Azione 26 del 24 giugno 2019

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Cooperativa Migros Ticino

Società e Territorio L’esperienza di Punto Ascolto Monteceneri, un’antenna di riferimento per la popolazione

Ambiente e Benessere La dottoressa Paola Merlo, medico dentista SSO/STMD e specializzata in ortodonzia, spiega i vantaggi che anche gli adulti possono trarre da una dentatura ben allineata

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXII 24 giugno 2019

Azione 26 Politica e Economia Gli attacchi a due petroliere nel Golfo dell’Oman aprono nuovi scenari di guerra

Cultura e Spettacoli Pina Bausch ha segnato la storia della danza, e non solo – un ricordo a dieci anni dalla morte

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Domenico Scarano

Castiglione Olona, la toscana

di Domenico Scarano pagina 23

Svizzera-Ue: momento cruciale di Peter Schiesser Adesso il tempo sta davvero scadendo. Se si intende salvare l’accordo istituzionale con l’Unione europea, concluso in dicembre dal segretario di Stato Roberto Balzaretti, questa settimana deve avvenire una svolta. In caso contrario, dal 30 giugno Bruxelles non riconoscerà più l’equivalenza della Borsa svizzera (impedendo che i titoli svizzeri vengano quotati alle Borse europee). E la svolta può venire solo dal Consiglio federale, cui spetta la leadership nella politica estera. Il problema è che questo Consiglio federale non gode di sufficiente fiducia né a Bruxelles né, sul piano interno, fra i sindacati. La decisione della Commissione europea di non prolungare una terza volta l’equivalenza della Borsa svizzera trasmette un messaggio chiaro: dopo 10 anni di negoziati, 23 incontri del presidente della Commissione Juncker con 4 presidenti della Confederazione, 32 round negoziali, ribadendo più volte che questo accordo istituzionale non è più negoziabile, a Bruxelles ci si è convinti che il Consiglio federale punta tuttora a guadagnare tempo, che manca una vera volontà di firmare l’accordo. Il presidente della Commissione europea aveva

ancora teso la mano a Berna dopo che il Consiglio federale aveva detto di essere sostanzialmente a favore dell’accordo ma che ci sono ancora tre punti da precisare (aiuti dello Stato, libera circolazione dei cittadini Ue, protezione salariale): parliamone, ma decidiamo entro pochi giorni, aveva detto Juncker. E infatti, Balzaretti è tornato a Bruxelles, ma come hanno riferito sia il «Tages Anzeiger» sia la «Neue Zürcher Zeitung» il segretario di Stato non disponeva neppure di un preciso mandato da parte del Consiglio federale e non ha quindi presentato alcun documento – non esattamente il modo migliore per comunicare la volontà di procedere rapidamente. Il Consiglio federale si sente ovviamente ancora prigioniero della camicia di forza della politica interna. I sindacati di sinistra (e con essi l’anima sindacalista del Partito socialista) insistono a pretendere che la protezione dei salari venga esclusa dall’accordo istituzionale. La loro rigidità è forse solo una tattica negoziale, per ottenere delle concessioni sul piano nazionale. Ma è anche conseguenza del fossato che si è creato l’estate scorsa, quando i due consiglieri federali Schneider-Ammann e Cassis si sono lasciati andare a dichiarazioni pubbliche incaute (evocando la possibilità di modifiche formali alle

misure di accompagnamento alla libera circolazione) senza essersi prima consultati con i sindacati. Da quel momento è cominciato uno scontro fra Consiglio federale e sindacati difficile da risolvere, poiché nessuna parte vuole perdere la faccia. L’arrivo in governo di Karin Keller-Sutter ha cambiato gli equilibri interni al collegio, dalle ultime conferenze stampa si capisce che è lei a dare il tono nella politica europea e non più Cassis. Grazie a lei sono nate le proposte di una rendita ponte per i disoccupati sopra i 60 anni, ciò che le ha permesso di riunire al tavolo governativo padronato e sindacati e di rinsaldare l’alleanza europeista. Ma una vera fiducia non c’è ancora; da quanto mi raccontava a Berna Eric Nussbaumer, membro della commissione di politica estera del Nazionale, i sindacati non sanno se possono fidarsi di questo Consiglio federale, tuttora ondivago. Non aiuta certo il fatto, riportato dalla NZZ, che a un recente incontro con i sindacati Cassis abbia prima di tutto rimproverato il presidente di Travail Suisse Adrian Wüthrich di aver attaccato sulla stampa Balzaretti. Siamo dunque a mezzanotte meno 5. Se il Consiglio federale vuole evitare un conflitto con l’Ue, cui seguirebbero ritorsioni da parte svizzera e via di seguito, se crede nella via bilaterale deve agire subito.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 giugno 2019 • N. 26

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Attualità Migros

«Si tratta del DNA della Migros»

Intervista Da metà giugno, settimana dopo settimana, Migros diminuisce i prezzi e migliorerà ulteriormente

la qualità dei prodotti più popolari del suo assortimento. Il presidente della direzione generale della Federazione delle cooperative Migros, Fabrice Zumbrunnen, spiega quali sono i vantaggi per i clienti e rivela cosa mette nel suo cestino della spesa

Cristina Maurer, Kian Ramezani* Fabrice Zumbrunnen, perché Migros abbassa i prezzi dei prodotti più venduti?

Non si tratta altro che del DNA di Migros. Il miglior rapporto prezzo/qualità ha un occhio di riguardo sin dai primi anni di fondazione ed è anche fissato nei nostri statuti. Vogliamo e dobbiamo restare fedeli a questa eredità. Tutti i clienti dovrebbero percepire questa riduzione di prezzo nei loro carrelli della spesa. Desidero però sottolineare che non solo abbassiamo i prezzi, ma investiamo anche nella qualità dei nostri prodotti. In questo modo andiamo incontro alle accresciute aspettative dei consumatori.

Quali prodotti saranno meno cari e di quanto?

Abbiamo analizzato il prezzo e la qualità di oltre 1500 prodotti, quelli che i nostri clienti comprano più spesso, in poche parole: i loro prodotti preferiti. Da metà giugno, abbiamo iniziato a ridurre gradualmente, settimana per settimana, i prezzi di diversi articoli, che vanno dai generi alimentari freschi o a lunga conservazione ai prodotti di bellezza e igiene del corpo, dai prodotti igienici e alimentari per neonati ai detersivi per la casa e il bucato.

Lei sottolinea come Migros non solo abbassi i prezzi, ma aumenti perfino la qualità. Può farci un esempio concreto?

Con piacere. Le faccio l’esempio del nostro marchio M-Classic: adesso alcuni impasti per torte saranno prodotti completamente senza olio di palma. In questo modo rispondiamo a una chiara esigenza della clientela. E le scatole di chicchi di mais ora contengono la pregiata varietà «sweetcorn». Per lo stesso prezzo, la confezione di muesli è cresciuta da 150 a 180 grammi. Inoltre, tutti i prodotti M-Classic usciranno con un nuovo imballaggio. Perché non abbassate i prezzi tutti in una volta, anziché a cadenza settimanale?

La transizione è molto vasta e ha un impatto sulla fornitura della merce,

Fabrice Zumbrunnen mentre fa la spesa nella filiale Migros della Limmatplatz a Zurigo. (D. Winkler)

sull’imballaggio e sulla logistica. Si tratta di una sfida enorme, perciò è ragionevole, oltre che necessario, procedere a tappe.

Ma come sono possibili certe riduzioni di prezzo? Forse finora Migros era troppo cara?

Ovviamente no, non eravamo troppo cari. Essendo una cooperativa, Migros propone continuamente ai propri clienti prezzi vantaggiosi su singoli prodotti. Nell’ambito di questa iniziativa su larga scala, le riduzioni di prezzo sono

possibili grazie a svariati programmi di efficienza, all’ottimizzazione dei costi di trasporto e logistica e a prezzi d’acquisto della merce migliori.

Gottlieb Duttweiler, il fondatore di Migros, aveva costruito proprie strutture produttive per mantenere bassi i prezzi. Oggi funziona ancora così?

Sì, perché con le nostre industrie non solo possiamo produrre a prezzi più convenienti, ma soprattutto con una maggiore qualità. Esse ci permettono di gestire in proprio l’innovazione e la

velocità. Il successo di prodotti come Total, Risoletto o Blévita dimostra che la cosa funziona. Siamo l’unico rivenditore al dettaglio al mondo con marchi propri che vengono percepiti dai clienti come vere e proprie marche. A ciò si aggiunge il fatto che con M-Industria rafforziamo la piazza industriale svizzera. E per molti consumatori, lo «swiss made» è un fattore importante. Quali sono i suoi prodotti preferiti? Anche lei risparmierà sui prossimi acquisti?

Tutti ne approfittano, anch’io (ride). Personalmente compro molti prodotti freschi stagionali, che cucino volentieri io stesso. In questo segmento le riduzioni di prezzo si sentiranno distintamente. In che misura ne approfitterò, dipenderà anche dai miei bambini. Perché quando si pianifica il menù, la loro opinione pesa. * Redattori di Migros Magazin

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 giugno 2019 • N. 26

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Società e Territorio Le Case per anziani e la vita del paese Tre progetti diversi che tendono a favorire gli scambi intergenerazionali e i contatti tra gli ospiti delle Case per anziani e la comunità del paese in cui risiedono pagina 7

Il caffè delle mamme I vostri figli sono invitati a un pigiama party? Non ne siete entusiasti? Guardate il lato positivo di questo piccolo rito di libertà e complicità pagina 9

Punto Ascolto Monteceneri ha sede nella vecchia scuola di Bironico: una posizione volutamente centrale che condivide con il preasilo. (Ti-Press)

In ascolto del cittadino

Monteceneri Da sei anni è attivo Punto Ascolto, un’antenna per le persone in difficoltà e per i nuovi bisogni

di una popolazione in crescita Stefania Hubmann Accogliere, ascoltare e accompagnare gratuitamente i cittadini confrontati con difficoltà personali. Sono i principi che guidano l’attività di Punto Ascolto Monteceneri, prima iniziativa del genere in Ticino, oggi ormai collaudata e alla quale guardano con interesse altri Comuni. Affidato a una consulente psicosociale, il servizio è volutamente ubicato nel centro del Comune – nella vecchia scuola di Bironico – quale punto di riferimento per le persone in situazione di difficoltà o di disagio. È aperto tutto l’anno secondo modalità che facilitano il contatto anche senza appuntamento. La rete instaurata con i servizi specialistici a livello cantonale assicura inoltre un sostegno mirato in caso di necessità e richiesta. Punto Ascolto Monteceneri è però innanzitutto un luogo d’incontro ospitale e per le autorità una preziosa antenna che coglie i nuovi bisogni di una popolazione in forte crescita. Non a caso nei primi sei anni di attività ha offerto spunti per nuovi progetti già realizzati e per ulteriori collaborazioni. A seguito dell’aggregazione dei cinque Comuni di Bironico, Camignolo, Medeglia, Rivera e Sigirino, avvenuta nel 2010, si è sviluppata l’idea di offrire una nuova modalità di prestare

attenzione alle esigenze dei cittadini, al di là dello sportello della cancelleria comunale. Maggiore discrezione e più tempo a disposizione rispetto ai servizi amministrativi i primi obiettivi che Anna Celio Cattaneo, allora municipale (capo dicastero educazione), e Patricia Elzi in qualità di consulente del Gruppo Genitori si erano fissate nel concretizzare questo innovativo servizio. Oggi sono rispettivamente sindaca di Monteceneri e responsabile di Punto Ascolto. La loro collaborazione rimane stretta, così come con l’attuale capo dicastero socialità Tiziano Zucchetti. L’intesa fra le autorità comunali e la professionista del settore psicosociale è la base sulla quale è stato costruito e sviluppato Punto Ascolto. Anna Celio Cattaneo: «Per chi vive una situazione di disagio non è facile compiere il primo passo e rivolgersi a un servizio. Abbiamo pertanto volutamente realizzato uno spazio accogliente in posizione centrale rispetto ai nuovi confini comunali. Nella Scöra Vegia di Bironico oggi trova posto al pianterreno anche il preasilo. È quindi un luogo tranquillo, ma nel contempo animato sia nei locali interni, sia nel piccolo giardino». La bontà dell’iniziativa è stata decretata dagli stessi utenti. In sei anni di attività le richieste sono aumentate rag-

giungendo lo scorso anno 277 colloqui. Di questi 134 riguardavano richieste in corso, 50 persone già conosciute e 31 nuovi utenti. Quali sono le problematiche che emergono durante gli incontri? Risponde la responsabile di Punto Ascolto Monteceneri Patricia Elzi: «Negli anni i temi mantengono una certa similitudine. Le richieste di aiuto sono sovente legate a problemi relazionali nelle sfera familiare, a questioni di orientamento per le persone anziane, all’influenza di ansia e stress sulla qualità di vita quotidiana o ancora a problematiche genitoriali ed educative. Ci sono pure uomini e donne che manifestano inquietudini legate alla sfera professionale, ad esempio in caso di licenziamento. In questo ultimo anno sono inoltre giunte diverse persone straniere alla ricerca di informazioni per migliorare la loro integrazione». A farsi avanti, precisa ancora Patricia Elzi, sono in maggioranza le donne, soprattutto quale primo contatto. In alcuni casi si tratta di madri la cui famiglia già beneficia di aiuti da parte delle rete sociale, ma che si rendono conto di avere bisogno loro stesse di un sostegno e prima ancora di potersi confidare. L’accoglienza professionale, empatica ma discreta, permette a chi è nel bisogno di aprirsi e raccontare. Di fronte a precise necessità

e con l’accordo dei diretti interessati la consulente è in grado di attivare i servizi preposti per un intervento adeguato. L’ascolto delle cittadine e dei cittadini di Monteceneri – ma anche di Isone e Mezzovico-Vira in quanto parte di una medesima comunità – ha permesso di cogliere nuovi bisogni riguardanti fette più ampie della popolazione. È il caso degli anziani e del loro trasferimento dal domicilio all’istituto di cura. In collaborazione con la Casa Anziani Alto Vedeggio (consorzio fra i Comuni di Mezzovico-Vira, Monteceneri e Isone) è stato elaborato un progetto, operativo da qualche anno, incentrato sul sostegno alle famiglie cui spetta la decisione di trasferire un loro familiare nell’istituto. Punto Ascolto fa da tramite e facilita la presa di una decisione delicata così come la sua attuazione. Ciò a beneficio di tutti gli interessati: dalla persona anziana alla sua famiglia, alla Casa che la accoglierà. Un altro settore sensibile è quello professionale in particolare per le persone al beneficio di prestazioni sociali. Per offrire una risposta completa, sempre in rete anche con Punto Ascolto, il Comune di Monteceneri integrerà nei prossimi mesi la figura dell’assistente sociale che andrà a potenziare l’attuale sportello sociale. «Sarà operativa un

giorno alla settimana – spiega il capo discastero socialità Tiziano Zucchetti – con l’obiettivo di valutare le situazioni uscendo direttamente sul territorio. Desideriamo inoltre coinvolgere in maniera attiva le principali aziende presenti nel Comune per raccogliere una banca dati delle offerte di lavoro, dai posti vacanti a quelli di stage». Aggiungendo queste due iniziative agli altri progetti già realizzati con il contributo di Punto Ascolto – come la Rete Volontari, il percorso «Io entro a scuola» e le passeggiate «Conosciamo il nostro territorio» – il Comune di Monteceneri sta costruendo negli ultimi anni la sua nuova identità senza perdere le peculiarità di ogni frazione. Un’aggregazione comunale non può limitarsi a confini territoriali allargati, servizi uniformati e somma di tradizioni locali. Ricreare un tessuto sociale e un senso di appartenenza alla comunità con persone di riferimento alle quali rivolgersi in caso di necessità permette di migliorare la qualità di vita della popolazione e valorizzare l’intero Comune. A Monteceneri le autorità sono state lungimiranti e innovative. Informazioni

www.puntoascolto.ch.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 giugno 2019 • N. 26

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Idee e acquisti per la settimana

I lamponi ticinesi

Attualità I deliziosi piccoli frutti rossi coltivati sui nostri campi arrivano in negozio

freschissimi a poche ore dalla raccolta

Dalle fragole ai lamponi: a Manuela Krauss e alla figlia Sevenja non manca certo l’iniziativa.

Dopo le fragole, ecco i lamponi. L’orticoltrice Manuela Krauss e la figlia Sevenja di S. Antonino non stanno certo con le mani in mano: da qualche giorno infatti hanno cominciato a rifornire i supermercati Migros con le loro aromatiche bacche rosse. «Coltiviamo i lamponi su una superficie di ca. 600 metri quadrati, in piena terra, secondo i criteri della produzione integrata, sotto una copertura che li protegge dalle intemperie», spiega Manuela. Questi lamponi nostrani appartengono ad una varietà «Extra», vale a dire ad una tipologia più grossa rispetto alla media e dal calibro omogeneo. «La raccolta – continua l’orticoltrice – avviene al mattino molto presto, a partire dalle sei, ed è fatta rigorosamente a mano frutto dopo frutto. Essendo un prodotto molto delicato, il personale addetto all’operazione deve fare molta attenzione a non danneggiare i lamponi che sono ancora in fase di maturazione». Dopo la raccolta, i frutti freschi sono trasferiti subito nella cella frigorifera e già nel pomeriggio partono per la centrale di distribuzione Migros che si trova ad una manciata di chilometri di distanza. I lamponi sono dei frutti che si deteriorano velocemente, pertanto bisogna approfittare della bontà di questi pregiati prodotti locali finché che sono disponibili. Una volta acquistati, si possono conser-

vare al massimo due-tre giorni in frigorifero nello scomparto frutta e verdura, senza che il loro aroma ne risenta troppo. Le piccole bacche sono anche idonee al congelamento, in questo modo si potrà godere del sapore dell’estate anche durante il periodo invernale. I lamponi si gustano al meglio al naturale, a piacimento con un po’ di zucchero o panna, ma sono ottimi anche per preparare torte, frappé, confetture, sciroppi… Sono dei frutti ricchi di vitamine, in particolare C, calcio, acido folico e fruttosio. Inoltre fin dall’antichità sono apprezzati per loro proprietà antiossidanti, ricostituenti, antinfiammatorie e astringenti. Il lampone è una pianta spontanea in tutto l’emisfero nord. In Europa cresce allo stato selvatico nelle Alpi, Vosgi e Massiccio Centrale. È presente nei giardini fin dal Medioevo, ma la sua coltivazione è diventata particolarmente popolare nel ventesimo secolo. Il lampone coltivato è molto vicino al suo cugino selvatico, di cui sono state sviluppate delle varietà a frutto grosso e rampicanti che assicurano una produzione dalla primavera ai primi freddi. Esiste anche una varietà di lampone bianco. Lamponi Extra Nostrani 200 g Fr. 6.90 In vendita nelle maggiori filiali Migros

Un taglio saporito e pregiato

Attualità TerraSuisse è garanzia di carne svizzera della migliore qualità. Anche quando si tratta di scegliere un bella

costata alla fiorentina

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I contadini che producono per TerraSuisse si attengono alle direttive del marchio IP-Suisse. I manzi vengono allevati in stalle che rispondono ai loro bisogni, dove possono muoversi liberamente e accedere ad uno spazio all’aperto in qualsiasi momento. La detenzione rispettosa, come pure un’alimentazione adeguata alle loro esigenze, contribuiscono in modo determinante alla qualità della carne.

iStock

I tagli più pregiati del manzo provengono dalla regione lombare dell’animale e si caratterizzano per la loro tenerezza e aromaticità. Oltre al filetto, all’entrecôte e alle bistecche, un altro pezzo ideale per cotture alla griglia o in padella ottenuto da questa parte è la T-Bone Steak (in ragione dell’osso a forma di T che divide il filetto dal controfiletto) più conosciuta alle nostra latitudini come Costata alla Fiorentina. Sono le infiltrazioni di grasso - o marezzatura – che mantengono la carne bella succosa e saporita. Una costata perfetta deve essere cucinata al sangue, ciò significa che la temperatura al cuore deve essere al massimo di 55 gradi. Inoltre, per ottenere un grado di caramellatura dei tessuti interni ideale, lo spessore della carne non dovrebbe essere inferiore ai 3 cm. Una

costata ottenuta da razze bovine particolarmente pregiate avrà un peso mai inferiore ai 500 grammi e anche ben oltre il chilo. L’osso, oltre a contribuire a determinare il sapore della carne, è anche un ottimo conduttore di calore. Per preparare una costata fiorentina alla griglia perfetta, spennellare la carne con dell’olio e porla sulla gratella del grill scaldato a 230°C. Grigliare la carne su ambo i lati per ca. 10 minuti, fino al raggiungimento della temperatura interna desiderata (utilizzare un termometro da carne per determinarla). Avvolgere la carne nella carta alu e lasciarla riposare 5 minuti. Prima di servire, condirla solamente con un poco di fleur de sel e del rosmarino fresco.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 giugno 2019 • N. 26

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Idee e acquisti per la settimana

Fai buon viaggio! Attualità Tutto ciò che serve per le tue vacanze

lo puoi trovare presso le maggiori filiali Migros

Nelle maggiori filiali Migros è disponibile la nuova guida interamente dedicata ai bagagli e agli accessori indispensabili per delle vacanze serene in ogni parte del globo. Al suo interno non solo si può scoprire il nostro vasto assortimento di valigie, trolley e borse, ma anche trovare pratici e utili consigli sull’arte di fare il bagaglio e su cosa portare con sé per dei viaggi ben riusciti.

Le vacanze estive sono finalmente alle porte! Indipendentemente dal fatto che le trascorrerai in montagna, al mare, in una vivace città oppure in giro per il mondo, l’importante è essere ben organizzati, nonché attrezzati con un equipaggiamento di base e accessori adatti ad affrontare le situazioni più disparate. Nel reparto dedicato agli articoli da viaggio delle maggiori filiali Migros ti aspetta un’ampia selezione di prodotti per ogni tipo di vacanza. Qui troverai ad esempio valigie, trolley, borse da viaggio e zaini studiati per chi si sposta in treno, in automobile o in aereo, in grado di ri-

spondere alle tue esigenze di budget, stile e funzionalità. Oltre al marchio Central Square per chi è più attento al prezzo, l’assortimento annovera pure gli apprezzati prodotti firmati Titan e alcuni articoli dei rinomati marchi internazionali American Tourister, Samsonite e Delsey. Naturalmente non mancano tutti quegli accessori che rendono il viaggio più rilassante e sicuro, come necessaire, prese universali, pesabagagli, porta carte di credito, marsupi di sicurezza, lucchetti, cuscini di viaggio, targhette, ombrelli pieghevoli, organizer e tanto altro ancora.

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Società e Territorio

Iniziative e progetti delle Case anziani Terza età Tre esperienze diverse che tendono a favorire lo scambio intergenerazionale e la partecipazione

alla vita della comunità del paese Alessandra Ostini Sutto Le Case per anziani non sono strutture statiche, bensì dinamiche; ed è così che oggi, per rispecchiare il cambiamento generazionale in atto, accanto all’imprescindibile attenzione per le cure, mirano a valorizzare la figura e il ruolo nella società di chi vi risiede. Ciò si traduce, tra le altre cose, nello sviluppo di progetti volti a favorire lo scambio intergenerazionale e la partecipazione a quanto accade fuori dalla struttura. Progetti che vedono nel dialogo comune l’elemento unificatore e che sono stati il fulcro dell’esposizione «Agorà – Progettualità e iniziative nelle case per anziani», promossa da ADICASI (Associazione dei direttori delle Case per anziani della Svizzera italiana) il mese scorso a Lugano. Tra queste esperienze, cominciamo col segnalare il progetto intergenerazionale sviluppato con una decina di ospiti della Casa Don Luigi Guanella di Castel San Pietro e i bambini di seconda elementare del locale istituto scolastico. «Come tema abbiamo scelto la fiaba, perché cura, nel senso che fa uscire le emozioni», esordisce l’animatrice Antonella Zecconi, che si è occupata del progetto, in collaborazione con le docenti. Il racconto fiabesco ha inoltre la capacità di creare un ponte emozionale tra le due generazioni. «Durante i primi incontri, lo scorso autunno, abbiamo spiegato agli anziani la struttura della fiaba, che inizia sempre con “c’era una volta” e finisce con “e vissero tutti felici e contenti” e che contiene un protagonista, un antagonista, l’aspetto magico e una conclusione positiva», continua l’animatrice. È stata poi la volta della fase creativa: «Ci siamo serviti di un cappello; chi lo aveva doveva raccontare la fiaba e quando era stanco lo passava ad un’altra persona», spiega Antonella Zecconi, «sono emersi ricordi, paure ed emozioni, che ci serviranno anche nel rapporto di cura con i nostri ospiti». Una volta trascritte e rilette, le storie sono state suddivise in bigliettini, assegnati ai bambini, con il compito di tradurli in disegno. Al loro fianco, gli anziani aiutavano o davano consigli. Da questo lavoro sono nate tre fiabe, che ora stanno per diventare altret-

tanti libri, destinati inizialmente agli ospiti della casa. «Se ci sarà interesse, l’idea è quella di stampare ulteriori copie che si potranno acquistare», continua l’animatrice di una struttura che non è nuova a progetti volti ad avvicinare i suoi ospiti al paese in cui è ubicata: «L’anno scorso abbiamo trattato il ’900, recuperando molti oggetti che un tempo facevano parte della quotidianità dei nostri residenti, che sono stati poi divisi per settori. Ad ognuno di essi abbiamo applicato un biglietto esplicativo con il nome in italiano e in dialetto. I bambini delle elementari hanno visitato questo museo, in presenza degli anziani pronti a dare delle spiegazioni». Iniziative di questo tipo, oltre a rompere la monotonia delle giornate, consentono all’anziano di essere ancora partecipe del tessuto sociale cui apparteneva, di sentirsi utile nel suo agire, aiutandolo così a ritrovare un’identità che il «ritiro sociale» può affievolire. Ma i benefici non si limitano agli anziani: «I bambini hanno l’opportunità di imparare qualcosa di nuovo e di avere a che fare con delle persone estranee, che mettono loro a disposizione il proprio tempo e il proprio vissuto», commenta Antonella Zecconi. I benefici appena citati si possono raggiungere – ovviamente – pure percorrendo altre vie. Come avviene, per esempio, alla Casa anziani Cigno Bianco di Agno, con il Coro Seduto. Grazie ad un progetto pilota promosso dall’Ufficio degli anziani e delle cure a domicilio del DSS, nel 2011 al Cigno Bianco è stata introdotta la musicoterapia, disciplina che utilizza l’espressione musicale per intervenire sulla sofferenza e il disagio e stimolare funzioni quali la motricità e il linguaggio. Da questa introduzione alla nascita del Coro il passo è stato breve: «Osservando che diversi anziani, spontaneamente, scrivevano poesie e pensieri, abbiamo provato a proporre ad un gruppo di residenti una determinata parola, chiedendo di esprimere cosa suscitava in loro. Dallo sviluppo di queste idee sono nate le prime canzoni», spiega l’animatrice Luana Turolla, che collabora con il musicoterapeuta Antonio Elia. Nel frattempo, le canzoni scritte insieme agli ospiti hanno permesso di realizzare due CD. «Il

Il Coro Seduto della Casa anziani Cigno Bianco di Agno.

lavoro che facciamo in questo ambito è uno stimolo per chi vi partecipa. Basti pensare che persone malate di Alzheimer o che soffrono di demenza riescono a ricordare a memoria le frasi delle canzoni», spiega Luana Turolla, «in questo tipo di attività il cervello continua infatti a lavorare; per esempio per ricordarsi le melodie, le pause, le parti alte e quelle basse». La canzone costituisce poi un efficace elemento catalizzatore, che stimola la partecipazione sia individuale che di gruppo. «Dalle canzoni nascono delle discussioni che continuano anche dopo gli incontri del Coro. Si tratta quindi di un’occasione di dialogo su un vissuto comune», continua l’animatrice. Il Coro consente poi ai suoi membri di interagire con altre realtà: «Di regola facciamo due trasferte al mese, in altre Case per anziani o presso strutture e istituti che ci invitano», afferma Luana Turolla, «si tratta di occasioni di socializzazione con persone che non si conoscono e con le quali si ha in genere l’opportunità di confrontarsi dopo l’esibizione». Le canzoni sono accompagnate da semplici movimenti, che il pubblico è invitato a ripetere. «Si tratta quindi di uno stimolo e di un momento arricchente anche per chi ci viene a vedere», aggiunge Turolla, che continua: «in casa per anziani si deve continuare a vivere ed è quindi importante che i

residenti si possano sentire utili ed impegnati in qualcosa che sia finalizzato al raggiungimento di un obiettivo. Tra le nostre proposte, per esempio, alcuni residenti, in collaborazione con parenti e volontari, stanno realizzando ad uncinetto un albero che servirà per il prossimo Natale. In questo caso è importante anche il fatto che i nostri anziani possano invitare i propri parenti, perché questa ora è la loro casa». Fare in modo che le Case per anziani siano, di fatto, parte integrante del paese, è l’obiettivo cui mira un altro tipo di progetto. «La principale differenza della nostra proposta sta nel passaggio dalla casa per anziani tradizionale – ubicata al di fuori del centro urbano e vissuta come il luogo in cui l’anziano veniva accompagnato durante l’ultima parte della sua vita – ad una visione che tiene tale struttura al centro della comunità», afferma Caterina Carletti, responsabile della comunicazione della Fondazione Casa San Rocco. In questo concetto – attualmente applicato alla Casa di Morbio Inferiore e, nei prossimi anni, a due nuove strutture, a Vacallo e Coldrerio – la dimensione di cura si fa olistica: accanto alle cure farmacologiche e all’assistenza, il sistema di relazioni diventa parte del processo terapeutico. «Per realizzare una casa per anziani che vuole essere un luogo di vita ci siamo ispirati al modello abitativo e di cure

2030 dell’associazione settoriale nazionale CURAVIVA», spiega John Gaffuri, direttore della Fondazione Casa San Rocco, nel video di presentazione della struttura di Morbio Inferiore realizzato per «Agorà». «Ci siamo chiesti come attirare la comunità all’interno dei nostri spazi e in questo senso abbiamo aperto un bar-panetteria, un preasilo, un’agenzia postale e un piccolo spazio espositivo», continua Gaffuri. Nell’ampio giardino trovano inoltre spazio un orto, che permette di fare dell’orto-terapia e di mantenere le abitudini che alcuni anziani avevano a casa propria, e una fattoria didattica che consente di entrare in contatto con i bambini. A riguardo, dal 2016, la Fondazione Casa San Rocco, in collaborazione con Mission Bambini e la SUPSI, porta avanti un progetto di animazione intergenerazionale, che coinvolge bambini e ragazzi di diverse fasce d’età, provenienti da diversi contesti; l’anno scorso sono state più di un centinaio le attività organizzate. Le iniziative delle varie case per anziani volte all’apertura verso l’esterno possono portare, commenta Gaffuri, «un contributo effettivo al miglioramento delle relazioni sociali della comunità e favorisce un ritorno all’aiuto reciproco e alla condivisione che caratterizzavano in passato la vita in paese». Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 giugno 2019 • N. 26

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Società e Territorio

I bambini adorano i pigiama party

Il caffè delle mamme Non tutti i genitori invece ne sono entusiasti, ma in fondo per i figli è solo un modo

di far entrare gli amici nell’intimità della casa Simona Ravizza E adesso l’hanno consacrato perfino gli youtuber più seguiti dagli adolescenti: per festeggiare i quattro anni dalla loro nascita i Mates, ideatori di gag seguite sui social da 18 milioni di fan, hanno organizzato un pigiama party. Così il primo giugno in uno dei locali di riferimento a Milano, il Fabrique, Vegas (Giuseppe Greco, 30 anni), Surry (Salvatore Cinquegrana, 22), St3pny (Stefano Lepri, 24) e Anima (Sascha Burci, 28) saltano su un gigantesco letto insieme a migliaia di teenager invitati a seguire il dress code della festa: «Pigiama». Al Caffè delle mamme, sotto la perenne pressione di figli che chiedono di organizzare pigiama party a ogni età (anche a 5 anni quando la parola party non dovrebbero neppure conoscerla), arriva la domanda di rito: è una follia o una buona idea? Istintivamente pronte a rispondere che è da pazze tirarsi in casa per 12 ore e più un insieme di pesti (che tali restano a 5 o a 11 anni), dopo averci ragionato un po’ il proposito è di vederne anche l’aspetto positivo: è un modo per i nostri figli di fare entrare gli amici nell’intimità della casa e di mostrare con orgoglio giocattoli, libri, vestiti. Un mondo da condividere con i ritmi più lenti e la magia della notte tra video da postare su musically, play list tutte da ballare e sfide alla play station. Per le ultime ore alla Casa Bianca, il 19 gennaio 2017, anche Malia e Sasha, le figlie adolescenti dell’ex presidente

degli Usa Barack Obama, organizzano un pigiama party a base di pizza e alette di pollo. Lo rivela la stessa Michelle Obama durante una conferenza a Orlando in Florida, al primo intervento pubblico dopo aver lasciato l’incarico di First Lady: «Ho lasciato fare alle mie figlie ciò che volevano per rendere meno traumatico l’addio alla Casa Bianca dopo otto anni. Sono cresciute lì e lasciare quel posto che hanno chiamato casa è stato difficile». I nostri figli non possono sapere né che la nascita del termine viene associata a una commedia del 1964 diretta dal regista statunitense Don Weis con una trama surreale tra marziani, malviventi e giovani innamorati ospiti a una festa notturna ai bordi della piscina di tale zia Wendy, né che la consacrazione arriva con il pigiama party tra le Pink Ladies di Grease, quando l’ingenua Sandy, protagonista del film, viene catapultata in un rituale per renderla più sexy, tra parrucche e balli scatenati in una camera collegiale. Ma quel che bambini e adolescenti ben sanno è che il pigiama party è allo stesso tempo appuntamento di moda, festa dei sogni, momento di iniziazione: la voglia di guardare la luna insieme agli amici è contagiosa. «Un ricordo che resterà nel tempo», assicura Jolanda Restano, blogger di Filastrocche.it, sito ormai ventennale di intrattenimento per bambini con 500 mila visitatori al mese: «Per gli adolescenti il pigiama party è scandito da riti e come tale va vissuto anche dai genitori. Il

Non c’è pigiama party senza la battaglia dei cuscini. (Marka)

menu è la pizza, per il film da guardare ci vogliono i pop corn, la musica dev’essere stata preparata prima con una play list dei brani preferiti. Spesso tra le femmine è d’uso scambiarsi i vestiti e mettersi lo smalto per poi fare dei video da postare, mentre i maschi di solito prediligono le sfide con i videogiochi». Materassi in terra, sacchi a pelo e magari un nuovo pigiama da sfoggiare per il/la festeggiato/a fanno il resto. Alle richieste dei più piccoli diventa difficile resistere all’ultimo anno delle materne. Fin lì, invece, è più che lecito rifiutarsi, anche per non rischiare

di ritrovarsi con bimbi in casa che durante la notte piangono perché vogliono la mamma. Racconta Silvia Lonardo, seguitissima blogger con Cose da mamme, youtuber con Silvia & Kids e ora anche in libreria con Gioca con noi (ed. Mondadori) «L’asilo di mio figlio Daniel ha organizzato, proprio in concomitanza dell’ultimo anno prima del passaggio alle elementari, un pigiama party a scuola. Tutti con i sacchi a pelo in palestra e torce per la notte. Inutile dire che i bimbi erano entusiasti. Ma per i più piccoli possono valere anche pigiama party alternativi, come ho ap-

pena fatto io con Alyssa, 5.enne. Siamo andate a casa di un’amichetta, tutti i bimbi si sono messi in pigiama e hanno vissuto la serata in piena libertà, salvo poi verso le 22.30 andare a letto ciascuno nella propria casa». E, come per le feste di compleanno, anche per i pigiama party sono nate agenzie specializzate. Una delle più conosciute a Milano è Kikolle Lab che si offre di venire a casa per allestire un vero e proprio villaggio per la notte per bambini e bambine: fatto di tepee e tende, bandierine in stoffa, lucine, tappeti, cuscini e materassi fatti a mano per accogliere i piccoli ospiti per la notte e incantarli con un effetto «WOW»! I genitori possono richiedere: mascherine per dormire, bandierine personalizzate in stoffa, pochette con il kit da notte, set up per la tavola, biscotti glassati della buonanotte e pigiami personalizzati per tutti gli invitati. «I bambini adorano i pigiama party», spiega Silvia Longoni, anima creativa e party maker di Kikolle Lab, «perché possono ricevere i loro amici del cuore a casa e quindi all’interno della loro dimensione familiare, ma soprattutto possono vivere una piccola trasgressione, ovvero quella di trascorrere la notte tutti insieme, dormendo per terra tra materassini e tende un po’ magiche». Insomma: dopo un acceso confronto, al Caffè delle mamme la decisione è di smetterla di demonizzare il pigiama party, per i nostri figli simbolo di libertà e complicità. Ma che fatica! Annuncio pubblicitario

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Società e Territorio Rubriche

Lo specchio dei tempi di Franco Zambelloni Il trionfo di Peter Pan «L’infantilizzazione della società»: questa espressione è entrata nell’uso dopo che molti esperti ne hanno parlato (ormai, in un mondo sempre più complesso, dipendiamo costantemente dagli «esperti» – che siano di finanza, di pedagogia, di dietetica ecc.). La società attuale mostrerebbe caratteristiche sempre più infantili proprio perché la crescita individuale si fa lenta e i giovani tendono ostinatamente ad arrestarsi prima del passaggio alla condizione adulta. Questo mi richiama alla mente la favola di Peter Pan – il romanzo di James M. Barrie che un tempo è stato una delle letture più avvincenti e amate dai ragazzi. In un passaggio del libro, Wendy chiede a Peter Pan perché sia scappato di casa: e lui risponde d’essere fuggito perché aveva sentito suo padre e sua madre parlare del suo futuro, di quel che avrebbe fatto quando fosse diventato adulto. «Non voglio crescere, mai e poi mai», proclama

Peter Pan con foga. «Voglio rimanere per sempre un bambino e divertirmi.» Direi che Peter Pan ha fatto scuola: non nel senso letterale, perché nel romanzo non l’ha mai frequentata, ma perché ha tracciato una rotta che sarebbe stata seguita da imitatori sempre più numerosi. Del resto, dal tempo in cui il romanzo fu pubblicato (nei primi anni del 1900) il mondo è cambiato così radicalmente che è quasi ovvio che la voglia di crescere e di diventare adulto sia andata scemando: agli inizi del Novecento un bambino veniva abituato a lavorare, nell’orto o nei campi, o dando una mano in casa. Anche a scuola bisognava lavorare, studiare, faticare; e il tempo libero era per lo più limitato alla domenica e alle altre feste comandate. Quanto al divertimento, consisteva quasi soltanto nel correre per i prati, rotolarsi nell’erba, giocare a nascondino o alla tombola. Ma poi è venuto il cinema, poi la televisione, poi il computer e

internet, lo smartphone con tutte le sue «app»: da un lato, con la società dell’abbondanza, diminuiva l’obbligo dell’impegno; dall’altro, l’offerta del divertimento cresceva a dismisura. Dunque, divenire adulto può ormai sembrare superfluo – o comunque è sempre più difficile: ciò che fa crescere e divenire adulto è la realtà, con le difficoltà, le frustrazioni, l’impegno che comporta; ma perché affrontarla, se è il divertimento che vuoi e lo trovi in sovrabbondanza nei videogiochi, che ormai sono diventati non solo una moda, ma soprattutto un affare da milioni di dollari? Sappiamo che molti, troppi giovani sono sempre più dipendenti dal mondo virtuale, dove possono assumere anche identità immaginarie, vantarsi di doti che non hanno affatto, conversare con amici altrettanto immaginari e fasulli. Il narcisismo è un altro fenomeno in espansione, e di certo la finzione virtuale e la fuga dalla realtà

sono una componente importante per questa crescita. Non c’è da stupirsi, poi, se nel mondo reale molti giovani si danno ad atti di vandalismo, bullismo, forme variate di trasgressioni più o meno gravi: danneggiare beni pubblici, umiliare o malmenare un debole indifeso sono atti con i quali il narcisista s’illude d’essere forte, coraggioso, superiore; in realtà, sono tutte manifestazioni di una debolezza infantile. Così, narcisismo, immaturità emotiva e relazionale, mancanza di senso di responsabilità, sembrano caratterizzare sempre di più un’adolescenza che si prolunga oltre i tempi consueti e che rende sempre più infantile una larga massa sociale. Dati recenti dicono che il 12% dei ragazzi, al termine della scuola dell’obbligo, non prosegue gli studi in una scuola superiore, non inizia un apprendistato: si fermano, ritrovano la sconsiderata libertà dell’infanzia e, non di rado, ricorrono

all’assistenza pubblica. Proprio per questo il Dipartimento dell’educazione sta meditando di seguire l’esempio di Ginevra, prolungando di tre anni la durata dell’obbligo scolastico. Può essere un buon rimedio? Ne dubito. Per chi non ha voglia di darsi da fare, il fatto di trascorrere altri tre anni in un’aula scolastica non comporta necessariamente che si rimbocchi le maniche o si metta a studiare. Semmai, il prolungamento dell’età dell’obbligo scolastico sarebbe una sorta di riconoscimento ufficiale e istituzionale di un’adolescenza protratta. Così Peter Pan aumenta progressivamente i suoi seguaci – anche se, probabilmente, il suo romanzo è ormai letto da ben pochi. Però, magari nella forma del cartone animato, dei fumetti o dei videogiochi, può ancora affascinare e legittimare un folto pubblico abbarbicato al culto dell’età infantile.

mi rivela la collocazione di un altro monolito in miniatura, nel prato del golf club Payerne. Una nonna esausta dal minigolf si siede con la nipotina gasata al tavolo accanto. Scartano un cornetto gelato. Gironzolando, in un angolo trovo una strana sculturatrofeo con due palme sempre ottenuta con il materiale del monolito; forata c’è una scritta per i quarant’anni di qualcuno: «Alles Liebe wünscht dir die Monolith-Crew». All’orizzonte, sul lago quieto, solo qualche barca. A un certo punto della telenovela monolito, un imprenditore voleva ormeggiarlo al largo di Hergiswil, sul lago dei Quattro Cantoni. Ma più che i milioni necessari per l’impresa, sono stati i pareri non entusiasti degli abitanti di Hergiswil a far naufragare il progetto. Mentre sei delle sette capanne lacustri di Expo 02 si trovano ora nel parco del castello di Wartegg sul lago di Costanza, in un giardino dell’Appenzello, Biel, Bümplitz, Magglingen, Zollikerberg. L’unica rimasta al suo posto è quella che si vede ora laggiù, prima dei canneti, nel comune di Muntelier.

Utilizzata per delle mostre o affittabile per non so cosa, assomiglia tanto a una bucalettere americana gigante. Sbarazzatasi del monolito, Morat non ne vuole sapere del panorama della sua battaglia dipinta dal pittore tedesco Louis Braun (1836-1916), ingombrante dipinto del 1893 ritornato ad ammuffire in un magazzino. Camminando, in giro scovo altri resti del monolito: aiuole per orti, casette per uccellini, inutili sagome di locomotive a vapore. Per creare un residuo sottile di vera memoria avrebbero dovuto magari affondarlo a regola d’arte – sottraendolo così a questo cannibalismo nostalgico – facendone solo affiorare uno spigolo come un relitto. Su una panchina divoro infine una meritoria fetta di torta alla crema della pasticceria Aebersold. Il colore caramellato della sua superficie si riannoda al paesaggio: lo associo alle facciate burrose in pietra gialla di Neuchâtel. Due nonni, seduti sul muretto in riva al lago con i due nipotini, per spaccare il pane secco da dare ai cigni, usano due martelli.

pubblici, i media persino, l’abilità di aumentare l’interazione tra persone con background diversi, incoraggia il rispetto e la stima tra loro. Questo, in un quadro più ampio, può aiutare le società a superare quei trend che oggi vediamo acuirsi come la polarizzazione politica, i sentimenti di razzismo, la rabbia anti-migranti e le divisioni culturali. Scrive Jamil Zaki che l’empatia è la nostra abilità di condividere e comprendere i sentimenti dell’altro, una sorta di supercolla che connette le persone e sostiene la cooperazione e la gentilezza. Gli psicologi e i neuroscienziati misurano l’empatia in molti modi, ad esempio, chiedendo alle persone quanto importa loro degli altri, testando quanto accuratamente decodificano le esperienze altrui e esaminando la sovrapposizione nelle loro attività mentali quando provano piacere nel vedere gli altri felici.

Due sono gli elementi che il direttore mette in evidenza e dovrebbero interessarci. Il primo che secondo una ricerca, rispetto al passato, oggi nella nostra società viviamo un importante calo dell’empatia. Oggi, rispetto al 1979, il 75% in meno delle persone è empatico e questo in un contesto caratterizzato dal sorgere delle tecnologie online e dall’aumento della polarizzazione. Il secondo punto, e questo ci dà speranza, è che con l’empatia non soltanto si nasce, l’empatia si può anche imparare e accrescere. E allora non resta che darci da fare se non vogliamo vivere in una società triste e arida. Insegniamo ai leader di oggi e di domani a essere empatici affinché in un futuro automatizzato saremo davvero in grado di fare la differenza, di essere umani nel vero e più profondo senso della parola o tra noi e le macchine ci sarà davvero poca diversità.

A due passi di Oliver Scharpf Quel che resta del monolito di Murten/Morat Molti ricorderanno ancora il monolito arrugginito sul lago di Morat. Memorabile cubo galleggiante di trentaquattro metri per lato che ha forse sorpassato, nell’immaginario collettivo, la precedente associazione mentale di Murten a una battaglia. La battaglia di Murten del 1476, la cui rappresentazione in formato panorama era tra l’altro proprio il contenuto e il motivo dell’opera ideata dal controverso archistar francese Jean Nouvel in occasione di Expo 02. Effimero in partenza, come tutto il resto dell’esposizione nazionale lacustre svolta tra maggio e ottobre 2002 anche a Bienne, Neuchâtel, Yverdonles-Bains, alcuni abitanti di Morat avrebbero voluto che rimanesse lì per sempre. In barba al concetto base espresso a suo tempo dalla discussa direttrice Nelly Wenger: «per costruire memoria bisogna che l’oggetto sparisca». Come Véronique Müller, cantante di fama locale il cui quarto d’ora di celebrità è stato all’Eurosong 1972 e che per il monolito ha avuto un colpo di fulmine, battendosi fino

all’ultimo per conservarlo come luogo di esposizione raggiungibile solo in barca. Smontato nella primavera del 2003, tonnellate di lamiera d’acciaio arrugginito le compra Peter Lüdi, titolare di una piccola ditta metallurgica che si è cimentato a riciclarla in cornici, portachiavi, minimonoliti-souvenir. Uno enorme dovrebbe trovarsi al minigolf di Murten. Mentre è rimasta una delle sette cabanes-palaffitte arrugginite ideate sempre da Jean Nouvel per la mostra parallalela Un angelo passa. Queste vestigia sono la ragione del mio viaggio, oltre, si sa, a quella cantata da De André in Khorakhané (1996): «viaggiare». Murten/Morat c’è scritto sul cartello blu della stazione per sottolineare la bilinguità di questo comune del Canton Friborgo vicinissimo al confine con il Vaud e il Canton Berna. Vado diretto al lago, evitando di passare nel cuore della graziosa cittadina medievale molto amata come meta di gite della terza età. E a metà pomeriggio di una splendida giornata d’inizio estate, mentre alcuni sono

impegnati sul lago in quel regressivo passatempo incomprensibile noto come stand up paddle, altri passeggiano, bevono birra, mangiano gelati, al minigolf scopro quel che resta del monolito di Murten/Morat (431 m). Il minimonolito non passa inosservato ed è utilizzato come ripostiglio. Mi devo accontentare di un caffè dal distributore automatico ma in compenso il bar del minigolf è una miniera: scovo altre vestigia del monolito di Jean Nouvel. Autore recentemente del Museo nazionale di Doha che riprende in scala gigante una rosa del deserto, giunto alla ribalta nel 1993 mettendo un semicilindro di vetro in testa all’ottocentesca Opera di Lione, e noto in Svizzera per il KKL di Lucerna inaugurato nel 1998 dalla bacchetta di Abbado. La buca numero otto è un micromonolito con una fessura per la pallina alla base e in cima un fiore d’acciaio. Il bancone e gli sgabelli sono pure opera di Lüdi, «morto tre o quattro anni fa» mi dice il gestore che si siede a bere una birretta con un trio di aficionados. Uno dei quali

La società connessa di Natascha Fioretti L’empatia ci salverà Ho sorriso l’altro giorno quando mi sono sorpresa a riflettere sul mondo del lavoro di oggi, sulle sue dinamiche, sui rapporti umani che lo caratterizzano e lo abitano. Ho sempre pensato che l’atmosfera positiva fosse un elemento fondamentale, non solo per stare bene con se stessi e con gli altri ma anche per dare il massimo nella propria professione. Sono da sempre convinta che più i rapporti e le relazioni umane funzionano, più elevate sono le possibilità per un gioco di squadra di alto livello nel quale si suda, si gioisce e si fallisce insieme. Un atteggiamento di mutuo rispetto, di stima reciproca in un contesto in cui sono benvenute le idee e il confronto, in cui il dissenso e il contrasto sono vissuti come elementi costruttivi e di crescita, è virtuoso per tutti. Molto, naturalmente, dipende dall’ambito in questione, dal tipo di lavoro, dalla posizione che si occupa. Molto dipende

dalle persone e dalle loro competenze. Poi ho pensato a come potrà evolvere questo aspetto nel prossimo futuro quando molti dei lavori ripetitivi e meccanici saranno svolti dall’Intelligenza artificiale, molti uffici saranno ripensati e trasformati grazie alla tecnologia, molte dinamiche lavorative cambieranno e molte persone perderanno il lavoro. Si dice che nell’era dell’IA, dell’automazione e della robotica assisteremo ad una progressiva disumanizzazione, a una trasmutazione antropologica, si dice pure che comunicazione, empatia e collaborazione saranno centrali. Mi chiedo, in una previsione di cambiamento e di incertezza, in un mondo che sarà popolato di robot, macchine e internet delle cose, quanto davvero saremo capaci di creare, coltivare e valorizzare, le relazioni umane. Quanto saremo bravi a mettere in campo le

nostre qualità umane. Già oggi, se pensiamo ai millennials, sono così digitali da non essere in grado di instaurare una comunicazione a voce ma solo uno scambio fulmineo con sconosciuti in pochi caratteri scritti. Jonathan Safran Foer nel suo romanzo Eccomi sottolinea come l’uomo non abbia bisogno solamente di essere connesso ma anche di contatto, attenzione e empatia. Sarà dunque sempre più centrale ricercare queste competenze allenando sul posto di lavoro l’abilità di saper comunicare, entrare in relazione, preoccuparsi del prossimo. A questo proposito è appena uscito un volume interessante The War for Kindness: Building Empathy in a Fractured World di Jamil Zaki, direttore del Laboratorio di neuroscienze sociali alla Stanford University. A suo avviso, l’abilità di strutturare i nostri luoghi di lavoro, le scuole, gli spazi


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Cure dentarie L’ortodonzia si è fatta sempre

più strada nel mondo degli adulti

Maria Grazia Buletti Quando pensiamo all’apparecchio ai denti, è molto comune associarlo ai bambini o agli adolescenti perché ancora oggi sussiste la convinzione che, da «grandi», oramai ci sia poco o nulla più da fare per la propria dentatura. «Ma i trattamenti ortodontici da adulti sono possibili e garantiscono ottimi risultati, dato che i denti si possono spostare ortodonticamente sempre». La dottoressa Paola Merlo è medico dentista SSO/STMD, specializzata in ortodonzia e ci parla «dell’apparecchio ai denti» riferito alla persona adulta. Forte del master in ortodonzia per adulti, la nostra interlocutrice conferma e legittima la possibilità di prendersi cura del proprio sorriso a qualsiasi età: «L’ortodonzia, soprattutto quando è mirata agli adulti, è spesso “estetica”: rispecchia molto bene le necessità sociali e personali di questa fascia d’età, proponendo soluzioni alternative ai classici attacchi in metallo». Sviluppatasi soprattutto negli anni Ottanta, è una «scienza relativamente giovane», sebbene già a inizio Novecento se ne parlava, pur con la consapevolezza che i benefici fossero alquanto limitati. Convinzione non condivisa da tutti gli operatori del settore, motivo per cui si registrò un ritardo dell’avvento del trattamento ortodontico nel paziente adulto. Negli ultimi vent’anni l’incremento significativo delle richieste di prestazioni ortodontiche sono dettate da diversi fattori: «L’aumento della vita media, un migliore standard socio-economico, maggiore conoscenza della salute dentale, più interesse per l’estetica e la consapevolezza di poter intervenire in casi particolari come la sistemazione preprotetica degli spazi, le disfunzioni temporo-mandibolari e il perfezionamento delle tecniche di gestione delle anomalie scheletriche (grazie alla chirurgia ortognatica)». Inoltre, dagli anni Ottanta si è aggiunto il grande sviluppo tecnologico: «Ora siamo in grado di elaborare leghe metalliche estremamente elastiche (nichel titanio) e tutto ciò ha permesso di mutare l’ortodonzia mobile (prevalentemente nei bambini) in ortodonzia fissa». Fra trattamento nel bambino per rapporto all’adulto c’è un distinguo: «Creare un’occlusione ideale, anche stimolando la crescita in una certa direzione piuttosto che in un’altra, è l’obiettivo primario nel bambino, mentre

nell’adulto è esclusivamente quello di muovere i denti». La dottoressa Merlo illustra l’evoluzione che ha permesso di proporre differenti tipi di apparecchi: «Prima avevamo solo gli attacchi esterni, poi negli anni 70/80 in Giappone hanno ideato l’ortodonzia linguale che dispone di attacchi linguali posizionati all’interno delle arcate dentali e perciò invisibili, aprendo la terapia a tutti quelli che avrebbero rinunciato per questioni di estetica. Si è aggiunto di recente l’allineatore trasparente: una tecnica relativamente semplice soprattutto per i casi low profile, che può essere applicata anche dal dentista generico a patto di una rigorosa selezione del caso». Gli aspetti tecnici si intersecano con quelli di confort. Ne risulta che l’ortodonzia nell’adulto è individualizzata secondo esigenze del paziente e obiettivi del trattamento: «L’aspetto di confort è indubbiamente superiore negli allineatori, ma richiede una collaborazione attiva, mentre ci sono persone che preferiscono delegare l’apparecchio fisso alla responsabilità dell’odontoiatra. Quello linguale comprende una tecnica molto più specifica, secondo la severità del caso, e non è idonea a tutti». In concreto, tracciamo il profilo del paziente adulto che si rivolge all’ortodontista: «Il 70-80 percento è di sesso femminile, con età media tra 35 e 40 anni, ma non c’è limite d’età e vediamo pazienti che rifanno i trattamenti perché hanno perso una quota del risultato raggiunto da ragazzi, ma anche adulti che da piccoli non hanno potuto o voluto mettere l’apparecchio e realizzano l’esigenza da grandi. Il nostro record di trattamento è per una persona di 74 anni. Senza dimenticare i pazienti francamente patologici che sono però molto rari (occlusioni causanti problemi articolari e casi complessi il cui livello di difficoltà aumenta, con indicazione medica che va approfondita)». Ortodonzia per tutti, dunque, dove nel fare la differenza non è l’età, bensì la salute parodontale: «Il parodonto è una struttura situata tra l’alveolo e il dente: la sua elasticità (atta ad ammortizzare i carichi della masticazione) rende i denti mobili, come succede con gli ammortizzatori delle automobili. La sua salute è essenziale: è più pericoloso mettere un apparecchio in una persona trentenne con parodontite acuta, che in un sessantenne sano».

La dottoressa Paola Merlo, medico dentista SSO/STMD e specializzata in ortodonzia. (Vincenzo Cammarata)

Altre controindicazioni al trattamento, oltre alla parodontite, riguardano i «pazienti che usano bifosfonati (farmaci per l’osteoporosi) perché estremamente fragili dal profilo chirurgico, pazienti diabetici o trapiantati (a causa del farmaco antirigetto) e fumatori (presentano condizioni infiammatorie gengivali peggiori, iperemia gengivale, maggiore fragilità delle mucose). La prognosi favorevole del trattamento rimane facilitata dal parodonto sano». I vantaggi del trattamento ortodontico nell’adulto sono facilmente comprensibili, mentre gli svantaggi in quanto tali sono controllabili, a una condizione: «Dobbiamo andare incontro all’aspettativa estetica del paziente, i denti allineati comportano vantaggi igienici perché più facili da pulire, nei pazienti patologici riduciamo significativamente i sintomi e, nel contempo dobbiamo valutare molto bene gli aspetti di fattibilità, i rischi di recessioni gengivali e quant’altro. Tutto ciò è

possibile solo attraverso la creazione di una relazione con il paziente dove sono indispensabili empatia e soprattutto ascolto, prima di renderlo edotto sul trattamento». Il percorso ortodontico può avere una durata variabile secondo il caso, da qualche mese a un paio d’anni, ma non finisce qui: «L’adulto deve comprendere che l’investimento non sarà limitato ai mesi di trattamento, perché poi l’impegno, seppur minore, durerà tutta la vita con una eventuale contenzione sugli incisivi, controlli periodici e tutto quanto contribuisca alla conservazione del risultato nel tempo». Un sorriso perfetto non è il risultato auspicabile ed entriamo nel labirinto del «fascino del difetto»: «Un mio professore ci insegnava a lasciare un incisivo laterale leggermente ruotato, per lasciare una piccola imperfezione». Così la dottoressa Merlo ci ricorda che: «La natura è molto più imperfetta nel posizionare i denti in bocca che nella crea-

zione, ad esempio, delle valvole cardiache (il cuore è statisticamente molto più perfetto che non la dentizione). Non dimentichiamo che le funzioni vitali della masticazione sono assicurate anche con difetti di mal occlusione. Ma perseguire l’estetica non è affatto disonorevole e spesso si collega a vantaggi clinici e a migliore funzionalità».

Video intervista Sul canale Youtube di «Azione» e su www.azione.ch la videointervista alla dottoressa Paola Merlo.


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Immergersi in un acquario naturale

Ambiente e Benessere

Reportage Un viaggio nel rispetto della terra: Brasile, Mato Grosso do Sul, Pantanal Sud – Seconda parte

Un banco di Piraputanga; su www.azione.ch si trova una galleria fotografica più ampia. (Franco Banfi)

Sabrina Belloni Un sistema naturale in mutazione perenne, composto da sorgenti, fiumi, cascate, grotte e caverne ha dato vita a un ambiente unico e rigoglioso. Si rimane talmente affascinati dalle trasformazioni che la natura impone all’ambiente, e c’è così tanto da osservare sopra e sott’acqua, che talvolta è difficile decidere dove concentrare l’attenzione. Come abbiamo già scritto nella prima parte del reportage (apparsa su «Azione 22» del 27 maggio 2019), il Brasile ospita la più vasta pianura alluvionale del pianeta, il Pantanal, ed è solcato da alcuni dei maggiori fiumi: il Rio delle Amazzoni, il Paranà e il São Francisco. All’estremo sud di questa area, vicino al confine con la Bolivia e il Paraguay, troviamo la Sierra da Bodoquena, un grande plateau di rocce carsiche che appartiene al bioma del Cerrado, una vasta savana. Le rocce calcaree che formano la Sierra da Bodoquena si dissolvono facilmente nell’acqua dolce proprio perché ricoperte dalla foresta di latifoglie. Il carbonato di calcio delle rocce calcaree, infatti, è praticamente insolubile in acqua ; diventa solubile se entra in contatto con la decomposizione al suolo delle sostanze organiche provenienti dalla foresta. In tal caso avviene una reazione chimica che porta alla trasformazione del carbonato di calcio insolubile in bicarbonato di calcio che è solubile, e quindi può venire asportato in soluzione dalle acque superficiali e sotterranee, che lo trascinano via e lo allontanano dalla roccia. Le acque piovane colpiscono le rocce, esercitando un’azione erosiva di tipo meccanico, cioè con lo sgretolamento e l’asportazione delle particelle. Inoltre, esercitano la loro azione di dissoluzione insinuandosi nelle fratture delle rocce e ampliandole sempre più; con il tempo si formano cunicoli e cavi-

tà dove l’acqua può scorrere liberamente e velocemente. Ne nasce un sistema idrico sotterraneo all’interno della roccia calcarea, che forma caverne, grotte, cascate, fiumi che scorrono parzialmente sottoterra e con una trasparenza incredibile. I vari aspetti carsici (doline, caverne, inghiottitoi e sorgenti, eccetera) sono suddivisi in sei diverse unità morfologiche. Nella parte più occidentale della Sierra, il labirinto carsico è caratterizzato da un appiattimento del suolo e da diffuse infiltrazioni attraverso fratture verticali. Nella zona nord, la morfologia carsica è nascosta dai grandi alvei fluviali che si sviluppano in pianure alluvionali e canyon. A est, l’aspetto predominante è caratterizzato dagli altipiani carsici con doline, il suolo è ricoperto da uno spesso strato di terreno con alcune piccole colline. Ci sono depositi di tufo nel sistema di drenaggio fluviale e altri depositi più antichi si manifestano con terrazze risalenti all’era neozoica, pertanto abbastanza recenti geologicamente parlando. Nell’area sud-est ci sono pianure di arenaria con innumerevoli doline, il che evidenzia la presenza di suolo carsico sottostante. Il percorso dei fiumi inizia da sorgenti carsiche e si sviluppa lungo tutto il plateau in direzione delle pianure più basse. Le acque di una trasparenza impressionante sono ricche di bicarbonato che alimenta l’accumulo di depositi di tufo calcareo di grande bellezza e di notevole attrazione turistica. Poiché il suolo è carsico, le acque dei fiumi e ruscelli scorrono sopra e dentro uno dei filtri naturali più efficienti che il pianeta dispone; le impurità sono depositate sul greto e ne risulta una trasparenza fra le maggiori al mondo, come se fossero acquari naturali. Le risorgive sono perle di bellezza, nascoste dalla fitta foresta del Cerrado. Facendo snorkeling a Baia Bonita ab-

biamo osservato parecchie specie di pesci, incluso i piraputanga (Brycon hilarii), i dourados (Salminus brasiliensis), i pacu (Piaractus mesopotamicus), i cachara (Pseudoplatystoma fasciatum) e il matogrosso (Hyphessobrycon eques) un piccolo pesce dalla livrea rosso acceso. Prima d’ora, non avevamo mai nemmeno sentito nominare questi animali, che sono simili a pesci gatto, a carpe e trote. I pesci ricoprono un ruolo di grande rilevanza per la biocenosi dell’area, soprattutto i pesci frugivori. Essi mangiano prevalentemente frutti e semi, e di conseguenza distribuiscono i semi in vaste aree. L’abbondanza di frutta è un elemento importante per la catena alimentare. Abbiamo potuto osservare con i nostri occhi la voracità dei pesci frugivori, come i piraputanga (nel doppio ruolo di predatore e di preda), e quella dei pesci carnivori, come il bellissimo dourado (come predatore). I dourados, conosciuti con il nome di River Tiger, hanno l’abilità di saltare fuori dall’acqua con facilità. Possono crescere sino a circa un metro di lunghezza e

pesare sino a 30 kg. Hanno un’indole aggressiva, con potenti mascelle e denti affilati. Il fondo delle risorgive è delimitato da bellissima vegetazione sub-acquatiche, color smeraldo, che crea bellissimi contrasti con l’azzurro dell’acqua. Alcuni fiumi annoverano cascate generate dall’accumulo contro le rocce calcaree dei tronchi e rami del Cerrado circostante, e pertanto dalla grande concentrazione nell’acqua di carbonato di calcio. Sul greto dei fiumi ricoperti da vegetazione abbiamo osservato le razze di acqua dolce, l’unico gruppo di elasmobranchi (tipi di squali del Paleozoico) che si è adattato a vivere esclusivamente in questi ambienti. Prima di intraprendere questo viaggio, non sapevamo dell’esistenza di queste razze. Come la maggior parte dei subacquei, credevamo che questi animali vivessero solamente nell’acqua marina. In Sud America, le razze di acqua dolce presentano caratteristiche biologiche ed ecologiche uniche, sebbene poco studiate. In Brasile c’è la maggiore concentrazione di specie, all’incirca quindici. Così come quelle marine,

Un Granchio d’acqua dolce (Sylviocarcinus australis), fiume Formoso. (Franco Banfi)

questi animali sono molto timidi. La loro capacità di imitare il substrato dove vivono e pertanto di camuffarsi deriva dal comportamento bentonico; trascorrono la maggior parte del tempo immobili, accuratamente nascoste sul fondale, aspettando le loro prede. In questo ecosistema così fitto di vegetazione, non dobbiamo mai dimenticarci di guardarci attorno e allungare lo sguardo alle nostre spalle: caimani e anaconda possono essere nascosti ovunque. Solitamente sono molto timidi e nuotano via velocemente, ancor prima di riuscire a vederli. Come in molte aree in Brasile, abbiamo dovuto chiedere il permesso al proprietario del terreno prima di effettuare qualsiasi attività. Le fazende hanno una vastità enorme, anche oltre 5mila ettari, con allevamenti di bovini di dimensioni inimmaginabili. Le trattative richiedono tempo e pazienza, oltre al pagamento di un importo ai fazendeiros; è il prezzo da pagare per poter accedere al fiume e godere della bellezza della natura selvaggia. Abbiamo caricato una piccola barca di alluminio con tutta la nostra attrezzatura e pagaiato per quattro chilometri lungo il Rio Formoso. Sulla sponda del fiume abbiamo visto un Cuvier’s Dwarf Caiman (Paleosuchus palpebrosus), conosciuto con il nome di Jacaré in Brasile. Arrivati in un punto con poca corrente, abbiamo deciso di indossare la nostra attrezzatura e farci trasportare a valle dal fiume. L’acqua era abbastanza torbida e non trovando zone con buona visibilità, abbiamo preferito tornare a bordo. Oltre alla fauna e flora meravigliose che abbiamo potuto osservare in Brasile, oltre al cibo saporito, alla convivialità dei brasiliani, quello che più ci è rimasto nel cuore è il rispetto e l’amore delle popolazioni locali per la loro terra, l’attaccamento e la difesa del loro territorio.


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Ambiente e Benessere

La cröiscia mangia bambini Itinerari Un’escursione tra storia e leggenda sui sentieri della valle di Blenio

Romano Venziani, testo e immagini «Rubavano anche i bambini e quando erano belli grassi li mangiavano. Un giorno una cröiscia è scesa dalla montagna, ha preso un bambino e l’ha portato su, l’ha chiuso in una gabbia di legno e gli dava da mangiare per farlo ingrassare. Ogni tanto gli controllava un dito attraverso le sbarre per vedere se era diventato grasso». La signora in bianco e nero, animata dallo scorrere dei fotogrammi della vecchia pellicola, racconta la sua storia con tranquilla convinzione, guardando dal basso lo spilungone tedesco e assicurandosi alla fine di ogni frase che questi abbia capito e annotato tutto nel suo taccuino. «Quando era pronto, l’ha fatto uscire dalla gabbia. Il bambino era diventato piuttosto grande (con la mano tesa mima l’altezza) e mentre la cröiscia si chinava sulla pentola, per vedere se l’acqua in cui voleva farlo cuocere stesse bollendo, il bambino l’ha presa per le gambe e l’ha rovesciata dentro. Così è morta l’ultima pagana». La pellicola ha un sussulto, mentre la donna guarda con aria interrogativa lo spilungone. Alto e magro, con un’incombente calvizie che gli allarga la fronte e le tempie, Lukas Högl prende accuratamente nota del racconto, imperturbabile nella tuta di lavoro, mostrando solo un accenno di sorriso alla sua conclusione.

«Un giorno (…) mi è apparso un uomo, vestito come un cavaliere medievale. Camminava, piano, accompagnato da una dama, che indossava un lungo vestito…». Quando percorro la Valle di Blenio mi viene sempre in mente questa scena e ricordo quanto mi aveva divertito la prima volta che l’avevo vista, in quel vecchio filmato riesumato dalle teche della RSI. Parlava delle case dei pagani (chiamate anche ca’ di cröisc, o case dei grebels), le singolari costruzioni aggrappate alle pareti rocciose, che troviamo soprattutto nella Valle del Sole. Lukas Högl, architetto zurighese appassionato di storia medievale, che è stato il primo a occuparsi in modo veramente «scientifico» delle case dei pagani, stava terminando i suoi rilievi a Malvaglia e a Dongio, per raccogliere informazioni tra gli abitanti del posto, ultimi depositari di una memoria storica che, forse, avrebbero permesso di fare chiarezza sul perché antichi abitatori della valle si fossero ingegnati a tirar su con i loro scarsi mezzi queste ardite costruzioni.

Disegno dell’itinerario della «Cröiscia che mangiava i bambini».

Högl ne ricaverà soltanto rimasugli di leggende impastati in nebulosi racconti, ma le analisi al carbonio 14 dei reperti trovati sul posto gli riveleranno un dato sicuro: le prime case dei pagani sono state costruite attorno all’anno Mille e saranno utilizzate almeno fino al 14.esimo secolo. Tutto il resto rimarrà un intrigante mistero. E non è l’unico in questa vallata alpina, importante e trafficata via di comunicazione tra l’Europa del nord e il mondo mediterraneo per tutto l’alto Medioevo. Prendiamo ad esempio la strana scritta incisa su una roccia nel bosco, sopra Semione: «NVRO 1799 CFEHOPA PUESPASISI». Questo, a occhio e croce, quanto si riesce ancora a decifrare. Che cosa significa? E chi l’ha scolpita? Nel settembre del 1799, la relativa tranquillità delle nostre terre è sconvolta dal passaggio dell’esercito austrorusso del generale Suvorov, diretto al nord delle alpi, per congiungersi alle truppe alleate di Korsakoff e combattere contro i francesi, per scacciarli dalla Repubblica Elvetica. Sono oltre ventimila uomini, stanchi e affamati, che seminano il terrore tra la popolazione locale costretta a foraggiarli, privandosi di quel poco che gli offre la già misera economia di sussistenza. A Biasca, l’esercito si divide, una parte affronta la salita verso il passo del San Gottardo, un’altra prende la via del Lucomagno. Pare che, avviandosi su per la valle del Brenno, due Cosacchi,

forse più disperati degli altri, disertano, fuggendo sulla montagna. La scritta si dovrebbe a loro, che l’incidono su una roccia, prima di finire morti ammazzati e buttati giù da un dirupo da parte di un contadino, a cui volevano rubare il maiale. Per duecento anni quell’iscrizione rimane un mistero, fino a quando «un signore di Biasca, che conosce il russo, è riuscito a tradurla». A raccontarmi quest’ultimo dettaglio era stata Mariella Becchio, ex docente e appassionata di storia locale, che mi aveva accompagnato, ormai una ventina di anni fa, al cospetto del misterioso petroglifo. «È scritta in caratteri latini – mi aveva spiegato – ma è russo e significa “Nicola 1799 immergersi nella natura”». Sono ritornato, sulla montagna, un paio di mesi fa, ma orientarmi nel mio ricordo è stato come avventurarmi in un’intricata e confusa boscaglia. E della famosa roccia incisa non ho più trovato alcuna traccia. Poco lontano, però, c’è Navone. È una bella scoperta, ad arrivarci per la prima volta, Navone. L’antico nucleo, con le stalle, le cascine e il singolare oratorio ottagonale di Santa Maria Bambina, è adagiato su un incantevole terrazzo naturale, che si distende a 770 metri di quota. Doveva essere abitato stabilmente, in passato, come sembrerebbe suggerire l’ampia campagna, che si estende a sud dell’insediamento (ci sono ancora le buche in cui si conservavano le patate) e il toponimo ul Scimantéria, il

cimitero, «che indicherebbe la presenza, in tempi remoti e non identificati, di sepolture». Vi arrivo seguendo uno dei quattro sentieri storici creati tra il 2006 e il 2013 da Blenio Turismo: il numero 1, un itinerario circolare di una quindicina di chilometri, che inizia ad Acquarossa. A dire il vero, io parto da Motto, vicino alla bella chiesa romanica di San Pietro. Ho calcolato che, per la stagione (è il 19 marzo) e l’orografia della valle, se voglio farmi accompagnare dal sole su tutto il percorso, devo partire da lì. E così ho fatto, incamminandomi una mattina lungo il Brenno, su un viottolo di campagna immerso nel bosco, ciò che resta del tracciato medievale della strada del Lucomagno. Poco oltre, si incontra l’oratorio di Santa Maria del Monastero, dove un tempo esisteva un ospizio per i viandanti. Sull’altra sponda della valle, s’intravvede Dongio, sovrastato dalla sua casa dei pagani appiccicata alla roccia. La natura fa fatica a scrollarsi di dosso il letargo invernale e solo qualche timido fiorellino si assume l’ingrato compito di rompere il ghiaccio. L’aglio orsino ha però già colonizzato il sottobosco con larghe chiazze compatte di un verde brillante. Il paesaggio si distende ora in un’ampia campagna, nel mezzo un’altra chiesa romanica, San Remigio, un edificio biapsidale risalente all’XI secolo. Una sorta d’asceta, immobile nella posizione del loto, medita addossato alla facciata con il viso inondato di sole.

Il sentiero sale poi a Corzoneso e a Casserio, con l’insolita Casa Rotonda, dove ha vissuto il fotografo Roberto Donetta, ora sede dell’archivio dell’omonima fondazione. All’esterno, alcune gigantografie ricordano il tema della mostra in corso in quel momento: gli scatti post mortem del fotografo bleniese. Oltrepassato Casserio, il sentiero s’immerge nel Bosco delle Ganne, tagliando il fianco destro della valle tormentato da antichi scoscendimenti, e infine si distende arrivando ai monti di Valè e di Navone. È deserto Navone, oggi. Nonostante il sole, un vento freddo e caparbio si fa strada nei viottoli e s’intrufola tra le case, sciogliendosi in mille refoli gonfi dei sentori di un inverno che non vuol darsi per vinto. Sul villaggio sta sospesa una strana atmosfera, quasi incantata, una vaga sensazione, come se si stesse penetrando in un mondo indefinito e misterioso. La prima volta che ci sono venuto avevo incontrato una donna, non ricordo che età potesse avere, era uscita da una cascina, mi si era avvicinata e si era messa a narrarmi quanto le era successo. «Un giorno stavo passeggiando laggiù – mi disse, indicando un punto imprecisato tra il profilo ondulato dei prati – all’improvviso mi è apparso un uomo, vestito come un cavaliere medievale. Camminava, piano, accompagnato da una dama, che indossava un lungo vestito. Mi sono passati vicini, in silenzio, e sono scomparsi là, dalle parti della chiesa». Mi ero limitato a risponderle «interessante», con un cenno di assenso del capo, come sono solito fare in simili situazioni. Pare però, che a Navone si avvertano energie contrastanti, per alcuni buone e positive, per altri, invece, oscure e negative, mi aveva raccontato allora Mariella Becchio, con cui avevo visitato il vecchio insediamento. Mariella ha elaborato una sua singolare teoria, secondo la quale ci sarebbe una presenza ebraica nella storia della Valle di Blenio. Una presenza che risale ai primi anni dopo Cristo, quando i Romani avrebbero inviato ebrei di Palestina a colonizzare le vallate alpine. In seguito, ci sarebbero state parecchie diaspore, ultima delle quali quella spagnola, che risale ai secoli XV e XVI, quando molti giudei battezzati, ma rimasti fedeli alla loro fede, i cosiddetti marrani com’erano chiamati con spregio, fuggono dalla penisola iberica, cercando rifugio in altre parti dell’Europa. Sembra ci sia un documento bleniese cinquecentesco che attesti l’arrivo di spagnoli ad Aquila, mentre altri rivelerebbero casi di conversione, non si sa se vera o simulata per sfuggire alle maglie dell’inquisizione. E Navone, mi aveva raccontato Mariella, è il centro di questa presenza ebraica. Guarda caso, nella chiesetta dedicata alla natività della Vergine, un gioiellino barocco risalente alla seconda metà del 1600, c’è un curioso affresco, che decora una lunetta, in alto, dietro all’altare e che rappresenta, come spiega la sottostante iscrizione, la vicenda di un’ebrea ingiustamente incolpata d’adulterio. Il marito, per punizione, la getta da una rupe, ma la Madonna la salva, afferrandola in volo, e la porta al piano dove la giovane si fa battezzare e prende il nome di Maria Salta. L’affresco, del 1678, è commissionato da Giovanni Iollo, «la cui famiglia – precisa Mariella – era di origine ebraica». Interessante, veramente. Informazioni

Sull’altro lato della valle, la casa dei pagani di Dongio.

L’affresco di Maria Salta.

Sul sito www.azione.ch si trova l’itinerario del percorso descritto.


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Benessere animale in Svizzera Una rigorosa legge sulla protezione degli animali La legge federale sulla protezione degli animali rientra tra le più severe a livello mondiale. Garantisce un’alimentazione adeguata alle specie e una tenuta degli animali il più possibile conforme alle loro esigenze. Anche i trasporti sono severamente regolamentati. Il pollame proviene da aziende famigliari svizzere. Mangimi adeguati alla specie Per l’alimentazione degli animali da reddito vengono utilizzati solo foraggi privi di organismi geneticamente modificati. La soia contenuta nei mangimi proviene da produzioni certificate. Il ricorso a ormoni e antibiotici per aumentare le prestazioni è proibito. I polli valorizzano il cibo in modo eccellente: per 600 grammi di carne è necessitano solo un chilo circa di foraggio. Fonte: carnesvizzera.ch Nuovo design: gli imballaggi di tutti i prodotti M-Classic sono stati ridisegnati.

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Ambiente e Benessere

Gli asini di Fes

Fotografia di viaggio

Viaggiatori d’Occidente Il Marocco risorge attraverso il turismo

Concorso In

La Medina di Fes, antica città imperiale del Marocco, è un labirinto claustrofobico. Le case sono simili a torri, addossate le une alle altre, separate da vicoli stretti dove perdersi è inevitabile. I muri esterni sono senza finestre, la casa (dar) si sviluppa in verticale attorno a un piccolo cortile interno. In basso, la frescura di sala e cucina per le ore più calde del giorno, in alto, una terrazza inondata di sole per vivere nella luce radente di mattini e tramonti. Può capitare tuttavia di bussare a una porta simile a tante altre e trovarsi d’improvviso in un riad, la lussuosa dimora di una famiglia importante. La corte centrale diventa allora un grande giardino con fontane e alberi di arance, un’apparizione sorprendente in una città quasi del tutto priva di verde. Se i pochi alberi a Fes devono contendere lo spazio alle case, gli animali sono più numerosi in questa selva di cemento. Capita spesso la mattina di svegliarsi al canto di un gallo. Le galline vengono vendute vive a 19 dirham (un paio di franchi), ma si tira loro il collo sul momento dietro richiesta dell’acquirente. A dire il vero qualche anno fa sarebbe stato normale anche da noi, ma ora scappiamo a gambe levate quando succede. Colombi e altri uccelli attendono il compratore nelle gabbie appese davanti a un negozio. Cani assai pochi, l’Islam non li ama. I gatti in compenso sono infiniti, magri e stentati ma vitali, travolti dal vortice della riproduzione: piccole gatte bambine si prendono cura con straordinaria dedizione di minuscoli micini. E poi ci sono gli asini, indispensabili nelle strette vie della Medina. A loro sono affidati tutti i trasporti: merci per i negozi o materiali per i cantieri. Una mattina mi sono svegliato presto sentendo il raglio di un asino salire dalla strada. Mi sono affacciato dall’alto della terrazza e ho visto nella penombra la sagoma dell’asino e del suo conducente, impegnati nella raccolta della spazzatura. Ogni sera la gente di Fes mette fuori dalla porta il sacchetto di rifiuti. Nella notte i gatti li lacerano

Oliver Majer-Trendel

Claudio Visentin

tutti, nessuno escluso, per nutrirsi degli avanzi. Non per questo si cerca un sistema diverso. Poi all’alba arriva lo spazzino col suo compagno. L’asino ha due grandi ceste ai lati del basto dove vanno a finire tutti i rifiuti, dopo un attento vaglio per recuperare tutto quello che può avere un pur minimo valore. Asino e padrone formano una coppia umile quanto dignitosa. Comunicano tra loro con gesti minimi e parole misurate, forse accomunati dalla poca considerazione sociale. Io invece sento di volergli già bene e nascondo lo zucchero della colazione per gli asini spazzini. Appoggio la zolletta sul palmo della mano ben aperta e l’asino la prende con grande delicatezza. L’amico asino è stato la mia introduzione a questo viaggio nelle città imperiali del Marocco, Fes e Marrakech, così comune da non meritare un racconto. Curioso: quando pensai a questa destinazione, nel cuore dell’inverno, coltivavo il senso di una personale riscoperta. Certo, il Marocco non è una novità: ha investito molto in questo set-

tore e per primo ha invertito la tendenza negativa degli ultimi anni, dopo gli attentati terroristici nel Nord Africa. Già il 2018 è stato un ottimo anno, nonostante la brutale uccisione di due turiste scandinave sui Monti dell’Atlante. Ma era difficile immaginare il successo di questo 2019: il Marocco è di gran moda e parecchi amici mi hanno già preceduto o seguiranno, come scopro ogni giorno attraverso i social. Perché? Difficile rispondere (come anche nel caso del Giappone, l’altra meta prediletta dai viaggiatori in questo 2019). Certo lo scorso anno Madonna ha festeggiato il suo sessantesimo compleanno a Marrakech con un party lungo tre giorni, del quale si è molto parlato; nella stessa città, nel cinquecentesco palazzo di El Badi, a fine aprile Dior ha organizzato una sua sfilata, rilanciata dall’eco sempre più efficace dei blogger scatenati. Ma hanno un loro peso anche sotterranee, cicliche correnti del gusto. Si arriva qui con le compagnie low cost in poco più di due ore di volo, come una qualunque altra città europea dove passare un tranquillo fine settimana. I

controlli doganali sono ben poca cosa in un Paese felice di accogliere turisti. Eppure quando il Marocco entra nel discorso pubblico la distanza fisica sembra aumentare, barriere culturali e religiose si levano. Il potentissimo passaporto svizzero apre le porte di 167 Paesi senza visto, come nel caso del Marocco, o con un semplice visto all’ingresso (fonte: Passport Index). Per i marocchini invece prendere parte al turismo internazionale è una faccenda molto più complicata. Il loro passaporto marocchino è accettato senza visto solo in 71 Paesi (la Svizzera non è tra questi) e avere un visto non è per nulla scontato. Ogni tentativo di recarsi all’estero è guardato infatti con sospetto, nel timore di un viaggio di sola andata. Il Marocco è un Paese povero e popoloso. Da qui molti sono partiti in passato alla volta dell’Europa ma negli ultimi anni la nostra disponibilità ad accogliere immigrati è molto diminuita. In alternativa potremmo importare prodotti agricoli: il Marocco naturalmente soffre la penuria d’acqua, ma nelle buone annate produce frutta e verdura di qualità. Anche qui però da qualche tempo preferiamo aiutare i nostri contadini e consideriamo – giustamente – il «Km 0» un modello da seguire. Resta dunque il turismo. La nostra presenza sostiene l’economia locale dando lavoro ad alberghi, ristoranti e artigiani, specie se avremo l’accortezza di favorire i piccoli negozi di quartiere negli acquisti. L’emergenza climatica sconsiglia viaggi aerei frequenti, meglio quindi pensare a un soggiorno di almeno un paio di settimane in un Paese dove ogni regione è profondamente diversa dalle altre: la storia a Fes, gli artisti e il bel mondo a Marrakech, i surfisti internazionali a Essaouira, sulla costa, le comunità berbere nelle montagne dell’Atlante ancora radicate nelle loro tradizioni. I servizi pubblici funzionano, la sicurezza è garantita, la popolazione è cordiale. Nonostante il suo aspetto leggero e svagato, il turismo è un grande strumento di cooperazione internazionale. Salvare il mondo andando in vacanza: non è un sogno?

collaborazione con Hotelplan Ticino

Il festival internazionale della fotografia LuganoPhotoDays fu creato nel 2012, sviluppando un’intuizione di Marco Cortesi. L’ottava edizione si svolgerà dall’11 al 27 ottobre 2019 alternando esposizioni, conferenze e workshop. Quest’anno al concorso fotografico tradizionale – diviso nelle due categorie «Reportage e fotografia documentaria» / «Natura e fauna selvatica» – si affianca anche un concorso speciale dedicato alla «Fotografia di viaggio», in collaborazione con Hotelplan Ticino. È l’occasione perfetta per guardare con occhi nuovi ai luoghi e ai volti incontrati nei vostri viaggi di questa estate. Le regole? Al concorso possono partecipare esclusivamente fotografi amatoriali e studenti che abbiano compiuto 18 anni di età. Ciascun partecipante può inviare al massimo 25 fotografie singole entro il 15 settembre. I vostri scatti verranno valutati dal fotografo Didier Ruef, affiancato da Gaby Malacrida (portavoce Hotelplan per il Ticino) e dal nostro collaboratore Claudio Visentin, presidente della Scuola del Viaggio. Massima libertà espressiva e nella scelta del soggetto. Il premio per la foto migliore è un buono viaggio del valore di 1000 franchi offerto da Hotelplan Ticino; tre buoni viaggio del valore di 200 franchi ciascuno andranno ad altri tre vincitori selezionati dalla giuria. La premiazione pubblica avrà luogo durante LuganoPhotoDays presso l’ex Macello (viale Cassarate 8, Lugano). Dettagli e iscrizione sul sito www.fotodiviaggio.ch. / Red

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 giugno 2019 • N. 26

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Ambiente e Benessere

Castiglione Olona, isola di Toscana in Lombardia Gita fuori porta Dal cinquecentesco Castello di Monteruzzo al ponte del Seicento, tra contrade e rioni.

La seconda settimana di luglio il piccolo Borgo darà vita al tradizionale palio

Domenico Scarano Secondo Google Maps, quella che sto percorrendo è la strada più lunga delle tre suggerite, ma è sicuramente la più suggestiva. La via attraversa Pianbosco, un’oasi verde costituita da pini, castagni, robinie e querce che si stende tra la provincia di Como e quella di Varese. È sicuramente ciò che resta di una più estesa foresta, tratto ambientale tipico del medioevo, rifugio di banditi, lebbrosi cacciati dalla comunità, servi scappati dai padroni, ma anche di eremiti che cercavano un posto tranquillo dove rifugiarsi. Attraversato il bosco mi aspetta Castiglione Olona, borgo con origini antichissime, conosciuto come «isola di Toscana in Lombardia». Il Rinascimento fu il periodo di massimo splendore di questo villaggio, grazie alle iniziative del Cardinal Branda Castiglioni, che qui portò Masolino da Panicale e Lorenzo di Pietro, dove hanno lasciato affreschi di grande valore. Il mio percorso inizia dal Castello di Monteruzzo, edificio del 1500 nato come residenza agricola, al quale nei secoli successivi sono state aggiunte due alte torri con merlature in cotto, che danno al complesso i tipici caratteri del castello medievale. Da qui si gode una piacevole vista di insieme del vecchio borgo di Castiglione Olona, dominato dalla Collegiata dei Santi Stefano e Lorenzo, fortemente voluta dal Cardinal Branda. Di fatto la sua costruzione sancì una significativa svolta per la storia di questo luogo, a seguito della quale divenne un importante centro spirituale e culturale. (Sul sito www.azione.ch si trova una galleria fotografia) Attraverso la porta di Levante si accede alle vie del borgo, contrassegnate dalla presenza di cortili medievali. Mi dirigo alla «Corte del Doro», suggestivo cortile quattrocentesco dove si affaccia il Palazzo dei Castiglioni di Monteruzzo, che dal 2004 è sede del Museo di Arte Plastica (MAP); qui sono conservate opere di artisti come Man Ray, Giacomo Balla, Enrico Baj e tanti altri. Curioso è il contrasto tra queste opere inserite sullo sfondo di affreschi del Quattrocento. È però l’attività di un uomo ad attrarre l’attenzione, un artigiano che, in camice da lavoro sul lato opposto del cortile, immerge alternativamente un oggetto tenuto con una lunga pinza prima in un catino, poi tra le fiamme sprigionate da un apposito fornello, per poi raffreddarlo in un altro catino contenente presumibilmente acqua. Suggestionato dal luogo, mi sento testimone di un esperimento per la trasmutazione in oro di un frammento di piombo. Scopo dell’esperimento di Tino è quello di ottenere la superficie smaltata in oro e argento dell’argilla; qualcosa che avesse a che fare con l’oro era quindi legittimo sospettarlo. Invitato a entrare

nell’atelier assisto ai primi esiti, non del tutto confortanti. Mi trovo nella sede dell’associazione «Arte degli antichi mestieri». Tino, personaggio a cui è difficile dare un’età, mi racconta che ritiene sia un peccato per Castiglione la perdita della propria stazione ferroviaria che, come scoprirò in seguito, faceva parte della ferrovia della Valmorea, nata soprattutto per il trasporto della merce. Il racconto di Tino crea una strana dissociazione di pensiero in cui immagino un treno che attraversa un paesaggio inserito nel millequattrocento, un po’ come le scene viste nel film Non ci resta che piangere. In occasione della Fiera del Cardinale, che si tiene la prima domenica di ogni mese dal 1973, è possibile ritrovare Tino in compagnia degli altri amici dell’associazione, proprio qui nella Corte del Doro. In piazza Garibaldi, centro del borgo vecchio, si affacciano la chiesa di Villa, riconoscibile per le due grandi statue che adornano la facciata ai lati del portone centrale e palazzo Branda Castiglioni, dimora del cardinale. Edificato tra il XIV e il XV secolo, al suo interno si possono visitare le stanze dipinte da Masolino in stile gotico internazionale. Interessante inoltre è la quadreria che raccoglie i ritratti del casato. Anche la casa di Elena e Franco si affaccia sulla piazza. Entrambi originari di Castiglione Olona, dalle loro parole emerge tutto il proprio attaccamento al paese che li ha visti crescere, della consapevolezza della storia e della necessità che questa venga tramandata. Mi raccontano di lavori di restauro, come quelli eseguiti per la statua di Sant’Ambrogio e quelli

degli affreschi che adornano l’esterno del comune. Dopo aver vagliato e approvato le mie calzature, Elena mi consiglia di raggiungere il ponte del Seicento seguendo il sentiero che si trova accanto al comune. Inoltre, mi raccomanda di non mancare una visita ad Anna, titolare della libreria posta all’angolo della piazza. Prima, però passo, dalla Collegiata. La ripida salita in acciottolato porta direttamente al sagrato della chiesa. La facciata in mattoni rossi si presenta in tutta la sua essenziale e armoniosa bellezza: un rosone bianco sovrasta il portone, finemente decorato da colonnine in pietra. All’interno della lunetta le figure della Vergine con Bambino, il Cardinal Branda e i Santi Ambrogio, Clemente, Lorenzo e Stefano. Fortemente voluta dal Cardinale e consacrata nel 1425 è un tipico esempio di gotico lombardo. La chiesa e il suo battistero sono affrescate dai dipinti di Masolino, Vecchietta e Paolo Schiavo, e sono di una bellezza che non ci si aspetta di trovare qui. Alla biglietteria, mi accolgono due donne, una delle quali, mi fa un breve e conciso riassunto sulla ricca storia di Castiglione Olona. Il Cardinale Branda Castiglione portò con sé da Roma Masolino da Panicale e i suoi collaboratori Lorenzo Di Pietro detto il Vecchietta e Paolo Schiavo, con lo scopo di segnare un’importante svolta per il borgo, verso la cultura che andava affermandosi in quel periodo che aveva il suo fulcro in Toscana. Questo fece di Castiglione il primo centro dell’umanesimo toscano in Lombardia, oltre cinquant’anni prima che Bramante lo portasse a Milano. La visita del complesso della Collegiata, del museo e soprattutto del Bat-

tistero con gli affreschi dei tre artisti, lascia senza parole. Ritorno sui miei passi con l’obiettivo di raggiungere il ponte suggeritomi da Elena. Tra i rami degli alberi intravedo la cisterna di un acquedotto, la cui base si trova all’interno di una struttura della quale non è rimasto che lo scheletro in cemento, nel più classico esempio di archeologia industriale: si tratta della ex cartiera Crespi. Costruita negli anni Trenta del Novecento, offrì lavoro e opportunità ai castiglionesi durante il boom economico. Il complesso rispecchia l’architettura delle filande dell’Ottocento, ed è stata costruita in uno spazio da sempre destinato alle attività produttive, lungo le rive del fiume. Il sentiero che porta sulle rive dell’Olona è breve e non richiede particolare impegno. Attraversato il ponte Seicentesco raggiungo l’altro lato, dove si possono osservare le antiche mura di Castiglione, dominate dal Castello di Monteruzzo. È da qui che passava la ferrovia della Valmorea che collegava Castellanza a Mendrisio, di cui fa parte il tratto Stabio-Mendrisio. Come accennato da Tino, nel 1977 la linea è stata dismessa e al posto dei binari ora corre una pista ciclabile che mi riprometto di percorrere. Ritornato all’interno del villaggio, questa volta attraverso la porta di Ponente, mi avvio verso la libreria, dove Anna mi accoglie con un serafico sorriso. Uno dei locali della libreria, dove sono impilati numerosi libri di ogni genere ed epoca, faceva parte di un’ala del palazzo della famiglia Castiglioni, adibita a cappella di famiglia prima che venisse trasformata in deposito. Anna, mi consiglia di incontrare Marilena,

che mi descrive come la vera anima storica del paese. Dalle sue parole emerge che il borgo vecchio è un’isola, dove i residenti costituiscono una comunità molto affiatata. Durante la mia permanenza in libreria, sono diverse le persone di tutte le età che entrano per un saluto e per scambiare due chiacchiere. Tra loro anche Marilena, che scopro essere la donna che alla biglietteria della collegiata con poche parole mi ha illuminato riguardo il sogno utopico del Cardinale Branda. Sono otto le contrade che ogni anno dal 1972 si contendono il Palio dei Castelli. Il rione vincitore si aggiudica il Pallium, uno stendardo che ad ogni edizione viene dipinto da un diverso artista. I Pallium sino qui assegnati sono conservati presso la sede della pro loco, di cui Mario è consigliere. Mi spiega che attraverso la corsa dei cerchi, gara che vede impegnati ragazzi ambosessi dai sette e tredici anni, si definisce l’ordine di partenza della corsa delle botti, che rappresenta il culmine della manifestazione e che determina il vincitore del Palio. Ogni contrada è rappresentata da cinque bottari che fanno rotolare le pesanti botti, lungo le tortuose e ripide vie medievali. Diverse le manifestazioni che animano il piccolo Borgo durante il palio, che si tiene generalmente la seconda settimana di luglio (quest’anno dal 28 giugno al 7 luglio): mostre, concerti, intrattenimenti accompagnati da figuranti in abiti d’epoca. Di particolare interesse è il Tema storico, con il quale attori professionisti e un nutrito numero di comparse in abiti rinascimentali, rievocano un episodio che vede protagonista il Cardinal Branda Castiglioni, episodio diverso per ogni edizione. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 giugno 2019 • N. 26

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Ambiente e Benessere Migusto La ricetta della settimana

Tarte flambée con fiori di zucchina Piatto unico Ingredienti per 8 persone: 18 piccole zucchine col fiore · farina per spianare la

migusto.migros.ch/it/ricette Per diventare membro di Migusto non ci sono tasse d’iscrizione. Chiunque può farne parte, a condizione che un membro della sua famiglia possieda una Carta Cumulus.

pasta · 1 cipolla rossa · 180 g di crème fraîche · 200 g di formaggio erborinato, ad es. Castello blue · pepe dal macinapepe. Pasta: 250 g di farina bianca · 120 g di farina di spelta originale integrale · 1½ cc di sale · 15 g di lievito fresco · 2,2 dl d’acqua, tiepida · 2 c d’olio d’oliva. 1. Per la pasta: mescolate i due tipi di farina con il sale. Sciogliete il lievito nell’acqua e incorporatelo alla farina. Aggiungete l’olio e impastate fino a ottenere una pasta liscia ed elastica. Se necessario, aggiungete un po’ di farina all’impasto. Coprite e lasciate lievitare l’impasto in un luogo caldo per circa 1 ora, finché raddoppia di volume. 2. Scaldate il forno ventilato a 220 °C. Mondate i fiori di zucchina e rimuovete gli stami. Dimezzate l’impasto e spianatelo su poca farina fino a ottenere una sfoglia di circa 3 mm di spessore. Accomodate le due sfoglie su due teglie foderate con carta da forno. 3. Tagliate la cipolla a fettine sottili. Spalmate la crème fraîche sulle due sfoglie di pasta. Distribuite le zucchine con i fiori e le fettine di cipolla. Guarnite con il formaggio spezzettato e con una macinata di pepe. Cuocete in forno per 10-12 minuti, finché le due sfoglie diventano croccanti. Sfornate e servite subito. Preparazione: circa 30 minuti + lievitazione circa 1 h + cottura in forno 10-12

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 giugno 2019 • N. 26

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Ambiente e Benessere

Da campesino a Campeón Giancarlo Dionisio Per buona parte di noi europei, Ecuador significa bancarelle con maglioni, magliette e cuffie variopinte, che affiancano quelle di miele, formaggelle e salumi nostrani alle feste campestri. Oppure minute signore in abiti tradizionali andini, con bimbo accanto, che intrattengono musicalmente gli automobilisti alle casse degli autosili. Il più delle volte le corde del loro charango, così come quelle vocali, non al top dell’intonazione. Ciò nonostante spesso ci lasciamo intenerire e facciamo scivolare qualche monetina nella cuffia appoggiata al suolo. In un’epoca in cui aumenta l’intolleranza razziale, i piccoli campesinos ecuadoriani riescono ancora a raccogliere un po’ della nostra solidarietà e della nostra empatia. Magari con un pizzico di supponenza o di senso di superiorità da parte nostra. In queste ultime settimane il paese latinoamericano è balzato agli onori delle cronache, sportive e non, grazie a un suo cittadino che, in pochi giorni, è assurto a ruolo di eroe nazionale. Richard Carapaz, 26enne di El Carmelo, nella regione del Carchi, a pochi chilometri dal confine con la Colombia, a oltre 3000 metri di altitudine, era stato lo scorso anno il primo ecuadoriano a vincere una tappa al Giro d’Italia. Quest’anno lo scalatore che veste la maglia della spagnola Movistar si è superato. Di tappe ne ha vinte due, e si è aggiudicato anche la classifica finale della corsa rosa. Il presidente dell’Ecuador, Lenin Moreno, leader dello schieramento di sinistra, ha pubblicamente magnificato le imprese di questo giovane campione, figlio di umili con-

tadini di montagna, che ha contribuito a illuminare l’immagine del paese nel mondo. Lo ha soprannominato «La locomotora del Carchi», e al rientro in patria gli ha tributato gli onori che di solito spettano a un autentico eroe di guerra. Qualcuno in Occidente potrebbe stupirsi e gridare al miracolo. In realtà, il trionfo di Richard Carapaz rientra in un processo di mondializzazione e di democratizzazione del ciclismo in atto da alcuni decenni. Un processo fortemente voluto dall’olandese Hein Verbruggen, presidente dell’Unione Ciclistica Internazionale dal 1991 al 2005. Dubito che avesse finalità filantropiche, quanto piuttosto l’idea di ampliare il bacino dei praticanti e dei paesi connessi con il mondo del pedale, in modo da accrescere il mercato, l’indotto e la forza del ciclismo nei confronti delle TV, in materia di diritti di diffusione degli eventi. Gli obiettivi sono stati parzialmente raggiunti, anche se la forza finanziaria del ciclismo non si è sviluppata come avrebbero desiderato Verbruggen e i suoi successori. L’arrivo, negli anni Novanta, dei corridori dell’ex blocco sovietico, è semplicemente figlio delle vicende politiche dell’epoca, quando dal dilettantismo di Stato si è potuti passare al professionismo e al libero mercato anche in ambito sportivo. A ondate successive sono arrivati in seguito: australiani, britannici, statunitensi e canadesi, i quali hanno semplicemente realizzato che il ciclismo, oltre alla pista, contempla anche la strada, e che, nonostante i vari scandali per doping dei due decenni passati, può essere un eccellente veicolo promozionale.

Chulu Sakaz

Sport La vie en rose, ovvero quando una corsa ciclistica riscatta un’intera nazione

Stiamo parlando ad ogni modo di paesi con una lunga e solida tradizione sportiva. Nell’ultimo decennio è stata sdoganata definitivamente anche la presenza in gruppo di corridori provenienti da paesi ciclisticamente

esotici. Ji Cheng è stato il primo cinese a partecipare e a concludere Giro, Tour e Vuelta, tra il 2012 e il 2015. Prima di lui, nel 2009, Fumiyuki Beppu e Yukiya Arashiro erano stati i primi giapponesi a portare a termine la Grande Boucle. Il

tutto in attesa degli africani che, ormai invincibili nella corsa a piedi, una volta colmato il gap tecnologico e finanziario, potrebbero cominciare a dominare anche nel ciclismo. Nel frattempo, la Dimension Data-Qhubeka, squadra sudafricana iscritta al World Tour, sta distribuendo attraverso una fondazione migliaia di biciclette ai bambini che abitano lontano dalla scuola. Un discorso a parte lo merita l’America Latina, soprattutto quella dei paesi andini, autentica palestra naturale che sta sfornando una generazione di fenomeni. Il numero dei corridori colombiani eccellenti sta dilagando negli ultimi anni. Dopo l’epoca di Lucho Herrera, sono giunti eccellenti cronoman come Santiago Botero, campione del mondo; quindi la generazione di Nairo Quintana, vincitore di Giro e Vuelta, più volte sul podio al Tour; infine giovani astri come Egan Bernal, Miguel Angel Lopez ed Esteban Chaves, oltre a Fernando Gaviria, il quale ha dimostrato che i colombiani possono essere anche degli straordinari velocisti, tanto in pista, quanto sulla strada. Insomma, roba da fare invidia ai paesi tradizionalmente egemoni, fra i quali la Svizzera. È un ciclismo in controtendenza. In un cosmo in cui i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, il mondo del pedale ridistribuisce corse, risorse e onori sull’intero pianeta. Magari qualcuno vorrebbe qualche trionfo svizzero, italiano, belga od olandese in più, tuttavia il fatto che un fenomeno eticamente contestato come il ciclismo possa appiccicarsi al petto la medaglia della democratizzazione non è poi così male.

Giochi

Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku

Cruciverba Forse non tutti sanno che… Completa la frase leggendo, a cruciverba ultimato, le lettere evidenziate. (Frase: 2, 5, 3, 6, 2, 5, 1, 2, 6)

ORIZZONTALI 1. Cavalletta 7. Anagramma del 21 orizzontale 8. Laggiù in fondo 9. Le iniziali del giornalista Giannino 10. Irlanda in autostrada 12. Nicotinammide Adenina Dinucleotide 14. Si apre per salire 17. Luna in tedesco 20. Posto, collocato 21. Interrompe certi programmi... 22. Regione occidentale dei Paesi Bassi 24. Spumante asciutto... 26. Articolo 27. Un capitolo del Corano 29. Un anagramma di set 30. Un tessuto interno... 31. Ai lati dell’accampamento

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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch

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I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.

VERTICALI 1. Le iniziali del Settembrini 2. Prefisso che vuol dire orecchio 3. Una di famiglia 4. Su per gli inglesi 5. Un gigante per strada... 6. Sale per riunioni solenni 10. Suffisso chimico di molti composti organici 11. Brani eseguiti singolarmente 13. Fernando famoso pilota di Formula 1 15. Stato dell’America del Sud 16. Tentare arditamente 17. Folla a… Buckingham Palace 18. Morbida borraccia 19. Aforisma 23. Fasullo a Londra 25. L’America che si adopera... 28. Diede i natali al Petrarca (Sigla) Partecipazione online: inserire la

soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-

Sudoku Soluzione:

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Scoprire i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.

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Soluzione della settimana precedente

IL PROVERBIO NASCOSTO – Proverbio risultante: PRESTO E BENE NON MARCIANO INSIEME. P E P E N A D I R

E V A S A R E N E

R E A B M E P E R L A N E T A I O A M D I I E T

C A N T O C A S T

O S T O S R A C E S A U G A S L A M E A M A R T A A R R I S N I A O T O I L O A M E

A R O M A I R A N

luzione, corredata da nome, cognome, indirizzo, email del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 giugno 2019 • N. 26

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Politica e Economia Mosca fa marcia indietro La Russia rilascia il giornalista Gulanov sotto pressione di una mobilitazione di piazza senza precedenti

Scena politica esplosiva Un governo italiano in perenne fibrillazione, con le due componenti, Movimento Cinque Stelle e Lega, l’un contro l’altra armati su molte questioni essenziali, ma non sul rapporto con le istituzioni europee

Cyberwar Usa-Russia La guerra di Internet fra i due Paesi, ignorata a lungo da Obama, sta subendo una escalation

Legalize it? La commissione federale per le questioni relative alle dipendenze a favore di un mercato legale e regolamentato della canapa pagina 31

pagina 29

pagina 30

AFP

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Scenari di guerra

Golfo di Oman I misteriosi attacchi a due petroliere hanno fatto puntare il dito di Washington contro Teheran

che ha subito smentito. Ma ci sono altri attori nella regione che spingono verso un confronto armato contro l’Iran Lucio Caracciolo Il misterioso attacco contro due petroliere nel Golfo di Oman (13 giugno) e il conseguente rafforzamento del contingente militare Usa nella regione (più mille uomini) hanno recentemente alzato la tensione nell’area più incandescente del mondo. La domanda regina: una guerra fra Stati Uniti e Iran è possibile? La risposta: sì, ma improbabile. L’attacco contro i tanker nelle acque bordeggianti la Penisola Arabica è stato subito attribuito dagli americani e dai loro amici – in primo luogo israeliani, sauditi e altre petromonarchie assolutiste del Golfo Arabo/Persico – alla Repubblica Islamica d’Iran. La quale ha naturalmente respinto l’accusa. Siamo in piena guerra di propaganda. È dunque legittimo, anzi necessario, dubitare di quanto ci viene venduto dalle parti in causa. Potrebbe trattarsi di una provocazione dei pasdaran iraniani, recentemente bollati

come «terroristi» da Washington, o all’opposto di un tentativo dei nemici regionali dell’Iran di accentuare la pressione su Teheran, se non di spingere verso un conflitto che immaginano si risolva nella liquidazione della loro nemesi – il regime dei pasdaran e degli ayatollah. Di sicuro in entrambi i campi ci sono gruppi di potere disposti a giocare la carta bellica pur di far valere i propri interessi. Per non farci mancar nulla, Teheran ha annunciato che a brevissimo termine violerà i termini dell’accordo sul nucleare del 2015, fortemente voluto da Obama e denunciato da Trump. L’uranio sarà arricchito a un grado superiore rispetto a quello fissato, come risposta alla violazione americana del patto sottoscritto e alle crescenti sanzioni internazionali pilotate da Washington, che stanno minando l’economia dell’Iran e quindi la sua stabilità interna. Considerando poi che l’invio dei mille soldati si aggiunge a quello di

altri millecinquecento solo poche settimane fa, se ne conclude che Teheran e Washington stanno giocando all’escalation. Presumendo di poterla controllare. Ma quando si entra in una logica di guerra la guerra può a un certo punto prendere il sopravvento sulla logica. Il timore immediato degli Stati Uniti è un attacco a basi o assetti militari propri o alleati nella regione, da parte dei pasdaran o di loro proxies. Ipotesi da considerare. Dal maggio scorso la Guida Suprema Ali Khamenei sta insistendo con i suoi apparati perché accelerino un cambio di strategia, passando all’offensiva su una scala più ampia di quella regionale. In altre parole, il regime di Teheran dev’essere pronto a colpire interessi e posizioni americane dovunque possibile, direttamente o via gruppi affiliati (Hizbullah è in cima alla lista). Ciò per rendere il nemico più insicuro e costringerlo alla difensiva. Inoltre, il regime usa le minacce

americane per compattare la popolazione intorno alla difesa della patria, non solo della Repubblica Islamica. Nelle emergenze, la carta patriottica è l’ultima risorsa dei regimi. Né gli americani fanno molto per evitare che questa «nazionalizzazione» dell’opinione pubblica persiana sia contenuta in limiti accettabili. Ci sono altri attori nella regione che spingono per un confronto armato contro l’Iran. Non necessariamente un’invasione di terra, che si risolverebbe in una carneficina e in una guerriglia permanente, ma scontri indiretti in Medio Oriente (Iraq, Siria, Afghanistan, Yemen, Libano, Palestina…il catalogo è lungo) per fiaccare la volontà e la coesione della Repubblica Islamica. In prima linea c’è la coppia sauditoemiratina, appoggiata da Israele. È soprattutto il leader degli Emirati Arabi Uniti, Mohammed bin Zayed, mentore del più giovane e meno scaltro amico e collega saudita Mohammed bin

Salman, a propugnare la necessità di farla finita con Teheran, in un modo o nell’altro. Il principale fattore ostativo alla deriva bellica sta nell’ormai avviata campagna elettorale negli Stati Uniti per il rinnovo del presidente della Repubblica. Trump si è già concentrato sulla sua rielezione nel novembre 2020 e non ha interesse a «sporcare» il suo primo quadriennio con una guerra dalla dubbia popolarità e dall’ancora più incerto esito. Come il suo predecessore, l’attuale inquilino della Casa Bianca vuole evitare che il grosso delle forze combattenti americane s’impelaghi in una grande guerra in aree non decisive per gli interessi nazionali. Ma nessuno, nemmeno il presidente degli Stati Uniti, può avere il pieno controllo degli eventi. Una guerra per accidente è eventualità sempre meno vaga, nel momento in cui la postura dei due campi si fa costantemente più aggressiva.


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Politica e Economia

Il potere russo perde molte libertà

Fra i libri di Paolo A. Dossena

Il caso Golunov Arrestato e poi rilasciato il giornalista che indagava la corruzione a Mosca.

Svolta senza precedenti di Putin costretto a cedere di fronte alle proteste della piazza

Le prime pagine di «Kommersant», «Vedomosti» e «RBK» solidali con Golunov. (AFP)

Anna Zafesova «Noi siamo Ivan Golunov»: tre prime pagine uguali dei tre quotidiani economici principali, andati a ruba in pochi minuti. Centinaia di persone sotto la sede centrale della polizia di Mosca, che si succedevano in picchetti solitari – l’unica forma di protesta spontanea concessa dalla legge russa – con cartelli «Libertà a Ivan Golunov». Milioni di post sui social network, anche di persone che fino a quel momento non si erano mai interessate alla politica. La mobilitazione, senza precedenti, ha ottenuto un risultato anch’esso senza precedenti: Ivan Golunov, reporter d’inchiesta del sito d’opposizione Meduza, accusato di spaccio di stupefacenti, è stato rilasciato dalla prigione ed è tornato a casa scagionato da tutte le accuse.

Oltre a una mobilitazione senza precedenti a favore di Ivan Golunov, la vicenda ha prodotto una spaccatura anche nell’establishment Non era mai successo prima che le autorità russe facessero marcia indietro, nemmeno per detenuti più illustri per i quali intervenivano governi e importanti Ong internazionali. Il caso di Golunov, che per Meduza indagava la corruzione a Mosca – prima dell’arresto stava preparando un’inchiesta sulle malversazioni nel business funerario della capitale – era iniziato in un modo classico: arresto con un capo d’accusa palesemente inventato, ma preso dal codice penale, proprio per tutelarsi da critiche di persecuzione politica. Un metodo utilizzato da anni dalla polizia russa, con i dissidenti illustri come l’oligarca Mikhail Khodorkovsky fino agli ambientalisti che protestavano contro la costruzione di dacie dei bu-

rocrati nelle riserve naturali: incriminazione per evasione fiscale, o una bustina di droga «rinvenuta» nelle tasche dopo l’arresto, e una condanna pesante, inflitta nonostante le proteste e le denunce dei difensori dei diritti umani nazionali e occidentali. Con Golunov però la macchina si è inceppata. L’opinione pubblica russa si è riconosciuta proprio in un cronista onesto, che non era una star del dissenso liberale, non aveva una grande fama mediatica, non era affiliato esplicitamente a nessun partito o personaggio (pochi giorni prima, per l’arresto altrettanto clamorosamente ingiustificato del braccio destro di Alexey Navalny, Leonid Volkov, la solidarietà era stata molto meno diffusa). La solidarietà per Golunov ha travalicato i confini ristretti del salotto liberale di Mosca, e la fila di manifestanti che si avvicendavano sotto la sede della polizia di Mosca ha mostrato al mondo un nuovo volto della protesta: giovani, giovanissimi, troppo giovani per aver partecipato alle manifestazioni dell’inverno 2011 contro i brogli elettorali, una nuova generazione, t-shirt divertenti, tatuaggi d’autore, cartelli spiritosi disegnati a mano e spesso un sorriso offerto agli agenti di guardia. Che, a testimonianza di molti presenti, si sono mostrati spesso solidali e in conversazioni private hanno criticato i loro superiori per questo arresto così brutale, con tanto di fotografie false di sacchi di droga «trovati» nel monolocale di Golunov. Questo è stato il secondo aspetto inedito della vicenda del giornalista, insieme a una mobilitazione senza precedenti. Il caso Golunov ha prodotto una spaccatura anche nell’establishment. A suo favore si sono espressi pubblicamente molti personaggi dei media e dello spettacolo finora molto leali al Cremlino. Tre quotidiani – «RBK», «Vedomosti» e «Kommersant» – abbastanza allineati al governo, e anzi finiti recentemente sotto accusa per aver occultato notizie sgradite alle autorità o cacciato giornalisti scomodi, sono usciti con prime pagine identi-

che di solidarietà al reporter arrestato. E dopo che la protesta ha continuato a montare, anche personaggi al vertice del potere, come il presidente del Senato Valentina Matvienko hanno esplicitamente criticato la polizia di Mosca. Un caso senza precedenti che segnerà probabilmente una svolta nella politica russa. Una delle spiegazioni possibili del «lieto fine» per Ivan Golunov potrebbe essere un conflitto tra i vari clan al potere: pare che il giornalista avesse preso di mira un ufficiale dei servizi segreti, l’Fsb, implicato nel business funerario di Mosca. Ma soprattutto le autorità hanno mostrato di non sentirsi più abbastanza salde da ignorare la protesta. Il caso Golunov è arrivato alla fine di un mese nero per il governo russo. A maggio a Ekaterinburg la popolazione si è ribellata all’apertura del cantiere di una chiesa voluta dall’oligarca locale nel parco cittadino. La protesta ha coinvolto centinaia di persone, che hanno buttato la recinzione del cantiere e si sono scontrate con la polizia e con i picchiatori dell’Accademia di arti marziali dell’oligarca. Dopo decine di arresti nella vicenda ha dovuto intervenire Vladimir Putin, e il cantiere è stato sospeso, segnando la fine di un altro caposaldo del sistema, l’intoccabilità del patriarcato ortodosso. «Meno chiese, più ospedali» era uno degli slogan più diffusi della protesta, segnale di un disagio sociale e economico sempre più diffuso.

Appare chiaro che il prodigio del consenso all’86 per cento a Putin non è più ripetibile, anche perché non si vede una soluzione al ristagno economico Che però oggi sono un ricordo del passato: perfino gli istituti demoscopici filogovernativi assegnano al presidente solo il 31% di fiducia dei russi, dopo

vette di 86% nel 2014. Un terzo è un numero più che cospicuo in un sistema democratico, ma in un regime che ha basato la sua forza su un consenso quasi unanime è un allarme rosso, come dimostrato anche dal moltiplicarsi di proteste locali, di cui quella nella capitale degli Urali è solo la più importante. A Shies, nel nord della Russia, gli abitanti hanno bloccato la ferrovia per impedire l’arrivo dei rifiuti da Mosca. Nella campagna di Penza gli abitanti hanno fischiato il governatore venuto a spiegargli che il loro conflitto con i rom locali era stato «istigato da agenti occidentali». Allo stadio di Pietroburgo i fischi del pubblico hanno impedito alla vicepremier per il Welfare, Olga Golodez, di finire il suo discorso. Lo scontento è sempre più diffuso e palpabile, tra scioperi di medici, manifestazioni di insegnanti e insulti al governo sui social. Alle elezioni municipali di settembre i candidati del governo rischiano di perdere sia a Mosca che a Pietroburgo, dove Navalny ha aperto contro di loro una campagna serrata e ben organizzata. E molti candidati di Russia Unita, il partito putiniano, si presentano come «indipendenti», per dissociarsi da una formazione politica troppo screditata. L’inaspettata liberazione di Ivan Golunov – mai prima d’ora il regime aveva lasciato andare una sua vittima – è conseguenza di questa insicurezza del potere russo, che si rende conto di non potersi più permettere una libertà di manovra totale, di aver perso il sostegno della maggioranza silenziosa. La fine del mandato presidenziale – legalmente l’ultimo – di Putin, nel 2024, apre la partita del passaggio di potere, e all’élite russa appare chiaro che il prodigio del consenso all’86% non è più ripetibile, anche perché non si vede una soluzione al ristagno economico. In attesa di quello che molti temono sarà il collasso del sistema i suoi attori iniziano un gioco di riposizionamento. Come scrive Alexandr Baunov, direttore di Carnegie.ru, «il potere non si è umanizzato, ma sta diventando più razionale, che spesso significa anche più umano».

MadeLeiNe ALBRigHT, Fascismo. Un avvertimento, Chiarelettere, 2019 L’UCK kosovaro era una banda di terroristi fondamentalmente musulmani che si auto-finanziava in Svizzera attraverso droga e prostituzione (si parlò perfino di un possibile traffico di organi umani). Nel 1998, l’UCK fu improvvisamente rimosso dalla lista statunitense delle organizzazioni terroristiche. All’epoca il Segretario di stato americano (ministro degli Esteri) era la signora Madeleine Albright, l’architetto dei bombardamenti Nato del 1999 in Kosovo (noti anche come «la guerra di Madeleine») in opposizione alla pulizia etnica serba nella regione, ma anche in appoggio all’UCK. Il quale, da allora, secondo la propaganda della signora Albright, è diventato un’organizzazione di «combattenti della resistenza». E questa non è che una delle trappole del libro, che si presenta come un saggio di politologia, riducendosi invece a una meschina bega tra politici americani. Infatti, il bersaglio del saggio è Donald Trump, un uomo certamente ignorante e senza tanti scrupoli, ma che viene descritto come un «fascista», il che è faziosa polemica e non politologia. «Perché infine», scrive Albright, «a questo punto del Ventunesimo secolo, si è tornati a parlare del fascismo? Uno dei motivi, a voler essere onesti, è Donald Trump». Dell’onestà, in questo libro non c’è nemmeno l’ombra: il saggio è anche una galleria di ritratti di dittatori, che vanno dal finanziatore dell’Isis Erdogan al populista serbo Milosevic. Bene, gente così diversa, dall’islamista all’estremista populista, viene tutta buttata, insieme a Trump, nel calderone del «fascismo». Ecco quindi cosa scrive ancora la signora Albright: «Chavez anelava a occupare un posto nel Pantheon del suo Paese accanto a Bolivar, e quel sogno lo portò a un passo dal fascismo. Nel frattempo dall’altra parte del mondo, un uomo diverso da lui, ma con ambizioni simili», Erdogan, «andava incontro alle stesse tentazioni… Come Chavez in Venezuela, Putin partì con il piede giusto» ma poi assunse un atteggiamento tale che «nemmeno Mussolini arrivò a tanto». (Putin, secondo Albright, è talmente brutto da sembrare «quasi un rettile»). Dopo questa grottesca carrellata, c’è il gran rientro della signora Albright nella politica americana, che comincia con un’auto-celebrazione: «Quando, nel gennaio del 2001 abbandonai la scrivania del dipartimento di stato… l’influenza americana era al suo culmine». Poi, le menzogne: la signora dichiara di essere sempre stata contraria alla guerra in Iraq del 2003, ma la giornalista Linda Qiu del «New York Times», ha smascherato la pretesa opposizione della signora Albright. La quale appoggiò quella guerra. E infatti, a un certo punto scrive: «Promuovere i valori democratici è uno sforzo legittimo, che non sempre va a buon fine ma, quando ciò avviene, si traduce in un’ottica di maggiore rispetto per l’individuo e di miglior governo per la società… lo scopo primario della politica estera è molto semplice: convincere gli altri paesi a fare ciò che vorremmo. Per raggiungerlo abbiamo vari strumenti a disposizione, che vanno dal rivolgere richieste educate a inviare l’esercito sul posto». E così una banda che viveva su droga e prostituzione divenne un esercito di patrioti che appoggiò l’azione Nato.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 giugno 2019 • N. 26

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Politica e Economia

Divisi su tutto (o quasi) Italia Il rapporto tempestoso con la Ue è il solo punto che continua

a unire i due alleati di un governo in perenne fibrillazione

Salvini negli Usa: così fan tutti

Visita È andato a Washington per una sorta

di incoronazione personale Federico Rampini

Il premier Giuseppe Conte. (AFP)

Alfredo Venturi Un governo italiano in perenne fibrillazione, con le due componenti, Movimento Cinque Stelle e Lega, l’un contro l’altra armati su molte questioni essenziali, con l’asimmetria dei consensi fra un leghismo trionfante e un grillismo in crisi, e un presidente del consiglio che cerca di farsi arbitro della situazione, si muove disordinatamente sulla scena internazionale. Da una parte conferma la sua vocazione euroscettica, il solo elemento sul quale le due parti concordano, dall’altra si fa protagonista di qualche significativa correzione di rotta. Per esempio uno dei due vicepresidenti, il ministro dell’Interno Matteo Salvini, è volato a Washington dove si è fatto interprete di un’adesione totale all’ottica del presidente Donald Trump su molti temi, dall’immigrazione alla politica fiscale, dall’atteggiamento verso l’Europa fino al comune incoraggiamento di una hard Brexit. Implicita una sostanziale revisione della tradizionale posizione filo-russa, rispetto alla quale Salvini, che proclama l’Italia giallo-verde l’alleato più fedele dell’America trumpiana e lo stesso Trump un modello da imitare, si limita a insistere sulla inopportunità delle sanzioni. Dobbiamo evitare, ha detto agli interlocutori americani, di gettare la Russia nelle braccia dei cinesi. Parole queste che l’altro dioscuro della scena politica romana, il ministro dello Sviluppo economico Luigi Di Maio, non trova certamente di suo gusto, lui che è un difensore appassionato della «nuova via della seta», il vasto progetto di penetrazione politicocommerciale lanciato dalla Cina. Ma Di Maio, penalizzato dai sondaggi di opinione e dai risultati delle elezioni parziali che si succedono dopo il fiasco nelle regionali, ultimo il voto amministrativo in Sardegna, non può che abbozzare. Sente sul collo il fiato pesante di Salvini e teme che il leader leghista voglia capitalizzare il suo momento magico chiamando gli italiani al voto parlamentare anticipato. È vero che l’alleato-rivale non perde occasione per rassicurarlo, ripetendo che il governo durerà tutti e quattro gli anni che ci separano dal termine fisiologico della legislatura: ma è chiaro che

Azione

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

la posizione di forza della Lega, unita alle divergenze spesso sostanziali con i Cinquestelle, sembrano fatte apposta per spingere Salvini alla soluzione elettorale. Secondo alcune indagini demoscopiche, potrebbe addirittura vincere da solo, senza bisogno di tornare all’ovile del centro-destra né tanto meno di confermare l’alleanza attuale. In questo contesto si colloca, tempestoso come sempre, il rapporto del governo di Roma con le istituzioni dell’Unione Europea. È il solo punto che continua a unire i due alleati di governo, ma con sfumature diverse. Come è suo costume, Salvini fa la voce grossa, sostiene che l’attuale dirigenza di Bruxelles è stata sfiduciata dal voto, invoca la necessità per l’Italia di stimolare la sua economia con un programma davvero trumpiano di forti sgravi fiscali, anche a costo di violare i parametri di Maastricht e il patto europeo di stabilità. Gli fa eco, con parole molto più pacate, Giuseppe Conte, che dalla scomodissima posizione di presidente del consiglio oscurato dall’ombra ingombrante dei suoi vice sostiene che l’Unione deve rinunciare alla priorità della finanza sulla politica. Quanto a Di Maio, di fronte ai reiterati inviti alla responsabilità finanziaria provenienti da tutti gli altri paesi membri se la cava con una battuta molto napoletana ma sostanzialmente evasiva: siamo persone responsabili, ma non siamo fessi. Come se non bastasse l’annosa ruggine fra Roma e Bruxelles, il governo giallo-verde si trova a dover fronteggiare le riserve e le critiche dei due maggiori paesi membri dell’Unione. Un recente intervento del governo di Parigi ha impedito, per ragioni che sono subito state etichettate come stataliste e anti-italiane, la fusione di due colossi dell’automobile, Fca (a sua volta generata dalla fusione di Fiat e Chrysler) e Renault. Poiché c’è già un precedente, relativo a un progetto analogo nel settore della cantieristica navale, a Roma se ne deduce con una certa amarezza che i francesi non si fidano dell’Italia, analisi confortata da alcune uscite del presidente Emmanuel Macron. Del resto quest’ultimo non perdona ai Cinquestelle di avere corteggiato i suoi oppositori interni, i gilet jaunes, nonostante la loro inclinazione

alle maniere forti, né ai leghisti la loro richiesta che la Francia faccia di più in materia di accoglienza dei migranti. Infine la relazione Roma-Parigi è intossicata dalla ben nota rivalità a proposito della Libia. Anche la Germania è nel mirino delle polemiche governative italiane. Non soltanto perché come Paese egemone ha tanta parte nelle decisioni politiche dell’Unione, o perché ha ridotto a mal partito la Grecia obbligandola a una dolorosissima strategia di rientro dagli errori finanziari del passato, ma anche per una questione che paradossalmente proprio lo scoop di un giornale non certo vicino ai giallo-verdi, «La Repubblica», ha portato all’attenzione dell’opinione pubblica. Si tratta dei cosiddetti dublinanti, cioè di quei migranti che in base all’accordo di Dublino vengono rispediti nel paese di primo approdo, che per evidenti ragioni geografiche s’identifica soprattutto con l’Italia, o la Spagna o la Grecia. Di fatto Berlino ha approfittato largamente di questa possibilità, rimandando in Italia negli ultimi mesi alcune migliaia di profughi, spesso sedati per tenerli tranquilli. Alle proteste di Roma si risponde che la procedura è prevista da un patto che il governo italiano, a suo tempo guidato da Matteo Renzi, ha liberamente firmato assieme agli altri. L’opposizione, e in una certa misura anche i Cinquestelle, non mancano di far notare che tutto questo significa il fallimento della politica migratoria di Salvini. Una politica contrastata di fatto dagli stessi paesi amici dell’attuale governo italiano. Perfino il quartetto di Visegrad (Ungheria, Polonia, Cechia e Slovacchia), molto vicino a Salvini su temi come l’immigrazione o la flessibilità dei vincoli dell’Unione, sul primo punto rifiuta di partecipare alla redistribuzione dei profughi invocata da Roma, mentre sul secondo si allinea ai paesi virtuosi del Nord nel chiedere all’Italia di non compromettere con i suoi bilanci allegri la stabilità finanziaria europea. Per la Polonia, che si sente minacciata dalla Russia di Vladimir Putin, il premio di consolazione delle ultime sortite internazionali di Salvini, che hanno vistosamente modificato l’originaria posizione filo-Mosca.

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Il 3 gennaio 1947, un venerdì di 72 anni fa, il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi stava preparando la sua visita negli Stati Uniti, disteso su una cuccetta del quadrimotore Skymaster, diretto da Roma a Washington. Altri tempi, non esistevano ancora i jet e per volare in America ci volevano due scali di rifornimento carburante. Altri tempi anche per il contesto geopolitico: il democristiano De Gasperi, nato in Trentino quando era ancora nell’impero austro-ungarico, andava ad accreditarsi come il leader più affidabile per schierare l’Italia «dalla parte giusta», nella divisione del mondo che si stava delineando agli albori della Guerra fredda. Ne avrebbe ricavato dei frutti con un primo prestito americano, a cui sarebbero seguiti i fondi del Piano Marshall. Per quanto il mondo di oggi sia irriconoscibile, c’è una costante: la ricerca di un accreditamento negli Stati Uniti da parte dei politici italiani. Un po’ tutti sono passati di qui. Anche in tempi recenti. Silvio Berlusconi cercò una sponda presso i neoconservatori di George W. Bush. Massimo D’Alema con la partecipazione del suo governo alla guerra Nato nel Kosovo si era guadagnato l’appoggio di Bill Clinton. Il vicepremier e ministro dell’Interno Matteo Salvini è l’ultimo di una lunga lista, in questa moderna forma di vassallaggio. È andato anche lui a Washington per una sorta d’incoronazione personale: come l’unico vero trumpiano nel governo italiano, la sponda affidabile di questa Amministrazione Usa. Negli incontri col segretario di Stato Mike Pompeo e col vicepresidente Mike Pence ha preso nettamente le distanze dal presidente del Consiglio Conte e dal Movimento 5 Stelle su atti qualificanti della politica estera italiana. Ha celebrato la sua appartenenza alla grande famiglia internazionale dei nazionalisti-sovranisti, con la benedizione del capofamiglia. «Altro che governo isolato – ha potuto dire Salvini al termine della visita – Nella fragilità dell’Unione europea l’Italia è un punto di riferimento per gli Stati Uniti. Siamo il Paese a cui i dirigenti americani si sentono più vicini, siamo l’alternativa allo strapotere franco-tedesco, e io sono venuto a rinsaldare questa vicinanza valoriale». Salvini è accreditato di un nuovo ruolo come interlocutore favorito di questa Amministrazione USA che nei confronti dell’Unione europea ha una ostilità aperta. Sono numerosi i temi sui quali parlando con i dirigenti USA ha sconfessato il suo alleato di governo e il premier. La firma del Memorandum con la Cina sulle Nuove vie della seta? «Condivido le preoccu-

pazioni americane, bisogna controllare le ingerenze di un Paese autoritario nelle nostre infrastrutture strategiche». Sul Venezuela? «Fosse per me avremmo riconosciuto Guaidò. Non si può sostenere un dittatore criminale come Maduro». Sull’Iran? «Non possono dire di voler cancellare Israele dalla faccia della terra». Salvini ha usato la riforma fiscale di Trump come una clava contro le regole di bilancio europee: «In America hanno ridotto le tasse sulle imprese, come voglio fare io con la flat tax. Risultato: una disoccupazione scesa al 3,6%, un minimo storico. Ridurre le tasse è la volontà dei cittadini espressa nel voto». «È quello che Bruxelles deve capire. Se Bruxelles insiste sui tagli è più difficile dire no alla Cina». Salvini si allinea su ogni piega della politica trumpiana verso l’Europa: condivide l’appoggio del presidente americano all’ultrà Boris Johnson che vuole un hard Brexit; fa sue le critiche di quest’Amministrazione repubblicana per la «latitanza dell’Europa in Africa». Evoca la possibilità che l’Italia imiti gli Stati Uniti nel tagliare contributi alle agenzie ONU. Sull’immigrazione ammira la linea trumpiana che punta a filtrare gli arrivi selezionandoli in base a qualifiche e talenti professionali. Lo zelo filotrumpiano lo porta a una forzatura: minimizza la minaccia dei dazi. «L’Italia non è nel mirino, vogliono colpire Germania e Francia». In realtà il Prosecco e altri vini italiani sono nella lista dei dazi incombenti, e la componentistica per auto made in Italy sarà danneggiata se perde colpi l’export tedesco. L’unico tema su cui Salvini mantiene una distanza dagli Stati Uniti, è la sua affinità con Vladimir Putin. Mentre Trump ha inasprito le sanzioni economiche contro la Russia, lui rimane contrario: «È meglio avvicinare la Russia a noi, che spingerla nelle braccia della Cina». Chi si aspetti vantaggi concreti da questa affinità elettiva, non si faccia illusioni. Invece di fargli regali sui dazi, sono gli americani ad aver presentato il conto a Salvini: gli hanno chiesto garanzie sulla realizzazione del gasdotto Tap, quello che porterà metano dall’Azerbaijan, a cui Washington tiene per motivi strategici in quanto dovrebbe ridurre la dipendenza europea dal gas russo. «America First» è uno slogan che non lascia spazio per concessioni agli alleati. Per di più è ormai iniziata la corsa alla Casa Bianca per il 2020 e questo presidente in cerca di rielezione sarà implacabile nel favorire le sue constituency: dai metalmeccanici di Detroit agli agricoltori dell’Iowa. De Gasperi tornò da quella prima missione americana con un credito di cento milioni di dollari (di allora). Salvini deve accontentarsi di un successo d’immagine.

Stretta di mano tra Matteo Salvini e Mike Pompeo. (Keystone) Tiratura 102’022 copie Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 giugno 2019 • N. 26

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Politica e Economia

Guerra fredda? Un lontano ricordo Cyberwar Un rapporto dell’Ue svela gli attacchi hacker russi alle scorse elezioni, e il NYT racconta

la rappresaglia americana contro le centrali elettriche russe. E intanto Putin usa Internet non solo per perseguire obiettivi di politica estera ma anche a scopo interno per controllare la rete Christian Rocca Il conflitto che una volta si chiamava «guerra fredda», perché combattuto con operazioni coperte e di spionaggio, oggi si è trasferito nel cyber spazio, su Internet, con Russia e Stati Uniti impegnati in una sfida sotterranea a colpi di disinformazione online e di sabotaggi informatici. La cyberwar tra le due potenze è stata lanciata unilateralmente dal Cremlino di Vladimir Putin, il quale anni fa si è convinto che Internet fosse «un progetto della Cia» per destabilizzare la Russia. Da qui i primi attacchi di Mosca ai sistemi informatici in Ucraina e in Estonia per danneggiare movimenti e governi locali pro occidentali e anti russi.

Questa guerra virtuale fra i due Paese è stata a lungo sottovalutata da Barack Obama che non ha fatto nulla per contrastarla Questa guerra virtuale è stata a lungo sottovalutata dall’America di Barack Obama, nonostante fosse al corrente dell’attacco del Cremlino al processo democratico americano del 2016 e a quello dei paesi europei alleati. Obama ha fatto poco o nulla per contrastare la strategia del caos di Putin, anche perché era convinto che alle elezioni americane avrebbe comunque prevalso Hillary Clinton. Anche Donald Trump, accusato di essere stato il beneficiario dell’intervento russo, all’inizio del suo mandato presidenziale ha sottovalutato gli attacchi russi a quel punto accertati dalle sue agenzie di intelligence, quasi a voler spazzare via il sospetto che la sua elezione avesse a che fare con la strategia del Cremlino, anche se, al contrario, la sua passività ha gettato ulteriori ombre sulla presidenza. Da qualche tempo, però, Trump ha cominciato a rispondere in modo deciso agli attacchi informatici russi. Nel 2018, il Pentagono ha disattivato la fabbrica dei troll di San Pietroburgo, ancora all’opera in occasione delle elezioni di metà mandato del 2018 e da allora la questione è diventata centrale nelle strategie di sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Trump e il Congresso di Washington hanno autorizzato lo United States Cyber Command, la divisione del Pentagono che si occupa delle

La rete elettrica russa sarebbe ora attaccabile da parte degli Usa, secondo il «New Yok Times». (AFP)

operazioni militari offensive e difensive online, a contrastare i russi. In particolare, l’estate scorsa Trump ha firmato il National Security Presidential Memoranda 13 con il quale ha autorizzato preventivamente il generale Paul Nakasone del Cyber Command a condurre operazioni online senza bisogno di specifica approvazione presidenziale. Il Congresso, sempre l’estate scorsa, ha approvato una norma che autorizza il Pentagono a condurre «attività militari clandestine» nel cyber spazio volte a «impedire, proteggere e difendere gli Stati Uniti da attacchi e attività informatiche dolose», senza bisogno di coinvolgere di volta in volta il presidente degli Stati Uniti (è sufficiente il consenso del Segretario della Difesa). La settimana scorsa, il «New York Times» ha svelato la penetrazione americana nei sistemi informatici della rete elettrica russa, condotta dal Cyber Command grazie alla legge approvata dal Congresso. Gli americani, secondo il «New York Times», ora sono in grado di spegnere l’elettricità russa, anche se al momento sembra che abbiano semplicemente voluto far sapere di essere in grado di farlo, cosa che peraltro da

tempo si dice che anche i russi possano fare con la rete americana, come del resto hanno già fatto nel dicembre 2015 in Ucraina. «Alla Russia e a chiunque altro impegnato in operazioni informatiche contro di noi, stiamo dicendo “pagherete un prezzo”», è stato il commento del Consigliere per la sicurezza nazionale di Trump, John Bolton. Il Cremlino ha risposto confermando che la notizia del «New York Times» rischia di inasprire e intensificare le attività di cyberwar, ma anche rassicurando i cittadini sulle capacità del sistema informatico russo di difendersi dagli attacchi elettronici. Il principale terreno di confronto tra le due potenze è quello dell’opinione pubblica e, di conseguenza, il momento elettorale in cui il consenso pubblico si pesa. Su questo fronte i russi hanno un vantaggio competitivo incolmabile, da un lato perché gli occidentali per lungo tempo hanno soltanto assistito all’offensiva russa e dall’altro perché il controllo del Cremlino sul processo democratico interno non ammette deroghe ed è dotato di strumenti capaci di dissuadere e reprimere gli oppositori. Un report della Commissione europea, reso noto nella sua versio-

ne preliminare la settimana scorsa a Bruxelles, ha accusato dei non meglio identificati «gruppi russi» di aver condotto una campagna di disinformazione online sui social media, Facebook, Whatsapp, Twitter e YouTube, in occasione delle elezioni europee di maggio per scoraggiare i cittadini europei a recarsi alle urne. Il rapporto non lega i gruppi russi al Cremlino né valuta l’efficacia dell’attacco, ma conferma che le attività ostili russe per favorire le formazioni politiche di estrema destra e fomentare il caos in Europa non si sono mai arrestate. Il risultato elettorale europeo ha contenuto la temuta avanzata continentale dei gruppi sovranisti e populisti vicini alle posizioni del Cremlino e ora è prevedibile che le nuove istituzioni dell’Unione si attrezzeranno in modo diverso per fronteggiare le prossime campagne di disinformazione e gli ulteriori attacchi informatici degli agenti russi del caos. Putin, intanto, è impegnato a usare Internet anche sul fronte domestico. A maggio, il presidente russo ha firmato una legge che crea quello che è stato definito «un Internet sovrano», ovvero una rete web parallela che gira su server russi. I provider internazionali dovran-

no installare sui loro server un meccanismo tecnologico che consente alle autorità locali di instradare il traffico esterno di dati su un sistema «sovrano» controllato dai russi. L’obiettivo dichiarato è difensivo, cioè quello di evitare che la Russia rimanga isolata in caso di attacco informatico alla rete Internet, ma in realtà è uno strumento di controllo dei dati e di dominio del cyber spazio. Il meccanismo, inoltre, consentirebbe alla Russia di avvicinarsi al modello cinese, dove Internet è controllato dallo Stato. Le prime avvisaglie di quello che potrebbe succedere su scala nazionale grazie alla nuova legge, si sono viste a ottobre in Inguscezia, una zona russa nel Caucaso settentrionale: quando migliaia di oppositori si sono radunati davanti ai palazzi governativi, improvvisamente si sono accorti che Internet non funzionava più e non ha funzionato più per oltre due settimane, fino a quando le proteste si sono fermate anche a causa dell’impossibilità di comunicare. Quando la protesta è ricominciata, gli operatori telefonici russi hanno di nuovo staccato Internet e impedito all’opposizione ogni forma di comunicazione. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 giugno 2019 • N. 26

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Politica e Economia

Nuova spinta per legalizzare consumo e produzione di canapa

Politica delle droghe Basandosi su risultati di nuovi studi, la Commissione federale per le questioni relative

alle dipendenze propone di abolire il divieto del consumo dei derivati della canapa in Svizzera

Stefano Castelanelli L’Olanda, famosa in tutto il mondo per i campi di tulipani, i mulini a vento e i suoi pittori è anche conosciuta per la sua politica permissiva verso il consumo di canapa. Nei Paesi Bassi il consumo di canapa è infatti tollerato dal 1976. I prodotti possono essere acquistati e consumati in negozi specializzati, i famosi coffeeshop olandesi. Ma il modello olandese si basa su un paradosso. La vendita e il consumo di canapa sono infatti tollerati, la produzione tuttavia è vietata. I gestori dei coffeshop per tanto sono obbligati a rifornirsi da rivenditori illegali. Il modello olandese di tolleranza verso il consumo di canapa è stato per tanti anni un’eccezione visto che in altri paesi il consumo era vietato. Negli ultimi anni tuttavia la situazione è cambiata. Diversi Stati americani e due paesi, il Canada e l’Uruguay, hanno legalizzato e regolamentato il consumo di canapa.

Il Svizzera la canapa che contiene meno di 1% di THC può essere acquistata legalmente, ciò ha portato all’emergere di nuovi mercati per prodotti a base di cannabidiolo In questi paesi i prodotti si possono acquistare in negozi specializzati, farmacie o online e si possono consumare a casa o nei luoghi pubblici. L’introduzione di un mercato regolato di canapa ha il vantaggio di favorire la nascita di un’industria locale per la produzione di canapa. Inoltre la qualità e la distri-

buzione dei prodotti sono controllate dallo Stato. Non da ultimo tasse e licenze di produzione alimentano le casse pubbliche. Anche in Svizzera secondo il parere della Commissione federale per le questioni relative alle dipendenze sarebbe opportuno introdurre un mercato legale e regolamentato di canapa. La proposta della Commissione presentata a fine aprile si basa sui risultati di quattro studi che ha commissionato per aggiornare le conoscenze sul consumo di canapa. In Svizzera una persona su dieci dichiara di aver consumato canapa almeno una volta all’anno. Tuttavia nel nostro paese il suo consumo è vietato. Le persone che ne fanno uso sono punibili con una multa di 100 franchi. Secondo gli studi della Commissione l’uso di canapa non comporta un rischio elevato. Solo alcune applicazioni hanno rischi concreti come la sua combustione in combinazione con tabacco, un consumo di prodotti con elevate dosi del principio attivo THC, un consumo troppo precoce negli adolescenti, o un uso a lungo termine. D’altra parte la canapa può avere effetti positivi su alcune malattie e sintomi (dolore, disturbi del sonno, nausea, vomito, convulsioni). In Svizzera ad esempio prodotti che contengono poco THC (meno dell’1%) possono essere venduti e acquistati legalmente dal 2016. Ciò ha portato all’emergere di nuovi mercati di canapa per prodotti a base di CBD (cannabidiolo), un altro principio attivo della canapa che si ritiene abbia un effetto rilassante. I prodotti sono oggi disponibili nei supermercati, nei chioschi, nei negozi specializzati e online. Tuttavia, l’attuale politica della canapa ha dei limiti. Innanzitutto il testo della legge porta a situazioni contradditorie. Infatti il possesso di

La canapa viene oggi coltivata, anche legalmente, per più scopi, anche medici: qui una coltivazione della ditta Medropharm nel canton Turgovia. (Keystone)

un massimo di 10 grammi di canapa è consentito, ma fumare uno spinello è sanzionato con una multa. Un altro punto critico riguarda l’uso medico della canapa. L’Ufficio federale della sanità pubblica (UFSP) può concedere deroghe per uso medico dei medicinali vietati contenenti canapa. Il numero di domande per l’uso medico della canapa è aumentato in modo massiccio negli ultimi anni, il che non corrisponde più alla natura eccezionale di tali prescrizioni. Infine dal 2010 diversi cantoni e comuni stanno valu-

tando l’introduzione di progetti pilota locali per la vendita di canapa. Tuttavia questi progetti non sono autorizzabili ai sensi della legislazione vigente. L’UFSP però riconosce l’importanza di tali progetti. Pertanto una revisione della legge che consente l’attuazione di tali progetti a livello locale è ora in esame alle due Camere a Berna. Sulla base delle nuove informazioni sulla canapa, dei limiti e le contraddizioni dell’attuale politica, così come degli sviluppi internazionali, la Commissione raccomanda perciò che il con-

sumo di canapa in Svizzera venga legalizzato e che si introduca un mercato della canapa regolamentato con direttive per la produzione, la distribuzione, la vendita e la qualità dei prodotti. Il mercato della canapa auspicato è pertanto soggetto a una regolamentazione severa, ma allo stesso tempo consente lo sviluppo di un’industria della canapa in Svizzera sostenibile e responsabile. Questo secondo la commissione rappresenta la base per la protezione della popolazione, in particolare dei bambini e degli adolescenti.

La Banca Nazionale Svizzera abbandona il Libor Finanza Per evitare eventuali manipolazioni vi sarà un nuovo tasso di riferimento. Il cambiamento non avrà

conseguenze sul mercato del franco svizzero, né sulla politica monetaria, che resterà leggermente espansiva Ignazio Bonoli Da tempo si va parlando negli ambienti finanziari di sostituire il tasso Libor (London Interbank Offered Rate), che sta alla base dell’applicazione di tassi di interesse, tra i quali anche quello ipotecario. Il colpo di grazia a questo tasso è stato dato già nel 2011 dallo scandalo seguito alla scoperta che le banche concordavano fra di loro, sulla piazza di Londra, il tasso di riferimento. Tuttavia non sembra questo il motivo principale per la sostituzione del Libor con un altro tasso di riferimento. Una delle principali critiche che gli vengono mosse è quella di non basarsi

su transazioni effettive e sui prezzi, quanto su annunci fatti dalle banche, il che presta volentieri il fianco a eventuali manipolazioni. È quanto si è scoperto nel 2011 per la prima volta. Questo avvenne su autodenuncia di una banca che temeva pesanti conseguenze in caso di denuncia di possibili violazioni della legge sulla concorrenza. In Svizzera, la ComCo avviò un’inchiesta contro UBS e Credit Suisse. Si temeva che le banche facenti parte del gruppo (una dozzina) manipolassero i dati che servono al calcolo del Libor, concordando differenze di prezzo fra acquisti e vendite di derivati. Cioè – nel nostro caso – di investimenti

Da subito, al posto del Libor la BNS adotta come tasso di riferimento il proprio tasso direttore. (Keystone)

a breve termine su tassi di interesse, alla base dei quali c’è il rapporto fra franco svizzero e Libor. Da qui l’interesse della Banca Nazionale, per la quale il Libor è determinante per il tasso sul franco a 3 mesi. Questo parametro è importante, per esempio, per pronosticare il tasso di inflazione per il 2022, ma incontra qualche problema se dal prossimo 2021 non viene più utilizzato, per decisione delle autorità inglesi di sorveglianza. Per questo motivo, nella presa di posizione trimestrale della settimana scorsa, la Banca Nazionale Svizzera ha annunciato di voler abbandonare il Libor, quale tasso di riferimento, prima della scadenza decretata dalle autorità inglesi. Al suo posto la Banca Nazionale ha adottato il cosiddetto tasso direttore della BNS, che sostituisce l’attuale banda di oscillazione del Libor a tre mesi. In futuro, le previsioni della BNS non si baseranno più soltanto sul presupposto che nel frattempo il Libor non si modificherà. Anche le decisioni di politica monetaria si baseranno su un tetto massimo di questo nuovo tasso di riferimento, che verrà pubblicato. Esso indicherà l’obiettivo perseguito per quanto concerne il mercato del denaro a breve scadenza. La decisione presa la settimana scorsa non significa un allentamento

o un restringimento della politica monetaria attuale. Sicuramente no, dal momento che la BNS ha fissato il nuovo tasso di riferimento al –0,75%. Il che corrisponde esattamente al tasso di interesse negativo che la BNS applica ai depositi a vista delle banche commerciali dal gennaio 2015. Con ciò i dirigenti della BNS confermano una politica monetaria espansiva, come finora. Inoltre, la Banca Nazionale seguirà attentamente l’evoluzione dei tassi di interesse a breve scadenza, facendo in modo che rimangano vicini al tasso di riferimento. Quale punto di riferimento rimane anche il cosiddetto «Saron» (Swiss Average Rate Overnight). Questo tasso viene utilizzato già da una decina d’anni. Si tratta di un tasso a giorno che, contrariamente al Libor, si basa su transazioni effettivamente avvenute. L’abbandono del Libor è immediato, ma il cambiamento non è privo di impegni. Uno degli ostacoli è anche la forza dell’abitudine. Se i protagonisti del mercato continueranno a riferirsi al Libor, per esempio nella concessione di crediti, non sarà necessario garantire la liquidità di prodotti «Saron». Anche secondo la Banca Nazionale, il Libor continuerà ad avere un’ampia diffusione sul mercato monetario. Tuttavia se il

Saron verrà sempre più frequentemente utilizzato nei prodotti finanziari, anche il passaggio dell’abbandono del Libor non incontrerà ostacoli insuperabili. Sarà però necessaria non soltanto un’abbondante liquidità, ma un uso frequente del calcolo degli interessi a tre mesi, basato sul tasso giornaliero. Il presidente della direzione della BNS Jordan ha colto l’occasione anche per dire che tassi di interessi positivi non si vedranno presto in Svizzera, per cui si continuerà a prelevare interessi negativi sui depositi a vista delle banche. Le autorità monetarie interverranno sui mercati delle divise per rendere meno attrattivi gli investimenti in franchi svizzeri. Questo per evitare un eccessivo apprezzamento del franco svizzero sulle altre monete. Nonostante gli interessi negativi e il gigantesco bilancio, la Banca Nazionale gode ancora di un certo spazio per un ampliamento eventuale della politica monetaria. Attualmente la BNS giudica sempre il franco svizzero «sopravvalutato» e in questi tempi si sono viste nuove spinte al rialzo. L’inflazione viene infine stimata leggermente al rialzo (fino a 0,6% a fine anno) a causa soprattutto dell’aumento dei prezzi all’importazione. Il tasso di crescita dell’economia resta comunque previsto in 1,5%.


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Politica e Economia

Non solo moneta sonante

I consigli della Banca Migros Per godere delle ferie senza pensieri, è necessaria anche la giusta combinazione

di mezzi di pagamento. Ecco a cosa dovreste pensare prima di un viaggio in Europa, negli USA o in Cina

Stati Uniti

Pagamenti con carta: la carta di credito va bene quasi sempre Le carte di credito più comuni sono accettate quasi ovunque. In molti hotel e autonoleggi la carta di credito è addirittura necessaria, almeno per la prenotazione. La carta Maestro è invece indicata soprattutto per gli acquisti di una certa entità nei negozi e per i prelievi ai Bancomat. Carta Maestro: ricordarsi di attivarla Per motivi di sicurezza l’area di utilizzo delle carte Maestro della Banca Migros è limitata all’Europa. È tuttavia possibile estendere la validità geografica ad altri continenti tramite l’e-banking, l’app mobile banking o la Service Line al numero +41 848 845 400. Prelievo in contanti: la carta TravelCash come alternativa Nonostante l’attivazione, può accadere che non sia possibile prelevare contanti con la carta Maestro, soprattutto presso i Bancomat poco frequentati. Cercate il logo blu di Cirrus: significa che quel Bancomat accetta le carte Maestro. Un’alternativa è la carta Prepaid Travel Cash in dollari USA: per prelevare contanti (5 franchi per transazione) è più conveniente della carta di credito (minimo 10 franchi). Attenzione: gli operatori dei Bancomat locali negli Stati Uniti possono applicare una commissione aggiuntiva per le transazioni. Mance: un gradito contributo Negli Stati Uniti le persone che lavora-

no nel settore dei servizi percepiscono spesso solo il salario minimo legale e dipendono quindi dalle mance. Nei ristoranti è appropriato almeno il 15%. Il personale addetto alle camere dovrebbe ricevere 1-2 dollari al giorno, i facchini 1 dollaro a bagaglio e i tassisti il 10-15% dell’importo fatturato. Europa

Pagamenti con carta: vanno sempre bene Nei Paesi europei le carte di credito più comuni sono accettate quasi ovunque. In particolare sono consigliate per il noleggio di un’auto, mentre per la prenotazione sono spesso necessarie. Anche le carte Maestro sono ampiamente utilizzabili in Europa e quelle della Banca Migros sono abilitate per impostazione standard nei Paesi europei. Prelievo in contanti: attenzione alle commissioni aggiuntive Prelevando contanti presso i Bancomat in Paesi come la Spagna o la Grecia viene spesso mostrata la seguente opzione: «Desidera che l’operazione sia addebitata sul conto nella sua valuta?». Se intendete ritirare euro con una carta Maestro svizzera, è consigliabile rispondere «no». In caso contrario l’importo sarà convertito in franchi a un tasso di cambio generalmente più sfavorevole. Mance: usanze diverse da Paese a Paese In molti Paesi europei è consuetudine lasciare mance del 5-10%, in Gran Bretagna e in Irlanda addirittura fino al

iStockPhoto

Benita Vogel

15%. Maggiori dettagli sono disponibili nelle informazioni sui viaggi consultabili nell’app mobile banking della Banca Migros. Cina

Pagamenti con carta: portare con sé contanti a sufficienza Nei negozi e negli alberghi delle grandi città vengono accettate le carte di credito più comuni. Al di fuori dei centri principali, il pagamento tramite tessera non è possibile dappertutto. Si consiglia pertanto di portare con sé contanti a sufficienza, preferibilmente dollari USA da cambiare sul posto in valuta locale.

Carta Maestro: come estenderne la validità Anche con la carta Maestro è possibile pagare nelle grandi città oppure prelevare contanti ai Bancomat. Attenzione: per motivi di sicurezza l’area di utilizzo delle carte Maestro della Banca Migros è limitata all’Europa. Per la Cina è necessario estenderne anticipatamente la validità. Potete farlo nell’e-banking, nell’app mobile banking oppure tramite la Service Line al numero +41 848 845 400. Come con la carta di credito, anche in caso di prelievo in contanti ai Bancomat con la carta Maestro può essere addebitata una commissione aggiuntiva da parte dell’operatore locale.

Cambio valuta: per non ritrovarsi pieni di renminbi Per il cambio in renminbi, la valuta locale, è meglio utilizzare dollari USA, soprattutto al di fuori delle grandi città. I tassi di cambio delle banche sono in genere più vantaggiosi che negli hotel e nelle agenzie di cambio. Attenzione: non è possibile cambiare i renminbi in Svizzera. Mance: ormai ampiamente diffuse Se prima lasciare la mancia era una pratica malvista in Cina, oggi è ampiamente diffusa. Nei ristoranti è generalmente il 10%, mentre spesso negli alberghi e nei ristoranti degli hotel viene già addebitato un supplemento del 10%. In quest’ultimo caso è consuetudine dare un’ulteriore mancia se il servizio è stato particolarmente buono. Le regole valide dappertutto

Nella scelta del denaro per le vacanze il mix è decisivo: a prescindere dal Paese che visitate, dovreste portare con voi i seguenti mezzi di pagamento: una carta di credito per gli acquisti fino a circa 90 franchi, una carta Maestro per gli acquisti superiori a 90 franchi e i prelievi in contanti ai Bancomat e infine contanti nella valuta locale per un controvalore di alcune centinaia di franchi. Per evitare difficoltà in caso di smarrimento delle carte, vale la pena di portare con sé una seconda carta di credito o una carta Prepaid Travel Cash. Info su bancamigros.ch/denaro-diviaggi. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Riflessioni sul mercato del lavoro del futuro Un tempo, neanche troppo lontano, il Consiglio di Stato ticinese affidava le sue riflessioni sul futuro a medio e a lungo termine al «rapporto sugli indirizzi», documento quasi programmatico che ispirava la sua politica durante la legislatura. Oggi, nonostante continui ad essere previsto da un’apposita legge, questo documento è scomparso. La riflessione sul futuro viene affidata a commissioni e gruppi di lavoro o consegnata in rapporti eseguiti da specialisti esterni all’amministrazione. Si tratta quasi sempre di iniziative portate avanti dai singoli dipartimenti. Col rapporto sugli indirizzi sembra dunque che sia sparita anche la capacità del nostro governo di riflettere assieme

sui problemi del futuro. Queste considerazioni valgono anche per la recente iniziativa del dipartimento dell’economia e delle finanze di costituire un gruppo di riflessione che dovrebbe occuparsi di analizzare le sfide che si pongono oggi al mercato del lavoro ticinese. Si tratta di pensare alle conseguenze della trasformazione digitale, e ai problemi posti dall’invecchiamento demografico e dai movimenti migratori. Del gruppo di lavoro faranno parte rappresentanti dei datori di lavoro e dei sindacati come pure personalità che di queste problematiche si sono occupate a livello delle politiche della formazione o a livello della ricerca sul mercato del lavoro. Mentre ci complimentiamo con

il capo del DFE per questa iniziativa (che sembra riecheggiare i fasti del tavolo di discussione della legislatura passata) non possiamo che lamentare che la stessa non sia stata assunta dall’intero Consiglio di Stato. Anche perché quando si tratterà di passare agli atti bisognerà ricorrere al dipartimento dell’educazione e a quello della sanità e della socialità che non sono rappresentati nel gruppo di riflessione. Le tre sfide al mercato del lavoro sono conosciute dai lettori che seguono questa rubrica. Di fatto, poi, sono solamente due: quella della demografia e quella del progresso tecnico. Cominciamo dal problema dalla demografia. Da un paio d’anni la tendenza alla crescita della

popolazione residente in Ticino, che aveva contraddistinto il periodo che aveva fatto seguito alla seconda guerra mondiale, si è trasformata in una tendenza al declino. Al saldo negativo del movimento naturale, che, in Ticino, si conosce da più di un decennio, si è venuto aggiungendo, da qualche anno, il saldo negativo del movimento migratorio. Fino a un anno fa, la stagnazione della domanda di lavoro, provocata dal saldo migratorio negativo, è stata abbondantemente compensata dai flussi di frontalieri. Da qualche trimestre, però, anche l’effettivo dei frontalieri occupati nel Cantone ristagna. Il quadro d’assieme, ossia quello formato dalle tendenze di sviluppo demografiche e

dall’evoluzione della domanda di lavoro, non è certamente roseo. Al gruppo di riflessione non mancheranno certo le questioni da trattare in relazione al movimento naturale e a quello migratorio. L’altro complesso di interrogativi che si porrà ai suoi membri riguarderà invece i risvolti della rivoluzione digitale sul mondo del lavoro. Al contrario della demografia, le cui ripercussioni sono prevedibili perché il ritmo di evoluzione è relativamente lento, l’evoluzione nel digitale e nella robotica sono rapidissime. Di conseguenza sono più difficili da prevedere senza il concorso di specialisti del settore che, purtroppo, nel gruppo di riflessione brillano per la loro assenza.

una compagine unitaria, è stato lo stesso Bashir ad alimentare volontariamente le faide interne sperando così di scongiurare un golpe di palazzo. Il calcolo non gli è evidentemente riuscito: i generali si sono scoperti molto compatti nel cacciarlo. Poi però le faide hanno di nuovo avuto il sopravvento e alcuni segnali si sono visti anche fuori dal quartier generale della giunta militare che ora guida il Sudan: la piazza si è sentita protetta dall’esercito e ha visto fin dall’inizio con paura e sospetto l’arrivo nelle città delle Forze di supporto rapido, meglio note come «Janjaweed 2», la trasformazione cosmetica dei guerrieri a cavallo che hanno per anni devastato il Darfur, torturando, stuprando, uccidendo. L’esito di questo scontro interno al regime è il più brutale: le Forze di supporto rapido hanno ammazzato all’inizio del mese più di cento manifestanti, i cadaveri galleggiavano nel Nilo (molti non si vedono, avevano dei pesi legati ai piedi nudi quando sono stati gettati dai ponti) e ora i sudanesi sono terrorizzati, le strade sono molto più vuote, ci sono ancora picchetti e piccole barricate ma il terrore è ovunque e nemmeno la nascita di una piccola stazione tv, «Sudan of tomorrow», che invita a non usare mai armi e a continuare a manifestare pacifica-

mente ha calmato la paura (internet è bloccato, questa emittente è l’unico modo per darsi appuntamento per le proteste). Il capo dei Janjaweed 2 è il nuovo uomo forte del Sudan. Si chiama Mohammed Hamdan Dagalo, detto Hemeti, e formalmente è il numero due della giunta militare, ma si comporta come se avesse già avuto un’investitura pubblica. Ha finto di voler ascoltare la piazza, ha detto ai giornalisti internazionali che lui le elezioni le avrebbe volute subito, cosa credete, ha lasciato che i negoziati tra regime e piazza collassassero – l’Associazione dei professionisti che fa le trattative vuole una maggioranza di membri civili nel governo di transizione – e poi ha dato il via alla repressione. Un blitz feroce ma non lungo, quanto basta per disperdere la determinazione delle proteste senza turbare troppo gli occidentali, che comunque hanno un’alta soglia di imperturbabilità. Infatti continuano a ignorare il fatto che il Sudan rischia di diventare un nuovo Yemen e che attorno al paese si sta creando un nuovo blocco di potere regionale: Hemeti ha ricevuto 3 miliardi di dollari da Egitto, Arabia Saudita ed Emirati arabi uniti, che vogliono mantenere «stabilità» in Sudan e che pensano che il generaleJanjaweed sia il più promettente per

questo obiettivo. Gli sponsor di Hemeti sanno che l’America tiene volentieri gli occhi chiusi e che l’Europa pur quando vede poi non riesce ad agire e mentre i sudanesi temono «di finire come l’Egitto», loro proprio a quello pensano, a un nuovo regime nell’indifferenza del resto del mondo. Il tempo, ormai lo sappiamo, gioca a loro favore: Hemeti sta consolidando il suo potere, sia dentro la giunta sia tra i sudanesi, essendo un grande oratore e un amante dei bagni di folla, e si è conquistato la fiducia dei suoi sponsor mandando i propri soldati a combattere con i sauditi in Yemen. C’è un rischio alto di guerra civile, ma Hemeti ha già dimostrato di avere dalla sua parte le forze più ubbidienti e senza scrupolo: l’esercito ancora conta su una ricomposizione con le manifestazioni, l’apparato dell’intelligence osserva e aspetta di schierarsi con i più forti, comunque entrambi non hanno troppe alternative allo strapotere di Hemeti. In nome della stabilità ormai si può fare qualsiasi cosa, c’è il presidente siriano solido nel suo palazzo a dimostrarlo, e i cani randagi nelle strade di Khartoum che hanno preso il posto del popolo sudanese, che non chiedeva chissà cosa: elezioni, un governo civile, un salto fuori dalla dittatura.

La revisione totale del vecchio testo, risalente al 1874 e che già il giurista Max Imboden riteneva urgente negli anni 60 perché farraginoso, si è trascinata per anni, tra ritardi, rinvii e possibili abbandoni. A molti il risultato finale parve soltanto un semplice riordino, e non un rifacimento integrale. Nell’opera di riscrittura erano comunque confluite istanze importanti che non tutti gradirono, come la parità di diritti tra uomo e donna (con la relativa parità di salario), la protezione dei fanciulli e degli adolescenti, il diritto ad un’esistenza dignitosa, la libertà sindacale (compreso il diritto di sciopero, sia pure a determinate condizioni). Ancora una volta l’ethos della repubblica andava cercato nel preambolo, fonte ispiratrice e guida dell’intero impianto: la responsabilità verso le generazioni future e verso il creato (l’ambiente), la diversità come ricchezza (unità nella molteplicità),

l’aiuto ai bisognosi e ai meno fortunati («la forza di un popolo si commisura al benessere dei più deboli dei suoi membri»), uno spirito di solidarietà e di apertura al mondo. Il principio dell’«unità nella diversità» era stato ripreso nel 2003 anche nel trattato che istituiva una Costituzione per l’Europa, poi bocciato da Francia e Paesi Bassi e quindi ritirato. Ecco il brano completo: «Certi che, “unita nella diversità”, l’Europa offre loro [ai popoli d’Europa] le migliori possibilità di proseguire, nel rispetto dei diritti di ciascuno e nella consapevolezza delle loro responsabilità nei confronti delle generazioni future e della Terra, la grande avventura che fa di essa uno spazio privilegiato della speranza umana». È certamente significativo che il dettato contempli pure la preoccupazione per il fardello destinato a ricadere sulle prossime generazioni e per le sorti dell’ambiente, temi oggi

dibattuti ovunque nel mondo. La nostra Costituzione federale non merita dunque l’oblio. È vero che le iniziative costituzionali approvate negli ultimi vent’anni dal popolo l’hanno resa meno asciutta e rigorosa di altre; è vero che le 26 Costituzioni cantonali che l’affiancano non agevolano il suo compito. Rimane comunque il faro che dev’essere, il fascio di luce in base al quale orientare la navigazione del nocchiere-legislatore. Da ultimo una curiosità, anzi un primato: il Ticino fu il primo cantone della famiglia elvetica ad introdurre una Costituzione. Accadde nel 1830. Fu definito il «primo amore del popolo ticinese». Prevedeva disposizioni che allora parvero rivoluzionarie: l’obbligo per lo Stato di provvedere all’istruzione pubblica, la pubblicità dei conti della macchina statale, la libertà di stampa e il principio della libertà personale.

Affari Esteri di Paola Peduzzi Sudan, il nuovo Yemen L’euforia di aprile è svanita in Sudan, il dittatore Omar el Bashir è caduto, è imprigionato, è comparso in pubblico una sola volta, vestito del suo consueto bianco, e l’aria di un uomo finito. Ma quel tonfo clamoroso accelerato da proteste durate mesi, pacifiche, danzanti e determinate, non ha portato a un cambiamento nel paese. Anzi, mentre il fascino per le ragazze che hanno animato le manifestazioni,

moderne regine nubiane, svanisce nella nostra cronica disattenzione alle faccende internazionali, il regime sudanese si sta richiudendo su se stesso, con le sue divisioni ma con un’unica faccia da mostrare al popolo: quella del terrore. Bashir è caduto perché i generali hanno deciso di scaricarlo, anche e soprattutto i suoi «fedelissimi»: i vertici militari del Sudan non sono

Mohammed Hamdan Dagalo, nuovo uomo forte del paese africano. (fp.yahoo.com)

Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti Di sana e robusta Costituzione Nelle ore che la scuola dedica all’educazione civica, lo studio della Costituzione occupa una posizione centrale. Questo perché nella carta fondamentale sono ancorati i princìpi che stanno alla base dell’ordinamento statale: la forma e i poteri dello Stato, le competenze delle autorità e dell’amministrazione, il catalogo delle libertà, i canali e gli strumenti di partecipazione, i diritti e i doveri del cittadino ecc. Già solo soffermandosi sul preambolo si capisce qual è il carattere di uno Stato, se repubblica o monarchia. Ogni Costituzione è espressione di una determinata comunità, ne raccoglie e ne condensa la storia, le peculiarità, l’indole; rappresenta il punto d’approdo (mai definitivo ma neppure facilmente revocabile) di un lungo cammino che spesso ha attraversato guerre civili. Le Costituzione è dunque paragonabile al decalogo di Mosè, declinazione

e reinterpretazione laica delle tavole della legge. Lo comprova il riferimento alla divinità quale fonte di legittimazione, presente in numerose Costituzioni. In quelle che la Svizzera si è data dal 1848 in poi, la divinità superiore prende il nome di «Dio onnipotente». Non però quella italiana, adottata nel 1948, che invece esclude Dio, pur ospitando sul suo territorio il Vaticano: «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro». Fondare sul lavoro la «Grundnorm» non fu un atto stravagante, come può sembrare a prima vista, ma il risultato della lotta antifascista e delle tre grandi correnti ideali che avevano alimentato la Resistenza: quella cattolica-democratica, quella d’ispirazione marxista e quella liberaldemocratica. Ma torniamo alla nostra Costituzione federale. Quella attualmente in vigore risale al 18 aprile 1999. Ha dunque vent’anni, ma nessuno se n’è accorto.


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Cultura e Spettacoli Valeria Parrella si racconta A colloquio con la scrittrice italiana all’alba del successo del nuovo romanzo Almarina pagina 36

Matera la bella Proponiamo ai nostri lettori un viaggio in diverse tappe a Matera, capitale europea della cultura – un luogo di storia finalmente valorizzato

2009, Michael Jackson Dieci anni or sono moriva il Re del pop – una grande carriera adombrata da accuse e sospetti

L’arte dall’Oceania Abituati da sempre al sistema culturale occidentale, è ora di aprirci alle culture oceaniane

pagina 37

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Un caffè con Pina Bausch

In memoriam Nel decennale della scomparsa

della coreografa tedesca

Daniele Bernardi Sospesi come pesci in una teca, i danzatori di Blaubart e Caffè Müller attraversano lo schermo di un televisore. Con questo filmato, l’insegnante di movimento vuole mostrare a noi alunni del primo anno la perfetta qualità di uno stop (elemento fondamentale del training dell’attore). Nel video, però, è qualcosa che sta molto al di là della tecnica a incantare chi guarda. Soprattutto nel secondo «pezzo» – Pina Bausch, di cui ricorre, ora, il decennale della scomparsa, ha sempre insistito nel chiamare così i suoi lavori – c’è una scena, oggi fra le più celebri del repertorio del Wuppertaler Tanztheater, che provoca stupore, commozione e insolito riso fra i ragazzi. In un bigio interno di un locale pubblico, fra sedie rovesciate e tavoli da bar, una donna abbraccia un uomo cingendogli il collo; la sua testa è sepolta dalla folta chioma che le ricade oltre le spalle coprendole la schiena. Lui non la guarda: il suo viso affilato, sul quale spiccano gli esili baffi, è come impassibile. Poi, da una porta sulla destra appare un terzo interprete di grigio vestito: fende la scena dirigendosi verso i due a passi lenti e ponderati; una volta raggiunti, li libera dalla presa e, modificando la posizione di entrambi, solleva la danzatrice per porla sugli avambracci del partner. Allora, dolcemente, il corpo della donna scivola verso il basso e, una volta a terra, come una molla si

rialza di scatto per tornare, ancora, nella posizione iniziale. Interdetto – ma senza darlo a vedere – l’interprete vestito di grigio si reca dalla coppia per sistemarla, nuovamente, secondo il suo volere. Ma ogni volta che fa per andarsene, inevitabilmente, la donna casca e si riaggrappa al collo del compagno. Allora l’operazione prende velocità fino a che il tutto, ripetuto più e più volte, assume i toni di un disperato gioco affettivo. L’acme della situazione si rivela al momento in cui Dominique Mercy e Malou Airaudo (poi sostituita da Beatrice Libonati) vengono lasciati soli: quasi fossero vittime di un maleficio, i due continuano a eseguire da soli la sequenza di scivolate, cadute e abbracci in preda a un meccanismo che, ormai, pare innescato per sempre. Sono passati più di quarant’anni dal debutto di questo straordinario spettacolo insolitamente scarno rispetto ai molti della compagnia della grande danzatrice-coreografa tedesca (solo sei danzatori in scena), ma nulla sembra aver intaccato la gelida e struggente forza della sua composizione; e pensare, ironia della sorte, che Caffè Müller era praticamente nato per caso quando, per mere esigenze di cartellone, Pina Bausch si trovò a ideare una performance che «abitasse» la scenografia del suo compagno-collaboratore Rolf Borzik. Per anni cavallo di battaglia del Wuppertaler Tanztheater, il mitico Caffè Müller – in cui, tra l’altro, ecce-

Pina Bausch in un’illustrazione di Ledwina Costantini. (Led)

zionalmente, danzava la stessa Bausch – rappresenta certo un punto fermo nella storia del teatro. Come Il principe costante o La classe morta, si tratta di uno di quei lavori che segnano un prima e un dopo; una volta visto, Federico Fellini – che subito volle la regista nel suo E la nave va – commentò nettamente: «Con Caffè Müller anche Pina Bausch ha creato il suo Otto e mezzo». Negli anni, moltissimi hanno manifestato, esplicitamente o fra le righe, il proprio debito, l’ammirazione e il rispetto verso l’operato di questa grande artista (si pensi, ad esempio, alle belle poesie di Antonio Porta contenute in Invasioni o, in tempi un po’ meno lontani, a Rewind, primo lavoro della cop-

pia Deflorian-Tagliarini). Ma in questo senso un posto privilegiato spetta sicuramente all’intenso film Pina, di Wim Wenders, dove, sia documentando il lavoro dei danzatori sia trasponendo intere scene in contesti urbani o naturali, il cineasta amico (il progetto era nato in forma collaborativa, quando la Bausch era ancora in vita) consegna un commosso ritratto dell’universo creativo del gruppo di Wuppertal. Stroncata repentinamente da un cancro alla soglia dei settant’anni, la gracile e geniale coreografa nell’arco del suo percorso ha ideato oltre quaranta spettacoli composti, per la maggior parte, col personale apporto dei suoi danzatori. Come alcuni sapran-

no, si tratta di opere, in un certo senso, collettive, nelle quali il materiale elaborato proviene dalle molte proposte che la compagnia dava in risposta alle domande e agli spunti della regista. A un anno dalla morte di Pina Bausch, nel 2010, un altro gigante del mondo della danza, il giapponese Kazuo Ōno, la raggiunse lasciando, assieme a lei, un vuoto la cui ampiezza è paragonabile unicamente al segno lasciato nella storia del teatro novecentesco. «A volte», afferma uno dei danzatori del Tanztheater immortalati nella citata pellicola wendersiana, «mi piace immaginarli danzare insieme, lassù, fra le nuvole». Beh, non c’è che dire: l’esibizione sarebbe decisamente memorabile.


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Cultura e Spettacoli Un particolare della copertina del nuovo libro di Valeria Parrella.

Tre dischi per le vacanze

CD Proposte di ascolto da portare con sé

in viaggio o sulla spiaggia Big Bang Family Prima di (The Chosen Few, 2019)

Parrella, la distanza necessaria

Incontri A colloquio con Valeria Parrella, autrice del riuscito

romanzo Almarina, ambientato nel carcere di Nisida

Sono giovani e agguerriti, rapper ticinesi della... vecchia guardia: molto dotati tecnicamente, forti di una solidissima cultura musicale (come dovrebbe essere per ogni buon rapper). Hanno dato prova della loro preparazione anche sulle colonne di questo settimanale, negli scorsi anni. Il punto è che... a volte anche i giovani crescono. In questo nuovo lavoro la Crew della Big Bang Family si lascia trascinare dal rimpianto dei bei tempi andati, delle «neiges d’antan» di quando non esiste-

vano i social, quando la tecnologia era meno invadente, quando si badava più alla sostanza e meno all’apparenza: di quando il rap era «vero», insomma. Il malinconico senso di questo disco (si perdoni lo scherzo) fa tornare alla memoria di noi attempati recensori alcuni tristi album di Claudio Lolli, il cantautore più depressivo della storia della canzone italiana. Fuori dalla gag: l’album di questi ragazzi è ben fatto e la sua forma artigianale darà gioia agli estimatori. Si sentono qua e là alcuni scratch da manuale, veri virtuosismi che l’epoca dei programmi di editing digitale ha reso obsoleti ma che in realtà «vogliono dire» molto, a chi sa ascoltare. Anche i testi, diretti ed elaboratissimi nella costruzione metrica, depongono per la grande forza della Crew. L’inevitabile etichetta della «Parental Advisory», però, sembra quasi messa lì solo per far paura: i testi, seri ed elaborati, sono molto meno offensivi di quel che si pensi. La nostalgia, si sa, è un sentimento che nasce nelle persone già mature.

Danilo Boggini Septet Fil Rouge (Altrisuoni, 2019)

Laura Marzi Abbiamo incontrato Valeria Parrella, autrice italiana di romanzi tra cui Lo spazio bianco e L’enciclopedia della donna, entrambi editi da Einaudi. Le abbiamo chiesto di parlarci del suo ultimo romanzo Almarina (Einaudi, pp. 123, euro 17,00): la storia dell’incontro tra Elisabetta Maiorano, docente di matematica e la studentessa rumena Almarina. La cornice è il carcere minorile di Nisida, a Napoli, dove Almarina è detenuta. Tra le due si instaura una relazione che va ben oltre i confini previsti…Con Valeria abbiamo parlato di scrittura, di carceri e del senso di responsabilità su cui si dovrebbe fondare ogni scelta professionale. In Almarina scrivi: «ci vuole un sacco di tempo o una poesia perfetta per dire davvero le cose come stanno». In questo romanzo il ritmo della tua scrittura si è contratto, è più denso, più prossimo all’andamento dei versi.

Quando ho scritto quella frase stavo togliendo qualcosa allo stesso romanzo e tributando l’onore che merita alla poesia. Io lavoro alla prosa, alla scrittura, togliendo. A me interessa che la frase scritta abbia quel tono lì, però si tratta di cose che non mi pongo aprioristicamente, le so dopo. So che voglio scrivere di Nisida, di un incontro fra due donne. La storia è il timone: dà la direzione, ma lo scafo è la lingua.

«Beato quel paese che non ha bisogno di volontari» è una trasformazione davvero sagace della frase del Galileo di Brecht. Ti va di soffermarti sui pericoli della carità?

Io non sopporto il volontariato, questa è la verità, eppure ne faccio tanto, perché è un male minore. Il volontariato non può essere strutturato, è troppo legato alla coscienza del singolo e questo dà un carattere di arbitrarietà inadatto a risolvere i problemi. Rispetto la costituzione e pago le tasse, che devono essere rimesse in circolo, andando a nutrire lo stato sociale che si deve occupare del benessere delle fasce più fragili. Poi, ci sono due aspetti tremendi del volontariato: uno è il rischio dell’esibizione, che alimenta la vanagloria, l’altro è la dipendenza, il fatto che la persona più fragile dipenda da qualcuno. Una mia

amica malata di cancro mi diceva: «io mi sento ancora una persona perché vivo a Bologna, dove ci sono delle strutture in cui mi curano. Se avessi continuato a vivere a Napoli o a Roma, sarei dovuta dipendere da mio marito, da parenti».

La protagonista del tuo romanzo, Elisabetta Maiorano, è un’insegnante. Tu però hai scelto che lei lavorasse in un centro di detenzione minorile, perché?

Io non ho scelto che la professoressa Maiorano insegnasse dentro Nisida, viene prima Nisida. Sono entrata a Nisida per quattro anni, per tre anni non è successo niente, nel senso che facevo il mio dovere, con altri scrittori, invitata da una professoressa di italiano: tenevamo un laboratorio di scrittura. Ci sono entrata poche volte ogni anno, però abbastanza per farmi un’idea di come si vivesse lì dentro. Io vado molto nelle carceri e ci penso sempre, anche dal punto di vista artistico. Nella raccolta Troppa importanza all’amore c’è un racconto che si intitola 99/99/9999 che sarebbe la data del fine pena, mai. Credo che l’ergastolo sia equiparabile alla pena di morte. Ho le mie idee sulla detenzione. Mi spaventa? No e per questo entro spesso in carcere. E ogni volta che entro in carcere è come stare nelle ultime pagine di Resurrezione di Tolstoj, quando lui cammina, segue la colonia che va verso la Siberia ed entra in quei casermoni, in quelle aule dove ci sono i detenuti in vincoli e li guarda. Da quello sguardo non ci si può sottrarre. Nisida è un carcere d’eccellenza, non ci sono le sbarre alle finestre a scuola, ci sono i campi di calcio, i ragazzi sono giovani e questo li rende bellissimi di per sé. Nisida nasconde, molto più degli altri carceri che ho visto, per questa sua bellezza e potenza naturale che deriva dal luogo in cui è situata – un vulcano spento – e dai ragazzi che la abitano. Al quarto anno è successo che ho chiesto a un ragazzo di scrivere un tema, ma lui non cominciava, allora gli ho detto come doveva fare. Mi ha risposto che lo sapeva benissimo. Quando l’ho letto, ho pensato: che cretina! Pensavo che non sapesse da dove iniziare a scrivere e invece lui voleva scrivere l’inscrivibile e questo fatto è diventato importante

per me. Più importante di qualsiasi altra storia avessi da raccontare, che è l’unico motivo per cui si scrive un libro piuttosto che un altro. È come se si fosse aperta una cosa e per chiuderla avevo bisogno di scriverci un libro. Quindi non è che Elisabetta insegni a Nisida: c’è Nisida e avevo bisogno di una persona che mi conducesse la storia e ho scelto un’insegnante. Dentro e fuori da un carcere permane nell’insegnamento un aspetto di vocazione. Lo credi?

Credo che la vocazione non sia solo una caratteristica dell’insegnamento, ma possa esserlo per tutti i lavori. Esistono persone che fanno il proprio lavoro in maniera ispirata e altre che non lo fanno così. Ecco a me piacerebbe che i lavori fossero governati dalla responsabilità e non dalla vocazione.

Nell’esperienza di Elisabetta accade che la dedizione al suo lavoro si avvicini a un altro sentimento che tu definisci magnificamente: «l’amore delle madri senza merito, senza reciprocità e senza conquista». Non sarebbe meglio che le docenti di ogni ordine e grado fossero un po’ più zie che mamme, più simili al personaggio della collega di Elisabetta, Aurora?

Sì, Aurora è il mio personaggio preferito. A me piacciono i personaggi un po’ duri, poco permeabili. Odio le persone permeabili, mi insospettiscono, odio il modo di fare del sud che abbraccia continuamente, un po’ di distanza definisce meglio tutti: sé e gli altri, un po’ di distanza rappresenta la ragione, che non è opposta al cuore, al sentimento, ma lo regola. Elisabetta non è un personaggio pedagogicamente giusto, è tutta sbagliata! Solo in un momento lo è, nella parte che mi è costata più fatica: il primo incontro con Almarina. La ragazza si alza e Elisabetta pensa che assomigli a una scimmia. Mi sono odiata scrivendo questa cosa, ma ho dovuto resistere in questo sentimento di disprezzo. Nella pagina successiva Elisabetta vede Almarina giocare a pallavolo ed è bravissima e allora finalmente è costretta a riposizionarsi e dice: «se la romena vola, la scimmia era in me». Così come scrittrice mi salvo da questa cosa tremenda, perché c’è un’etica nella scrittura che a volte devi sfidare per ottenere una verità più profonda.

Di Danilo Boggini occorrerebbe scrivere più spesso: sono talmente tanti gli spunti e le occasioni che la sua attività musicale offre al pubblico ticinese che volendoli seguire tutti si troverebbe materiale abbondantissimo. Si pensi ad esempio alla bella formazione «milanese» degli Swing Power, con Claudio Sanfilippo, oppure al recente spettacolo Mestieri e Misteri. Nel caso invece del recente disco Fil rouge, l’album mette in evidenza, forse più che in altri progetti, l’anima

jazzistica del fisarmonicista di Giubiasco. Accompagnato da un gruppo molto ben assortito di «veri jazzisti» nostrani (tra cui Danilo Moccia e Michael Fleiner) e con uno sparring partner di eccezione come il grande Flavio Boltro, Boggini dà forma a un disco che era partito come un progetto a sorpresa (in occasione dei suoi 50 anni) ma che alla fine si è dimostrato un punto di arrivo particolarmente interessante, proprio perché la caratura dell’ensemble richiedeva perlomeno un polso fermo e una direzione artistica... ben indirizzata. Il repertorio, composto da 5 originali di Boggini e da 4 cover eccellenti, serve da trampolino di lancio per un album fresco e vivace che non è una jam session, ma una reunion di gran lusso, fondata su arrangiamenti agili ma solidi. «Inscì veghen», direbbe forse Jannacci, a proposito di questa produzione. Da ascoltare assolutamente: l’originale Pirandello pipistrello e la cover di Here comes the sun. En passant: la band sarà a JazzAscona il 29 giugno, per presentare il disco.

Gilles Torrent Song for Barack Obama (Altrisuoni, 2018)

Una figura unica nel panorama jazzistico svizzero: il sassofonista ginevrino Gilles Torrent persegue da decenni una ricerca musicale senza compromessi e in piena sintonia con il pensiero jazz degli anni della sua formazione, i libertari Sixties. È forse molto semplice, in questo senso, iscrivere la sua esperienza musicale nel solco dell’estetica coltraniana. E d’altro canto, però, è proprio tale coerenza, ricercata e riproposta in una lunga serie di pubblicazioni, a rendere inevitabile il riferimento.

Nel corso degli ultimi tre anni Torrent ha pubblicato ben quattro album (tutti con Altrisuoni) in cui propone un’ampia retrospettiva di registrazioni effettuate tra il 1997 e il 2017. Intitolate Jazz inspiration Vol. 1, Vol. 2 e Vol. 3 le incisioni presentano un organico tutto sommato piuttosto compatto in cui Torrent è accompagnato da alcuni fidi collaboratori, come François Gallix al contrabbasso. I tre dischi costituiscono un corpus molto solido e, come detto, di assoluta ortodossia al verbo del primo free jazz modale. Questa caratteristica, lungi dal rappresentare un tratto anacronistico, sembra invece solleticare il ricordo e invitare l’ascoltatore a tornare a quell’epoca, a quei suoni. E a quell’ispirazione, in fondo mai passata di moda, si può ascrivere anche l’album Song for Barack Obama, il cui intento celebrativo è tanto sincero quanto disarmante nel suo lirismo forse un po’ ingenuo. Alla fine comunque la musica è ottima, ed è ciò che conta. /AZ


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Cultura e Spettacoli

Matera, dove la natura diventa cultura Itinerari d’arte Una meraviglia d’Italia, risultato del felice incontro tra natura e cultura: questa è Matera,

la Città dei Sassi proclamata bellezza continentale e mondiale, segno del riscatto del Sud Italia – Prima parte Tommaso Stiano Sembra di passeggiare dentro un magnifico presepe scolpito nella pietra per l’eternità, una «Betlemme italiana» a grandezza d’uomo con strade e stradine, vie e viuzze, vicoli e scalinate, case e chiese, botteghe e osterie, un presepe vivente che s’inerpica su per i pendii dei tre rioni dell’antica cittadina di Matera (Basilicata): da una parte, rivolto verso la città di Bari, Sasso Barisano; al centro, sullo sperone roccioso più alto a quota 400 m s/m, la Civita con i palazzi nobiliari e la cattedrale; a sud, adagiato in una cavea teatrale, Sasso Caveoso. Nella Città dei Sassi è tutto un saliscendi che mette a dura prova le gambe, un dedalo di vicoli dentro cui ci si può smarrire, ma affascinante tanto nelle ore diurne quanto in quelle serali e notturne. Qui, aria, acqua, terra e fuoco in stretta simbiosi con l’antropizzazione millenaria hanno creato un paesaggio straordinario denominato appunto I Sassi, promosso dall’UE a «Capitale della cultura europea 2019», una cultura contadina, quella, per intenderci, da «scarpe grosse e cervello fino» che con saggezza ha saputo utilizzare al meglio le poche risorse naturali locali. Vediamolo da vicino questo paesaggio. Terra. Dal pieno al vuoto: la nascita

Dalla stazione ferroviaria di Matera, in meno di mezz’ora, raggiungiamo con un bus (linea 7) il «Belvedere» del Parco della Murgia Timone, dove furono girate le scene della crocefissione da Pier Paolo Pasolini (Il Vangelo secondo Matteo, 1964) e da Mel Gibson (La passione di Cristo, 2004). Subito la Città dei Sassi si para davanti ai nostri occhi con tutto il suo splendore. Un rapido sguardo da questo punto panoramico di fronte a Matera mostra una fascia di roccia alta un centinaio di metri che digrada verso il torrente Gravina creando una vallata simile ai canyon. In cima ad essa Matera che alla forte luce del mattino sembra un insieme quasi indistinto di pietra. Localmente questo tipo di sasso è chiamato tufo (calcarenite di Gravina), è abbastanza malleabile da lavorare e, al tempo stesso, sufficientemente solido per ricavarci dei blocchi da costruzione. Quella che vediamo dall’Altopiano della Murgia è però solo la città in superficie, quella edificata a partire dal Medioevo. Il materiale edile proviene quasi esclusivamente dalla Matera sotterranea, dalle cavità artificiali che costituiscono la peculiarità del sito e che la vista non scorge di primo acchito, poi però si osservano delle aperture nella roccia, specialmente in Sasso Caveoso. In architettura solitamente si prende uno spazio vuoto per riempirlo con una costruzione, si passa cioè dal vuoto iniziale a un (quasi) pieno finale. A Matera, contrariamente alla regola edilizia, si va dal pieno (la roccia) al vuoto (la grotta), ossia si prende il tufo come madre natura l’ha offerto, si scava e si ottiene un’abitazione sotterranea. È così che sono nati i Sassi di Matera che all’inizio dell’Ottocento contavano fino a 2000 strutture aggregate sotterranee. Proprio la tipicità e la diffusa presenza di questi manufatti sotterranei hanno costituito il primo valido criterio che nel 1993 ha promosso Matera quale luogo originale da proteggere e valorizzare con l’iscrizione al patrimonio mondiale dell’Unesco. Il termine specifico per le costruzioni nella montagna è «ipogeo» – parola composta dal prefisso greco «ύπό = ipo» (sotto) e «γη = geo» (terra) – traducibile con l’aggettivo o sostantivo «sotterraneo»: l’ipogeo è quindi una costruzione sotto terra, in questo caso nella roccia, scavata per tutti gli usi legati alle

Matera dal Parco della Murgia. Su www.azione.ch una scelta più ampia di fotografie. (Tommaso Stiano)

attività umane. Con il sasso levato alla montagna si chiudeva primariamente la grotta e successivamente la si ampliava verso l’esterno, cioè si costruiva a cielo aperto; per la conformazione a terrazzi del territorio, le dimore ipogee erano una sopra le altre, come una sorta di struttura multipiano, di qui le lunghe scalinate per raggiungere le dimore. In questo modo, con il passare dei secoli, si è creato un paesaggio unico di grande effetto scenico come lo vediamo adesso. Lo spazio aereo risparmiato dalla città sotterranea, quello che si estende a ovest verso il piano, serviva per la pastorizia e le coltivazioni nei campi; è lì che oggi troviamo i nuovi quartieri della città. Da diecimila anni le tipiche dimore sotterranee di Matera testimoniano il passaggio da una vita nomade ad una residenziale (neolitico) con edifici d’ogni forma e grandezza che si sono evoluti nel corso dei secoli: semplici abitazioni denominate «case grotta», osterie e ristoranti, laboratori artigianali e magazzini, cantine e neviere per la conservazione dei cibi, spazi religiosi detti «chiese rupestri» e monasteri, pozzi e cisterne dell’acqua. Ed è proprio la continuità insediativa della Città dei Sassi – dal paleolitico fino allo sfollamento forzato degli anni Cinquanta del secolo scorso – a costituire un ulteriore criterio che ha favorito l’iscrizione di Matera nel catalogo dei beni culturali protetti dall’Unesco. Acqua. Povertà e ingegneria idraulica

Da sempre la raccolta dell’acqua piovana è un compito primario per l’esistenza di un villaggio che non ha a portata di mano un fiume. A Matera il torrente Gravina è lontano dai Sassi, perciò bisognava provvedere in altro modo. Gli abitanti non erano degli esperti in idraulica, eppure, come canta un proverbio, «la necessità aguzza l’ingegno» e la povertà materana ha partorito una ricchissima rete di captazione e distribuzione dell’acqua. Per le strade, le scalinate, sui tetti delle dimore c’erano tanti canaletti che convogliavano l’acqua in una cisterna a forma di goccia scavata nel cortile comune a più famiglie o dentro la casa-grotta. In caso di abbondanza, l’acqua della cisterna passava per gravità alle case e ai pozzi sottostanti e così via in modo che l’approvvigionamento idrico era assicurato a tutti. Oggi queste sorprendenti opere idrauliche – cisterne ipogee, gallerie di drenaggio, pozzi di prelievo, canali di adduzione, grandi palombari – sono una meta obbligatoria. Un esempio su tutti in fondo al

e salubri abitazioni popolari promosse dall’ente pubblico all’aria aperta, sul piano, vicino alle zone agricole, e più tardi anche industriali, dove c’era il lavoro. Sulla base di un piano regolatore, sorsero così i nuovi quartieri cittadini come il borgo rurale La Martella (1953), il borgo urbano Serra Venerdì (1956), i rioni Lanera e Spine Bianche (1957), borgo Venusio, Picciano e altri. I Sassi divennero così una città fantasma, vuota. Vennero murate le entrate delle spelonche e il centro storico si trasformò in un deserto vietato ai viventi. Da «vergogna nazionale» agli onori internazionali

Matera, Sasso Barisano e Cattedrale. (Tommaso Stiano)

centro storico di Matera, sotto Piazza Vittorio Veneto, è il Palombaro Lungo. Si tratta della cisterna ipogea più grande d’Europa che poteva contenere cinque milioni di litri. Superata la soglia, al visitatore sembra di entrare in una cattedrale interrata con alte colonne scolpite nel tufo. Così come si presenta oggi, il Palombaro è il risultato di diversi accorpamenti di precedenti cisterne più piccole, scavando sia in altezza sia in profondità lungo i secoli e fino a cent’anni fa era la fonte idrica che serviva i nuovi residenti attorno a Piazza V. Veneto; qui si attingeva l’acqua con i secchi in alluminio direttamente dal pozzo (oggi scomparso) in piazza come mostrano i fori visibili dall’interno. Nota: solo visite guidate a numero chiuso; meglio prenotare sul posto con anticipo. Fuoco. Il sole e il cielo di pietra stellato

Di frequente a Matera, le case-grotta hanno il pavimento inclinato: quando in inverno il sole è basso, i raggi penetravano fino al fondo della dimora e riscaldavano l’ambiente in modo naturale. In estate, per contro, il sole è alto e il suo calore non entrava nella cavità che quindi rimaneva fresca e umida. Ma non esiste solamente la lucefuoco del sole a Matera. C’è anche la lunga tradizione delle luminarie che nelle grandi feste religiose danno colore e calore ai rioni cittadini come la festa della Madonna della Bruna, patrona di Matera e della cattedrale assieme a sant’Eustachio. Tutti gli anni il 2 di luglio, con grande coinvolgimento degli abitanti, la processione con la protettrice inizia all’alba nei quartieri di Matera per finire verso sera nel duomo in cima al colle tra lumini, fiaccole, luminarie e

fuochi d’artificio sfavillanti. Insomma, uno spettacolo dentro uno scenario di pietra di per sé già meraviglioso che diventa ancor più affascinante al calar della sera, quando case, scalinate e strade s’illuminano di luci fioche che viste da lontano, dal «Belvedere» del Parco della Murgia, sembrano stelle. Aria. Espansione verso il cielo dei nuovi quartieri

Con il passare del tempo Matera cresceva di popolazione tanto che le casegrotta si espandevano verso l’interno della roccia; in alcuni casi le cisterne sotterranee e anche le chiese rupestri furono trasformate in abitazioni, i tetti diventarono al contempo cortile o stradina per le dimore superiori. La densità urbana fece anche espandere la popolazione verso il piano, ma a preoccupare era il degrado delle condizioni di vita dei Sassi che portò al collasso un ecosistema. L’affollamento eccessivo, la promiscuità tra uomini e bestie, la mancanza di acqua corrente, di elettricità, di fognature, la scarsa esposizione alla luce e all’aria, l’alta mortalità infantile (463 su mille!) furono i punti dolenti che determinarono l’intervento delle autorità di Roma all’inizio degli anni Cinquanta, dopo la denuncia di alcuni intellettuali come Carlo Levi nel libro Cristo si è fermato a Eboli pubblicato nel 1945 e che con un ossimoro parlava di Matera come una «tragica bellezza». In quel periodo Matera era diventata «la vergogna nazionale» e internazionale tanto che nel 1952 il Governo centrale emanò una legge ad hoc per lo sfollamento forzato dei Sassi. Nel giro di un decennio più di 15mila persone (metà della popolazione di allora) dovettero lasciare la vecchia Matera degli ipogei per trasferirsi nelle nuove

A partire da quel triste momento e per circa trent’anni, il centro di Matera restò disabitato conservando però inalterate le tipiche costruzioni ipogee di una civiltà rurale quasi scomparsa. Ma una straordinaria unicità poteva concludersi nel nulla? O c’era una qualche via di riscatto per i Sassi? Ebbene, sì. L’identità di Matera poteva essere riconsiderata, la sua straordinaria e plurisecolare storia poteva riprendere vita. Bastarono poche idee calibrate sul suo passato per portare i Sassi della Basilicata in un futuro prospero. Infatti, nel 1986 ebbe inizio il recupero residenziale grazie a un’altra legge speciale ad opera dello Stato che, con il comune di Matera, è il proprietario della maggior parte dei Sassi sfollati. Poco alla volta, passo dopo passo e nel rispetto delle peculiarità del sito, i Sassi sono stati ristrutturati e la vecchia Matera ha ripreso vigore. La capacità della cittadina lucana di reinventarsi un avvenire florido è basata sul ripristino polivalente (abitativo, artigianale, turistico) degli ipogei nei rioni storici e sull’apertura di questo patrimonio culturale al grande pubblico italiano, europeo, internazionale. Dalle stalle alle stelle, dalla vergogna nazionale all’orgoglio internazionale si potrebbe sintetizzare, fino al riconoscimento planetario dell’Unesco come «un insieme architettonico e paesaggistico testimone di momenti significativi della storia dell’umanità». Certo, scarpinando nel centro storico si vedono qua e là cartelli con la scritta «Vendesi», molti sono gli ipogei e anche le strutture fuori grotta con la porta sbarrata, molto ancora c’è da fare. Comunque, diversi sono i cantieri pubblici e privati aperti. Nella Città dei Sassi oggi è tornata la vita, Matera è diventata l’esempio del riscatto del Sud Italia e lo dimostra il grande afflusso di «cittadini temporanei» che con tanto di «Passaporto per Matera 2019» vogliono toccare con mano i risultati di una rinascita riuscita e in corso d’opera.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 giugno 2019 • N. 26

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Cultura e Spettacoli

Michael Jackson e una vita da record, in solitudine

Il rap si è preso pure Ed Sheeran

costellata di premi e seguita da una moltitudine di fedelissimi, è ad oggi ancora senza eguali

marketing o qualità?

Enza Di Santo

Tommaso Naccari

Controverso, amato e odiato, dall’alto delle classifiche alla profonda solitudine, Michael Jackson è un personaggio difficile da dimenticare. Sono già trascorsi dieci anni dal 25 giugno del 2009, data dell’inaspettata morte del Re del pop, che dopo l’ascesa al successo planetario di Thriller e una carriera super premiata, si è ritrovato a fare i conti con la giustizia e le accuse di pedofilia per le quali è stato scagionato nel 2005. Anni difficili dei quali si è ripreso a parlare dopo il documentario Leaving Neverland, il cui contenuto getterebbe nuovo fango sull’immagine dell’artista. Una carriera che lo ha trascinato all’isolamento nella villa di Encino, dove a fargli compagnia aveva animali esotici e manichini. Una vita di critiche per il suo aspetto mutato nel tempo sia per via della vitiligine e altre malattie della pelle, sia per i trattamenti chirurgici a cui si era sottoposto dopo l’incidente avvenuto durante le riprese dello spot della Pepsi, che gli procurò gravi ustioni al cuoio capelluto. Ma al di là della sua nebulosa sfera privata, Michael Jackson è stato soprattutto un cantautore, un eccellente ballerino, un produttore e il vincitore, più di chiunque altro, di premi d’ogni sorta. Un estro alieno, una genialità rara, un uomo da Guinness che ancora oggi detiene il primato per il maggior numero di copie venute nel mondo per un solo album. Thriller, del 1982, infatti, è ancora al primo posto, nonostante Eagles, Their Greatest Hits 1971-1975 abbia provato a scalzarlo la scorsa estate superandolo nelle vendite americane. Nato a Gary in Indiana nel 1958, già negli anni 60, canta e balla nella celebre band di famiglia, i Jackson 5. Un trampolino che lo fa balzare diretta-

Se oggi vuoi vendere un disco, non esistono molte alternative: la prima è assumere un ottimo brand manager, dargli in mano tutta la tua comunicazione e questo inizia a piazzarti in giro come fossi una felpa, anzi spesso piazza il tuo disco in giro proprio in paio con una felpa, per finire al numero uno in FIMI (in Italia) o Billboard (negli USA). L’altra è forse molto più semplice, se sei legato maggiormente ai numeri che a una visione purista della tua musica: lo riempi di rapper. I rapper, oggi meglio conosciuti come autori urban, sono delle creature molto strane, che girano indefesse per Spotify, macinando numeri su numeri in misure così ampie che ancora nessuno oggi capisce il perché e il per come, tanto che in Italia ancora si strappano i capelli se un rapper si permette di uscire da un sobborgo e avvicinarsi alla Madre Natura di tutti noi: la TV. Bene, Ed Sheeran sta per dare vita al sesto Collaboration Project, un album in uscita il 12 luglio che contiene 15 inediti. Nonostante già il titolo del progetto sia un mettere le mani avanti, in 15 tracce Ed Sheeran è riuscito a mettere ben 22 artisti. E sì, c’è Justin Bieber, c’è Skrillex, c’è Camilla Cabello, ma soprattutto ci sono Stormzy, Young Thug, Travis Scott, Meek Mill, Chance The Rapper e Cardi B. Se avete letto la tracklist e solo dopo state leggendo queste righe, sicuramente vi sarà saltata all’occhio l’assenza di due pesi massimi della tracklist. Il motivo è molto semplice: la loro è una storia a parte.

Anniversari Dieci anni or sono moriva il controverso Re del pop, la cui carriera musicale,

Michael Jackson in un’immagine del 1997, in occasione dell’«HIStory Tour Part II». (Keystone)

mente nella Rock and Roll Hall of Fame, che raggiungerà una seconda volta come solista. Tra il 1978 e il 1981, inizia la sua carriera separata dal gruppo e grazie al produttore Quincy Jones, incide il suo primo album Off the Wall con la Epic Records. Quattro singoli si piazzano immediatamente nella top 5 di Billboard Hot 100, infrangendo le barriere razziali che sino al 1979 dividevano la musica in classifiche per bianchi e classifiche per neri. L’anno successivo viene premiato con tre American Music Awards e un Grammy, ma Jackson si aspetta di più. Contattato da Steven Spielberg nel 1982, incide un brano e presta la sua voce come narratore per l’audio libro di E.T. l’extra-terrestre, che gli varrà un altro Grammy. Quello stesso anno, a novembre, esce Thriller, secondo album con la Epic, primo triplo disco di platino della storia. Billie Jean singolo estratto dall’album nel 1983, rivoluzionò il concetto di video

musicale: era un vero e proprio racconto pop con tanto di sceneggiatura e recitazione, ma soprattutto rese Michael Jackson il primo artista di colore a essere trasmesso da MTV. Lo stesso anno la Motown Records, etichetta dei Jackson 5, celebrò i suoi 25 anni con uno speciale televisivo e per l’occasione Michael Jackson fu invitato ad esibirsi sia con il vecchio gruppo sia nel suo singolo dal vivo: per la prima volta presentò il suo Moonwalk, il pubblico andò letteralmente in visibilio e lo «incoronò» Re del pop. Grazie ai minifilm di Beat it, Thriller e Billie Jean, trasmessi a oltranza sui canali musicali, e ai concerti sempre sold out, la musica di Michael Jackson si tramutò in un fenomeno culturale, tanto che nel 1984, agli American Music Awards vinse 9 premi su 11 e si aggiudicò 8 Grammy Awards. L’uomo dei record venne quindi invitato anche alla Casa Bianca e, sempre nel 1984, si dedicò all’«HIStory Tour

Part II» e a raccogliere fondi per contrastare la fame in Africa: con Lionel Richie scrisse la celebre We Are the World, mentre negli Stati Uniti con i suoi fratelli, era il volto dello spot della Pepsi. Intanto il cinema 3D viveva l’apice del revival, così, dal 1986 al 1998, nei parchi Disney fu proiettato quello che allora era il film più costoso mai realizzato da Lucas e Ford Coppola, Captain EO, il cui protagonista altri non era che Michael Jackson con la sua colonna sonora. Nel 1987 partì il suo primo tour mondiale: Bad, settimo album della sua carriera e terzo con la Epic, conteneva anche il duetto con Siedah Garrett I Just Can’t Stop Loving You e cinque singoli che stabilirono un nuovo record finendo al numero uno di Billboard. Uscirono il libro Moonwalk e il film Moonwalker da cui venne estratto il video di Smooth Criminal. Il passato controverso e gli scandali hanno messo a dura prova il trono del Re del pop che, però, artisticamente è ancora irraggiungibile.

Questo nuovo sound Strategie di

Bruce Springsteen, come in un film

Musica Il ritorno del «Boss» Springsteen stupisce per il forte legame con la musica vintage,

a cavallo tra country western, pop orchestrale e soundtrack cinematografica Benedicta Froelich Per quei rari, invidiati personaggi che, già in gioventù, hanno avuto la fortuna di assurgere a uno status pressoché mitico nell’ambito della scena rock internazionale, non vi è dubbio che, superata la temuta boa della mezza età, l’orgoglio personale e il peso di un ego a tratti ipertrofico si trovino spesso a guerreggiare con il senso di responsabilità e l’ansia derivanti dalle crescenti aspettative di un pubblico sempre più ampio e variegato. Fortunatamente, a volte la spinta creativa più profonda ha la meglio sul timore di deludere gli aficionados tramite scelte troppo azzardate; e accade così che alcuni recenti lavori di vere e proprie leggende del rock abbiano beneficiato di simili «combinazioni fortunate», dando vita a piccoli miracoli compositivi. Fortunatamente, è questo il caso anche del nuovo sforzo solista di Bruce Springsteen – il quale, ad appena pochi mesi dal monumentale live album Springsteen on Broadway, autocelebrazione della propria vita e carriera, ha deciso di tornare alla ribalta con un disco quantomeno anticonvenzionale. Questo Western Stars costituisce infatti un intrigante esperimento stilistico, in quanto, rispetto alle più recenti opere del Boss, presenta un irresistibile sapore vintage, ammantato da reminiscenze della musica che lo stesso Springsteen

deve aver ascoltato con stupore e meraviglia crescenti nella sua lontana infanzia americana. Ecco quindi, nella loro apparente, ingannevole semplicità, pezzi sognanti e quasi pop come The Wayfarer e Sundown e, soprattutto, Hello Sunshine, che richiama da vicino lo storico Everybody’s Talkin’ di Harry Nilsson – e in effetti, proprio come il brano che graziava la colonna sonora di Un uomo da marciapiede, anche questa canzone si presenta come solo apparentemente dolce e spensierata, poiché le liriche cadenzate nascondono in realtà una riflessione sulla lotta interiore contro la depressione clinica più volte sperimentata dallo stesso Springsteen («t’innamori della solitudine / e finisci per ritrovarti solo»). L’intera tracklist è così imperniata

sulla contaminazione di generi, come dimostrato anche da Tucson Train, terzo singolo estratto dal CD, e da brani in stile «road trip» quali Hitch Hikin’ e Drive Fast (The Stuntman), in cui risalta il debito che il Boss deve alla musica statunitense dei bei tempi andati; e non soltanto, come sarebbe facile supporre, al rock’n’roll o al folk impegnato, ma perfino a un genere che, apparentemente, potrebbe apparire a lui meno congeniale – ovvero, quello del soft country-rock anni 50-60, miscelato con un distinto sapore retrò a base di violini dagli accenti romantici, passaggi orchestrali in stile vintage pop e sonorità da film western di sapore epico. Le suggestioni languide e demodé avvolgono così la voce di Bruce come se, anziché con un rocker del New Jersey, avessimo a che fare con un crooner da sala da ballo d’altri tempi. Lo stesso sapore nostalgico e «antico» pervade anche il commovente Moonlight Motel e la memorabile title track Western Stars, intrisa di una malinconia country tipicamente nordamericana, davanti alla quale l’ascoltatore ha quasi l’impressione di riuscire a percepire su di sé il respiro del vento del Midwest – soprattutto grazie all’epico bridge strumentale, degno di un film hollywoodiano (si noti l’ammiccante accenno a John Wayne). Del resto, le suggestioni di stampo fortemente narrativo che caratteriz-

zano il disco hanno già portato molti critici a definire Western Stars come «incredibilmente cinematografico», quasi si trattasse di un’ideale colonna sonora dell’America più profonda; o, forse più verosimilmente, del definitivo tributo di Bruce al sound made in USA che ha segnato la sua intera vita. Sensazione confermata anche da altri brani di stampo eroico eppure rassegnato (Stones e lo struggente Chasin’ Wild Horses); senza trascurare il suadente There Goes My Miracle, ballata romantica dal sapore disilluso eppure, allo stesso tempo, irresistibilmente ingenuo, in cui il Boss si produce in un cantato che segue le modulazioni anni 50 tipiche di un mostro sacro del genere «romantic vintage» quale il mitico Roy Orbison, palese ispirazione dietro alcune tracce del CD. Certo, a quasi settant’anni non è sempre facile dire qualcosa di nuovo, evitando di ripetersi o adagiarsi mollemente sugli allori di una lunga carriera; eppure, con quest’album, Bruce è riuscito a prodursi in qualcosa di inaspettato, lasciando da parte l’egocentrismo da superstar mondiale convinta di non aver più nulla da dimostrare, per rivolgersi invece ai suoi fan con la sincerità del consumato cantastorie. Proprio il ruolo che, più d’ogni altro, è tuttora più congeniale all’artista; e che gli ha permesso di rendere Western Stars un piccolo capolavoro di storytelling a stelle e strisce.

Nostalgia canaglia: nel nuovo disco di Ed Sheeran ben 22 artisti. (wikipedia)

«È impossibile rovinare il rapporto che ho costruito con lui. In nessun modo potrei mancare di rispetto a quello che lui ha fatto per me. Una grande parte del mio successo è merito di Eminem, perché se non fosse stato per lui che ha creduto in me e nel mio progetto, non sarei dove sono ora. Nessun altro lo avrebbe fatto». Quando qualche anno fa 50 Cent e Eminem hanno smesso di collaborare, con il primo che ha lasciato l’etichetta del secondo, si parlava di un matrimonio giunto al capolinea. Le parole di 50 Cent, però, hanno sempre dichiarato il contrario, così come quelle di Eminem: «Yo, Fif. Innanzitutto, voglio farti gli auguri di buon compleanno. In secondo luogo, ti voglio ricordare un tuo verso che mi ha fatto venire la voglia di smettere di rappare». E dopo avere rappato quella parte di Places To Go ha chiuso dicendo: «Sì, questo mi ha fatto venire voglia di smettere di rappare, per molto tempo». Un gioco di ruolo che rende ancora più atteso il disco di Ed Sheeran, che ha capito moltissime cose di marketing, nonostante non abbia ancora annunciato delle felpe. Se i rapper, per vendere, non ti bastano, be’, appellati alla nostalgia.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 giugno 2019 • N. 26

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Cultura e Spettacoli

Agli albori dell’umanità

Mostre Alla The Gallery di Lugano l’arte dell’Oceania dialoga con l’Occidente

Rebecca Luini La creazione artistica in Oceania è qualcosa di intimamente legato a ogni aspetto della vita dell’uomo. Essa appartiene ai riti della quotidianità così come a quelli celebrativi, divenendo uno strumento di mediazione tra presente e passato, tra viventi e antenati, tra uomini e spiriti. Nelle lingue oceaniane per indicare il verbo creare si usa il vocabolo parlare, a rimarcare come l’espressione artistica sia comunicazione, narrazione, proprio come avviene attraverso l’uso della parola. L’arte è racconto. Non è un concetto immediato da capire per la nostra cultura. E non è nemmeno facile per noi riconoscere le numerose sfaccettature artistiche di questo continente agli antipodi della

vecchia Europa, costituito da territori anche molto diversi tra loro, un mondo di grandi e piccole isole spesso abitate da comunità che non si capiscono l’una con l’altra e che elaborano ciascuna stili autonomi e ben definiti. Tra mito e sogno, qui l’arte nasce come attività condivisa, come frutto di una coscienza collettiva: creare è diventare tutt’uno con la terra generatrice, è custodire la storia, è onorare gli avi. La ricchezza delle arti oceaniane rispecchia il bisogno che le popolazioni di questi luoghi hanno di mettere a disposizione la loro immaginazione per compiacere gli spiriti ancestrali, alla ricerca di una bellezza che possa glorificarli nel migliore dei modi. È così che, in una cultura in cui la natura impone i suoi colori, i suoi materiali, la sua vitalità e il suo mistero,

Dipinto realizzato dall’artista aborigeno Warlimpirrnga Tjapaltjarri.

sono arte le tele degli aborigeni australiani dalla stupefacente tavolozza cromatica, capaci di condensare tracce millenarie di esperienza vissuta e di conservare un profondo senso del primitivo che nemmeno il recente utilizzo da parte degli artisti di nuovi mezzi tecnici, come gli acrilici, ha saputo offuscare. Ma sono arte anche le decorazioni che i papuani realizzano durante le cerimonie sul proprio corpo per diventare sculture viventi animate dal respiro degli antenati: i bianchi più immacolati, i rossi più scintillanti e i gialli più luminosi, in contrasto con i neri più scuri, ornano insieme a piume di uccelli e gioielli fatti di conchiglie i volti e i fisici di questa gente, per perpetuare, nel tempo della performance, i gesti e i pensieri che hanno guidato per secoli i progenitori. Sebbene in Occidente un vero e proprio interesse per la cultura dell’Oceania non sia ancora maturato, un eloquente segnale dell’apprezzamento del valore estetico dell’arte di questi territori arriva da una delle più prestigiose gallerie al mondo, la Gagosian Gallery di New York, che in questi giorni sta ospitando un’importante rassegna di pittura contemporanea indigena australiana. A Lugano è invece il neonato spazio The Gallery a condurci nell’affascinante universo dell’arte aborigena e oceaniana, grazie al lavoro svolto da oltre due decenni da Didier Zanette, tra i maggiori esperti in materia, instancabile esploratore alla ricerca delle più significative testimonianze creative delle terre d’Oceania, dall’Australia alla Melanesia alla Polinesia. La sua è una conoscenza scaturita dal contatto diretto con i popoli autoctoni, con cui ha vissuto per lunghi periodi al fine di comprenderne a fondo gli usi e il patrimonio di tradizioni; una conoscenza che va al di là dell’ambito prettamente artistico per assumere un valore antropologico di più ampia portata. Obiettivo della galleria non è solo

far scoprire la bellezza della cultura dei popoli dell’Oceania attraverso le opere da loro create, ma è anche dar vita a un dialogo tra l’arte di quel continente e l’arte occidentale, puntando su ciò che accomuna questi due mondi apparentemente così diversi tra loro. Proprio da questa volontà nasce l’attuale rassegna allestita alla The Gallery di Lugano, di cui l’Ex-Asilo Ciani ha ospitato una prefazione ai primi di giugno, una mostra che vive dell’accostamento inedito tra manufatti aborigeni e oceaniani e sculture realizzate da Arik Levy, artista nato in Israele e parigino d’adozione, nel segno di un ritorno a uno stato primordiale ispirato dalla natura. Emblematico è il titolo scelto per l’esposizione: Origini, a rimarcare quel filo rosso che lega, non nel risultato finale ma nelle intenzioni, l’arte dell’Oceania alla ricerca di Levy. Ecco quindi da una parte le opere che Zanette ha portato dalla sua esperienza di vita tra giungle e deserti, lavori privi di qualsivoglia condizionamento concettuale generati dalla simbiosi con l’ambiente naturale percepito nella sua cosmica globalità, dall’altra le sculture di un artista che riflette sugli albori dell’uomo e della sua coscienza lasciandosi stimolare dagli elementi della terra. Minimaliste ed eleganti nella loro riuscita commistione di tecnologia e poesia, di rigore e sensualità, le opere di Arik Levy si avvalgono di un linguaggio formale che richiama la natura e l’ordine strutturale che la caratterizza. La materia è plasmata per evocare minerali, rocce e fusti arborei, in una celebrazione delle geometrie del creato che diviene profonda indagine della matrice del pianeta e dell’umanità. I modelli mutuati dalla natura vengono eternati dall’artista nel bronzo, nel marmo, nel corten o nell’acciaio inossidabile, quest’ultimo lucidato a specchio per produrre giochi di riflessi che distorcono e reinterpretano l’ambiente circostante. Materiali nuovi e tradizionali che Levy lavora fino a esi-

birne la perfezione di volumi e superfici. A dispetto della loro impeccabile solidità, le sculture dell’artista paiono in evoluzione, prive di un principio e di una fine: estensioni del mondo naturale che si ergono libere nello spazio, sono metafore di una nuova origine che racchiude in sé passato e futuro, sono presenze che ci conducono in un viaggio nelle trame della terra per riscoprirne la potenza generatrice. Accanto ai lavori di Levy anche le opere dipinte dagli artisti aborigeni australiani ci raccontano dell’intima unione tra uomo e natura. Trasposizioni visive di storie ancestrali, queste ampie tele dai colori brillanti fungono da mappe dello spazio reale così come del regno del sogno e della memoria. Attraverso le composizioni di linee e puntini dagli effetti ipnotizzanti, patrimonio di codici tramandati da millenni, questi pittori rappresentano territori simbolici e fenomeni naturali, a rinsaldare il rapporto con i luoghi che hanno accolto e custodito la loro gente. I totem in legno provenienti dalla Papua Nuova Guinea ci parlano poi di antenati mitici e spiriti protettivi, mentre una rara placca Barava finemente intagliata nella conchiglia della vongola gigante, realizzata nelle Isole Salomone prima del XIX secolo e utilizzata come ornamento per sottolineare lo status sociale dei capi, diviene una preziosa testimonianza di come l’universo naturale sia indissolubilmente legato alle culture oceaniane, strumento insostituibile per dispiegare i tesori di immaginazione con cui questi popoli mantengono vivo il loro vincolo con la fonte primigenia dell’esistenza. Dove e quando

Origini. Arik Levy e l’arte aborigena, oceaniana. The Gallery, Riva Caccia 1D, Lugano. Fino al 15 luglio 2019. Per informazioni: didierzanette@ gmail.com; Tel. 076 476 42 42.

Chailly e Lucerna, il sodalizio va avanti

Incontri A colloquio con il Maestro italiano, che anche quest’anno è stato confermato direttore

della prestigiosa rassegna musicale Lucerne Festival Enrico Parola È nel segno e nel culto della tradizione la conferma di Riccardo Chailly a direttore musicale della Lucerne Festival Orchestra. Michael Haefliger, direttore artistico di quella che è ormai non solo la rassegna più importante della Svizzera, ma una delle più ricche, seguite e blasonate dell’intera Europa, ha voluto prolungare il legame col maestro milanese iniziato nel 2016 e che avrebbe dovuto concludersi l’anno prossimo. La tradizione però non riguarda l’italianità del direttore: prima di Chailly c’è stato Claudio Abbado, protagonista di concerti indimenticabili al KKL, e a dare il La all’epopea della formazione lucernese fu negli anni Trenta Arturo Toscanini. La tradizione per Chailly è innanzitutto un fatto artistico: «Per me il concerto non è che l’esito pubblico di una più ampia attività, quotidiana e spesso solitaria, fatta essenzialmente di studio. Adoro studiare, approfondire, rileggere partiture o scoprirne di nuove. Come alla Scala (dove dal 2015 è direttore musicale del Teatro e della Filarmonica, ndr.) anche a Lucerna il mio contributo è e sarà volto alla miglior comprensione possibile della sto-

ria e della specificità di questo Festival e della sua formidabile orchestra, oggi considerata tra le migliori al mondo». Il suo rapporto con la città che si specchia nel Lago dei Quattro Cantoni è lungo: «La frequento da trent’anni. È dal 1988 che ogni estate dirigo qui, presentandomi con le orchestre di cui sono stato guida stabile: dal 1988 al 2004 col Concertgebouw di Amsterdam, poi fino al 2016 con la Gewandhaus di Lipsia, l’orchestra più antica del mondo, ora con la Filarmonica della Scala». In questi tre decenni il pubblico del festival ha potuto capire il suo senso della tradizione: «Ogni grande orchestra ha i suoi autori di riferimento; io ho voluto presentarmi a Lucerna suonando con ogni orchestra. Quando venivo col Concertgebouw affrontavamo Mahler e Bruckner, di cui la formazione olandese tenne varie prime e con cui lavorò assiduamente; ad Amsterdam ho potuto consultare le partiture delle sinfonie di Mahler annotate da Mengelberg, amico sincero del compositore boemo: nella quarta e nella settima in particolare si può leggere: “Qui Mahler dice... Qui Mahler vuole...”; è come attingere direttamente dalla fonte da cui è scaturita quella musica, un privilegio impagabile».

Ha fatto lo stesso con la Gewandhaus: «Con i professori di Lipsia ho suonato le tre B tedesche, Brahms, Bach e Beethoven, quindi Schumann e Mendelssohn; come non ricordare che proprio Mendelssohn la diresse a lungo, tra l’altro nella prima esecuzione moderna della Matthäus-Passion di Bach?». Le tradizioni di Lucerna hanno innanzitutto due nomi: Wagner e Rachmaninov. «Wagner visse a Tribschen, delizioso angolo appena fuori città, per sei anni, dal 1866 al 1872. Era già stato a Zurigo, qui si trasferì con la seconda moglie Cosima e i figli; per lei scrisse l’Idillio di Sigfrido, che le offrì come regalo di Natale: la mattina del 25 dicembre 1870 un ensemble si fece trovare sul pianerottolo di casa e la svegliò con l’Idillio. Qui terminò il Tristano e Isotta, secondo alcuni il monte Pilato gli ispirò l’immagine del Valhalla che rappresentò nella Valchiria». La scorsa estate Chailly ha diretto due ouverture wagneriane accostandole alla settima sinfonia di Bruckner, dedicata a Wagner: «In particolare l’Adagio è un omaggio estremo al compositore, qui si percepisce in modo nitido come Bruckner ne pianga la morte».

Il Maestro Riccardo Chailly. (Keystone)

Anche Rachmaninov visse a Lucerna: «Nel 1932 vi fece costruire Villa Senar, dove compose la terza sinfonia: la dirigerò la prossima estate assieme al terzo Concerto per pianoforte». Nella tradizione lucernese Chailly inserisce anche Abbado: «Ha lasciato un’impronta profonda so-

prattutto con Bruckner e Mahler. Appena diventato direttore musicale ho diretto l’Ottava di Mahler, nel 2019 porterò la Sesta, usando il martello prescritto in partitura che ho fatto realizzare appositamente a Milano quando l’ho suonata con la Filarmonica».


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Ricetta breve della salsa alla feta: mescolare della feta con crème fraîche, pepe e un po’ d’olio d’oliva e aggiungere erbe aromatiche fresche a piacimento. Questa salsa si sposa a meraviglia con le chips, le patatine fritte e le patate al forno.


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