo nel ristorante «Au premier» della stazione ferroviaria di Zurigo. I due incontri non vennero messi a verbale, in violazione di quanto prevede il codice di procedura penale, e non figurano nella documentazione dell’inchiesta. Nel giugno del 2017 avvenne un terzo incontro tra Lauber ed Infantino, a Berna, nell’albergo «Schweizerhof». Oltre a loro due erano presenti anche Rinaldo Arnold, Procuratore generale dell’Alto Vallese ed amico d’infanzia d’Infantino, nonché André Marty, responsabile dell’informazione del Ministero pubblico della Confederazione. Anche quest’incontro non venne verbalizzato. Lauber ammise l’esistenza di questo terzo incontro soltanto dopo le ripetute sollecitazioni dell’Autorità di sorveglianza, ed oggi
afferma di non ricordare più niente. Un’amnesia per lo meno sorprendente. Anche gli altri tre presenti nell’albergo bernese affermano di non ricordare più niente dell’incontro. Michael Lauber sostiene che gli incontri informali non verbalizzati sono necessari per far avanzare le indagini e le rivelazioni di stampa mostrano che anche in altre inchieste la Procura federale vi ha fatto ricorso. È stato così nel procedimento penale per riciclaggio di denaro sporco nei confronti di Gulnora Karimova, figlia dell’ex presidente uzbeco Islom Karimov. È stato pure così con l’inchiesta per corruzione che vede coinvolta la società petrolifera brasiliana Petrobras. Nel procedimento contro la figlia dell’ex presidente uzbeco vi sono stati incontri informali nell’ex repubblica sovietica. Su richiesta dei legali della Karimova, il Tribunale penale federale ha ricusato il responsabile dell’inchiesta, il Procuratore federale Patrick Lamon. Nell’inchiesta sulla società brasiliana, più incontri informali non verbalizzati sarebbero avvenuti sia in Svizzera che in Brasile con persone direttamente od indirettamente coin-
volte nel caso, con l’intento di individuare persone che avrebbero riciclato denaro sporco in Svizzera. Due almeno sono le conseguenze di questa insolita e grave situazione, che da settimane trova ampio spazio nei media. La prima è il deterioramento dei rapporti tra il Procuratore generale della Confederazione e l’Autorità di sorveglianza del suo operato. Posto di fronte all’apertura di un’inchiesta disciplinare nei suoi confronti, chiamata essenzialmente a verificare se sono state commesse violazioni dei doveri d’ufficio, in una conferenza stampa Lauber ha reagito in modo violento, attaccando Hanspeter Uster, il presidente dell’autorità di sorveglianza del Ministero pubblico della Confederazione. Ha assimilato l’apertura di un’inchiesta disciplinare ad un attacco frontale contro la sua persona e contro l’indipendenza del Ministero pubblico, ed ha presentato alle commissioni di gestione del Parlamento una richiesta di verifica dell’operato dell’autorità di sorveglianza. Non ha esitato anche a parlare di crisi istituzionale. Parole forti da parte della principale autorità inqui-
rente federale, alle quali non eravamo abituati. Michael Lauber è in carica dal 2012. Nei primi sette anni, il suo operato non è mai stato messo in discussione dall’allora presidente dell’Autorità di sorveglianza, Niklaus Oberholzer. Per gli anni 2019-2020 è subentrato come presidente l’ex consigliere di Stato zughese Hanspeter Uster, e con lui il controllo esercitato sembra essere diventato più severo. Oggi il rapporto di fiducia tra il Procuratore generale e l’Autorità di sorveglianza è incrinato a tal punto che le due commissioni di gestione hanno deciso di avviare un’ispezione per rimediarvi e per difendere la credibilità delle inchieste penali in corso. La seconda conseguenza è l’arrivo di diverse domande di ricusazione nei confronti del Procuratore generale e dei procuratori federali responsabili dei procedimenti nell’ambito dell’inchiesta sulla FIFA. Queste domande sono state inoltrate all’organo giudiziario competente, il Tribunale penale federale di Bellinzona, dopo la rivelazione dei tre incontri informali avvenuti tra Lauber e Gianni Infantino. Il tempo che sarà necessario per evadere queste domande potrebbe ripercuotersi sulla durata dei procedimenti in corso e sulla prescrizione dei fatti contestati. Lauber non è stato nominato dal Consiglio federale. È stato eletto dall’Assemblea federale e l’elezione gli ha dato forza e credibilità per svolgere il suo mandato, per lottare contro il terrorismo e le svariate forme della criminalità internazionale. La vicenda in cui è coinvolto ed i risultati dell’inchiesta disciplinare potrebbero ripercuotersi negativamente sul suo futuro, ma anche sul Ministero pubblico della Confederazione e, forse, anche sull’Autorità di sorveglianza. Per ora sono soltanto ombre, ma sono già sufficienti per generare un clima pesante nella Berna federale intorno a due importanti autorità. Per rimediarvi e per rispondere alle numerose domande che la vicenda solleva, l’Autorità di sorveglianza dovrà concludere l’inchiesta disciplinare nel più breve tempo possibile e l’Assemblea federale dovrà trarre tutte le conclusioni che s’imporranno. Annuncio pubblicitario
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Idee e acquisti per la settimana
Cosa attira le zanzare?
Un’estate a prova d’insetti Chi ben comincia è a metà dell’opera: per proteggersi dagli inconvenienti dell’estate, bisogna equipaggiarsi. Portate con voi i prodotti che proteggono dagli insetti e dal sole. Una panoramica
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Quali persone attraggono maggiormente le zanzare? Non è il cosiddetto «sangue dolce» che richiama le zanzare, ma piuttosto l’odore specifico e personale della pelle. In tale ambito il composto organico 4-metilfenolo gioca un ruolo cruciale, poiché le persone che ne secernono di più vengono punte con maggiore frequenza.
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Il calore attira le zanzare? La pelle calda attrae le zanzare. Per questo motivo dopo aver praticato sport all’aria aperta è consigliabile fare un tuffo nell’acqua fredda o una doccia. Non andrebbero tuttavia utilizzati prodotti per la doccia molto profumati, poiché attirano gli insetti.
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Idee e acquisti per la settimana
Cosa attira le zanzare?
Un’estate a prova d’insetti Chi ben comincia è a metà dell’opera: per proteggersi dagli inconvenienti dell’estate, bisogna equipaggiarsi. Portate con voi i prodotti che proteggono dagli insetti e dal sole. Una panoramica
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Idee e acquisti per la settimana
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Politica e Economia
Ridurre il CO2 importato dall’estero Cambiamenti climatici L ’industria svizzera produce l’80% del gas a effetto serra e il 95% delle polveri fini
tramite componenti fabbricate all’estero e importate. È necessario un intervento coordinato per raggiungere gli obiettivi promessi a Parigi Ignazio Bonoli Il dibattito sul clima (l’espressione è ormai entrata nell’uso corrente anche in italiano) e anche parecchie manifestazioni di piazza non risparmiano la Svizzera. Manifestazioni le quali sottolineano la necessità di ridurre le emissioni di CO2 (emissioni con effetto serra) anche in Svizzera a livello zero entro il 2030. Obiettivo ambizioso, verso il quale la Svizzera è sulla buona strada, ma che è soggetto a influssi potenti da parte di elementi esterni, tanto in positivo, quanto in negativo. Se guardiamo alle più recenti statistiche a livello mondiale, vediamo che la Svizzera è uno dei paesi più rigorosi nel contenimento di questo fattore inquinante. La statistica che mette a confronto le emissioni di CO2, in chilogrammi rispetto al prodotto interno lordo (PIL), per il 2016, epurato del rispettivo potere d’acquisto, valuta per la Svizzera un coefficiente di 0,083, e la situa dietro (nell’ordine) Francia, Gran Bretagna, Italia, Austria, la media europea, Turchia e Germania. Più lontani si trovano (sempre nell’ordine) Giappone, USA, Polonia, Canada e Australia, quest’ultima con un coefficiente di 0,335. Ma se guardiamo ai principali fattori di questo inquinamento in Svizzera possiamo fare una prima constatazione interessante. La maggior parte delle emissioni di CO2 è data dal traf-
fico e sappiamo che buona parte di questo traffico proviene da altri paesi. In ogni caso, inferiori a quelli di molti altri paesi sono le emissioni delle economie domestiche, quelle dei servizi e dell’agricoltura, quelle destinate alla produzione di corrente elettrica e di calore e anche quelle dell’industria. In quest’ultimo settore, unitamente a quello degli edifici, sono stati fatti molti progressi nella riduzione delle emissioni. I fattori essenziali per questi progressi sono un’efficienza energetica relativamente elevata, nonché un «mix» energetico ideale per il contenimento delle emissioni di CO2, grazie all’energia di produzione nucleare e a quella degli impianti idroelettrici. È chiaro che con la decisione di abbandonare la produzione nucleare sarà molto difficile mantenere gli stessi livelli con emissioni di relativamente poco CO2. Valutando questa situazione sul piano economico globale, si deve ammettere che la forte prevalenza di attività di servizio, molto meno energeticamente intensive rispetto all’industria, favorisce il buon risultato della Svizzera nel confronto internazionale. C’è però anche un problema, provocato da questa situazione favorevole e rilevato anche da uno studio del Politecnico federale di Zurigo. Il prevalere del settore dei servizi costringe in pratica la Svizzera a importare buona parte dei beni industriali, di cui necessita, dall’estero. Se si tiene conto delle emis-
sioni provocate dalla produzione e dal trasporto di questi beni in Svizzera, si può constatare che il grado di emissioni nel nostro paese è superiore alla media mondiale. In sostanza, importando molti prodotti con produzione intensa di CO2 si provoca un aumento di emissioni all’estero, almeno pari a quelle che si risparmiano in patria. Lo studio del Politecnico dimostra appunto che la maggior parte delle emissioni di CO2 nella produzione di manufatti dell’industria delle macchine, elettrica e dei metalli è dovuta alle componenti fabbricate all’estero. In cifre, circa l’80% delle emissioni di gas serra e il 95% di quelle di polveri fini sono prodotti all’estero. Non a caso, quindi, tanto gli esperti dell’energia, quanto quelli dell’economia rendono attenti sul fatto che il maggior potenziale di riduzione di emissioni per l’industria svizzera è all’estero. Per questo, per esempio, Economiesuisse chiede un’azione coordinata a livello internazionale, nella quale venga compreso anche il sistema svizzero e dell’UE del commercio dei certificati di emissione. Esso permette tra l’altro di mettere sullo stesso piano le imprese svizzere e quelle europee. Rimane comunque attuale la necessità di ridurre le emissioni. La Svizzera vi provvede mediante varie leggi e ordinanze concernenti sia il traffico, sia gli immobili, nonché la produzione di energie rinnovabili. Il Politecnico
Importando molti prodotti con produzione intensa di CO2 la Svizzera provoca un aumento delle emissioni all’estero. (Keystone)
di Losanna ha recentemente analizzato gli effetti di questi strumenti ed è giunto alla conclusione che i risultati sulla riduzione delle emissioni sarebbero stati raggiunti anche senza di essi. Il modello di previsione 2030 riduce le emissioni al livello del 1990, nonostante l’aumento di popolazione, la crescita economica e l’abbandono del nucleare. Ciò è dovuto tanto al progresso tecnico, quanto all’aumento dei prezzi di petrolio e gas.
La Svizzera non potrà però raggiungere l’obiettivo promesso a Parigi di una riduzione del 50% (30% in patria) del livello di emissioni del 1990 entro il 2030. E questo nonostante che tra il 1990 e il 2015 le emissioni di CO2 da fonti fossili non rinnovabili siano diminuite del 10,5%. Nello stesso periodo di tempo la popolazione è aumentata del 23% e il prodotto interno lordo del 47%. Uno sforzo ulteriore è necessario, ma non solo in Svizzera. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 20 maggio 2019 • N. 21
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Per l’economia ticinese l’UE è una manna Sappiamo, da sempre, che il mercato interno dell’Unione Europea rappresenta, per l’economia svizzera, il maggior mercato di esportazione. Sappiamo anche che, quando fu creato il mercato europeo unico, ossia all’inizio degli anni Novanta dello scorso secolo, numerosi ricercatori indicarono che lo stesso avrebbe avuto effetti positivi per le economie dei paesi membri. A nessuno era invece venuto in mente finora, di indagare sugli effetti positivi che il mercato interno europeo ha avuto ed ha per paesi che non fanno parte dell’Unione Europea. Questa lacuna è stata ora colmata da uno studio, finanziato dalla fondazione privata tedesca Bertelsmann, nel quale si misurano gli effetti dovuti all’esistenza del mercato interno dell’UE non solo per le economie dei paesi membri ma anche per quelle dei paesi membri dell’OCSE e dell’economie emergenti del gruppo BRIC (Brasile, Russia, India e Cina). Stando ai risultati di questo studio la classifica dei paesi più favoriti dal mercato dell’UE è capeggiata dalla Svizzera, ossia dall’economia di un paese che non
è membro dell’Unione. Non solo, ma anche nella classifica delle regioni maggiormente favorite figurano in testa le regioni svizzere: al primo posto Zurigo e al secondo posto il Ticino. Insomma, il mercato unico europeo genera, economicamente parlando, effetti positivi; di questi, la Svizzera e le sue regioni sembrano profittare in modo maggiore che i paesi membri dell’UE. Siccome è difficile che un’opinione pubblica come quella ticinese che, da anni oramai, riceve solamente messaggi negativi sull’Unione Europea accetti senza obiettare i risultati di questa ricerca, è meglio soffermarsi un momento a commentarli. Il gruppo Bertelsmann è uno dei gruppi più importanti del mondo nel settore dei media. Pubblica libri, riviste, è attivo nel mondo della radio e della televisione, della musica e in quello dei servizi. Dal 1977 i suoi profitti vengono destinati alle attività della sua fondazione. Si tratta di una somma che, annualmente, raggiunge i 100 milioni di euro. Con questi mezzi la fondazione Bertelsmann finanzia borse di studio e progetti di ricerca. I temi della fondazio-
ne sono l’educazione, la democrazia, la società, la salute, l’economia e la cultura. La ricerca sugli effetti economici del mercato interno dell’UE è stata eseguita dal prof. Giordano Mion dell’università del Sussex e dal dottor Dominic Ponattu della fondazione Bertelsmann. I due ricercatori hanno cercato di misurare l’influenza del mercato europeo sulle variazioni del reddito, della produttività e dei prezzi delle economie nazionali e regionali ritenute nello studio. Per far questo si sono serviti di un modello gravitazionale che ha consentito di stimare gli effetti del mercato europeo sulle variabili di cui sopra, simulando l’evoluzione dei flussi commerciali tra i diversi paesi e le diverse regioni. L’analisi dei due ricercatori ha cercato, dapprima, di stabilire in che misura il mercato interno europeo e la riduzione di costi consentita dalla sua realizzazione abbiano influenzato l’evoluzione dei flussi commerciali. In un secondo tempo gli autori della ricerca hanno cercato di stabilire quale potrebbe essere la conseguenza sui costi dei flussi commerciali derivante da una possibile abolizione
del mercato interno europeo. Gli aumenti di costo così calcolati sono stati introdotti in un modello macroeconomico che ha consentito loro di stimare l’effetto che tale variazione avrebbe avuto su reddito, produttività e prezzi. L’abolizione del mercato interno europeo avrebbe come conseguenza un aumento dei costi degli scambi commerciali e di conseguenza una riduzione del reddito e della produttività mentre, nel medesimo tempo, i prezzi aumenterebbero. Queste variazioni, stimate come perdite dovute all’ipotizzata abolizione del mercato interno europeo, vengono nelle conclusioni della ricerca considerate come gli effetti positivi dovuti all’esistenza del mercato in questione. Per meglio intenderci: in questo studio gli effetti positivi del mercato interno europeo sono pari alle perdite che ci sarebbero se il mercato europeo fosse abolito. Per la Svizzera e per il Ticino, le simulazioni dei due autori hanno permesso di stabilire che l’esistenza del mercato interno europeo ha effetti positivi sul reddito e sulla produttività e ha frenato l’aumento dei prezzi. Per non tediare il lettore
con le cifre ci limiteremo a ricordare l’ampiezza dell’aumento annuale del reddito pro-capite. Per la Svizzera, in media, si tratta di un guadagno pari a 2914 franchi, vale a dire al 4,6% del reddito netto pro-capite del nostro paese. Per il Ticino il guadagno in termini di reddito pro-capite è pari addirittura a 3238 franchi, ossia al 7,2% del reddito pro-capite del Cantone. Che la Svizzera e le sue regioni ottengano risultati così positivi lo si deve a due fattori. Il primo è che i ricercatori hanno usato per le stime un modello gravitazionale, nel quale gli effetti sono tanto più positivi quanto il paese o la regione considerata si trovi, geograficamente parlando, al centro dell’Europa. Il secondo è dovuto al fatto che, nella ricerca in questione, i paesi di piccole dimensioni ottengono risultati migliori di quelli più grandi. Il mercato interno europeo è quindi per la Svizzera e le sue regioni un’istituzione dagli effetti benefici anche se il nostro paese non fa parte dell’UE. Se però il mercato interno europeo non esistesse, né il Ticino, né la Svizzera potrebbero profittare di questi benefici.
gruppo all’abbraccio con Nigel Farage, che gli stava palesemente simpatico. Farage non è un estremista di destra. È un nazionalista britannico. Quando il suo partito è finito in mano a fanatici islamofobi, lui l’ha lasciato e se n’è fatto un altro. Il suo idolo è Margaret Thatcher. Sostiene, forse con ragione, che la Iron Lady non avrebbe mai firmato il trattato di Maastricht. Farage non pensava di vincere il referendum sulla Brexit (così come Trump non credeva di essere eletto); infatti sulle prime aveva lasciato la politica, sostenendo di aver ormai raggiunto l’obiettivo. Ora il disastroso fallimento della gestione politica della Brexit l’ha rilanciato. Il caso inglese merita un approfondimento. Stavolta il Regno Unito non avrebbe dovuto neanche votare. I tre anni di incertezza seguiti al referendum del giugno 2016 hanno fatto sì che i sudditi di Sua Maestà siano di nuovo
chiamati alle urne. Ma i pochi che andranno davvero a votare lo faranno soprattutto per punire la classe politica – e quindi i due principali partiti, il conservatore e il laburista – per aver perso tutte le occasioni in questo lungo periodo di impasse. Paradossalmente, le urne europee saranno un appuntamento sentito soprattutto dagli anti-europei (a parte i liberaldemocratici che dovrebbero avere un buon risultato). La speranza di Macron è che non vada allo stesso modo in Francia. Tradizionalmente, il voto per il Parlamento di Bruxelles (i francesi preferiscono chiamarlo il Parlamento di Strasburgo) penalizza il partito del presidente della Repubblica. Non ci si potrebbe stupire quindi che la notte del 26 maggio il Rassemblement National di Marine Le Pen si rivelasse il primo partito di Francia. Va ricordato però che il sistema
elettorale francese prevede il doppio turno. La Le Pen può sperare di salire all’Eliseo solo se nel 2022 al ballottaggio si troverà di fronte un estremista di sinistra. Contro Macron perderebbe di sicuro, sia pure meno nettamente di quanto non abbia perso il 7 maggio 2016. Resta da capire quale sarà nei prossimi mesi il ruolo della Merkel. Da tempo sul viale del tramonto, la Cancelliera conserva la sua autorevolezza perché dietro ha il Paese più solido d’Europa. La sua fermezza nel rifiutare la mano tesa dei sovranisti è da apprezzare. Dovrebbe però capire che l’ascesa dei populisti è dovuto anche alle politiche di austerity imposte da Berlino, che hanno messo in ginocchio in primo luogo l’Italia. Ora anche l’economia tedesca ha rallentato. È il momento degli investimenti e anche della spesa pubblica. La Merkel saprà cambiare passo?
chiesto pensando non tanto al franchetto quotidiano che ogni cittadino deve obbligatoriamente versare alla Ssr – Rsi, ma piuttosto a certi slogan sfoderati per «salvare la Ssr», tipo il «se votate l’iniziativa No Billag dovrete dire addio ad avvenimenti sportivi come la F1 e la Champions League». Lasciamo il «fattore tv» e allarghiamo il discorso al «ménage à trois» che, oltre alla televisione, coinvolge anche sport e sponsoring. A combinare e a tener unita l’unione c’è soprattutto il denaro, ma ovviamente anche i momenti spettacolari dei grandi appuntamenti contribuiscono a trainare gli entusiasmi degli sportivi e le scelte del pubblico televisivo, ad aumentare l’interesse per lo sport e gli avvenimenti legati a titoli olimpici, continentali o mondiali con una dimensione mediatica planetaria. In Europa però, e sempre più anche in altri continenti, è il calcio a garantire al citato «ménage à trois» un crescendo mediatico, economico e sociale che
non accenna a diminuire. Per seguire questo trend negli ultimi anni le partite sono state spettacolarizzate (più tecnologia, più arbitri) e sono state favorite scelte bizzarre (si pensi ai mondiali programmati in Qatar e in pieno inverno) suscitando scandali e sospetti imbarazzanti. Eppure a produrre indignazione e denunce sono praticamente solo le cifre dei costi di gestione dei grandi club, dei trasferimenti dei loro calciatori o degli emolumenti che staccano le «vedettes». Stranamente le critiche non scalfiscono mai i movimenti miliardari delle associazioni mantello (dalla Fifa all’Uefa, dalle varie federazioni nazionali alle grandi manifestazioni mondiali o intercontinentali), dei diritti televisivi e commerciali che ruotano attorno al gioco del calcio. In fin dei conti sono proprio queste dimensioni «intoccabili» a impedire che anche la nostra televisione pubblica (come altre con un’utenza decisamente trascurabile) abbia accesso all’epilogo
di competizioni seguite per mesi e mesi. È il bello del marketing, bellezza! Capita perché il binomio sponsor – pubblicità è in grado di dettare direttive in seno al «ménage à trois» e di favorire una mondializzazione che elimina controlli e confini. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: le federazioni e i club (a parte una decina di «eletti», cioè alla élite del calcio inglese, tedesco e spagnolo, in gran parte governati da magnati arabi e russi) sono sempre più impotenti, prigionieri di bilanci ormai miliardari che possono fallire per un unico risultato negativo sul campo o dall’umore dei proprietari. E visto che Fifa e Uefa spingono per ingigantire ancora di più lo spettacolo (mondiali a 48 nazionali e una Super Champions con i 32 club più ricchi) vien da chiedersi se non sia giunto il momento di intervenire per fissare regole e limiti alle ingerenze del flusso finanziario di questo «ménage» sia nello sport che nelle televisioni.
In&outlet di Aldo Cazzullo Alleanze europee Saranno davvero elezioni europee di portata storica, come dice Angela Merkel. E non soltanto perché per la Cancelliera saranno le ultime, mentre saranno le prime per Emmanuel Macron. Le alleanze europee sono in pieno rimescolamento. L’obiettivo dei sovranisti – quelli italiani sono divisi in due famiglie: in una c’è la Lega, con Marine Le Pen, nell’altra la Meloni, con i polacchi di Jaroslaw Kaczynski – è sostituirsi ai socialisti nell’alleanza con i popolari che ha retto finora l’Unione. Si tratta di un obiettivo impossibile, finché alla guida del Ppe c’è appunto Angela Merkel. Nell’ultima intervista, pubblicata in Italia da «La Stampa», in Francia da «Le Monde», in Spagna da «La Vanguardia» – impressionante la differenza di livello con le interviste dei vicepremier Salvini e Di Maio, impegnati fondamentalmente a lanciare slogan e
schivare le domande – la Cancelliera ribadiva il suo No a qualsiasi accordo con la Lega e con i suoi alleati. È invece possibile che la somma degli eurodeputati popolari e socialisti non dia la maggioranza assoluta. Non a caso Macron, che dei sovranisti è il grande nemico, dialoga con il Pd per allargare il fronte progressista – in grande difficoltà un po’ ovunque, a parte Spagna e Portogallo – ai liberali e ai verdi. Il problema della collocazione europea vale soprattutto per i Cinque Stelle. Di solito i populisti prendono voti soprattutto a sinistra – come Podemos o Jean-Luc Mélenchon – o a destra, come Vox e la Le Pen. I grillini sono invece trasversali. Se vanno con la destra estrema, si scoprono a sinistra; e viceversa. Il tentativo di dialogo con i Gilet gialli è stato un grave errore; Di Maio, che non è uno sprovveduto, l’ha capito. In passato Beppe Grillo aveva portato il suo
Zig-Zag di Ovidio Biffi Diabolico «ménage à trois» La Ssr, e di riflesso anche la Rsi, quasi certamente si troverà esclusa dalle trasmissioni in diretta della finale della Champions League calcistica. Dopo i pasti saltati (il martedì no e il mercoledì sì, il Liverpool no, l’Ajax sì), arriva il digiuno (il termine più appropriato sarebbe... «coitus interruptus»). Proviamo a indovinare da cosa trae origine questa «rinuncia», iniziando dai costi, cioè dalla conferma che in Svizzera, come per tante altre cose importate, dalle auto e dalle medicine sino alle mortadelle e ai giornali, ora c’è la doppia gabella da pagare anche sul calcio estero. Swisscom, che ha acquisito i diritti di trasmettere i maggiori avvenimenti sportivi, cedendoli in parte alla Ssr e diffondendoli via web in «streaming» attraverso il suo Teleclub a pagamento, ha deciso di alzare l’asticella per la finale di CL di Madrid. Così quel che il 1. giugno potremo avere «in chiaro» su schermi e iPad grazie alla Rai, oppure
da qualche tv germanica o francese, verosimilmente non verrà trasmesso con il logo della Ssr o della Rsi. Questo perchè alla Swisscom, dimenticando di essere un’impresa parastatale (ricordiamolo: il 51% delle sue azioni è nelle mani della Confederazione e il 39% è posseduto da istituzioni), hanno deciso di fare più soldi. Qualcosa di simile in Ticino l’avevamo già vissuto con la vicenda dei derby di disco su ghiaccio, aggiudicati a Teleticino dopo un’analoga doppia scrematura tentata da chi ha in mano i diritti televisivi (in quel caso, se non altro, si trattava di un provider privato). La nuova mossa ai danni della Ssr ha tutta l’aria di segnare una sorta di involuzione in campo mediatico, con i gestori di segnali televisivi e di reti digitali decisi a tornare a essere comprimari nel «gran bazar» dell’informazione. Chissà se ora la Ssr contabilizzerà la mancata uscita per la finale di Madrid tra i sospesi attivi o tra le perdite impreviste... Me lo sono
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 20 maggio 2019 • N. 21
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Una questione di fedeltà Recensioni Armando Dadò ripubblica
Il Voltamarsina di Francesco Alberti
Pietro Montorfani Tra il voltagabbana e il voltamarsina corre un confine di Stato. Ragioni misteriose, note forse soltanto ai più agguerriti linguisti, hanno fatto sì che in Italia i traditori voltino, metaforicamente, un semplice soprabito da lavoro, mentre nella Svizzera italiana si rovesci addirittura un frac, quella marsina imposta dall’omonimo conte belga (Jean de Marsin) alle truppe stanziate in Fiandra nel XVII secolo. Quale ne sia l’origine, è certo che in Ticino «voltamarsina» è divenuto espressione proverbiale soprattutto dopo la pubblicazione del romanzo di don Francesco Alberti (1882-1939), apparso nel 1932 e trasformato nei primi anni Novanta in un fortunato sceneggiato televisivo. Il sacerdote nato in Uruguay ma originario del Malcantone, fratello della pedagogista Maria Boschetti, è una delle riscoperte recenti portate alla luce dal progetto «Lugano Città Aperta» e dalla creazione del Giardino dei Giusti di Lugano, come correttamente ricorda Armando Dadò nel colophon di questa nuova edizione, uscita per le cure di Flavio Catenazzi e con una prefazione di Davide Adamoli. All’Alberti giornalista e direttore del «Popolo e Libertà», all’antifascista della prima ora, all’uomo di radio e al curato di campagna andrebbe aggiunto infatti ‒ è l’invito dei curatori ‒ il tassello non meno importante del romanziere, un capitolo aperto dal Voltamarsina e chiuso
solo pochi anni più tardi, a ridosso della morte, con Diavolo di una ragazza! (1939), che pure meriterebbe rinnovata attenzione. «Voltamarsina, mai!». Il refrain delle prime pagine del libro, incentrate su questioni politiche lontane anni luce dalle presenti, guarda a un’epoca in cui il Canton Ticino era ancora saldamente diviso in due schieramenti distinti, conservatore e liberale. A cavallo tra Otto e Novecento il terzo polo, socialista, era ancora di là da venire e tutte le battaglie si scioglievano di fatto in favore dell’uno o dell’altro fronte, tra clericali e anticlericali (con leggerissime sfumature), non senza gli accadimenti estremi di schioppettate notturne e persino, talvolta, con morti e feriti. La politica accende anche i protagonisti del romanzo, lo stradino Tomaso e il rivale «Spuzzetta», ma non ne determina la vera natura, che non si esaurisce nel mero scontro ideologico ed è più vicina semmai a quella dei personaggi di un romanzo d’appendice: questa la chiave di accesso all’opera di Alberti, uscita a puntate sul «Popolo e Libertà» e anche per questo concepita per catturare il lettore con continui colpi di scena e repentini cambiamenti di prospettiva. Confrontato ad altri romanzi del tempo, dentro e fuori i confini della Svizzera italiana, Il Voltamarsina conserva infatti una freschezza e una piacevolezza di lettura che va riconosciuta tra i meriti del suo autore, capace di alternare una lingua
Dalla copertina del libro, Silvestro Lega (1826-1895), Ritratto dello scultore Rinaldo Carnielo, 1878. (© Galleria Rinaldo Carnielo, Firenze)
alta, a tratti persino desueta («lenocinio», «giulebbe», «adontarsi»), e affondi antropologici favoriti dall’utilizzo di un lessico dialettale («Donca cuntèe su…», «A sem già scia», «L’è rivò cumè un cucumer e u va via cumè un Toni»), accolto in toto nel testo e spiegato in nota quel tanto che basta per restituire al lettore il sapore di un’epoca passata, tra «i dolci colli del dolcissimo Malcantone». Nella sua introduzione, utile a ricostruire il contesto in cui il libro si colloca, Flavio Catenazzi rispolvera pubblicazioni coeve ad opera di sacerdoti che seppero fare un uso intelligente, con risultati a volte anche pregevoli, del linguaggio letterario a fini pastorali e didattici, un ambito al quale anche l’Alberti appartiene. Il modello di riferimento erano naturalmente I promessi sposi, al punto che nel libro si potrebbe seguire con facilità una pista manzoniana (Catenazzi segnala alcune tappe) fatta di stilemi e di strutture
narrative appresi alla scuola del grande scrittore lombardo, specie quando si tratti di gestire le azioni o le parole dei personaggi. Su questa linea, si sarebbe tentati di fare un passo ulteriore e ascrivere le ambizioni di Alberti a un manzonismo «alla seconda», fatto non tanto (non solo) di prelievi mirati, o di schemi consolidati da cui trarre ispirazione, ma anche di allusioni sottili rivolte a un lettore che si suppone ben preparato sulla storia di Renzo e Lucia: «Don Roberto Ferroni, parroco di Collinazza, se ne stava nel pancone, vicino al camino, rileggendo le Egloghe, secondo le vecchie tradizioni classiche non spente ancora, in quei passati tempi. Ma don Roberto non aveva bisogno di chiedersi: “Chi era costui?”…». Man mano che la storia si allontana dal misfatto iniziale, cioè la colpa dell’urna e il nome infamante di «voltamarsina», il cuore del problema si sposta verso una più generica questione di fedeltà: alla religione degli avi, alla casa,
alla patria (memorabili le pagine sull’esercito svizzero: don Alberti fu anche un apprezzato cappellano militare), persino a un’idea di amore che si sarebbe tentati di definire tale, non fosse per quel pudore consueto, indicibile, così tipico della tradizione paesana. Resta da dire del personaggio femminile, una Rosa non priva di spine che deve meno alla Lucia di Manzoni e più alla Luisa di Fogazzaro, anarchica e ribelle come quella, forse meno assoluta, ugualmente ferita nell’animo (anche a lei morirà una figlia). Alla fine, rientrati i rivoli della storia in un matrimonio a lungo desiderato, il voltamarsina Tomaso è l’unico veramente capace di grandi fedeltà, misurate su una scala diversa da quella un po’ arida delle antiche contabilità di partito. Bibliografia
Francesco Alberti, Il Voltamarsina, Armando Dadò 2019, 278 pagine.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 20 maggio 2019 • N. 21
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Cultura e Spettacoli
Sono tempi interessanti Biennale / 1 R alph Rugoff firma l’attuale Biennale di Venezia
Gianluigi Bellei Organizzare un’esposizione degna di questo nome richiede, come precondizione, un’idea sensata di quello che si vuole fare. Mettere delle opere a casaccio una di fianco all’altra non è mai la soluzione migliore. Molte volte si fa. Ma il risultato non è nemmeno uno spezzatino, che almeno ha un sapore di fondo uniforme. Le esposizioni maggiormente impegnative, anche per via degli spazi enormi e dilatati, come la Biennale di Venezia richiedono uno sforzo teorico non indifferente. Spesso funziona. In altri casi si preferisce esporre tutto dAPERTuttO, incanalarsi verso personali visioni alchemiche o, magari, territoriali. Biennio dopo biennio, nonostante l’avvicendamento dei curatori, alla Biennale si è assistito a una parata di soliti nomi noti, raggranellati prevalentemente nelle gallerie economicamente più potenti, in una miscellanea che vede affiancati video, performance, sculture e qualche pittura. A parte alcune edizioni, come quella curata dal nigeriano Okwui Enwezor, che qui ricordiamo perché morto a soli 55 anni il 15 marzo di quest’anno. Per allestire l’odierna Biennale è stato chiamato Ralph Rugoff, direttore della Hayward Gallery di Londra dal 2006, il quale l’ha intitolata May You Live In Interesting Times (più o meno «Che tu possa vivere in tempi interessanti»). Che questi decenni siano interessanti non sembra molto verosimile. A meno che non si sia sovranisti o neoconservatori. Questo in generale e dappertutto, appunto. Davanti ai cancelli dei Giardini ho incontrato, come sempre, Carmine Caputo di Roccanova, una vecchia conoscenza, che si presenta con un cartello legato al collo. Questa volta aveva scritto in inglese «Cerco moglie». Dopo i saluti di rito mi investe con tutte le «nefandezze» del territorio (stupri, assassinii, immigrati, disoccupazione…). Naturalmente ogni Paese ha i suoi problemi (muri, guerriglia urbana, antisemitismo, ebola…) dalla Francia alla Germania, dagli Stati Uniti all’Ungheria, dalla Libia alla Corea del Nord per finire in Gran Bretagna, con
la Brexit. Cosa ci sia di interessante in questo bailamme lo diranno probabilmente gli storici. L’arte viaggia su altri binari e allora scopriamo quelli di Rugoff. Secondo lui gli artisti sollevano domande più che dare risposte tramite approcci complessi ed eterogenei. L’arte non è un messaggio, ma segna dei punti di partenza e non delle conclusioni. Facendo sue le parole di un artista in mostra, Ian Cheng, Rugoff sostiene che «il vero scopo dell’arte, forse, dovrebbe essere lottare con il rapporto tra significato e assenza di significato». Citando – scusate ma il testo in catalogo è pieno di citazioni – il maître à penser radicale Cornelius Castoriadis (che piace tanto agli anarchici e fa radical-chic) osserva che l’arte «è una finestra aperta sul caos… La sostanza di tutta la vera arte prevede che, dietro ogni forma che essa crea, faccia capolino lo sconfinato caos dell’essere». Insomma, l’odierna Biennale si occupa di doppi, identità alternative e realtà parallele. Alla fine vivere in tempi interessanti significa vivere nello spazio espositivo, utilizzarne l’esperienza che ne deriva in un secondo momento e quindi avere la possibilità di modificare la propria «visione del mondo e la posizione che occupa al suo interno». Perché siamo persone con una vivace curiosità che ci fa porre sempre nuove domande. Se questo è il compito dell’arte ben venga. Purtroppo la quasi totalità delle persone, e di chi governa, tende solo a dare delle risposte: univoche e unilaterali. Senza mai porsi un dubbio e senza ascoltare l’altro. Ma veniamo alla mostra vera e propria. Prima di tutto una chicca: il Leone d’oro alla carriera è stato assegnato all’americano Jimmie Durham per le sue «opere critiche, divertenti e profondamente umanistiche». Faccio notare che oltre ad essere esposte in importanti musei, le sue opere sono state presentate anche al Migros Museum für Gegenwartskunst di Zurigo nel 2017. Quello che salta subito all’occhio di questa edizione è senz’altro il fatto che il numero degli artisti è notevol-
Nicole Eisenman, Morning Studio, 2014-2017. (Andrea Avezzù, La Biennale Venezia)
mente ridotto rispetto a quelle passate. «Solo» 79. La novità è che disponendo di così tanto spazio i 79 artisti sono presenti sia nel Padiglione centrale ai Giardini sia all’Arsenale. Due presentazioni distinte chiamate Proposta A e Proposta B. Difficile, se non dotati di ottima memoria, ricordarsi chi ha fatto cosa nell’uno e nell’altro spazio. Un buon consiglio è acquistare la guida breve prima della visita. Un altro aspetto di rilievo è che, contrariamente al passato, sono presenti molte opere pittoriche. Non certo di qualità esaltante. Parecchi artisti provengono da paesi del terzo mondo e quindi è ben rappresentata la diversa produzione internazionale. Infine, ma solo infine, si scopre che la maggior parte di loro sono donne. Lo hanno sottolineato tutti, ma facendolo si incorre in una doppia discriminazione. L’ampio spazio dell’Arsenale è stato poi chiuso da pannelli creando delle sale singole e facendo perdere di fascino la lunga e caratteristica navata.
Dovendo segnalare qualche lavoro citiamo quello di Shilpa Gupta di Mumbai. La sua installazione sonora è composta da una serie di voci registrate in diversi idiomi – fra i quali l’arabo, l’hindi, il russo e l’azero – che leggono versi di cento poeti incarcerati per il loro lavoro o per le loro posizioni politiche. Sotto il microfono che pende dal soffitto troviamo dei fogli con un verso stampato infilato in un alto supporto di ferro. Cameron Jamie di Los Angeles presenta una serie di maschere intagliate, ispirate da personaggi folcloristici di Perchten, pieni di corna e ciuffi di pelo di animali: spaventose e divertenti. Uno dei lavori sicuramente più validi è quello di Liu Wei di Pechino: Microworld del 2018. Forme arrotondate e sfere enormi per rappresentare il microscopico e il macroscopico. Ai Giardini troviamo Nicole Eisenman di Vardun. I suoi dipinti raffigurano individui strani in un realismo un po’ infantile ma suggestivo. Tipico Morning Studio del 2016: intrigante,
innocente e peccaminoso allo stesso tempo. Infine fra le varie mostruosità i cinesi Sun Yuan & Peng Yu propongono un enorme robot che con una pala sposta del liquido rosso all’interno di una determinata area che poi si espande di nuovo. Al termine del percorso deciderete voi se quello che avete visto ha «modificato la vostra visione del mondo» e vi ha aperto la mente. A partire dalla vista del peschereccio pieno di migranti affondato nel Mediterraneo il 18 aprile 2015 il cui relitto è stato posizionato da Christoph Büchler all’esterno delle Corderie. Dove e quando
La Biennale di Venezia. 58. Esposizione Internazionale d’Arte. May You Live In Intersting Times. A cura di Ralph Rugoff. Venezia (Giardini e Arsenale). Fino al 24 novembre 2019. Catalogo, euro 85. Guida breve, euro 18. www.labiennale.org
Quel rito collettivo che si perpetua Biennale / 2 L’appuntamento in Laguna è un must assoluto per artisti, critici e cultori dell’arte – fra aperitivi,
feste e il percorso espositivo vero e proprio Ada Cattaneo 8 maggio 2019, ore 22.30. Dal Ponte dell’Accademia. Il Canal Grande è un continuo susseguirsi di taxi, barche a noleggio, vaporetti stracolmi. Più di tutto, per chi conosce Venezia «fuori stagione», colpisce la quantità di luci accese ai piani nobili dei palazzi affacciati sull’acqua: si intravvedono i lampadari in vetro di Murano finalmente accesi ad illuminare cene e feste private, in dimore aperte solo per le grandi
occasioni. Festa del Cinema, Biennale di Architettura e, naturalmente, Biennale d’Arte. Il giorno dopo, sul vaporetto diretto verso l’Arsenale, due conoscenti si incontrano per caso. Il più anziano scrive per un giornale cittadino; l’altro è fotografo. Entrambi sono veneziani. «Allora, questa Biennale?» «Ieri ho visto i Giardini, oggi l’Arsenale. E poi una festa di finlandesi in Giudecca» «Mah, io mi son stufato: sempre le solite scemate. Ma per te che sei artista in bollet-
Sun & Sea (Marina) di Lina Lapelyte, Vaiva Grainyte e Rugile Barzdziukaite, Leone d’oro per la migliore partecipazione nazionale, Padiglione Lituano. (Keystone)
ta, almeno te magni gratis». La visione locale non sembra distanziarsi troppo da quella globale, che ormai si riconosce nella Biennale quale rito collettivo, dal 1895. Un evento più mondano che intellettuale, durante il quale il popolo dell’arte contemporanea si riversa in laguna, facendo a gara a chi riesce ad ottenere l’invito per la festa più esclusiva. Chi di Biennali ne ha già viste troppe, neanche mette piede oltre i confini delle biglietterie: troppa fatica, troppa gente. Ma l’appuntamento veneziano è imperdibile per incontrare gli artisti e i collezionisti che si riversano in città, animandola ancora una volta, fra feste private, aperitivi al Danieli e colazioni al Caffè Florian. È molto diverso il clima che respira chi sceglie, con un po’ di coraggio, di visitare le esposizioni. In particolare, per l’edizione 2019, sono le partecipazioni nazionali – più che la Mostra principale – a fare emergere una linea di pensiero comune, un sentire generalizzato che si percepisce in più di un padiglione. Il caso svizzero è alquanto emblematico: l’intervento di Pauline Boudry e Renate Lorenz è intitolato
Moving Backwards («retrocedere», «tornare indietro») e si sviluppa attraverso la proiezione di un video, una pubblicazione e un intervento sulla struttura del padiglione nazionale. Le due artiste che l’hanno concepito iniziano dichiarando la loro preoccupazione per il regresso – sociale e politico – a cui stiamo assistendo: rafforzamento dei confini fra le comunità, elogio di tradizioni reazionarie che sembravano ormai superate, cultura dell’odio e dell’esclusione. Le autrici suggeriscono allora di tornare sui nostri passi, per compiere un gesto collettivo che rifiuti il progresso forzato e ci dia l’opportunità di trovare strategie alternative, che abbiamo finora ignorato. Non lontano da questi concetti, nel padiglione tedesco, l’artista Natascha Süder Happelmann racconta gli esiti che isolamento e accumulo sfrenato possono avere sulla situazione sociale. L’impressione che si coglie da molti interventi artistici è quella di una tendenza che va invertita, di una dinamica che ci sta conducendo nella direzione sbagliata. Questo vale in particolare per le questioni ambientali, affronta-
te da Francia, Spagna, Paesi nordici e soprattutto Giappone. È quest’ultimo padiglione di particolare interesse per la delicatezza con cui viene affrontato un tema così sensibile. La ragione sarà probabilmente che questo paese ha già iniziato a fare i conti con le conseguenze della devastazione ambientale ed è quasi paradossale che ciò avvenga a una cultura che ha fatto dell’ispirazione alla natura la fonte della propria innata grazia. Per la presenza giapponese a Venezia, un collettivo formato da un artista, un antropologo e un compositore ha ideato un’installazione visiva e sonora che prende le mosse dalle «tsunami-ishi», enormi massi emersi dai fondali marini nel corso dei maremoti. Oggi sono attrazioni visitate dai turisti, ma allo tesso tempo accolgono colonie di uccelli migratori. Costituiscono biotopi eccezionali per insetti difficilmente osservabili altrove, ma hanno anche dato luogo a miti e leggende tradizionali. Queste conformazioni minerali servono a proporre l’idea di un’«ecologia condivisa», che riunisca diverse specie, diverse comunità e, con esse, i loro bisogni e le loro capacità.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 20 maggio 2019 • N. 21
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Cultura e Spettacoli
WOW!
Ricostruire sulla scena un omicidio di gruppo Teatro Uno spettacolo dello svizzero
Milo Rau, nuovo astro del teatro europeo
La notte del 22 aprile 2012, a Liegi, proprio davanti al bar da cui è appena uscito, un omosessuale trentaduenne, Ihsane Jarfi, figlio di padre marocchino e madre belga, sale su una Polo grigia a bordo della quale ci sono quattro giovani ubriachi. Mentre l’auto lascia la città, viene brutalmente percosso. Raggiunta la campagna, i quattro lo fanno uscire dal bagagliaio in cui a un certo punto lo avevano rinchiuso e lo massacrano di botte. Dopo averlo spogliato di tutto, se ne vanno, lasciandolo agonizzante e nudo sotto la pioggia.
Il regista svizzero Milo Rau è convinto che il teatro e l’arte siano in grado di cambiare il mondo Questo il fatto di cronaca che è all’origine di The Repetition. Histoire(s) du théâtre (I), recente spettacolo (in scena per soli tre giorni al Piccolo di Milano) del regista teatrale e cinematografico Milo Rau (Berna, 1977), autore di un Manifesto, pubblicato nel 2018 (GNGent Manifesto), il cui primo articolo recita: «Non si tratta più di dipingere il mondo. Si tratta di cambiarlo. L’obiettivo non è rappresentare il reale, ma rendere la rappresentazione essa stessa reale». Che il teatro e l’arte in generale possano cambiare il mondo è una vecchissima illusione (non sono il solo a pensarlo: mi trovo in ottima e numerosa compagnia) che reca in sé il germe pernicioso del didascalismo e del didattismo. Quanto alla seconda dichiarazione, temo di non capire che cosa voglia dire esattamente. Svolgendosi in uno spazio (specifico o tradizionalmente deputato) che ospita oggetti tangibili e corpi viventi, ogni spettacolo teatrale è sempre reale. Al tempo stesso è sempre e interamente finzione, sia quando vuol essere mimesi della realtà, sia quando ripropone – replica dopo replica – alcuni meccanismi di svelamento della finzione teatrale. (Formalizzate e ripetute, anche le informazioni su di sé fornite dagli attori non professionisti di The Repetition sono diventate parti costitutive di tre «ruoli»: quelli di due attori e un’attrice non professionisti). Se ho ben capito, la realizzazione dello spettacolo (strutturato in cinque «capitoli» e una scena – quella del casting – che introduce alla ricostruzione del crimine) è avvenuta attraverso i seguenti passaggi: a) un’indagine sociologica sul campo (la città e i dintorni di Liegi, dove a partire dagli anni 80 la crisi dell’industria siderurgica ha provocato un forte aumento della disoccu-
pazione (i quattro assassini erano tutti senza lavoro); b) l’assegnazione delle parti a tre attori professionisti (Sara de Bosschere, Sébastien Foucault, Johan Leysen) e a tre non professionisti scelti attraverso un casting (la dog sitter Suzy Cocco; il magazziniere Fabian Leenders; il giovane di origine magrebina Tom Adjibi, saltuariamente scritturato per ruoli cinematografici di scarsissimo rilievo), i quali impersonano, nell’ordine, la madre della vittima, uno degli assassini, e Ihsane Jarfi; c) la scrittura collettiva di un testo, successivamente asciugato e modificato attraverso il lavoro in scena con gli attori (Rau sostiene che il testo non deve costituire più del 20% di uno spettacolo), fino a diventare, a mio parere (la drammaturgia è di Eva-Maria Bertschy), un po’ troppo sbrigativo sia nel fornire ragguagli sul contesto sociale in cui si è verificato il delitto, sia nell’illuminare la vita e la personalità degli attori nonprofessionisti, sia nel tratteggiare le figure degli assassini e della vittima. Se le battute risultano a volte commoventi (e nella scena del casting anche deliziosamente umoristiche), lo si deve soprattutto alla grande bravura degli attori (Adjibi si produce persino in un’apprezzabile esecuzione di una famosa e difficile aria del King Arthur di Purcell), dei quali a tratti vediamo – su un grande schermo sospeso al centro della tenebrosa scena di Anton Lukas – ora i volti ripresi da una telecamera collocata in punti diversi del palcoscenico, ora le figure intere, riprese in precedenza, che a mio parere non entrano in relazione dialettica con gli attori che agiscono in posizione sottostante. Come si è constatato in occasioni ormai innumerevoli, le immagini in movimento proiettate su grande schermo sono sopraffacenti: finiscono con l’attirare quasi esclusivamente su di sé l’attenzione dello spettatore. Sulla qualità e la funzione delle immagini (c’è anche una scena da docufiction) dovrei parlare più a lungo, ma nel poco spazio che resta a mia disposizione voglio accennare a una questione di non secondaria importanza. Milo Rau ha dichiarato (riproponendo, si direbbe, il concetto di «assurdo») che a interessarlo è stata anche «la banalità di una violenza che scaturisce dal nulla, che si manifesta per caso, per la coincidenza di un incontro, senza premeditazione». Ma la prolungata brutalità dei quattro che hanno massacrato, derubato e denudato Ihsane (uno di loro – stando allo spettacolo – gli ha persino pisciato addosso), e che durante il processo hanno dichiarato di aver voluto dare una lezione a un omosessuale, non mi pare assimilabile, per esempio, ai quattro «assurdi» colpi di rivoltella sparati su un corpo inerte dal protagonista dello Straniero di Camus.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 20 maggio 2019 • N. 21
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Cultura e Spettacoli
Se sapessimo tessere il tempo Pubblicazioni È uscito per i tipi di Donzelli l’appassionato carteggio di due innamorate
illustri, Virginia Woolf e Vita Sackville-West Laura Marzi È capitato a chiunque abbia scovato in un cassetto le lettere d’amore dei propri genitori o di una qualsiasi altra coppia di sconosciuti o di parenti l’istinto irrefrenabile di leggere quelle confidenze, le dichiarazioni d’amore, di desiderio, di vedere come avessero risolto le schermaglie o come facessero ad affrontare la distanza. Questa nuova raccolta di lettere d’amore tra Virgina Woolf e Vita Sackville-West edita da Donzelli, ce n’era stata un’altra intitolata Adorata creatura per La Tartaruga, contiene missive inedite ed è tradotta da Nadia Fusini e Sara De Simone. Ci dà la possibilità di leggere la corrispondenza di due innamorate senza avere il timore che qualcuno entri nella stanza e ci scopra, inibendo la nostra curiosità, facendoci sentire in imbarazzo.
A colpire la lettrice o il lettore del giorno d’oggi è soprattutto la pazienza dimostrata dalle due donne Si tratta di un’esperienza meravigliosa. Intanto perché ci troviamo di fronte al carteggio di due scrittrici, di cui una, Virginia Woolf, è anche una delle autrici più grandi della storia della letteratura inglese, così tra il racconto di una giornata in casa editrice o il resoconto di una cena ci imbattiamo in piccole e assolute verità sulla natura della scrittura, che è ricerca della verità e non altro, oppure: «lo stile è una cosa molto semplice; è ritmo. Una volta preso il ritmo, non puoi usare parole sbagliate». Vita scrive: «com’è che non si riesce mai a comunicare? Solo le cose immaginarie possono essere comunicate, come le idee o l’universo di un romanzo, ma non le cose concrete».
Poi, si tratta del racconto che attraversa diciassette anni – dal 1924 alla morte di Virginia Woolf nel 1941 – di un amore, del desiderio di vedersi, di fare sesso, di come succede che quando la persona amata è assente fisicamente, la sua immagine, il pensiero di lei diventi la compagnia più vicina, più intima, più invadente: «e non volteggiarmi sulla testa al chiaro di Luna» chiede Virginia a Vita. Tanto è il desiderio di essere insieme, fuse, proprio come gli analisti dicono che non bisogna stare con l’altro, che Vita le scrive a sua volta: «vorrei che tu vivessi nel mio cervello una settimana intera. È attraversato da violentissime ondate di emozioni». Le due donne si raccontano della loro vita quotidiana, quella di Vita movimentata da viaggi in tutto il mondo, dalla gestione dei figli, dei vari possedimenti immobiliari: acquisterà un enorme castello dopo essere stata estromessa dall’eredità di quello familiare, solo perché donna. La vita di Virginia è una vita di scrittura e di lettura, di sofferenza, anche, certo. Rispetto, però, al luogo comune che è stato tramandato di lei e che riduce la varietà infinita dei suoi sentimenti alla sola disperazione che la condusse al suicidio, fondamentali nell’introduzione le parole di Nadia Fusini, che la studia, la ama, la traduce da anni: «mai come in queste lettere d’amore a Vita, Virginia si rivela per quello che è, cioè una femina ludens – nel senso huizinghiano del termine, che restituisce al gioco la dignità di una delle più nobili attività umane». A colpire la lettrice e il lettore contemporaneo è certo la pazienza delle due innamorate, così appassionate eppure capaci di aspettarsi per mesi, senza potersi vedere, di attendere lettere giorni, settimane: noi fatichiamo a sostenere l’attesa di qualche ora del messaggio dei nostri beneamati. Però la concezione del tempo, banale dirlo, si è così alterata negli ultimi due secoli che
Massimario classico Il rapporto
con il cibo Elio Marinoni
Corporis exigua desideria sunt / «Modesti sono i bisogni del corpo» (Seneca, Consolazione alla madre Elvia, 10, 2).
La scrittrice inglese Vita Sackville-West (1892-1962). (Keystone)
è inutile vagheggiarlo: non possiamo recuperare quella che avevano Virginia e Vita. Possiamo, però, ancora scrivere lettere d’amore. Se, come insegnava l’indimenticato Marshall McLuhan, «il mezzo è il messaggio», il problema non è solo la nostra incapacità di aspettare l’altro, ma è come ci diciamo l’amore: nascondendolo in messaggi banali che spesso non ci interessano tanto per quello che contengono, conta avere risposta, vince la bulimia. Se invece preparassimo i nostri racconti per l’amato o l’amata con la cura di quando
si cucina per amore, di sé e di chi sta al tavolo con noi, potremmo imparare a tessere relazioni come tele, abiti, arazzi, invece che quelle che spesso viviamo, appese al filo della connessione, fugaci e poco saporite. Bibliografia
Virginia Woolf, Vita Sackville-West, Scrivi sempre a mezzanotte. Lettere d’amore e desiderio, (traduzione Sara De Simone, Nadia Fusini), Donzelli Editore, pp. 304, euro 24,00).
Da sempre sui sentieri dell’arte Incontri A colloquio con il giovane direttore d’orchestra romando Lorenzo Viotti
che l’anno scorso ha debuttato alla Scala Enrico Parola «Ed io, chi sono?» Il dubbio di Lorenzo Viotti non è mai stato amletico: tra l’essere e il non essere musicista, non ha mai avuto esitazioni. Figlio di un grande direttore d’orchestra, cresciuto in una famiglia di musicisti (suonano anche il fratello e le due sorelle), fin da giovanissimo ha mosso i suoi passi sul sentiero dell’arte; oggi, a 29 anni appena compiuti, il suo nome già luccica nel firmamento concertistico internazionale, richiesto da orchestre d’eccellenza come la Filarmonica della Scala e la Gewandhaus di Lipsia. La domanda di questo bel ragazzo nato il 15 marzo del 1990 a Losanna ha accenti vagamente leopardiani (l’«ed io che sono» del Pastore errante dell’Asia) e riguarda la sua identità. «Sto cercando di capire chi sono veramente; ho fatto dei passi avanti, ma non è ancora tutto chiaro, a me e credo anche agli altri». Il nome italianissimo ha radici piemontesi: la famiglia Viotti a cavallo dell’800 annoverò Giovan Battista, insigne violinista amato a Versailles e a cui viene attribuita la melodia della Marsigliese. «Tutti credono che sia italiano, non solo per il cognome ma per il nome, Lorenzo. Ma come si capisce dalla voce, non lo sono».
In effetti l’accento è inconfondibilmente francese: «Sono nato a Losanna, Svizzera romanda; in famiglia dai 14 anni in poi ho parlato solo francese, la mia seconda lingua è il tedesco, la terza l’inglese, imparato per motivi di lavoro; l’italiano è solo la quarta: il vocabolario non è ancora molto ampio. L’anno scorso ho diretto per la prima volta alla Scala; quando mi sono trovato davanti alla Filarmonica, mi sentivo in dovere
Il direttore d’orchestra svizzero francese Lorenzo Viotti. (Youtube)
Eccessi della gola e salutismo
di parlare italiano, ma mi sentivo inadeguato: non riuscivo a trovare termini pertinenti a certi concetti, l’accento era da straniero, vedevo gli sguardi un po’ spiazzati. È in occasioni come quella che mi domando chi io sia veramente». Accennava a passi avanti. «Infatti quest’anno sono ritornato alla Scala e ho iniziato a parlare inglese, con qualche parola di italiano. Non mi preoccupo più di quello che dovrei essere secondo le attese della gente, inizio ad accettare il fatto che sono uno svizzero di lingua francese che ha semplicemente un nome e delle origini italiane». In questi dodici mesi è maturata la visione del suo passato: «Ho parlato italiano fino ai 14 anni, con mio padre. Poi lui morì, colpito da un ictus mentre era sul podio: se ne è andato facendo la cosa che amava di più, dirigere. Da allora non ho più parlato italiano fino a quando, con i primi concerti, non ho iniziato a frequentare i teatri della Penisola». Invece l’eredità artistica paterna non è stata messa da parte: «Prima di dedicarmi alla direzione ho studiato pianoforte, canto e percussioni. Ed è proprio stando tra timpani, piatti e tamburi che ho potuto fare le prime importanti esperienze in orchestra.
Suonavo nei Wiener Philharmoniker, una delle migliori formazioni al mondo, sul cui podio passano i più grandi direttori; capita che il percussionista non debba suonare anche per interi minuti, quindi potevo starmene lì, in fondo all’orchestra, a osservare i gesti e gli sguardi di chi stava sul podio: li studiavo e cercavo di carpirne i segreti». Stessa dinamica quando cantava nel coro dei Musikverein, la sala dove si celebra in mondovisione il Capodanno degli Strauss: «Ho affrontato tutto il repertorio sinfonico-corale; non mi ricordo neanche quante volte abbiamo eseguito il Requiem Tedesco di Brahms o la Messa da Requiem di Verdi. Con Riccardo Muti non ho imparato molto: l’intesa con i Wiener è talmente perfetta che quasi non ha bisogno di spiegare e correggere; invece con Fabio Luisi ho capito la precisione del gesto». Ora sono gli orchestrali a seguire attentamente i suo gesti; qualcuno ironicamente sottolinea «le» orchestrali: Viotti è bello e ha un fisico atletico: «Faccio boxe, mi serve per scaricarmi dalle tensioni e per caricarmi prima di una produzione importante; ormai conosco le palestre di mezza Europa, in ogni città in cui dirigo so dove allenarmi».
La massima esprime efficacemente, grazie in particolare all’anticipazione del nome del predicato (exigua/«modesti»), un luogo comune della filosofia antica, trasversale alle principali scuole. Nel passo senecano essa introduce una lunga invettiva contro i golosi, di cui riporto qualche stralcio: «Da ogni parte fanno affluire tutti i cibi noti al loro palato schizzinoso […]; vomitano per mangiare, mangiano per vomitare e non si degnano neppure di digerire quelle vivande che in tutto il mondo fanno reperire. […] Miserabili coloro il cui palato non è stuzzicato se non dai cibi più costosi! […] Dappertutto si trovano certi alimenti, che la natura ha distribuito in tutti i luoghi, ma come ciechi passano oltre questi cibi […] e mentre con poco potrebbero placare la fame, la stuzzicano a caro prezzo. […] Non è follia e aberrazione estrema desiderare molto, quando puoi contenere così poco?» (Consolazione alla madre Elvia, 10,2-7). Sul tema degli eccessi gastronomici Seneca ritorna parecchie volte nelle sue Lettere a Lucilio. Descrivendo un padrone attorniato dagli schiavi così si esprime: «mangia più di quanto possa contenere e con enorme avidità carica il suo ventre gonfio e ormai incapace di adempiere la sua funzione, sicché espelle ogni vivanda con maggior sforzo di quello fatto per ingerirla» (47, 2). Altrove parla di «gola profonda e insaziabile» (89, 22); mette in guardia contro le conseguenze negative della gola sulla salute: «Non meravigliarti se sono innumerevoli le malattie: considera il numero dei cuochi»( 95, 23); e conclude: «Saremo sani e moderati nei desideri se ciascuno si renderà conto di avere un solo corpo, che non può contenere molto, né a lungo» (Lettere a Lucilio 114, 26). La maggior parte dei passi di Seneca e di altri autori che criticano gli eccessi della gola è strutturata secondo la tecnica retorica dell’antitesi: tra unicità del ventre e smodatezza degli apparati; tra piccolezza del corpo umano e profusione di vivande; tra smisurata avidità e limitatezza dei bisogni naturali. Il motivo è già presente in Orazio (Satire, I, 1, 41 ss.) e sarà ripreso da Plinio il Vecchio: «Le maggiori preoccupazioni le reca all’uomo il ventre, per il quale la maggior parte degli uomini vive [...]. Per lui soprattutto l’avidità è bramosa, per lui […] si scandagliano gli abissi del mare» (Plinio, Naturalis Historia, XXVI, 43). Plinio rimpiange la frugalità di un tempo, una dieta largamente basata sugli ortaggi: «A Roma quello di cui si cibava il popolino veniva dall’orto: e quant’era più sano e più morigerato quel vitto!» (Plinio, Naturalis Historia, XIX, 52). Viene da chiedersi se Plinio avesse già scoperto i pregi della dieta mediterranea, oggi esaltata a parole e raccomandata in qualsivoglia rubrica giornalistica o programma televisivo, ma poi disattesa. La nostra società e in particolare la comunicazione di massa sembrano dominati, per quanto riguarda il rapporto con il cibo, dalla compresenza di due tendenze di segno opposto: da un lato un interesse smodato per la gastronomia, dall’altro un salutismo parossistico. Succede così che sulle pagine della stampa scritta e sulle reti televisive si alternano e felicemente (?) convivono luculliane preparazioni culinarie, faticosi esercizi di fitness e severe rubriche mediche in un frenetico carosello di cuochi più o meno stellati, di ginnasti palestrati e di guru della dietologia.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 20 maggio 2019 • N. 21
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Cultura e Spettacoli
I drammi della Croisette
In direzione ostinata e contraria
dei lungometraggi visti durante le prime giornate della kermesse
Questo nuovo sound È uscito
Festival di Cannes Distopia e scorci di drammatiche quotidianità al centro
Aletheia di IZI
Nicola Mazzi La costante dei primi film in competizione, nel concorso principale di Cannes, è la lotta al potere nelle sue varie forme. È un filo rosso che percorre il bellissimo film francese Les Misérables di Lady Li, ambientato nella banlieue parigina. Il regista – al suo primo lungometraggio e ispiratosi alle sue esperienze giovanili – ha voluto rifare a modo suo e a quasi 15 anni di distanza La haine di Kassovitz. Ma non si tratta di un semplice remake, questo è un film vero, scritto bene, con attori convincenti e che non ti molla un secondo. Les Misérables racconta un giorno nella vita di Stéphane, un agente che arriva da un’altra città e si aggrega a due colleghi più navigati: Chris e Gwada. Poliziotti che usano le maniere forti per farsi rispettare e non si fanno scrupoli a far accordi con i malavitosi. Stéphane fa fatica ad accettare questa situazione, convinto com’è dei suoi valori e ligio a far rispettare la legge. Ma il nuovo arrivato capisce come gira il mondo da quelle parti e si adatta, fino a quando un incidente scatena l’ira di tutto il quartiere. Eppoi quel riferimento al romanzo di Victor Hugo, così lontano nel tempo, ma così vicino nelle dinamiche sociali. Sembra quasi voler stanare lo Stato (ecco il potere) e volergli puntare il dito contro. Sembra quasi che gli stia dicendo: sono passati anni da La haine, secoli dai Miserabili, ma il degrado è sempre uguale. E ogni riferimento alle proteste sociali dei Gilets Jaunes è sicuramente voluto. La lotta al potere è evidente pure in Atlantique di Mati Diop. Anche qui siamo in una banlieue, ma a Dakar, in Senegal. Un gruppo di operai di un cantiere enorme che non riceve il salario da mesi, decide di andarsene cercando di attraversare l’oceano alla ricerca di una vita migliore. Tra di loro anche il giovane Souleiman, innamorato (e ri-
Tommaso Naccari
Una scena del film di animazione Les hirondelles de Kaboul, coproduzione cui ha partecipato anche la Svizzera. (youtube)
cambiato) dalla promessa sposa di un uomo ricco. Il viaggio finisce male e il fatto ha conseguenze inaspettate e misteriose come un incendio o presenze (quelle degli operai morti) soprannaturali. C’è tanta acqua in questo film, e se da un lato è un richiamo narrativo alla morte dei poveri operai, d’altro lato la si può leggere come volontà di pulire e purificare un sistema sociale che non funziona: dove i ricchi fanno costruire i palazzi e diventano sempre più ricchi e i poveri, che li costruiscono davvero, muoiono. Un potere che viene combattuto anche in Brasile nel film Bacurau di Kleber Mendonça Filho e Juliano Dornelles. In questo caso è una piccola comunità del Nord-Est del Paese che si unisce per combattere un feudatario locale. Così come nel film africano, anche in questo caso i fenomeni misteriosi non mancano: il paese scompare dalle carte geografiche, i telefonini non hanno più campo e alcuni misteriosi uo-
mini arrivano nel paese con intenzioni sospette. Meno riuscito degli altri – soprattutto nella seconda parte quando si prende un po’ troppe libertà narrative mescolando il western al fantastico e al sottogenere dei film sui sopravvissuti – fa pace con lo spettatore nel finale grazie al ritorno al realismo. Lasciando la competizione principale ed entrando con un tuffo a testa in Un Certain regard, la questione del potere viene interrogata anche da una delle poche presenze svizzere sulla Croisette: la coproduzione animata Les hirondelles de Kaboul, realizzata da due donne, Zabou Breitman et Eléa GobbéMévellec. Siamo nel 1998 e la capitale afgana è sotto il dominio dei talebani. In mezzo alle macerie della guerra e sotto questo feroce regime, vivono due coppie il cui destino è segnato, ma sulle quali volano le rondini, un piccolo segnale di speranza. Una bellissima e crudele fiaba – tratta dall’omonimo romanzo di Yasmina Khadra – disegnata con grazia
e dai toni pastello. Un acquarello tenue che si contrappone alle uccisioni e alle barbarie commesse dai talebani. Ma riemergiamo dalla seconda sezione del festival e torniamo al concorso principale, con un accenno a un altro film molto atteso: The Dead Don’t Die di Jim Jarmusch (nelle nostre sale a metà giugno) presentato in apertura di questa 72esima edizione del festival. Un omaggio a un genere (quello degli zombi) e ad alcuni degli autori ai quali Jarmusch ha detto di ispirarsi: da George A. Romero a Dario Argento, passando per John Carpenter e arrivando a Sam Raimi. In questo caso la lotta al potere non è una questione politica, secondo il regista, ma è contro le multinazionali. Infatti il messaggio è rivolto ai cittadini che hanno a cuore le sorti del pianeta: «Mi preoccupa l’inquinamento – ha detto Jarmusch – dobbiamo renderci conto di dove viviamo e che cosa stiamo facendo alla Terra, ma io resto positivo e confido nelle giovani generazioni».
Sulle tracce di Giosanna ed Hermann Fotografia Fino al 26 maggio il Museo Hesse di Montagnola ricorda il lavoro
di Giosanna Crivelli nato dal silenzioso dialogo con il Premio Nobel tedesco Gian Franco Ragno Tra i molti fotografi attivi nella nostra regione – locali o di passaggio – Giosanna Crivelli è stata (purtroppo dobbiamo usare il passato, in quanto scomparsa a fine 2017) una delle figure in qualche modo più delicate e uniche. Basti ripensare alla grande esposizione del 2015 intitolata Ticino in Luce a Castelgrande, dove si celebrava l’incontro tra fotografi del passato (Roberto Donetta, i Monotti e i Büchi) e quelli del presente (Luciano Rigolini, Gian Paolo Minelli e altri). In quell’occasione Giosanna emerse tra i contemporanei come una voce – purtroppo l’unica al femminile – capace di cogliere anche nel territorio un certo lirismo inedito, per un confronto diretto ma non per questo freddamente oggettivo del territorio ticinese. La sua fotografia infatti riproponeva tracce di un paesaggio della memoria, e quindi dell’infanzia, in un quadro più ampio di mutamento, in cui le immagini si sviluppavano tra due piani: il vissuto personale e la storia comune, rappresentata dall’osservatore. Nata nel 1949, dopo gli studi dell’obbligo Giosanna Crivelli apprese i rudimenti della fotografia a Monaco di Baviera nei primi anni Settanta, iniziando a lavorare poco più tardi come fotografa indipendente. Ha fatto del
Monte Lema, vista su Lugano e il Monte Brè.
mezzo una professione, certo, ma prima di tutto la sua era una vocazione – molto di più di una vuota ambizione. E ciò è testimoniato dal suo forte impegno civile. Fotografa naturalista ed escursionista, collaboratrice di «Illustrazione Ticinese», per un quarantennio di attività e, quindi, di riflesso, anche testimone di un profondo mutamento storico, economico e culturale della regione, Giosanna Crivelli non rincorreva mai le mode o gli stili che andavano per la maggiore. Ne è testimonianza anche
quest’ultima esposizione postuma, riproposizione aggiornata della mostra del 2007 in cui la fotografa offriva un itinerario visivo ispirato dal vicino di casa e premio Nobel Hermann Hesse. La mostra, apertasi nel giorno del 70esimo compleanno della fotografia, conferma quello che è lo stile degli ultimi anni: una fotografia a colori, fatta di trasparenze, sfumature, passaggi tra elementi e materie. D’altronde anche lo stesso Hesse si immergeva tra le frasche e i boschi per rappresentare il territorio ticinese con i suoi acquarelli.
Giosanna Crivelli si è ispirata alle parole dello scrittore tedesco che da giovane vedeva e salutava per le strade di Montagnola. Più in generale, con il suo Siddharta Hesse fu un punto di riferimento per tutte le generazioni del dopoguerra. Quest’anno solare segna anche tutta una serie di ricorrenze storiche per il Museo di Montagnola, che ospita la mostra: il secolo dell’arrivo di Hesse in Ticino, nell’anno della pubblicazione di Demian e di L’ultima estate di Klingsor. Per un panorama esaustivo del calendario di appuntamenti, si invita a consultare il sito dell’istituzione. In settembre l’esposizione fotografica farà tappa anche alla Biblioteca cantonale di Bellinzona. Sarà anche l’occasione per proporre degli inediti provenienti dagli archivi della fotografa, depositati presso la Fototeca dell’Archivio di Stato, che avrà il compito in futuro di custodire e valorizzare questo patrimonio.
Toccare un mostro sacro come Fabrizio De André, specie per chi è di Genova e su Genova ha costruito la propria immagine, è sempre un po’ spinoso. A dimostrazione di quello che comunque rimane un assioma, il disco disastroso delle indie-star che, per l’appunto, coverizzano il cantautore genovese. A IZI, però, sono sempre piaciute le montagne ardue da scalare. Ha fatto da scudo per tutti recitando in Zeta, un’etichetta che avrebbe affossato molti e che invece lo ha elevato, ha rinunciato alle hit radiofoniche per seguire il proprio viaggio interiore, facendo della parola «arte» quasi un mantra. Come se non bastasse, poi, ha portato sul palco del primo maggio proprio Faber, stupendo tutti. Ma come, con un disco in uscita da lì a pochi giorni, tu porti sul palco un altro artista? Per capire il perché IZI se ne freghi delle regole, basta ascoltare Aletheia, il suo terzo album in studio. Ma soprattutto basta ascoltare Aletheia per capire quanto IZI non abbia paura dei confronti: Dolcenera, una sorta di rivisitazione in chiave urban e moderna del celebre brano di De André, troneggia quasi sugli altri brani, per la capacità di Diego di saper camminare per sentieri spinosissimi. Dopo un silenzio lungo due anni, IZI torna e dimostra di poter e voler fare un po’ quello che gli va, senza regole prefissate o canoni da rispettare. Nel suo nuovo album di inediti, infatti, Diego duetta con se stesso in inglese, riprende brani che hanno cinque anni ma che suonano comunque dannatamente attuali, addirittura promuovendoli come singoli, rappa con personaggi che non fanno parte della sua stretta cerchia di amici e ne esce con una nota di merito, sempre. Un disco intenso, che sa anche intrattenere al di là della musica; al di là del duetto con se stesso, ci sono alcune parole pronunciate in coda alle canzoni che rappresentano parte di un messaggio che i fan dovranno divertirsi a ricomporre. Per il mercato di oggi, quello di IZI è un disco forse fin troppo intenso, pieno di contenuti, molto lungo. Eppure non stanca, vuoi per i featuring sapientemente scelti, vuoi perché IZI è davvero un fuoriclasse, un artista della parola, della melodia, della vocalità. Un uso così consapevole di sé e del suo mezzo per spaccare, che lascia ogni possibile difetto alle spalle. Se quindi ancora oggi aveste la necessità di capire cosa è rap, cosa è trap, cosa è attuale e cosa meno, IZI è la persona giusta per notificarvi che tutto ciò è solo frutto di eccessive elucubrazioni mentali. Che in fin dei conti, come qualche anno fa tuonava Marracash «questa è musica, conta la musica». E quella di Diego è una forza della natura. Un occhio interiore che sa che punti toccare.
Dove e quando
Quel paesaggio così calmo e così eterno. Fotografie di Giosanna Crivelli. Montagnola, Museo Hesse. Fino al 26 maggio 2019. Dal 5 settembre 2019 Biblioteca Cantonale, Bellinzona. www.hessemontagnola.ch
Aletheia di Izi.
Tacos semplici di carne macinata 8 tortillas per 4 persone - pronte in 20 minuti · 1 Easy Fill Tortillas · 1 Salsa Piccante o Messicana · 1 Mexican Mix · 500 g di macinato di manzo · 125 g di formaggio grattugiato · 2 pomodori · 1 lattuga tagliata a striscette
Preparazione del ripieno Rosolare in una padella la carne macinata a fuoco medio. Aggiungere il condimento aromatico messicano e 150 ml di acqua e mescolare bene. Portare ad ebollizione, quindi abbassare il fuoco e cuocere a fuoco lento senza coperchio per 10 minuti mescolando di tanto in tanto, finché il liquido si è ridotto. Preparazione delle tortillas Scaldare le tortillas di farina di frumento in forno o nel microonde. Preparare il ripieno e gustare Servire le barchette di tortillas calde. A questo punto ognuno può riempire le sue barchette di tortillas con carne macinata, formaggio grattugiato, pomodori tagliati a dadini, insalata e salsa. Consiglio: rifinire con guacamole o crème fraîche.
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Cultura e Spettacoli Rubriche
In fin della fiera di Bruno Gambarotta Implacabile Ceronetti Guido Ceronetti, nato a Torino e morto a Cetona, ha voluto riposare nel cimitero di Andezeno, paese di origine dei suoi genitori. Ancora in vita e molti anni prima di morire, aveva preso la saggia decisione di destinare il suo archivio alla biblioteca di Lugano. Il Comune di Andezeno, per onorarne la memoria, ha promosso un premio di poesia riservato agli studenti di terza media. Una giuria, della quale facevo parte, sui 48 finalisti ha indicato i cinque vincitori. È stata l’ennesima smentita al luogo comune che vuole i giovanissimi concentrati a smanettare sui tablet e insensibili alla poesia. Gli insegnanti di questi ragazzi hanno fatto un ottimo lavoro. In questi elaborati, contrassegnati da un numero al posto di un nome svelato solo al momento della proclamazione dei vincitori, circolava un’aria a volte ingenua ma sempre limpida, con un’intatta fiducia nel valore salvifico della parola. In molti componimenti brillavano schegge
meritevoli di essere ricordate. La vita: «Un po’ amici e un po’ nemici. Una vita per fare un’amicizia. Quindici secondi per distruggerla». Trapela l’influenza di Ceronetti che probabilmente è stato letto e commentato in classe. «Non scordare mai perché il male non va via, si nasconde, si prende una pausa». Un altro: «Eravamo due gocce di pioggia in una serata estiva che finiscono nel silenzio più atroce». E ancora: «In questa corsa chiamata vita di cui il traguardo è oblio e sofferenza». Una terza: «Vivere vuol dire essere, fingendo di essere». Guido Ceronetti abita i miei pensieri da molti anni, a iniziare dal traduttore eccelso. A Roma, una sera del 1969, a casa di Luigi Malerba, avevo avuto la ventura di sfogliare il Millennio Einaudi delle poesie di Catullo da lui tradotte. Da allora non ho smesso di placcarlo: gli epigrammi di Marziale, le Satire di Giovenale, l’Ecclesiaste, i Salmi. E lo scrittore in prima persona, a partire dal suo Difesa della luna e altri argomenti di
miseria celeste, 1971. Ho atteso 26 anni, fino al 1997, per avere una dedica autografa dell’autore. L’evento si è verificato in occasione del conferimento a Guido Ceronetti della massima onorificenza prevista dagli Statuti della Confraternita della Bagna Cauda in Nizza della Paglia. Terminata la cerimonia noi confratelli ci dedicammo a una bagna cauda per 600 invitati mentre il Premiato, chiuso in una stanzetta si preparava le salutari pappette e i deliziosi infusi che ben conoscono i suoi lettori. Guido Ceronetti, come tutti i grandi catastrofisti e profeti di sventure, è una sferzata di energia per il lettore. Tuffarsi nel suo pessimismo cosmico tonifica, è un efficace antidoto contro la ritornante illusione che si possa migliorare la natura umana, nutrita dagli autori degli efferati disastri che hanno costellato il secolo scorso. Leggi la sua descrizione del panorama di rovine prossimo venturo e ti rallegri constatando che, ancora per un giorno, hai scampato
l’apocalisse. Che verrà, certamente verrà, ma noi lettori di Ceronetti non saremo sorpresi dal suo arrivo. E poi c’è lo stile, inarrivabile. Sono applicabili a lui le parole che dedica a uno dei suoi autori prediletti: «Qualcosa in Cioran fa subito subodorare un miracolo: il suo linguaggio. Una densità concettuale imprevedibile cala in figure di folgore sulla mente che ascolta, lasciando sui lembi del luogo comune carbonizzati una lenta eco di melodia notturna che svanisce planando». La verità prima di tutto. Nel suo Il silenzio del corpo, Ceronetti scrive: «La verità è sempre terapeutica, splendidamente filantropica: faccio il medico cercandola, e i limiti di chi cerca la verità sono gli stessi del medico che pratica la medicina ordinaria, brancicante tra le sfibranti apparenze della vita e della morte». È vero: Guido Ceronetti è un medico, mancato ma pur sempre medico, come i tre che Carlo Ginzburg in Spie. Radici di un paradigma indiziario indica come
gli iniziatori del processo di conoscenza attraverso gli indizi: Giovanni Morelli, storico dell’arte, Arthur Conan Doyle e Sigmund Freud. Infine era medico, e praticante, uno degli autori prediletti da Ceronetti, Louis-Ferdinand Céline. Il bulino ceronettiano è implacabile e insieme pietoso. Per dare un’idea delle vertiginose profondità che può raggiungere, chiudiamo quest’omaggio con un’ultima citazione, da Il silenzio del corpo: «Anche la vita più povera e squallida è un dramma eschileo se si pensa alla tragedia delle funzioni, ai bisbigli delle secrezioni, ai silenzi degli organi, agli sforzi della memoria, al brancicare della voce, al sangue che ruota, ai miasmi mortali, alle risse tra microrganismi, alle guerre spermatiche, alle eruzioni cellulari, alle pestilenze dei nervi, alle predestinazioni biochimiche, al fato che a poco a poco ti introduce nel morbo finale, alle piaghe, ai foruncoli scoppiati, ai serpenti della pazzia, alle cagne furiose della fame».
dati», i primi quattro, sono intese come esemplari in senso stretto e se in generale il riferimento è sempre a un passato non interpretabile e non rivedibile, tutti i tentativi di moderazione, import-export della democrazia, apertura, dialogo sono destinati a scontrarsi con i muri della tradizione o altro, come la quasi divinità dell’imam (per non far torto a Sunniti né a Sciiti). Chiaramente le teorie di al-Farabi, tra nono e decimo secolo della nostra era, chiudono ogni discussione: il governo deve essere dell’imam, che è profondo metafisico e teologo (come i re-filosofi di Platone), che è quasi divino, scelto da Dio, infallibile, profeta (tutte caratteristiche non dei re-filosofi). Inoltre la virtù deve essere esportata con le armi e la forza. Non solo per difesa (questa sarebbe la «guerra giusta» di Sant’Agostino), ma per portare un bene maggiore a chi non lo possiede o non lo vuole, senza però scomodare la jihad: al-Farabi infatti non
accenna all’esportazione dell’Islam e parla di guerra come harb. Prima di al-Farabi, prima che la sua Baghdad diventasse centro di potere e sapere musulmano, i due secoli immediatamente successivi alla morte del Profeta (632 d.C.) hanno visto la velocissima espansione dell’Islam sulle coste del Mediterraneo, favorita dalla stanchezza dei Bizantini e dei regni romano-barbarici, dall’oppressione delle tasse, dalla povertà, dalla poca organizzazione degli assaliti, che in diverse occasioni hanno ufficiosamente aiutato gli assalitori. Che si porti la religione, oltre che il normale saccheggio e nuove forme di governo, è scontato. Non perché lo stato islamico sia teocratico, piuttosto perché la religione, in particolare i sacri testi, hanno la soluzione a tutti i problemi, di ordine privato e pubblico, familiare e politico. Perché, dunque, cercare altrove? O permettere a chi sbaglia di continuare a sbagliare? Dicono che sia stato questo il motivo
per cui ciò che restava della Biblioteca di Alessandria, già devastata ai tempi di Giulio Cesare, sia stato definitivamente bruciato per scaldare i soldati, quei papiri non avrebbero contenuto nulla di buono che non fosse già nel Corano. Ma queste sono probabilmente leggende. Piuttosto, si consideri come queste truppe di beduini, abili cavallerizzi, si impossessano del Vicino Oriente fino a Costantinopoli, dell’Africa del Nord e dell’Europa del Sud fino alla Provenza e alla Sicilia. Recentemente mi è stato detto che per alcune pratiche amministrative avrei dovuto rivolgermi a Muhamed. Vedo un giovane dalla pelle scura, capelli e barba neri come la pece, portamento fiero, e lo apostrofo: sei Muhamed, vero? Risposta: no, Gennaro sono. Nato in Campania, accento locale, trasferito a Milano per lavorare. Sembrava un moro, un corsaro, un pirata barbaresco, non è difficile pensare ai suoi avi come tali, anche se lui Gennaro è.
improbabili, le gare a chi mangiava più pizze in una sera, i soliti campanelli suonati e le fughe, le telefonate finte ai vicini di casa. Nel pieno della Guerra Fredda, Franco era un giovane militarista, mentre noi eravamo pacifisti e ingenui ribelli a tutto: credeva nell’esercito e gli piaceva presentarsi agli amici facendo il saluto militare sul suo motorino Rixe beige e azzurro, ben sapendo che avrebbe scatenato «ghignate» e sfottò. Era un provocatore che prendeva in giro anche se stesso nel mostrarsi devoto all’America «guerrafondaia» e alla Svizzera neutrale e ipermilitarizzata. Un amico con il quale era meglio non parlare di politica, ma ipersensibile alle ingiustizie. Era un simpatico guascone dal cuore in mano, uno «scorpionaccio orgoglioso» si definiva, pronto a battersi fisicamente a difesa dell’amicizia. Era anche molto più alto e bello di tutti noi, con la barba nera da adulto e solo il fatto che aveva il Rixe sin dai 14 anni lo rendeva autorevole. Era stato il primo di noi a fare l’amore, durante una vacanza estiva a Dübendorf,
faceva strage di cuori con la sua spavalderia. Un giorno ci lasciò a bocca aperta arrivando su un’auto tutta sua, un’enorme vecchia Peugeot ricevuta da uno zio. Poi ebbe un’invidiata Alfasud metallizzata oro. Fece le scuole commerciali e cominciò subito a lavorare in un’agenzia di viaggi, mentre noi ancora arrancavamo al liceo. Grazie all’abilità di stenografo e di dattilografo, cominciò prestissimo la gavetta al «Corriere del Ticino», assistito dal caporedattore della cronaca luganese Mauro Maestrini, un maestro gentile vecchio stampo divenuto amico fedele. Si innamorò della cronaca. Passava le notti sulle auto della polizia, sempre con il bloc notes in tasca e all’alba correva in redazione a scrivere brevi notizie sulla piccola delinquenza locale o sugli incidenti del Sottoceneri. Batteva a macchina come un ossesso, con tutte le dita e senza una correzione, immaginandosi reporter di nera a New York o a Los Angeles, dove andò tante volte per respirare quella che enfaticamente considerava la sua aria tornando con racconti per noi strabilianti. La sua aria era invece il Ticino, dove
conosceva tutti e tutti lo conoscevano: lasciò troppo presto il «Corriere», dove si siglava – fbi –, deluso e incompreso. Se doveva dire no diceva no pagando di persona, passando per un rompiscatole e bastian contrario. Sembrava uno spaccone ed era un buono, un mediatore per gli altri ma non per sé, un testardo generoso, che al ristorante voleva sempre offrire a tutti. Era fiero di aver messo una buona parola per la mia assunzione al «Corriere del Ticino», nel 1984. Un mezzogiorno del 19 luglio 1985 il telex impazzì, sputando forsennatamente notizie, era il giorno della tragedia di Tesero, in val di Stava. Partimmo in coppia da inviati speciali, passammo la notte tra le ruspe che scavavano le macerie, con i piedi nel fango e sopra i morti che venivano recuperati a pezzi. Dalla melma tirai fuori il romanzo di Alba de Cèspedes intitolato Nessuno torna indietro. Io che non sapevo cos’era la cronaca andavo cercando le emozioni della tragedia, lui raccoglieva i dati: quanti morti, quanti soccorritori, quali responsabilità. Fu la prima lezione di giornalismo.
Postille filosofiche di Maria Bettetini Percorsi diversi Tra gli studenti, non sono poche le ragazze coperte da un velo, più spesso un foulard drappeggiato con eleganza. Ci sono anche studenti musulmani maschi, più difficilmente riconoscibili. Tutti loro sono semplicemente studenti, quindi come tali formano gruppetti e arrivano in ritardo. Non parlano tanto della contrapposizione tra le culture occidentale e orientale. D’altra parte le guerre di religione non avvengono mai per motivi religiosi, e i miei ragazzi vogliono solo una laurea per poter lavorare, non mi pare che siano «contro». Alcuni ricchi e crudeli rappresentano invece il peggio dell’Islam, spesso si dà la colpa al tempo: tra sei secoli anche l’Islam sarà «moderno», deve fare il suo cammino, così come è stato per la civiltà «occidentale». Che ragli di gatto, direbbe un mio professore del liceo. Questa idea delle tappe necessarie di un percorso, del ripetersi dell’uguale se pur in differenti situazioni, sappiamo da dove viene e ha fatto il
suo tempo. Colui che a Hegel sembrò lo Spirito del mondo a cavallo, Napoleone Bonaparte, a noi risulta essere un geniale megalomane militare, morto triste, solo e sconfitto. Quindi non si deve chiedere a una civiltà di ripetere il percorso di un’altra. E non parliamo di «due» civiltà, tante volte si è già detto dell’impossibilità di separare chirurgicamente un «noi» da un «loro», in qualunque gruppo ci si voglia riconoscere. Il nucleo del problema è un altro, in vista di una migliore comprensione, reciproca, e accettazione, reciproca, dell’Islam: nulla cambierà, non fra sei e non fra seicento secoli, se la lettura del Corano rimarrà letterale e basata sulle prime spiegazioni (non interpretazioni) pratiche, avvenute nei primi secoli dall’ègira, dalla fuga del Profeta da Mecca verso quella che poi sarà Medina, nel settembre 622, che segna la nascita della nuova religione. Se le vite del Profeta e dei califfi «ben gui-
Voti d’aria di Paolo Di Stefano L’amico tenero e spavaldo Che ne saprei dell’amicizia se non avessi (avuto) grandi amici molto diversi tra loro. Ci sono amicizie fatte per andare d’accordo grazie alle somiglianze e ci sono amicizie fatte per andare d’accordo grazie alle dissomiglianze. Con Franco è stata una lunga amicizia del secondo tipo: ci siamo conosciuti litigando quando avevamo 11 o 12 anni. Il litigio avvenne nel grande parcheggio del Campo Marzio per uno stupido scambio di battute tra noi tre fratelli e lui: ma si
capovolse subito in alleanza quando un gruppo di ragazzi prese a insultarci («Tagliàn badòla!», «terroni») e Franco li mise in fuga con il suo impeto a volte eroico. Era un duro, il Bianchi: così l’abbiamo chiamato per anni, con il solo cognome. Era stato allievo di nostro padre – che all’epoca insegnava latino al ginnasio di Lugano – e per questo l’avrebbe chiamato per sempre «il sore». Eravamo molto diversi, eppure si stabilì con Franco Bianchi una fratellanza inossidabile durata fino alla scorsa settimana, quando un tumore micidiale se l’è portato via a 63 anni. Era un quinto fratello, sempre pronto ad accorrere, a partecipare, a ridere, a piangere con noi. Abbiamo riso tantissimo, e non c’è niente di meglio, nell’amicizia, che il saper ridere insieme. Ridendo, abbiamo fatto un sacco di cose insieme, i chierichetti, i cantori nella corale di Santa Teresa a Viganello, i lettori a messa… E un sacco di stupidaggini: le prime sigarette fumate di nascosto erano Brunette che sapevano di prugna, i primi baci veri rubati alle coriste, le vacanze estive in Sicilia sempre a caccia di amori
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