Cooperativa Migros Ticino
società e territorio Sempre più persone in Svizzera e in Ticino si dedicano all’apicoltura, persino in città
Ambiente e Benessere Nuove tecnologie per diminuire l’effetto serra prevedono di estrarre il CO2 direttamente dall’atmosfera
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXII 3 giugno 2019
Azione 23 politica e economia Alle Europee è prevalsa la voglia d’Europa: nonostante i forti venti contrari
Cultura e spettacoli Nel suo nuovo libro il tedesco Daniel Kehlmann gioca nuovamente con storia e fantasia
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pagina 5
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pagina 45
Il mal d’Africa di Rimbaud
di Stefano Faravelli pagine 24-25
SALE
sri Lanka, nuovo nemico, stesso odio di Peter Schiesser
Come va lo Sri Lanka, un mese e mezzo dopo gli attentati di Pasqua? L’attenzione dei media internazionali è catturata da altre attualità, ma i giornali dell’isola e qualche reportage sulla stampa indiana e statunitense presentano un quadro abbastanza nitido. Che M. A. Sumanthiran riassume così (sul NYT del 7 maggio): «Siamo tornati alla normalità: abbiamo un nuovo nemico ma lo stesso odio». Della serie: è stato bello avere dieci anni di relativa libertà e tranquillità, ora si riaprono le vecchie piaghe. M. A. Sumanthiran è avvocato e membro del parlamento, una figura nota per il suo impegno per i diritti umani, è tamil e di religione cristiana, inviso sia alle Tigri tamil, sia ai fondamentalisti islamici, sia alla famiglia del precedente presidente Rajapaksa, per citare solo i nemici più illustri, e come pochi mette l’accento sul problema di fondo di questa nazione, a maggioranza singalese e buddista: i diritti delle minoranze, etniche o religiose, non vengono rispettati e il governo si impone con la forza. Ma in questo, il governo attuale come tutti i precedenti rispecchia la posizione dominante nella maggio-
ranza: i singalesi si sentono superiori e vogliono mantenere il potere su tutto il paese, a partire dall’uso del singalese come lingua ufficiale. Sui giornali si trovano appelli alla comunità islamica srilankese affinché si distanzi dagli estremisti e faccia un esame di coscienza sui motivi che hanno portato alla radicalizzazione di alcuni suoi esponenti, anche di spicco (come i due figli del più ricco commerciante di spezie del paese, fattisi esplodere a Pasqua), d’altro canto restano perlopiù impuniti gli estremisti buddisti colpevoli degli attacchi di questi anni contro moschee, case e negozi appartenenti a musulmani. Non solo: si è venuto a sapere che fra le persone arrestate per aver incitato alle violenze dello scorso 12 maggio contro i musulmani in alcune località nel centro-nord dell’isola c’è anche tale Namal Kumara: braccio destro del presidente Sirisena. Presidente che una decina di giorni fa è andato a visitare in carcere Galagoda Gnanasara Thera, un monaco buddista noto per le sue posizioni razziste e nazionaliste, e lo ha graziato qualche giorno dopo. Questo, mentre i ministri musulmani del governo vengono attaccati di continuo sulla stampa e sospettati di connivenza con gli estremisti. Anche i tamil devono tuttora dimostrare di distanziarsi dal terrori-
smo delle Tigri, mentre ogni governo rifiuta categoricamente di permettere delle inchieste serie sugli ultimi mesi di guerra, dieci anni fa, quando il ministro della difesa e fratello dell’allora presidente, Gotabaya Rajapakse, fece bombardare e trucidare decine di migliaia di civili pur di stanare il capo delle Tigri Prabhakaran e terminare la guerra fra singalesi e tamil una volta per tutte. Gotabaya è accusato di crimini contro l’umanità in un tribunale della California, ma si presenterà come candidato alle prossime presidenziali con lo slogan «più controllo, più forze dell’ordine, più sicurezza», rievocando il clima di repressione che avvolse il paese durante il regno dei Rajapaksa. Leggendo le storie personali dei nove attentatori suicidi, si capisce che la radicalizzazione è frutto anche di un percepito senso di ingiustizia subita, causata dalla maggioranza singalese (anche se poi, su spinta dell’ISIS, gli obiettivi di Pasqua sono stati chiese cristiane e alberghi di lusso). Il presidente Sirisena dichiara che tutti gli estremisti sono stati arrestati, che il pericolo è passato. Le notizie di nuovi ritrovamenti di armi ed esplosivi e di nuovi arresti lo contraddicono: la rete che collega l’ISIS agli estremisti islamici nello Sri Lanka ma anche nel sud dell’India è più estesa di quanto si potesse supporre.
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Cooperativa Migros Ticino
società e territorio Sempre più persone in Svizzera e in Ticino si dedicano all’apicoltura, persino in città
Ambiente e Benessere Nuove tecnologie per diminuire l’effetto serra prevedono di estrarre il CO2 direttamente dall’atmosfera
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXII 3 giugno 2019
Azione 23 politica e economia Alle Europee è prevalsa la voglia d’Europa: nonostante i forti venti contrari
Cultura e spettacoli Nel suo nuovo libro il tedesco Daniel Kehlmann gioca nuovamente con storia e fantasia
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Il mal d’Africa di Rimbaud
di Stefano Faravelli pagine 24-25
sri Lanka, nuovo nemico, stesso odio di Peter Schiesser Come va lo Sri Lanka, un mese e mezzo dopo gli attentati di Pasqua? L’attenzione dei media internazionali è catturata da altre attualità, ma i giornali dell’isola e qualche reportage sulla stampa indiana e statunitense presentano un quadro abbastanza nitido. Che M. A. Sumanthiran riassume così (sul NYT del 7 maggio): «Siamo tornati alla normalità: abbiamo un nuovo nemico ma lo stesso odio». Della serie: è stato bello avere dieci anni di relativa libertà e tranquillità, ora si riaprono le vecchie piaghe. M. A. Sumanthiran è avvocato e membro del parlamento, una figura nota per il suo impegno per i diritti umani, è tamil e di religione cristiana, inviso sia alle Tigri tamil, sia ai fondamentalisti islamici, sia alla famiglia del precedente presidente Rajapaksa, per citare solo i nemici più illustri, e come pochi mette l’accento sul problema di fondo di questa nazione, a maggioranza singalese e buddista: i diritti delle minoranze, etniche o religiose, non vengono rispettati e il governo si impone con la forza. Ma in questo, il governo attuale come tutti i precedenti rispecchia la posizione dominante nella maggio-
ranza: i singalesi si sentono superiori e vogliono mantenere il potere su tutto il paese, a partire dall’uso del singalese come lingua ufficiale. Sui giornali si trovano appelli alla comunità islamica srilankese affinché si distanzi dagli estremisti e faccia un esame di coscienza sui motivi che hanno portato alla radicalizzazione di alcuni suoi esponenti, anche di spicco (come i due figli del più ricco commerciante di spezie del paese, fattisi esplodere a Pasqua), d’altro canto restano perlopiù impuniti gli estremisti buddisti colpevoli degli attacchi di questi anni contro moschee, case e negozi appartenenti a musulmani. Non solo: si è venuto a sapere che fra le persone arrestate per aver incitato alle violenze dello scorso 12 maggio contro i musulmani in alcune località nel centro-nord dell’isola c’è anche tale Namal Kumara: braccio destro del presidente Sirisena. Presidente che una decina di giorni fa è andato a visitare in carcere Galagoda Gnanasara Thera, un monaco buddista noto per le sue posizioni razziste e nazionaliste, e lo ha graziato qualche giorno dopo. Questo, mentre i ministri musulmani del governo vengono attaccati di continuo sulla stampa e sospettati di connivenza con gli estremisti. Anche i tamil devono tuttora dimostrare di distanziarsi dal terrori-
smo delle Tigri, mentre ogni governo rifiuta categoricamente di permettere delle inchieste serie sugli ultimi mesi di guerra, dieci anni fa, quando il ministro della difesa e fratello dell’allora presidente, Gotabaya Rajapakse, fece bombardare e trucidare decine di migliaia di civili pur di stanare il capo delle Tigri Prabhakaran e terminare la guerra fra singalesi e tamil una volta per tutte. Gotabaya è accusato di crimini contro l’umanità in un tribunale della California, ma si presenterà come candidato alle prossime presidenziali con lo slogan «più controllo, più forze dell’ordine, più sicurezza», rievocando il clima di repressione che avvolse il paese durante il regno dei Rajapaksa. Leggendo le storie personali dei nove attentatori suicidi, si capisce che la radicalizzazione è frutto anche di un percepito senso di ingiustizia subita, causata dalla maggioranza singalese (anche se poi, su spinta dell’ISIS, gli obiettivi di Pasqua sono stati chiese cristiane e alberghi di lusso). Il presidente Sirisena dichiara che tutti gli estremisti sono stati arrestati, che il pericolo è passato. Le notizie di nuovi ritrovamenti di armi ed esplosivi e di nuovi arresti lo contraddicono: la rete che collega l’ISIS agli estremisti islamici nello Sri Lanka ma anche nel sud dell’India è più estesa di quanto si potesse supporre.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 giugno 2019 • N. 23
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Attualità Migros
La musica comincia a Chiasso Festate 2019 La prima delle grandi manifestazioni estive del nostro cantone
propone un cartellone dedicato all’Africa e ai suoi artisti Si avvia verso i 30 anni, Festate, mantenendo però tutta la verve e la voglia di stupire che l’ha caratterizzata nel corso delle sue passate edizioni. Per la sua ventinovesima rassegna, sostenuta dal Percento culturale di Migros Ticino, ha scelto come tema generale quello della musicalità del «continente nero»: sotto il titolo di L’Afrique c’est chic proporrà dunque al pubblico un cartellone vivace (come sempre), originale (come sempre) e pieno di sorprese (come sempre). L’ispirazione africana, naturalmente, non è da intendersi in senso letterale: non saranno presenti sui vari palchi della manifestazione solo band che si avvicinano a quella dimensione culturale. Ma visto che nella musica moderna ormai da tempo l’influenza «afro» è un tratto dominante, ecco che proprio la rassegna chiassese ci darà il modo di notarne le varie declinazioni e, soprattutto, di scoprire come le molte band realmente africane invitate a Chiasso hanno saputo «colorare d’occidente» le loro personali esperienze. Ma procediamo con ordine nel presentare la rassegna. Occorre dire prima di tutto che come nelle passate edizioni le due serate chiassesi potranno contare su un prologo «in trasferta» in un’altra località del Mendrisiotto. Raccogliendo l’eredità della gloriosa manifestazione «Ul suu in cadrega», da qualche anno Stabio organizza un fine settimana musicale che funge da momento introdut-
20 pagine
di consigli e ispirazioni per grigliare con famigliari e amici
I Modena City Ramblers, anima africana in kilt scozzese...
tivo a Festate. Quest’anno nel contesto della Masseria ProSpecieRara, a San Pietro di Stabio, sotto il titolo di «Verso Festate» è programmata quindi una due giorni intensa e coinvolgente, che si aprirà venerdì 7 giugno nel Cortile del Palazzo alle ore 19.00 grazie allo «spazio prezioso del ricordo» offerto dall’intervento Le Signore del Palazzo dell’architetto Paolo Canevascini. In serata, doppio concerto con la band italiana Lamorivostri e la musica balcanica di Rona Hartner. Il giorno seguente una scaletta nuovamente d’ispirazione folk-moderno, con il gruppo Djelem do Mar e poi con le vivaci contaminazioni tra jazz e suoni etnici dell’ottimo Daniele Sepe. Sepe è sicuramente uno dei portabandiera della musica partenopea contemporanea, un vero genio musicale le cui influenze spaziano dal free jazz alla musica di Frank Zappa, passando per il folk napoletano e la vocazione elettrica dei Weather Report. Da notare che entrambe le serate saranno chiuse dal Dj set di Dj Shin, già presente a Festate lo scorso anno nello Spazio Off. Per ciò che riguarda, invece, la manifestazione vera e propria che avrà luogo a Chiasso, il centro della località di confine si trasformerà venerdì 14 e sabato 15 giugno in una vera cittadella della musica. Sono ben tre infatti gli spazi previsti per le esibizioni dal vivo. Da un
lato il tradizionale palco collocato sulla Piazza del Municipio. Qui si esibiranno gli artisti di richiamo. Il venerdì una proposta decisamente più elettrica e dirompente: in apertura di serata la band ticinese dei Re:Funk di Dario Milan e Maqs Rossi, che aprono così la loro estate musicale dopo i successi dello scorso anno; poi l’interessantissima bassista ivoriana Manou Gallo, vero fenomeno
straLugano 2019
dello strumento. Per concludere il programma, infine, l’esplosione di entusiasmo ed energia dei Modena City Ramblers, forse non molto «neri» dal punto di vista stilistico, ma sicuramente sanguigni e pieni di vivacità genuina. La traccia africana suggerita dal festival sarà molto più appariscente nella serata di sabato: dalle influenze mediterranee degli Ajom, alla potente irruenza congolese di Jupiter & Owkness, passando per l’affascinante progetto de Les Amazon d’Afrique. Oltre a queste esibizioni, centrali nella fisionomia del festival, vanno segnalati anche gli spazi concomitanti al festival: la Scena Off con le band emergenti, la mostra d’arte allo Spazio lampo e i discorsi ufficiali dello Spazio Oasi. Buona Festate a tutti!/Red. Festate
Chiasso Venerdì 14 - Sabato 15 giugno In collaborazione con
Il programma Verso Festate 2019 (S. Pietro di Stabio) Venerdì 7 giugno
21.00 Lamorivostri 22.30 Rona Hartner, 24.00 Dj Shin Sabato 8 giugno
21.00 Djelem do Mar, 22.30 Daniele Sepe e Lavinia Mancusi 24.00 Dj Shin Festate 2019 (Piazza del Municipio, Chiasso) Venerdì 14 giugno
Dalle ore 20.45: Re:Funk; Manou Gallo; Modena City Ramblers Sabato 15 giugno
Dalle ore 20.45: Ayom; Les Amazon d’Afrique; Jupiter & Owkness
Ricordi da una grande giornata Sono online le immagini dei partecipanti
Non basta la pioggia a frenare la passione: la più importante competizione podistica del Ticino ha superato anche quest’anno la barriera dei 5000 iscritti, un numero davvero impressionante. Per due giorni il centro della città sul Ceresio si è trasformato in uno spazio agonistico, ma ha offerto in più di questo bei momenti di incontro e anche di solidarietà. Ed ora, a competizione terminata, i partecipanti alle gare possono rivivere i più bei momenti della memorabile giornata: il sito ufficiale della manifestazione permette loro di rivedersi impegnati in vari momenti del bellissimo percorso. Sul sito web www.stralugano. ch, inserendo il numero del proprio pettorale, sarà possibile visualizzare sia una galleria fotografica, sia alcuni spezzoni video ripresi lungo il tracciato attraverso le vie di Lugano. E, a coronamento dell’impresa, sarà possibile anche scaricare il diploma ufficiale di partecipante, con tanto di piazzamento, tempo di percorrenza e media al chilometro. Il tutto in attesa dell’edizione 2020…
StraLugano, 25 - 26 maggio, Lugano
SCENAOFF (Posteggi Municipio, Chiasso) Venerdì 14 giugno
Easy Sunset leMox
Sabato 15 giugno
The Black Heidis Luka Rude Boy
Spazio Lampo (Via Livio 16, Chiasso) Sabato 15 giugno
18.30 Inaugurazione mostra «FM» FMottini e FMartins,
Spazio Oasi Sabato 15 giugno
18.00 Conferenza, Foyer Cinema Teatro 22.00 Discorso, palco principale Annuncio pubblicitario
Fare la cosa giusta
Quando la povertà mostra il suo volto Per saperne di più su Marie: farelacosagiusta.caritas.ch
Marie Bamounmanan (56 anni), Ciad, ha acquisito l’autonomia
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 giugno 2019 • N. 23
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società e territorio I 20 anni del Museo militare Il percorso didattico lungo la linea LONA è l’occasione per scoprire il forte Mondascia e il suo museo
sindrome di Asperger Le testimonianze di un uomo a cui è stata diagnosticata, della madre di un giovane che ne soffre e di una terapeuta che studia questa condizione pagina 11
storia Intervista a Silvana Calvo autrice del libro L’informazione rifiutata che indaga come in Svizzera i media informavano su quanto stava accadendo agli ebrei in Germania pagina 15
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C’è voglia di miele
Api in città In Svizzera e in Ticino cresce
l’apicoltura fai da te anche nelle zone urbane. Un hobby prezioso per preservare la biodiversità
Jonas Marti Su internet si trovano diversi kit per improvvisati apicoltori. C’è il modello più economico, con una sola arnia e la tuta completa, con maschera e guanti. C’è il modello più professionale, per chi vuole spendere un po’ di più, con tanto di affumicatore in acciaio e smielatore manuale. Per gli amanti del bello e cultori dell’estetica ci sono addirittura arnie in pregiato legno di cedro rosso, decorate come un piccolo chalet svizzero. Chiunque, con poche centinaia di franchi e un po’ di curiosità, può «cominciare l’avventura nel meraviglioso mondo delle api». Non serve alcun terreno in campagna, né costosi investimenti, né un particolare pollice giallo (quello per il miele). Basta un piccolo spazio nel proprio giardino, sulla terrazza, o sul tetto di casa. E il dolce e appiccicoso mondo del miele è pronto a offrire i suoi segreti. La chiamano apicoltura urbana. Da Berlino a New York, da Zurigo a Milano, fioriscono le arnie in città, e i corsi per imparare ad allevare le api all’ombra dei grattacieli registrano il tutto esaurito. Un vero e proprio boom di apicoltori, con alveari installati sui tetti di bar, ristoranti e giardini. A Parigi, il recente incendio di Notre-Dame ha svelato una storia curiosa: tra i gargoyle e le guglie, sul tetto della cattedrale, abitavano da anni anche 200mila api, distribuite in tre grandi alveari, dono di un apicoltore alla curia. Per fortuna si sono salvate. L’apicoltura urbana fa tendenza, e sta arrivando anche da noi. Basta guardare il numero degli iscritti alla Società ticinese di apicoltura. Negli ultimi dieci anni è cresciuto, passando da 450 membri a 530. «Ma gli apicoltori, compresi quelli che lo fanno per hobby, sono sicuramente di più, perché non tutti decidono di iscriversi alla nostra società», spiega il presidente Davide Conconi. «Il merito di questo boom è sicuramente dell’aumentata sensibilità dei cittadini per l’ambiente e la biodiversità, ma anche del film del regista svizzero Markus Imhoof More than Honey, che qualche anno fa ha fatto riflettere molte persone sull’importanza delle api per l’ecosistema globale».
Riconnettersi con la natura, e salvaguardare le api, il cui numero è in costante diminuzione dagli anni 90 a causa dell’agricoltura intensiva, dell’uso diffuso dei pesticidi e dei cambiamenti climatici. Mettersi tuta e casco e buttarsi nell’hobby cittadino dell’apicoltura non è solo un’azione utile e preziosa per tutelare la biodiversità: è anche un’opportunità. «Il miele prodotto in ambiente urbano non è certo peggiore di quello prodotto in campagna», dice Conconi. Anzi: in alcuni casi può anche essere migliore. Perché in città, tra le aiuole pubbliche e i vasi da balcone, ci sono fiori tutto l’anno, anche in inverno. E non è l’unico vantaggio: la temperatura in città è mediamente più alta rispetto alla campagna, e le api, che hanno bisogno di calore per il loro metabolismo, sono più attive. Alcuni obiettano che le città sono più inquinate delle aree rurali. Per Davide Conconi non è così. «In Svizzera sono state condotte alcune ricerche. Il miele prodotto in ambiente urbano non è assolutamente più inquinato di quello di campagna. Anzi, in alcuni casi è più sano perché in città si fa meno uso di pesticidi. L’inquinamento dovuto al traffico? Sembra irrilevante. Il piombo, che un tempo finiva dentro il miele, è scomparso dalla benzina molti anni fa. Nelle nostre città non c’è alcun problema». E c’è chi, a livello istituzionale, si è già mosso. Nel 2011 il Dicastero del verde pubblico della città di Losanna ha installato diverse arnie in alcuni parchi cittadini, offrendo agli apicoltori dilettanti la possibilità di praticare il loro hobby sul suolo pubblico. Non solo: sul sito dell’amministrazione cittadina è stato lanciato un appello, affinché i privati mettano a disposizione i propri terreni per collocare apiari. Tutto in nome della biodiversità e della sostenibilità. Le analisi effettuate sul miele prodotto hanno evidenziato una grande qualità, e nei campioni non è stata trovata alcuna traccia di metalli pesanti. A Zurigo invece, in pieno centro città, l’albergo cinque stelle Baur au Lac produce da diversi anni il miele che serve a colazione ai suoi clienti. Viene direttamente dal
Arnie sul tetto dello stabile della Camera di commercio e dell’industria vodese a Losanna. (Keystone)
giardino dove sono state installate delle arnie, centomila api divise in quattro colonie. In Svizzera del resto è molto facile: l’apicoltura è una delle attività più libere. La legge è molto permissiva e non prevede alcuna formazione particolare per diventare apicoltore. Qualche anno fa Apisuisse, l’organizzazione mantello delle associazioni degli apicoltori, aveva proposto un corso obbligatorio di base che i neofiti avrebbero dovuto frequentare. L’Ufficio federale della sicurezza alimentare e di veterinaria si è dimostrato scettico, perché il nuovo obbligo avrebbe creato più costi e burocrazia senza rappresentare una vera esigenza. Per chi vuole diventare apicoltore c’è solo un obbligo, spiega Conconi. «L’unica cosa da fare è notificare la presenza delle arnie al veterinario cantonale. Per una questione di salute delle api. Se scoppia un’epidemia, le autorità vogliono sapere dove si trovano gli apiari così da intervenire in modo capillare». In alcuni comuni, inoltre, è richiesta una domanda di costruzione. «Ma in altri invece no. A livello comunale non c’è una normativa standard.
Per questo il Cantone ha invitato recentemente le amministrazioni comunali a uniformare le ordinanze». In Ticino è un vero e proprio boom quello dell’apicoltura. Al Centro professionale del verde di Mezzana, Mauro Nicollerat organizza da quasi venti anni corsi per principianti. Mai come negli ultimi anni ha registrato il pienone. «Un tempo era tanto se si iscrivevano una decina di persone. Oggi si viaggia sempre sopra i cinquanta iscritti. L’interesse per l’apicoltura è in forte crescita», spiega Nicollerat. Cinque serate, divise tra teoria e pratica. Durante la prima vengono illustrate le varie razze di api e i vari tipi di arnie. Nella seconda si studia la biologia e l’anatomia dell’ape. Fino ad arrivare nella terza e quarta serata alla posa dei melari e alla smielatura, e concludendo con la problematica delle malattie. L’apicoltura urbana? Risponde Nicollerat: «Un fenomeno interessantissimo che sta prendendo piede. Anche se non è così semplice...» No: la semplicità non è di questo mondo, e nemmeno di quello delle api. Perché anche tra le piante mellife-
re, non sono tutte rose e fiori. Prima di installare un’arnia in giardino forse è meglio invitare a cena il vicino di casa. E cercare di convincerlo. «Le api non sono mucche o galline, non le puoi confinare», spiega ancora Davide Conconi della Società ticinese di apicoltura. «Se ne vanno in giro, e molta gente ha paura. Riceviamo diverse segnalazioni ogni anno. Quando in zona residenziale c’è un conflitto, c’è poco da fare: vince sempre la tranquillità e la sicurezza del cittadino». Senza contare che le api, soprattutto in primavera, fanno i loro bisognini e possono sporcare la biancheria stesa all’aperto o la carrozzeria delle auto. «Qualche anno fa – ricorda Conconi – un concessionario si è lamentato e ha costretto un apicoltore a spostare le arnie». Ma il miele è più dolce di ogni cosa. Il nuovo popolo degli apicoltori è in costante crescita. Se tutto va bene, in una stagione una sola arnia può regalare fino a 15 chili. E la media in Ticino è di tre arnie per apiario. Quasi cinquanta chili all’anno: di che soddisfare la propria golosità, e quella di parenti e amici. Contribuendo a salvaguardare le api.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 giugno 2019 • N. 23
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Idee e acquisti per la settimana
pesce al 100 per cento sostenibile per le vostre grigliate Attualità Gli esperti del pesce Migros vi aspettano al banco a servizio con consigli mirati per ricette
prelibate. Che ne direste, per esempio, di mettere sulla griglia specialità ittiche da allevamento biologico? Azione 20%
su orata, Branzino e salmone bio
migusto.ch
dal 4 all’8 giugno
orata ai pomodori e carciofi
Gli intenditori di pesce, nonché appassionati di cucina alla griglia, sanno che sulla graticola alcune varietà riescono particolarmente bene, poiché vengono messe in risalto al meglio le loro peculiarità culinarie. Tra queste, possiamo certamente citare l’orata, il branzino e il salmone. L’orata è un pesce che a molti rievoca i tipici sapori e aromi della cucina mediterranea. La sua carne soda dal sapore delicato si sposa a meraviglia con gli odori dell’aglio e del limone e può essere preparata sia intera, farcita o filettata.
Altro pesce particolarmente pregiato è il branzino, noto anche come spigola. Questo pesce possiede una carne tenera e succosa, che diventa perfetta se cotta a puntino, ma non stracotta, altrimenti si disfa e si secca. Un modo per capire se il pesce è cotto, è quello per esempio di infilare un ago nel pesce: se la punta è calda, è pronto da servire. Grazie alla sua versatilità, alla facilità di preparazione e al sapore squisito, il salmone fresco è uno dei pesci più apprezzati. Può essere cucinato in mille modi diversi: in padella, al forno, grigliato, al
vapore o al cartoccio. In vendita, lo si trova solitamente a tranci o a filetti, ma per le grandi tavolate può essere acquistato anche intero. Infine, per un risultato ottimale con la vostra grigliata di pesce, i nostri esperti del banco del pesce fresco sono al vostro servizio per rispondere ad ogni domanda e desiderio. Non esitate a rivolgervi a loro e buon appetito! pesce da piscicoltura biologica
Tutto il pesce venduto da Migros proviene esclusivamente da fonti soste-
nibili. L’orata, il branzino e il salmone sono ottenibili ad esempio anche in qualità biologica. I pesci vengono allevati in ampie vasche in condizioni adatte alle loro esigenze; la loro alimentazione è costituita da cibo bio, da farina e olio di pesce di specie commestibili e piante dell’agricoltura biologica. Non vengono utilizzati trattamenti antibiotici e dispongono di molto spazio per nuotare grazie alla ridotta densità di esemplari. In caso di malattie, si privilegia l’impiego di medicinali naturali e omeopatici.
Ingredienti per 4 persone 4 orate di ca. 600 g sale, pepe 100 g di cuori di carciofi sott’olio sgocciolati 100 g di pomodorini cherry 100 g di pasta di olive verdi 4 cucchiai d’olio d’oliva preparazione Sciacquate i pesci con acqua fredda e asciugateli con carta da cucina. Conditeli con sale e pepe. Tagliate i carciofi e i pomodorini a fettine sottili e mescolateli con la pasta di olive. Riempite le cavità ventrali dei pesci con la farcia e spennellateli d’olio. Grigliate i pesci a fuoco medio-alto da entrambi i lati per ca. 18 minuti.
triföi bio par i bestiöö
Il sushi del mese
va ad arricchire l’assortimento dei Nostrani del Ticino: il trifoglio essiccato biologico per roditori e conigli
della cucina del paese del Sol Levante
Novità Un altro prodotto della Fondazione San Gottardo
Dopo la miscela di erbe aromatiche bio introdotta qualche settimana fa, ecco che a Migros Ticino giunge un altro pregiato prodotto realizzato in collaborazione con gli utenti della Fondazione San Gottardo di Melano. Questa volta si tratta di un articolo destinato all’alimentazione dei nostri amici animali, nella fattispecie roditori e conigli: il trifoglio bianco bio essiccato. La pianta è coltivata presso l’azienda agricola sociale Orto il Gelso di Melano, senza l’utilizzo di alcun prodotto chimico di sintesi. Una volta raccolto, il
trifoglio è essiccato lentamente affinché possa preservare le sue proprietà nutritive. Grazie alla ricchezza di fibre, aiuta le funzionalità digestive e intestinali dell’animale, sostenendone il benessere. È un complemento equilibrato all’alimentazione quotidiana e ne favorisce inoltre l’igiene dentale. L’alimento può essere lasciato liberamente a disposizione dei roditori, per esempio in una rastrelliera o nei luoghi che preferiscono, preferibilmente al mattino e alla sera. Importante conservare il prodotto in un luogo asciutto e al riparo dalla luce.
Attualità Genuini sapori per amanti
sushi Minazuki 290 g Fr. 15.90
trifoglio bio per roditori e conigli 300 g Fr. 3.90
Nigiri tilapia e salmone crudo, HosoMaki al rafano, Chu-Maki al tonno e al salmone teriyaki: queste sono le bontà che compongono la specialità di sushi del mese di giugno, il Minazuki. Lasciatevi tentare da questo piatto
asiatico che, come le altre varietà di sushi presenti nel nostro assortimento, è preparato giornalmente con ingredienti freschissimi da autentici esperti della tradizione gastronomica giapponese.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 giugno 2019 • N. 23
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Idee e acquisti per la settimana
protezione naturale antizanzare
Una tira l’altra
stagionalità Cosa sarebbe la primavera
senza le squisite ciliegie?
Attualità La Catambra è una pianta che allontana le zanzare in modo
totalmente naturale
Azione 33%
sulle Ciliegie Italia, 500 g Fr. 4.40 invece di 6.60 dal 4 al 10 giugno
È arrivata la stagione delle ciliegie. Croccanti, succose e dall’inconfondibile e intenso sapore dolce… Non aspettano altro che di essere gustate fresche, oppure trasformate in tantissimi dessert o confetture che faranno la felicità di grandi e piccoli buongustai. Le ciliegie devono essere raccolte al momento giusto, in quanto una volta raccolte non maturano più. Dopo l’acquisto, i rossi frutti vanno consumati o trasformati entro breve tempo, poiché tendono a deperire rapidamente. Eventualmente si possono conservare in frigorifero, al massimo tre giorni. Le ciliegie si prestano bene anche ad essere congelate – in-
Catambra Fr. 29.– In vendita nei Do it + Garden Migros
Volete godervi pienamente gli spazi esterni della vostra abitazione senza fastidiose punture di zanzare, anche tigre? Ciò è ora possibile grazie alla Catambra, una pianta capace di tenere lontani gli insetti grazie ad una sostanza naturale repellente che contiene in elevate quantità, il catalpolo. Quest’ultimo è presente in un quantitativo ben quattro volte superiore rispetto ad altre varietà della specie. La pianta è originaria dell’Ame-
rica Boreale, ed è disponibile in vaso nei Do it + Garden Migros del Cantone ad un prezzo particolarmente vantaggioso. Una volta acquistata, si consiglia di trasferire la Catambra in un vaso più capiente, questo per far sì che possa svilupparsi al meglio ed emanare in modo efficace la speciale sostanza repellente inodore per l’uomo. La pianta può essere trapiantata anche in giardino, richiede pochissime cure, cresce velocemente e
si adatta bene a tutti i terreni. L’annaffiatura è da effettuare regolarmente ogni 3-6 giorni: è importante che la terra sia sempre umida, ma non bagnata. Per una protezione ottimale, si consiglia di circoscrivere la zona con più piante, collocando le piante ad una distanza tra 1-3 metri l’una dall’altra. Infine, si consiglia di non potare spesso le foglie, perché è proprio nelle foglie che è contenuta la sostanza repellente naturale.
tere con il loro nocciolo –, così facendo si potranno preparare irresistibili ricette anche in inverno. Dal punto di vista salutistico, le ciliegie contengono sostanze aromatiche e acidi organici che stimolano la digestione. Inoltre nei frutti è presente un gran numero di preziose vitamine, come la vitamina C e l’acido folico, e minerali quali potassio, magnesio, calcio e ferro. Segnaliamo infine che fra qualche settimana giungeranno sugli scaffali le apprezzate ciliegie di produzione svizzera, un’autentica prelibatezza pronta da gustare a pochissime ore dalla raccolta. Saranno disponibili da metà giugno a inizio agosto. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 giugno 2019 • N. 23
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società e territorio
Dentoni e fortini in difesa del territorio Museo militare Il percorso didattico allestito dall’Associazione ForTi lungo la linea di difesa LONA offre l’occasione
di riscoprire il forte Mondascia e il suo Museo militare che quest’anno festeggia il 20° anniversario
Elia Stampanoni Transitando da Lodrino, sia sulla cantonale verso Osogna, sia verso nord, ma anche percorrendo le vie del paese, è facile imbattersi in diversi dentoni in cemento armato, approssimativamente a forma di «V» rovesciata e di diverse tipologie: alti, bassi, dritti, obliqui,... Sono veramente tanti, a stima almeno un migliaio, e sbucano dal terreno formando una fascia che si sviluppa dal fiume Ticino per poi piegare in altri lunghi segmenti rettilinei fino alle pareti ad ovest della montagna, distribuiti su una larghezza di una decina di metri. Li incontriamo in campagna e poi tra le case, i prati, i campi o gli orti di Lodrino, dove sono ormai parte integrante del paesaggio. Si tratta di costruzioni a difesa del territorio che l’esercito elvetico fece costruire tra il 1939 e il 1942 in un punto strategico. Il segmento di difesa denominato linea LONA (dalle prime e ultime lettere di Lodrino e Osogna), fu di fatto eretto per assicurare una posizione da cui si potesse contrattaccare il nemico e ostacolarne il passaggio in direzione della Leventina. La scelta del luogo non fu casuale, dato che qui la Riviera ha un fondovalle molto stretto di circa 1’300 metri, con inoltre dei fianchi della montagna assai scoscesi. In aggiunta c’è anche l’ampia ansa del fiume Ticino a nord-est di Lodrino che restringe notevolmente la percorribilità della vallata. Questa
La linea LONA fu costruita tra il 1939 e il 1942. (E.Stampanoni)
particolarità orografica, con l’ostacolo del fiume da sempre un elemento difficile da varcare per una truppa militare, congiuntamente alle ripide pareti di roccia, resero la linea LONA un manufatto strategico che doveva rallentare e poi fermare i carri armati, mettendoli sotto il tiro delle armi dei 23 fortini circostanti e parte del dispositivo di difesa. Accanto allo sbarramento anticarro ci sono infatti anche i numerosi bunker o fortini che permettevano di arrestare l’avanzamento delle truppe nemiche da meridione verso i valichi alpini, ma che fortunatamente non furono mai utilizzati a scopi bellici. Per la difesa dello spazio aereo, nel 1940 fu
anche costruito il campo di aviazione militare di Lodrino. Al contrario di altre nazioni europee, la conclusione del secondo conflitto mondiale non segnò la fine delle costruzioni e la linea fu regolarmente modernizzata in adeguamento con il concetto di neutralità armata della Confederazione. Un rinforzo notevole fu fatto nei numerosi ricoveri prefabbricati denominati «fortini sferici» edificati negli anni ’50-60 nella zona di Iragna. Solo con il crollo del muro di Berlino e la fine della guerra fredda, durante la quale rimase operativa, la fortificazione fu posta «a riposo» nel 1995. Oggi questa linea di difesa, disfatta
e interrotta solo in alcuni tratti con la costruzione dell’autostrada, di strade o di altre infrastrutture, è stata rivalorizzata in chiave turistica e culturale, anche a memoria dei militi che hanno prestato servizio e della popolazione della Riviera che ha vissuto la sua costruzione. I lunghi segmenti esistenti della linea LONA, congiuntamente al forte Mondascia e alle altre opere, rientrano in un percorso didattico allestito dall’Associazione ForTi (il n°8, linea LONA) che si sviluppa lungo un sentiero di montagna per una lunghezza complessiva di circa 12 km e un dislivello di 627 m. L’anello in circuito LodrinoCitto-Iragna-Mairano-Lodrino, è uno dei tragitti pedestri ideati dal progetto ForTi e, oltre allo sbarramento anticarro, sono d’interesse i fortini di «Vergio», costruiti sotto roccia quale spalla occidentale dello sbarramento, il fortino di Mairano, il fortino sotto roccia «Chiesa» e il fortino «Bunker Grande», unico rimasto di tre opere identiche. Il progetto ForTi include altri dieci percorsi per un totale di sessantanove fortificazioni e circa centocinquanta chilometri disegnati sui sentieri esistenti del nostro territorio. Se i vari «dentoni», anche chiamati «denti di drago», rappresentano la parte più visibile ed emergente delle strutture di fortificazione nella zona di Lodrino e Osogna, il forte Mondascia è l’opera difensiva più importante della linea LONA. Fu costruito all’inizio della seconda guerra mondiale ed era accom-
pagnato sia da artiglierie in caverna all’interno dei fianchi montuosi, sia da bunker sotterranei. L’impianto militare, migliorato nei decenni successivi, è stato in seguito posto sotto protezione per la sua importanza storica, architettonica e militare e oggi ospita il Museo militare di Forte Mondascia che festeggia quest’anno il suo 20° anniversario. Una visita al Forte, dopo una passeggiata lungo la linea LONA, permette di ricordare o immaginare un periodo bellico che ha toccato, seppur marginalmente, anche il Ticino. Nel museo, allestito all’interno del forte, si possono vedere, oltre alle armi, anche una rappresentazione di quella che era la vita del milite, con i dormitori, le cucine, i mezzi di trasmissione, i veicoli e tutti gli oggetti di uso quotidiano all’interno delle fortificazioni. Il Forte Mondascia è gestito da ForTi, associazione frutto di un progetto transfrontaliero che si occupa pure delle visite guidate, di escursioni culturali, raduni, conferenze storiche, esposizioni a tema e della custodia di questo patrimonio militare. Quest’anno, per festeggiare il ventesimo compleanno, propone una serie di avvenimenti, tra cui la due-giorni «Historica» che si terrà il 29 e il 30 giugno e, il 24 e 25 agosto, l’evento «Il Forte che vive», durante il quale il presidente di ForTi, Osvaldo Grossi, aprirà le porte a una trentina di veicoli storici. Oltre che in queste occasioni, il museo è aperto su prenotazione per gruppi di almeno di 15 persone. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 giugno 2019 • N. 23
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società e territorio
Nel segno di Greta
sindrome di Asperger Le recenti vicende che hanno visto salire alla ribalta la giovane attivista svedese
hanno acceso l’interesse intorno ai disturbi dello spettro autistico Alessandro Zanoli L’articolo pubblicato tempo fa in cui prendevamo spunto dalla vicenda di Greta Thunberg ha suscitato varie reazioni, del tutto inattese, ma che ci sembrano utili perché ci permettono di avvicinare e comprendere meglio cos’è e come viene affrontata oggi la Sindrome di Asperger. Il primo a contattarci per commentare il nostro scritto è stato Marco (lo chiamiamo così per preservare la sua privacy), il quale, ha messo fortemente in discussione la nostra definizione dell’Asperger quale «malattia». Invitato in redazione per un incontro, Marco ci ha rivelato di essere una persona che vive la condizione di salute chiamata con questo nome. Nel corso della vita ha dovuto affrontare innumerevoli difficoltà dovute al suo modo di pensare e reagire, differente da quello convenzionale, e al suo modo di adattarsi alla realtà sociale. Oggi, alla soglia della pensione, dice di aver vissuto un momento di sollievo proprio quando l’Asperger gli è stata diagnosticata, qualche anno fa. «La diagnosi è stata come una liberazione, come accendere una luce in una stanza buia, perché tutto il mio vissuto, finalmente, da strano e non convenzionale diventava coerente, comprensibile». In questo senso Marco dice chiaramente di non essere malato, ma semplicemente diverso. È lui stesso a chiarirci i termini della questione: «La definizione della Sindrome di Asperger ha margini molto ampi. Secondo la descrizione più semplice si parla di un DSA, disturbo dello spettro autistico, senza effetti sul piano comportamentale: dunque, in pratica, quasi impossibile da notare dall’esterno. L’intelligenza non risulta compromessa dal disturbo in sé. Anzi, spesso chi è affetto dall’Asperger mostra un quadro cognitivo altamente sviluppato, anche se magari in modo molto settoriale». Marco, ad esempio, è un appassionato di astrofisica ed è interessatissimo in particolare alle tecnologie che permettono l’osservazione del cielo. Questo gli ha fatto avvicinare campi di studio come l’elettronica e l’informatica, ma gli ha dato anche la possibilità di ottenere il brevetto di volo come pilota di linea. Per tutta la vita però i suoi interessi sono stati accompagnati da una difficoltà di gestire i rapporti sociali e le emozioni. «Ci sono elementi diagnostici che sono molto evidenti, come la fuga dal contatto visivo. Studi scientifici hanno dimostrato che i bambini autistici fin da piccolissimi si concentrano sugli oggetti circostanti e sui contesti d’ambiente, piuttosto che sui visi delle persone». Una diagnosi precoce, secondo Marco e la sua esperienza personale, è la cosa più importante: in tal modo l’approccio educativo con il bambino potrà focalizzarsi sulla modalità di apprendimento più adatta a lui, aiutandolo a imparare e a conoscere la sua particolarità di funzionamento. Marco oggi sembra ben cosciente della sua situazione e in grado di gestire la sua vita: tra i vari impegni che si è assunto c’è la gestione del GAT Gruppo Asperger Ticino, che vuole fun-
Un personaggio che ha fatto della sua condizione personale una virtù sociale. (AFP)
gere da punto di riferimento per le persone toccate da questa sindrome e per quelli che sono in relazione diretta con loro, creando incontri regolari e informali di discussione e di contatto. L’idea è quella di condividere le proprie esperienze e mettere in comune le strategie di adattamento e, oltre a questo, vivere momenti conviviali (per informazione si veda il profilo Facebook del gruppo Asperger Svizzera Italiana e il sito del autismo www.autismo.ch). Un’altra testimonianza viene da un’amica e compagna di scuola che non sentivamo da tempo. Prendendo spunto dal nostro articolo ha deciso di contattarci. E subito ribadisce anche lei che il termine «malattia» non è adatto a definire l’Asperger. «Non è una malattia perché non può guarire: i bambini malati si possono curare e magari possono migliorare, ma con questo disturbo no. Con loro sei tu che devi pórti in un certo modo e devi solo riuscire a gestire la situazione. Gli Asperger si distinguono dagli “autistici classici” (di fatto l’Asperger viene definita una forma leggera di autismo) poiché, siccome spesso molto intelligenti, attirano maggiormente l’attenzione e di conseguenza sono oggetto di studi, a discapito degli altri, che sono più problematici da gestire». Dunque ecco la sua esperienza: il primo figlio della nostra amica aveva manifestato fin da piccolissimo gravi difficoltà di comportamento e di adattamento alle situazioni della vita di tutti i giorni. I momenti più critici erano stati naturalmente quelli dell’inserimen-
to all’asilo e poi a scuola. «Non veniva accettato, aveva grossi problemi con le maestre, che non riuscivano a gestirlo nella pratica quotidiana. Andava soggetto ad accessi aggressivi. Le crisi erano date dal fatto che né lui capiva cosa le maestre volevano da lui, né lui era capace di dire che non era in grado di fare quello che gli veniva chiesto: ad esempio allacciarsi i bottoni del grembiulino o pulirsi il naso da solo con un fazzoletto. Poi, finalmente, la diagnosi del suo disturbo è arrivata, durante la terza elementare». Nel corso dell’iter scolastico, alle difficoltà di inserimento si aggiungevano anche quelle legate alle sue varie difficoltà, che venivano prese in giro dai compagni di scuola. Al tempo delle medie gli venne misurato il QI (Quoziente Intellettivo), che risultò molto alto. Con grandi difficoltà e con la costante attenzione e sostegno dei genitori, il ragazzo è cresciuto, è riuscito a ottenere la maturità in una scuola cantonale e poi a laurearsi al Politecnico di Zurigo. E la prossima grande sfida rappresenta il suo inserimento nel mondo del lavoro. «I suoi interessi sono ipertecnologici. Adesso sa tutto su vulcani e laghi sotterranei dell’America Latina per i quali scrive articoli in Wikipedia (della quale è, tra l’altro, uno dei moderatori, così come del sito Tv Tropes). Vive in questo suo mondo che io faccio fatica ad accettare. Ma d’altro canto è incapace di compiere cose molte semplici che per noi sono normali. Non si rende conto di aver fame, ad esempio, ed è quasi impos-
sibile insegnargli a cucinare qualcosa. Immerso nel suo mondo, non sa prendersi cura di sé e occorre sempre renderlo attento al mondo circostante». L’esperienza dell’amica è riassunta in una conclusione segnata dalla saggezza: «Evidentemente la relazione con lui non è facile, perché non ci sono quasi mai momenti di contatto affettivo. È una costante sfida intellettuale. Alla fine mio marito ed io, come coppia, abbiamo imparato molto: ci siamo adattati, abbiamo seguito un percorso terapeutico. Addirittura la mia terapeuta mi dice che se volessimo potremmo occuparci di un altro giovane Asperger (nel senso di seguirlo e aiutare la famiglia d’origine), viste le capacità che abbiamo maturato. Ma direi che non è il caso». Sulla scorta di un consiglio di Marco, abbiamo preso contatto, infine, con una specialista che opera nel settore, sia dal punto di vista clinico che da quello della ricerca sul tema dell’autismo. Emmanuelle Rossini è un’ergoterapista, che ha aperto un suo studio privato a Roveredo (GR) e che nel contempo lavora alla Supsi, nel Dipartimento economia aziendale, sanità e sociale. Parlando con lei ricostruiamo la rete ufficiale di coloro che si occupano di autismo in Ticino: «Diverse istituzioni fanno parte della “galassia” collegata con la diagnosi di autismo: c’è ad esempio l’Unità UNIS (Unità operativa multidisciplinare dell’OSC, istituita per l’intervento diretto a bambini e ragazzi con disturbi dello spettro dell’autismo), il Servizio di neuropediatria dell’EOC
con il dottor Ramelli, la fondazione ARES (Autismo, Risorse e Sviluppo) con il suo Centro Diagnosi e Intervento Psico Educativo, oltre all’Associazione asi (Autismo Svizzera Italiana). Uno dei punti focali di questa rete è quello di giungere il più presto possibile ad una diagnosi precisa per i bambini e le bambine che presentano un quadro clinico riconducibile all’autismo». Per Rossini, anche il lavoro che si sta compiendo nella scuola pubblica per accogliere e sostenere i bambini con queste caratteristiche dello sviluppo, è per certi versi molto incoraggiante. La figura dell’OPI (Operatore per l’inclusione) dà risultati concreti. Fondamentale per lei è proprio che si miri ad ottenere il massimo livello di inclusione sociale possibile. «Non si tratta di isolare queste persone, ma di permettere a chi ha un diverso modo di percepire e di vivere la realtà di sentirsi capiti e accettati. A volte, durante gli incontri che teniamo con chi vive la condizione di Asperger, ci rendiamo conto che il loro punto di vista è coerente e segue una logica perfetta. La nostra percezione ed interpretazione della realtà è solo diversa dalla loro e, dal loro punto di vista, può risultare completamente fuori luogo». E la riflessione sulla necessità dell’inclusione sociale di chi vive la condizione dell’Asperger solleva anche problematiche collaterali molto importanti: «C’è da considerare anche una questione “di genere” non irrilevante. A livello sociale, nell’uno per cento circa della popolazione che rientra nel quadro dell’autismo, gli uomini sono i più diagnosticati. Questo perché le loro manifestazioni sono maggiormente visibili o si scontrano con l’immagine di performance sociale che è l’aspettativa verso il genere maschile. Le donne Asperger, invece, hanno tratti di carattere più fini, riservati, introversi e sono quindi più socialmente accettabili. Le ricerche dimostrano che le ragazze introverse sono facilmente etichettate come timide e non si cerca di andare oltre. Nella loro condizione è più difficile riconoscere il quadro clinico specifico, e in tutto il mondo questo aspetto è un problema. Il Ticino non esula da questa triste realtà che implica dei rischi importanti, in particolar modo di violenze, abusi o di sviluppo di comorbidità psichiatriche». Per chiudere (ma non concludere) la discussione, secondo Emmanuelle Rossini il concetto chiave che deve essere mantenuto al centro dell’attenzione è proprio l’inclusione. In questo senso la definizione di Asperger come una malattia è sbagliata perché è fuorviante. Ogni persona deve poter funzionare in modo consono al suo modo di essere. «Per valutare ogni situazione è importante sempre chiedere all’altro, inteso come persona e famiglia, “ma tu come stai?”. Partendo da questa risposta, unica, è possibile definire il modo di intervento, senza schemi preconcetti, né etichette precostituite. Perché dobbiamo ricordarci che non è la persona a portare un handicap, ma è la società e i contesti di vita che la mettono, o meno, in situazione di handicap». Annuncio pubblicitario
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società e territorio
La guerra, l’olocausto e l’informazione
Notizie in breve
storia Intervista a Silvana Calvo che ha compiuto una ricerca sul modo con cui in Svizzera
i media informavano a proposito di quanto stava accadendo agli ebrei in Germania
Sara Rossi Guidicelli Nove anni di ricerche negli archivi ticinesi e svizzeri, con lo scopo di capire che cosa si sapeva del genocidio degli ebrei mentre avveniva, da dove arrivavano le notizie e perché qualcuno taceva. «Tutto è cominciato per curiosità parecchi anni fa», spiega la ricercatrice locarnese Silvana Calvo, che ha raccolto i risultati dei suoi studi nel libro L’informazione rifiutata. La Svizzera dal 1938 al 1945 di fronte al nazismo e alle notizie del genocidio degli ebrei (Silvio Zamorani editore). «Ho avuto accesso all’archivio elettronico dei quotidiani della Biblioteca cantonale e ho voluto vedere se durante la Seconda guerra, era riuscita a filtrare nella stampa qualche notizia sul destino degli ebrei. Ho tentato con “Libera Stampa” che sapevo essere un giornale particolarmente sensibile sull’argomento. La mia sorpresa è stata grande perché di notizie ce n’erano molte, tanto che si poteva trovare quasi tutto ciò che più tardi sarebbe apparso sui testi di storia. Decisi quindi di scrivere un libro per confutare l’opinione, allora ancora assai accreditata, che in tempo reale non si sapesse nulla e che lo sterminio era stato un segreto di cui allora non si aveva nessun sospetto». Finito di scriverlo però l’autrice decise di continuare: perché limitarsi a un solo giornale? Bisognava indagare come si era comportato il resto della stampa ticinese e svizzera. «L’informazione data alla popolazione non era la stessa per tutti: era come se le varie fonti si fossero ripartite i ruoli, e avessero, ognuna, preoccupazioni e obiettivi diversi. Il notiziario radiofonico dell’Ats, il più seguito, voleva mostrare una Svizzera rigorosamente neutrale, amica di tutti. I giornali invece mostravano un’informazione democraticamente pluralista. L’esercito si preoccupava di promuovere il patriottismo e la motivazione alla difesa del paese, mentre il cinegiornale offriva un modello del buon cittadino svizzero al quale tutti erano chiamati a conformarsi e rassicurava la popolazione. “Esercito e focolare”, poi, era una sezione dell’esercito che combatteva la demoralizzazione dei soldati e della popolazione alfine di non renderla soggetta alla propaganda tedesca. Insomma vi è stato un sistema informativo che si potrebbe reputare perfetto per rispondere in modo efficace alle sollecitazioni a cui
era sottoposto il Paese. Non si sa se questa ripartizione dei ruoli sia avvenuta sotto la regia di qualcuno – del Governo, dell’Esercito o del Servizio Segreto – oppure se ciò sia stato il risultato dell’equilibrio interno delle diverse anime del paese». Fatto sta però che il 17 dicembre 1942 ci fu una Dichiarazione comune anglo-russo-americana che scriveva nero su bianco che Hitler stava mettendo in atto un piano per sterminare gli ebrei; questa Dichiarazione fu omessa dai radiogiornali. Non si trattava certo di una notizia di dubbia provenienza, perché allora non annunciarla? «La dichiarazione è stata pubblicata da una cospicua parte dei giornali svizzeri. Si trattava di un dispaccio della Reuter che l’Agenzia telegrafica svizzera ha distribuito ai giornali. La censura non poteva proibirne la diffusione in base
alle regole che essa stessa si era data, ma ciononostante raccomandava di non pubblicare. Il notiziario controllato dal governo non la trasmise, sicuramente per non irritare la Germania, ma anche per prevenire critiche interne. Infatti, riconoscendo lo sterminio si sarebbe messa in discussione la politica amichevole della Svizzera nei confronti della Germania: forniture di armi, transazioni economiche e finanziarie e respingimenti di profughi ebrei». «Tale circostanza – prosegue la ricercatrice – mette in luce un’altra caratteristica particolare. L’Ats riceveva notizie dalle agenzie estere (Alleate e dell’Asse), ma nel notiziario radiofonico che gestiva su incarico del governo ometteva le notizie sgradite al Consiglio federale. Nello stesso tempo però distribuiva ai giornali tutti i dispacci pervenuti. Probabilmente per lealtà verso i
suoi abbonati, ma forse potrebbe essere stata una precisa scelta del governo per presentarsi neutrale ma non totalitario. La Confederazione temeva disordini se la popolazione si fosse polarizzata sulla base di fascismo-antifascismo». Della questione dei profughi i giornali parlavano nei momenti di crisi, quando vi era un aumento, o semplicemente il pericolo di aumento. I giornali antifascisti o comunque sensibili al problema cercavano argomenti per combattere le chiusure e promuovere un’accoglienza più generosa. Altri giornali facevano proprie le argomentazioni della Divisione di Polizia riprese dal governo: la barca è piena, non bisogna turbare il mercato del lavoro, i rifugiati sono bocche in più da sfamare, tra loro si nascondono spie e criminali, portano malattie. «La logica che stava alla base della politica svizzera di asilo era di accogliere il minor numero possibile di profughi, ossia solo tanti quanti bastavano per non mostrare al mondo l’immagine di una Svizzera gretta e ingenerosa. Il numero dunque variava a dipendenza dell’evoluzione del conflitto e dell’equilibrio delle forze all’interno del paese. Gli ebrei accolti furono in tutto 28mila (6000 prima del 1939 e 21mila durante il conflitto)». Il saggio di Silvana Calvo racconta anche di voci singole che denunciarono con forza quanto stava accadendo. Il Capitano Grüninger sacrificò la sua carriera per aiutare profughi a entrare dall’Austria dopo l’Anschluss; il Dott. Rudolf Bucher, nonostante gravi intimidazioni, continuò a fare conferenze per spiegare alla gente cosa facevano i nazisti alle popolazioni civili, soprattutto agli ebrei. Il pastore Paul Vogt si impegnò per i profughi e nel 1944 celebrò a Zurigo una messa di preghiera in suffragio degli ebrei deportati e sterminati. Benjamin Sagalowitz, direttore dell’agenzia stampa delle Comunità ebraiche svizzere, diffuse notizie e raccolse testimonianze dirette trasmettendole anche ai governi inglese e americano. Nella prefazione, Fabio Levi, professore di Storia all’Università di Torino, fa notare che l’utilità di questo libro non è solo di ordine storico: esso dimostra quanto un’informazione mirata, contestualizzata, che aiuta il lettore a capire le notizie sia utile «per noi privilegiati in un mondo in subbuglio».
Conferenze per genitori Il settore corsi di Croce Rossa Svizzera organizza mercoledì 19 giugno 2019, dalle 18.00 alle 19.00, presso la sede CRS del Sottoceneri (via alla Campagna 9, Lugano) la conferenza gratuita Educare allo stare insieme, a casa e in vacanza. La serata sarà tenuta dalla dott.ssa Emanuela Iacchia, psicologa e psicoterapeuta dell’età evolutiva con pluriennale esperienza, che affronterà il tema dell’educazione dei figli in modo puntuale e concreto. Un’occasione per riflettere e trattare insieme argomenti utili per svolgere con più consapevolezza e serenità il mestiere difficile, ma affascinante, dell’essere genitori. La partecipazione alla serata è gratuita. È possibile confermare la propria presenza telefonando allo 091 682 31 31 o inviando una email all’indirizzo info@crs-corsisti.ch. I prossimi incontri del ciclo «Un’ora parliamo di...» su tematiche inerenti la famiglia e i figli sono previsti il 18 settembre 2019 sul tema Quando imparare diventa difficile: cos’è la dislessia di cui tutti parlano, il 23 ottobre 2019 sul Rapporto scuola-famiglia, per creare complicità e collaborazione mentre il 18 dicembre 2019 si parlerà di Quando i genitori si separano. Concorso fotografico La Sezione dell’agricoltura della Divisione dell’economia del DFE ha indetto il concorso fotografico «Obiettivo Agricoltura», con lo scopo di avvicinare le famiglie al mondo dell’agricoltura, catturando i momenti più significativi e originali trascorsi a contatto con questo settore dell’economia cantonale. La partecipazione è aperta a tutti, esclusi i professionisti della fotografia, e ogni partecipante può inviare al massimo tre fotografie. Il tema delle immagini deve essere l’incontro tra le persone e il mondo dell’agricoltura (agricoltori, allevatori, animali, paesaggi, oggetti tipici dell’agricoltura). Sono previste le tre seguenti categorie: famiglie in fattoria, animali della fattoria e paesaggio agricolo. Le fotografie (a colori o b/n) sono da inviare, entro il 31 luglio, all’indirizzo di posta elettronica obiettivoagricoltura@ti.ch. Una giuria selezionerà i primi 3 classificati, che saranno premiati con un pranzo presso l’Alpe Giumello (luogo di estivazione dell’Azienda agraria cantonale di Mezzana) e con un pomeriggio di osservazione dell’attività casearia che vi viene svolta. Inoltre, una selezione delle fotografie sarà pubblicata sul sito internet della Sezione dell’agricoltura. Informazioni: www.ti.ch/dfe
Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Benji Davies, Un’estate dalla nonna, eDt GIRALANGoLo, da 4 anni Se i risguardi del suo albo più celebre, La balena della tempesta, ci immergevano nel mare, con ombre di balene scorrenti sott’acqua, nei risguardi di questo nuovo albo, Benji Davies ci porta sin da subito su una spiaggia, tutta segnata da passettini di uccelli. Sono le loro piccole orme, insieme a qualche conchiglia e stella marina, a guidarci dentro la storia, che, come tutte quelle dell’autore-illustratore (e regista) inglese, racconta l’intensità delle emozioni dei bambini, i fili che legano i loro affetti più cari. Ritroviamo il piccolo Nico, che vive con il papà in riva al mare, e ritroviamo le atmosfere en plein air, percorse da venti energici e da aria salmastra, che caratterizzano i libri di Davies. Stavolta Nico va dalla nonna, per trascorrere con lei l’estate. La nonna «viveva da sola su un isolotto battuto dal vento»: è una nonna piena di risorse
(fa yoga, sa andare in barca, è coraggiosa) e arriverà al momento opportuno per trarre in salvo Nico da una tempesta. Non solo Nico sarà salvato ma anche un uccellino, con tutti gli altri dello stormo sbattuti dal vento. Come nella Balena, c’è una tempesta e c’è un accudimento parallelo: del bambino, e dell’animale, declinato qui però anche sul versante della nonna, quella nonna forte, sì, ma per cui Nico «si chiedeva se non si sentisse triste a vivere lì da sola».
E così l’uccellino attutirà la malinconia del commiato di fine estate, quando il papà verrà a riprendere Nico, perché resterà – con la sua allegria di creatura aerea – a fare compagnia alla nonna. Il tema del commiato è in tutte le storie di Davies (dall’addio de L’isola del nonno, al «lasciar andare» la balena), espresso sempre con confortante grazia. Nessun addio, neanche il più drammatico, è davvero per sempre, sembra dirci l’autore, citando, nella penultima immagine, le due balene (un guizzo di code) della sua prima storia. Arnold Lobel, Rana e Rospo sempre insieme, Babalibri - collana superbaba, da 5 anni Per una coincidenza che mi sembra bello condividere, dopo aver scelto questi due libri da recensire nella rubrica di oggi, leggo un’intervista a Benji Davies in cui egli afferma che il «particularly special book» della sua infanzia era «Arnold Lobel’s Frog and Toad»: pro-
prio il libro che vi sto segnalando qui! Molto opportuno il recupero – da parte di Babalibri per la nuova collana Superbaba, in stampatello, dedicata ai lettori che cominciano a leggere da soli – delle avventure di Rana e Rospo, create dal grande artista americano Arnold Lobel (1933-1987). Rana e Rospo costituiscono una classica coppia di personaggi complementari: da una parte Rospo,
che ha il ruolo del tenero imbranato, goffo e pasticcione; dall’altra Rana, che ha il ruolo del clown bianco, ragionevole e abile. Tuttavia Rana non giudica Rospo, non lo disapprova, né dispensa consigli non richiesti. Semplicemente, lo accetta così com’è e, se serve, cerca di aiutarlo. Proprio come fanno i veri amici. Mentre, insieme, si godono il fluire – ora tranquillo, ora più mosso – della vita. L’atmosfera del bosco, del fiume, del trasognato trascorrere delle stagioni, ricorda molto quella del Vento nei salici, di Kenneth Grahame, così come l’amicizia di Rana e Rospo ricorda quella tra Talpa e Topo. Alcune bellissime storie di Rana e Rospo erano uscite anni fa da Fabbri (Rana e Rospo grandi amici, ora purtroppo fuori catalogo). Queste sono altre storie e ci raccontano ad esempio della quotidianità dei due amici; di semi, che Rospo è impaziente di veder germogliare; di squisiti biscotti; di sogni; di coraggio. Da leggere, e custodire nel cuore.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 giugno 2019 • N. 23
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Idee e acquisti per la settimana
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 giugno 2019 • N. 23
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società e territorio Rubriche
L’altropologo di Cesare Poppi La religione senza Dio La recente adunata dei leader dei partiti sovranisti/populisti europei, ospitati a Milano in chiusura della campagna per le elezioni europee dal Ministro degli Interni del Paese a Sud delle Alpi, ha segnato una significativa svolta – o forse l’outing di tendenze ormai consolidate – in quella che in antropologia è nota come «religione popolare». Quello di «religione popolare» è concetto complesso, dai confini spesso lasciati intenzionalmente vaghi, «liquido» nel senso che Zygmunt Bauman dava al termine. Nella tradizione accademica italiana corrisponde a quell’insieme di pratiche, credenze e relativi comportamenti che riguardano il rapporto e la comunicazione con il «sovrannaturale». Ciò che ha distinto fino ad ora la religiosità popolare da quella dominante, controllata ed amministrata dalla gerarchia ufficiale, è stata la relativa autonomia con la quale «il popolo» ha selezionato ed implementato le pratiche devozionali, poiché di espressioni religiose eminen-
temente «pratiche» e solo in seconda battuta «teologico-dogmatiche» si tratta. Quell’autonomia si è espressa per secoli in forte dialettica coi dettami della religione dominante: con questi certo «il popolo» si interfacciava, per poi peraltro distaccarsene e partire per la tangente «sul filo dell’eresia», per così dire, qualora la gerarchia, peraltro sempre incline a politiche culturali del bastone e della carota, decidesse di preferire la scomunica al compromesso. Da questo equilibrio precario, marcato da numerosi cambi di fronte e di fortune in una guerra mai dichiarata ma sempre guerreggiata, sono nati i culti di certi santi «popolari» e le devozioni di Madonne «apparse» in condizioni meno che chiare (vedi lo stallo sull’omologazione del fenomeno Medjugorie), così come sono emersi ordini religiosi più cari al popolo che non alla gerarchia (chi fu il Cardinale che fulminò «ogni nuovo ordine religioso è una eresia mancata»?). Ma la cifra più specifica, il marchio identitario che
delle espressioni della religiosità popolare garantisce il DOCG, è la relativa assenza di riferimenti a Dio sull’intera gamma delle espressioni e delle pratiche religiose. «Questi contadini ignoranti adorano Santi e Madonne ma non hanno mai sentito parlare di Gesù Cristo, di Dio Padre e dello Spirito Santo»: così fulminavano a sua volta gli Atti di una Visita Pastorale Vescovile nella Sicilia interiore del tardo XVIII secolo. E dunque agli astrusi distinguo teologici del Tre in Uno & Co., «il popolo» ha da sempre preferito la continuità coi culti delle acque e delle caverne della preistoria pagana e le Madonne eredi delle Grandi Madri neolitiche laddove – permettetemi parola d’altropologo – all’ortodossia si preferiva l’ortoprassi, sulla base del principio: «Non mi importa se sia vero, basta che funzioni». E così a Milano: si è brandito il rosario, un rosario mediatico/televisivo a grani grossi (se ne attende una futura versione in giallo fluo); si è baciato un crocifisso alzando occhi e mani
al cielo proprio come fanno i calciatori (non a caso «cattolici» sudamericani) additando la fonte ultima dell’assist da gol e si sono recitate le litanie dei Santi Protettori d’Europa (che nessun celebrante postconciliare, laddove possa evitarlo, più recita perché è un po’… oso: «primitivo») impetrando in sostanza la protezione degli dei contro la peste e le carestie della nostra epoca: – contro gli attacchi dei nuovi barbari alla Nazione, all’Identità e alla Dignità, – contro l’Immigrante che ci snatura e ci deruba, – contro la Globalizzazione fonte di tutti i mali – e ognuno ci metta pure in cuor suo il resto delle paure che lo riguardano e, nel caso, sarà rimborsato. Il rosario cristiano fu copiato dai crociati dal taspih musulmano attorno al XIII secolo. A loro volta i musulmani avevano copiato il taspih dal japamala indù nel VII secolo e tutte e tre le tradizioni lo usano per ripetere ad infinitum il proprio mantra che (dopo il danno le beffe) si vuole esclusivo di ciascuna
confessione. Peraltro a Milano si è consumato di più dell’epifania popolare del simbolo religioso simbolo a sua volta della globalizzazione: dal punto di vista della sostanza si è inaugurata la variante popolare europea di una religione che fa della paura e della corrispondente necessità di protezione da parte dello Stato Sovrano la cifra distintiva. Una religiosità faidatè, scelta da ciascuno sugli scaffali di un megastore del sacro globale dove già hanno avuto un successo incoraggiante per i novelli guru le varianti borghesi a reddito medio-alto di quelle «religioni» che si vogliono credere secondo, bensintenda, la pasticciosa vulgata Occidentale «senza Dio e senza Dogma» degli Osho, dei Buddha e dei Sai Baba «e via via tutti gli altri», come chiudono sui gregari i commentatori del Giro d’Italia all’arrivo delle tappe in volata. Ora anche il popolo sovrano e proletario ha la sua Religione senza Dio. «La pacchia è finita»: non ci sono più scuse per non credere e non ubbidire.
Gli anni della preadolescenza vanno considerati un’anticamera in cui sostare prima di uscire dal guscio protettivo della famiglia, prima di mettersi alla prova e comprendere davvero chi si è e che cosa si vuole. I bambini cercano di essere come gli altri, di uniformarsi, omologarsi. Gli adolescenti invece aspirano a differenziarsi, a diventare se stessi, a capire chi sono e che cosa vogliono. È un compito specifico dell’età. Per raggiungere questo traguardo però, cara Mara, devi uscire, come stai facendo, dal ritratto con cornice dorata che la famiglia ti ha dipinto addosso, sottrarti alle aspettative e alle pretese dei familiari. Ma senza dimenticare il bene ricevuto, le attenzioni con cui ti hanno accompagnato, l’amore che le loro premure esprimono, il bisogno di sentirti protetta. Li accusi, oltre a importi un abbigliamento conventuale, di averti fatto fare troppo sport, di averti costretta con le buone e con le cattive a suonare il piano, di non lasciarti uscire la sera con le amiche, di averti spedita ogni estate
in un tetro College in Scozia per perfezionare l’inglese. Ultimo e estremo tormento: l’obbligo di mangiare ogni giorno verdure, come fossi una capra tibetana. Imputazioni destinate a cadere quando i tuoi occhi si punteranno sul futuro piuttosto che sul passato. Verrà il momento in cui, senza entrare nel catalogo delle «divine», sarai desiderata per quello che sei e potrai diventare. Nel frattempo non stare sulla difensiva, non disperdere energie nel rancore e nel rimpianto di ciò che avrebbe potuto essere e non è stato. Evita di confrontarti con il tuo contrario: non sei Anita e non lo sarai mai, neppure dovessi raggiungere la medesima taglia di reggiseno! Tua mamma, credimi, non è la tua peggior nemica ma un’alleata con cui patteggiare. Lo stile di famiglia non è soltanto un’imposizione ma è anche una componente della tua identità. Inavvertitamente ne sei stata plasmata e non serve negarlo e rovesciarlo: meglio trasformarlo progressivamente senza aprire inutili vertenze.
Per fortuna i tempi sono cambiati e le giovani non stanno più in casa ad aspettare il Principe Azzurro, si guardano intorno e quando individuano qualcuno che accende il loro interesse, che fa palpitare il cuore, escogitano sempre il modo di farglielo sapere. Magari trovandosi sui suoi passi e salutandolo con un sorriso oppure, di questi tempi, scrivendo un «mi piace», corredato da un simpatico Emoji, sul suo profilo Facebook. In fondo, vedrai, siamo sempre noi donne a scegliere da chi vogliamo essere amate, da chi vogliamo essere baciate, magari evitando, al contrario di Anita, di tenere la contabilità degli incontri e dei baci. Le cose che contano non si contano! Auguri, piccola grande Mara.
arriva postumo. In Italia, il caso più clamoroso fu Totò: snobbato in vita e, da scomparso, promosso a maestro del genere. Adesso, fra i candidati alla riabilitazione figurano Troisi e persino la coppia Franchi- Ingrassia. Mentre, negli USA, dopo i fratelli Chico, Harpo, Groucho Marx, è la volta di Jerry Lewis, «Il picchiatello», lo sciocco per antonomasia. A due anni dalla morte, viene riproposto come «maestro dell’assurdo». Proprio l’assurdo è una componente essenziale nella comicità. Stravolgendo situazioni e fatti reali, riesce a sdrammatizzarli. Da qui la funzione consolatoria, persino terapeutica, che spetta ai professionisti della risata, dell’ironia, della caricatura, dello sberleffo, rivolti in particolare ai detentori del potere. Non a caso, il loro successo cresce nei periodi più caldi della vita politica. La recente stagione
elettorale ci ha fatto assistere al prestigio dei comici che, in Italia, facevano il verso a governanti, inesperti o arroganti. Per non parlare, poi, dell’importanza che questo ruolo assume nei regimi dittatoriali, dove barzellette e vignette diventano le uniche voci del dissenso. Ma anche nelle democrazie, la comicità non ha sempre la vita facile. Far ridere, sorridere, divertire sembra, già in partenza, un obiettivo banale, destinato a produrre libri, film, commedie, serie televisive di seconda e terza qualità. Ciò che, magari, avviene. Qui ci si muove su un terreno scivoloso. La banalità e la volgarità sono dietro l’angolo. Con effetti rovinosi. Niente è più demoralizzante della comicità che, in forme diverse, battuta o commedia teatrale, vignetta, fallisce lo scopo. Non fa ridere, o peggio, diventa ridicola involontariamente. Si tratta di un’arte impegnativa non
solo per chi la esercita. Comporta reciprocità: un destinatario disponibile a questo tipo di messaggi. Si deve parlare di una sorta di naturale refrattarietà in persone, più che serie, seriose, che rifiutano a priori sia la comicità esplicita sia il sottinteso ironico. È una dimensione a loro estranea. C’è chi l’attribuisce a diversità genetiche e nazionali, citando il proverbiale «humour» britannico. Ora, se, di certo, il senso dell’umorismo non è una questione geografica, sta di fatto che le dimensioni ambientali hanno una parte. Dove ci si conosce tutti, attraverso anche legami di dipendenza professionale e sociale, scherzare è a rischio. Ne sa qualcosa il conduttore di «Politicamente scorretto» che, al suo esordio di stagione, ha provocato un putiferio. Dimostrando una suscettibilità che ci priva di una risorsa: sapersi prendere in giro.
La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi Mamma, non sono più una bambina Cara Silvia, mia mamma ti legge sempre e spero che la mia lettera, se la pubblicherai, l’aiuti a capire che non sono più una bambina. Sono cresciuta (ho quattordici anni e mezzo) e voglio che se ne accorga e finalmente mi lasci libera di vivere la mia vita senza starmi addosso, senza proibirmi questo e quello: no i leggings, no la minigonna, no le scollature, no i tacchi alti. Solo Jeans, magliette e felpe, preferibilmente blu. Mio padre poi è ancora peggio! Col risultato che sono invisibile, nessun ragazzo mi guarda, come se fossi trasparente. Forse perché sono troppo alta, troppo magra, ho troppi capelli e troppe spalle, ma tu come mi trovi? / Mara Troppo giovane. A parte gli scherzi, ti capisco, conosco la tua infelicità per averla provata ma so che è un male di passaggio e che il vento della vita soffia a tuo favore. Ora però stai soffrendo e accusi i genitori che, per proteggerti, cercano di trattenerti
nell’infanzia, di ritardare il momento in cui dovrai affrontare il mondo, gli altri, con le tue forze. La crisi è aggravata, a quanto scrivi, dal confronto con una compagna di classe, Anita, molto evoluta e spregiudicata. Anita si veste e si trucca da discoteca, parla sboccato e (ahimè!) porta la terza di reggiseno. A suo dire ha già avuto sei ragazzi e baciato settantacinque volte. Ma tu, cara Mara, ti bevi tutto? Non hai mai sentito parlare delle bugie, delle frottole? Vorresti imitarla, diventare come lei: la più desiderata della scuola. Ma questo tipo di ammirazione ha spesso un risvolto negativo perché i ragazzi della vostra età o poco più hanno paura delle coetanee spigliate e vistose, si sentono sfidati a conquistarle e al tempo stesso temono di essere impreparati al gioco della seduzione. Per cui preferiscono ammirarle da lontano, o denigrarle, per non rischiare l’insuccesso e il ridicolo. Se potessero confidarsi, cosa che non sanno fare, snocciolerebbero, come te, il rosario del troppo e del troppo poco.
Informazioni
Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch
Mode e modi di Luciana Caglio Voglia di ridere, anzi bisogno È arrivato sui nostri schermi Stanlio e Ollio, bene accolto dalla critica. Al di là dei meriti cinematografici sempre discutibili, il film, diretto dall’inglese Jon S.Baird, si presenta con un valore aggiunto: vuol essere un tributo di riconoscenza ai due comici, giustamente più famosi e applauditi del mondo. Sfruttando elementi semplici, a cominciare dalla loro diversità fisica, il magro e il grassone, e caratteriale, il timido e lo sbruffone, quei due hanno espresso una comicità primordiale e irresistibile, condivisa da tutti e ovunque. Un successo che molto deve al boom dell’industria hollywoodiana, negli anni 20, quando dal muto si passò al parlato. Proprio i dialoghi, affidati nella versione italiana a Sordi (doppiatore di Ollio, ma in teatro anche di Stanlio), contribuirono alla popolarità di film che raccontano vicende, attraverso l’intreccio di gag e
battute. Questo meccanismo, da loro perfezionato esemplarmente, diventò un imitatissimo modello. Stan, inglese, amico di Chaplin, era considerato il cervello della coppia, mentre Oliver, americano, originario della Georgia, godeva la fama di perditempo e giocatore d’azzardo: come dire continui litigi nel privato e, invece, un’ininterrotta complicità nel lavoro. Insieme, in 107 film, di cui 24 lungometraggi, conquistarono le simpatie del grande pubblico che, nelle disavventure di quella coppia balorda, vedeva riflessi momenti della realtà quotidiana. Rivisitati, in chiave comica, i guai si ridimensionano, sembrano addrittura ridicoli: è la lezione che Stanlio e Ollio sono riusciti a impartire, e con loro una folta categoria di attori, non sempre apprezzati e capiti. Nei loro confronti, la critica esita, prende tempo. Spesso lo sdoganamento
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 giugno 2019 • N. 23
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Idee e acquisti per la settimana
Alla scoperta della Svizzera
1
Montagne, colline, laghi, fiumi, altopiano o sulle piste: la Svizzera si può scoprire in tantissimi modi. Tre idee di itinerari per amanti della natura, interessati alla storia e persone attive
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Testo Yvette Hettinger Foto Jeff Skrob/Fondazione Sasso San Gottardo; David Birri, Abenteuerpark Charmey
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1
Vecchia fortezza militare sasso san Gottardo UR/tI
Nel cuore della Svizzera si trova il San Gottardo e nella sua «pancia» è situato il Sasso San Gottardo – un sistema ramificato di corridoi e caverne che un tempo serviva da ridotto nazionale per L’Esercito Svizzero, sigillato e segreto al pubblico. Oggi la struttura è agibile. I visitatori possono vedere come vivevano un tempo i soldati e come difendevano il paese, dove erano conservate le munizioni e con quali apparecchiature e scenari avevano a che fare. Sono
inoltre presenti un trenino sotterraneo, un diaporama sonoro sulla storia della roccia del diavolo e si potranno ammirare i più bei cristalli delle Alpi. Entrata a partire da 18 franchi. Info: sasso-sangottardo.ch
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parco avventura Charmey FR
Caccia al tesoro, arrampicata, gioco della teleferica – divertimento per piccoli e grandi avventurieri assicurato nelle selvagge Prealpi Friburghesi. Qui si possono trascorrere delle ore nella natura
senza mai annoiarsi. Mentre i più coraggiosi si tuffano nel vuoto da speciali piattaforme, i più piccoli dondolano come scimmiette a pochi centimetri da terra o possono arrampicarsi come degli scoiattolini in tutta sicurezza. Pacchetti da 10 a 79 franchi. Info: charmeyaventures.ch
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trekking con i lama nel Canton obvaldo oW
Si chiamano Zeus, Pan, Rio o Mogli: sono dei docili e simpatici lama, che nella Svizzera Centrale, nei pressi di Giswil, accompagnano i visitatori in escursioni
nella natura. Sono gli animali a stabilire il ritmo, l’uomo si adatta. Nessun cellulare, nessun auricolare all’orecchio, ma in compenso solo prati, montagne, ruscelli, lo sbuffo degli animali e tante coccole. Le gite possono durare ore o giorni e portare fino a Meiringen BE o Stans NW. A dipendenza dalla gita, previste anche grigliate, visita ad un caseificio oppure «pernottamento» sotto il cielo stellato. Un gruppo di 8 partecipanti paga per tre ore 180 franchi, ogni altra persona 15 franchi. Altre offerte e info: lamatrekking.ch. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 giugno 2019 • N. 23
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Ambiente e Benessere sulle orme di Rimbaud Un diario di viaggio per immagini ad Harar, in Etiopia, seguendo le tracce del poeta
Una storia di bollicine Come sono nati i vini frizzanti? Attraverso quali procedimenti si realizza l’effervescenza?
Il segreto del «macco» Una zuppa di legumi originaria dell’Italia del Sud: Allan Bay ce ne fornisce tre ricette diverse pagina 29
pagina 28
pagina 24
Quasi una mini sUV Con Pacifica la Chrysler propone una monovolume ecologica ad alta tecnologia
pagina 30
L’impianto della Climeworks a Hinwil che risucchia CO2. (Keystone)
Che aria tira?
Cambiamenti climatici Le misure per ridurre l’impatto del surriscaldamento atmosferico, come lo sviluppo
di energie alternative, non sono più sufficienti: occorre togliere CO2 dall’atmosfera
Loris Fedele Attraverso le misure e il monitoraggio dell’atmosfera, del tempo meteorologico e dei cambiamenti intervenuti sulla terra e negli oceani, gli scienziati possono identificare delle tendenze e redigere complessi modelli matematici per aiutarci a predire il clima del futuro. Questa previsione può essere usata per trarre conclusioni concernenti il riscaldamento globale e gli effetti dell’inquinamento e in definitiva può aiutarci a definire delle strategie di mitigazione. Le affermazioni appena ricordate sono al tempo stesso un esame della realtà esistente e una speranza per il futuro. Erano contenute in un comunicato dell’ESA (l’Agenzia spaziale europea) in occasione del lancio del satellite Aeolus (vedi «Azione» 43 del 2018) che dallo spazio avrebbe studiato i venti, e quindi la circolazione dell’aria, su tutta la Terra. I suoi dati porteranno miglioramenti alle previsioni meteo e ai modelli climatici, oltre a fornire un gran numero di informazioni di alto contenuto scientifico. L’obiettivo, che è anche una speranza, mira a cercare di migliorare a ragion veduta la qualità dell’aria. La stiamo maltrattando da tempo, la nostra aria. Ma proprio per la sua natura impalpabile è difficile percepirne l’inquinamento e siamo portati a sottovalutarlo. Non sono molti anni che la gente sente parlare di polveri fini, ma
è da parecchio che si parla della coltre di ozono distrutta dai clorofluorocarburi e c’è un martellamento mediatico sulle emissioni eccessive di gas a effetto serra, anidride carbonica (CO2) in primis. Quei gas serra che contribuiscono al riscaldamento globale della Terra, con tutte le conseguenze del caso. È una situazione nota da più di 30 anni (l’IPCC – International Panel on Climate Change – è stato fondato dall’ONU nel 1988) ma la cui minaccia effettiva stenta a esser interiorizzata sufficientemente dai cittadini, dall’economia e dalla politica. È bastato che un presidente come Trump, in occasione del G20 di fine 2018 in Argentina, liquidasse il tema protezione dell’ambiente con un tweet che affermava «Aria e acqua non sono mai state così pulite» per scatenare i negazionisti sparsi per il mondo, che si sono subito sentiti legittimati a ignorare gli allarmi suffragati da precisi dati scientifici per sostenere pratiche industriali anti-clima. Eppure già all’inizio degli anni ’70 il famoso Club di Roma nel rapporto «I limiti dello sviluppo», commissionato proprio negli Stati Uniti, al MIT di Boston, denunciava che la logica della crescita infinita in un pianeta finito è in conflitto con l’ambiente. Cosa purtroppo vera, ma era anche vero e giusto che la popolazione mondiale aspirasse a migliorare il proprio standard di vita e quindi che potesse consumare risorse. Per cui è venuto fuori
nel 1987 il Rapporto Brundtland, dove si introduceva il concetto di sviluppo sostenibile, e poi nel 1992 la Conferenza di Rio de Janeiro, il Summit della Terra, con la sua Agenda 21. Nel 1997 per il surriscaldamento globale si è cominciato a fissare dei paletti con il Protocollo di Kyoto, e dal 1995 si sono tenute annualmente le famose COP, le conferenze delle parti della Convenzione ONU sul cambiamento climatico. Nella COP21 di Parigi (2015) anche la Svizzera firmò l’accordo per contenere il riscaldamento globale medio sotto i 2°C rispetto all’era preindustriale. Adesso ci si è accorti che il riscaldamento globale in atto avanza a ritmi tali che gli obiettivi di Parigi saranno raggiungibili solo se si realizzeranno rapide e drastiche trasformazioni del nostro modo di vivere. Se si vuole fermare la crescita del riscaldamento globale di 1,5°C (i 2°C di temperatura non ci bastano più) entro il 2050 il bilancio delle emissioni di CO2 in atmosfera dovrà ridursi a zero. Una società senza emissioni è molto difficile da ottenere. La Germania di recente ha affermato persino di voler chiudere in tempi brevi tutte le sue centrali a carbone, che ne fecero la fortuna in un recente passato. Ma non basta. A livello mondiale si è stimato che in uno scenario ottimale le tradizionali misure di mitigazione, come lo sviluppo delle energie rinnovabili, riusciranno solo a ridurre il CO2 dell’80%. Il resto dovrà
essere ottenuto rimuovendo dall’aria il CO2. C’è già chi sta provando a farlo. Esistono studi e applicazioni, anche in Svizzera, per estrarre l’anidride carbonica dall’aria e immagazzinarla sottoterra, lasciandola fino a quando non si troverà il modo di riutilizzarla come fonte energetica. La tecnologia è recente: una ditta di Zurigo (la Climeworks) ha sperimentato fin dal 2017 a Hinwil un impianto che risucchia il CO2. La stessa ditta ha anche sviluppato un primo dispositivo commerciale sperimentale per trasformare quanto aspirato direttamente in un carburante sintetico. Lo ha inaugurato in Puglia nell’ottobre 2018. Per la parte scientifica ha lavorato col Politecnico di Zurigo e per la parte ingegneristica con una impresa francese. Attraverso un particolare procedimento chimico chiamato metanazione, la CO2 aspirata dall’aria – mescolata con altri gas tra i quali l’idrogeno ottenuto separatamente da una fonte di energia rinnovabile come il fotovoltaico o l’eolico – viene trasformata in metano, stoccato sottoterra. Bruciando questo metano per usi energetici si libererà ancora il CO2, che però non sarà da considerarsi una nuova emissione (dicono i progettisti) perché sarà la stessa quantità che era stata aspirata e quindi il bilancio risulta uguale a zero. In pratica si è trattato di un riciclo. Parlando di aria, la strategia da applicare per far fronte agli effetti del cambia-
mento climatico non può che essere la mitigazione. L’adattamento è pressoché impossibile. È nato il fenomeno degli emigranti ambientali, quelli che dalle regioni rurali stravolte dal riscaldamento globale fuggono altrove per trovare mezzi di sostentamento. Nelle grandi città ci si può abituare a respirare lo smog, ma ne va della salute. Tanti piccoli programmi sparsi per il mondo tentano di limitare le emissioni: uno di questi, supportato dalla Direzione dello sviluppo e cooperazione svizzera, sostiene le capitali di Bogotà, Santiago del Cile, Città del Messico e Lima, affinché si dotino di mezzi di trasporto pubblici e di macchine edili meno inquinanti. È un progetto triennale da 3 milioni di franchi. Ci vogliono davvero moltissime piccole misure di mitigazione per salvare la nostra aria, ben sapendo che da sole non basteranno. Tra le strategie migliori e sicuramente più efficaci rimane quella di proteggere per davvero le foreste, che sono un regolatore nevralgico del clima del nostro pianeta. La foresta accumula enormi quantità di anidride carbonica nel suo ciclo vitale. La deforestazione rompe brutalmente il circolo virtuoso. In Amazzonia, nel Bacino del Congo, nel Sud Est asiatico, ci sono foreste minacciate. Ma anche sulla Cordigliera delle Ande, in Sud America, e in generale nelle regioni di montagna, che da sole ospitano il 28% delle foreste mondiali. Non ci si pensa mai abbastanza.
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Fantasmi ad Harar
Viaggiatori d’occidente Nella città etiope visse a lungo il poeta Arthur Rimbaud
Testo e disegni di Stefano Faravelli Ad Harar arrivo al tramonto di un giorno dello scorso marzo. Sono partito da Dire Dawa e ho viaggiato in macchina tra coltivazioni di qat e polverosi villaggi di fango con i tetti di ondulina. Harar, nella parte orientale dell’altipiano etiopico, è città santa dell’Islam ma nella sua lunga storia è stata anche un importante centro commerciale. L’agenzia da Addis Abeba mi ha prenotato una stanza all’Hotel Ras, costruito dagli italiani durante l’occupazione coloniale: all’epoca si chiamava Hotel Ciao... Ricorda certi ambienti dei film di Bertolucci: tetraggine stile littorio che il recente ammodernamento ha solo peggiorato. È ora di cena e il ristorante dall’aria trascurata sembra deserto. Assente anche il personale. Poi scorgo a un tavolo una signora dai grandi occhi sognanti e i capelli à la casquette. Su di lei aleggia la grazia appena sfiorita della mezz’età. Incoraggiato da un sorriso mi presento e vengo invitato a sedere al suo tavolo. Si chiama M*, vive in un sobborgo di Parigi e ha proprio voglia di raccontarsi. Si definisce una groupie di Arthur Rimbaud. È ad Harar proprio sulle tracce del suo idolo. Infatti il poeta maudit di Charleville Mézières, abbandonata la letteratura e gli scandali, disertore e in fama di avventuriero, si stabilì in Etiopia e visse ad Harar gli ultimi undici anni della sua breve vita (morì di cancro a 37 anni), impegnato in commerci vari: caffè, zanne di elefante, armi, forse schiavi.
Harar è detta la Città dei Santi (Madinat al Awliya). Piccoli santuari sufi sono segnati da alberi immensi, come questo sicomoro secolare non lontano dalla porta Erere. La Piccola moschea a sinistra è del X secolo, il che non ha impedito che fosse ridipinta con colori molto pop. Nella stessa pagina una raccolta di calligrammi e talismani . In basso a sinistra (nella pagina di destra del taccuino) un Sufi Qadiri ritratto nel corso di un rito collettivo. Accanto a lui un sacchetto di foglie di qat, pianta dagli effetti simili alla cocaina.
M* è al suo quarto pellegrinaggio ad Harar. Nel 2009 aveva messo in valigia un sacchetto con una manciata di terra raccolta qui, poi deposta accanto alla tomba del poeta a Charleville. Mi racconta, con una smorfia di sufficienza, che da qualche tempo il pellegrinaggio all’ultima dimora di Rimb è molto trendy. Poi dallo zainetto estrae con zelo missionario il libro con le lettere di Arthur Rimbaud. Le piacerebbe regalarmelo, dice, ma è un dono della sorella
morta prematuramente e lei vuole che il libro «respiri Harar». In compenso mi legge il testo dell’ultima lettera di Arthur, ricoverato a Marsiglia. È paralizzato, in preda a dolori atroci e imbottito di morfina; e tuttavia nella lettera, dettata alla sorella, si rivolge ad un fantomatico armatore chiedendo di poter essere imbarcato «di buon mattino» per tornare ad Harar. «Voleva morire qui!» conclude M* commossa. «Ecco perché ho dovuto portargli una manciata di
terra di questa città benedetta». Poi, con autentico astio, passa a parlare della sorella del poeta, la bigotta Isabelle, grenouille de benitier (rana di sacrestia), che avrebbe creato ad arte l’agiografia della conversione di Rimbaud in punto di morte e ne avrebbe manipolato la memoria. Legge una lettera della sorella alla madre: «Non è più il povero sventurato reprobo che muore accanto a me; è un giusto, un santo, un martire, un eletto». Poi però M* sorride ammic-
cando con complicità: «Ma il prete non ha comunque voluto dargli la comunione…». Dopo una pausa ad effetto, M* si lancia nella sua teoria: «Isabelle non poteva ammettere che il fratello ribelle si fosse convertito all’Islam». L’ipotesi è plausibile ma resterà tale in mancanza di prove oggettive. Di certo sappiamo che Rimbaud passò ad Harar quasi cinque anni della sua breve vita, tra il 1880 e il la morte nel 1891, in tre distinti periodi, e seppe inserirsi nella vita e nella cultura locale, in spregio al formalismo e al conformismo delle ristrette cerchie coloniali. Qui studiò l’arabo e il Corano. Comincerà poi a siglare la sua corrispondenza con un sigillo (un khatm) recante il nome Abduh Rimbo, (Abduh, contrazione di Abdallah, «Servo di Dio», è tipicamente un nome assegnato ai convertiti). Naturalmente secondo M* non fu un’adesione all’Islam legalista ed exoterico, ma la conversione di un mistico al sufismo. Harar d’altronde è una sorta di città santa dei sufi, detta Madinat al Awliya, la «Città dei Santi», con le sue ottantadue moschee, gli oltre cento santuari e ziwaya (sedi di confraternite mistiche). L’argomento più convincente tra quelli che M* elenca a sostegno della sua teoria (per la verità non del tutto inedita) viene proprio dalla sorella di Rimbaud, della quale ha appena detto ogni male. Isabelle testimonia che durante le settimane di agonia l’amato fratello ripeteva incessantemente la giaculatoria «Allah Karim». Non invocava Gesù o la Annuncio pubblicitario
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Un locale dove si cucina il derek tibs, carne fritta di agnello. Si noti la calligrafia islamica (Allahu Akbar) a fianco del ben noto logo di una bevanda multinazionale.
Santa vergine, ma «Allah il Generoso». È il grido del mendicante, dello ‘abd, che sul ciglio della strada invoca l’Elargitore, ma anche una possibile formula di incantazione: ossia la pratica tipicamente sufi della recitazione incessante dei nomi divini, detta dhikr. La «lezione» di M* si conclude con una commovente professione d’amore per quel Rimbaud africano. Mi mostra una fotografia custodita nello zainetto: non è il celebre ritratto giovanile con gli occhi azzurri (quello che Patty Smith
esibiva sulla sua maglietta), ma l’uomo in pigiama bianco, dal volto triste e abbronzato, con un fez sulla testa. Per parte mia vorrei raccontarle un’altra storia di Harar, tanto simile alla sua. La storia dell’esploratore scozzese Richard Burton, il primo europeo che riuscì a penetrarvi nel 1854, un quarto di secolo prima di Rimbaud. All’epoca Richard aveva già compiuto il pellegrinaggio alla Mecca (hajj), vietatissimo ai non musulmani. Harar fu dunque una sirena per entrambi. E anche Richard,
La cosiddetta casa di Rimbaud che ospita l’omonimo museo. In realtà si tratta della dimora di commercianti indiani del XIX sec. A fianco un ritratto-omaggio al poeta nel suo periodo hararino. La fiamma rossa sulla gamba ne prefigura l’amputazione.
come Arthur, fu attratto dal sufismo. In un suo poema (Kasidah) si legge: «Ogni fede è falsa, ogni fede è vera: / La Verità è lo specchio frantumato sparpagliato / in una miriade di pezzi; mentre ognuno crede / che il suo piccolo frammento contenga il tutto. / “Avete tutti ragione e tutti torto” / sentiamo dire il noncurante Sufi, / “perché ognuno crede che la sua fioca lampada / sia la sgargiante luce del giorno”». Fu anch’egli un convertito? Non lo sapremo mai, perché Richard Burton a
sua volta (quante somiglianze!) finì la sua vita avvolto nelle morbose trame di una presenza femminile bigotta e manipolatrice, la cattolicissima moglie Isabel – come l’Isabelle di Arthur! – la quale brucerà tutti gli inediti, i diari e i preziosi studi scritti da Burton nel corso di mezzo secolo. Ma si è fatto tardi e tengo per me queste riflessioni notturne sui fantasmi di Harar. M* lascerà l’Etiopia domani, così ci salutiamo scambiandoci educatamente gli indirizzi. Solo tre giorni
dopo, lasciando l’albergo, scopro che il nome della via dove sorge, scritto in amarico, in francese e in inglese, è Avenue Charleville Mézières... È bello che il mio primo incontro con Harar sia avvenuto sotto il segno di Rimbaud: il grande poeta profetizzò per sé quell’amore non commisurato all’eros umano ma a un anelito più esigente e radicale, di cui il viaggio resta il simbolo più adeguato: «Mais l’amour infini me montera dans l’âme, / Et j’irai loin, bien loin, comme un bohémien». Annuncio pubblicitario
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Ambiente e Benessere
Una storia frizzante
scelto per voi
enologia Come sono nati i vini con le bollicine? Nel primo articolo di una serie dedicata
a questa caratteristica preziosa dei vini ripercorriamo un gustoso itinerario nel passato Davide Comoli L’origine delle bollicine nel vino, per centinaia di secoli fu considerata misteriosa. Fu Pasteur (1822-1895) con le sue ricerche sui meccanismi fermentativi a far chiarezza, spiegando che le bollicine non provengono altro che dalla fermentazione operata dai lieviti, che trasformano gli zuccheri contenuti nel vino in alcol e anidride carbonica, in modo che il gas che si forma all’interno, emergendo dal vino dà le bollicine. I vini più antichi con le bollicine (oggi si chiamerebbero frizzanti), provenivano da una sola fermentazione spontanea o controllata dagli zuccheri di mosti o vini dolci, svolta in anfore di terracotta chiuse ermeticamente. È invece di questi ultimi secoli l’ottenimento di vini spumanti o frizzanti, ottenuti con due fermentazioni, di cui la seconda (rifermentazione) ha lo scopo di produrre le bollicine. L’introduzione ci pare sufficiente per sollecitare alcune domande: chi
ha scoperto il fenomeno dei vini spumanti? Quando e come la attuavano i nostri antenati? Con che cosa? Prima di cominciare il viaggio nel tempo, ringrazio il dott. Mario Fregoni, docente di viticoltura all’Università Cattolica Sacro Cuore di Piacenza, che con i suoi scritti ci ha fornito molte indicazioni. Le citazioni in epoca romana sui vini spumanti sono ampie e si devono a Virgilio, Properzio, Lucano e Columella. Ma se vogliamo tornare un po’ più indietro nel tempo, molti di noi ricorderanno i versi di Omero, quando descrive lo scudo di Achille (scolpito da Vulcano) nel XVIII libro dell’Iliade. Il vate greco descrive il momento in cui i contadini intenti all’aratura venivano rifocillati da: «un uomo che giva in volta, e lor ponea nelle man un nappo spumante di dolcissimo bacco». Non è di certo una semplice espressione poetica, per la semplice ragione che il vino in natura ha sempre prodotto bollicine senza l’intervento dell’uomo. Negli scritti di Lucano (39-65
d.C.), troviamo questa frase: «Indomitum Meroe cogens spumare Falernum». A quell’epoca si otteneva uno spumante dal famoso vino Falerno, con l’aggiunta di mosto di uve appassite di una varietà chiamata Meroe, originaria dell’Etiopia. Uno spumante di questo tipo (ma le uve erano quelle dell’odierno Catarratto), fu servito al popolo romano da Cesare, in onore della presentazione di Cleopatra. Questo ci mostra come i romani conoscessero il modo per creare le: «bullulae». Anche Columella (I sec. d.C.), descrive la tradizione della produzione del «defrutum» o della «sapa», mosti concentrati con ebollizione (per evaporazione dell’acqua) sino al 50% o addirittura ad 1/3. Questi mosti concentrati venivano aggiunti al mosto in fermentazione per aumentare il grado alcolico oppure per ottenere una rifermentazione. Saliens, Spumans, Titillans, Spumescens, questi erano i termini con i quali indicavano i vini frizzanti o spumanti.
Un perlage che viene da lontano... (Marka)
I vini spumanti dell’epoca, erano pure divisi in due categorie, gli Aigleucos e gli Acinatici. I primi erano prodotti dal mosto, la cui fermentazione veniva impedita o meglio ritardata, immergendo le anfore vinarie in acque fredde, alfine di avere vino frizzante per più lungo tempo. A Pompei è stata scoperta una cantina avente un cunicolo attraversato in continuazione da acqua fredda. L’Acinatico, era invece prodotto con mosto di uve appassite, è il caso del Falerno citato sopra. Troviamo questo vino descritto da Cassiodoro (490-585 d.C.), che ben conosceva gli acinatici del Veronese (l’attuale Recioto) e il Torchiato di Fregona (passito del Trevigiano). Nel buio del Medioevo, è la famosa Scuola Salernitana a citare dei vini con le bollicine. Nel Regimen Sanitatis, si consiglia un moderato uso di vini frizzanti. Siamo agli inizi del 1100, e nella stessa epoca troviamo degli scritti sui vini frizzanti della Toscana. Nel 1544 i Benedettini di Saint-Hilaire a Limoux (Languedoc), certificarono la loro Blanquette, vino prodotto (allora) con il solo Mauzac. Il prodotto subiva una rifermentazione in bottiglia, chiamato: méthode Ancestrale. Nel Rinascimento si continuò a mantenere il gas nelle botti, cercando di tenerle chiuse il più possibile e a bassa temperatura durante la fermentazione. Per ottenere la rifermentazione, si poneva il vino sulle vinacce fresche, oppure si «tagliava» con il mosto nuovo, o si faceva appassire l’uva e dalla sua pigiatura si otteneva un mosto zuccherino capace di far rifermentare sia il vino giovane che quello vecchio. Grande consumatore di vini frizzanti fu il Papa più enofilo di tutti i tempi, Paolo III Farnese (1468-1549), che oltre a conoscere tutti vini italiani, amava in modo particolare quelli vivaci di Castell’Arquato (PC). Fra i nomi medioevali usati per i vini frizzanti si rammentano quelli di: «mordaci, piccanti, raspanti e razzenti».
oeil de perdrix (Les petits Crêtes)
Orientati a sud est, i vigneti neocastellani beneficiano di un clima favorevole, un po’ più fresco di quello dei vigneti delle rive del Lemano. I terrazzi sulle sponde del lago fanno di Neuchâtel il quarto cantone romando per superfice vinicola. Les Petits Crêtes, matura tra Boudry e Cortaillod, su terreni molto antichi, composti da molasse e calcare, qui esclusivamente dal Pinot Nero si ricava «l’Oeil de Perdrix». Furono i viticoltori neocastellani a scegliere per primi il nome evocatore «occhio di pernice», per il loro Pinot Nero vinificato in rosato: purtroppo, vittime di un eccesso di fiducia, supposero di essere i soli ad utilizzare questo poetico nome. Ma gli amanti di questo genere di vino, non si lasciano certo trarre in inganno da altri vini che portano lo stesso nome: il vero Oeil de Perdrix resta un prodotto caratteristico del territorio neocastellano. L’armonia aromatica, data dai profumi di fiori e di frutta e la sua grande finezza, fanno di questo prodotto l’ideale accompagnamento per: paella, quiche lorraine, carpaccio di manzo, ma per noi è esaltante su preparazioni di pollo o vitello in salsa curry. / DC Trovate questo vino nei negozi Vinarte al prezzo di Fr. 16.95. Annuncio pubblicitario
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Il macco, ricetta mediterranea Gastronomia Tre proposte per un piatto tradizionale del Sud d’Italia, a base di legumi «ammaccati»
Allan Bay Un lettore chiede cosa sia esattamente il «macco». È un termine con cui, in Italia meridionale, si indica una zuppa a base di fave secche, aromatizzata in modo variabile a seconda delle regioni, a volte accompagnata da pasta o pane. Diffuso in Calabria, Basilicata, Puglia e soprattutto in Sicilia, il macco viene tradizionalmente cotto a lungo, per circa 3 ore, in una pignatta di coccio. Durante la cottura si deve rimestare spesso con un mestolo di legno, in modo da «ammaccare» in continuazione le fave, fino a spappolarle. Alla fine si ottiene un puré denso. Per quanto quello di sole fave sia il più canonico, il macco viene preparato anche con altri legumi. Una ricetta particolarmente gustosa e mitica è il siciliano Maccu di San Giuseppe, che mescola fave, ceci, lenticchie, piselli, fagioli, castagne secche e, come usa nell’isola, la parte verde del finocchio selvatico.
È una saporita zuppa che va cotta a lungo in una pignatta di coccio e mescolata spesso, in modo che i vari ingredienti possano spappolarsi bene Ecco tre ricette di macco. Maccu di San Giuseppe. Per 4 persone – è un piatto unico ed è una mia versione non troppo canonica. Ammollate separatamente 100 g di fave decorticate, altrettanti ceci, piselli secchi, fagioli secchi e castagne secche. Sciacquate 100 g di lenticchie. Mettete tutti gli ingredienti in una casseruola, unite la parte verde di un finocchietto, coprite a filo di acqua e cuocete per 3 ore, mescolando spesso e unendo poca acqua bollente se necessario. Alla fine dovrete avere la consistenza di una
zuppona. Regolate di sale e servite irrorando con olio e profumando con tanto pepe. Se volete a inizio cottura mettete 2 cucchiai di concentrato di pomodoro. Macco con cavolo nero. Per 4 persone. Lasciate a bagno per una notte 300 g di fave secche decorticate. Sbucciate una patata e grattugiatela. Mondate un porro e tagliatelo a fettine. Mettete le fave in una casseruola, unite la patata e il porro, coprite a filo d’acqua e cuocete a fuoco molto lento per 3 ore o fino a quando le fave risulteranno disfatte, unendo poca acqua se necessario. Togliete un terzo della crema, frullatela finemente e rimettetela in casseruola. Mentre le fave cuociono, sciacquate un’abbondante manciata di foglie di cavolo nero, privatele delle costole e tagliatele a juliénne. In una casseruola antiaderente mettete il cavolo nero, un cucchiaio abbondante di salsa di pomodoro, uno spicchio d’aglio schiacciato, una manciatina di prezzemolo tritato e 1 bicchiere di brodo vegetale. Portate a cottura per 1 ora, unendo brodo bollente se e quando dovesse asciugare troppo. Unite le fave, mescolate bene e fate addensare fino a ottenere la consistenza di un puré molle. Regolate di sale e servite irrorando con olio e profumando con tanto pepe. Macco di fave e pasta. Per 4 persone. Lasciate a bagno per una notte 300 g di fave secche decorticate. Mondate 1 cipolla, spezzettatela. Ponete le fave e la cipolla in una casseruola, aggiungete 4 mestoli di acqua e cuocete a fuoco basso per circa 3 ore, unendo acqua bollente quando necessario, alla fine le fave dovranno essere dense come una crema. Se volete frullate la crema, se volete non fatelo, che se ci sono ancora pezzi di fava interi non è un problema, anzi per me è meglio. A parte cuocete 200 g di pasta corta e piccola a piacere, scolatela al dente. Aggiungete la pasta alle fave, mescolate, regolate di sale. Servite il macco cosparso con abbondante pepe nero appena macinato e 1 giro di buon olio.
CsF (come si fa)
A Milano, il messicano è un grosso involtino preparato con carne di vitello o di maiale farcita con un ripieno di fegatini di pollo, prosciutto, uovo, pane e aromi; dopo essere stato infarinato, viene cotto in padella. I messicani sono veramente un canone della cucina milanese ma, nonostante il nome, non hanno alcun legame con l’omoni-
mo Stato dell’America settentrionale. Quindi, perché si chiamino così, è uno dei più curiosi segreti irrisolti della cucina. Vediamo come si fanno. Messicani. Per 4 persone. Tagliate a fettine sottili, battendo bene col batticarne, 500 g di lonza di maiale e 200 g di pancetta. Mettete sopra ogni fettina di maiale una di pancetta. Poi fate un ripieno tritando 300 g in tutto di avanzi e ritagli di carne di maiale o vitello, anche cotti, prosciutto crudo o cotto, salame, mortadella, cotechino, fegatini di pollo saltati e via avanzando. Legate questo trito con 1 uovo, 20 g di grana grattugiato, 2 fette di pancarré senza bordo messe a bagno nel latte e poi strizzate, una ricca dose di prezzemolo tritato e noce moscata. Salate e pepate a piacere. Spalmate il trito sulla fettina di pancetta e poi arroto-
late, chiudendo gli involtini con uno stuzzicadenti e infarinateli. Sciogliete in una casseruola poco burro e poco olio di oliva, aggiungete 2 spicchi d’aglio e qualche foglia di salvia. Unite i messicani e fateli rosolare, girandoli delicatamente perché non si rompano. Quando sono ben dorati gettate un bicchiere di vino bianco, fatelo evaporare, poi coprite a filo di brodo di vitello e fate cuocere, a fuoco dolcissimo, coperto, per 30’, regolate di sale e di pepe. Serviteli ben caldi accompagnati con risotto alla milanese o alla parmigiana, come dice la tradizione: io preferisco servirli con puré di patate o (meglio) puré di patate e sedano rapa, in parti uguali. Variante. Al maiale si possono sostituire fettine di vitello, in questo caso i tempi di cottura si riducono a 20’.
Ballando coi gusti Oggi due snack che funzionano sempre, ovvero dei cartocci di pasta da pane farciti di salmone e delle pizzette di polenta.
Cartocci al salmone
pizzette di polenta
Ingredienti per 8 cartocci: pasta da pane g 500 · salmone affumicato a fette g 200 · 2 porri · prezzemolo · 1 tuorlo · olio d’oliva · sale e pepe.
Ingredienti per 4 persone: farina gialla da polenta g 500 · spinaci g 200 · salamella da mangiare cruda g 200 · formaggio semi morbido a piacere g 100 · olio di oliva · sale e pepe.
Affettate i porri e fateli stufare con poca acqua per 10’, insaporiteli con sale e pepe e suddivideteli in 4 parti uguali. Sminuzzate il salmone e dividetelo in 4 parti uguali. Stendete la pasta e dividetela in 4 rettangoli. Nel centro di ognuno disponete uniformemente il salmone e sopra i porri. Spolverizzate con prezzemolo tritato, richiudete la pasta su se stessa premendo bene i bordi. Sistemate i cartocci su una placca rivestita di carta da forno, spennellateli con il tuorlo sbattuto e lasciateli lievitare per 30’. Cuoceteli in forno a 200° per 25’. Levateli, divideteli a metà e serviteli.
Portate a ebollizione 1,5 l di acqua con 20 g di sale e 2 cucchiai di olio. Versatevi la farina gialla, mescolandola con una frusta in modo che non si formino grumi. Fate cuocere la polenta per circa 45 minuti, mescolandola continuamente. Quando sarà cotta, rovesciatela in una teglia rettangolare e livellatela. Lasciate raffreddare la polenta e poi ricavatene dei dischetti di circa 10 cm di diametro. Grigliate le pizzette per 10 minuti a fuoco medio. Al momento di servirle, guarnitele con gli spinaci lessati e strizzati, le salamelle pelate e spezzettate e i formaggi a pezzetti. Ancora 1 minuto in forno a 180°, poi servite.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 giugno 2019 • N. 23
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Ambiente e Benessere
Un Minivan maxi
Motori Chrisler propone una monovolume ipertecnologica per soddifare le aspirazioni
di chi ama questo tipo di veicoli famigliari, con un’occhio all’ecologia
Mario Alberto Cucchi Parlando di automobili cosa si intende per monovolume? Si tratta di veicoli caratterizzati da un’elevata spaziosità longitudinale e verticale. Forse la Fiat 600 Multipla del 1956 è stata la prima, anche se nell’era moderna tutti ricordano la Renault Espace nata nel 1985. E poi? Negli anni seguenti sono state costruite monovolume di tutte le dimensioni. Prima grandi, poi medie e infine piccole, adatte alla città. Di conseguenza anche le cilindrate dei motori sono cambiate. Prima erano importanti e poi sono diventate da utilitaria. E oggi? Gli automobilisti vogliono i SUV, gli sport utility vehicle. Stessa storia anche per loro. Prima grandi e a quattro ruote motrici e poi sempre
In dotazione due ampi schermi touchscreen per i passeggeri.
più corti e anche solo con due ruote motrici, ma lo stesso caratterizzati da un’altezza sopra la media che consente di «guidare in alto». Si tratta di mode? Probabilmente. Va detto che i costruttori automobilistici investono le loro risorse proprio sulle auto maggiormente richieste, che di conseguenza diventano anche le più moderne. E i monovolume? C’è ancora spazio anche per loro e lo dimostra la Chrysler Pacifica Ibrida plug-in. Una grande, anzi grandissima monovolume su cui sono presenti tutte le ultime tecnologie. Partiamo dalla motorizzazione: si tratta di un’auto ibrida, equipaggiata con un propulsore termico 6 cilindri a V alimentato a benzina in grado di erogare ben 250 cavalli. A quest’ultimo si associano due motori elettrici che possono lavorare in combinata o anche autonomamente, permettendo a questo mezzo di percorrere sino a 50 chilometri a emissioni zero, ovvero senza usare benzina. Si può marciare utilizzando solo l’elettrico sino a 120 km/h. E le batterie? Essendo un plug-in si possono ricaricare tramite la presa di casa oppure nelle colonnine dedicate. Non ci vuole tantissimo tempo. Bastano due ore e mezza in modalità rapida. Una volta fatto il pieno di energia e messi circa 70 litri di benzina nel serbatoio, si ottiene un’autonomia di oltre 900 chilometri. Non male per essere una monovolume. Va detto che si tratta del primo ibrido plug-in del Gruppo FCA –Fiat
La Pacifica è destinata al mercato americano, ma si potrà acquistare anche in Svizzera.
Chrysler Automobile – e che in Europa non viene venduto tramite la rete ufficiale. Eppure in USA i Minivan, così gli americani chiamano i monovolume, riscuotono moltissimo successo, ma forse si teme che in Europa non sarebbe lo stesso. D’altronde i suoi 5 metri e 17 di lunghezza e i 2 metri di larghezza sono misure che possono mettere in soggezione. I numeri però parlano per lei: 229 chilometri orari di velocità massima e 7,6 secondi per scattare da ferma a cento orari. La potenza non manca di certo, come il comfort. Ci sono due comodis-
sime poltrone per il pilota e il passeggero anteriore, che godono anche di un sistema di riscaldamento e raffreddamento tramite dei buchini nella pelle dei sedili. E poi altre due poltrone nella seconda fila, a cui si accede da due ampie porte che si aprono elettricamente. Infine, un divano da tre nell’ultima fila. Per i sette occupanti il viaggio può diventare un vero piacere. Non manca un impianto stereo degno del suo nome e due ampi display touchscreen sui quali gli occupanti della seconda fila possono vedere anche un film. E la sicurezza? Attiva e passiva, ol-
tre cento i dispositivi preposti a queste funzioni. Insomma, questo minivan unisce confort, spazio, prestazioni ed ecologia in un solo mezzo. Il prezzo? Negli Stati Uniti costa intorno ai 45 mila franchi svizzeri. In Europa si può comprare nonostante non sia ufficialmente venduta da Chrysler? La risposta è sì. Alcuni rivenditori di auto americane, tra i più noti a livello europeo c’è Hermes Cavarzan, la commercializzano direttamente, ma il prezzo a causa dei costi d’importazione cresce di molto. Facilmente si arriva anche a 70 mila franchi svizzeri. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 giugno 2019 • N. 23
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Ambiente e Benessere
Uzbekistan, la terra di tamerlano
tagliando di prenotazione Desidero iscrivermi al viaggio dal 13 al 20 ottobre 2019 Nome
Hotelplan-Azione Un viaggio nella storia dell’Asia centrale
Cognome
Il programma di viaggio 13 ottobre: ticino – Milano – Urgench Trasferimento organizzato dal Ticino per Milano-Malpensa. Partenza con volo di linea per Urgench, volo notturno, pasti a bordo. 14 ottobre: Urgench – Khiva Arrivo a Urgench incontro la guida locale. Trasferimento in hotel a Khiva. Prima colazione in hotel. Giornata dedicata alla visita della leggendaria Ichan Kala sito di valore universale protetto dall’Unesco. Pranzo in ristorante e nel pomeriggio proseguimento delle visite. Cena e pernottamento in hotel (pensione completa). 15 ottobre: Khiva – Bukhara Prima colazione in hotel. In mattinata trasferimento in aeroporto a Urgench e partenza con volo interno per Bukhara. Pranzo in hotel. Nel pomeriggio visita del complesso di Lyab-i Khauz e delle sue madrase. Cena con spettacolo nella suggestiva cornice della madrasa Nodir Divan Beghi. Pernottamento in hotel (pensione completa). 16 ottobre: Bukhara Prima colazione in hotel. In mattinata
Via
visita casa/museo Fayzulla Khodjaev, visita di Chor Minor, la curiosa madrasa dei 4 minareti, del mausoleo dei Samanidi, capolavoro dell’architettura del X sec. e della cittadella, un tempo residenza del khan di Bukhara. Pranzo in ristorante. Nel pomeriggio tempo a disposizione per lo shopping nei tre bazar coperti. Segue la visita alla curiosa residenza dell’ultimo emiro di Bukhara, il Mokhi-Khosa Palace. Al termine rientro in hotel, cena e pernottamento (pensione completa). 17 ottobre: Bukhara – shakhrisabz / samarcanda Prima colazione in hotel. Partenza alla volta di Shakhrisabz, una città con oltre duemila anni di storia che fu la città natale di Tamerlano. Pranzo in ristorante e proseguimento per Samarcanda. Arrivo in serata, cena e pernottamento in hotel (pensione completa). 18 novembre: samarcanda Prima colazione in hotel. Nella mattinata visita di Samarcanda con la piazza Registan, circondata dalle madrase di Ulugbek, Sherdor e Tilla Kori, visita al mausoleo di Gur-Emir, che ospita la
tomba di Tamerlano. Pranzo in ristorante. Nel pomeriggio si visiterà l’osservatorio astronomico di Ulugbek e del centro di fabbricazione della carta «Meros». Cena in una locale casa tagica dove si potrà anche assistere alla preparazione del piatto tradizionale, il plov. Pernottamento in hotel (pensione completa). 19 ottobre: samarcanda – tashkent Prima colazione in hotel. Nella mattinata visita alla magnifica necropoli Shakh-i Zinda. Proseguimento con la visita alla fabbrica di tappeti Khudjum. Pranzo in hotel e partenza in treno per Tashkent. Arrivo in hotel a Tashkent, sistemazione nelle camere riservate. Cena e pernottamento in hotel (pensione completa). 20 ottobre: tashkent – Milano – ticino Prima colazione in hotel. In mattinata visita della città, pranzo in ristorante. Tempo a disposizione fino al trasferimento in aeroporto. Disbrigo delle formalità di imbarco e partenza con volo di linea per Milano. All’arrivo, trasferimento in pullman in Ticino (colazione e pranzo).
Bellinzona
Lugano
Lugano
Viale Stazione 8a 6500 – Bellinzona T +41 91 820 25 25 bellinzona@hotelplan.ch
Via Pietro Peri 6 6900 – Lugano T +41 91 910 47 27 lugano@hotelplan.ch
Via Emilio Bossi 1 6900 – Lugano T +41 91 913 84 80 lugano-viabossi@hotelplan.ch
M In omaggio a camera,1carta Migros del valore di CHF 50.– con prenotazioni entro il 26 giugno 2019
NAP
L’Uzbekistan è il paese più ricco di storia fra tutte le repubbliche dell’Asia centrale. Bellissimi i paesaggi; nella Valle dello Zeravasan sorse la prima civiltà fluviale. La natura si fonde con la storia… ma la storia e le tradizioni sono anche negli aspetti più quotidiani: nelle piccole botteghe dove si lavorano i tappeti o gli arazzi di seta o nei laboratori dove si impara a costruire liuti di legno. Affascinante la vista del mausoleo di Gur-e Amir, nella romanzesca Samarcanda: i mosaici e le decorazioni creano un emozionante impatto visivo. Il paese annovera alcune delle città più antiche del mondo, molti dei principali centri sulla Via della Seta e la maggior parte delle bellezze architettoniche di quest’area geografica.
Località Telefono e-mail Sarò accompagnato da … adulti e … bambini (0-17 anni). Sistemazione desiderata (cerchiare ciò che fa al caso). Variante singola: SI NO
prezzo a persona In camera doppia (a): CHF 2890.– Supplemento camera singola (b): CHF 250.– Visto turistico CHF 100.– Spese agenzia Hotelplan: CHF 70.–
pensione completa e soft drink come da programma, tutte le visite guidate e i trasferimenti in pullman privato come da programma, guida locale qualificata parlante italiano, pullman privato e guida locale parlante italiano per tutte le visite previste nel programma.
La quota comprende Trasferimento in pullman privato dal Ticino a Milano aeroporto e ritorno, volo intercontinentale in classe economica, sistemazione in hotel di 3/4 stelle,
La quota non comprende Bevande,mance edextraingenere, assicurazioneannullamento,speseagenzia.
Giochi
Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku
Cruciverba In Giappone, prima di entrare nel santuario, i fedeli si… Termina la frase leggendo, a cruciverba ultimato, le lettere evidenziate. (Frase: 10, 4, 1, 5)
oRIzzoNtALI 1. Rametti di legno legati con una corda 7. È panciuto ma ha una bocca stretta 8. Gabbia per polli 9. Le iniziali dell’attore Quinn 10. Precede la Maestà 11. Antilope africana 12. Le iniziali del compositore Respighi 13. Collocata 14. L’uomo inglese 17. Il nome dello scrittore Wilde 19. Il tempo del 14 orizzontale... 21. Osso della gamba 23. Centro della Mauritania 24. Tabacco cubano 26. La ninfa che amò Narciso 28. La città eterna 29. Prima e seconda sui treni
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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch
I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.
VeRtICALI 1. Un canale nel terreno 2. Nome maschile 3. Era sul trono iraniano 4. Noto servizio segreto 5. Con altri diventa noi 6. Ha due atomi di idrogeno e uno di ossigeno 9. Grotta, caverna 11. Grosso recipiente di terracotta 13. Chi la fa muta... tace 14. Pronome personale 15. Prendono per la gola 16. Prive della tara 18. Posta elettronica indesiderata 19. Vetrina per preziosi 20. Vi fumano i cappuccini... 22. Preposizione articolata 25. La precedono a tavola... 27. Bocca in latino partecipazione online: inserire la
soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-
sudoku soluzione:
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Scoprire i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.
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soluzione della settimana precedente
CURIOSANDO TRA GLI ANIMALI – Nome della scimmietta e piccola curiosità su di lei: TAMARINO EDIPO - I MASCHI CURANO LA PROLE.
T E R A P I S T A
A D I P E
M A R A I L E M A S O H A P U R N O G A C O L O R O P R V V O L T
S P A O C I R A L A M E
I N O L O S I S C I N C A
luzione, corredata da nome, cognome, indirizzo, email del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui
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concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.
Date semplicemente ascolto al vostro corpo.
ACTIV FITNESS BELLINZONA Viale Stazione 18, tel. +41 91 821 78 70 Orari d’apertura: Lunedì, Mercoledì 07.00 – 22.00 Martedì, Giovedì, Venerdì 08.00 – 22.00 Sabato, Domenica 09.00 – 18.00 Festivi 09.00 – 18.00 ACTIV FITNESS LOSONE Via dei Pioppi 2A, tel. +41 91 821 77 88 Orari d’apertura: Lunedì – Venerdì 08.00 – 22.00 Sabato, Domenica 09.00 – 18.00 Festivi 09.00 – 18.00 ACTIV FITNESS LUGANO Via Pretorio 15, tel. +41 91 821 70 90 Orari d’apertura: Lunedì, Mercoledì, Venerdì 08.00 – 22.00 Martedì, Giovedì 07.00 – 22.00 Sabato, Domenica 09.00 – 18.00 Festivi 09.00 – 18.00 ACTIV FITNESS MENDRISIO Piazzale alla Valle, tel. +41 91 821 75 50 Orari d’apertura: Lunedì – Venerdì 08.00 – 22.00 Sabato, Domenica 09.00 – 18.00 Festivi 09.00 – 18.00 Seguici anche su
Ulteriori informazioni sul sito: https://www.migrosticino.ch/activ-fitness
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 giugno 2019 • N. 23
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politica e economia L’Italia è Lega Il trionfo del Carroccio alle europee di domenica eclissa il Movimento 5 Stelle che non ha saputo convincere gli elettori
per la May una sconfitta «hard» Trionfa il partito di Nigel Farage che promette una Brexit con il no deal, mentre crollano i conservatori e i laburisti, crescono i verdi, così come gli indipendentisti in Scozia. Per i Tories, in particolare, è il peggior risultato degli ultimi 200 anni
La Cina in America Latina L’ultimo a stringere accordi commerciali con Pechino è il Panama del neoeletto presidente Nito Cortizo pagina 39
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parliamo europeo
Il nuovo europarlamento Due segnali importanti sono usciti dalle europee del 26 maggio: un tasso
di partecipazione popolare in crescita rispetto al 2014 e la mancata travolgente ondata dei nazional-populisti Paola Peduzzi
Più di duecento milioni di elettori europei, un’affluenza record, una larga maggioranza alle forze europeiste. Le elezioni europee della sopravvivenza, quelle dello scontro tra le forze nazionaliste e le forze a protezione del progetto europeo, hanno consegnato un Europarlamento che sarà governato dalle famiglie politiche tradizionali, i conservatori e i socialisti, assieme ai liberali e ai verdi. L’obiettivo è questo: creare quella che a Bruxelles chiamano la «coalizione jumbo», formata da quattro gruppi, solidissima. I sovranisti hanno avuto i loro successi, come ci si aspettava: la Lega di Matteo Salvini in Italia ha oltrepassato il 30 per cento dei consensi, il Rassemblement national di Marine Le Pen in Francia ha battuto d’un soffio il partito presidenziale di Emmanuel Macron, il Brexit Party di Nigel Farage nel Regno Unito ha travolto conservatori e laburisti, i populisti fiamminghi in Belgio metteranno a dura prova la tenuta del partito liberale di governo e in Polonia il PiS di Jaroslaw Kaczynski ha sconfitto l’unica coalizione europeista che si era formata nell’Unione europea. Questi successi peseranno a livello nazionale ma dal punto di vista europeo, anche mettendo insieme tut-
ti i partiti sovranisti-nazionalisti che al momento sono divisi in gruppi differenti all’Europarlamento, l’offensiva non sarà molto diversa da quella che è già in corso: molta opposizione, molti discorsi programmatici, molti video su YouTube, molto colore e poca efficacia. La vita sarà più complicata per gli europeisti, certo, non è facile già dal 2014 quando la Le Pen e Farage si piazzarono primi nei loro paesi, ma il temutissimo, raccontatissimo scossone nazionalista è stato contenuto. La Francia è esemplare: la Le Pen, con circa il 23 per cento dei consensi, ha battuto Macron con uno scarto dello 0,9 per cento, ha festeggiato ampiamente, ha chiesto le dimissioni del governo «non più rappresentativo» e poi è ritornata ai suoi temi classici e agli annunci di grandi battaglie antieuropee. Macron, che certamente sperava in una vittoria, ha incassato la sconfitta e non ha perso tempo: la regia della grande coalizione che si deve creare all’Europarlamento e delle nomine per definire le massime cariche europee è tutta sua. Non è detto che il presidente francese riesca in questa sua iniziativa di rifondazione delle famiglie politiche europee – il progetto di una alleanza progressista, moderata ed europeista si era già impantanato prima del voto – ma non gli manca la determina-
zione. Appena chiuse le urne, ha iniziato gli incontri con i leader europei – lo spagnolo Pedro Sánchez, premier socialista vittorioso, è il più corteggiato d’Europa – e vuole, come primo obiettivo, spezzare il monopolio politico di conservatori e socialdemocratici (che da sempre governano insieme l’Ue) imponendo alla guida della Commissione europea qualcuno che non sia il candidato predestinato, lo Spitzenkandidat, del primo partito uscito dalle urne, il Partito popolare europeo, cioè il bavarese Manfred Weber. Al suo posto, Macron vuole indicare il francese Michel Barnier, conservatore con tendenza macronista, ma conta poi di trovare una convergenza sulla danese liberale Margrethe Vestager, che tecnicamente è una Spitzenkandidat e che quindi salvaguarderebbe in qualche modo la volontà dell’Europarlamento di mantenere fede alla procedura di selezione del presidente della Commissione (lo Spitzenkandidat appunto). Macron si trova davanti l’opposizione del Ppe e della Germania, che è il gruppo predominante nei popolari e che avrebbe la possibilità, con Weber, di ottenere la guida tedesca della Commissione (cosa che non avviene dagli anni Sessanta con Walter Hallstein, della Germania dell’ovest). C’è soprattutto
un po’ di insofferenza di Macron nei confronti di Angela Merkel, che ha adottato il suo solito approccio prudente: il partito della cancelliera tedesca ha perso consenso alle elezioni, la sua delfina designata, Annegret Kramp-Karrenbauer, è presa di mira dai giornali per la sua propensione alle gaffe (è circolata persino la folle idea che Merkel la voglia sostituire, ma sono pettegolezzi infondati), il partito che governa a Berlino assieme alla Merkel, l’Spd socialdemocratica, è andato molto male, è stato superato dai Verdi e potrebbe cambiare la propria leadership. È un momento molto delicato, insomma, per la Germania e per la Merkel, che quindi formalmente continua a sostenere la linea ufficiale del Partito popolare europeo e la candidatura di Weber (pure il Ppe è in sofferenza: ha perso molti voti, ha la questione ungherese da gestire e Viktor Orbán ha stravinto alle elezioni). Ma molti a Bruxelles sono convinti che, a parte i titoli roboanti sullo scontro franco-tedesco, la Merkel non si impunterà poi troppo su Weber: lei non è mai stata del tutto favorevole al processo dello Spitzenkandidat, e ama molto la Vestager. Se il conflitto tra la Merkel e Macron è esagerato dai media, non saranno settimane facili per gli architetti della nuova
Europa. Ci sono molti criteri da tenere presente nella selezione delle nomine e, soprattutto, ci sono grandi instabilità. In Austria c’è un governo di transizione perché il Parlamento di Vienna ha sfiduciato il premier, Sebastian Kurz, che pure è andato molto bene nelle urne alle europee (si voterà a settembre), dopo lo scandalo che ha coinvolto l’ex partner di coalizione, l’estrema destra dell’Fpö. In Grecia si andrà a votare il 7 luglio: il premier di sinistra, Alexis Tsipras, ha indetto le elezioni anticipate dopo aver perso di quasi dieci punti percentuali la sfida con il partito conservatore Nuova Democrazia. Nel Regno Unito inizia a breve la contesa dentro al partito di governo, i Tory, per sostituire la premier dimissionaria Theresa May: si andrà avanti fino alla seconda metà di luglio. Il Belgio potrebbe restare senza governo ancora per molto tempo, la Danimarca è al voto in questi giorni e potrebbe realizzarsi un’alternanza politica, in Romania molti esponenti del partito socialista al governo, ma battuto alle europee, sono andati in prigione. Così, per quanto paradossale possa suonare, visto che da mesi ci viene raccontato l’esatto contrario, l’Unione europea appare oggi ben più stabile di molti suoi Stati membri.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 giugno 2019 • N. 23
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politica e economia Salvini promette di sfruttare la vittoria anche a Bruxelles. (Keystone)
Il Brexit party non invaderà (forse) Westminster GB I Tories escono sconfitti dalle urne
che hanno invece premiato Farage e punito la politica fallimentare del governo May Cristina Marconi
La Lega sopra le stelle Lo scenario italiano Alle europee il Carroccio di Matteo Salvini
sfonda quota 30% e raggiunge persino il 34. Mentre il Movimento 5S crolla ben al di sotto del 20%. Il Pd secondo con il 22%
Alfredo Venturi L’hanno scelto più di nove milioni di elettori, oltre un terzo dei votanti, e ora Matteo Salvini si appresta a incassare il dividendo del suo trionfale successo. Si era messo in testa di «cambiare l’Italia e cambiare l’Europa», ma il mancato sfondamento delle forze sovraniste nell’insieme dell’Unione costringe il «capitano» leghista a concentrare l’attenzione sul governo di Roma, di cui il risultato elettorale lo incorona padrone assoluto. I suoi alleati a cinque stelle hanno dovuto registrare un’autentica disfatta, e la voce dell’altro vicepresidente del consiglio, il grillino Luigi Di Maio, si è fatta improvvisamente più flebile. Non potrà più contrastare la Lega su temi come la Tav, la controversa tratta ferroviaria ad alta velocità di cui il Movimento vorrebbe bloccare la costruzione, o come la flat tax, l’imposta semplificata fortemente voluta da Salvini alla quale i grillini preferivano anteporre misure di assistenza sociale come il reddito di cittadinanza. Ammesso che l’esecutivo giallo-verde sopravviva al terremoto elettorale, il socio ridimensionato dal voto non potrà più permettersi di avanzare riserve sulla dura politica dell’alleato a proposito di migranti. Salvini promette di sfruttare la vittoria anche a Bruxelles. È vero che l’esito complessivo del voto non consente ai sovranisti, nonostante i risultati favorevoli in Francia, in Italia e altrove, di dettare all’Unione la loro agenda: ma certo questa rafforzata presenza nel parlamento di Strasburgo si farà sentire. In particolare si farà sentire il vincitore del voto italiano. Galvanizzato dal successo, intende promuovere una rivisitazione degli impegni di Maastricht, a cominciare da quel limite del tre per cento del deficit di bilancio rispetto al prodotto interno lordo che ha fin qui frenato le costose politiche promesse in campagna elettorale. Senza il superamento di quel limite, la flat tax rimane una pia illusione. In ogni caso lo scioglimento, o almeno l’alleggerimento, dei vincoli europei è il primo obiettivo del fronte sovranista. Tuttavia la mancata coincidenza del maggior potere esecutivo conquistato in Italia con l’analoga capacità decisionale che Salvini si proponeva di assicurarsi a Bruxelles ostacolerà la sua azione a livello europeo. Mani libere, invece, a Roma. «Se un datore di lavoro» disse una volta il capo della Lega «deve evadere le tasse
Azione
settimanale edito da Migros ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
per sopravvivere, non è un evasore ma un eroe». Questa osservazione rappresenta efficacemente la sua visione del mondo e contribuisce a spiegare come abbia potuto assicurarsi il sostegno di un elettore su tre. Salvini sa intercettare le insoddisfazioni e le frustrazioni che serpeggiano in un’Italia afflitta da una permanente condizione di crisi. Così come sa coltivare la paura di fronte a due fenomeni opportunamente sbandierati, la criminalità e le immigrazioni clandestine. Due realtà che il ministro dell’Interno è solito collegare con disinvolta spregiudicatezza. A suo tempo disse che non bisogna piangere sui «migranti che a Lampedusa vengono disinfettati», ma sui «cittadini di Lampedusa e di Bergamo che poi vengono derubati da chi viene disinfettato». Sono accenti che nei comizi strappano l’applauso, mentre sono seguitissimi i suoi commenti online sull’attualità quotidiana, certo non particolarmente in linea con il ruolo ufficiale (può un ministro della repubblica augurare allo stupratore di turno di «marcire in galera»?), ma capaci di assicurargli quella vasta popolarità che il voto dell’altra domenica ha tradotto in potere. Al di là di ogni altra considerazione, è il trionfo della politica degli slogan su quella che dovrebbe fondarsi sull’analisi e sulle competenze. Salvini tuona contro l’«invasione» dei migranti, al tempo stesso vantandosi per averla drasticamente ridotta con la politica dei porti chiusi, e non servirebbe a nulla ricordargli che di invasione, cifre alla mano, non è il caso di parlare, visto che la percentuale di stranieri e clandestini in Italia è notoriamente inferiore a quella di altri paesi statisticamente comparabili. Così come non servirebbe citare, sul tema dell’auspicata redistribuzione dell’onere fra tutti i paesi dell’Unione, il paradosso della sua vicinanza a personaggi come l’ungherese Viktor Orban e la francese Marine Le Pen. È vero che costoro la pensano esattamente come lui a proposito delle frontiere sbarrate, ma di partecipare a una equilibrata spartizione degli stranieri non vogliono nemmeno sentir parlare. Altro tema controverso quello della castrazione chimica che vorrebbe infliggere a chi si rende colpevole di violenza sessuale. È uno dei suoi cavalli di battaglia, elettoralmente pagante a quanto pare, nonostante sia stato obiettato che questa misura, oltre a evocare contesti
culturali altri e diversi, sarebbe praticamente inutile. Nel corso della campagna elettorale che ha preceduto il voto europeo il «capitano» ha sfoderato un’altra arma, quella della religione. I gesti ostentati sulle tribune dei comizi dove agita rosari, sbaciucchia crocifissi e volge gli occhi al cielo invocando il sostegno della Madonna che «ci darà la vittoria», nonostante le imbarazzate proteste di alcune autorità ecclesiastiche gli hanno assicurato altri applausi, e presumibilmente altri voti. Poiché mancano partiti esplicitamente cattolici come fu a suo tempo la Democrazia cristiana, evidentemente Salvini si propone di occupare anche quello spazio. È una scelta polemica visto che l’attuale capo della Chiesa, papa Francesco, è inviso a buona parte dell’opinione pubblica conservatrice a causa delle sue aperture sociali e dei suoi richiami al dovere dell’accoglienza nei confronti dei diseredati che premono alle frontiere. Non a caso una sua citazione del pontefice, durante la manifestazione che qualche settimana fa ha organizzato a Milano assieme ai capi dei partiti amici d’Europa, è stata salutata da un coro di fischi. Abile e spregiudicato tribuno, Salvini incanta più il nord che il sud, più i centri minori che le grandi città. Si conferma quella discrepanza fra città e campagna (intesa quest’ultima come parte non metropolitana del territorio) che caratterizza anche altri contesti, dall’America di Donald Trump alla Gran Bretagna della Brexit. Il successo leghista è stato preceduto da una costante e progressiva erosione dei consensi per il Movimento Cinque Stelle, appena attenuata all’immediata vigilia delle elezioni. L’analisi dei flussi elettorali dimostra che questa erosione non si è manifestata soltanto con una fuga verso la Lega ma più ancora con l’astensione, e in piccola parte con un trasferimento di consensi nel Partito democratico. Il voto conferma infatti una crescente polarizzazione delle due forze di governo e ci si chiede come possano continuare a lavorare insieme. Abbiamo una Lega che guarda sempre più verso destra, un Movimento che oscilla fra la disillusione che ha indotto molti suoi simpatizzanti ad astenersi dal voto, e la riscoperta di una vocazione sociale alla quale i cinquestelle non hanno saputo adeguare l’azione politica. Con un partner che il voto ha reso così ingombrante, l’impresa non sarà certo più facile.
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I più ottimisti notano che il voto europeo ha meccanismi troppo diversi da quelli delle elezioni generali: il 31,7% del Brexit Party non si tradurrà necessariamente in un’invasione di Westminster. I più pessimisti pensano che gli euroscettici dominano da tre anni il dibattito e che ora sarà solo peggio: i Tories faranno di tutto per inseguire Nigel Farage e scrollarsi rapidamente di dosso quell’8,7% dei voti che li ha fatti diventare il quinto partito con una strategia muscolare e molto retorica sulla Brexit. La fine della «pax mayana», ossia quella stagione politica relativamente lunga in cui la premier uscente Theresa May ha fatto da parafulmine e ha permesso al Regno Unito di non fare i conti con quanto profonde sono le sue spaccature, porterà a una resa dei conti brutale e potrebbe trasformare il panorama politico britannico, abituato a un placido bipartitismo in cui di tanto in tanto fanno capolino i LibDem. Questi ultimi sono riemersi dall’oltretomba politico in cui erano precipitati dopo l’esperienza di governo con David Cameron per accaparrarsi un solido 18,5% del voto europeo, con punte del 40% a Oxford e del 47% in quartieri di Londra come Kingston. Con una strategia semplice: hanno sempre detto di volere un secondo referendum. Alla stessa conclusione – ci vuole un secondo voto – è frettolosamente giunto anche il leader laburista Jeremy Corbyn, che ha assistito a perdite oceaniche per il suo partito, finito terzo con il 14,1% dei voti per via di quei tentennamenti con cui si è tentato dal 2016 in poi di sorvolare sul divario tra elettorato cittadino europeista e votanti delle zone deindustrializzate del nord pro-Brexit. Anche a lui, come ai Tories meno assetati di sangue, in teoria sarebbe convenuto vedere l’accordo della May passare e l’uscita dalla Ue risolta una volta per tutte, ma c’era il problema di come raggiungere l’obiettivo senza «infangare» il proprio nome e il proprio curriculum parlamentare con un voto troppo controverso. E quindi si sono tirati tutti indietro e hanno lasciato la May da sola a cercare di risanare l’atmosfera che lei stessa aveva contribuito a creare e a decantare le virtù dell’arte del compromesso che lei conosce così poco. Michael Gove, uno che avrebbe tutte le carte in regola per diventare leader conservatore, non piace all’ala destra del partito perché ha votato e difeso l’accordo della May. Imperdonabile. «I remainers conservatori sono stati messi nell’angolo, non possono più appoggiarsi ai laburisti pro-Ue perché comunque l’opposizione non può assolutamente permettersi di andare alle urne in queste condizioni», dice soddisfatto Bill Cash, eurofobo della prima ora. Parlando con «Azione», osserva come «i membri dello Erg, il gruppo di Rees-Mogg, abbiano avuto ragione a tenere la barra dritta» contro l’accordo e con una certa fierezza osserva: «Siamo stati noi a mandare via la May». Il partito conservatore non ha perso le elezioni europee, anzi: secondo Cash i Tories del futuro, quelli che aspettano di poter venire fuori dalle ceneri del governo May, hanno già vinto, tiratura 102’022 copie Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch
perché sono quelli con la linea politica giusta e, rispetto a Farage, la capacità di governare, di avere competenze su tutti i dossier. «Penso che avremo in Dominic Raab la guida giusta», aggiunge l’anziano deputato Tory, il quale ricorda come Boris Johnson, per quanto vivace e brillante, non avrà «una maggioranza» tra i conservatori. Anche se l’unica cosa che si può escludere è che venga eletto un altro remainer come Amber Rudd o chiunque abbia mostrato forme di morbidezza verso Bruxelles. Nel mondo di Bill Cash, che è tutt’altro di nicchia al momento, la disponibilità a procedere verso il no deal è un punto d’onore, non un elemento di inquietante spericolatezza. Ad onor del vero, «non avere nessun accordo è meglio che avere un cattivo accordo» è una frase che Theresa May ha ripetuto all’infinito nella prima fase del suo mandato. È stata lei ad abituare il Paese al fatto che le regole dell’Organizzazione mondiale del commercio possano essere una soluzione accettabile, addirittura preferibile. E visto che dalla capitale europea è stato ribadito ancora una volta che l’accordo raggiunto alla fine del novembre scorso con la premier uscente non si tocca, l’unico modo per uscire dalla Ue senza dover concedere nulla è il no deal. Raab, avvocato quarantacinquenne di bell’aspetto e totalmente digiuno di rudimenti di politica commerciale, come ha dimostrato nell’ormai famoso discorso in cui ha ammesso di aver scoperto poco prima l’importanza della rotta Dover-Calais per gli scambi tra continente e Regno Unito, è il ragazzo-immagine di questo tipo di linea. Boris è finito sotto inchiesta per la nota bugia dell’epoca del referendum sui 350 milioni di sterline spediti ogni settimana a Bruxelles, ma che questo possa indebolirlo è tutt’altro che certo. I moderati Tory rischiano di dover ripiegare su di lui nella speranza che metta la sua energia e il suo carisma al servizio dell’accordo sulla Brexit, modificando le parti legate ai rapporti politici futuri per dare una patina di rinnovamento al vecchio faldone di Theresa, facendolo passare nell’interesse di tutti. Ma anche se la maggioranza dei voti è andata ai partiti anti-Brexit, gli euroscettici sono da sempre più compatti, rumorosi e pronti a tutto. Vedremo cosa succederà ora che uno di loro si troverà per le mani un dossier serio e complesso. Sicuramente la May non vede l’ora di scoprirlo.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 giugno 2019 • N. 23
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politica e economia
Cina e America Latina, socie in affari espansionismo cinese Pechino vende ma compra nello stesso tempo, questa la sua strategia per conquistare
commercialmente una vasta porzione di mondo, oltre che ridurre lo spazio diplomatico di Taiwan
Angela Nocioni In controtendenza con il periodo d’oro per i candidati outsider, a Panama le elezioni presidenziali sono state vinte da un partito tradizionale, il Partido revolucionario democratico, centro-sinistra classico. Il nuovo presidente è Nico Cortizo e il 5 maggio ha vinto con due soli punti percentuali di distacco sul suo avversario Romulo Roux, di Cambio democratico, altro partito tradizionale della politica panamense. Gli sono stati provvidenziali, nel testa a testa con l’avversario, i voti delle zone rurali e indigene. Le città gli hanno votato contro. Il risultato delle elezioni nel piccolo paese che divide l’Oceano Atlantico dal Pacifico, non riguarda solo i suoi 4 milioni di cittadini, perché il nuovo presidente sarà quello che nei prossimi cinque anni dovrà governare l’utilizzo della porta della Cina all’America centrale: il canale di Panama. Non solo milioni di dollari, quindi, ma anche e soprattutto una delle principali vie d’ingresso dell’espansionismo strategico cinese in questa parte di mondo. Cina e Panama hanno formalmente allacciato relazioni diplomatiche nel giugno 2017. Nel dicembre scorso così il ministero degli esteri di Panama riassunse il senso dell’arrivo di Xi Jinping, primo presidente cinese a visitare il Paese centroamericano (con folta delegazione di uomini d’affari al seguito): «Vogliamo essere la porta di ingresso all’America latina della Cina, mettere a disposizione i nostri collegamenti con il resto della regione in modo che le compagnie cinesi possano fare base qui per distribuire i loro prodotti e servizi al mercato latinoamericano». E così Xi Ping ha definito l’America latina: «un’estensione naturale della Via della Seta» ossia della penetrazione cinese nelle aree economicamente interessanti del mondo. L’espansione cinese in America latina non serve a Pechino solo a conquistare commercialmente una vasta porzione di mondo, ma anche a ridurre lo spazio diplomatico di Taiwan. Solo 17 Paesi al momento non riconoscono Taiwan: 9 di essi si trovano in America latina. La Going Global Strategy lanciata da Pechino nel 1999 prevede la promozione degli investimenti delle imprese cinesi all’estero attraverso l’utilizzo della montagna di valuta accumulata negli anni del boom commerciale cinese. Quella politica è tuttora in voga. Pechino immette miliardi di dollari tra Panama e la Patagonia in varie forme. Sessanta miliardi di dollari solo al
Il presidente cinese Xi Jinping monitora un cargo cinese nel canale di Panama. (AFP)
Venezuela, per avere un’idea delle cifre, che danno, però, solo un’immagine ridotta della reale presenza cinese, perché la gran parte dei soldi arriva dopo una tappa preventiva in vari paradisi fiscali e sfugge quindi alle statistiche. Eppure, anche limitandosi a ciò che appare come ufficialmente proveniente da Pechino, non fila tutto liscio. La Cina presta facilmente dollari, con interessi altissimi e clausole spesso opache. Investe miliardi senza esitazioni. Ma ogni tanto il pentolone viene scoperchiato e ne escono indizi poco rassicuranti. In Messico, per dirne una, il progetto cinese di 4 miliardi di dollari per il primo treno a alta velocità del Paese, annunciato con grande enfasi dall’ex presidente messicano Peña Nieto è stato più volte cancellato perché risultò che all’appalto era stata fatta partecipare solo una ditta cinese, la quale aveva già subappaltato parte dei lavori a imprese considerate filogoverantive. La Cina compra in America latina e contemporaneamente vende, vende tantissimo. Nonostante le misure protezionistiche di alcuni Paesi, Argentina e Brasile soprattutto, il volume di importazione di prodotti cinesi nella regione negli ultimi dieci anni si è triplicato. È aumentato del 95% l’acciaio cinese importato nel continente: 1,9 milioni di tonnellate. In Venezuela, principale destinazione latinoamericana degli investimenti cinesi, Pechino finanzia il debito pubblico e si fa ripagare in petrolio. Caracas spedisce ogni giorno in Cina 460 mila barili per pagare un prestito, già evaporato, di 20 mi-
liardi di dollari. Deve restituire altri 30 miliardi. La Eximbank e la Banca per lo sviluppo della Cina hanno finanziato gli investimenti nella regione latinoamericana più della Banca mondiale. Secondo i conti fatti dall’Università di Boston, la Cina ha speso oltre 102 miliardi di dollari in prestiti in America Latina solo nel periodo tra il 2005 e il 2013. Nei paesi andini, eccezion fatta per il Cile, che comunque alla Cina vende tantissimo, la mappatura delle risorse minerarie è sostanzialmente affidata a Pechino. La Cina è il principale acquirente di rame in Perù, secondo produttore al mondo. La compagnia di Stato China Minmetals, ha comprato per 5,8 miliardi di dollari Las Bambas, il giacimento di rame più grande del Perù, in grado da solo di soddisfare il 13% di fabbisogno cinese. Il 33% delle risorse minerarie peruviane è nelle mani della Cina. È sempre Pechino ad estrarre e lavorare il litio boliviano, utile a mille usi tecnologici, anche alla fabbricazione di batterie per telefoni cellulari. Il progetto annunciato dal presidente Evo Morales è di rendere solo boliviana la lavorazione di quel tesoro prezioso nascosto dalle bellissime saline di Uyuni, per ora però senza soldi cinesi il litio rimane sepolto sotto il sale. È la Export Import Bank of China a finanziare la produzione di gas della Bolivia, fino a dieci anni fa controllata dal Brasile. La faccenda del gas boliviano racconta molto dei poteri reali in campo nell’economia del continente. Il grande atto politico di debutto compiuto dal primo governo di Evo Mo-
rales, nel 2007, fu la nazionalizzazione del gas di cui il piccolo Paese andino è un grande produttore. I tempi e i modi della nazionalizzazione furono proposti a Morales dal suo vicepresidente, Alvaro Garcia Linera, sociologo marxista che cita Antonio Gramsci a memoria. L’esercito fu mandato a occupare i giacimenti e la nazionalizzazione fu fatta secondo il disegno di Garcia Linera. La potenza imperialista in Bolivia però, per dirla come la dice Evo Morales, almeno per quanto riguarda il gas, non erano gli odiati «gringos», ma il Brasile dell’allora presidente Lula, grande alleato di Morales, senza l’appoggio del quale il primo presidente indio della Bolivia difficilmente sarebbe resistito in sella a lungo. Il 30% dei giacimenti di gas boliviani erano a quei tempi proprietà del Brasile che se ne serviva per fornire combustibile alla cintura industriale di San Paolo. Il tavolo del presidente brasiliano Lula da Silva è stato ingombrato per mesi dal contenzioso politico più delicato dell’intero continente: la rinegoziazione del prezzo del gas boliviano. Il Brasile è stato di fatto proprietario della ricchezza boliviana in idrocarburi. Senza i soldi brasiliani in Bolivia non avrebbero prodotto nulla i due principali impianti locali di gas: i giacimenti di San Antonio e San Alberto. Sotto il suo controllo stava l’intero processo di distribuzione del gas. Nelle sue mani erano i gasdotti che trasportano combustibile all’Argentina e a San Paolo. Erano sue le due imprese di raffinazione boliviane e anche le due grandi aziende di distribuzione di com-
bustibile per automobili. Lula non gradì lo schieramento di militari boliviani nei vecchi impianti di Petrobras (l’impresa pubblica del petrolio brasiliano) e solo lui sa quanto gli costò accettare le nuove condizioni di acquisto degli idrocarburi boliviani che consentivano a Morales di andare ripetendo in tv: «Il colonialismo è finito». Molti anni dopo quel clamoroso atto politico di nazionalizzazione che segnò l’inizio di una nuova fase politica in Bolivia, l’industria del gas continua ad essere in mani straniere. Non più brasiliane, ma cinesi. È Pechino che finanzia l’estrazione del prezioso idrocarburo sul quale la Bolivia galleggia. È Pechino a prestare, e non gratis, i milioni di dollari che servono per far funzionare gli impianti. Affari di scarso volume, ma di grandi prospettive, Xi Jinping li fa anche a Cuba. Trattative sono in corso per rafforzare la presenza cinese sull’isola, approfittando della legge d’apertura agli investimenti esteri. Il principale interesse cinese è il Mariel, il grande porto dell’Avana rimesso a nuovo da capitale brasiliano con apporto di liquidità cinese. In corso d’opera è pure l’ampliamento dell’industria cinese del fotovoltaico nella provincia di Pinar del Rio. La Cina è il secondo partner commerciale di Cuba, preceduto solo dal Venezuela. Gigantesco ovviamente, non foss’altro che per le dimensioni dei due Paesi, il volume d’affari cinesi in Brasile. Il boom economico brasiliano degli ultimi anni del secondo governo Lula, periodo d’oro che ha avuto il suo apice tra il 2009 e il 2010, è stato soprattutto un boom di consumi: beni di scarsa qualità venduti a basso costo e prodotti in Cina. Pechino ha inondato di merce scadente il mercato brasiliano e l’ha venduta guadagnando miliardi. Nel frattempo, vendendo, comprava. L’affare più succulento per gli investimenti cinesi in Brasile è lo sfruttamento dei giacimenti di petrolio al largo di Rio de Janeiro. Pechino, infine, è il secondo socio commerciale di Buenos Aires. È cinese la seconda impresa di idrocarburi del Paese, la China National Offshore Oil Company (Cnocc). Il 30% delle vendite di prodotti alimentari a Buenos Aires avviene nei supermercati cinesi, i famosi «chinos». Vent’anni fa c’erano ancora i «bodegones» spagnoli, sacchi di aringhe, olive in barile e prosciutti appesi nei retrobottega. Oggi invece la spesa si fa dai cinesi e i «bodegones» sono diventati ristorantini per buongustai. Tutta la tecnologia che si assembla nelle industrie hi tech della Tierra del fuego, la Silicon Valley argentina, è fatta di pezzi cinesi. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 giugno 2019 • N. 23
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politica e economia
L’importanza del terzo pilastro nella previdenza per la vecchiaia
Assicurazioni sociali Le difficoltà dell’AVS e delle Casse pensioni creano qualche apprensione. Questo non significa
che il sistema dei tre pilastri sia in pericolo. Ma proprio il terzo pilastro offre una garanzia in più in molti casi Ignazio Bonoli Già prima della votazione federale sulla riforma fiscale e sociale, alcuni esperti esprimevano il timore che i 2 miliardi di franchi destinati all’AVS a partire del 2020 avrebbero potuto rallentare i lavori di riforma indispensabile al primo pilastro delle nostre assicurazioni per la vecchiaia. Tuttavia non per molto tempo, poiché si poteva constatare che al massimo questi miliardi sarebbero serviti ad alleggerire il fondo AVS solo fino al 2022, anche se accompagnati da un aumento dei contributi a carico dei lavoratori e dei datori di lavoro. La situazione odierna è però tale da non suscitare entusiasmi anche dopo l’esito positivo della votazione popolare. Infatti, già nel 2018 l’AVS ha chiuso con un passivo di 2,2 miliardi di franchi e, in base ai dati più recenti, si prevede che l’assenza di disavanzi durerà al massimo fino al 2024, mentre nel 2025 tornerà a mancare circa mezzo miliardo a copertura delle spese previste. Di questo passo all’AVS, nel 2030, mancheranno circa 4,5 miliardi di franchi, se non si provvede per tempo al risanamento. Il Consiglio federale ha comunque già pronto un piano di intervento che prevede un aumento dello 0,7 per cento dell’IVA che frutterebbe 2,5 miliardi di franchi nel 2030. Così pagherebbero
Da qualche anno nella previdenza professionale il travaso di fondi dagli assicurati attivi ai pensionati ha superato i 5 miliardi di franchi all’anno. (Keystone)
un contributo anche gli attuali beneficiari di rendite, mentre resta pure fisso l’aumento dell’età di pensionamento delle donne a 65 anni, con un leggero aumento delle rendite dei primi 10 anni di pensionamento. Il progetto verrà presentato in agosto, ma non si sa quanto tempo servirà al Parlamento per approvarlo. Nel frattempo, anche la previdenza professionale (secondo pilastro) non sta molto meglio. Nel sistema dei tre pilastri si basa essenzialmente su un capitale accumulato durante gli anni
di lavoro, alimentato sia dal lavoratore, sia dal datore di lavoro. Il suo scopo è quello di garantire un livello di vita sulla base di una rendita che, assieme a quella dell’AVS, deve garantire circa il 60% del reddito ottenuto prima del pensionamento. La situazione è però evoluta in modo tale che il presupposto del capitale accumulato che garantisca la rendita di vecchiaia non può essere realizzato. Attualmente molte casse pensioni devono ricorrere alle loro riserve per garantire il pagamento delle pensioni, cioè soldi che non sono stati
risparmiati da chi oggi li percepisce. In sostanza, avviene un travaso di fondi dagli assicurati attivi verso i pensionati. Si calcola che questo travaso abbia raggiunto, già nell’anno 2015, i 5,3 miliardi di franchi a livello globale. Anche il secondo pilastro, come l’AVS, soffre dell’invecchiamento della popolazione (quindi dell’aumento del numero di pensionati), ma soprattutto del lungo periodo di scarso rendimento dei capitali accumulati, a causa del persistere di un basso livello dei tassi di interesse. Questa situazione fa sì che l’obiettivo del 60% del reddito precedente il pensionamento non venga raggiunto in molti casi. Da qui l’importanza crescente che va assumendo il terzo pilastro, cioè il risparmio individuale privato. Concepito per finanziare spese che possono eccedere il citato 60%, serve oggi sempre più per colmare importanti lacune previdenziali, provocate dai due primi pilastri. Sempre più spesso si sente perciò consigliare, a chi ne ha la possibilità, di incrementare questi risparmi, che possono tornare molto utili negli anni di pensionamento. Anche lo Stato favorisce questo risparmio in due modi. Con il cosiddetto pilastro 3a si possono collocare a risparmio oggi 6’768 franchi all’anno, per lavoratore dipendente, che possono essere dedotti dal reddito imponibile per le imposte. Lavoratori indipendenti
non affiliati a una cassa pensione possono dedurre 33’840 franchi. Al momento di riscuotere il capitale risparmiato, il fisco non assimila questo capitale al resto della tassazione, ma lo tassa a parte e, in alcuni casi, anche con un’aliquota favorevole. Per il pilastro 3b non ci sono limiti, ma non ci sono neppure trattamenti fiscali privilegiati. In questo caso, sia le banche, sia le assicurazioni offrono soluzioni adeguate ai singoli casi. Un problema per queste forme di risparmio può nascere dal rischio che si può correre. Di regola gli investimenti avvengono a lunga scadenza, il che tende ad aumentare i rischi, ma anche a compensare momenti di difficoltà con altri più favorevoli. Questo mercato si è molto allargato negli ultimi anni, soprattutto per il risparmio bancario, anche tramite il pilastro 3a. Non va però dimenticato che questo risparmio è soggetto a certi limiti. Il capitale può essere ritirato al massimo cinque anni prima del pensionamento, salvo nel caso dell’acquisizione della propria abitazione, del finanziamento di una propria attività, o il rimborso di debiti ipotecari, nonché in qualche caso particolare. Anche nel caso di un ritiro anticipato del capitale è bene pensare alle future necessità di completare le rendite dei due primi pilastri e, quindi, mantenere una certa quota di terzo pilastro. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 giugno 2019 • N. 23
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politica e economia Rubriche
Il Mercato e la piazza di Angelo Rossi L’economia cresce, ma il pil pro-capite no È appena uscito il rapporto di primavera della Seco sulle tendenze congiunturali. Conferma quella che, dall’ultimo trimestre dello scorso anno, è diventata la preoccupazione generale di chi segue l’andamento della nostra economia. Per il 2019 ci si attende un rallentamento. Il giudizio pessimista sull’andamento della congiuntura resta valido anche se, durante il primo trimestre, il Pil della Svizzera , contro ogni previsione, è cresciuto dello 0.6%. Per quel che riguarda le cause di questo colpo di freno congiunturale si menzionano, accanto all’incertezza sull’evoluzione della situazione politica in generale e, in particolare, sull’esito della Brexit, due altre: dapprima i possibili effetti negativi sul commercio internazionale provenienti dalla guerra tariffale che stanno conducendo Stati Uniti e Cina e poi il rincaro del prezzo del petrolio. Il rapporto di primavera della
Seco consacra quindi un’attenzione speciale alla crescita dello scorso anno e alla stagnazione del prodotto interno lordo pro-capite, manifestatesi nel corso dell’ultimo decennio. Nel corso del 2018 il Pil svizzero ha ritrovato, per la terza volta nel corso di questa decade, un tasso di crescita superiore al 2%. È cresciuto del 2.5% come nel 2014, mentre nel 2010 la crescita era stata del 3%. Nel periodo succeduto alla crisi bancaria internazionale, la nostra economia ha quindi conosciuto un ciclo congiunturale con punte ogni 4 anni. Il colpo di freno in atto potrebbe dunque rientrare nell’ordine delle cose prevedibili, anche se l’impatto finale dei fattori che lo stanno provocando è tutt’altro che conosciuto. Il discorso sulla stagnazione del prodotto interno lordo pro-capite merita maggiore attenzione. Mentre nella decade dal 1999 al 2008 il Pil pro-capite era cresciuto, in ben 5 anni, a un tasso su-
periore al 2%, nei successivi dieci anni, il suo tasso di crescita non ha mai superato questo livello. Di conseguenza, mentre tra il 1999 e il 2008 il Pil pro-capite svizzero è cresciuto, complessivamente, del 15%, nei dieci anni successivi la sua crescita è stata pari soltanto al 4.7%. Questa diminuzione nel ritmo di crescita è dovuta anche alla forte riduzione del Pil pro-capite indotta dalla crisi bancaria internazionale nel 2009. Ma non soltanto. Come si è già ricordato, anche i tassi di aumento degli anni successivi sono stati molto modesti. È vero che, nel confronto internazionale, il risultato raggiunto dalla Svizzera è migliore di quello dell’Italia che, negli ultimi venti anni, non ha praticamente conosciuto nessun aumento del Pil pro-capite. Ma è altrettanto vero che la nostra prestazione è stata nettamente inferiore a quella dell’economia germanica che, negli ultimi dieci anni, è stata capace
di realizzare un aumento del Pil procapite pari al 12%. Siccome l’andamento della congiuntura svizzera non è stato significativamente diverso da quello della congiuntura germanica, le ragioni di questa differenza devono essere soprattutto di natura strutturale. Nel rapporto della Seco se ne citano due. La prima è la debole crescita della produttività del lavoro. Gli esperti della Seco attribuiscono questa debolezza al forte sviluppo del settore dei servizi. In pratica la differenza nella crescita del Pil pro-capite tra Svizzera e Germania sarebbe dovuta al fatto che in Svizzera la crescita del Pil dipende maggiormente dall’espansione dell’occupazione che in Germania e, in particolare, dal fatto che l’occupazione aumenta specialmente in rami con bassa produttività (per esempio nel settore sanitario e sociale). Anche la seconda ragione ha da fare con la crescita dell’occupazione. In questo
caso però si tratta dell’economia germanica che ha visto, nel corso degli ultimi dieci anni, ridursi il tasso di disoccupazione. La diminuzione dell’effettivo dei disoccupati, in particolare dei disoccupati di lungo periodo, ha naturalmente fatto crescere il reddito medio per abitante e quindi anche il Pil pro-capite. Gli autori del rapporto non offrono stime dirette sull’ampiezza degli effetti di natura strutturale. Ricordano però, quasi alla fine del loro commento, che la popolazione, che è il divisore nel rapporto del Pil pro-capite, è aumentata in Germania, nel corso degli ultimi dieci anni, a un tasso annuale pari allo 0.5%, mentre in Svizzera è cresciuta a un tasso annuale dell’1%. Questa differenza, che è stata naturalmente accompagnata da una differenza analoga nella crescita dell’occupazione, basterebbe, da sola, a spiegare una buona parte del divario nei tassi di crescita del Pil pro-capite.
vatori, Matteo Salvini a fare un balzo in avanti. E nessuno di loro è amico della Cancelliera. All’apparenza, quando le acque dello tsunami si ritrarranno, non avranno del tutto sconvolto il paesaggio politico dell’Europa e dei grandi Paesi che la animano. A Bruxelles, l’asse popolarisocialisti (non più autosufficiente) sarà allargato ai verdi, più forti ancora del previsto, e ai liberali, compreso Macron. I moderati sono in difficoltà, e la sinistra tradizionale esce a pezzi: socialdemocratici al minimo storico in Germania, socialisti quasi scomparsi in Francia. A Berlino quella che nel 1966 fu chiamata Grande Coalizione, perché arrivava all’86,9% dei voti, oggi è sotto il 44. A Parigi il Ps e i neogollisti, partiti-cardine della Quinta Repubblica, non arrivano insieme al 15%. Ma i populisti non sono alle soglie del potere. In Germania non si vedono vere alternative ai cristianodemocratici, sia pure per la prima volta sotto il 30%. In Francia, se tra due settimane ci fosse il
ballottaggio per le presidenziali, Macron batterebbe di nuovo agevolmente Marine Le Pen. A Londra i conservatori tenteranno di accelerare la Brexit ed evitare le elezioni anticipate; e quando verrà il momento per Farage non sarà così facile. Questo non significa che nulla sia cambiato. Il sogno della Merkel – un’Europa unita attorno al Paese economicamente e geograficamente centrale, il suo – è oggi letteralmente a pezzi. Perché l’Europa si va riaggregando in aree politicamente disomogenee. La Merkel si è molto spesa per sostenere il popolare Mariano Rajoy, anche salvando le banche spagnole; e ora la penisola iberica rappresenta un’eccezione rossa o almeno rosa, l’unica zona del continente dove la sinistra si conferma capace di governare da sola. La Merkel ha pensato l’Est europeo come un’area di espansione naturale della Germania, mercato per le sue aziende e baluardo anti-Putin, e si ritrova con una serie di regimi rozzamente nazionalisti e illi-
berali, dall’Ungheria di Viktor Orban alla Polonia di Jaroslaw Kaczynski, nonostante la presa di distanza del padre della libertà polacca, Lech Walesa, acclamato a Monaco sul palco dove la Cancelliera ha chiuso la sua ultima campagna elettorale. E la Merkel non si augurava certo l’addio di Londra, che ora ritrova la propria vocazione insulare e atlantica, tanto più se al posto della May dovesse insediarsi l’istrione Boris Johnson, alleato naturale di Donald Trump. Ora per l’Europa si apre una nuova stagione irta di incognite. L’apertura a verdi e liberali non tiene conto dell’oggettivo spostamento a destra dell’elettorato. L’antidoto all’austerity tedesca rappresentato dalla Banca centrale europea di Mario Draghi durerà ancora pochi mesi. I giorni della stessa Merkel sono numerati. Una cosa sola è certa: siccome l’alleanza popolari-populisti per ora è impossibile, l’Italia di Salvini non troverà un’Europa accondiscendente.
in un team già esistente in modo complementare alle altre figure professionali». Il suo non sarà un compito facile: il momento delicato che il turismo ticinese sta vivendo richiede una serie di attenzioni e impegni che non possono derivare da un semplice cambio di timoniere. Di conseguenza, visto che il neo incaricato ha abilmente schivato tutti i media (prima di rilasciare interviste si è ritagliato 100 giorni per studiare il suo nuovo posto di lavoro), appare più che naturale interrogarsi quale rotta Trotta sceglierà per la nave che trasporta circa il 10% del prodotto lordo cantonale, chiedersi come riuscirà a resistere in balia delle continue ondate che trend, competitività (anche all’interno del settore) e concorrenza gli indirizzeranno contro. Quella indicata da Fabrizio Goldhorn (comprendere le sfide e individuare le strategie più adatte per influenzare il processo decisionale del consumatore) sembrerebbe una formula fattibile, finché si resta nella teoria. Occorre però
tenere presente che nel marketing vige una legge superiore, forse non scritta, ma altrettanto chiara ed importante: niente lamenti, solo fatti. Ebbene, applicare questa legge in Ticino è problematico: le rivalità, le polemiche, le invidie e le critiche gratuite sono componenti che ormai da diversi anni (forse da sempre, e di sicuro non solo in campo economico) riescono a distruggere anche quei pochi fatti che non vengono compromessi da ritardi e ridimensionamenti. L’ultimo esempio è giunto dallo scambio di accuse fra vinattieri e ristoratori per l’inevitabile confronto fra invenduto e ricarica dei prezzi del Merlot. Come sempre, anche se tutti fingono di non rendersene conto, dal duello emerge il solito riscontro: il Ticino avrebbe bisogno di un sistema meno fragile, e questo vale soprattutto per chi deve sviluppare un nuovo concetto turistico. La classe politica sperava di poterlo ottenere con un lifting alle strutture, cioè con una migliorata agilità dell’Agenzia incaricata di mettere in pratica sul territorio
un mutamento operativo. Con il nuovo assetto si è riusciti però solo a resistere, non a individuare e ad applicare una efficace cura per andare oltre la crisi, sinora l’Agenzia non è stata in grado di avviare un «processo di organizzazione e di esecuzione del concepimento, della politica dei prezzi, delle attività promozionali e della distribuzione di idee, beni e servizi», come insegna una delle prime definizioni (1985) del concetto di marketing. Così oggi, guardando la lunga collana di slogan, di velleitarismi e rilanci rivelatisi inefficaci, e visto che perdura l’incapacità di innestare nuova creatività nel corpacciuto battaglione amministrativo dell’Agenzia, appare necessario e forse anche primario studiare un riorientamento del marketing. Credo possa essere questo il compito principale di Angelo Trotta. Ne avremo la certezza fra 100 giorni, ma sin d’ora occorre fare il tifo affinché i suoi sforzi permettano al nostro turismo di uscire dal cono d’ombra del conteggio dei pernottamenti, dei prezzi dei vini e del numero dei coperti.
In&outlet di Aldo Cazzullo La nuova europa e gli altri Le elezioni europee sono un po’ un grande sondaggio. Misurano gli umori popolari. È un voto emotivo. Non si vota sulle tasse o su cose percepite come decisive. Eppure stavolta la posta in gioco era alta. E il risultato si presta a diverse chiavi di lettura. L’alleanza tra popolari e populisti non è possibile e neanche necessaria. Se i sovranisti volevano capovolgere l’Europa, dovranno attendere almeno altri cinque anni. I partiti di Marine Le Pen e di Matteo Salvini sono primi in Francia e in Italia; ma le forze europeiste sono in netta maggioranza anche nel nuovo Parlamento. Non per questo si può dire che nulla sia accaduto. Il voto di domenica 26 maggio chiude il quindicennio in cui l’Europa è stata di fatto governata da Angela Merkel. Questo non significa che la Cancelliera ne esca sconfitta e abbiano vinto i suoi nemici. Significa che una stagione si è conclusa, e ora tutti avanziamo in una terra incognita. La Merkel ha avuto un merito e un
demerito storici, ed entrambi hanno segnato queste elezioni. Il merito: erigere un argine contro la destra antieuropea e neonazionalista, anche all’interno del suo Paese e del suo stesso partito. Nell’unica nazione dove è stata sperimentata, l’Austria, l’alleanza tra popolari e populisti è stata travolta da uno scandalo che ha rivelato la povertà culturale e l’abiezione morale di personaggi pronti a speculare sulle paure legittime dei cittadini per accumulare potere e denaro. Ma la Merkel ha anche un limite da cui non si è mai emendata: aver imposto – per ragioni di politica interna, culturali prima che economiche – un’austerity che ha devastato i sistemi produttivi e la coesione sociale dei Paesi più deboli; compresa l’Italia. A questo si aggiunge l’impatto sulla sicurezza e sul lavoro dei flussi migratori dall’Africa e dal Medio Oriente. Si spiega anche così l’onda populista che ha spinto Marine Le Pen a scavalcare Emmanuel Macron, Nigel Farage a umiliare i frastornati conser-
zig-zag di Ovidio Biffi Creatività invece di letti e coperti Di solito, cercando nel web, i primi risultati che trovi sullo schermo sono di offerte più o meno mascherate «suggerite» da algoritmi e «cookies»; quindi capisci che sei invischiato in una fitta ragnatela pubblicitaria che ti obbliga a riformulare la domanda con altri e più precisi termini. Per uno di quei misteri che l’elettronica ogni tanto dispensa, digitando «turismo» trovo invece fra i primi risultati anche un documento della Supsi di Manno. È un pregevole lavoro che Fabrizio Goldhorn ha presentato quattro anni fa come tesi per un Bachelor collegato al corso di laurea Supsi in economia aziendale (Marketing & Sales). Dall’introduzione del suo «Il processo decisionale nella scelta della destinazione turistica e il marketing della destinazione» (che nel suo caso era la stazione vallesana di Zermatt) ho tratto questo brano: «Comprendere quali siano le sfide e criticità del marketing in ambito turistico del giorno d’oggi; comprendere in maniera approfondita il processo decisionale del consumatore-
turista e quali siano i criteri principali secondo i quali prende le sue decisioni, tenendo conto e spiegando le implicazioni dell’avvento dei nuovi media; ottenere una panoramica delle strategie a disposizione delle destinazioni turistiche, individuando quelle più adatte per influenzare il processo decisionale del consumatore». Goldhorn ha fissato questi obiettivi per individuare le strategie, le dinamiche e gli strumenti necessari all’industria turistica. Io credo di poterli usare per un’altro e diverso proposito: salutare la nomina e il ritorno in Ticino di Angelo Trotta, che dal 1. luglio sostituirà Elia Frapolli alla guida dell’Azienda turistica ticinese. Sarebbe da stupidi pensare di insegnargli il mestiere, visto che credenziali e esperienze rasentano l’eccellenza. Non a caso il presidente Rampazzi annunciando la scelta, lo ha presentato con queste parole: «Abbiamo optato per il profilo di Trotta perché volevamo qualcuno che avesse una specializzazione in marketing e soprattutto che andasse a inserirsi
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Cultura e spettacoli Uno storia dallo shtetl A colloquio con l’autore israeliano Yaniv Iczkovits, autore di una meravigliosa storia ambientata nell’Ottocento
L’importanza dell’ego In nessun altro genere musicale l’ego ha un ruolo tanto importante come nel rap: da Post Malone a Kanye West, passando per Eminem, Logic e Drake
Nella testa di Luciano In un nuovo spettacolo dal titolo Luciano Danio Manfredini mette in scena voci e visioni pagina 50
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tra illusioni e storie senza fine
Narrativa Nel nuovo romanzo del tedesco
Daniel Kehlmann la storia si mescola con la fantasia
Luigi Forte Daniel Kehlmann è stato uno scrittore precoce. Pubblicò il suo primo romanzo nel 1997, poco più che ventenne. Pochi anni dopo raggiunse il successo internazionale con Io e Kaminski, la divertente storia di un giovane e spregiudicato giornalista, Sebastian Zöllner, pronto a tutto pur di scovare un vecchio pittore e scriverne la biografia, nella segreta speranza che questi morisse al più presto contribuendo così al successo del libro. Una satira affacciata sul mondo dell’arte che l’ironia di Kehlmann colora di infinite sfumature. Era questo anche il suo modo di guardare al passato suggerendo non di rado suggestive analogie con il presente. Nel bestseller La misura del mondo (Feltrinelli 2006) l’autore si diverte con competenza e finezza alle spalle di due geni come l’enciclopedico Alexander von Humboldt inventore della geografia moderna, e il matematico e astronomo Friedrich Gauss alle prese con la curvatura dello spazio, accompagnati in un fantomatico congresso di scienziati tedeschi nella Berlino del 1828. Kehlmann, originario di Monaco ma cresciuto a Vienna, dove si è laureato in filosofia, è sempre alla ricerca di mondi bizzarri, come testimonia Fama. Romanzo in nove storie (Feltrinelli 2010), un labirinto di gerghi ipertecnologici, esistenze virtuali, storie improbabili fra YouTube e gli squilli dei cellulari. Forse non è casuale che qualcuno abbia definito lo scrittore un realista magico accostandolo a colleghi d’antan come Alfred Kubin, Leo Perutz e persino a García Márquez. La definizione calza a pennello per il suo ultimo splendido romanzo Il re, il cuoco e il buffone proposto da Feltrinelli nell’ottima versione di Monica Pesetti. Protagonista è Tyll Eulenspiegel, figura del folclore del nord della Germania e dei Paesi Bassi, personaggio irriverente, sempre pronto a farsi beffe degli altri, un giullare osannato dal popolo e conteso dai potenti. Si dice che abbia vissuto nella prima metà del Trecento, ma Kehlmann lo colloca tre secoli più avanti, al tempo della terribile Guerra dei Trent’anni. Così la vita di Kyll si dischiude su uno scenario terrificante, anzi diventa lo spunto per collegare figure storiche che l’autore rivisita non di rado con curiosità e ma-
lizia e non senza un tocco di irrefrenabile fantasia. Come nel caso dei due gesuiti, Oswald Tesimond e Athanasius Kircher, responsabili della condanna a morte di Claus, il padre di Tyll, un mugnaio appassionato di astri e di magia, vittima del fanatismo religioso in tempi in cui bastava possedere un libro proibito per finire sul rogo. Ma ambedue furono anche figure storiche, molto attive nella Compagnia di Gesù. Kircher, filosofo e museologo tedesco insegnò per decenni nel Collegio Romano, dove aveva allestito una wunderkammer. Nelle mani di Kehlmann egli non è solo l’erudito che decodifica i geroglifici dando alle stampe il suo Oedipus Aegyptiacus o discetta con il matematico Olearius, ma anche un appassionato studioso del sangue di drago come antidoto contro la peste, oltreché l’ideatore di un curioso pianoforte a gatti. E persino il re d’inverno Federico V, così detto perché regnò sul trono di Boemia per una sola stagione, non sfugge ai tiri mancini del narratore. La sua prima notte di nozze con la moglie inglese Elisabetta Stuart, figlia di Giacomo I, si trasforma in un gioco comico e farsesco di cui i protagonisti non conoscono le regole. Lui che l’afferra di colpo come fosse impazzito, mentre lei, più alta, se lo scrolla facilmente di dosso urlando: «Non fare lo stupido!», per poi mollargli una sberla quando cerca di accarezzarle il seno. Kehlmann si dimostra un maestro di umorismo e un autore orientato verso quel postmoderno di cui Umberto Eco aveva fatto grande uso a cominciare dal suo primo romanzo Il nome della rosa. Anche lo scrittore tedesco ama mescolare finzione e realtà storica creando figure reali che non di rado fanno cose inventate: una prospettiva molto gustosa in cui si inseriscono finti e veri dati culturali, mentre la narrazione, fluida e scorrevole, rapisce il lettore. È questa la cifra stilistica di Kehlmann: leggerezza e propensione al gioco e all’ironia costante che predilige tutto ciò che è insolito e inusuale. E il buffone Tyll ne è l’espressione più compiuta, anche se il suo ruolo va ben oltre il destino del vagabondo per trasformarsi in una sorta di imprevedibile tessitore degli eventi. Per altro la sua esperienza, fin da ragazzo, ci racconta la triste storia del mondo: un padre finito ingiustamente sulla forca, e tutt’intorno
La sepoltura della sardina di Francisco De Goya, 1812-1814. (Keystone)
una realtà, in cui dominano miseria e distruzione, e poi il difficile confronto con i potenti, da cui dipende la sua stessa vita. Tyll è un soggetto irrelato, libero di esprimersi, ma senza difese, esposto a ogni violenza. È la metafora di una fantasia che il frastuono brutale del mondo tende a offuscare e distruggere. Il romanzo di Kehlmann cela in effetti anche una profonda tristezza la cui eco giunge fino ai poeti barocchi cari al suo autore, come Gryphius e Fleming, senza dimenticare i mille risvolti epici suggeriti forse anche dal grande scrittore Grimmelshausen con l’epocale romanzo picaresco del 1669 L’avventuroso Simplicissimus. L’eco della guerra e di battaglie terribili come quella di Zusmarshausen non lontano da Augusta in Baviera, fa da sfondo a molte scene di grande intensità e ritorna nel
racconto dell’abate del monastero di Andechs, dove, prima le milizie imperiali e poi quelle protestanti hanno fatto razzia di ogni cosa. Lì s’è rifugiato Tyll, che ora tre uomini del reggimento dragoni di Lobkowitz su invito dell’imperatore vorrebbero portare alla corte di Vienna. Uno dei capitoli più intensi del romanzo si svolge in un cunicolo sotterraneo, dove alcuni uomini, e lo stesso Tyll a suo tempo arruolato, tentano di sfuggire alla morte mentre al di sopra si scatena l’inferno. Ma a questa terrificante claustrofobia non di rado si contrappone il respiro della natura con paesaggi di neve che sembrano richiamare talune immagini dei Mesi di Bruegel il vecchio. Piacere e dolore, ironia e disperazione colorano i paesaggi di questa epica e insolita avventura. Sembra che
ogni cosa sia destinata a estinguersi tragicamente. Ma alla fine è la voce del grande funambolo che risuona forte e fiduciosa: «Io non muoio quaggiù – urla dal profondo tunnel in cui si è cacciato coi compagni –. Io non muoio oggi. Io non muoio!». Quel buffone un po’ grottesco, quintessenza forse del libero pensatore, è il protagonista della vita nei suoi infiniti volteggi, il vero eroe che domina il paesaggio delle illusioni e delle storie che non hanno mai fine. È, in fondo, l’inesausto suggeritore di una scrittura che rievoca la storia per dare spazio all’immaginazione. Bibliografia
Daniel Kehlmann, Il re, il cuoco e il buffone, traduzione di Monica Pesetti, Feltrinelli, p. 318, € 18,00.
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Cultura e spettacoli Ebrei in fuga dal proprio shtetl in seguito alle persecuzioni dell’esercito zarista – inizio Novecento. (Keystone)
L’impulso irrequieto della creazione Mostre La Buchmann Galerie di Lugano
ospita una mostra di Martin Disler
Alessia Brughera
Fanny cerca vendetta Narrativa A colloquio con Yaniv Iczkovits, autore del fortunato
Tikkun, o la vendetta di Mende Speismann per mano della sorella Fanny
Blanche Greco È il 1894. Una ragazza ebrea approfitta della notte per lasciare il suo shtetl, un villaggio nelle terre sul confine dell’Impero russo. Sotto gli abiti austeri, legato ad una coscia, Fanny ha un coltello per la macellazione rituale, tagliente come un rasoio. In testa, un obiettivo altrettanto affilato: «far trionfare la giustizia» riportando a casa Zvi Meir, il marito di sua sorella Mende, o almeno il suo ghet. La pergamena con l’approvazione del divorzio convalidata secondo la legge religiosa, è essenziale perché Mende, che langue con i suoi figli – addolorata, impoverita e ingabbiata senza diritti in un matrimonio con un consorte perso in una città dell’Impero – possa tornare a sposarsi e vivere con dignità nella comunità.
Grazie al suo splendido libro, edito in italiano da Neri Pozza, l’israeliano Yaniv Iczkovits ha vinto i Premi Agnon e Ramat Gan Tikkun, o la vendetta di Mende Speismann per mano della sorella Fanny, terzo libro di Yaniv Iczkovits, pubblicato da Neri Pozza, è la storia di una ribellione femminile, di un viaggio che molto deve al romanzo picaresco, con dei risvolti degni di un thriller, che prende le mosse da regole religiose ancora praticate all’interno della moderna società israeliana. «Stavo sfogliando alcuni quotidiani del 19esimo secolo in ebraico e in yiddish quando un annuncio attirò la mia attenzione: “Una povera donna in lacrime chiede l’aiuto della comunità per ritrovare suo marito” recitava il titolo. Nel testo c’era il dramma di una donna ebrea che la fuga del marito aveva condannato in un limbo sociale», ci ha raccontato il quarantaquattrenne Yaniv Iczkovits che abbiamo incontrato a Roma, qualche tempo fa alla presentazione di questo romanzo volutamente scritto con «quello stile pieno di umorismo e di grazia caratteristico della letteratura ebraica di fine ’800», che ha vinto il prestigioso Premio Agnon (che non veniva assegnato
da dieci anni), e il Ramat Gan per l’eccellenza letteraria. «A fine Ottocento di questi annunci sui giornali, ce n’erano a centinaia, erano di donne i cui mariti se n’erano andati in America, o in Palestina, o semplicemente avevano lasciato il paesino per recarsi in città ad imparare un lavoro, o per iscriversi all’università, ma la nuova vita era così piena di cose strabilianti e terribili che finivano per tagliare i ponti con il passato, dimenticando moglie e figli. Ed è una situazione che si ripete ancora oggi in alcuni ambiti religiosi israeliani e per questo ho voluto scrivere la storia di una donna che decide di cambiare le cose, il suo tikkun è sovvertire queste regole inique, e per farlo rischia anche la propria vita», ci ha spiegato Iczkovits che ha fatto del suo romanzo un godibile universo di storie, vivace e sapiente, che ci racconta prima lo «shtetl», il paesino di Motal, i suoi abitanti e la complessa vita della comunità ebraica stretta tra le tradizioni, le regole religiose e le leggi dello Zar, e poi il viaggio dell’agguerrita Fanny, che solca le terre dell’Impero dove i pogrom divampano e l’attendono incontri con personaggi strampalati e pericolosi. «Ognuno di noi è un insieme di storie, perché nella nostra esistenza abbiamo più ruoli, più vite; siamo diversi da come ci vedono gli altri, ma anche da come noi stessi ci consideriamo. La nostra storia, il nostro passato, tutto cambia a seconda di chi lo racconta. Nel mio libro tiro fuori le tante voci differenti che albergano in ogni persona; che spiegano ogni evento, che svelano i segreti di chiunque e poco importa se sia per fare del bene, o del male.» – ha continuato Iczkovits – «Oggi si pensa con nostalgia al passato, alla vita degli ebrei negli shtetl come ad un’esistenza primitiva e naїve dimenticando la naturale conflittualità umana e i profondi contrasti che esistevano in quelle comunità. Tuttavia la realtà fuori dallo shtetl era anche peggio: c’era nei confronti degli ebrei la diffidenza, la discriminazione, l’odio. Fanny è un po’ come Dorothy nel Mago di Oz, i suoi compagni di viaggio sono dei disperati e dei marginali, gente povera, senza casa; dei soldati sbandati, ma è grazie alle loro vicende che faccio rivivere la società dell’epoca». Tikkun, o la vendetta di Mende Speismann per mano della sorella Fan-
ny, sotto al tono leggero, al sorriso che impregna ogni riga di questa straordinaria avventura, cela una lunga ricerca storica e uno sguardo severo, una critica pungente che non risparmia le tradizioni e le figure più importanti della società ebraica come i rabbini, i saggi, i ricchi, tutti coloro che hanno un ruolo influente e di potere. «Qualcuno mi ha detto che leggendo il mio romanzo si ha l’impressione che l’autore sia un antisemita» – ci ha rivelato Iczkovits abbozzando un sorriso – «Io non penso di essere troppo critico, perché parlo di casa mia e della mia storia familiare. Non ho idealizzato i miei personaggi perché la vita degli ebrei all’epoca era così difficile che, per realizzare qualsiasi obiettivo, dovevano essere pronti anche a compiere azioni orribili. Perché la letteratura dovrebbe tacere la realtà?» La verità è che il tikkun di Fanny, la riparazione che la ragazza cerca, non è solo per la sorella, è un modo per affermare la propria libertà e dare sfogo a un desiderio di vendetta. In certi momenti la giovane donna con il suo coltello quasi sacro come compagno, ci sembra la metafora di Israele. «Gli esseri umani sono un impasto di bene e di male e Fanny per ottenere ciò che si prefigge deve organizzare il suo mondo in modo violento. Il suo ricorso alla violenza, inizia per legittima difesa, ma non si ferma lì, puntualizza Iczkovits, molti dei temi di questo libro sono intimamente legati all’attualità della nostra vita in Israele. Qual è il limite del potere? Sino a dove è legittimo usare potere e controllo per legittima difesa? La Storia, con il nostro terribile passato, ci dà molte lezioni e se da un lato c’induce a non cedere a compromessi e a usare la violenza nei rapporti con gli altri; dall’altro ci ricorda che, oggi che abbiamo un Paese nostro e Israele al suo interno ha molte minoranze, dobbiamo evitare di trattarle come noi siamo stati trattati in passato; evitare di fare gli stessi errori. Ma purtroppo per ora, solo la prima parte di questo ragionamento sembra avere successo nella nostra politica». Bibliografia
Yaniv Iczkovits, Tikkun, o la vendetta di Mende Speismann per mano della sorella Fanny, Milano, Neri Pozza, 2019
Spirito inquieto ed errante, mai alla ricerca di approdi, Martin Disler, artista svizzero nato nel 1949 in un villaggio del Canton Soletta e morto prematuramente a Ginevra all’età di 47 anni, della sua breve esistenza ha fatto un instancabile viaggio, una sorta di eterno peregrinare senza una precisa destinazione allo scopo di sondare se stesso e i propri tormenti. La dimensione del viandante privo di meta gli apparteneva più di ogni altra cosa: nei tanti luoghi in cui ha vissuto, da ferventi metropoli come New York, Amsterdam, Zurigo o Milano a località isolate come Les Planchettes, Disler ha alternato momenti di assidua socialità a lunghi periodi di isolamento, questi ultimi indispensabili per riuscire a sentire forte il proprio pensiero e dargli forma attraverso l’arte. Pittore e scultore, ma anche poeta e scrittore particolarmente prolifico, Disler ha intrapreso il cammino artistico da autodidatta confrontandosi fin dagli esordi con diverse tecniche. A sancire a livello internazionale il valore del suo linguaggio istintivo e potente sono stati i primi anni Ottanta, testimoni di un incalzante susseguirsi di presenze espositive dell’artista all’interno di contesti molto prestigiosi, come la Biennale d’arte di Venezia, a cui Disler ha partecipato nel 1980 poco più che trentenne, e documenta a Kassel, dove è stato tra gli autori chiamati a prendere parte alla settima edizione del 1982 diretta da Rudi Fuchs. Il lascito di Disler è curato e rappresentato dal 2013 dalla Buchmann Galerie, che negli spazi di Lugano, città dove l’artista ha abitato a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, ha allestito una mostra a lui dedicata, riunendo una selezione di opere su carta e in terracotta. La rassegna ticinese si svolge in un momento di particolare attenzione verso il maestro svizzero in ambito europeo: si è da pochi giorni conclusa l’esposizione al Bündner Kunstmuseum di Coira di uno dei lavori più noti di Disler, l’imponente Die Umgebung der Liebe, ed è ancora in corso la mostra allo Skulpturenpark Waldfrieden di Wuppertal, fondato da Tony Cragg, di un gruppo di sculture in bronzo appartenenti alla serie Häutung und Tanz, realizzate dall’artista nel 1991-92 nel suo atelier luganese di via Besso e fuse nelle fonderie del Sottoceneri. Sebbene vicino alle correnti neoespressioniste (in Germania si era accostato alla pittura urlata del Gruppo dei Neuen Wilden, i Nuovi Selvaggi che a Berlino avevano raggiunto esiti analoghi a quelli della Transavanguardia italiana), Disler è stato un artista
Martin Disler Senza titolo, 1979 tecnica mista su carta. (Courtesy Buchmann Galerie Agra/Lugano e il lascito di Martin Disler; fotografia Antonio Maniscalco)
che ha saputo sempre mantenere un netto distacco dalle pur tante tendenze che ha attraversato, dando vita a opere dotate di un’autonomia stilistica e di un’impronta personale scaturite dall’attitudine a far confluire i diversi stimoli recepiti all’interno di un universo autarchico, lontano da dettami e convenzioni, in cui l’unico obiettivo era il superamento delle proprie tensioni interiori. Con la sua arte impetuosa e primitiva, talvolta capace di assumere un carattere più equilibrato e contenuto, Disler ha esplorato con maniacale tenacia tematiche ricorrenti: la paura, la sessualità e, soprattutto, la morte, come se nella mai sopita urgenza di conoscerla a fondo, di sviscerarla completamente, fosse sottesa la speranza di allontanarne lo spettro. L’impulsiva gestualità dell’artista ha generato opere cariche di tensione da cui emergono sì l’ansia e l’angoscia di un uomo disorientato dalle proprie sensazioni irrequiete, ma anche un’energia vitale e un fermento creativo che sono riusciti a valicare i limiti imposti da quella stessa inquietudine. Significativi di tale approccio sono i lavori su carta raccolti nella mostra di Lugano, tra cui spicca l’opera Senza titolo, alta quattro metri, realizzata da Disler nel 1979. Qui la sagoma stilizzata e deformata di un corpo umano emerge da un intrico di segni che pare tenerla prigioniera; la figura appena accennata nelle forme è di un colore rosso acceso che interrompe e sovrasta le tonalità fredde dei tratti sullo sfondo, a evocare, e invocare, una sensualità irruente in grado di estirpare i tabù dell’uomo per avvicinarlo ai suoi desideri più profondi. Il richiamo alla dimensione primordiale dell’individuo si fa ancora più evidente nella produzione plastica di Disler: il gruppo di piccole sculture a parete in terracotta, dalla serie Steinzeug und gebrannte Erde, presente nella rassegna, testimonia la volontà dell’artista di afferrare le radici dell’umanità per ritrovare un nuovo senso di appartenenza. Teschi, pugnali, volti plasmati come maschere sono un inno nostalgico, disperato e insieme fiducioso a un mondo archetipico, a una condizione primigenia in cui vita, morte e amore si fondono per accogliere l’uomo nella purezza del loro amplesso e per fargli assaporare il senso di libertà che si trova al di là del tormento. Dove e quando
Martin Disler. Buchmann Galerie, Lugano. Fino al 22 giugno 2019. Orari: da ma a ve 13.00-18.00; sa 13.0017.00. www.buchmanngalerie.com
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 giugno 2019 • N. 23
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Cultura e spettacoli
Rap, tutta questione di ego
Questo nuovo sound Eminem, il giovane Logic, Kanye West e Post Malone hanno tutti
una loro originalissima accezione di ciò che è la personalità
Tommaso Naccari L’ego nei pezzi rap è il coefficiente che rende questo genere completamente diverso dagli altri. Alcuni vi diranno che in realtà è quella sorta di parlata che gli americani non hanno paura di definire «poetry», accompagnata dal «rhythm» che aiuta a costruire l’acronimo rap, altri vi diranno che il radical rap losangelino, in cui la politica e il sociale la fanno da padroni, è la quintessenza del rap. La realtà è che, no, un pezzo rap non è un buon pezzo rap se da lì non esce ego a dismisura.
Forse anche l’arroganza nasconde al proprio interno qualcosa che assomiglia all’insicurezza La definizione di ego – almeno per quanto riguarda la sua accezione urban – non è così scontata, per questo l’ideale è prendere come esempio due bei pezzi usciti di recenti negli Stati Uniti. Il primo è Homicide di Logic e Eminem, in cui l’ego emerge nella sua forma più pura («Son, you know why you the greatest alive?/ Why, Dad?/ Because you came out of my balls, nigga Hahahahahaha»), l’altro è Fuck the Internet, in cui l’ego del rapper che prende il sopravvento è quel lato un po’ malinconico, quel lato che ben conosciamo di Kanye, in cui l’estro artistico diventa malinconico, tanto da odiare tutto ciò che lo circonda – o tanto da finire a sedere allo stesso tavolo di Donald Trump, che forse è addirittura peggio di cancellare tutta la propria musica. Logic e Eminem sono al momento i rapper bianchi più rapper e più significativi di tutto il panorama mondiale,
Logic, alias Sir Robert Bryson Hall II è del 1990.
vederli insieme è per i fan di questo preciso sottogenere, una gioia per le orecchie. Si capisce fin da subito che il brano che sta per partire è stato partorito da queste due menti, fin dai primi suoni del beat, per arrivare all’attacco che rimanda a una poetica tipica del rapper di Detroit, prima, e a quello di Gaithersburg, poi. E proprio nella esplosione positiva dell’ego arriva qualcosa che ci fa capire che in realtà anche l’arroganza nasconde una certa forma di insicurezza al suo interno. Perché, dunque, l’ego è così necessario? Perché ritenersi il migliore ti porta, alla fine, a urlare «fuck the rap» e a voler cambiare tutte le carte in tavola. La forza del rap è – o meglio dovrebbe essere – la volontà di sparigliare le carte in tavola, di prendere come in origine il meglio degli altri generi, vivi-
sezionarlo, distruggerlo e creare qualcosa di altrettanto bello, se non migliore. L’ego ti porta a essere insoddisfatto, infelice di ciò che hai intorno, ti porta a chiederti «Perché dovrei accontentarmi?». Logic e Eminem hanno voglia di commettere un Homicide, che sia delle regole prestabilite, dei canoni da rispettare o dei colleghi non ci deve interessare, è tutta forza positiva per rendere ancora migliore il genere. Ma chiunque abbia anche solo vissuto un giorno su questo pianeta, sa benissimo che non sempre si è propositivi in questa vita, anzi. Post Malone e Kanye sono, a differenza dei due colleghi citati in precedenza, la conferma di quanto sopra. Il primo ha tatuato al posto delle occhiaie la scritta «Always Tired», sempre stanco, per sottolineare quanto questa vita non faccia già più
per lui. Il secondo, abbiamo accennato velocemente prima, è in un momento di psico-confusione massima, che ora pare essersi appiattita e appianata, ma che lo ha portato prima a delirare su Twitter, poi ad auto-diagnosticarsi la bipolarità addirittura sulla copertina del suo ultimo album. Entrambi sono relativamente giovani, e se non sono nativi digitali direttamente loro, lo è praticamente la loro musica. I dischi di Kanye escono da quando iniziava a sorgere Napster, e la gente iniziava a condividere illegalmente dei file .mp3 per non dover comprare i dischi fisici. Post Malone, invece, è – insieme a Drake – il Signore Oscuro di Spotify e di YouTube, piattaforme delle quali ha sfruttato tutte le potenzialità, tanto da arrivare ad avere certificazioni anche prima che i suoi pezzi fossero usciti, proprio per dei piccoli errori del sistema. Internet è casa loro, specie per una persona dalle forti spinte globaliste come Kanye, che sogna il sapere a portata di tutti e l’unione tra le menti – o almeno così sostiene. Eppure il loro ultimo pezzo si chiama Fuck The Internet. Se Logic e Eminem mandavano a quel paese il rap, Kanye e Post lo fanno con la loro seconda casa (dopo il rap, appunto), in un gioco un po’ gattopardiano dello spingere affinché tutto rimanga com’è attraverso il forte cambiamento. Come se non bastasse, internet – con non poca malizia – si è ribellata contro i due, facendo uscire il pezzo prima della release ufficiale sui gruppi telegram e i siti con i link mediafire da mille pubblicità più una, in modo così sistematico che qualcuno pensa addirittura che sia tutto calcolato. Ciò che comunque entrambe le coppie ci insegnano, è che l’ego è fondamentale per riuscire, e che se non puoi unirti al tuo nemico, quantomeno mandalo a fanculo.
Attraverso l’obiettivo di Carroll
Fotografia Pochi giorni dopo l’inaugurazione di una mostra alla Fondazione Rolla
di Bruzella, è mancato l’artista Lawrence Carroll
Gian Franco Ragno Si è spento nella mattinata di martedì 21 maggio Lawrence Carroll, pochi giorni dopo l’inaugurazione dell’esposizione di cui stiamo tracciando una breve recensione. È molto difficile stilare un profilo seppur sintetico di quella che è stata la fertilissima carriera di Lawrence Carroll (1954-2019): nato in Australia da genitori irlandesi, si trasferisce presto negli Stati Uniti dove compie i suoi studi. Chiamato in Europa da Harald Szeemann nel 1989, partecipa a collettive con nomi del calibro di Joseph Beuys, Richard Long e Bruce Neuman. Solo qualche anno più tardi è invitato alla Documenta di Kassel del 1992. Con la nostra regione ha sempre avuto un rapporto privilegiato e fertile, basti pensare alle sue esposizioni e presenze in collezioni importanti: da Panza di Biumo, che poi donò parte delle opere al Museo Cantonale, alla Galleria Buchmann, dal Museo Vela alla Fondazione Rolla. All’ex-Asilo di Bruzella vediamo per la prima volta l’artista nel suo personalissimo approccio al mezzo fotografico, che presenta risultati sorprendenti. Per inciso, va detto che privatamente Carroll ha sempre documentato personalmente il suo lavoro, proprio per l’importanza che ha il rapporto tra scultura e spazio, ma qui è la prima volta che si
Lawrence Carroll, Winter Lily.
esprime compiutamente con il mezzo. La trentina di immagini in mostra percorrono un lungo ritorno a casa di Carroll dalla costa Ovest alla costa Est laddove, stabilitosi negli anni Ottanta con il suo studio nell’allora sconosciuta Tribeca a New York, iniziò ad esporre. Dallo stile personalissimo, le immagini presentano una sorta di paesaggio candido ma sfuocato: la realtà intorno a lui è registrata attraverso il filtro di un vetro, dal quale l’immagine assorbe un sottile reticolo di graffi e segni. I soggetti sono minimi aspetti della natura come un albero, un giglio che
resiste al gelo invernale o una bandiera americana fuori da un finestrino; in altre immagini, invece, l’artista sembra indugiare su una strada invernale, dove si accumulano neve e pioggia – in queste immagini, quasi una serie, possiamo ricomporre le tracce della parola (come in un quadro di Cy Twombly) «never», mai. Altre ancora colgono un albero spoglio dall’interno di un’abitazione – inquadrato e spezzato dalla cornice di una finestra – in un involontario ma suggestivo rimando a Josef Sudek, autore presentato all’inaugurazione dello spazio a Bruzella. Un’ulteriore conferma della dimensione personale e quotidiana dell’esperienza condotta appare sottolineata dal continuo riferirsi ai giorni della settimana e ai momenti della giornata nei titoli delle fotografie. Se nella sua arte Carroll procedeva per accumulazione di colore, polvere e materia sui dipinti-sculture, nelle sue prove fotografiche sembra invece astenersi dall’intervento, avanzando per sottrazione di elementi. Nell’insieme ognuna delle immagini esposte si associa all’altra proprio per mancanza di colore, definizione, contorni e contrasto. Si adattano al lavoro in sala alcune frasi contenute in una recente intervista a Barbara Catoir, pubblicate nel catalogo del Museo Vela del 2017: «Cerco in qualche modo di assorbire quello che vedo e portarlo via con me, sperando
che un giorno nel mio lavoro emerga qualcosa che si ricolleghi a quell’esperienza. Ho bisogno di essere coinvolto nel mondo esterno, ma ho anche bisogno della solitudine del mio studio, dove posso rallentare e smorzare il rumore della vita». Le sue opere non sembrano avere punti di contatto con altre esperienze se non, lontanamente, quel Robert Frank del ritiro in Nuova Scozia che, dopo anni drammatici, produsse lo straordinario The Lines of My Hand. Vi è la stessa solitudine, lo stesso orizzonte esistenziale, la stessa quantità di ricordi che riemergono. Mi permetto di concludere ancora con le parole di Lawrence Carroll riguardo al rapporto tra vita e arte, tratte nuovamente dall’intervista citata: «Mi piace l’idea che la pittura possa portare un po’ di peso della vita, una parte di questa storia al suo interno. Tutti portiamo il peso di una vita imperfetta, alcuni molto più di altri. La pittura deve diventare realmente tua se vuoi che arrivi da qualche parte, è una battaglia che vale la pena combattere».
Un giovane prometeo un po’ acerbo In scena Giacopini
e Blaser nel nuovo Fluctus Teatro
Giorgio Thoeni I numeri per attirare la nostra attenzione c’erano tutti. A cominciare dal debutto di una nuova compagnia, il Fluctus Teatro, con una produzione originale, L’incatenato. Per rimpolpare la novità, si aggiunge la presenza di due giovani attori ticinesi, entrambi usciti da pochi anni dall’Accademia di Verscio e con all’attivo un discreto portfolio teatrale: Kevin Blaser e Tommaso Giacopini. Il primo ha già fatto parlare di sé nel 2016 quando è stato chiamato dai prestigiosi Mummenschanz a partecipare alla loro tournée estiva: un grande traguardo per un neodiplomato in Physical Theater. Il secondo ha trovato spazio su «Azione», sia distinguendosi per la sua appassionata verve poetica declinata con successo in teatro come nel caso de Il Fiore Oltre, da noi recensito, sia come autore e personaggio di talento intervistato da Zeno Gabaglio sempre per queste pagine. Dopo le prime serate di rodaggio al Foce di Lugano siamo andati a vedere lo spettacolo al Teatro del Gatto di Ascona. Scritto da Tito Bosia con Kevin Blaser, L’incatenato trae spunto dal mito di Prometeo, in particolare dall’opera attribuita a Eschilo, un dramma che, oltre al titano, vede solo divinità e in cui, nel concludere una trilogia, il leggendario eroe viene incatenato da Zeus per aver rubato una scintilla di fuoco divino, donandola agli uomini per sopravvivere. L’incatenato diventa allora metafora di una riflessione sulla vita, sui valori della nostra epoca, sull’ipocrisia che ci circonda, sui disastri umanitari di cui siamo testimoni impotenti e colpevoli. Un turbamento che emerge con forza da un testo scritto con l’intento di sottolineare un profondo disagio trasformato in una sorta di dialogo fra Zeus-aguzzino (Blaser) e un dolente Prometeo-prigioniero (Giacopini), ma che in gran parte si rivela un esercizio stilistico che mette in luce potenzialità recitative frenate dall’inesperienza e dall’assenza di una regia dalla mano ferma. Il tutto per uno spettacolo di un’ora gradevole ma ancora acerbo, esposto alle lacune che emergono di fronte a un a prova che si fa necessariamente più seria quando deve confrontarsi con un testo in cui il cambio di registro è centrale nello sviluppo drammatico e nel gioco dei personaggi. I due attori ce la mettono tutta e con grande onestà d’intenti, anche se le idee restano a mezz’aria, avvolte da monologhi in cui Giacopini dimostra maggior senso della misura accanto alla presenza scenica di Blaser, bella ma ancora affamata di indicazioni. Ciò nonostante abbiamo visto due personalità teatrali interessanti, dalle quali c’è da attendersi molto. E quando è così essere esigenti è d’obbligo.
Dove e quando
Lawrence Carroll. Photographs, Bruzella, Fondazione Rolla Fino al 1. settembre 2019. www.rolla.info
Tommaso Giacopini ne L’incatenato.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 giugno 2019 • N. 23
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Cultura e spettacoli
Luciano, che sente le voci e ha le visioni teatro Il nuovo, intenso spettacolo di Danio Manfredini
Giovanni Fattorini Dal 1987 al ’99 – cioè dai 30 ai 42 anni – Danio Manfredini ha condotto un atelier di pittura all’interno di una comunità psichiatrica di Milano. Un’esperienza per lui fondamentale, che è stata parzialmente all’origine di due spettacoli – Tre studi per una crocifissione (1992) e Al presente (1999) – in cui dava corpo e voce, da solo, a diversi personaggi, alcuni dei quali ispirati ai pazienti della comunità di cui era operatore.
In questa pièce le immagini del teatro mentale di Manfredini si concretizzano nei movimenti scenici Anche Il sacro segno dei mostri, rappresentato per la prima volta nel 2008 (quattro anni dopo Cinema Cielo, a mio parere uno degli spettacoli teatrali italiani più riusciti degli ultimi vent’anni), era frutto di quell’esperienza. In scena, oltre allo stesso Manfredini, c’erano sei attori che interpretavano due o tre personaggi ciascuno, muovendosi dentro uno stanzone dalle pareti bianche (l’atelier di pittura), le cui porte si aprivano – così veniva fatto di pensare – su stanze o corridoi altrettanto asettici e spogli. In quello spettacolo Manfredini si oggettivava, assegnando la parte di se stesso tren-
tenne a un giovane attore sempre muto e col volto coperto da una maschera di lattice. Acutamente consapevole delle relazioni esistenti tra arte e follia (intese entrambe come scarto rispetto alla cosiddetta «normalità»), Manfredini guardava alle figure dei pazienti con un’adesione distaccata: vale a dire, con una partecipazione non disgiunta da una lucida capacità di osservazione. Nello spettacolo non c’era racconto. Il testo era formato da brevi dialoghi o da solitarie esternazioni che esprimevano frustrazione, solitudine, paura, sensi di colpa, desiderio d’amore o di sesso. A volte, però, i discorsi dei pazienti sembravano così strambi da suscitare il riso. Il sacro segno dei mostri non era uno spettacolo meramente angoscioso, dolorista: era, invece, un’opera intensamente poetica e venata di umorismo, in cui, al pari e a tratti più delle parole, contavano i corpi degli attori-personaggi: le loro posture, le stereotipie gestuali, la mutevolezza o la fissità delle espressioni facciali, le frenesie motorie o le nudità improvvisamente esibite in una disperata richiesta d’amore, a volte sull’onda della musica: l’aria Casta diva di Bellini o un’aggressiva canzone rock. Con lo spettacolo intitolato Luciano Manfredini ci riporta all’interno di una comunità psichiatrica. Per quelli che hanno seguito, nel corso del tempo, la non abbondante produzione teatrale del sessantaduenne attore-registadrammaturgo-cantante, il protagonista eponimo del nuovo lavoro non è uno sconosciuto. Lo hanno già visto
Danio Manfredini nello spettacolo Luciano. (Manuela Pellegrini)
e ascoltato nel primo dei Tre studi per una crocifissione e nella prima parte di Al presente, dove era una delle figure vividamente impresse nella memoria di un uomo (quasi un autoritratto di Manfredini) che le rievocava avendo accanto a sé un manichino (un suo doppio inanimato). Il Luciano di oggi ha il volto un po’ più segnato dal tempo, ma per il resto è come quello del ’92: col capo coperto da una cuffia di lana, stretto nelle spalle,
leggermente ingobbito, e con la camminata a passi brevi e strascicati (tipica di chi è sottoposto a trattamento con psicofarmaci). Anche il suo modo di parlare non è cambiato: ha un tono di voce rassegnato o risentito; un’articolazione a tratti biascicata, con silenzi improvvisi e indecifrabili, in cui sembra affondare e da cui riemerge cambiando argomento, interrompendo una frase per riprenderla più tardi, citando e modificando versi celebri, alternando
esternazioni desolate e notazioni involontariamente comiche, e rivolgendosi sempre, nel suo desiderio di comunicare, a un interlocutore reale o immaginario, a cui dà del tu, e che in pratica coincide con lo spettatore in sala. La vera novità dello spettacolo è che mentre nel primo dei Tre studi per una crocifissione le visioni di Luciano erano raccontate a voce, qui le immagini del suo teatro mentale si concretizzano in movimenti scenici e figure di forte plasticità, che a volte richiamano – senza mai scivolare nel citazionismo kitsch – l’iconografia sacra, il circo o la mitologia. Sono scene che in parte attingono ai ricordi dello stesso Manfredini (il quale ha dichiarato di aver preso le mosse, nel concepire lo spettacolo, da annotazioni autobiografiche), e che in larga misura sono materializzazioni di fantasie o ricostruzioni frammentate di situazioni ambientate in alcuni dei luoghi elettivi del cosiddetto «battuage» omosessuale (giardini pubblici, orinatoi delle stazioni, cinema a luci rosse), un tempo frequentati (oggi il battuage avviene soprattutto online) da cultori del cruising, voyeurs, travestiti e marchettari. Pronunciando rare battute, in queste scene ricche di pathos (e non prive di ironia), che trattano di comportamenti generalmente ritenuti poco commendevoli, agiscono, insieme a Manfredini, cinque bravissimi attori, i cui volti sono sempre coperti da inquietanti maschere di lattice. Si chiamano Ivano Bruner, Cristian Conti, Vincenzo Del Prete, Darious Foroogh, Giuseppe Semeraro. Annuncio pubblicitario
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Cultura e spettacoli Rubriche
In fin della fiera di Bruno Gambarotta Un selfie con soldati o con pavese? Quest’anno il Salone del Libro di Torino è stato anche il Salone degli anniversari. Che a me, lettore adolescente di Plutarco, ha fatto tornare la voglia di immaginare le Vite Parallele del nostro tempo, prime fra tutte quelle dedicate a Primo Levi e a Fausto Coppi, ricordati al Salone in quanto accomunati dal centenario della nascita. Altra ricorrenza, i 20 anni dalla morte di Mario Soldati. Qui la tentazione irresistibile consiste nell’abbinare la sua vita a quella di Cesare Pavese. Non erano gemelli, Soldati nato a Torino il 17 novembre 1906, Pavese a Santo Stefano Belbo il 9 settembre 1908. Due scrittori torinesi che non potevano essere più diversi anche per la durata delle rispettive loro vite, per Pavese 42 anni, per Soldati quasi 93, più del doppio. Soldati dinamico e imprevedibile, meditativo e bizzoso, mutevole e fluido, tentato dalla dissipazione dei suoi tanti talenti, instancabile esploratore delle vite altrui. Pavese, teso alla costruzione del suo profilo di scrittore,
quasi fosse consapevole del tragico destino che lo attendeva. Allestire un epistolario completo di Soldati è impresa impossibile, Pavese fin da ragazzo compilava il suo copia lettere, dove trovava posto anche una semplice cartolina, «saluti da Brancaleone Calabro». Soldati, dopo la laurea con Lionello Venturi, va negli Stati Uniti con una borsa di studio per insegnare storia dell’arte, conosce Marion Rieckelman e la sposa nel santuario di Oropa dalle parti di Biella il 18 maggio del 1931. Quando lei e i loro tre figli torneranno in America, Soldati avrà una seconda compagna, Jucci, la ragazza di Fiume, che potrà sposare solo quando entrerà in vigore in Italia la legge che consente il divorzio e i tre figli nati dalla loro unione saranno già diventati grandi. Soldati abiterà molte case, a Torino, Roma, Milano e infine a Tellaro, sul golfo di La Spezia. Pavese non avrà mai un suo appartamento, vivrà sempre a casa della sorella, del cognato e delle loro due figlie. Ne uscirà solo per
andare all’albergo Roma, di fronte alla stazione di Porta Nuova, per prendere una stanza e suicidarsi con i sonniferi. Soldati è stato un viaggiatore instancabile, Pavese non attraverserà mai un confine, non salirà mai su un aereo, di sua iniziativa arriverà solo fino a Roma e sarà costretto a spingersi fino in Calabria per scontare la condanna al confino che gli è stata inflitta dal Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato per attività antifascista. Svolta non per scelta ma per assecondare la richiesta di un’amica, «la donna dalla voce roca», militante comunista, che gli aveva chiesto di conservare un plico di stampa clandestina. Soldati è stato un infaticabile giornalista per molte testate e su svariati argomenti, Pavese ha collaborato per dovere alle pagine torinesi de «l’Unità» solo nell’immediato dopoguerra. Soldati è stato cultore e cantore del cibo e del vino, ha realizzato, nei primi anni della televisione italiana, quello straordinario Viaggio nella Valle del Po alla ricerca dei cibi
genuini. Pavese, secondo la testimonianza di chi l’ha conosciuto, non faceva neanche caso a quello che aveva nel piatto e beveva solo vino bianco, il rosso gli ricordava il sangue. La vita di Soldati è costellata di amicizie, alcune nate sui banchi di scuola e durate fino alla morte, Pavese ha avuto un solo vero amico, Nuto, il falegname di Santo Stefano Belbo, uno dei protagonisti de La luna e i falò. Soldati è bizzoso, umorale, talvolta luciferino, sempre al centro della scena, Pavese, così come lo racconta Natalia Ginzburg, quando era in compagnia sedeva appartato capace di stare tutta la sera in silenzio a fumare la pipa. Soldati si reca in visita alla troupe che sta lavorando in un paese del Piemonte alle riprese dei suoi Racconti del maresciallo. Per la pausa pranzo vuole portare tutti a mangiare in un ristorante conosciuto per una particolare specialità, che prevede una elaborata preparazione. Quel giorno feriale, prevedendo pochi avventori a differenza della folla del fine set-
timana, quel piatto non è nel menù. Soldati si infuria, esce sulla piazza per recarsi in un negozio di commestibili, battendo col bastone sulla serranda già abbassata si fa riaprire, compra una scatola di tonno, torna al ristorante la apre e ne mangia il contenuto direttamente dalla scatola. Di simili aneddoti su Soldati potremmo riempire un libro. Immaginiamoli in questo Salone. Soldati, sulfureo, umorale, imprevedibile, bersaglio perfetto per i selfie. Con il sigaro spento in bocca, non smette di prendere appunti, rubando la vita e le storie dei suoi interlocutori per infilarle nel romanzo che sta scrivendo in quel momento. Pavese, spaventato dall’assalto dei fan, nega di essere lui e corre a nascondersi nel ripostiglio delle scope. Soldati avrebbe tutti i titoli per guadagnare la nostra preferenza ma noi, vecchi adolescenti, continuiamo a preferirgli Pavese, timido, sfuggente, ombroso, con il suo tragico senso del dovere. E pazienza se non riusciremo a farci un selfie con lui.
ne, mancanza di una famiglia cattolica, ma il finale è consolatorio, perché pare arrivato un principe, e pure azzurro. A trabocca di amore per l’uomo della sua vita, Marcus Manemmenorco Marc discendente forse dalla famiglia de los Caltagirones, dedita più a immobili e finanza che al sangue blu. Purtroppo il principe non può farsi fotografare. Con A, però, prende in affido due bambini (in contumacia, ingaggiati per provini di una fiction di cui non si deve sapere nulla). L’unica certezza è la data del matrimonio, fissato per l’8 maggio, pranzo già ordinato e fiori freschi (a oggi non pagati). Il 7 sera la nostra A affranta parla di malattia, servizi segreti, protezioni a mezzo scorta. Però a breve ci sposeremo. Qualcuno comincia a perdere la pazienza e siccome A più volte ha lasciato i salotti tv in uno scatto d’ira, contro ogni galateo televisivo, le reti si rivolgono a B e C, che finora si
sono dette «sorelle» e hanno trascorso appiccicate diversi anni. Chi meglio di loro? In un talk B ha giurato che tutto corrispondeva a verità, bella, giovane o giovanile, perfettamente truccata. Dopo pochi giorni B crolla; non solo non esiste il principe azzurro – la truffa è tutta da parte di A e C, io sono così ingenua che da dieci anni sono sposata con un uomo che non esiste. Eeeeeeeeh? Si è «sposata» in contumacia pure lei, il «marito» si nasconde per gravi problemi di sicurezza tipo militare. Mandiamoci delle foto, che sarà mai mandare nudità sul web, è tutto sotto controllo. Iniziano pianti e confessioni, per le quali è necessario solo un filo di trucco, una virginea maglietta bianca, i capelli sciolti. Una Maddalena. Anche le altre appaiono, piangono, si disconoscono a vicenda. Ma ridatemi Crudelia De Mon, Anastasia, Genoveffa e tutte le streghe, sinceramente malvagie.
non è scrivere, è battere a macchina» (5+). Vladimir Nabokov su Ernest Hemingway: «Qualcosa su campane, palle e torri [la traduzione non può rendere ragione al gioco di parole in lingua inglese: «bells, balls and bulls»]: mi ha disgustato» (4½). Hemingway su William Faulkner: «Povero Faulkner. Davvero crede che i paroloni suscitino forti emozioni?» (4-). Virginia Woolf sull’Ulisse di James Joyce: «L’opera di un nauseabondo studente universitario che si schiaccia i brufoli» (6-). Gustave Flaubert su George Sand: «Una muccona piena di inchiostro» (3). D’Annunzio su Marinetti: «Un cretino con lampi di imbecillità» (5+). Charles Baudelaire su Voltaire: «Il re degli imbecilli, il principe dei superficiali, il portavoce delle portinaie» (5-). Gore Vidal su Capote: «È in tutto e per tutto una casalinga del Kansas, pregiudizi compresi» (3). Evelyne Waugh su Proust: «Roba davvero scadente. Penso avesse qualche disordine mentale» (3-). Giorgio Bassani sui giovani scrittori del Gruppo 63: «Non sono che libertini
profumati, incipriati e crudeli» (4+). Naturalmente si potrebbe continuare all’infinito. C’è persino una stroncatura firmata da Friedrich Nietzsche contro Dante Alighieri: «Una iena che scriveva poesie sulle tombe» (inclassificabile). E una frecciata di Jonathan Franzen diretta al cuore di Philip Roth: «Roth non è uno scrittore di talento, nei suoi libri parla solo di sé, non avendo altro da raccontare» (4½). È chiaro che nel giudizio si insinuano inevitabilmente i gusti del recensore, le sue idiosincrasie, persino le ostilità personali. Ma, diversamente dalle recensioni insapori e tiepide che leggiamo tutti i giorni sulle pagine culturali, anche dalle stroncature più violente qualcosa di vero emerge sempre. O quasi. Pensate a cosa diceva Mark Twain di Jane Austen: «Tutte le volte che leggo Orgoglio e pregiudizio mi viene voglia di disseppellirla e colpirla sul cranio con la sua stessa tibia». La domanda a Twain (4+) sarebbe: perché non rilassarsi e dedicarsi ad altre letture?
postille filosofiche di Maria Bettetini Ridateci le vere cattive Il poeta è un fingitore, affermava forse Pessoa, mai fidarsi delle citazioni isolate. Ma che cosa potrebbe accadere se un fingitore non fosse un poeta? altro che gambe corte e naso che si allunga. Partiamo dal passato remotissimo, scrive Oscar Wilde nel suo Elogio della menzogna. La inventò, secondo Vivian, il protagonista del breve romanzo, il primo uomo delle caverne che preferì restare al caldo tra fuoco e pellicce, e non andare a caccia. Sia chiaro, una caccia senza levrieri, senza fucili, senza cavalli né cani addestrati. Una bastonata e via, un via che tocca solo ai più fortunati. Il poveretto che non si mosse, poteva avere una polmonite o un raffreddore, sentendosi in colpa, invece si produsse in parole che non conosceremo mai, ma con pitture che in parte sono state riscoperte. Le prime fake news furono il racconto di un pigrone che disegnava un enorme mammuth, e come l’aveva ucciso
al primo colpo. E così via, pare che nessuno andò a controllare dove fosse, per esempio, il mammuth ucciso, tanto grande era il potere della prima menzogna della storia. In verità, bisognerebbe ricordare un’altra menzogna, vissuta in tempi forse prima del tempo, del nostro tempo. Una bestia che poi sarà costretta a strisciare come un serpente racconta a Eva un esempio di menzogna perfetto, cioè una giusta mescolanza di vero e falso. La stessa che ci travolge – con meno finezza – quando affrontiamo il gossip sui giornali o in televisione. Disse dunque la bestia alla donna: Dio vi inganna, non è vero che morirete (sottinteso: non subito), Dio sa che mangiando di questo frutto diverrete come lui (perché pensereste a farvi le vostre leggi, perché molti uomini vorranno essere adorati come dei), mangia donna e poi passalo a quel vigliacco, che a sua discolpa sa solo dire è stata la donna che tu, Dio,
mi hai messo al fianco, quindi sono affari vostri. Raffinate menzogne di altri tempi, in cui il fingitore era anche poeta, come lo era Jago nell’Otello. Ma veniamo al dunque: ci domandavamo, dove possono finire le menzogne senza né arte né parte? La cronaca ci soccorre, per fortuna, oltre ogni possibile ipotesi, narriamo di una bambina dai capelli lisci e neri neri. Era bella, per questo era molto invidiata nelle castigatissime esibizioni di capelli corvini corredata da nastri o fili interdentali, usava dire così. Le sorellastre, che non si chiamano Anastasia e Genoveffa – il che avrebbe dato più allure alla misera storia, chiamiamole B e C, dato che A non può che essere la prima. La quale non viene più tanto invitata a esibirsi, giunta alla soglia dei sessanta, organizza un piano di rilancio con l’aiuto – momentaneo – delle crudeli B e C. A racconta di solitudine, depressio-
Voti d’aria di Paolo Di Stefano stroncate stroncate, qualcosa resterà Quanto ci mancano le stroncature! Quelle belle, sincere stroncature di una volta. Non le pensose, incolori, insapori, inodori pseudorecensioni di oggi, di questa nostra notte dove tutti i gatti sono bigi: tutti i libri sono da buoni ad abbastanza buoni a discreti, comunque sufficienti. Una boccata di ossigeno è arrivata qualche domenica fa da Natalia Aspesi (5½ alla carriera) che sulla «Repubblica» ha detto quel che pensava, pacatamente, sinceramente, di The Mister, il nuovo romanzo di E.L. James, l’autrice delle gloriose Cinquanta sfumature. Ebbene, ha scritto Aspesi: «Per snobismo, populismo, superbia, avevo deciso di farmi piacere l’atteso nuovo romanzo. Purtroppo non ce l’ho fatta: The Mister è veramente bruttissimo, eppure degno del massimo rispetto, perché creerà nuovo denaro per l’autrice, con giubilo del marito pure lui scrittore e dei due figli, ma anche dei suoi editori e delle languenti librerie che l’attendono ansimando». Un’«ottima artigiana del nulla», questa E.L. James, una signora che racconta il
sesso come lo racconterebbe chiunque sia privo di senso della realtà ma anche di immaginazione e soprattutto di stile: «Approfondisco il bacio facendomi più incalzante, Alessia sussulta per la sorpresa», «Geme e a un tratto urla con il corpo scosso dagli spasmi», «Gode tra le mie braccia» (il voto lo lascio devolvere simpaticamente al lettore). Sarebbe meglio stroncare cose meno ovvie, quelle che in genere vengono esaltate o cautamente apprezzate. Un maestro coraggioso di stroncature è oggi Marco Ciriello (5½), ottimo scrittore oltre che critico, che scrive per «Il Messaggero». Ciriello ha criticato con argomenti non futili il nuovo romanzo di Marco Missiroli, Fedeltà (Einaudi), dato da almeno un anno per favorito del premio Strega: «È uno dei tanti romanzi italiani che sembrano mobili Ikea: stessi pezzi, viti, trame, telefonini, mestieri e tormenti…». Ha fustigato l’ultimo libro, Serotonina (La Nave di Teseo), del «Nostradamus del nostro tempo», ovvero Michel Houellebecq: «Houellebecq lavora sulla mediocri-
tà, e per forza di cose deve entrare in pensieri lubrichi e quindi scandalizzare, ma non è Louis-Ferdinand Céline». Non basta, insomma, essere reazionari e politicamente scorretti per fare grande letteratura, dice Ciriello. Al quale non piace neanche Chiara Gamberale con il suo L’isola dell’abbandono (Feltrinelli): «un’educazione sentimentale frou frou». Insomma, si può liberamente essere d’accordo o in disaccordo con Ciriello, ma è difficile non apprezzare al massimo grado la sua serietà e capacità di analisi: pregi che, aggiunti al coraggio, lo rendono poco gradito agli uffici stampa delle case editrici e in definitiva alle case editrici stesse. La scorsa settimana Pierluigi Battista, sul «Corriere della Sera», si soffermava su alcune stroncature antiche raccolte in una interessante Guida tascabile per maniaci dei libri (Edizioni Clichy, voto al volume: 5). L’elenco è lunghissimo, a tratti divertente a tratti sconcertante. Truman Capote a proposito di Sulla strada di Jack Kerouac: «Questo
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