Cooperativa Migros Ticino
Società e Territorio A Chiasso il progetto Frequenze intende recuperare gli spazi urbani e coinvolgere gli abitanti
Ambiente e Benessere Pubblichiamo l’ultimo articolo di una serie di approfondimenti dedicati alle strategie per far fronte ai cambiamenti climatici
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXII 1 luglio 2019
Azione 27 Politica e Economia Libra, la nuova criptovaluta globale di Facebook verrà lanciata nel 2020
Cultura e Spettacoli Il centenario leonardiano offre lo spunto per numerose mostre e varie altre iniziative culturali
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Dalla Calabria con ardore
di Luigi Baldelli pagina 30
Luigi Baldelli
La democrazia riparte da Istanbul di Peter Schiesser È l’inizio della parabola discendente di Tayyip Erdogan? Forse è presto per dirlo: gli autocrati si aggrappano al potere, quando sentono che comincia a sfuggire loro di mano. Ma l’elezione a sindaco di Istanbul di Ekrem Imamoglu, del partito d’opposizione CHP, in particolare il fatto che alla seconda votazione (la prima, tre mesi fa, era stata annullata per volere di Erdogan) ha aumentato il suo margine sull’avversario, un ex primo ministro del partito al governo AKP, da 13mila a 800mila voti, è la dimostrazione che la democrazia in Turchia non è morta, neppure ora che Erdogan concentra nelle sue mani tutto il potere, persino quello giudiziario. Il fatto che Erdogan consideri Istanbul la sua città – qui partì la sua scalata al potere con l’elezione a sindaco nel 1994, qui ha fatto erigere un palazzo degno di un sultano – rende la sconfitta ancora più bruciante. Come ha potuto accadere? Contro il candidato del presidente hanno votato anche elettori del suo partito, evidentemente contrariati dallo stile autoritario, autocratico di Erdogan, ma soprattutto preoccupati per la politica economica del governo, dopo che da un anno
la Turchia è sprofondata in una pericolosa recessione, con un’inflazione annua del 19 per cento, tassi d’interesse del 24 per cento, un debito estero di 328 miliardi di dollari (a fine 2018), di cui due terzi del settore privato, una disoccupazione al 14 per cento – in sintesi, il candidato perfetto, assieme all’Argentina, ad una crisi economica devastante. Che Erdogan si attorni solo di persone fedeli ma non per forza capaci (suo genero è stato nominato superministro dell’economia), acuisce l’impressione che al presidente importi di più conservare il potere che il benessere del paese. E le sue fantasiose teorie economiche (sono gli alti tassi d’interesse a creare inflazione, quindi a svalutare la lira turca) non aiutano a tranquillizzare gli animi. Persino giornali vicini al governo si sono permessi delle critiche all’indomani della votazione, mentre all’interno del partito AKP si rafforza una fronda fra i cui protagonisti vi sono gli ex premier Gül e Davutoglu e l’ex ministro delle finanze Babacan. Molti si aspettano che i tre fuoriescano dall’AKP e formino un nuovo partito, sulle stesse posizioni politiche e morali, ma più democratico e vicino alla realtà. Erdogan capirà la lezione, vorrà condividere il potere con altri, ascolterà le voci più sagge? Per ora non ci sono segnali in tal
senso. Anzi: il giorno successivo l’elezione di Imamoglu è cominciato il processo contro 16 personalità di spicco (6 sono fuggite dalla Turchia) in relazione all’occupazione del parco Gezi a Istanbul sei anni fa, accusate di «ribellione violenta» con l’intento di rovesciare il governo. Una di queste è la leader del CHP Canan Kaftancioglu, molto vicina a Imamoglu. Erdogan dà piuttosto segno di volersi vendicare e mostra una volta di più il suo carattere paranoico, come si è visto nella persecuzione avviata tre anni fa dopo il fallito colpo di Stato contro di lui. L’opposizione controlla ora Istanbul, Ankara e Smirne. E benché ci sia da attendersi che Erdogan limiti il potere esecutivo dei sindaci, non potrà tuttavia evitare che Imamoglu indaghi sul comportamento della giunta che lo ha preceduto: nei 17 giorni trascorsi come sindaco in aprile ha potuto constatare che a disposizione del suo predecessore c’erano dozzine di auto di lusso e milioni di dollari per le case degli alti funzionari, mentre la Turchia sprofondava nei debiti. Portare a galla i privilegi, il clientelarismo e gli affari loschi delle persone legate a Erdogan può minare ulteriormente la fiducia nel presidente. Fra 4 anni questo potrebbe costargli la rielezione.
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Attualità Migros
Riorientamento strategico
Attualità Migros si concentra sul suo core business e sul commercio online e mette in vendita alcune società
La Comunità Migros intende investire maggiormente nel suo core business strategico e nel commercio online. Nell’ambito della revisione periodica del portafoglio, l’azienda è quindi alla ricerca di nuovi proprietari per le sue società affiliate Globus, Gries Deco Group (Depot), Interio e m-way, che forniscano i presupposti per il loro ulteriore sviluppo. L’amministrazione della Federazione delle cooperative Migros (FCM) ha deciso di avviare i relativi processi di vendita. Negli ultimi anni, Migros ha notevolmente sviluppato le aziende interessate in un arduo contesto di mercato, migliorando il loro posizionamento e adeguandole alle sfide future. D’altro canto, le sinergie con il core business di Migros sono piuttosto scarse. «Le nostre analisi approfondite hanno dimostrato che queste aziende avrebbero migliori prospettive di successo al di fuori del Gruppo Migros. Oggi Migros non è più il proprietario ideale», ha affermato Fabrice Zumbrunnen, Presidente della direzione generale della Federazione delle cooperative Migros. «Per noi è importante trovare nuovi proprietari solidi, che dispongano degli strumenti e del know-how necessari per promuovere l’ulteriore sviluppo e il successo di queste aziende». In tal modo, la Comunità Migros rafforza il proprio orientamento strategico, puntando su una maggior affermazione del core business e sull’espansione del segmento Convenience, dei canali di vendita digitali e del settore della salute, nonché promuovendo l’ulteriore sviluppo dei negozi specializzati Do it + Garden, OBI, melectronics, micasa, SportXX e Bike World. In questo contesto, Migros verifica regolarmente la composizione del proprio portafoglio in vista di acquisizioni e potenziali cessioni. Negli ultimi mesi, Migros ha constatato che per favorire un futuro
di successo per diverse società affiliate nel settore del commercio tradizionale non-food sono necessari proprietari migliori. Inoltre, intende sbloccare fondi per poter investire maggiormente nelle aree strategiche di business. A seconda dell’azienda, il processo di vendita, dall’inizio fino a un’eventuale conclusione, richiederà tempi lunghi. Nel corso di tale periodo, non si prevedono variazioni significative per i collaboratori e i clienti delle imprese e l’orientamento strategico adottato proseguirà invariato. Globus ben posizionata per il futuro nel segmento premium e di lusso
Globus, di cui la FCM detiene una partecipazione maggioritaria dal 1997, si è sviluppata positivamente negli ultimi due anni con la sua strategia «one-brand», rafforzando la propria posizione nel segmento premium. Lo sviluppo verso i grandi magazzini del futuro procede secondo i piani con quote di mercato in costante aumento. Inoltre, Globus registra una crescita molto forte anche nel business online. Già nel 2019, quasi il 10% del fatturato totale sarà generato online. Con la crescente focalizzazione strategica sul segmento premium e di lusso, Globus si allontana ulteriormente dal DNA di Migros. Questo si traduce in un numero sempre minore di punti di contatto comuni e di sinergie per il futuro. Migros cercherà quindi un nuovo proprietario in grado di sfruttare al meglio il potenziale di Globus. Depot: commercio tradizionale e online all’estero in forte crescita
Il Gruppo Gries Deco, di cui la FCM detiene la quota di maggioranza dal 2012, è cresciuto costantemente negli ultimi anni, soprattutto in Germania e Austria, e grazie all’introduzione di numerose misure strutturali si è ade-
La filiale Globus sulla Löwenplatz di Zurigo: rafforzando la propria posizione nel segmento premium, Globus si allontana dal DNA della Migros. (Keystone)
guato alle mutate condizioni di mercato. In qualità di noto marchio di articoli decorativi e accessori per la casa, Depot sta registrando una crescita particolarmente elevata e redditizia nel business online. Poiché il Gruppo Gries Deco opera sia online che nel commercio tradizionale prevalentemente al di fuori del mercato interno di Migros in Svizzera, Migros vede migliori opportunità di sviluppo con un nuovo futuro proprietario. m-way diventa adulta
m-way, società affiliata Migros fondata nel 2010, è oggi uno dei principali commercianti di biciclette elettriche in
Svizzera. Negli ultimi anni, l’azienda si è trasformata da start-up in un’impresa adulta, per la quale Migros vede migliori opportunità di ulteriore crescita al di fuori del proprio gruppo. Filiali Interio: migliori prospettive di successo con un nuovo gestore
Le undici filiali di Interio specializzate in mobili e accessori per la casa non beneficiano di sufficienti sinergie con Migros, in quanto si tratta per lo più di filiali autonome che purtroppo non si sono sviluppate come previsto, in un mercato altamente competitivo come quello del mobile. Inoltre, all’interno di Migros non dispongono della massa
Presidenti al lavoro
critica necessaria a garantire uno sviluppo sostenibile. Migros vede quindi migliori opportunità per le filiali Interio con un nuovo proprietario o gestore. Indipendentemente da ciò, il Wohncenter Interio di Emmen, (Lucerna), deve chiudere i battenti al più tardi entro la fine di marzo 2020, poiché scadrà il contratto di affitto. La chiusura toccherà 23 collaboratori. La cooperativa Migros Lucerna ha elaborato un piano con le parti sociali e sosterrà attivamente i collaboratori Interio di Emmen, al fine di trovare una soluzione di continuità lavorativa all’interno o all’esterno di Migros Lucerna ed evitare licenziamenti.
Un dialogo di luci e di energie
FCM Ursula Nold e Andrea Broggini hanno messo a punto il passaggio di consegne
Mostra Allo Spazio nione dell’Assemblea dei delegati della FCM, il 23 marzo scorso, come Presidente dell’Amministrazione, assumerà ufficialmente il suo ruolo a partire da oggi, 1. luglio 2019.
Per garantire un passaggio di consegne efficace e operativo sono state organizzate delle sessioni di preparazione in cui Nold si è incontrata a più riprese con il ticinese Andrea Broggini, il quale
ha ricoperto la stessa carica dal 2012 ad oggi, dopo essere stato dal 2004 membro della direzione della FCM. Auguriamo un «buon lavoro» alla nuova eletta!
Lampo l’installazione «FM» degli artisti Mottini e Martins
Nello Spazio Lampo di Chiasso, luogo multidisciplinare che ospita l’associazione culturale no profit Grande Velocità, è stato aperta lo scorso 15 luglio un’installazione proposta dagli artisti svizzeri Flora Mottini e Filipe Martins. Si tratta di un lavoro concettuale legato al tema della modulazione di frequenza (FM), un fenomeno ondulatorio ed energetico che entra in considerazione nella generazione dei colori. L’intervento artistico quindi vuole indagare, con l’uso di tecniche specificamente ideate dagli autori, questo spazio cromatico che sta all’incrocio tra la generazione della luce e quello dei colori. Gli interventi creano una serie di interazioni tra le opere, le quali generano un dialogo e un confronto di linguaggi creativi. La mostra, curata da Carolina Sanchez, rimarrà aperta negli spazi in Via Livio 16 fino al 14 luglio. Può essere visitata su appuntamento, telefonando allo 079 831 04 43 oppure... sbirciando in vetrina. L’ingresso è libero. Informazioni: spaziolampo.tumblr.com Severin Nowacki
Negli scorsi giorni si è organizzata operativamente la successione alla testa della Federazione delle Cooperative Migros. Ursula Nold, eletta nell’ultima riu-
In collaborazione con
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Società e Territorio La fabbrica che si trasforma I vecchi edifici industriali dismessi possono trovare una nuova funzione ed essere riqualificati: anche il legislatore si prepara a elaborare nuove forme di aiuto economico pagina 7
Un Piottino ritrovato Una passeggiata in Leventina seguendo un sentiero didattico e naturalistico che attraversa una zona dal grande fascino, con una lunga storia pagina 9
Rivitalizzare la città, coinvolgendo Progetto Frequenze I ntervista a Elisa
Volonterio che da tre anni conduce un programma di promovimento economico e culturale della realtà urbana chiassese
Alessandro Zanoli Come garantire la vitalità ai nuclei urbani, in un periodo in cui la loro fisionomia e la loro funzione commerciale viene messa in crisi dalle nuove abitudini degli abitanti-consumatori? Negli ultimi anni il quesito è sul tavolo di varie amministrazioni comunali, che temono un impoverimento nella qualità della vita degli agglomerati. Una proposta di soluzione al problema è stato messa in atto negli ultimi anni a Chiasso e si chiama «Frequenze». Ci parla del progetto la sua creatrice e coordinatrice, Elisa Volonterio. «Tutto è partito da un mio lavoro di Master Supsi in “Management della cultura” organizzato dal Conservatorio della Svizzera italiana in collaborazione scientifica con la Fondazione Fitzcarraldo di Torino. Va notato che il lavoro prendeva le mosse con una prospettiva “culturale” ma, in effetti, è arrivato a definire un intervento “sociale”. Del resto grazie alla Fondazione Fitzcarraldo ho sconosciuto una realtà importantissima e affascinante di innovazione culturale e sociale, grazie a diversi progetti svolti all’Ospedale Sant’Anna di Torino e dalla Fondazione Medicina a Misura di Donna». «Al termine del percorso di studi» ci spiega Elisa Volonterio «ho scritto la tesi, occupandomi di un problema che tocca la città di Chiasso. Si tratta della presenza sul territorio urbano di vari esercizi pubblici e negozi, che rimangono chiusi da tempo e che non trovano modo di essere occupati. Sono locali completamente lasciati a sé stessi, per vari motivi, e che offrono anche una immagine poco vitale alle vie cittadine». Il progetto elaborato nel lavoro di Master è piaciuto al Municipio di Chiasso che l’ha adottato. Ed è stato immediatamente sollecitato un incontro con i proprietari, a cui si è proposto di mettere a disposizione i negozi sfitti chiassesi per il progetto di riqualifica. «Non sapevamo cosa avrebbero risposto loro» racconta Volonterio. «Ma al termine di quel primo incontro informativo avevamo già sul tavolo le chiavi di 5 o 6 negozi: i proprietari che li hanno affidati immediatamente».
Un elemento originale del progetto: «Abbiamo pensato di coinvolgere nei lavori di ripristino dei locali persone a beneficio di un sussidio di assistenza, le quali possono essere chiamate per svolgere attività pubblica quali misure di inserimento sociale (Attività di utilità pubblica)». Il primo importante test di funzionamento di «Frequenze» è stato dato dalle necessità logistiche legate all’allestimento di spazi per la Biennale dell’Immagine 2017. Volonterio e i suoi collaboratori hanno letteralmente riaperto un bar, che era stato chiuso da tempo. Oltre ad occuparsi della sistemazione dei vani, alcune persone sono in seguito state formate come guide per l’esposizione. Ecco che quindi da progetto di alcuni collaboratori da parte di aziende del territorio, «Frequenze» è diventato a tutti gli effetti un’attività sociale vera e propria. «In genere i collaboratori rimangono da noi sei mesi, di cui uno passato in formazione e cinque di lavoro vero e proprio» ci spiega la coordinatrice. «Si toccano qui aspetti molto delicati: alcune di queste persone non hanno mai lavorato veramente, quindi si tratta di gestire situazioni individuali a volte anche molto complesse. Per questo motivo è necessaria una forte collaborazione con il servizio sociale del Comune. Attualmente stanno lavorando a “Frequenze” dieci persone, che ne gestiscono gli spazi e le attività, mentre nel corso degli ultimi tre anni ne sono passate ben ventidue. In qualche caso l’esperienza ha sortito effetti positivi, permettendo l’assunzione vera e propria di alcuni collaboratori». Per ciò che riguarda gli spazi commerciali riutilizzati, lo scopo finale del loro uso è, paradossalmente, la loro chiusura, nel momento in cui qualche esercente ritrova l’interesse a insediarvi una nuova attività. È appena stato chiuso, ad esempio, un mercatino solidale gestito da «Frequenze», ed ha lasciato gli spazi a un nuovo negozio. Ma rimangono aperti, e con un buon seguito di persone, gli spazi Lunch Box e A190, in Corso San Gottardo, dove persone possono andare a mangiare sul mezzogiorno trovando uno ambiente accogliente, tavoli posate, condimenti e possono
Uno dei locali recuperati da «Frequenze»: il bollino arancione ne è il distintivo.
portarsi da mangiare, scaldandolo in forno a microonde (qui sono in vendita tra l’altro alcuni prodotti nostrani dell’assortimento di Migros Ticino). È stato poi allestito uno spazio di coworking in via Soldini, e si punta molto sul coinvolgimento della popolazione immigrata, in particolare di quella femminile, tramite attività specifiche, quali gli incontri di cucine del mondo con «La cucina di Tosca». «Frequenze» naturalmente ha in cantiere vari altri progetti che toccano vari aspetti della vita sociale del Comune. «Abbiamo formato dei collaboratori per gli Orti Comunali, spazi di giardinaggio messi a disposizione della popolazione, con una
presenza giornaliera; sono state organizzate mostre d’arte (Meccanismi mentali, una personale del pittore Marco Lupi, che ha potuto usufruire del sostegno del Percento Culturale di Migros Ticino) e Souvenir di Chiasso. Ricordo di Chiasso, una collaborazione con OfficinaOrsi, un film documentario dove più di 50 chiassesi hanno raccontato la loro città. È stato realizzato anche un periodico, “ESC”, che intende informare i lettori su temi di innovazione Economica, Sociale e Culturale (ESC)» ci spiega la coordinatrice. «Frequenze», per concludere, promuove una nuova concezione dello spazio pubblico, sollecitando la
creazione di attività gestite in modo autonomo e che ridiano vitalità a luoghi che sembrano perdere contatto con la vita quotidiana. In questo senso, proprio la sua natura «al confine» tra la socialità e la cultura crea a volte difficoltà nel definire le istanze da chiamare in causa per garantirgli un sostegno finanziario. Secondo Elisa Volonterio, comunque, in futuro ci si dovrà sempre più chinare sul problema perché la questione affrontata a Chiasso è condivisa da molti altri centri urbani, i quali cercano soluzioni adeguate sia per la riqualifica degli spazi, sia per il reinserimento di una fascia di popolazione per cui è difficile l’integrazione sociale.
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Idee e acquisti per la settimana
L’estate da assaporare
Attualità Meloni & Co. per soddisfare la voglia di rinfrescanti e buonissimi piatti estivi. Questa settimana
alla Migros tutti i meloni sono offerti ad un prezzo particolarmente vantaggioso Oltre al classico prosciutto crudo e melone, piatto fresco e veloce in grado di accontentare tutti i palati, i frutti sinonimo di bella stagione accompagnano a meraviglia molti altri menu della cucina estiva. I meloni contengono anche preziosi nutrienti, come vitamine, sali minerali e sostanze vegetali secondarie. Sono inoltre poveri di calorie grazie all’elevato contenuto di acqua: un etto, a dipendenza della varietà, fornisce solamente tra le trenta e cinquanta calorie, con ben novanta per cento di acqua. All’acquisto ci sono alcuni «indizi» che possono determinare la qualità di un melone: se esso possiede un buon peso vuol dire che la polpa è soda (un melone leggero sarà certamente acquoso) e il picciolo dovrebbe essere marrone e asciutto e staccarsi facilmente dalla buccia. Inoltre il buon profumo che si sente in vari punti della buccia può essere indicazione di probabile bontà. La pianta del melone è originaria dell’Asia meridionale e dell’Africa tropicale. Sono numerose le varietà oggi coltivate, principalmente in Italia e Spagna, anche se da noi sono apprezzate quelle più «classiche». Al momento la scelta che potete trovare alla Migros comprende le qualità Galia, dalla polpa di colore bianco-verde lievemente dolce; il Charantais con polpa arancione e sapore molto delicato e il dolcissimo Retato con la sua polpa particolarmente succosa. Naturalmente nell’assortimento non può mancare l’anguria che, con la sua polpa rossa e dissetante, è un’irrinunciabile squisitezza dell’estate. Che ne direste di portare in tavola un’originale e nutriente insalata con melone e anguria? Allora provate a preparare la deliziosa ricetta che trovate in questa pagina.
Insalata caprese con melone Ingredienti 1½ limoni 4 cucchiai d’olio d’oliva sale, pepe 300 g d’anguria 1 melone Charentais 150 g di foglie d’insalata mista 400 g di mozzarella, ad es. mini mozzarelline di bufala 1 mazzetto di cerfoglio 1 mazzetto d’erbe aromatiche miste per insalata Preparazione Spremete i limoni, mescolate il succo con l’olio d’oliva e condite con sale e pepe. Pelate l’anguria e il melone, privateli dei semi e tagliateli a bocconi. Mettete l’insalata in una insalatiera. Accomodate i bocconi di frutta sull’insalata. Dimezzate le mozzarelline e distribuitele sull’insalata. Completate con le erbe aromatiche. Condite con la salsa. Tempo di preparazione ca. 15 min
Azione 33% sull’intero assortimento Aproz
L’acqua è vita
Benessere A ssumere liquidi a sufficienza sta alla base
della nostra salute. Aproz dà un prezioso contributo
dal 2 all’8 luglio
Bere acqua regolarmente è fondamentale per rimanere sani e in forma. A maggior ragione quando le temperature sono elevate. L’ideale è assumere almeno 1,5-2 litri di acqua quotidianamente, in caso di canicola o intensa attività sportiva si può arrivare fino a 3 litri. L’acqua permette al nostro corpo di svolgere molte funzioni essenziali, ci fa stare meglio e aumenta il nostro rendimento. Inoltre depura dalle scorie e svolge un’azione positiva sull’elasticità della pelle. Oltre all’acqua, le bevande più indicate per il nostro corpo sono anche i tè non zuccherati e i succhi di frutta. Un altro aspetto importante è non aspettare che la sete si faccia sentire, ma assumere piccole quantità di liquidi a intervalli regolari (almeno due decilitri ogni ora), per esempio tenendo sempre a portata di mano una bottiglietta o una borraccia d’acqua: in questo modo ci si ricorda di dover bere molto. Un’ottima alternativa all’acqua del rubinetto, è
Azione
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni
Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31
Tiratura 102’022 copie Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch
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Idee e acquisti per la settimana
Punture di zanzara addio
Il sushi del mese
Attualità Protezione efficace e design
attraente caratterizzano i bracciali antizanzare Para’kito per tutta la famiglia
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Gli amanti della specialità giapponese per eccellenza o per chi è alla ricerca di un piatto fresco e leggero ideale per la stagione calda, non possono lasciarsi sfuggire il golosissimo sushi del mese di luglio, proposto dalle maggiori filiali Migros: il Fuzuki. Si tratta di una specialità preparata con ingredienti di prima qualità composta da Nigiri ai
gamberetti, Nigiri al salmone, HosoMaki al cetriolo, Chu-Maki al tonno e Chu-Maki Roll al pollo e curry. Ovviamente assieme al sushi nella vaschetta sono inclusi gli indispensabili accompagnamenti quali wasabi, salsa di soia e zenzero marinato. Cosa aspetti? Vieni a gustare questa imperdibile specialità del mese. Annuncio pubblicitario
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Società e Territorio
Nuova vita per gli edifici dismessi
Alla fiera del gioco digitale Electronic Entertainment Expo L’edizione
Edilizia Il Governo propone misure per incentivare la rivitalizzazione 2019 dell’importante kermesse dedicata
degli stabili non più utilizzati. Un tema in discussione da anni che potrà ora avere sbocchi concreti
Fabio Dozio A Salorino un cappellificio si è trasformato in abitazioni. A Balerna una fabbrica di sigari è diventata centro polifunzionale di servizi. A Mendrisio una filanda è rinata come centro culturale e biblioteca. A Lugano la ex centrale termica ospita una multisala cinematografica. In Valle di Blenio la vecchia fabbrica di cioccolata si è trasformata in atelier e residenze per artisti. Sono solo alcuni esempi virtuosi, in Ticino, di recupero di edifici artigianali o industriali dismessi. Nel mondo intero ci sono innumerevoli esempi qualificati in materia: la centrale termica di Londra trasformata in museo; stabili industriali milanesi rinati come spazi espositivi o universitari; birrerie diventate centri culturali a Berlino; ad Amburgo un magazzino fa da base a una sala da concerto; fabbriche, birrerie, latterie che rivelano una seconda vita a Zurigo. Recuperare spazi e stabili abbandonati è un’ottima cosa, soprattutto pensando agli imperativi della Legge federale sulla pianificazione del territorio, che impone di non sprecare ulteriore terreno, limitando l’estensione degli agglomerati. In Ticino si può fare di più: sui tavoli del Gran Consiglio c’è una proposta volta a concedere sussidi a chi intenda rivitalizzare edifici industriali dismessi. Un’operazione che non deve riguardare solo stabili pregiati o testimonianze di archeologia industriale, bisogna intervenire per offrire una nuova vita a capannoni artigianali e a vecchie costruzioni abbandonate. In Svizzera si discute da anni di promuovere la riqualificazione delle aree industriali e commerciali dismesse. Uno studio dell’Ufficio federale dello sviluppo territoriale (ARE) e dell’Ufficio federale dell’ambiente (UFAM) del 2004 precisava che le aree industriali e artigianali dismesse di almeno un ettaro (10’000 mq) si estendevano su 17 milioni di metri quadrati, pari a una superficie poco più grande della città di Ginevra. Il Consiglio federale, nel 2008, prendeva atto di queste cifre e sottolineava l’importanza di sfruttare queste importanti superfici per promuovere uno sviluppo sostenibile: «La riconversione – scriveva il Governo – offre quindi un potenziale interessante per migliorare l’attrattiva degli insediamenti e rivitalizzare i quartieri trascurati e abbandonati. Dal punto di vista dello sviluppo territoriale, la rivitalizzazione delle superfici edificate dismesse è di grande interesse». Recuperare aree dismesse è interessante dal punto di vista economico, ambientale e anche sociale, per incre-
mentare la qualità degli insediamenti senza sprecare terreno. La disamina del Consiglio federale concludeva indicando nei Cantoni, Comuni e Città gli attori incaricati di «incoraggiare progetti pilota sostenendo concorsi di idee e studi di fattibilità» in merito. Infatti, «la scarsità delle risorse finanziarie e umane limita la possibilità di promozione della Confederazione». In Ticino nel 2007 l’Accademia di architettura di Mendrisio ha messo a punto uno studio per monitorare gli edifici industriali facendo riferimento ai dati dell’Ufficio Stima del Dipartimento delle finanze e dell’economia. La ricerca ha così evidenziato che erano presenti 3681 stabili industriali. Da questo patrimonio immobiliare risultavano potenzialmente dismessi 1120 edifici, pari al 30,4% del totale, per circa 5 milioni di metri cubi edificati disponibili. Risultati da capogiro: «Una valutazione del potenziale di riconversione – si legge nello studio – ha permesso di evidenziare che il riuso delle superfici degli edifici industriali potenzialmente dismessi permetterebbe di realizzare 6705 abitazioni oppure 32’183 postazioni di lavoro; mentre l’edificazione della superficie dei lotti disponibili permetterebbe di fabbricare alloggi per circa 78’000 persone». Questi dati si rivelano un po’ farlocchi. Infatti, lo stesso studio avanzava riserve: «Il risultato ottenuto semplicemente dall’analisi dei dati forniti dall’Ufficio stima non rispecchia esattamente lo stato reale della dismissione dell’architettura industriale ticinese». In sostanza, basare l’inchiesta solo sui dati delle stime non è sufficiente per avere una visione corretta della situazione. Vi sono stabili che non valgono niente, ma che sono occupati e non dismessi. Utile corollario: gli studi accademici non sono sempre attendibili. Malgrado queste lacune, lo studio del 2007 ha avuto il pregio di smuovere la politica su questo tema. Nel 2016 il deputato Nicola Pini ha depositato una mozione che chiedeva di rivitalizzare gli edifici dismessi, specificando prima di tutto che era necessario aggiornare lo studio dell’Accademia «per identificare potenzialità di recupero e di sviluppo degli edifici dismessi presenti sul territorio cantonale». Il tema interessa, ma bisogna studiarlo più attentamente. Nel 2016 è l’Osservatorio dello sviluppo territoriale che elabora un’analisi a tappeto delle aree di attività. C’è maggiore attenzione alla definizione di questo tipo di spazi, perché non esiste una definizione univoca: «La dismissione è una combinazione tra lo stato di conservazione di un edificio e la presenza o meno di attività econo-
miche riconosciute. Così, un edificio vetusto ma occupato non è dismesso; analogamente, nemmeno un edificio in buono stato, ma vuoto, lo è». La nuova indagine chiarisce lo stato della situazione: gli edifici inattivi sarebbero 187 in tutto il Cantone. Valutando ulteriormente lo stato di conservazione e la presenza di un’attività conosciuta emerge che gli edifici verosimilmente classificabili come dismessi sono poco più di un centinaio, 114 per la precisione. L’Osservatorio ha indagato con cautela e metodo certosino e alla fine ha decimato (da 1120 a 114!) i risultati del 2007. In sostanza, per quanto riguarda la pianificazione del territorio, il fenomeno è meno incisivo di quanto si poteva immaginare. Dunque, il Ticino non è un paese di industrie dismesse e speriamo che non lo diventi. C’è però un potenziale di rivitalizzazione di spazi abbandonati che potrà essere utilizzato. Il Consiglio di Stato propone di mettere a disposizione degli interessati alla riconversione una decina di milioni di franchi, ma i criteri per elargire i sussidi sono piuttosto severi, anche per evitare intenti speculativi: «L’aiuto pubblico è destinato ai Comuni, gruppi di Comuni o altri enti di diritto pubblico, oppure a partenariati pubblico-privati che presentano un progetto di recupero e di rivitalizzazione di immobili prioritariamente ubicati in regioni periferiche». Anche nei centri possono essere considerati dei progetti, purché «siano particolarmente rilevanti per l’agglomerato di riferimento». Nicola Pini, il granconsigliere che ha promosso questa idea, è soddisfatto del Messaggio governativo che permette di intervenire non solo nelle aree industriali: «Sarà una buona opportunità, – ci dice – potranno essere presi in considerazione per esempio il Grand Hotel di Locarno, da anni abbandonato. Si tratta di mettere in moto uno sviluppo territoriale ed economico che potrà dare un bel risultato per il Cantone in termini di abbellimento del territorio e di rilancio di attività». La proposta verrà discussa in Gran Consiglio non prima dell’autunno, la neoletta deputata Anna Biscossa sarà la relatrice. Pini sottolinea che il Messaggio prevede molti criteri per concedere i sussidi, «forse troppi, nell’esame parlamentare bisognerà riflettere se allentarli un po’». Sarà soprattutto nelle zone periferiche che si giocherà il senso dell’operazione. Gli Enti regionali di sviluppo e i Comuni si daranno da fare, come auspica il Consiglio di Stato? Nasceranno sinergie tra pubblico e privato per far rivivere qualche vecchio edificio nelle Valli?
L’ex Fabbrica del Cioccolato Cima Norma di TorreDangio. (Ti-Press)
all’industria dei videogame di Los Angeles è sembrata parzialmente sottotono a causa di defezioni importanti
Lo stand di Darksiders Genesis. (D. Canavesi)
Davide Canavesi Il mondo dei videogiochi, come molti altri ambiti, vive delle sue tradizioni. Un evento tra i più consolidati e atteso con fervore quasi religioso da parte dei giocatori di tutto il mondo è sicuramente l’E3. L’Electronic Entertainment Expo di Los Angeles esiste dall’ormai lontano 1995 come punto di riferimento per l’industria. Tutte le grandi aziende fanno a gara per mostrare le ultime novità e tutti quanti fanno carte false per poter essere ammessi nelle sale del Los Angeles Convention Center. Questa era la realtà fino a un paio d’anni fa, per lo meno. Ora l’E3 è anche parzialmente aperto al pubblico, con dei contingenti piuttosto stretti che permettono però ai veri fan dei videogame di calcare gli stand per scoprire le ultime novità. L’edizione 2019 è poi stata indubbiamente caratterizzata dalla disaffezione di alcuni brand molto noti, quali PlayStation, Activision ed EA. Un’edizione che molti hanno percepito come incompleta, al risparmio e sottotono rispetto agli anni d’oro della manifestazione. Un’impressione che abbiamo avuto anche noi durante i tre giorni di convention: poche novità assolute, poca gente e un certo scarso entusiasmo. Tuttavia, sarebbe sbagliato pensare che l’edizione 2019 dell’E3 sia stata un fallimento perché le sorprese ci sono state e le novità, per quanto in misura forse minore, erano senza dubbio interessanti. Diamo dunque uno sguardo agli annunci e ai titoli più importanti di quest’anno. Iniziamo con la conferenza stampa di Xbox che ha sorpreso i presenti e i milioni di persone collegati in diretta col Microsoft Theater via internet. Sessanta i giochi mostrati in poco meno di due ore tra cui Ori and the Will of the Wisps, Gears 5, Dying Light 2 e Star Wars Jedi: Fallen Order. La sorpresa più grande è stata l’arrivo sul palco di Keanu Reeves, conosciuto ai più per le sue parti in Matrix, la saga di John Wick e il film culto Johnny Mnemonic. Reeves sarà uno dei personaggi principali di Cyberpunk 2077, la nuova fatica dei talentuosissimi polacchi di CD Projekt Red, già autori di The Witcher 3. L’attore di Hollywood sarà il compagno del giocatore nel gioco, una sorta di fantasma digitale che i giocatori del gioco di ruolo cartaceo Cyberpunk 2020 conoscono molto bene. Microsoft ha anche annunciato Minecraft Realms, un gioco per cellulare in realtà aumentata che prende ispirazione da alcune meccaniche di Pokémon GO unendole col mondo a blocchi di Minecraft. Per
finire è stato anche mostrato Project xCloud, un nuovo servizio per i videogiochi in streaming (simile a Stadia di Google e PlayStation Now) col quale per giocare basta una connessione internet: non serviranno più né console né computer. Bethesda Softworks ha anch’essa organizzato una conferenza stampa in cui però ha mostrato praticamente solo titoli di cui il pubblico era già a conoscenza: Doom Eternal, Wolfenstein Youngblood, Fallaut 76. Molto interessante comunque GhostWire: Tokyo, uno strano gioco d’azione ambientato in una Tokyo post Rapimento della Chiesa. Il publisher francese Ubisoft dal canto suo ha mostrato titoli estremamente interessanti quali Watch Dogs Legion (il quale tenterà di proporre un gioco in cui nessun personaggio è il solo protagonista), il nuovo Tom Clancy’s Ghost Recon Breakpoint, lo «esportivo» Roller Champions e l’arrivo di un nuovo servizio in abbonamento chiamato Uplay + che permetterà di non acquistare i giochi ma di ottenerli pagando un abbonamento mensile. Per finire, Nintendo ha mostrato una lineup impressionante di giochi, tra cui l’attesissimo Luigi’s Mansion 3, The Legend of Zelda: Link’s Awakening, Pokémon Spada e Scudo e l’elettrizzante sequel di The Legend of Zelda: Breath of the Wild. Interessante anche l’arrivo su piattaforma Nintendo di Resident Evil 5 e 6, The Witcher 3, Alien Isolation e altri giochi che non sono nuovi ma indirizzati ad un pubblico più adulto rispetto al target usuale dell’azienda giapponese. Segno che Nintendo sta ampliando i suoi orizzonti. Coloro che aspettavano l’annuncio di un nuovo modello di Switch però sono rimasti delusi. L’E3 2019 è stata sicuramente un’edizione di transizione, la classica calma prima della tempesta. Nel 2020 infatti arriveranno le nuove console e tutti gli addetti ai lavori si aspettano grandi rivelazioni per quanto riguarda Xbox Scarlett e PlayStation 5. Sembrerebbe che quest’anno si sia dovuto mostrare solo quanto previsto per una generazione di console oramai giunta al traguardo perché della next gen ancora non si vuole o non si può parlare. Moltissimi sviluppatori di videogiochi in tutto il mondo stanno lavorando alacremente per sorprenderci l’anno prossimo. Di questo E3 ci rimane comunque l’impressione di una buona varietà di titoli in uscita per i prossimi 12 mesi e la speranza di poter assistere a qualche sorpresa per il prossimo appuntamento imprescindibile per i fan dei videogiochi: gamescom di Colonia a fine agosto.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 1 luglio 2019 • N. 27
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Società e Territorio
Rinnovato il percorso del Monte Piottino
Escursioni Il Sentiero educativo Monte Piottino, inaugurato nel 1991, è stato rinnovato e offre oggi un’occasione
per una gita nel territorio a contatto con la natura
Elia Stampanoni Una passeggiata in Leventina è sempre un piacere e la presenza del percorso naturalistico e didattico del Monte Piottino può essere un buon pretesto per intraprendere la trasferta. Si troveranno angoli di natura intatta e un bel silenzio, rotto quasi unicamente dai rumori della natura. Il tragitto si sviluppa tra Rodi e la frazione di Bedrina ed è tornato a risplendere nel 2014, quando i Comuni di Prato Leventina e Dalpe, con il sostegno della Fondazione Carlo Danzi, decisero d’innovare il sentiero esistente, creato nel 1991 da un gruppo di docenti di scuola elementare in collaborazione con esperti e uffici cantonali. Il tracciato ha mantenuto le postazioni d’osservazione originali, rivisitandole però secondo criteri didattici più attuali.
Il tracciato di 6300 m attraversa terreni con varie specificità storiche, biologiche e paesaggistiche E lo s’intuisce anche in fase di preparazione, visitando il sito internet, dove il progetto, il tragitto e le soste vengono presentati tramite disegni, vignette e brevi descrizioni con una grafica moderna e accattivante. Informazioni e immagini che poi si ritroveranno in parte anche sul posto durante l’escursione, che si estende per circa 6 km e 300 metri di dislivello, spaziando dai boschi ai campi, dai villaggi alla campagna. La passeggiata è contraddistinta dalla presenza di una quindicina di pannelli e si sviluppa su dei comodi sentieri disegnati a tratti su un soffice sottobosco d’aghi di conifere oppure lambendo prati o altri ecosistemi. L’accesso è possibile in diversi punti e presso il Dazio Grande a Rodi, in paese a Prato Leventina oppure prima di giungere alla frazione di Bedrina, si trovano anche tre cartelli informativi generali del percorso che è poi ben contrassegnato con piccole targhe e segni color verde-rosso. Gli argomenti d’osservazione o approfondimento sono di tipo naturalistico e ambientale, ma anche storici e culturali, permettendo di scoprire o riscoprire delle semplici nozioni sul nostro territorio, con un legame al pas-
Uno scenario affascinante e pieno di spunti di riflessione. (E. Stampanoni)
sato e uno sguardo al futuro. Cartelli esplicativi adatti a tutti, grandi e piccoli, che invitano alla scoperta stimolando la voglia d’esplorare, conoscere e apprendere. Per esempio quando viene proposto un cammino sensoriale invitando a utilizzare non solo la vista, ma anche il tatto, l’udito e l’odorato. Nella parte alta del tragitto, il percorso suggerisce infatti di togliersi le scarpe e percorrere alcuni metri ad occhi chiusi, cercando l’equilibrio e soprattutto prestando attenzione ai tanti suoni e odori della natura. Poco lontano c’è la sosta presso la torbiera della Bedrina, un biotopo d’importanza nazionale che conserva una vegetazione tipica di palude e rappresenta la parte più preziosa e delicata dell’omonima zona protetta. Qui s’invita a riflettere sull’importanza delle torbiere e anche ad aguzzare la vista alla ricerca di alcune specie tipiche e fragili di questi ecosistemi, come la Rosolida a foglie rotonde, una minuscola piantina carnivora, il Dragone alpino, una libellula con straordinarie abilità di volo, oppure il Pennacchio guainato, una pianta erbacea perenne dai
frutti pelosi. Specie che in determinati periodi (fine maggio-inizio giugno per il Pennacchio, fine luglio-inizio agosto per le altre due specie citate), con buono spirito d’osservazione e anche un po’ di fortuna si potranno scovare presso la torbiera della Bedrina la quale deve il suo nome alla Betulla, bédra nel dialetto locale, un albero pioniere tra i primi a fare il suo ritorno dopo il ritiro dei ghiacciai. Nel percorso circolare attorno alla torbiera, incontriamo anche una postazione dedicata alla biodiversità e una al paesaggio della Valle Leventina, modellata dal passaggio del ghiaccio e dell’acqua, segni osservabili dal punto panoramico del Monte Piottino. A collegare questa parte alta a quella più in basso nei pressi del Dazio Grande ci sono altre tappe che portano l’escursionista da Dalpe a Rodi transitando da Prato Leventina (o viceversa), narrando di api selvatiche o riflettendo sulla relazione dell’uomo con la natura, impressa nelle pendici coperte di boschi di protezione e di ripari antivalanga, nelle opere legate all’idroelettrico oppure ancora nelle tracce delle attività agrico-
le e alpestri che ricordano il legame tra società e territorio. Poco sotto il nucleo di Prato Leventina, in prossimità della chiesa di San Giorgio e a due passi dalla strada carrozzabile, il sentiero tocca due costruzioni poste a pochi metri l’una dall’altra, un ponte «romano» e una fornace. Il ponte, in realtà non risale all’epoca romana: faceva parte del percorso che collegava Faido al Gottardo passando per Piana Selva e il Dazio Antico. Un’opera che perse d’attualità verso il 1350 con la costruzione della mulattiera sul lato destro del Piottino. La fornace è invece più recente ed è stata utilizzata per la produzione di calce sino agli inizi del XX secolo, per poi perdere d’attrattività con l’avvento del cemento o altri materiali e con lo sviluppo della rete viaria che rese più facile l’accesso ad altre zone dove c’era del materiale calcareo migliore. Della fornace si possono ancora vedere le mura con la bocca di fuoco, di carico e scarico dove venivano cotte le pietre frantumate e contenenti calcare. Queste e altre informazioni si possono incontrare percorrendo il sentiero
essere sincera, tenace e coraggiosa e dovrà competere con altri ragazzi cercando di far emergere il suo personale talento. Non sarà facile, prima di tutto perché Morrigan teme di non avere alcun particolare talento. Questa, insieme al desiderio di trovare il suo posto nel mondo, è una tematica che permette il rispecchiamento dei lettori preadolescenti, a cui il romanzo è destinato. Inoltre Morrigan dovrà affrontare il disprezzo dei residenti, che la considerano un’immigrata irregolare, con evidente allusione alle problematiche sociali contemporanee (anche quando si parla della cosiddetta «Wunder», una fonte energetica in grado di far funzionare il paese e monopolizzata dal cattivo di turno). Nonostante qualche nodo un po’ farraginoso nella trama, il lettore è indotto continuamente a cercare di sapere cosa succederà a Morrigan, ragazzina coraggiosa ma apparentemente senza
nulla di speciale, eroina suo malgrado, nella quale ci si può identificare, appassionandosi al suo destino.
didattico del Monte Piottino, che anche nei pressi del Dazio Grande prevede ulteriori postazioni d’interesse, come quella relativa allo sfruttamento del quarzo oppure quella incentrata sulla versatilità del legno. La diramazione del sentiero fa visita anche alla mulattiera che, progettata nel 16° secolo dagli urani, serviva a trasportare le merci sui muli o su altri animali da soma. La struttura permetteva di superare l’ostacolo naturale del Monte Piottino, 240 metri di dislivello tra Faido e Rodi Fiesso. In seguito anche le gallerie elicoidali della ferrovia nel 1870 e l’autostrada costruita nel 1980 hanno permesso di superare le gole, dove è possibile proseguire la passeggiata lungo un cammino recentemente ristrutturato. Lo scorso 26 maggio è infatti stato inaugurato il ripristino della via storica della gola del Piottino, dove sono state inserite anche delle tavole informative e delle postazioni interattive, in continuità con il percorso didattico, ma con una fruizione autonoma. Sito web
www.percorsopiottino.ch
Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Jessica Townsend, Nevermoor, Il Castoro. Da 11 anni «I giornalisti arrivarono prima della bara». L’incipit e le pagine iniziali del romanzo (il Prologo e il Capitolo Uno) sono davvero incisivi, e costituiscono forse il punto più efficace del romanzo di questa giovane autrice australiana. La bara è (dovrebbe essere...) quella di Morrigan Crow, l’eroina di questa serie fantasy già molto acclamata nel mondo e di cui ora esce in italiano il primo tomo. Morrigan è una «Bambina Maledetta», sembra portare sfortuna a chiunque le stia vicino; Morrigan non ha un futuro, perché, come tutti i Bambini Maledetti, è destinata a morire allo scoccare del suo undicesimo anno, per il sollievo del suo crudele padre e della sua arida matrigna. Ma, ricalcando un topos delle saghe fantasy – quello del bambino predestinato a una più alta sorte –proprio alla vigilia del suo
terribile compleanno, mentre sta per cadere vittima della funesta cavalleria della «Caccia di Fumo e d’Ombra» (bel nome, ben tradotto), ecco arrivare un emissario di un «altro» mondo, a portarla via, facendole varcare il confine del reale e accogliendola nella città segreta di Nevermoor, in un magico altrove. Per restare a Nevermoor però, Morrigan dovrà superare una serie di difficili prove, dimostrando di
Marie Dorléans, Gran Premio!, Sinnos. Da 4 anni Già un’occhiata alla copertina ci trascina (letteralmente trascina) dentro il contesto della vicenda. È un albo illustrato dal formato insolito, rettangolare ma per il lungo, che dà l’idea di una corsa che galoppa in avanti, in orizzontale, proprio come il cavallo disegnato al centro, con le zampe che sembrano volare e l’espressione ispirata e sognante, ben diversa da quella non propriamente rilassata del suo fantino, aggrappato alle redini e sollevato per aria, trascinato in avanti. L’effetto umoristico, che ci lascia presagire una corsa di cavalli surreale e tutta da ridere, è sottolineato anche dal punto esclamativo del titolo: Gran Premio! Chi lo merita davvero il premio? Il fantino o
il cavallo? E cosa succede nella gara? La storia è semplice e ha pochissimo testo, perché in effetti la narrazione di ciò che succede nella gara è affidata alle divertenti illustrazioni, e succede davvero di tutto... persino fantini che gareggiano su cavalli a dondolo o che stanno in sella sotto la pancia del cavallo! Marie Dorléans è un’autrice francese che ama le storie con una vena di sorridente assurdo; la collana è «I tradotti» di Sinnos, che ci fa sempre scoprire piccole perle del panorama letterario internazionale.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 1 luglio 2019 • N. 27
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Idee e acquisti per la settimana
Grigliare risparmiando «Grigliare è facile e senza complicazioni», afferma Gege Klemp (nella foto al centro, seduto) di Zurigo. Insieme agli amici poi, il piacere è doppio. Oggi la famiglia Klemp è stata invitata da amici per una grigliata a Benken SG. «Mi sorprendo sempre quando penso a quante buone cose si possono grigliare», continua il grigliatore per passione. Oltre a salsicce e altri tipi di carne, sui carboni ardenti si possono preparare anche verdure, formaggio e frutta. Chi ama gli spiedini, dovrebbe prima bagnare gli spiedi di legno sotto l’acqua per evitare che brucino. E ora che alla Migros ci sono più salsicce per meno soldi, sicuramente si griglierà anche più spesso.
Prezzo del paniere Fr. 39.25 finora 44.35 I prodotti Migros per il grill, dopo le riduzioni, costano ora Fr. 39.25*, mentre il 17 giugno i clienti li pagavano ancora Fr. 44.35*. *Il prezzo dei prodotti singoli dipende dal peso.
Ribasso permanente Prodotti preferiti più convenienti Attualmente i prodotti preferiti dai clienti Migros, vale a dire quelli acquistati con maggiore frequenza, sono proposti a un prezzo più conveniente. Di questi fanno parte anche prodotti di salumeria come i cervelas per il grill. Settimana dopo settimana faranno seguito altri prodotti. Grazie ai nuovi prezzi, l’acquisto sarà più conveniente non solo per la durata di un’azione, ma in modo permanente.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 1 luglio 2019 • N. 27
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Società e Territorio Rubriche
L’altropologo di Cesare Poppi SPAM Tornato da pochi giorni d’Oltremanica dopo l’annuale risciacquatura dei panni in Tamigi, il vostro Altropologo di riferimento si affretta a ragguagliare i suoi Lettori preferiti su alcune importanti materie. Premesso di aver trovato un Paese stremato da ormai tre anni dove altro non si è fatto oltre a cercare di implementare un risultato referendario che ha visto il Regno diviso come mai dall’epoca di Cromwell senza peraltro venire fuori con alcunché che non sia stata l’erosione costante e feroce dello stesso processo istituzionale, alcune considerazioni sul paradosso brexitano sono d’obbligo. Pensare ad un Regno Unito (e tanto più ad un’Inghilterra) che divorzia dall’Unione Europea è un po’ come pensare ad una coppia di sposi che divorziano non tanto dal proprio partner ma da se stessi. E provo a spiegarmi. Il paradosso inglese è che si tratta allo stesso tempo di uno dei paesi europei con il più alto tasso di specifica identificazione culturale mentre è, allo stesso tempo, il paese più «europeo»
e forse globale d’Europa. O meglio, se preferite, è l’Europa in generale ad essere il continente più «inglese» del pianeta. E non si tratta qui soltanto del dominio ormai incontrastato della lingua, anche se certo non quella di Shakespeare o di una Regina Nonna Europea – poiché l’Inglese globale è un idioma ridotto dai trecentomila lemmi dell’Oxford Dictionary ai cinquecento che riescono a maneggiare i miei studenti britannici o meno. Si tratta soprattutto dell’impatto che la Pop Culture inglese (che è tutt’altra cosa di quanto si intenda per Cultura Popolare in area italiana) ha avuto dal dopoguerra in poi per modellare una koiné culturale ormai assimilata a livello continentale. Passati i tempi nei quali la BBC annunciava «nebbia sulla Manica, il Continente è isolato», le isole britanniche hanno mediato la cultura americana rendendola digeribile anche in terraferma – dagli hamburger al ketchup e da Halloween ai Rolling Stones (che sono inglesi) senza grazie a dio passare per l’accento texano. Ma poi i Beatles e la musica
pop, James Bond e Stanlio o Ollio e la rivincita della birra in cambio del Prosecco che a Londra scorre a fiumi e dunque l’eccellenza delle Università e della ricerca scientifica per non parlare del più antico e collaudato processo di integrazione transculturale che vede (ha visto?) gli immigrati ed i figli di immigrati diventare più realisti del re (il Sindaco di Londra Sadiq Khan è di origini pachistane) e della quantità di immigrati dai paesi dell’UE che fanno paura ai brexiters soprattutto laddove, nelle contee più remote a ridosso del Vallo di Adriano che sancì a suo tempo l’esistenza di due Europe, di immigrati se ne vedono pochi o punti... Insomma: il Paese più «europeo» d’Europa dall’Europa se ne vuole andare: un po’ come il Quebec che col 20% della popolazione ha dato al Canada 5 primi ministri su 23 e dal Canada vuole rendersi indipendente... Cosa sarà un’Europa isolata dal Regno oggi Disunito resta da vedere. Ma fra i tanti contributi della cultura inglese alla formazione di una cultura transnazionale europea va certo anno-
verato quel fenomeno informediatico che tutti ormai conosciamo per il bene o per il male col nome di SPAM. «SPAM» nella vulgata americana starebbe per «spiced ham» – ovvero «prosciutto alle spezie». Si tratta in realtà di carne mista di maiale tritata e rigenerata nella quale coesistono zucchero, nitrito di sodio, amido di patate modificato, vari altri conservanti e una buona percentuale di grasso a far sì che tutto stia incollato dentro la scatoletta dal formato caratteristico. Il prodotto fu lanciato il 5 Luglio 1937 dalla Hormel Food Corporation del Minnesota, USA, con l’intento di dotare le truppe americane di carne sul campo di battaglia. Da qui il nome alternativo di Special Army Meat (Carne Speciale per l’Esercito). «Speciale» in qualche modo deve essere, visto che SPAM ha non solo nutrito le truppe americane durante la Seconda Guerra Mondiale, ma ha salvato poi dalla fame prima la popolazione civile britannica durante gli anni del conflitto, poi – con la collaudata garanzia gastronomica britannica (sic) – quella
di mezza Europa negli anni della Ricostruzione postbellica. Un successo globale di quella che è peraltro nota come globale porcheria alimentare: nel 2003 era prodotta in 41 paesi del mondo secondo una varietà di brand names e ricette seconda solo a quella dell’aspirina. Nel Regno Unito SPAM era materia di scherzo ed ironia per qualunque cosa fosse falsa, vile – e indispensabile. A traghettare SPAM nel dominio dell’elettronica ci pensò un celebre sketch dei Monthy Python degli anni 70 che vedeva un certo ristorante servire un menù a base di SPAM – dall’aperitivo al sapone per le mani. Negli anni 90 la sigla era diventata sinonimo di unsolicited electronic message – «messaggio elettronico non sollecitato». E lì ce lo teniamo. Quanto potrà durare la vita elettronica di SPAM prima della sua scadenza? Difficile dirlo. Ma sarebbe bello – sogno di Altropologo – se l’annuncio ufficiale dell’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea ci arrivasse nella cartella SPAM...
Cara Brigida, il cuore ha delle ragioni che la ragione non conosce e non resta che prenderne atto. Lei ha trovato, dopo anni di duro impegno e sacrificio, il porto cui ogni navigante aspira: amare ed essere riamato. Si goda questo dono, anche se tardivo e indubbiamente problematico. Durerà finché durerà: nulla è per sempre. Non possiamo pretendere che
l’amore sia sugellato da un’assicurazione sulla vita. L’eternità degli amanti è un’aspirazione, non una garanzia . Solo gli individui più aridi, di fronte ai rischi dell’innamoramento, aprono la calcolatrice invece che la mente e il cuore. Eppure tante volte sono le relazioni più precarie a essere le più durature. È vero, le vostre posizioni non sono equivalenti e gli squilibri prima o poi si fanno sentire, ma non importa, ci sarà pure un motivo per cui il quel giovane semplice e povero ha fatto breccia nel suo cuore mentre corteggiatori «altolocati» sono rimasti esclusi. Evidentemente sono scattate tra voi quelle che Goethe chiama «affinità elettive», attrazioni che non appartengono solo allo spirito ma allacciano i corpi in segrete sintonie. Ascoltate la vostra musica ignorando le maldicenze, i sospetti, le invidie che vi circondano. «Gli innamorati sono sempre soli», canta Gino Paoli. Lei, cara amica, è fortunata perché non
ha incontrato un operaio povero e non acculturato ma una persona squisita, un essere unico, irripetibile, un uomo. E mi creda, sotto il cielo non ce ne sono tanti. Infine ai lettori che numerosi mi chiedono il perché, il come e il per quanto dell’amore, dedico i versi, di W.H. Auden: «Quando viene, verrà senza avvisare, proprio mentre mi sto frugando il naso? Busserà la mattina alla mia porta, o là sul bus mi pesterà un piede? Accadrà come quando cambia il tempo? Sarà cortese o spiccio il suo saluto? Darà una svolta a tutta la mia vita? La verità, vi prego, sull’amore».
all’università di San Gallo e all’USI: «Si è passati dal desiderio di avere tanti turisti alla protesta e alla lamentela per i danni che provocano». Da qui, un diffuso bisogno di distanziarsi dal turismo di massa: definizione dai connotati ormai negativi. La precisazione è d’obbligo, negativi per noi, cittadini che, da decenni, godono il privilegio di andare liberamente in vacanza, anche grazie al diritto alle ferie pagate. In Svizzera, una prima legge federale in materia risale al 1911. In Gran Bretagna, già nel 1871, il Bank Holyday Act, prevedeva 4 giorni di ferie pagate per il settore bancario. In Francia, il Front populaire estese la vacanze a tutte le categorie nel 1936, «il primo anno della felicità», secondo la famosa definizione di Léo Lagrange. Tutto ciò per dire che il turismo di massa racconta una storia strettamente legata alla democrazia. E quindi la condanna morale e culturale, giustamente
diretta agli eccessi dell’«overtourism», rischia, adesso, di colpevolizzare una conquista, un fenomeno popolare che sta coinvolgendo cittadini, finora esclusi. Non per niente, Venezia si trova alle prese con l’invasione di visitatori provenienti soprattutto dai paesi dell’est, Russia compresa, magari in preda all’euforia di una nuova libertà, e a volte incapaci di gestirla. Mentre a Lucerna l’eccesso di turisti concerne in prevalenza cinesi. In proposito, non posso fare a meno di ricordare che, durante un viaggio, nel 1995, appunto in Cina, le guide ci confessavano il loro irrealizzabile sogno di andare in vacanza, di uscire dai confini, ancora cortina di ferro. Fatto sta che la politica si fa sentire anche sul tempo libero, attraverso effetti collaterali. Quali sono gli scrupoli etici e ambientali che inducono a rinunciare ai viaggi. Si tratta di una scelta suo
modo elitaria, che trova seguito nelle nostre società evolute e sensibili a certi umori. Dove la parola d’ordine più gettonata del momento è «Shameflight»: la vergogna di volare, per non rendendersi complici di un incombente disastro planetario. Difficile stabilire in quale misura il rifiuto di salire a bordo di un mezzo, ritenuto inquinante, sia effettivamente condiviso. Intanto, però, i seguaci di Greta, che si recherà negli USA per mare, fanno bella figura, e implicitamente colpevolizzano il grande popolo dei viaggiatori che approfitta dei voli «low cost». È, insomma, il rovescio della medaglia di una scelta, forse solo in apparenza virtuosa. Qualcuno, ma piuttosto a bassa voce, osa replicare che anche i transatlantici inquinano e persino l’agricoltura produce CO2. Cifre e tesi che, ovviamente, superano le mie competenze di giornalista. Che, però, si concede lo sfizio del dubbio.
La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi Un amore inatteso Cara dottoressa, ho quarantasette anni e da cinque, dopo la morte di mio padre, dirigo una officina meccanica con un certo successo. Come comprenderà, non è stato facile assumere questo incarico e mi sono impegnata sino allo spasmo, col risultato inevitabile di trascurare la vita sentimentale. Ho spesso cercato di stabilire delle relazioni con persone del mio livello (sono laureata in Economia e Commercio e parlo perfettamente quattro lingue) ma non so neanch’io perché, sono finite in niente. Eppure, a detta di molti , sono aperta , giovanile e piacente. Forse perché la funzione direttiva che svolgo mi ha indotto ad assumere un aspetto autoritario, a parlare piuttosto che ascoltare, a non sopportare i discorsi a vuoto, i tempi morti, le imprecisioni, le allusioni, le adulazioni. Quando meno me l’aspettavo è successo però un fatto nuovo. Tra gli operai assunti ultimamente è entrato in ditta un giovane siciliano, alto e biondo con gli
occhi azzurri, le mani delicate nonostante i lavori pesanti, i modi compiti, riservati, la parlata un po’ dialettale ma sostanzialmente corretta. Lui non ha fatto avances ma sono stata io a interessarmi di lui e a chiedergli tante cose. Sono così venuta a sapere che è cresciuto in un quartiere degradato di Palermo, che ha cinque fratelli che vivono con la madre vedova, che ha studiato sino alla quinta elementare e che ha solo 25 anni. Come avrà capito, mi sono innamorata come non mi è mai successo prima e fantastico come una ragazzina, ma non sono così istupidita da non rendermi conto che è una cosa assurda, che non sta in piedi, che non può durare. Eppure quando lo incontro, una sera che mi ero attardata in ufficio, ci fermiamo a un bar e cominciamo a parlare come se non esistesse nulla intorno. Lo invito a salire in macchina e, giunti davanti al cancello di casa mia, ci baciamo ma subito dopo ci scostiamo imbarazzati. Eppure, nonostante quel
disagio, cominciamo una relazione segreta che non sfugge a nessuno: gli operai si sentono in diritto di non mantenere più le distanze e i miei amici altolocati di fare battute di ogni genere. Tutti pronti a considerare un giovane sensibile e gentile un avido arrivista, ma io non sono una sprovveduta e sarò sempre in grado di non farmi abbindolare da nessuno. Le differenze sono abissali per età, cultura, tradizione eppure non riusciamo a rinunciare a un amore che comunque c’è. Ma quanto durerà? / Brigida
Informazioni
Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch
Mode e modi di Luciana Caglio In vacanza con cattiva coscienza È l’inattesa compagna di viaggio, una sorta di guastafeste, con cui ci si trova a fare i conti, sotto l’influsso di parole sempre più ricorrenti nelle cronache e nei discorsi quotidiani, che esprimono gli umori del momento tanto da determinare i nostri comportamenti di vacanzieri. Si tratta, evidentmente, di «overtourism», neologismo in uso da qualche anno, e del più recente «flightshame», arrivato sull’onda dell’effetto Greta. La traduzione è superflua. Nell’era globale, il linguaggio definisce situazioni, e spesso guai, che non conoscono frontiere. Anche la Svizzera, culla di un turismo elitario che, nella seconda metà dell’800, valorizzò le Alpi e le rive dei laghi, subisce, adesso, le conseguenze dell’«overtourism». Con le contraddizioni che comporta, quando l’auspicato «molto» diventa l’incontrollabile «troppo». Il caso più rappresentativo è
Lucerna, presa d’assalto dai cosiddetti ospiti di giornata. Fra aprile e ottobre, in media 95 torpedoni riversano, ogni giorno, migliaia di visitatori che affollano il centro storico o salgono sul Rigi, la vetta che registra un’affluenza da record: 800’000 persone, superata soltanto dalla Jungfrau, dove la più alta ferrovia d’Europa ne recapita un milione all’anno. Altri punti nevralgici, le cascate del Reno a Sciaffusa e le gole dell’Aar a Meiringen. Il Ticino, per sua fortuna o sfortuna, questione di opinioni, è rimasto sinora al riparo da arrivi che, altrove, giustificano allarme, e infine alimentano la cattiva coscienza del viaggiatore. Di fronte alle immagini di Venezia, Barcellona, Amsterdam, vittime di un turismo sgangherato, c’è da chiedersi se tutto quest’andare per andare abbia ancora un senso. Osserva Christian Laesser, docente di economia turistica
«Tenera, rosata e alla brace: così è la carne che più mi piace.» Regola per il grill di Florence D.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 1 luglio 2019 • N. 27
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Ambiente e Benessere Salute e globalizzazione Economia, ecologia, migrazioni, tabacco, epigenetica e privatizzazione della salute
Paesaggi e storia dell’America Attraverso gli Stati Uniti in treno per vivere in un continuo gioco di specchi tra percezione e immaginazione
L’erba porta soldi In fitoterapia si trovano anche leggende curiose, e il tarassaco non fa eccezione
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Palafitte a Bodio Lomnago In programma la costruzione di una passerella galleggiante per avvicinarsi ai reperti archeologici pagina 25
pagine 16-17
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Quando il mare si alza Cambiamenti climatici Ultimo articolo
dedicato a come adattarsi e cercar di mitigare le conseguenze del surriscaldamento atmosferico sul pianeta Terra
Loris Fedele Resilienza, in campo ambientale, vuol dire anche saper capire l’evoluzione in corso e prevedere le diverse situazioni locali. La distinzione va fatta anche tra ciò che riguarda le zone fortemente urbanizzate e le zone rurali, più discoste dai centri del potere economico e commerciale. Il discorso ambientale allora si intreccia con la visione sociale del problema, con l’impatto sulla popolazione, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo ma non solo. Mentre si considera l’evoluzione della situazione ambientale legata ai cambiamenti climatici bisogna tener conto di diversi fattori, se si vogliono prevedere azioni e correttivi che ne possano mitigare l’impatto. Facciamo un esempio: l’innalzamento dei mari. È in atto, ci sono misure che lo confermano; per ora non spaventa ancora perché è in una fase di piccola crescita e varia a seconda delle zone geografiche. Dove si riduce a pochi centimetri la sua pericolosità non sembra evidente, ma è necessario saper guardare al futuro. I dati degli ultimi 25 anni davano un accrescimento medio del livello dei mari fissato a 3 millimetri all’anno. Studi più recenti denunciano un’accelerazione del processo di quasi un millimetro supplementare all’anno. Se la tendenza fosse confermata le acque si alzerebbero di circa 35 centimetri per il 2100. Non è allarmante, ma comunque significativo. L’innalzamento dei mari è indissolubilmente legato allo scioglimento dei ghiacci sulla terra, come quelli dell’Antartide nell’emisfero sud e della Groenlandia in quello nord. Se interventi umani o altri fattori limiteranno questo scioglimento, anche l’innalzamento dei mari subirà una riduzione. L’evoluzione dipende quindi da molti fattori che si concateneranno. Un livello del mare più alto rispetto al presente produrrà tra l’altro un ingrandimento dell’effetto distruttivo dei fenomeni naturali, per esempio quello delle onde dei maremoti in presenza
di forti venti associati ai cicloni. Questi fenomeni ci sono sempre stati, ma si stanno manifestando con maggiore frequenza e violenza. È ormai indubbio che ciò avvenga per il riscaldamento globale in atto sulla Terra. Come fronteggiare le nuove situazioni che si verranno a creare? Dipende da dove ci si trova. I Paesi Bassi, che per più di un terzo del proprio territorio si trovano addirittura sotto il livello del mare, con la loro esperienza sono il polo di riferimento per quelle grandi città costiere che vogliono prepararsi a fronteggiare eventuali future emergenze. New Orleans chiese aiuto all’Olanda dopo l’uragano Kathrina, dell’agosto 2005, e New York mandò suoi delegati a Rotterdam all’indomani dell’uragano atlantico Sandy, che nell’ottobre 2012 flagellò l’intera costa est degli Stati Uniti, danneggiando particolarmente il New Jersey e New York. L’Olanda per fronteggiare il mare possiede quasi 18mila km di ripari tra dighe, dune e sbarramenti vari e oggi sta operando tenendo conto della possibilità che per il 2100 la sua costa veda un innalzamento delle acque compreso tra i 26 e gli 82 centimetri. Questa forchetta di misure è ancora molto difficile da quantificare esattamente, tuttavia il fenomeno è aggiornato costantemente dai satelliti europei della serie Sentinel e dagli statunitensi Jason. I loro dati altimetrici costituiscono la base scientifica sulla quale si correggono le previsioni. L’approccio dei Paesi Bassi in questo senso è molto pragmatico: tende a non voler sottomettere i fenomeni naturali ma a lasciare che l’acqua resti dove è possibile lasciarla, senza costruire nuove barriere e adottando soluzioni flessibili e multifunzionali su piccola scala. Studiate le peculiarità del terreno, si sono create zone di esondazione nelle aree golenali dei fiumi (per ridurre le alluvioni), si stanno rinaturalizzando certe zone, si prevede di costruire nuovi edifici adattati alla situazione – si parla addirittura di quartieri
Entro il 2100 il livello delle acque potrebbe alzarsi di circa 35 centimetri. (pxhere.com)
galleggianti – si mira a rivedere il sistema idrico urbano e a immagazzinare l’eccesso di acqua piovana in serbatoi ad hoc. Non è che le loro soluzioni possano essere esportate dovunque così come sono, ma possono dare delle idee. Sulla costa americana, nel New Jersey, dopo il già citato uragano Sandy, ci si è resi conto di aver speculato troppo e troppo vicino al mare. Ora si tende a correre ai ripari cercando di ricomprare dai privati vaste aree di costa e, con interventi statali, far ritirare la gente dalle zone costiere più basse e interessate dalle mareggiate. Con un livello del mare più alto, dove oggi arrivano occasionalmente le inondazioni, domani potranno arrivare regolarmente le maree, bloccando le strade, sconvolgendo le reti energetiche, sommergendo le spiagge più frequentate. Ritirarsi è una forma di resilienza, gradita agli ambientalisti e presa in seria considerazione dai politici locali. Si tratta di un approccio multidisciplinare al problema, che coinvolge
geofisici, esperti climatologi, economisti e sociologi, che sta fornendo previsioni localizzate per interventi mirati immediati e futuri. I sistemi costieri, legati alle maree, sono sempre dinamici e possono rivelarsi instabili: le spiagge difese da strutture rigide si erodono più in fretta di quelle lasciate a se stesse. Continuare a dragare la sabbia alla lunga non serve, perché basta una tempesta a vanificare il lavoro di anni. Ormai si sta rivedendo anche lo sviluppo edilizio velleitario ed eccessivo, figlio dell’aspirazione tutta americana di possedere una casetta in legno sul mare, il più vicino possibile alla spiaggia o addirittura su palafitta sulla spiaggia. L’obiettivo è quello di trasferire le persone e gli immobili nelle zone non a rischio, liberando per un’apertura al pubblico parti del litorale mantenute come spazio ecologico naturale, lasciato ai ritmi e ai capricci della natura senza condizionamenti, utilizzandole per quello che possono offrire. Inoltre quello di interrompere le frettolose ricostruzioni in quelle zone colpite
dove, prima o poi, l’acqua tornerà sicuramente a salire. Nel New Jersey sono state fatte mappe che mostrano quali aree saranno probabilmente inondate dal mare tra il 2050 e il 2100 e dove è prevista una subsidenza dei suoli in zone dove si pensa a uno sprofondamento di 12 centimetri entro il 2050. Diverse università americane stanno occupandosi di studi del genere. Risulta che zone densamente edificate come Woodbridge, non lontano da New York, siano particolarmente vulnerabili quando le sue vie d’acqua si ingrossano perché invase dalle ondate di marea. Ancora più a rischio risultano alcune popolari località balneari come Atlantic City, dove la sparizione della spiaggia è già una minaccia concreta. Saper leggere i segnali di cambiamento, non giudicare una sconfitta il ritirarsi di fronte alla natura e saper rimettere in discussione scelte che ci sembravano vantaggiose, sta diventando un atteggiamento che potrà migliorare la nostra vita.
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Ambiente e Benessere
La salute al tempo della globalizzazione Epidemiologia ambientale Cambiamento climatico, flussi migratori, industria alimentare incidono
sui concetti di malattia e salute. Intanto la salute non è più considerata un bene da difendere collettivamente ma individualmente
È nota la difficoltà di approvvigionamento di numerosi farmaci anche in Svizzera. A un’interpellanza parlamentare in materia depositata il 19 marzo 2015, due mesi dopo il Consiglio federale rispondeva che «l’approvvigionamento sicuro di medicamenti richiede un coordinamento complesso e dinamico tra ricerca, industria, fornitori di prestazioni del settore sanitario e autorità», ritenendo che «lo stoccaggio a tutti i livelli come anche la fabbricazione decentralizzata rappresentino gli elementi fondamentali per un approvvigionamento di medicamenti sicuro». A quattro anni di distanza, la lista dei farmaci diventati ormai rari o non più disponibili si è allungata, tanto che un rapporto pubblicato dall’Ufficio federale per l’approvvigionamento economico del Paese (UFAE) nel mese di marzo dichiarava che: «la gravità delle interruzioni nelle forniture e le misure costose a esse associate sono aumentate negli ultimi anni». Di primo acchito, potrebbe sembrare una crisi del settore che non riesce a far fronte alle richieste del mercato. Se, però, si osservano gli indici di rendimento dei fondi d’investimento dedicati a prodotti per la salute e la medicina, spicca una reddittività particolarmente rilevante, con percentuali di rendita negli ultimi cinque anni
pxhere
Lorenzo De Carli
che arrivano anche al 70 per cento, collocando gli «Azionari salute» tra i fondi, nei quali è più conveniente investire. Non è difficile, a questo punto, comprendere chi sono i veri clienti dell’industria farmaceutica, coloro dei quali essa si prende cura: non le perso-
ne malate, bensì gli investitori. Se un farmaco genera pochi utili – per esempio perché il brevetto è scaduto – allora è meglio toglierlo dal commercio. «Nei settori critici, il libero mercato non è più in grado di compensare i ritardi nella catena di fornitura stessa a
causa del numero ridotto di fornitori e dei bassi livelli di scorte presso aziende e ospedali», si leggeva nello stesso rapporto dell’UFAE. Il problema dell’approvvigionamento dei farmaci è un problema della loro redditività nel contesto di un’eco-
nomia globalizzata. Un quadro generale della situazione è molto ben tratteggiato da Paolo Vineis in un saggio intitolato Salute senza confini. Le epidemie al tempo della globalizzazione. Professore di Epidemiologia ambientale presso l’Imperial College di Londra, Vineis ha svolto numerose ricerche sui rischi ambientali e ha scritto diversi libri sulla salute e l’etica dell’assistenza sanitaria. Attualmente, il suo interesse più vivo è per i cambiamenti epigenetici del DNA, vale a dire quelle mutazioni che il nostro patrimonio genetico sviluppa a contatto con l’ambiente in cui viviamo – dove per «ambiente» dobbiamo intendere non solo quanto ci sta attorno, ma anche come ci alimentiamo e quali stili di vita sviluppiamo nel corso degli anni. Dalle pagine di Salute senza confini è facile apprendere che l’industria farmaceutica ai tempi della globalizzazione è un elemento dell’instabilità del «sistema salute». Perché «un’altra conseguenza della globalizzazione è l’aumento degli interessi privati e delle pressioni sugli enti pubblici di ricerca e dei sistemi sanitari, in un intreccio tra affari e politica che allo stato attuale sembra anch’esso destinato ad ampliarsi anziché contrarsi». La tesi sostenuta da Vineis è che, a livello mondiale, la salute potrebbe andare incontro a un deterioramento simile a quanto sta avvenendo in eco-
nomia. I concetti di salute e malattia sono ormai cambiati: essi non sono più semplici processi biologici bensì fenomeni complessi che investono la sfera ambientale, sociale, economica, politica e culturale. È per questo motivo che il quadro tratteggiato da Vineis spazia dal cambiamento climatico ai flussi migratori, dalla crisi economica all’industrializzazione della produzione alimentare – tutti fenomeni fondamentali per comprendere lo stato di benessere (o malessere) delle popolazioni. Il rapporto tra le scelte politiche e le ragioni del mercato occupa un intero capitolo di Salute senza confini. Vineis fa osservare che «per governare i rapidi cambiamenti nelle tecnologie e nei modelli di distribuzione e di consumo sarebbero necessarie istituzioni politiche forti, ma mai come oggi queste sono screditate e impopolari». A questo riguardo, basterebbe pensare alle attività di prevenzione nell’ambito della salute. In un momento storico, in cui si promuove «l’enfasi sui consumi privati piuttosto che sui servizi pubblici, con il duplice obiettivo di sostenere la produzione industriale e ridurre la spesa pubblica», l’attività di prevenzione, sebbene garantisca enormi risparmi pubblici, è percepita come un’azione scarsamente appetibile perché non genera profitti privati. Gli interventi di prevenzione hanno effetti su più malattie contemporaneamente. Il corretto stile di alimentazione e l’attività fisica regolare, per esempio, hanno un effetto positivo su diversi tipi di tumori, sulle malattie cardiovascolari, sul diabete, sull’ipertensione e verosimilmente anche sulle malattie neurologiche – tuttavia si preferisce la promozione individualizzata della salute piuttosto che azioni strutturali per prevenire le malattie. L’attività di prevenzione è particolarmente lacunosa nei paesi «a
basso reddito» nei quali si stanno rapidamente diffondendo malattie non trasmissibili come il diabete e i vari tipi di cancro prodotti dal consumo di tabacco: «le proiezioni al 2030 delle morti causate dal fumo ci dicono che l’aumento si verificherà tutto nei paesi a basso reddito, dove il consumo sta crescendo vertiginosamente». Ma è proprio l’Organizzazione mondiale del commercio a opporsi alle politiche di contenimento delle vendite e della pubblicità del tabacco in nome del libero mercato e delle «libere scelte dei consumatori».
Dalla poca reperibilità di molti medicinali, all’infertilità dei giovani passando per la privatizzazione della salute come risposta inadeguata alle sfide della globalizzazione A questo proposito, l’industria del tabacco o l’industria alimentare sostengono il «principio del danno»: a livello individuale, ciascuno ha il diritto di giudicare che cosa è buono o cattivo per sé. Il problema è che – a prescindere dal fatto che tutte le cure mediche gravano su un complessivo costo sanitario sopportato dall’intera comunità –, il potere di persuasione del marketing ha una capacità di penetrazione, cui non riescono a opporsi le campagne di prevenzione, cosicché l’individuo non ha gli strumenti per comprendere la natura dei danni cui è soggetto. I tre temi maggiori trattati da Vineis sono l’industria alimentare, il clima e l’epigenetica. L’industria che produce «alimenti trasformati» sta
usando le stesse strategie per molti decenni adoperate dall’industria del tabacco, e gran parte della sua pubblicità promuove prodotti altamente calorici e grassi. La conseguenza è una rapida diffusione ovunque dell’obesità, al punto che «stiamo attraversando il primo periodo storico dell’umanità in cui ci sono più persone sovrappeso che denutrite». A questo riguardo, il caso dell’isola di Nauru in Micronesia «è esemplare di come può presentarsi la globalizzazione in molti paesi a basso reddito». Arricchitisi negli anni Settanta con l’esportazione di guano, gli abitanti mutarono rapidamente le loro abitudini alimentari e i loro stili di vita diventando pressoché tutti obesi a causa del cibo e delle bevande importati. Rapidamente, il 30 per cento della popolazione divenne diabetica. Ora che il guano è esaurito, l’isola è precipitata nella povertà ma anche nell’impossibilità di gestire l’epidemia di diabete. I cambiamenti climatici stanno avendo effetti marcati sulla salute attraverso la scarsità di acqua di buona qualità. Si stanno diffondendo le malattie trasmesse dall’acqua, come il colera; quelle basate sull’acqua, come la diffusione di parassiti come lo schistosoma; quelle che l’acqua laverebbe via, come la scabbia; oppure le malattie correlate all’acqua, come la malaria. Questi effetti prodotti dai cambiamenti climatici saranno amplificati dalle trasformazioni urbane, che stanno portando ovunque gli ambienti insalubri delle megalopoli: le migrazioni delle persone avvengono contemporaneamente alle migrazioni degli ambienti urbani. Secondo Vineis, però, «saranno soprattutto i mutamenti epigenetici ad essere prodotti dalla globalizzazione, e a diventare in futuro uno dei campi di maggiore sviluppo degli studi della salute». Di che cosa si tratta? Il
pxhere
Ambiente e Benessere
patrimonio genetico delle popolazioni, cioè la sequenza del DNA, cambia molto lentamente. Ci sono però dei cambiamenti funzionali e non strutturali del DNA che possono avvenire molto rapidamente e che sono legati a esposizioni ambientali, anche e soprattutto già in utero. Per esempio, possiamo sviluppare un cancro a causa del silenziamento dei geni oncosoppressori prodotto da agenti esterni (sostanze nell’ambiente oppure negli alimenti); ma anche i mutamenti ormonali e sessuali «è verosimile che rispondano anch’essi a un meccanismo epigenetico». La diminuita fertilità dei giovani maschi svizzeri, per esempio, potrebbe anch’essa essere l’effetto epigenetico della globalizzazione di stili di vita e stili di consumo che, combinati, hanno esposto le giovani
generazioni al contatto con sostanze che hanno innescato mutamenti funzionali del DNA. La salute ai tempi della globalizzazione deve far fronte al problema che essa non viene più percepita come bene comune bensì come bene di consumo di cui godere individualmente. L’obiettivo non è più la salute di una popolazione ma la salute individuale, con i conseguenti effetti di colpevolizzazione e di emarginazione. È questo l’ostacolo che Vineis teme di più, il fatto cioè che «la più grande crisi ecologica dell’umanità si svolge congiuntamente al più grande mutamento comunicativo e decisionale» – perché le decisioni politiche si basano troppo poco sulle evidenze scientifiche, e troppo sulle necessità dell’economia, per la quale la malattia è una fonte di reddito.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 1 luglio 2019 • N. 27
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Ambiente e Benessere
La salute al tempo della globalizzazione Epidemiologia ambientale Cambiamento climatico, flussi migratori, industria alimentare incidono
sui concetti di malattia e salute. Intanto la salute non è più considerata un bene da difendere collettivamente ma individualmente
È nota la difficoltà di approvvigionamento di numerosi farmaci anche in Svizzera. A un’interpellanza parlamentare in materia depositata il 19 marzo 2015, due mesi dopo il Consiglio federale rispondeva che «l’approvvigionamento sicuro di medicamenti richiede un coordinamento complesso e dinamico tra ricerca, industria, fornitori di prestazioni del settore sanitario e autorità», ritenendo che «lo stoccaggio a tutti i livelli come anche la fabbricazione decentralizzata rappresentino gli elementi fondamentali per un approvvigionamento di medicamenti sicuro». A quattro anni di distanza, la lista dei farmaci diventati ormai rari o non più disponibili si è allungata, tanto che un rapporto pubblicato dall’Ufficio federale per l’approvvigionamento economico del Paese (UFAE) nel mese di marzo dichiarava che: «la gravità delle interruzioni nelle forniture e le misure costose a esse associate sono aumentate negli ultimi anni». Di primo acchito, potrebbe sembrare una crisi del settore che non riesce a far fronte alle richieste del mercato. Se, però, si osservano gli indici di rendimento dei fondi d’investimento dedicati a prodotti per la salute e la medicina, spicca una reddittività particolarmente rilevante, con percentuali di rendita negli ultimi cinque anni
pxhere
Lorenzo De Carli
che arrivano anche al 70 per cento, collocando gli «Azionari salute» tra i fondi, nei quali è più conveniente investire. Non è difficile, a questo punto, comprendere chi sono i veri clienti dell’industria farmaceutica, coloro dei quali essa si prende cura: non le perso-
ne malate, bensì gli investitori. Se un farmaco genera pochi utili – per esempio perché il brevetto è scaduto – allora è meglio toglierlo dal commercio. «Nei settori critici, il libero mercato non è più in grado di compensare i ritardi nella catena di fornitura stessa a
causa del numero ridotto di fornitori e dei bassi livelli di scorte presso aziende e ospedali», si leggeva nello stesso rapporto dell’UFAE. Il problema dell’approvvigionamento dei farmaci è un problema della loro redditività nel contesto di un’eco-
nomia globalizzata. Un quadro generale della situazione è molto ben tratteggiato da Paolo Vineis in un saggio intitolato Salute senza confini. Le epidemie al tempo della globalizzazione. Professore di Epidemiologia ambientale presso l’Imperial College di Londra, Vineis ha svolto numerose ricerche sui rischi ambientali e ha scritto diversi libri sulla salute e l’etica dell’assistenza sanitaria. Attualmente, il suo interesse più vivo è per i cambiamenti epigenetici del DNA, vale a dire quelle mutazioni che il nostro patrimonio genetico sviluppa a contatto con l’ambiente in cui viviamo – dove per «ambiente» dobbiamo intendere non solo quanto ci sta attorno, ma anche come ci alimentiamo e quali stili di vita sviluppiamo nel corso degli anni. Dalle pagine di Salute senza confini è facile apprendere che l’industria farmaceutica ai tempi della globalizzazione è un elemento dell’instabilità del «sistema salute». Perché «un’altra conseguenza della globalizzazione è l’aumento degli interessi privati e delle pressioni sugli enti pubblici di ricerca e dei sistemi sanitari, in un intreccio tra affari e politica che allo stato attuale sembra anch’esso destinato ad ampliarsi anziché contrarsi». La tesi sostenuta da Vineis è che, a livello mondiale, la salute potrebbe andare incontro a un deterioramento simile a quanto sta avvenendo in eco-
nomia. I concetti di salute e malattia sono ormai cambiati: essi non sono più semplici processi biologici bensì fenomeni complessi che investono la sfera ambientale, sociale, economica, politica e culturale. È per questo motivo che il quadro tratteggiato da Vineis spazia dal cambiamento climatico ai flussi migratori, dalla crisi economica all’industrializzazione della produzione alimentare – tutti fenomeni fondamentali per comprendere lo stato di benessere (o malessere) delle popolazioni. Il rapporto tra le scelte politiche e le ragioni del mercato occupa un intero capitolo di Salute senza confini. Vineis fa osservare che «per governare i rapidi cambiamenti nelle tecnologie e nei modelli di distribuzione e di consumo sarebbero necessarie istituzioni politiche forti, ma mai come oggi queste sono screditate e impopolari». A questo riguardo, basterebbe pensare alle attività di prevenzione nell’ambito della salute. In un momento storico, in cui si promuove «l’enfasi sui consumi privati piuttosto che sui servizi pubblici, con il duplice obiettivo di sostenere la produzione industriale e ridurre la spesa pubblica», l’attività di prevenzione, sebbene garantisca enormi risparmi pubblici, è percepita come un’azione scarsamente appetibile perché non genera profitti privati. Gli interventi di prevenzione hanno effetti su più malattie contemporaneamente. Il corretto stile di alimentazione e l’attività fisica regolare, per esempio, hanno un effetto positivo su diversi tipi di tumori, sulle malattie cardiovascolari, sul diabete, sull’ipertensione e verosimilmente anche sulle malattie neurologiche – tuttavia si preferisce la promozione individualizzata della salute piuttosto che azioni strutturali per prevenire le malattie. L’attività di prevenzione è particolarmente lacunosa nei paesi «a
basso reddito» nei quali si stanno rapidamente diffondendo malattie non trasmissibili come il diabete e i vari tipi di cancro prodotti dal consumo di tabacco: «le proiezioni al 2030 delle morti causate dal fumo ci dicono che l’aumento si verificherà tutto nei paesi a basso reddito, dove il consumo sta crescendo vertiginosamente». Ma è proprio l’Organizzazione mondiale del commercio a opporsi alle politiche di contenimento delle vendite e della pubblicità del tabacco in nome del libero mercato e delle «libere scelte dei consumatori».
Dalla poca reperibilità di molti medicinali, all’infertilità dei giovani passando per la privatizzazione della salute come risposta inadeguata alle sfide della globalizzazione A questo proposito, l’industria del tabacco o l’industria alimentare sostengono il «principio del danno»: a livello individuale, ciascuno ha il diritto di giudicare che cosa è buono o cattivo per sé. Il problema è che – a prescindere dal fatto che tutte le cure mediche gravano su un complessivo costo sanitario sopportato dall’intera comunità –, il potere di persuasione del marketing ha una capacità di penetrazione, cui non riescono a opporsi le campagne di prevenzione, cosicché l’individuo non ha gli strumenti per comprendere la natura dei danni cui è soggetto. I tre temi maggiori trattati da Vineis sono l’industria alimentare, il clima e l’epigenetica. L’industria che produce «alimenti trasformati» sta
usando le stesse strategie per molti decenni adoperate dall’industria del tabacco, e gran parte della sua pubblicità promuove prodotti altamente calorici e grassi. La conseguenza è una rapida diffusione ovunque dell’obesità, al punto che «stiamo attraversando il primo periodo storico dell’umanità in cui ci sono più persone sovrappeso che denutrite». A questo riguardo, il caso dell’isola di Nauru in Micronesia «è esemplare di come può presentarsi la globalizzazione in molti paesi a basso reddito». Arricchitisi negli anni Settanta con l’esportazione di guano, gli abitanti mutarono rapidamente le loro abitudini alimentari e i loro stili di vita diventando pressoché tutti obesi a causa del cibo e delle bevande importati. Rapidamente, il 30 per cento della popolazione divenne diabetica. Ora che il guano è esaurito, l’isola è precipitata nella povertà ma anche nell’impossibilità di gestire l’epidemia di diabete. I cambiamenti climatici stanno avendo effetti marcati sulla salute attraverso la scarsità di acqua di buona qualità. Si stanno diffondendo le malattie trasmesse dall’acqua, come il colera; quelle basate sull’acqua, come la diffusione di parassiti come lo schistosoma; quelle che l’acqua laverebbe via, come la scabbia; oppure le malattie correlate all’acqua, come la malaria. Questi effetti prodotti dai cambiamenti climatici saranno amplificati dalle trasformazioni urbane, che stanno portando ovunque gli ambienti insalubri delle megalopoli: le migrazioni delle persone avvengono contemporaneamente alle migrazioni degli ambienti urbani. Secondo Vineis, però, «saranno soprattutto i mutamenti epigenetici ad essere prodotti dalla globalizzazione, e a diventare in futuro uno dei campi di maggiore sviluppo degli studi della salute». Di che cosa si tratta? Il
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Ambiente e Benessere
patrimonio genetico delle popolazioni, cioè la sequenza del DNA, cambia molto lentamente. Ci sono però dei cambiamenti funzionali e non strutturali del DNA che possono avvenire molto rapidamente e che sono legati a esposizioni ambientali, anche e soprattutto già in utero. Per esempio, possiamo sviluppare un cancro a causa del silenziamento dei geni oncosoppressori prodotto da agenti esterni (sostanze nell’ambiente oppure negli alimenti); ma anche i mutamenti ormonali e sessuali «è verosimile che rispondano anch’essi a un meccanismo epigenetico». La diminuita fertilità dei giovani maschi svizzeri, per esempio, potrebbe anch’essa essere l’effetto epigenetico della globalizzazione di stili di vita e stili di consumo che, combinati, hanno esposto le giovani
generazioni al contatto con sostanze che hanno innescato mutamenti funzionali del DNA. La salute ai tempi della globalizzazione deve far fronte al problema che essa non viene più percepita come bene comune bensì come bene di consumo di cui godere individualmente. L’obiettivo non è più la salute di una popolazione ma la salute individuale, con i conseguenti effetti di colpevolizzazione e di emarginazione. È questo l’ostacolo che Vineis teme di più, il fatto cioè che «la più grande crisi ecologica dell’umanità si svolge congiuntamente al più grande mutamento comunicativo e decisionale» – perché le decisioni politiche si basano troppo poco sulle evidenze scientifiche, e troppo sulle necessità dell’economia, per la quale la malattia è una fonte di reddito.
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Ambiente e Benessere
La prima Opel Corsa elettrica Motori Arriva la sesta generazione dell’auto che ha venduto tredici milioni di unità dal 1982.
Entro il 2024 Opel intende rendere elettrica la sua intera gamma Mario Alberto Cucchi Dal 1982 a oggi ne sono state vendute talmente tante che in molti ne hanno guidata una almeno una volta. Stiamo parlando della Opel Corsa. Ne sono stati comprati più di tredici milioni di unità. Oggi debutta la sesta generazione e con lei la prima Opel Corsa elettrica. Proprio così, e non si tratta di un modello di nicchia destinato a fare più immagine che numeri, ma di una vettura che intende giocare tutte le sue carte per conquistare molti automobilisti.
La casa Opel vuole democratizzare le innovazioni, cioè renderle accessibili al vasto pubblico Lo sappiamo. Le automobili elettriche hanno due grandi criticità: l’autonomia e i tempi di ricarica. Opel dichiara che la nuova Corsa-e può arrivare a percorrere ben 330 chilometri con un pieno di energia secondo il ciclo WLTP (Worldwide Harmonized Light Vehicles). Chi ha guidato almeno una volta una vettura elettrica sa che l’autonomia varia a seconda delle prestazioni richieste dal pilota. Per questo, Opel ha pensato di proporre su Corsa differenti mappature. Tre le modalità di guida: Normal, Eco e Sport.
In modalità Sport, reattività e dinamismo della vettura aumentano, con una moderata riduzione dell’autonomia. In modalità Eco, Corsa-e diventa una specialista delle lunghe distanze e aumenta significativamente l’autonomia senza intaccare il comfort. Per quanto riguarda la seconda criticità va detto che la batteria da 50 kWh può essere ricaricata rapidamente fino all’80 per cento della capacità in soli 30 minuti. Corsa-e è pronta per tutte le opzioni di ricarica – cavo e presa domestica, wallbox o ricarica rapida – e la batteria è coperta da una garanzia di otto anni. Il livello di carica si può poi verificare facilmente anche a distanza grazie all’app myOpel per smartphone. E le prestazioni? Grazie alla presenza di 136 cavalli di potenza e una coppia massima di 260 Newton/Metro, Corsa è in grado di raggiungere i 100 chilometri orari, partendo da ferma, in 8,1 secondi. Che si riducono a soli 2,8 secondi per passare da 0 a 50 km/h. Delle generazioni precedenti restano le misure compatte: la lunghezza è pari a 4,06 metri. Rispetto al vecchio modello la linea del tetto risulta più sportiva, richiama quella di una coupé ed è più bassa di 48 mm rispetto al modello precedente, senza che si perda nulla in termini di altezza interna. Novità anche per quanto riguarda il sistema di infotainment. Il Multimedia Navi con schermo touch a colori da sette pollici e il Multimedia Navi Pro da dieci pollici offrono il servizio telema-
Il nuovo modello elettrico della vendutissima Opel Corsa.
tico Opel Connect. In buona sostanza si tratta di avere accesso a una serie di funzioni utili come la navigazione live con informazioni sul traffico in tempo reale, il collegamento diretto con il soccorso stradale e la chiamata di emergenza. «Si tratta solo del primo passo – spiega Michael Lohscheller, Ceo Opel
– entro il 2024 renderemo elettrica tutta la nostra gamma. Noi vogliamo democratizzare le innovazioni». Ovvero renderle accessibili per il vasto pubblico. Ecco allora che bisogna parlare di prezzo. Arriverà nelle concessionarie solo nella primavera del 2020 e quindi ufficialmente non è ancora stato definito, ma si dice che potrebbe essere com-
preso tra 22 e 30mila franchi. Una cosa però è certa. La nuova Opel Corsa non sarà solo elettrica. Questa sarà la prima variante, poi arriveranno sicuramente anche le versioni con motori tradizionali alimentati a benzina e diesel. D’altronde oggi non tutti sono già pronti per mettersi in garage una vettura elettrica. In Opel lo sanno bene. Annuncio pubblicitario
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Ambiente e Benessere
L’America in treno
Viaggiatori d’Occidente Centocinquant’anni or sono la ferrovia ha spalancato le distese del Far West Elena Refraschini
L’uomo in costume d’epoca, con tanto di cappello a cilindro, afferra il martello e – tac, tac, tac – dà tre colpi secchi sulla testa del chiodo dorato lungo il binario. Il telegrafo trasmette il messaggio: «Done! Abbiamo fissato l’ultimo chiodo: la ferrovia è completata». Le due locomotive a vapore, una di fronte all’altra, lanciano il loro fischio acuto che si sparge in tutte le direzioni, riempiendo il desolato deserto dello Utah. Mi trovo a Promontory Summit, circa cento chilometri a nord di Salt Lake City, insieme a oltre trentamila americani, arrivati da tutto il Paese per assistere alle celebrazioni del 150° anniversario del completamento della prima ferrovia transcontinentale. Tutto era iniziato solo sette anni prima, nel 1862, quando Lincoln firmò il Pacific Railroad Act. Cominciò così la gara tra le compagnie ferroviarie: la Central Pacific sarebbe partita dalla California in direzione est, la Union Pacific da Omaha (Nebraska) verso ovest. Il punto d’incontro lo decise il fato, questo scenario apocalittico dove l’immenso cielo color indaco sovrasta l’arida spianata di terra rossa e rocce antiche. Proprio qui il 10 maggio 1869 fu piantato l’ultimo chiodo per collegare traversina e rotaia (Golden Spike), creando così la prima linea ferroviaria dall’Oceano Atlantico al Pacifico. Tutte le maggiori emittenti televisive sono qui, insieme a politici, storici e rappresentanti delle popolazioni indiane. Per loro l’arrivo del cavallo di ferro cancellò le ultime speranze di ritagliarsi uno spazio nella nuova nazione, quando i bisonti furono sterminati per nutrire i lavoratori della ferrovia: è la storia del celebre William Cody, conosciuto come Buffalo Bill. «Se ci pensi è come lo sbarco sulla Luna dell’Ottocento!» mi dice Tim Redson; per essere qui oggi, dalla sua casa nell’Illinois, è stato in auto quasi ventitré ore. Non ci avevo pensato ma in effetti i due eventi sono avvenuti a cent’anni l’uno dall’altro e la stessa scossa di orgoglio patriottico ha smosso l’intera nazione, da New York a San Francisco. Nelle pause tra un discorso ufficiale e l’altro chiacchiero con i miei «vicini di
Il Columbia River lungo la linea ferroviaria Empire Builder. (Elena Refraschini)
Gli altipiani del Colorado a bordo del Southwest Chief. (Elena Refraschini)
calca» (solo negli Stati Uniti una rievocazione storica è in grado di farti sentire come se fossi a un concerto di Bruce Springsteen). «La ferrovia ha cambiato profondamente l’America» mi racconta Matthew mentre si sistema il cappellino in testa (il sole a queste latitudini non perdona). «Ha aperto l’Ovest ai coloni, ha rivoluzionato le comunicazioni e stimolato il commercio. Prima coi carri un viaggio verso il Far West richiedeva quattro mesi di fatiche, privazioni e costanti pericoli; poi improvvisamente, una sola settimana!». Il fervore di Matthew è però tutto rivolto al passato. Quando gli racconto che il giorno seguente partirò per un lungo viaggio a bordo dei treni Amtrak, tira fuori un sorriso imbarazzato e commenta: «Hai perso una scommessa?». L’americano medio quasi non sa nemmeno che i treni esistono ancora, nella sua Home of the brave. Leggo le domande nella sua testa: «È troppo povera per viaggiare in auto? In Italia non hanno gli aerei o non sa come si prendono?». È vero che i treni qui sono incredibilmente lenti – ci vogliono quattro giorni per andare da Seattle a New York – quindi a bordo trovate solo persone senza affari urgenti da sbrigare. Ma proprio questo è il fascino di un viag-
gio ferroviario attraverso gli Stati Uniti: per riscoprire il valore del tempo, per pensare, leggere, scrivere, conversare, soprattutto per osservare con gli occhi incollati al finestrino il volto ancora selvaggio di questo Paese. Molto spesso, infatti, i treni tagliano paesaggi inaccessibili al viaggiatore in auto, al quale resta nascosta la parte forse più autentica d’America. Nel frattempo, da quel lontano 1869, le tratte transcontinentali sono diventate quattro, a varie latitudini, tutte gestite dall’Amtrak, la compagnia ferroviaria nazionale. Per cominciare, California Zephyr collega Chicago con San Francisco in cinquantadue ore e attraversa i campi coltivati dell’Illinois tanto cari a David Foster Wallace, le grandi praterie dell’Iowa e del Nebraska, le spettacolari Montagne rocciose, il deserto, la Sierra Nevada e i laghi alpini della California sino alla baia di San Francisco. I binari della prima transcontinentale sono usati oggi dai treni merci, ma alcuni tratti sono condivisi proprio con questa linea passeggeri. C’è poi la linea Empire Builder, la mia preferita, che corre per quarantasei ore da Seattle lungo il confine con il Canada attraversando le colline spazzate dal vento gelido del North Dakota e i picchi in-
nevati del Montana. Invece Texas Eagle accarezza il corso del Mississippi prima di serpeggiare attraverso un interminabile Texas, per poi tagliare i deserti del New Mexico e dell’Arizona, in primavera un tappeto di cactus e fiori gialli. Ho percorso queste tre linee già nel 2011. In occasione di questo anniversario ho voluto provare l’ultima che ancora non conoscevo, Southwest Chief, una volta il treno preferito dalla élite di Hollywood: affianca per buona parte del suo percorso la Route 66, passa le pianure infinite del Kansas, accarezza
i pueblo del new Mexico e le città fantasma (ghost town) tra Arizona e California, fino a gettarsi nel dedalo delle superstrade di Los Angeles. Attraversare gli Stati Uniti in treno è vivere in un continuo gioco di specchi tra percezione e immaginazione, tra paesaggio visivo e storie collettive, alla ricerca di questa sfuggente identità americana che si è formata proprio lungo i binari delle sue ferrovie. Tornando, come in ogni viaggio degno di questo nome, con lo zaino carico di domande più che di risposte.
Tutto è bene... ...quel che finisce bene. Chi avesse letto l’articolo in prima pagina sull’edizione del 17 giugno, se ne ricorderà: una presunta prenotazione su trip.com all’hotel Hyppokampos a Hydra, isola a sud-est del Peloponneso, Grecia, si era rivelata essere una prenotazione per l’albergo Hyppokampos a Patmos, sempre in Grecia ma di fronte alla Turchia. Una disavventura capitata a decine di turisti, fra cui il sottoscritto. Trip.com, scoprii in seguito, è un operatore tu-
ristico cinese, con reputazione non proprio ottima. Il tentativo di farmi restituire il denaro versato si scontrava con un muro di gentilissimi operatori che in sostanza richiedevano le medesime spiegazioni dell’accaduto. Tuttavia, una pessima pubblicità non può far piacere neppure a un lontano sito in Cina, per cui trip.com ha infine deciso di rifondermi la somma spesa per la prenotazione ma anche quanto speso per le notti trascorse a Hydra. Il che non è da tutti. / PS Annuncio pubblicitario
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Idee e acquisti per la settimana
Che formaggio! Chi rinuncia ai prodotti a base di latte, può provare la nuova «Delizia ai lupini». Questa alternativa puramente vegetale ricorda il formaggio Tilsiter e si utilizza alla stessa maniera: con del chutney su un piatto di formaggi, nel panino oppure per arricchire un’insalata. I lupini, insieme alla soia, sono tra i più importanti fornitori di proteine vegetali ed hanno un sapore leggermente nocciolato. Per la specialità i lupini vengono pelati, essiccati e trasformati in farina. La novità vegana è inoltre priva di olio di palma.
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Consiglio
Un piacere vegetale ai lupini come alternativa al Tilsiter
L’alternativa vegetale al formaggio a pasta semidura, tagliata a pezzetti, arricchisce ogni croccante insalata di stagione. Oppure insieme a pomodorini dimezzati, striscioline di peperoni, carote grattugiate, spinaci a foglie e una salsina si trasforma in una deliziosa insalata a strati – un pasto bello da vedere e buono da gustare, in ufficio, al lido oppure durante un picnic.
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Idee e acquisti per la settimana
Che formaggio! Chi rinuncia ai prodotti a base di latte, può provare la nuova «Delizia ai lupini». Questa alternativa puramente vegetale ricorda il formaggio Tilsiter e si utilizza alla stessa maniera: con del chutney su un piatto di formaggi, nel panino oppure per arricchire un’insalata. I lupini, insieme alla soia, sono tra i più importanti fornitori di proteine vegetali ed hanno un sapore leggermente nocciolato. Per la specialità i lupini vengono pelati, essiccati e trasformati in farina. La novità vegana è inoltre priva di olio di palma.
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Ambiente e Benessere
Balconi estivi: cosa scegliere?
Scelto per voi
Mondoverde Dai gerani alle surfinie passando dalle dipladenie
Anita Negretti Fino a una decina di anni fa, su ogni davanzale e parapetto primeggiavano le balconette cariche di gerani (Pelargonium). Originari del continente africano, amanti di sole, calore e terreni soffici ben drenati e ricchi di sostanza organica, comparivano nel loro massimo splendore da aprile fino a ottobre. Il problema si è presentato con l’arrivo della farfallina Cacyreus Marshalli (nota anche con il nome Licenide dei gerani), un piccolo insetto parassita anch’esso di origine africana, che senza competitori naturali ha preso il sopravvento causando piccoli fori nello stelo e rovinando sia le foglie sia i boccioli fiorali. Il rimedio a un così vorace lepidottero è rappresentato da insetticidi specifici, da irrorare sulle piante ogni 15-20 giorni. In alternativa ci si può avvalere di preparati biologici da distribuire con la stessa frequenza. In questo modo si potrà ancora godere delle splendide fioriture di gerani parigini, ovvero quelli ricadenti, dai colori accesi che spaziano dal bianco al rosa fino al salmone o dei gerani zonali, dal portamento eretto, con foglie tondeggianti e profumate. Appena acquistati, vi consiglio di trapiantarli in un vaso più ampio, con terra universale soffice e già concimata; basterà bagnarli 3-4 volte alla settimana lasciando asciugare il terreno tra una volta e la successiva; mentre è importante porli in pieno sole e concimarli nuovamente una volta al mese con concime liquido o ogni tre mesi se con quello granulare. Per ottenere esemplari veramente invidiabili, è bene orientarsi sui gerani zonali, scegliendo tonalità particolari di colore e coltivandoli in ampi vasi, magari di terracotta per ottenere ancora di più l’aspetto di pianta mediterranea. Altrettanto funzionale potrebbe essere cercare nei vivai piante di geranio imperiale o macranta (Pelargonium macranthum o P. grandiflorum). Si presentano come piccoli cespugli che se adeguatamente coltivati e riparati nel corso degli anni, possono arrivare
By Ott, Côtes de Provence
Attenti al Licenide dei gerani, che crea piccoli fori nello stelo e rovina foglie e fiori. (Needpix.com)
all’altezza di un metro e un diametro simile. I fiori sono grandi e vistosi, con colori vellutati come cioccolato, porpora e rosso cardinalizio. In vivai ben forniti si possono trovare anche alcuni esemplari di gerani odorosi, ovvero quelli che puntano sulla pigmentazione e profumazione delle foglie (menta, limone, cioccolato, peperoncino, malva e molti altri aromi). Io preferisco adornare il mio balcone con fioriere miste, ospitanti gerani e altre piante estive dalle esigenze simili, come surfinie, dipladenie, verbene cascanti e begonie dragon. Le surfinie, piante cascanti dagli steli e dalle foglie leggermente pelose, si riempiono di campanelle bianche, lilla o viola per tutta l’estate, raggiungendo il massimo sviluppo in luglio. Bagnate con una certa frequenza e ben concimate, andrebbero tagliate per la metà della loro lunghezza a fine luglio, eliminando così tutte le foglie ormai esauste e stimo-
lando la pianta a ringiovanire tutto il suo apparato aereo, ciò che le permetterebbe di produrre nuovi fiori in poche settimane. Se la ricerca si dovesse spostare invece su quelle piante che richiedono poca manutenzione, cioè che non devono essere bagnate con troppa frequenza, allora orientatevi sulle dipladenie, praticamente perenni se si avrà l’accortezza di ricoverarle in una scala tiepida in inverno e tenerle leggermente bagnate ogni 15 giorni. In primavere le dipladenie si presentano con foglie verde lucido portate su steli lunghi, che si riempiranno di fiori a campanula grande color bianco, rosa e anche giallo. Originarie dell’America centromeridionale, necessitano di una esposizione continua per tutta l’estate in pieno sole, ma protette dal vento. Grazie al loro vigore possono stupire, diventando delle piccole rampicanti, a patto di collocarle accanto a una ringhiera o a uno steccato.
La fioritura di queste piante continua fino a fine novembre, senza mai interrompersi, non necessitano di potatura, ma solo di una buona concimazione a inizio stagione e un po’ di attenzione nel non rompere gli steli per evitare la fuoriuscita del lattice biancastro e appiccicoso ricco di linfa. Rimanendo sulla tonalità del rosa acceso, troviamo un’altra pianta altrettanto appariscente: la begonia «Red Dragon», adatta alla coltivazione sia in vaso sia in piena terra, raggiungendo l’altezza di 40-50 centimetri e un’ampiezza che supera i 60 centimetri di diametro. Le foglie lucide, asimmetriche e verde scuro sono portate su fusti carnosi, che ospitano lunghi peduncoli ricchi di fiori dai colori carichi e luminosi. Amante del pieno sole, si sviluppa molto bene anche a mezz’ombra, dove i lunghi rami prostrati creeranno nuvole di colore.
Luglio vuol dire vacanze, sole e vini rosati. Quando si parla di vini rosati tra esperti del settore, subito il pensiero vola in Provenza, dove l’85 per cento dei vini elaborati è di questa tipologia: non per niente il 7 per cento dei vini rosati consumati sul pianeta provengono da questa regione. Il Domaine Ott è famoso per i suoi rosati prodotti con una coltivazione «bio organica» che da oltre 120 anni produce vini dalle caratteristiche uniche. Il By Ott è prodotto con vitigni rossi, la Grenache che dona eleganti note di frutti rossi, il Cinsault che regala finezza e freschezza ai rosati, il Syrah che dà equilibrio nei tagli e la Mourvèdre che regala complessità e note speziate, e dunque ottenuto con una corta macerazione dei suddetti. I rosati che provengono dalle Côtes de Provence, come il nostro By Ott, hanno un colore rosa con leggeri riflessi ambrati, freschi, aromatici e leggermente speziati, sono vini conviviali, con cui accogliere i vostri amici per un aperitivo, potranno pure accompagnare piacevoli «amuse-bouche» e siccome non sono troppo pesanti, con eleganza evitano, come spesso accade, che un aperitivo rovini le entrate che seguono. È ottimo per piatti estivi come l’insalata Nizzarda, la Caprese, la famosa Chèvre chaud, la Paella, ed è inseparabile compagno della Bouillabaisse. / DC Trovate questo vino nei negozi Vinarte al prezzo di Fr. 21.50. Annuncio pubblicitario
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24.06.19 09:39
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 1 luglio 2019 • N. 27
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Ambiente e Benessere
L’eccellente pasticceria ungherese
Gastronomia Non solo farciture e stuzzichini ma anche dolci ricchi e squisiti – Seconda parte
C’è ancora da dire molto sulla cucina ungherese, già esplorata nella prima parte apparsa sul numero 25 di «Azione» del 10 giugno. Torniamo dunque ai prodotti base con cui si prepara la csipetke, della quale abbiamo già parlato, cioè la «pasta pizzicata», un composto di acqua, farina e uovo; sostituendo l’uovo con olio si prepara con gli stessi prodotti anche una sorta di besciamella, onnipresente, chiamata rántás. Serve a legare in forno tante preparazioni.
Il pesce, ovviamente di acqua dolce, proviene dal lago Balaton, il cosiddetto «Mare degli ungheresi» Un’altra farcia salata è data dal formaggio fresco, che può essere anche trasformato in una salsa da spalmare sul pane, detta körözött, composta da ricotta e caprino aromatizzati con cipolla e spezie. Da non dimenticare, infine, gli involtini di cavolo con carne trita e riso. Il pesce, ovviamente di acqua dolce, proviene principalmente dal lago Balaton, il cosiddetto «mare degli ungheresi». Vi si pesca preferibilmente il lucioperca, molto apprezzato alla griglia o fritto. Con altri pesci, come le carpe, il luccio e il persico si prepara una zuppa detta halászlé, stufata con peperoni, cipolle e paprika. La stessa zuppa viene preparata a Seghedino, sul Tibisco, con pesce gatto e carpa. Molto gradita anche la carpa pescata nel Danubio, in genere consumata fritta. Come contorni sono apprezzati cavoli, crauti, zucca e fagiolini, senza dimenticare il lecsó, preparato con pomodori e peperoni cotti, passati e invasati in barattoli. Numerosi gli ortaggi conservati sott’aceto in enormi recipienti, che vengono d’abitudine esibiti sulle bancarelle dei mercati insieme a grandi
trecce di aglio e di peperoncini: tra questi, cavolfiori, peperoni (di cui esistono molti tipi, di colore variabile dal verdino al giallino), cetriolini (vera passione nazionale, soprattutto in agrodolce), zucche, cipolline. Tra le specialità magiare si ricordano poi gli stuzzichini, serviti caldi o freddi, che si consumano a tutte le ore del giorno. Ne è un esempio il turos csusza, realizzato con tagliatelle all’uovo, pancetta affumicata e rosolata e panna acida, da gustare caldo; altri stuzzichini sono preparati con pasta sfoglia e arricchiti dagli ingredienti più vari, dai semi di papavero al formaggio fresco, dai würst alla pancetta. Ampio e variegato l’assortimento di dessert, che pone la pasticceria ungherese ad altissimi livelli. Dai dolci più semplici alle sontuose torte farcite, non c’è che l’imbarazzo della scelta, a partire dallo strudel (rétés) e dalle diverse farce che lo compongono (oltre alle classiche mele, anche amarene, ciliegie, ricotta, noci, mandorle e una delicata crema di semi di papavero). Molto apprezzata è poi la somloi galuskas, una torta composta da tre strati di pan di Spagna, imbevuti di rum e farciti di crema pasticciera, panna, noci e uvetta, servita con panna e una crema al cioccolato. Da non dimenticare anche i butka, ravioli di pasta lievitata molto soffice, ripieni di confettura di albicocche e cotti in forno; l’indianer, una torta ripiena di panna montata e ricoperta di cioccolato; e le versioni dolci della palacsinta, che possono essere farcite con marmellata, formaggio dolce, noci o crema al cioccolato. Il trionfo della pasticceria ungherese è però sicuramente la dobostorte: sei strati di pasta morbida farciti con una crema al cioccolato e ricoperti da una glassa di caramello chiaro. I dolci si possono gustare con il caffè o, per chi lo preferisce, con un bicchierino di pálinka, il distillato di frutta che cambia nome a seconda dell’ingrediente principale (barackpálinka, di albicocche, szilvapálinka, di prugne, cseresznyepálinka, di ciliegie).
CSF (come si fa)
Pixabay
Allan Bay
Toben
del viaggio attraverso la tradizione magiara
La cipolla è il bulbo dall’odore pungente ma dal gusto gradevole di una pianta erbacea, diffuso e apprezzato in tutto il mondo come base di cucina e come verdura. Si è calcolato che è presente in due terzi delle ricette salate di tutto il mondo! La ragione di questo storico e planetario successo sono le sue notevoli proprietà antisettiche e antibiotiche. Ci sono diverse varietà di
cipolla, distinte in base al colore, alla forma e al periodo di raccolta. Oggi vediamo come si fanno tre ricette con una delle versioni più amate delle cipolle: le cipolline; che si trovano facilmente già mondate. Cipolline al forno. Ingredienti per 4 persone. Sciacquate 20 cipolline. Cospargete una placca da forno con il sale grosso, adagiatevi sopra le cipolline e fatele cuocere in forno a 180° per circa 10’ poi abbassate a 150° e proseguite la cottura finché risulteranno tenere. Toglietele dal forno e conditele con una vinaigrette preparata con 1 pizzico di sale e 1 pizzico di pepe emulsionati con 1 cucchiaio di aceto e 4 cucchiai di olio. Cospargetele con prezzemolo tritato e servitele. Cipolline glassate. Per 4. Sciacquate 20 cipolline e sbollentatele per 2’. Scaldate
in una padella 40 g di burro a pezzetti o 4 cucchiai di olio, unite le cipolline, cospargetele con 2 cucchiai di zucchero e fatele colorire a fuoco basso rigirandole delicatamente. Bagnate con 1 mestolo di brodo vegetale bollente o acqua e cuocetele fino a che rimangano circa 4 cucchiai di fondo denso, mescolando e unendo poco brodo se necessario. Regolate di sale. Cipolline in agrodolce. Per 4. Sciacquate 20 cipolline e sbollentatele per 2’. Mettetele in un tegame ricoprendole a filo di brodo vegetale o acqua. Unite 1 punta di concentrato di pomodoro stemperato in poco brodo, 4 cucchiai di aceto, 1 cucchiaiata di zucchero, 40 g di burro a pezzetti o 4 cucchiai di olio e cuocete a fuoco basso fino a che rimangano circa 4 cucchiai di fondo denso. Mescolate, regolate di sale.
Ballando coi gusti Oggi due proposte di crostini: adatti a infiniti momenti, per aprire un pasto ma anche per merenda e simili.
Crostini di polenta alla ricotta
Crostini con funghi e fontina
Ingredienti per 4 persone: polenta pronta · 250 g di ricotta · peperoncino · 1 pepe-
Ingredienti per 4 persone: 8 fette di pane di segale · 8 fette di prosciutto · 100 g di
rone fresco · sale e pepe.
Se non trovate la polenta pronta, fatela voi, e poi lasciatela raffreddare, anche utilizzando polenta istantanea. In una ciotola mescolate la ricotta con peperoncino a piacere e un pizzico di sale; lavorate l’impasto fino a che non sarà cremoso e omogeneo. Tagliate la polenta a fette spesse e fatele dorare nel forno a 200°, girandole una sola volta. Sfornatele, spalmatele un po’ come volete con la crema di ricotta, arricchite con poco peperone tagliato a julienne, profumate con pepe e servite.
fontina · 200 g di funghi a piacere · 2 scalogni · prezzemolo · maggiorana · 100 g di panna · ½ bicchiere di vino bianco secco · burro · sale e pepe. Mondate e tritate gli scalogni con prezzemolo, fateli rosolare in un tegame con una noce di burro; unite i funghi puliti e tagliati a piacere. Lasciateli insaporire per 5’ e sfumate con il vino. Bagnate con poca acqua, incorporate la panna, profumate con maggiorana e lasciate addensare il sugo. Regolate di sale e di pepe. Tostate le fette di pane in forno a 180°. Levate le fette, adagiate su ogni crostino una fetta di prosciutto e una parte di salsa di funghi e coprite con fontina a fettine. Ripassate i crostini in forno fino a che il formaggio non inizierà a sciogliersi, sfornate e servite.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 1 luglio 2019 • N. 27
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Ambiente e Benessere
Tarassaco, un giallo dorato Fitoterapia Pare che questa pianta erbacea non porti solo buona salute, ma anche buona fortuna economica Eliana Bernasconi Di un giallo che più giallo non è possibile: l’inconfondibile Taraxacum officinale appartiene alla famiglia botanica delle Asteraceae o Composite, insieme a splendide margherite colorate, alla malva e alla camomilla. Ha molti altri nomi come radicchio di campo, insalata delle bisce, insalata matta, pisciainletto, (per le sue proprietà diuretiche), mentre basandosi sulla forma frastagliata delle sue foglie, si racconta che un chirurgo del 1500 lo abbia chiamato dente di leone. Originaria delle regioni asiatiche, è la pianta medicinale più democratica che si conosca. Inizia a fiorire a febbraio-marzo e da allora la troveremo ovunque, in larghe distese nei prati di campagna, in città non appena trova un piccolo spazio di terreno. Ha una straordinaria capacità di riprodursi, e in questa primavera 2019 sembra essere divenuta ancora più infestante. I fiori ermafroditi, riuniti nel capolino, si trasformano nel soffione piumoso prodotto dall’evoluzione creatrice della natura per diffondere i semi; impossibile non conoscere il «soffione», un’opera d’arte naturale e magica amata dai bambini di tutto il mondo, una sfera impalpabile che disperde i suoi semi a ogni soffio di vento. Comune e umile ma altrettanto prezioso, del Tarassaco in fitoterapia si utilizzano radici e foglie, le foglie sono ricche di potassio e vitamine, in particolare la C. Le radici hanno un rizoma verticale cilindrico e si possono racco-
gliere dal terreno a partire da maggio. Si ripuliscono, si spaccano per il lungo, si essiccano al sole e si conservano in scatole di cartoni o sacchetti. Per l’elevato contenuto di sostanze amare hanno una forte proprietà di stimolazione della secrezione biliare, e un benefico effetto decongestionante sul fegato: stimolano quindi il metabolismo degli organi emuntori. Da tempo sono conosciute le loro proprietà depurative, aperitive, lassative e diuretiche, qualche testo le prescrive contro il catarro bronchiale e le emorroidi. Come per quasi tutte le piante medicinali un’unica erba ha indicazioni multiple, (ad esempio la gramigna cura il fegato ma anche i reumatismi, il timo cura digestione e problemi respiratori, menta e salvia digestione e memoria ) e questo si spiega perché la preparazione di una sola pianta medicinale possiede ciò che viene definito «fitocomplesso» ovvero un insieme di decine, centinaia, migliaia di molecole che, almeno per una parte di loro sono attive, ed è per questo che molecole molto spesso chimicamente diverse possono agire su organi e patologie differenti. Ogni pianta è un organismo unitario nel quale ogni costituente ha una sua ragione d’essere, a differenza di quanto si verifica nel farmaco dove si isola un solo costituente «attivo» e lo si separa dagli altri che lo accompagnano. Il farmaco resta così privato di tutte le altre proprietà potenzialmente racchiuse nella pianta pura. Nella medicina popolare, contro la tosse si somministrava latte di mucca
mangiate, inoltre diventavano un sostituto del caffè, tostandole. Una raccomandazione fondamentale però va fatta: se raccogliete il tarassaco fuggite lontanissimi dalle strade trafficate o dai tralicci di alta tensione. Scriveva lo scienziato Mattioli nel 1500, fra i primi studiosi di fitoterapia: «Tutta questa pianta cotta e mangiata conforta lo stomaco, e cruda ristagna il corpo, però si loda per la dissenteria non poco, e massimamente cotta con le lenticchie», inoltre, proseguiva, «il succhio bevuto giova à i flussi dello sperma. Cotta nell’aceto mitiga i dolori dell’orina e la decottione di tutta la pianta si dà utilmente nel trabocco di fiele». Secondo le credenze magiche dei secoli passati, il tarassaco in fiore protegge e purifica, ma soprattutto attira denaro. Lo stesso Mattioli che pure era uomo di scienza riferiva che «il suo succhio incorporato in olio e unto su tutto il corpo fa impetrare favori presso i grandi magnati e conseguir da loro ciò che si desidera» (volendo si potrebbe provare anche oggi). L’infuso di radici e il decotto sono depurativi e diuretici, il succo fresco delle foglie giova nelle malattie della pelle e ingorghi di fegato, la tintura madre ha moltissime indicazioni. I bellissimi fiori del tarassaco possono colorare le insalate, mentre i boccioli possono essere conservati sott’aceto come i capperi. in cui era stata cotta la pianta di tarassaco con miele e zucchero; il lattice che fuoriesce dai gambi recisi era spalmato sulle verruche che guarivano rapida-
mente; le foglie si mangiavano cotte come verdure, crude in insalata, aggiunte alle minestre. Le radici, raccolte in autunno, erano cotte nella cenere e
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Ambiente e Benessere
Il paese sommerso degli antenati Passeggiata archeologica A Bodio Lomnago, in provincia di Varese, i resti delle palafitte
sono stati dichiarati patrimonio dell’Unesco Stefania Prandi Sotto la superficie del lago e le evanescenze della nebbia, che scompare soltanto in tarda mattinata nei mesi più freddi, a Bodio Lomnago, in provincia di Varese, ci sono i resti delle palafitte di cinquemila anni or sono. In questo spazio di acqua, eredità del ghiacciaio del Verbano, c’era il più antico insediamento dell’arco alpino: sul fondo sono stati ritrovati numerosi reperti che ci raccontano la storia dei nostri antenati. Sopra i pali conficcati nel terreno acquitrinoso, gli abitanti di allora posizionarono assi di legno, a strati, e costruirono le abitazioni in modo da isolarle dall’umidità e proteggersi dagli animali. C’erano cinghiali, grossi cervi, volpi, uccelli. Donne e uomini dell’età del bronzo crearono un atelier di scheggiatura della selce, roccia per la caccia e per il taglio dei cereali. Il cibo era conservato in vasi di spessa ceramica, mentre contenitori più fini servivano per cucinare e per servire le pietanze. Per arare il terreno erano impiegate mucche, usate anche per la carne e forse per il latte. Inoltre sono stati ritrovati frammenti che testimoniano la presenza di pecore e di cani. Ci vuole una certa immaginazione per pensare a come doveva essere la vita in quel lontano passato, così distante dalle comodità di oggi. Ad aiutare i visitatori nel viaggio nel tempo per adesso ci sono le boe rosse che delimitano le zone 1 dove 2 sono 3rimasti4i pali dell’epo-5 ca. L’area è stata dichiarata patrimonio dell’Unesco di recente e per valorizzarla7c’è in programma la realizzazione di8
Porto di Bodio Lomnago, al Lago di Varese. (Stefania Prandi)
una passerella galleggiante. L’idea di una «camminata sull’acqua» è venuta a un giovane ingegnere, Alessio Caiafa, che ha scritto una tesi di laurea con la supervisione di Riccardo Aceti, docente di Tecnica delle costruzioni al Politecnico di Milano. Si tratta di un progetto paesaggisticamente sostenibile: il percorso in legno sarà ideato per essere ancorato al fondo in maniera non invasiva e per essere collegato con la terraferma. Dopo Floating Piers (l’installazione temporanea dell’artista Christo sul lago di Iseo nel 2017) e dopo il piano della passerella di tre chilometri tra Ascona e le Isole di Brissago, sul lago Maggiore, che verrà 6 realizzata con materiale riciclato e resterà attiva per cinque anni, sicuramente l’idea di un’opera galleggiante alletta le istituzioni locali.
francese De Mortillet e il naturalista tedesco Edouard Desor (vissuto in Svizzera). Dopo alcune raccolte occasionali degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, trent’anni fa è iniziata una vera e propria indagine, con interventi di archeologia subacquea. Per perlustrare i siti sono stati chiamati studiosi specializzati in esplorazione nei laghi, dove non è semplice operare dato che l’acqua non è sempre limpida e a volte nemmeno balneabile. Le parti superstiti dei pali sono state ritrovate ben conservate, anche per merito del materiale impiegato, il legno di ontano e di altri alberi adatti alla permanenza in ambiente sommerso. Questo ha permesso di sottoporli a esami specifici come la dendrocronologia, che indica in quale anno e addirittura in quale stagione sia stato abbattuNonostante i costi per la realizza- vicino al pontile, a sfilettare il pesce del to l’albero. zione siano abbastanza contenuti (dalle lago per venderlo. È meglio andare preLa storia è ricostruita nei pannelli prime stime), Eleonora Paolelli, sinda- sto, per riuscire a salire sull’imbarca- descrittivi disseminati sul Lungolaca di Bodio Lomnago, ci ha spiegato zione quando fa il suo giro quotidiano. go Unesco vicino alle sponde di Bodio che lo scoglio più grande da superare è Un altro modo per entrare in con- Lomnago, dal quale passa la pista ciclal’ottenimento dei fondi, che per un Co- tatto con la storia del luogo è visitare bile di trentatré chilometri che costegmune così piccolo non sono mai facili l’isolino Virginia, dal quale si vedono gia tutto il lago, un incentivo in più per da trovare. La volontà è comunque di le boe che delimitano un’altra zona di gli amanti della natura che vogliano SUDOKU PER AZIONE - GIUGNO 2019 riuscire a valorizzare al meglio il patri- ritrovamenti. Considerato tra i punti trascorrere una giornata tra scorci sugmonio archeologico. più panoramici della Lombardia, ha gestivi e silenzio. N. 21 FACILE In attesa che la burocrazia faccia mantenuto il fascino incontaminato e Per una Soluzione conoscenza più dettaSchema il suo corso, per osservare i resti delle ha un piccolo museo archeologico dove gliata dei reperti, sul sito internet del palafitte si può prendere il battello che1 vengono6organizzati 5 7laboratori didatti- Comune 8 1 (http://www.comune.bodio9 3 6 5 2 7 4 parte dal paese di Biandronno, a sette ci e per le famiglie. lomnago.va.it/index.php/turismo/ 9 2 1 7 5 4 9 2 8 6 1 3 chilometri di distanza, e passa vicino Sono quasi mille gli insediamenti sito-unesco) si possono trovare mate5 tutto l’ar- riali6informativi: 3 2 1 ci 7sono 4 un9video 8 con 5 all’area. Oppure, per un’escursione più3 2di palafitte scoperti8 lungo mirata, si può chiedere un passaggio a co alpino, dalla Francia alla Slovenia. interviste a scienziati che hanno opera3 7 3 9 1 7 4 6 5 2 8 un pescatore di Cazzago Brabbia, a due Nell’area di Varese sono stati individua- to nella zona e una scheda tecnica con 4 2 storici 6 8 e geografici. 5 1 3 Un’altra 9 7 5 1 di villaggi. I primi a sco- i dettagli chilometri da Bodio Lomnago. Neguz2 ti una ventina è il soprannome dell’ottantenne che 7prirli 5 8 è7quella 2 di 9 visitare 3 1 il 4Museo 6 2 furono, nel11863, il geologo e abate possibilità trascorre le mattinate sotto una tettoia, italiano Antonio Stoppani, l’archeologo civico archeologico di Varese. 2 4 3 6 1 7 8 5 9 2 4 7 8 5
Giochi per “Azione” - Luglio 2019 Stefania Sargentini
(N. 25 - Luglio 2019 - ... lo Stato più grande al mondo è la Russia)
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Cruciverba A20volte mentre dormiamo facciamo degli scatti 21 involontari, sai come si chiamano e cosa sono? Scoprilo, a soluzione23ultimata, leggendo le lettere 22 24 25 evidenziate. 26 28 29 (Frase: 9, 1, 4, 8,276) 30
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L O C U S T A S T O P I U’ 9 6 5 4 8 2 7 3 1 6 5 8 3 Vinci O unaG delle 3 carte 8 5 3SUDOKU 9 4 6 2 PE 6 franchi con 1il 7cruciverba I 7R8regalo L 3 9da4 50 e una delle 2 carteN.regalo da 50 franchi con il sudoku 22 MEDIO A N A D E 5 1N. 25 FACILE 3 9 4 8 7 5 2 6 1 ORIZZONTALI 3 M O N Schema 5 2 1 6 3 4 9 7 8 S C A L E5 2O1Sudoku D 1. L’economista e politico italiano 6 9 2 8 6 7 1 9 2 3 5 4 Monti Soluzione: ’ 6 9 3 5. Passa... S inIcucinaT O 7 1S8Scoprire P5i 3 O T E 7 1 8 34 5 9 6 3 92 9. Fu amata da Vasco de Gama 3 numeri 2 corretti 1 5 9 3 6 2 1 8 7 4 5 10. Il verbo del buon umore da inserire nelle 2 9 8 1 5 L A N D A B R U T O 4 2caselle colorate. 7 8 1 4 5 2 3 6 7 8 1 9 11. Una storia lasciata a metà 12. Periodi di nove giorni consecutivi 7 8 9 6 3 2 2 4 3 67 8 1 5 9 6 di preghiera L E S U R A E S T 9 5 3 1 2 6 8 9 5 4 3 1 2 7 13. Consonanti del 16 verticale 1 14. Preposizione articolata 1 7 5 9 2 6 4 8 3 I O D E5 R A 4 8 A O 15. Altopiano dellaF Calabria 4
(N. 26 - Luglio 2019 - Mioclonie e sono sussulti ipnici) 1
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premi, cinque carte regalo Migros (N. 27 - Luglio 2019 -IdelMamba nerosaranno - Africa - Sette passi) valore di 50 franchi, sor-
Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch 1 2 7
teggiati tra i partecipanti che avranno fatto corretta 3 pervenire la4 soluzione 5 6 entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. 8
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N. 23 DIFFICILE 17. Mare del Mediterraneo 18. Le ha pari il polsino 4 2 7 1 3 8 4 5 6 9 19. Viene spiegata in barca 3 8 2 3 4 6 5 9 1 8 7 2 21. Le iniziali dell’autore della Gerusalemme liberata 8 5 6 4 8 9 5 6 7 2 4 3 1 22. Fu dato in pasto a Tereo 2 5 8 1 2 3 9 4 5 7 8 6 23. Beneficio, utilità 7 2 6 9 3 24. È nero a Ginevra 5 8 4 7 2 6 1 9 3 25. Il cantante Albano 9 7 6 9 1 3 8 2 5 4 VERTICALI 3 2 5 4 3 2 8 6 7 9 1 5 1. Formati da più elementi 2. Ambiente buio e tetro 6 22019 Giochi per “Azione” - Luglio 9 5 7 4 1 3 6 2 8 N. 26 MEDIO Soluzione della settimana precedente 3. Rischia di andare dentro... Stefania Sargentini 1 7 6 STATO 1 8 PIÙ 2 GRANDE 5 9 3 4 7 UN PO’ DI GEOGRAFIA – Frase risultante: …LO 4. Le iniziali della conduttrice Spada ALalMONDO LARussia) RUSSIA. 5. 104 (N. 25 -romani Luglio 2019 - ... lo Stato più grande mondo èÈ la 4 7 6 N. 24 GENI 6. Città dell’Ucraina sul Mar Nero 1 2 3 4 5 6 7. Pseudonimo di Vladimir Ilijc 7 1 9 3 6 5 8 2 4 L O6 C U 8 S 2T A 4 1 7 8 Ulianov ’ ’ S T O P I 5U 3 4 2 1 7 8 6 9 5 8. Città della Russia sull’Oka 9 10 I R 1 L 5 6 8 4 25 9 6 1 7 3 5 6 4 O G9 10. Re di Francia... 11 12 13 12. Rinnovati, mutati A9 N7A D E 8 5 6 9 3 7 4 1 2 14 17 18 19 1 9 73 1 8 4 2 37 5 6 14.15Nota musicale 16 S C A L E O M O N D 3 2 16. Artefici 20 21 ’ ’ S I T O S P O T 4 2 7 45 16 6 5 3 8 9 18. Possono essere essenziali... 2E 4 5 3 22 23 24 25 L A N D A B R U T O 20. Il Mongibello 6 9 5 7 8 4 2 3 1 9 1 26 27 29 21. Un poker mancato28 9E S T L E S U R A 2 8 3 6 9 1 5 4 7 8 3 4 23. Avverbio di tempo 30 31 I F O D E R A A O 24. Le iniziali dell’attrice Rinaldi 5 1 7 4 12 5 3 9 6 8 7 9 6 (N. 26 - Luglio 2019 - Mioclonie e sono sussulti ipnici) Partecipazione online: inserire la luzione, corredata da nome, cogno- concorsi. Le vie legali sono escluse. 2 7 1 2 3 4 5 6 7 8 soluzione del cruciverba o del sudoku me, email del Non è possibile un pagamento in conM indirizzo, A R I O C partecipanO L O pubblicato te deve essere spedita a «Redazione tanti dei premi. I vincitori saranno 9 nell’apposito formulario 10 8 2 3 I N EConcorsi, S RC.P. I 6315, D E 6901 R 4E avvertiti sulla pagina del sito. Azione, per iscritto. Partecipazione 11 12 S T O N O V E N E Partecipazione postale: la lettera o Lugano». riservata esclusivamente a lettori che 13 14 15 16 la cartolina postale che riporti la soNon si intratterrà corrispondenza sui T R S U I S I L A risiedono in Svizzera.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 1 luglio 2019 • N. 27
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Politica e Economia Riuniti per il G20 Il Giappone ha ospitato il summit di leader e capi di Stato
La sfida dei Tories Boris Johnson e Jeremy Hunt sono i due finalisti rimasti per la successione di Theresa May alla guida del partito conservatore e del prossimo governo britannico
Dem fra vecchio e nuovo Una performance sbiadita quella di Joe Biden al primo dibattito in casa democratica, mentre brilla la stella di Kamala Harris pagina 29
Dubbi sulla rendita ponte I costi delle misure a favore dei disoccupati anziani sono più alti di quanto previsto e il sistema si presta a eventuali abusi
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Se Facebook batte moneta
La sfida di Libra Il social network di Zuckerberg ha deciso di rivoluzionare il mondo della finanza e dell’economia
mondiale creando una propria criptomoneta a partire dal 2020. In concorrenza con il dollaro e l’euro Christian Rocca Non si può certo dire che Facebook manchi di fantasia o di faccia tosta. Il gigante di Menlo Park, California, è accusato di qua e di là dell’Atlantico di minare il dibattito pubblico occidentale e di mettere in pericolo i processi democratici del mondo libero, favorendo i movimenti populisti e anti sistema, ma anche di facilitare la diffusione dell’odio etnico e di aiutare i regimi autoritari a reprimere il dissenso, oltre che di violare ripetutamente la privacy degli utenti, di abusare della sua posizione dominante e di evadere le tasse. Eppure, nonostante ciò, il gruppo di Mark Zuckerberg ha deciso di compiere un ulteriore salto di dimensione, ovvero di battere moneta, come se fosse uno Stato sovrano, il più immenso degli Stati sovrani del pianeta. A partire dal prossimo anno, infatti, Facebook avrà una sua moneta digitale, chiamata Libra e basata sulla tecnologia blockchain, grazie alla quale la sua comunità di quasi due miliardi di amici potrà scambiarsi denaro, acquistare prodotti e, a un certo punto, anche usufruire dei servizi finanziari tradizionalmente offerti dalle banche, come il deposito e i prestiti.
La nuova moneta sarà sostenuta da un fondo istituito ad hoc, cui hanno già aderito 28 grandi aziende versando un minimo di 10 milioni di dollari ma che dovrebbero arrivare a cento soci fondatori entro la fine del 2019. Libra sarà regolamentata da un’istituzione svizzera indipendente da Facebook, la Libra Association, e nominata dalle aziende fondatrici. Ci sarà anche una Banca centrale di Libra, chiamata Libra Reserve. La sfida di Facebook è quella di far diventare mainstream, popolari e di uso comune, le criptomonete, evitando però i rischi di fluttuazione del valore che subiscono Bitcon e le altre oggi sul mercato. I pagamenti in Libra potranno essere incorporati nel business di chiunque vorrà adottare la nuova valuta digitale, mentre Facebook lancerà una nuova app, Calibra, ovvero un portafoglio digitale integrato nei suoi social, da Facebook a Whatsapp fino a Instagram, per la cui apertura sarà sufficiente fornire un documento di identità. Le informazioni fornite da Facebook aggiungono poco altro e gli analisti e i politici si chiedono se Libra sia una moneta, un titolo o un fondo. Non è una questione da poco, perché stabilire che cosa sia Libra ha conseguenze notevoli
dal punto di vista delle regole cui dovrà sottostare e per capire quale organismo avrà la responsabilità di vigilare sulle sue attività. Zuckerberg sta provando a convincere le autorità di vigilanza internazionali che l’operazione Libra non trasforma Facebook in una banca o in un fondo, esattamente come finora ha rifiutato di essere trattato come un editore o una piattaforma di telecomunicazioni, e per questo chiede regole nuove, diverse da quelle tradizionali e adeguate ai tempi della rivoluzione digitale. Qui cominciano i problemi, visti i precedenti di Facebook. Sorgono dubbi sull’idea di sostituire il denaro emesso dalle Banche centrali con una moneta made in Facebook e in particolare sul fatto che questa valuta possa essere affidata a una piattaforma digitale che in questi anni ha violato qualsiasi regola possibile, prima negando le malefatte e poi scusandosi ma continuando a tradire la fiducia degli utenti e dei regolatori. Appare quindi improbabile che il mondo impegnato a limitare lo strapotere di Facebook, non solo in termini di monopolio nel business, ma anche di indebolimento dei corpi intermedi della società e di infiacchimento dell’opinione pubblica con effetti deleteri sulla so-
cietà aperta, possa consentire al gigante della Silicon Valley di rivoluzionare anche il sistema globale dei pagamenti e di fargli assumere una posizione dominante anche nei servizi finanziari. Il G7 ha deciso di occuparsi della questione, il Senato americano se ne occuperà a metà luglio, mentre la Bank for International Settlements, la banca centrale delle Banche centrali, ha avvertito del potenziale rischio sulla concorrenza, sulla stabilità finanziaria e sul welfare state nel caso Facebook fosse lasciato libero di far partire Libra. I rischi sono evidenti: attraverso Calibra, Facebook conoscerà la disponibilità finanziaria e le spese degli utenti e potrà offrire ai commercianti un sofisticato algoritmo in grado di massimizzare il prezzo che ogni singolo utente potrà permettersi per un determinato prodotto. Facebook, inoltre, conoscerà anche tutti i segreti delle aziende che movimenteranno denaro attraverso il suo portafoglio digitale, un vantaggio competitivo rispetto a qualsiasi altro operatore commerciale. Non ci saranno commissioni sui pagamenti, ma Facebook e gli altri fondatori potranno contare sugli interessi maturati sui dollari e sugli euro depositati in banca per
acquistare Libre, tanto che il rientro dell’investimento iniziale è previsto in poco tempo. Il G7 e le autorità di vigilanza e antitrust dovranno chiedersi anche che cosa succederebbe in caso di furto digitale della moneta o di hacking del sistema Libra: chi paga, chi garantisce i depositi? È molto pericoloso, dicono gli esperti, consentire il lancio di un sistema privato di pagamenti globali che in caso di problemi sarà troppo grande per fallire e avrà bisogno dei soldi pubblici per ripianare le perdite. La sfida di Facebook è coerente con l’obiettivo strategico di sempre, che è quello di connettere direttamente il più alto numero di persone possibile senza curarsi delle conseguenze dell’eventuale disintermediazione del rapporto tra cliente e banche, organismi di sorveglianza e sistemi monetari. Qualche mese fa, Zuckerberg aveva lasciato intendere che di fronte alle critiche al suo business model, centrato sulla profilazione degli utenti a fini pubblicitari, Facebook stava cominciando a trasformarsi da piazza pubblica in tinello virtuale dove potersi scambiare denaro e merci in modo facile e sicuro. In termini tecnici si dice «dalla padella alla brace».
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 1 luglio 2019 • N. 27
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Politica e Economia
America First anche in Giappone Summit G20 La sfida commerciale di Donald Trump ha costretto Tokyo a ripensare la sua politica estera.
Se fino a qualche anno fa il suo nemico numero uno era la Cina, oggi le cose non stanno più così
Giulia Pompili Il primo ad arrivare a Tokyo, la scorsa settimana, è stato Emmanuel Macron. Il presidente francese ha unito alla missione per la riunione del G20 di Osaka una visita di stato in Giappone, la prima da quando è stato eletto presidente. Macron ha avuto un colloquio con il primo ministro giapponese Shinzo Abe, e con lui ha rinnovato la necessità di stringere un’alleanza ancora più forte per «una libera e aperta regione dell’Indo-Pacifico». La strategia dell’Indo-Pacifico è il nuovo mantra della politica estera giapponese, una specie di progetto a lungo termine – soprattutto di sicurezza marittima – che vorrebbe essere un’alternativa al mastodontico progetto d’influenza cinese della Nuova Via della Seta. Non è un caso se il primo ad aderire all’alternativa atlantista a guida giapponese sia stato l’Eliseo: all’inizio del suo mandato presidenziale, Macron si era avvicinato a Pechino, anche grazie a un viaggio ufficiale fatto nella capitale cinese nel gennaio del 2018. Poi però la politica estera francese è cambiata, e Macron si è trasformato in un falco anticinese, accusando l’Europa di essere «troppo ingenua» nei suoi rapporti con Pechino. Il presidente francese è stato l’unico leader europeo che durante la visita di stato del presidente Xi Jinping in Europa, a fine marzo, ha messo sul tavolo la questione dei diritti umani in Cina. Ma se l’Euro-
Il leader cinese Xi Jinping al suo arrivo all’aeroporto di Osaka. (AFP)
pa finora non è riuscita a mettere d’accordo gli Stati membri su una politica estera condivisa da avere con la Cina, anche quest’ultimo G20 ha avuto i suoi momenti più importanti negli incontri
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bilaterali, più che nelle riunioni plenarie. Viviamo nell’èra del bilateralismo, soprattutto da quando Donald Trump è arrivato alla Casa Bianca e ha cercato di portare il metodo del businessman
nei rapporti internazionali. I leader dei venti più importanti paesi della comunità internazionale si sono incontrati a Osaka, la capitale commerciale del Giappone, e come spesso accade ultimamente, nonostante le foto di famiglia di rito, le decisioni più importanti per il resto del mondo sono state prese durante gli incontri a porte chiuse.
La minaccia di Trump di mettere dazi sempre più consistenti sulle auto d’importazione sarebbe un danno enorme per l’economia nipponica Qualche giorno prima della cerimonia d’apertura del G20, Bloomberg ha pubblicato uno scoop che ha fatto cadere dalla sedia il primo ministro giapponese Shinzo Abe, cioè il padrone di casa. Secondo alcune fonti anonime, il presidente Trump avrebbe parlato più volte, in privato, di voler cancellare il trattato di mutua difesa tra America e Giappone – un patto di sicurezza strategica che fu firmato alla fine della Seconda guerra mondiale tra Washington e Tokyo e che sancì l’inizio di un’alleanza finora indissolubile. Secondo Trump il patto sarebbe sbilanciato: l’America è infatti obbligata a intervenire in difesa del Giappone nel caso fosse attaccato, ma non obbliga il Giappone a intervenire in difesa dell’America. C’è un motivo tecnico: la Costituzione giapponese scritta nel Dopoguerra, all’articolo 9 vieta a Tokyo di avere un esercito regolare, ma solo Forze di autodifesa. Il segretario di gabinetto del governo nipponico, Yoshihide Suga, ha detto ai media che il trattato non era stato mai messo in discussione, proprio perché è su quello che si basa l’alleanza tra i due Paesi. Il presidente americano, però, non sembra essere d’accordo, e lo ha criticato anche qualche giorno dopo in un’intervista alla Fox: «Quasi tutti i paesi si avvantaggiano enormemente dall’esercito degli Stati Uniti. Ma se qualcuno ci attacca, i giapponesi possono assistere alla Terza guerra mondiale comodamente dalla loro televisione Sony». Nonostante Shinzo Abe le abbia tentate tutte per accomodare e compiacere il presidente Trump, pare non siano bastate le ore di partite di golf organizzate durante l’ultimo incontro tra i due,
e aver dato al presidente americano il privilegio di essere il primo leader straniero a ricevere udienza dal nuovo imperatore giapponese Naruhito. Come per molti altri tradizionali alleati dell’America, anche con il Giappone la situazione è sempre più tesa per via della politica commerciale della Casa Bianca. La minaccia di Trump di mettere dazi sempre più consistenti sulle auto d’importazione, se si verificasse, sarebbe un danno enorme per le esportazioni nipponiche. La politica dell’America First di Trump ha costretto il Giappone a ripensare la sua politica estera, e se fino a qualche anno fa il nemico numero uno di Tokyo era la Cina, oggi le cose non stanno più così. La famosa fotografia del summit Apec del 2014, con Shinzo Abe e Xi Jinping che si stringono la mano controvoglia, è diventata un passato lontanissimo giovedì scorso quando il presidente cinese è atterrato in Giappone – e non succedeva dal 2010, l’anno in cui i rapporti tra i due paesi si erano ridotti ai minimi termini. «Le relazioni tra Giappone e Cina sono tornate alla normalità», ha detto Abe qualche mese fa, un’affermazione confermata in questi giorni. Tanto che, tra i funzionari del Ministero degli esteri giapponese, qualcuno azzarda la possibilità di un cambiamento anche nella valutazione del progetto della Nuova Via della Seta cinese: da minaccia per la stabilità asiatica a un’opportunità di cooperazione. Fino a oggi, ogni volta che a Shinzo Abe è stato assegnato il ruolo di negoziatore è stato il Giappone a perderci di più. A quarant’anni dall’ultima visita, a metà giugno il premier giapponese ha viaggiato in Iran nel tentativo di mediare tra Teheran e Washington sul dossier nucleare. Mentre si svolgevano i colloqui, due petroliere (di cui una giapponese) sono state attaccate nello Stretto di Hormuz, e Abe è tornato a Tokyo senza alcuna apertura di dialogo da parte dell’Iran. Poche ore dopo un drone americano è stato abbattuto, e Trump stava per lanciare l’attacco contro Teheran, annullando definitivamente ogni tentativo di negoziazione. Anche sulla pace commerciale tra America e Cina, Shinzo Abe sa che il ruolo di mediatore non può essere affidato a nessuno. Mentre i due giganti continuano a sfidarsi, sul piano del commercio e quello della tecnologia, il resto del mondo non può fare altro che contenere i danni: una lezione che Shinzo Abe ha capito benissimo, soprattutto dopo questo G20.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 1 luglio 2019 • N. 27
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Politica e Economia
Johnson o Hunt?
Tories L’ex sindaco di Londra e il ministro degli Esteri sono rimasti
Trump soddisfatto «E andato bene»
in corsa e si sfideranno per la successione di Theresa May come leader Casa Bianca 2020 N el 1. dibattito tv per Tory e prossimo premier britannico le primarie Dem Biden esce invece indebolito
Cristina Marconi I Tories hanno disperatamente bisogno di un prestigiatore bravo a far sparire la Brexit sotto una tendina di stelle, a segarla in due o in tre per renderla più digeribile per il Parlamento o a tirare fuori dal cilindro una soluzione-coniglio che piaccia a una solida maggioranza di elettori. E quindi il partito guarda a Boris Johnson, ex sindaco di Londra a cui nessuno, neppure i moltissimi sostenitori, riconoscono una particolare competenza o un’affidabilità a prova di bomba. A lui e ai suoi presunti superpoteri è andata la stragrande maggioranza dei voti durante i ballottaggi tra i deputati e rispetto a lui si sono dovuti posizionare tutti gli aspiranti rivali, fino a quando non ne è emerso uno, quello definitivo: Jeremy Hunt, proprio l’uomo che ha dovuto raccogliere i cocci lasciati da Boris al Foreign Office, la prova vivente che il «tocco magico» del biondo cinquantacinquenne non sempre funziona. Entrambi devono vedersela con un partito profondamente spaccato, uscito malamente dai tre anni di narcotizzazione ad opera di Theresa May e dei suoi reiterati tentativi, tutti falliti, di far passare una Brexit «tecnica» e troppo attenta ai dettagli per convincere un Paese ancora molto confuso dal referendum del 23 giugno del 2016. Entrambi devono imparare dagli errori della May per chiu-
so sul sito di «The Sun». L’arte oratoria di solito premia Johnson, che però negli ultimi giorni se l’è dovuta vedere con una vicenda pesante e dannosa per la sua immagine pubblica. Convinto dai suoi consiglieri a mantenere ancora un po’ di ambiguità costruttiva sulla linea che seguirà sulla Brexit, Boris Johnson deve però vedersela con gli strascichi di un brutto episodio che rischia di interrompere l’indulgenza con cui l’opinione pubblica ha sempre giudicato la sua disordinatissima vita privata. Divorziato due volte e noto donnaiolo, con almeno una figlia nata da una relazione extraconiugale, il cinquantacinquenne Johnson ha una fidanzata giovane, intelligente e bella, Carrie Symonds, che lavorava per la comunicazione del partito conservatore e che avrebbe avuto un ruolo importante nell’ingentilire l’immagine dell’ex ministro degli Esteri. Il quale ora, in attesa del divorzio dalla ex moglie Marina Wheeler, vive a casa della trentunenne Symonds a Camberwell, un ex quartiere malfamato a sud di Londra diventato molto alla moda soprattutto tra l’intelligentia liberal e di sinistra. Una settimana fa i vicini hanno chiamato la polizia in seguito a una lite molto accesa tra i due, in cui la donna sarebbe stata sentita urlare «toglimi le mani di dosso» e avrebbe lamentato l’atteggiamento da persona ricca e viziata di Johnson, che rovesciandole del vino
Johnson e Hunt durante il dibattito tv del 18 maggio. (AFP)
dere il prima possibile un dossier che sta facendo andare in cancrena un intero sistema politico. Johnson e Hunt, entrambi provenienti da famiglie dell’iperuranio sociale, con Hunt addirittura imparentato con la regina Elisabetta II, non potrebbero essere più diversi: il biondo e il grigio, il disordinato e il metodico, il carismatico ex primo cittadino della Londra splendida delle Olimpiadi e lo spietato ex razionalizzatore di un servizio sanitario nazionale sempre più ridotto all’osso. Anche se l’avversario di Boris ci ha messo poco a dimostrare di non essere un mansueto uomo di partito e di saper attaccare all’occorrenza, definendo «codardo» l’avversario per via della sua reticenza a sottoporsi ad un confronto televisivo, che avverrà solo il 15 luglio, appena una settimana prima del voto dei 160mila iscritti al partito, e sarà trasmes-
rosso sul divano avrebbe dimostrato di non conoscere il valore delle cose. Come in una versione middle class delle liti all’Eliseo tra François Hollande e la ex Valérie Trierweiler, con tanto di porcellane di Sèvres fatte in mille pezzi, si sarebbero sentiti piatti volare e infrangersi al suolo. Una registrazione della litigata è stata mandata dal solerte vicino al «Guardian», che però non l’ha fatta circolare, ma l’idea che questa coppia litigiosa e instabile finisca a Downing Street non è piaciuta molto al Paese. Johnson non si è fatto trascinare dalle reiterate richieste di scuse e di un commento e pochi giorni dopo ha affidato a una foto il compito di risanare la situazione: lui e Carrie, seduti a un tavolo in mezzo alla campagna, mano nella mano in un idillio bucolico in cui molti hanno visto la mano di un comunicatore politico più che l’autentica armonia che spesso segue
un litigio. L’incidente per ora sembra superato, ma unito ai mille appelli di chi ha lavorato in passato con Johnson e ne denuncia l’inaffidabilità, potrebbe averlo danneggiato davvero. Ma non è detto che il Regno Unito voglia essere governato da Boris Johnson per sempre. Sicuramente è curioso di vedere come risolverebbe un problema che lui stesso ha contribuito a creare, ossia la Brexit. Il problema, oggi come ieri, è quello di evitare che il no deal diventi la prova di forza estrema di un aspirante leader che pensa di doversi misurare con il nichilismo politico di un Nigel Farage, che con il suo Brexit Party rappresenta nonostante tutto una minaccia per le prossime elezioni generali. Hunt è più morbido sull’idea di rispettare la scadenza del 31 ottobre per uscire dalla Ue e sostiene che se ci vorrà più tempo per avere un buon accordo, Londra chiederà più tempo, ma ha fatto un passo falso definendola una «finta deadline» e ribadendo di volere una «Brexit positiva, aperta e internazionalista», degna di una «Gran» Bretagna e non di una Piccola Inghilterra. E subito sono fioccate le polemiche, tanto che Hunt ha dovuto scusarsi, mentre come tutti quelli che si avvicinano a Downing Street, anche Boris Johnson sta facendo fatica a mantenere il manicheismo delle prime dichiarazioni sul 31 ottobre, quando diceva che era una questione di «vita o di morte» realizzare la Brexit entro Halloween. Per non rischiare che questa corsa alla leadership metta a repentaglio il futuro del Paese, c’è chi continua ad ingegnarsi per trovare una soluzione per evitare il no deal a tutti i costi. Il Parlamento ha fatto vari tentativi in questa direzione, senza mai trovare una maggioranza su qualcosa che andasse oltre la vaga indicazione di non volere che il Regno Unito esca dalla Ue senza un accordo che eviti di dover applicare le regole dell’Organizzazione mondiale del commercio agli scambi con il blocco europeo. Il conservatore Dominic Grieve, insieme alla laburista Margaret Beckett, sta lavorando a un emendamento a una legislazione di bilancio in cui si prevede che non possano essere dati finanziamenti governativi a dipartimenti come le pensioni, la scuola e l’edilizia popolare in caso di no deal, in modo da legare le mani al prossimo premier prima ancora che venga eletto. Johnson potrebbe sospendere il parlamento per portare avanti il no deal anche senza l’accordo dei deputati, ma questo darebbe luogo a una crisi assai grave e non è detto che l’ex sindaco voglia intraprendere una strada così drastica. «L’idea che possiamo o dobbiamo essere portati fuori dalla Ue senza il consenso del parlamento è fondamentalmente sbagliata e francamente incostituzionale», ha spiegato Grieve, aggiungendo che «il fatto che sia suggerita come un’opzione fattibile è inaccettabile». Dall’altra parte, quando voteranno l’emendamento martedì 2 luglio, i deputati dovranno scegliere se seguire la strada di un confronto così duro con il governo, sapendo di non avere a loro volta nessuna opzione di Brexit su cui ci sia una maggioranza.
Federico Rampini Donald Trump ha interrotto il suo vertice bilaterale con Angela Merkel al G20 di Osaka, per commentare il dibattito televisivo tra i candidati democratici. Maleducazione a parte, il presidente è gongolante. I suoi alleati europei o asiatici (che lui si ostina a maltrattare) lo sono un po’ meno, presumibilmente. Gli uni e gli altri al momento vedono risalire le probabilità di rielezione di Donald Trump nel 2020. L’avversario che finora nei sondaggi supera sistematicamente Trump, l’ex vicepresidente Joe Biden, è uscito indebolito dal primo test. Biden è apparso esattamente quello che è: un signore molto anziano, che a 76 anni appare il più vecchio di tutti i candidati pur avendo un anno meno del 77enne Bernie Sanders, e solo tre più del 73enne Trump. Si capisce che il presidente in carica si sia sentito sollevato. Alla prima prestazione televisiva Biden è apparso spesso incerto, senza grinta, ogni tanto ha perso il filo. Per affrontare una belva feroce come Trump non sembra all’altezza. Inoltre, com’era prevedibile, Biden ha sofferto la dannazione classica del favorito. Gli altri democratici lo hanno attaccato più volte, soprattutto sul suo passato. Per chi ha una carriera politica così lunga alle spalle, è facile trovare qualche scheletro nell’armadio, e a Biden non mancano. Votò a favore della guerra in Iraq come Hillary Clinton, per esempio. L’attacco più duro è venuto dalla star della seconda serata, la senatrice della California Kamala Harris. Forse in assoluto la vincitrice delle due serate tv. La Harris, com’era scontato, essendo per metà afro-americana (l’altra metà, di parte materna, è indiana) ha attaccato Biden sul tema del razzismo. Gli ha rinfacciato di aver negoziato – sia pure in un passato lontano – delle alleanze di voto con senatori segregazionisti. Lo ha accusato anche di non avere sostenuto la politica del «busing», cioè quei trasferimenti in autobus scolastico dai quartieri neri verso i quartieri bianchi, con cui negli anni Sessanta cominciò la de-segregazione forzosa del sistema scolastico, per mescolare una popolazione di allievi che era separata su basi razziali. Ma la politica del «busing» è molto controversa anche nella base democratica. Kamala Harris può fare il pieno di voti afro-americani e al tempo stesso scontentare una parte della base bianca del partito; è la trappola etnica nella quale Barack Obama fu sempre attento a non cadere. Se l’impressione dei primi dibattiti tv è che forse sta già declinando la stella di Biden, al di là della sua età o stanchezza questo si spiega anche con altri fattori. La fotografia del partito democratico, come si ricava da questi 20 candidati, si è spostata molto più a sinistra. Su molti temi – tassare i ricchi, passare a un sistema sanitario pubblico sul modello europeo, cancellare i debiti studenteschi e offrire l’università gratuita, varare una sanatoria per gli immigrati
Da sinistra, Joe Biden, Bernie Sanders e Kamala Harris. (AFP)
clandestini – prevalgono tra i candidati più popolari le posizioni radicali. Bernie Sanders appare meno originale: la sua campagna sembra un bis di quella del 2016, ha perso il vantaggio della novità, e molti (molte) gli fanno concorrenza per pescare voti nell’ala sinistra dell’elettorato. Biden il moderato è per forza in difficoltà in questa dinamica. L’altro fattore che pesa è il forte rinnovamento: generazionale, etnico, di genere. Mai c’erano state così tante donne, giovani, e candidati di colore. Kamala Harris faceva la scuola media quando Biden era già senatore. Due candidati sono trentenni, sette sono quarantenni. Fa eccezione la senatrice del Massachusetts Elizabeth Warren, settantenne anche lei; ma con un sapore di novità essendo alla sua prima candidatura per la nomination. La Warren figura nella pattuglia di donne che sono uscite bene dai primi duelli tv; insieme alla Harris e a Kirsten Gillibrand, senatrice di New York. Forse un po’ troppo professorale, ma estremamente competente sui temi economici e sociali, la Warren insidia Sanders nella sua stessa base giovanile e radicale. Sempre all’insegna della diversità, hanno fatto una eccellente figura il gay dichiarato Pete Buttigieg (sposato con un uomo), e il senatore afroamericano del New Jersey, Cory Booker. Trump gongola non solo per la prestazione sbiadita di Biden ma anche per la sterzata a sinistra del partito democratico. Dal G20 il presidente ha subito polemizzato, per esempio, sul fatto che molti candidati dem vogliono estendere l’assistenza sanitaria agli stranieri senza permesso di soggiorno, e depenalizzare l’immigrazione clandestina. Trump sa che queste posizioni possono essere vincenti alle primarie – dove partecipa soprattutto la fascia più militante e radicale – ma possono alienare una parte dell’elettorato democratico nella votazione finale. Trump sa bene che ai democratici basterebbe riconquistare tre Stati in cui lui vinse di strettissima misura (la Pennsylvania che conquistò con uno scarto di 44’000 voti su Hillary Clinton, il Michigan con soli 10’000 voti, il Wisconsin dove passò per 25’000 voti), per riprendersi la Casa Bianca. Sono proprio quegli Stati del Midwest dove gli spostamenti in favore di Trump avvennero nella classe operaia bianca, molto moderata.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 1 luglio 2019 • N. 27
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Politica e Economia
Gli ultimi carbonai della Calabria Fotoreportage A Serra San Bruno, paese di settemila abitanti, dove
il carbone si produce con una tecnica antichissima
Luigi Baldelli Sui monti di Serra San Bruno, in Calabria, in mezzo a boschi di faggi e lecci, non lontano dalla costa Jonica ma a circa 800 metri d’altezza, si trovano quelli che si potrebbero definire i protagonisti di una delle ultime archeologie industriali: i carbonai o carvunàri. I pochi carbonai che ancora lavorano a Serra San Bruno sono gli ultimi eredi di un mestiere millenario. Questo mestiere, che consiste nel trasformare la legna in carbone, richiede una maestria e una fatica fuori dal comune. Un lavoro antico, che viene fatto interamente a mano e che si tramanda di padre in figlio. Gli adulti lo hanno appreso dal padre che a sua volta aveva imparato dal nonno e lo stanno tramandando ai loro figli. Prima a Serra San Bruno i carbonai si spostavano nei territori collinari o montani ricchi di boschi, dove vivevano con tutta la famiglia finché c’era la materia prima, la legna, e poi si stabilivano altrove. Rispetto al passato, oggi i carbonai sono rimasti davvero pochi, meno di una trentina. Un lavoro faticoso, si esce di casa alle 5 del mattino e si rientra alle 7
di sera. A volte ci si alza anche di notte per andare a controllare che tutto proceda nel migliore dei modi. Tutti i giorni dell’anno.
Si tratta di un lavoro antico, che viene fatto interamente a mano e che si tramanda di padre in figlio La carbonaia o «scarazzu» è un enorme cupola perfettamente circolare di 6/7 metri di diametro e circa 3/4 metri di altezza con un foro al centro. Si costruisce con la legna, con i tronchi più grandi al centro, che formeranno la caldaia, e con altri, sempre di diametro più piccolo verso l’esterno che costruiscono la carbonaia. Poi viene coperta di paglia e infine ricoperta di terriccio. Un lavoro che richiede 2 o 3 giorni. Dal foro in alto si inserisce la legna dentro la caldaia e si accende il fuoco. Il legno brucia e il fumo e il calore fanno diventare carbone i legni che circondano la caldaia. Il fumo del
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fuoco all’interno trova sfogo da piccoli fori ai lati o passa attraverso la paglia e la terra, oppure dal foro in alto. Queste cupole sono davvero piccoli vulcani costruiti dall’uomo. Il processo che trasforma il legno in carbone dura circa 3 settimane e la caldaia al centro della carbonaia va alimentata a intervalli di tempo e nel modo giusto per tutto questo periodo salendo con una scala fino in cima alla carbonaia, perché se il fuoco si spegne o diventa troppo forte, si distrugge tutto il lavoro. Dopo circa 3 settimane, si toglie la terra e si inizia ad accatastare il carbone dividendo i pezzi più piccoli da quelli più grandi E anche qui, altri due giorni di lavoro. Alla fine da circa 500 quintali di legna (dipende dal tipo di legna) si ricavano circa 100 quintali di carbone. Il mio Caronte, in questo inferno di fumo e terra nera, è Cosimo, il figlio di Angelo. Qui, in questo spiazzo tra le montagne, circondato da alberi e ruscelli, la famiglia lavora tutti i giorni, tutto l’anno. Sono Angelo e i suoi fratelli Nazzareno e Bruno. Ed insieme a loro i figli di Angelo e Nazzareno che entrambi si chiamano Cosimo.
L’intera galleria fotografia può essere visitata sul nostro sito. (Luigi Baldelli)
«Mi piace costruire la carbonaia, mi dice Cosimo, il piccolo dei due, 21 anni e un diploma di geometra. L’odore del fumo ti rimane addosso, ma è un odore che mi piace. Il salario non è alto, circa 1500 euro al mese, ma va bene così». Nazzareno padre lo osserva mentre costruisce lo «scarazzu», lo segue e lo corregge. Anche lui ha imparato dal padre, lo ha seguito passo passo, dopo tre anni riuscì a costruire la prima carbonaia da solo, e adesso insegna a suo figlio. Il quale, dopo due anni che lavorano insieme, non è ancora capace a fare bene la carbonaia, ha bisogno della supervisione del padre. In inverno, tutte le notti, devono venire a controllare che il fuoco lavori nel modo giusto e non trasformi la legna in cenere. Certe notti anche 2 o 3 volte passano a controllare che tutto proceda per il meglio. La presenza dei carbonai nella Serra di San Bruno risale già al 1700 e anche oggi, se sono rimasti in pochi, hanno un ruolo nell’economia del territorio con tutto l’indotto che ruota intorno a loro. Taglialegna, camion per il trasporto, negozi di attrezzatura per tagliare la legna eccetera, a Serra San Bruno, paese di 7500 abitanti, l’economia si basa sull’attività boschiva. A 100 metri da Nazzareno e il figlio, il rumore della motosega è costante: Bruno taglia i tronchi a misura per costruire la nuova carbonaia. Procede spedito, sicuro dei suoi movimenti. È il più giovane dei tre fratelli, 46 anni, e ha sempre il sorriso sul volto. Un grande naso divide gli occhi scuri e vispi. Le mani callose. «Non andrei mai via di qui, io non sono mai andato via neanche una volta dalla mia terra non sono mai uscito dal territorio di Serra San Bruno», dice mentre sposta piccoli tronchi di legna, «mi piace vivere in mezzo al bosco, mi piace questo lavoro. E poi» continua mentre si accarezza la barba ispida, «faccio questo lavoro fin da piccolo, non riesco a staccarmene e non so fare altro». Serra San Bruno è uno dei pochi paesi che resiste allo spopolamento, malattia endemica di molte parti del Sud Italia, dove disoccupazione e mancanza di alternative costringono ad emigrare. E fare il carbonaio, anche se è un lavoro «sporco», dà da mangiare. Perché il carbone che si produce qui viene venduto soprattutto a ristoranti e pizzerie in Toscana, Puglia, Sicilia, Basilicata e altri posti ancora. È un
carbone vegetale e non è tossico come quello minerale, un carbone di qualità. Fino agli anni 70 i carbonai vivevano nel bosco con tutta la famiglia e scendevano in paese a Ferragosto, Natale e alla festa del patrono, San Biagio. E il rapporto che si crea tra il carbonaio e la terra è quasi un rapporto ancestrale. Camminando tra questi piccoli vulcani costruiti dall’uomo, osservo Angelo, 57 anni. Oggi è la giornata del «raccolto», una carbonaia ha finito il suo ciclo, ha trasformato tutta la legna in carbone. Bisogna scoperchiarla, togliere la terra, raccogliere e sistemare il carbone. Nuvole di polvere nera si alzano ovunque. Ma lui si muove rapido, sa da dove iniziare, impartisce brevi ordini e consigli al figlio che lavora con lui. In poco tempo il volto di entrambi è diventato una maschera nera. Risaltano solo gli occhi. Con esperienza dividono il carbone, nelle varie misure. Angelo, la schiena curva per raccogliere il carbone, si ferma raramente per riposarsi. E alza lo sguardo solo per controllare il fumo che esce dalle altre carbonaie. In base al colore del fumo, sa esattamente se tutto procede bene. E quando qualcosa non lo convince oppure quando è tempo di un controllo, va subito a vedere. Alla fine si ferma un attimo e appoggia la mano nera di carbone sul manico della sua pala. La sua maglietta bianca ormai è grigio scuro, così come i suoi pantaloni. Gocce di sudore scendono dalla fronte nera di polvere e scavano piccoli solchi. È davvero faticoso, non ti fermi mai, gli dico mentre manda giù un sorso di acqua fresca. Mi guarda come se avessi detto qualcosa di strano, e poi, incrociando le mani, mi dice: «La carbonaia mi dà da mangiare, ma è anche un lavoro di sacrificio, perché è lei che detta i ritmi, i tempi di lavoro, giorno e notte. E non puoi fermarti, non puoi rimandare, perché se non rispetti i tempi, il tuo lavoro va davvero in fumo». E si apre ad un sorriso, mostrando i denti che sembrano più bianchi di quello che sono. Quando ormai il sole è sceso dietro le montagne, rientro a piedi verso il paese. La certosa di Serra San Bruno è giù, in fondo alla valle. Al suo interno monaci benedettini di clausura staranno forse dicendo le preghiere dei vespri. Avvolti anche loro in nuvole di fumo: quelle dell’incenso e delle candele. Ma addosso hanno candide tonache bianche.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 1 luglio 2019 • N. 27
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Politica e Economia
Rendita-ponte: primi dubbi Mondo del lavoro Il sistema di protezione sociale dei lavoratori più anziani presentato a metà maggio dal Consiglio
federale crea qualche problema e la rendita potrebbe favorire i licenziamenti di persone anziane Ignazio Bonoli Sono abbastanza frequenti anche in Svizzera i casi di lavoratori che, avvicinandosi al sessantesimo anno d’età, perdono il posto di lavoro. Dopo un periodo generalmente di un paio d’anni, coperto dall’assicurazione contro la disoccupazione, si corre il rischio di finire a carico dell’assistenza sociale. Per ovviare a queste situazioni, il Consiglio federale ha varato un progetto di rendita-ponte, che coprirebbe il periodo che va dalla fine delle indennità di disoccupazione al pensionamento. Di questa possibilità potrebbero approfittare persone che perdono il posto di lavoro a 58 anni e oltre. Fino a 60 anni potrebbero beneficiare delle indennità di disoccupazione, ma poi si troverebbero davanti a un vuoto sociale fino all’età di pensionamento. Oggi, queste persone, dopo aver utilizzato 4000 franchi di risparmi propri, possono accedere all’assistenza sociale. Quest’ultima garantisce, oltre all’affitto e ai premi di cassa malati, 990 franchi mensili per i bisogni primari. La nuova rendita garantirebbe invece 2400 franchi mensili. Il massimo della rendita totale sarebbe stabilito a 4000 franchi per persone sole. Inoltre, non dovrebbe intaccare i propri risparmi fino a 100’000 franchi. Il progetto ha fatto parecchio discutere, a partire dalla fretta del Consiglio federale nell’introdurre la novità. La decisione è stata presa a metà maggio, ma senza un normale periodo di
preparazione. E, a complicare il tutto, si è anche scoperto che le cifre indicate dal governo quali costi dell’operazione si riferivano soltanto al primo anno dell’entrata in vigore. La svista ha indotto le grandi associazioni dell’economia a rivedere la loro posizione, inizialmente favorevole. Così si è saputo, alla vigilia della seduta del Consiglio federale, che i costi, stimati inizialmente in 90 milioni di franchi, sarebbero costantemente saliti negli anni seguenti. A Berna si giustifica l’errore con la fretta di varare il messaggio al Parlamento, discusso solo in una cerchia ristretta di collaboratori dei consiglieri federali Keller-Sutter e Berset, questo per evitare che la notizia si diffondesse troppo presto tra il pubblico. Solo all’ultimo momento ci si è accorti che le cifre fornite dall’Ufficio federale delle assicurazioni sociali si riferivano al solo primo anno dell’introduzione. Da qui le esitazioni dopo l’adesione di principio dei partner sociali. È poi mancato il tempo per le necessarie correzioni. Il 27 giugno il Consiglio federale ha poi messo in consultazione il progetto e ha precisato i costi: il primo anno dovrebbero essere di 40 milioni, in seguito stabilizzarsi attorno ai 260 milioni all’anno, benché una serie di incognite rendono prudente il Consiglio federale, tali da ritenere i costi effettivi annui fra i 200 e i 350 milioni di franchi. Nel frattempo sono però sorte altre considerazioni che gettano qualche
dubbio per la soluzione proposta a un problema reale. Intanto si valuta che l’indennità prevista sia troppo alta. La proposta è di 1,5 volte quanto gli attuali beneficiari di rendita AVS percepiscono tramite le prestazioni complementari. Al direttore dell’Unione svizzera arti e mestieri non piace che questo nuovo aiuto sociale assuma il carattere di una rendita, nel senso che il beneficiario non è più incitato a trovare un nuovo lavoro. L’ammontare dei costi dell’operazione dipende anche dal numero di coloro che perdono il posto di lavoro e della loro età. Ci sono forti oscillazioni nel numero di coloro che superano i sessant’anni. Secondo i calcoli della Confederazione, dal 2004, il loro numero è variato tra le 1700 e le 4000 persone. L’ultimo conteggio ne elencava 2657. Si deve poi anche tener conto di alcuni effetti «dinamici». La rendita crea, infatti, nuovi stimoli e influisce anche sul comportamento dei datori di lavoro. È probabile che in caso di dubbio, un datore di lavoro preferisca licenziare un 58enne, piuttosto che un dipendente più giovane, per evidenti motivi anche personali. In altri termini, se questo atteggiamento si diffondesse, l’aiuto sociale ai dipendenti anziani diventerebbe in pratica un’ulteriore assicurazione contro la disoccupazione. Inoltre, la rendita prevista per il livello più basso di salario diventerebbe interessante. Una situazione che ha fatto dire ai rap-
Keller-Sutter e Berset: la fretta nel presentare la rendita-ponte è dapprima andata a scapito della precisione sui costi effettivi e sulle conseguenze. (Keystone)
presentanti dell’UDC che, in pratica, si tratta di una «rendita di licenziamento» per i dipendenti più anziani. Inoltre, questa «rendita-ponte» dovrebbe procurare più risorse finanziarie al momento del pensionamento. Le prestazioni complementari dovrebbero quindi diminuire, così come le pre-
stazioni dell’assistenza, a vantaggio di Cantoni e Comuni, ma anche della Confederazione, ma probabilmente non del contribuente. Inoltre, nonostante il riferimento alle prestazioni complementari, la nuova indennità si inserisce male nel sistema attuale di protezione sociale. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 1 luglio 2019 • N. 27
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi La gestione delle finanze continua a migliorare Sono appena stati pubblicati i dati concernenti il pre-consuntivo del Cantone Ticino per il 2019. La buona notizia è che anche quest’anno il Cantone realizzerà un avanzo. Alla fine di aprile si prevedeva che il conto finanziario chiudesse, a fine anno, con un avanzo di 73,3 milioni di franchi contro un disavanzo di preventivo di 11,5 milioni. Dunque anche per il 2019 i risultati effettivi della gestione finanziaria del Cantone saranno migliori di quelli anticipati nel preventivo. È interessante chinarsi una volta su questo confronto per chiedersi perché il saldo del consuntivo sia sempre migliore di quello del preventivo. Intanto osserviamo che, nei venti esercizi finanziari dal 2000 al 2019, questo
evento si è prodotto 19 volte. Solo nel 2013 il saldo del conto finanziario nel consuntivo è stato peggiore di quello anticipato nel preventivo. Si tratta di una regolarità degna di lode. Significa infatti che i responsabili della gestione finanziaria del nostro piccolo Stato riescono sempre a far meglio, in sede di consuntivo, di quanto loro imposto dal parlamento con il preventivo. Non tutti i parlamentari condivideranno questa valutazione. A destra e a sinistra dell’emiciclo vi sono infatti deputati che pensano che la proposta di preventivo che viene loro sottoposta dal governo sia un documento eminentemente politico nel quale spesso e volentieri il Consiglio di Stato, e per esso il ministro delle finanze,
anticipa, a fini strategici, un risultato negativo. In primo luogo per coprirsi le spalle, nel caso in cui un colpo di freno nella congiuntura dovesse rallentare l’evoluzione delle entrate, o, nel caso in cui decisioni della Confederazione o un insufficiente controllo dell’evoluzione delle uscite dovesse portare a un aumento inatteso delle stesse. In secondo luogo per moderare gli appetiti del parlamento in relazione a possibili aumenti di spesa o a nuovi interventi che creassero nuove voci di spesa. Ma se il preventivo fosse solamente un documento manipolato a fini strategici dall’esecutivo ne andrebbe della sua attendibilità. Per questa ragione gli specialisti delle finanze pubbliche sostengono che la differenza
tra il saldo del preventivo e quello del consuntivo dovrebbe essere minima. In generale, non dovrebbe, salvo casi speciali, superare il 5% del totale della spesa che figura nel conto finanziario del consuntivo. Si tratta di un problema di previsione non facile da risolvere. Infatti mentre l’esecutivo può controllare, abbastanza agevolmente, l’evoluzione della spesa, lo sviluppo delle entrate dipende sostanzialmente da fattori esterni sui quali l’esecutivo di un Cantone non ha molta influenza. Ma che ne è dell’efficienza previsionale del preventivo del Cantone Ticino? Nel corso degli ultimi venti anni, la differenza tra saldo del preventivo e saldo del consuntivo del conto finanziario del Cantone è stata quasi sempre
moderata. In 12 esercizi la stessa è stata inferiore al 4% della spesa registrata in consuntivo. Non solo, ma, nel corso del tempo, la capacità previsionale dei responsabili delle nostre finanze è di fatto notevolmente migliorata. In effetti, mentre negli esercizi dal 2000 al 2009, l’errore di previsione medio sul saldo era ancora del 5,8%, negli esercizi successivi si è ridotto al 2,4%, cioè a meno della metà. Questo significa che, nel corso degli ultimi anni, i preventivi del nostro Cantone sono diventati sempre più attendibili. Pensiamo che a migliorare l’efficienza delle previsioni finanziarie abbiano contribuito, in questi ultimi anni, oltre all’inflazione moderata, anche il basso tasso di crescita e la rivoluzione nel digitale.
economia. Non cresce abbastanza per sostenerlo. Non può permettersi una seconda manovra elettorale, concepita per comprare consenso, dopo quella che l’anno scorso ha introdotto il reddito di cittadinanza e una folle riforma delle pensioni, che porta a spendere di più anziché di meno (come si fa in tutto il mondo). Per questo Salvini potrebbe essere costretto a far saltare il banco, pur di non prendere provvedimenti impopolari. E incassare così il vasto consenso di cui gode oggi. La base tradizionale della Lega, compresi molti dirigenti ancora legati alla stagione bossiana e all’egemonia nordista, non vede di buon occhio il prolungamento dell’alleanza con i Cinque Stelle. I piccoli imprenditori lombardi e gli artigiani veneti non sono entusiasti di pagare il reddito di cittadinanza ai disoccupati – veri o falsi che siano – del Sud. Ma anche molti militanti dei Cinque Stelle mordono il freno. L’alleanza con Salvini sta indebolendo il movimento. Beppe Grillo ha ancora un rapporto forte con Luigi Di Maio. Ma potrebbe presto battere un colpo per suggerire il ritorno all’opposizione. Molto dipenderà anche dagli umori
dell’elettorato. Il feeling dell’opinione pubblica con Salvini è sempre molto forte, e lui lo alimenta in modo spregiudicato, a volte spudorato. Mi ha colpito il tweet con cui ha commentato la scarcerazione di una donna rom che continua a derubare impunemente i passanti – da ultima una turista ottantenne su una sedia a rotelle – perché è sempre incinta (ha già fatto undici figli). Per l’esattezza il tweet di Salvini, sotto la foto della donna, diceva: «Questa maledetta ladra in carcere per trent’anni, messa in condizione di non avere più figli, e i suoi poveri bimbi dati in adozione a famiglie perbene. Punto». Ma questo non è il linguaggio di un ministro dell’Interno, leader del partito più votato del Paese. È il linguaggio del capetto di un partitino di opposizione. Il ministro dell’Interno, non rinfocola l’odio popolare, oltretutto con quell’accenno al «non avere più figli»; promuove una riforma che impedisca l’uso odiosamente strumentale di una gravidanza per non finire in galera. È chiaro che Salvini intercetta un sentimento popolare che esiste, una sensazione largamente diffusa: che in Italia il colpevole la faccia quasi sempre franca; e che l’apparato giudiziario
garantisca più il reo della vittima. Ma un politico responsabile si muove per incidere sulla realtà, per affrontare le questioni, per migliorare le cose. Non usa tutto a fini di propaganda. La settimana scorsa Salvini ha postato il video di un cane trascinato da un’auto, augurando terribili punizioni ai torturatori («ora mi auguro che la BESTIA “umana” che ha commesso questo crimine paghi fino in fondo»). La «bestia» – in maiuscolo nell’originale – erano in realtà i proprietari del cane, disperati per la propria negligenza che ha causato l’incidente. Ma chi glielo spiega ai 40 mila follower che istigati dal capo hanno augurato loro la stessa fine del cane? Il meccanismo è tipico della rete: la star, in questo caso il politico, parla come noi, pensa come noi, è uno di noi. Così però si fa propaganda; non si governa un Paese. In sintesi: Salvini si muove ancora come il capo dell’opposizione. L’attuale governo – con i ministeri economici e Palazzo Chigi in mano ad altri, il che significa poche responsabilità e ottime opportunità di dettare l’agenda della discussione pubblica – gli consente di farlo. Ma fino a quando potrà permetterselo?
esibisce anche un maestoso tiglio – un «tilia platiphyllos» (www.linnerlinde. ch) – che con la sua età calcolata fra i 600 e gli 800 anni è l’albero più vecchio del cantone. Il maestoso tiglio funge, oltre che da attrazione turistica, anche da «porta di entrata» del villaggio, creando una «location» resa famosa dai telefilm Il becchino che in questi luoghi e proprio attorno al secolare tiglio ha girato diverse scene. Gli sforzi degli oltre 400 soci della ProLinn (e il sostegno di quasi 50’000 followers su Facebook) ha favorito anche un risveglio della componente politica. A Linn, che dopo la fusione deve chiamarsi Bözberg, il governo cantonale ha tenuto una sua seduta (peraltro in incognito, ma con visita e foto anche sotto le fronde del tiglio), a testimonianza di come sotto la spinta delle iniziative culturali le forze politiche si stiano muovendo, sempre più decise a riparare gli effetti negativi che la legge sulle aggregazioni comporta. Mentre mi stavo interessando alle vicende narrate dalla rivista del comune
argoviese, ho ricevuto anche un’altra pubblicazione: info-Massagno, rivista trimestrale che il comune luganese distribuisce ai suoi abitanti, per informare, ma anche perseguire gli scopi della ProLinn. Come noto Massagno difende la sua identità e la sua autonomia di comune rimanendo indifferente, se non ostile, sia alle proposte di aggregazione vagheggiate dall’amministrazione cantonale, sia all’interesse, ufficialmente mai dichiarato ma non per questo assente, della grande Lugano. Basta questa puntualizzazione per chiarire l’importante e diversa sensibilità esistente fra quanto decreta la legislazione ticinese in materia di fusioni comunali rispetto a quella del canton Argovia. Ne consegue anche una differente motivazione culturale: mentre Linn è obbligato a fare affidamento sulla nostalgia per cercare di rianimare quanto ha perso, Massagno la usa invece per difendere quel che vuole continuare a preservare. Lo si evince dalla bella fotografia con cui info-Massagno lancia in copertina
un servizio sulla locale bocciofila nata 90 anni fa all’ombra dei platani che sovrastano il viale del Grotto Valletta, giubileo ricordato anche dal sindaco Giovanni Bruschetti in un editoriale costellato di furbeschi idiomi dialettali. Tiglio plurisecolare a Linn e platani a Massagno. Sarò anche sognatore, ma mi piace immaginare un «fil rouge» di oltre 240 km, teso fra le radici delle due piante «usate» per sottolineare nei due paesi il valore e l’importanza dell’identità. Spiegano i sociologi che la radice è statica, perché rimanda a un fatto, o a un complesso di fatti, avvenuto nel passato; l’identità invece è in continua evoluzione e alimenta l’organismo (paese, comunità). È però la radice a rimandare immancabilmente a qualcosa di originario e a risultare indispensabile per un successivo sviluppo. Di conseguenza nessuno stato, nessun comune, nessuna unione può sperare di preservare e rendere duratura la propria identità, senza impegnarsi ad avere cura e rispetto delle proprie radici.
In&outlet di Aldo Cazzullo La scelta di Matteo La scelta di Salvini rischia di essere lancinante come la scelta di Sophie, nel film con Meryl Streep. Salvare il governo o lasciarlo morire? La scadenza è il 20 luglio: dopo questa data, non ci sono più i tempi per votare a fine settembre, prima della legge di bilancio. E il presidente della Repubblica vuole, giustamente, che per l’inizio dell’autunno ci sia un governo nel pieno dei suoi poteri. Ma quale governo? Il nuovo esecutivo uscito da un eventuale voto anticipato? O l’attuale governo Conte? Se dipendesse solo da Salvini, probabilmente la strana maggioranza LegaCinque Stelle andrebbe avanti a lungo.
Il Capitano – soprannome inventato da Luca Morisi, il responsabile della sua formidabile macchina di propaganda online, e storpiato dai denigratori in Capitone – è convinto che non gli convenga cambiare lo schema di gioco che l’ha portato a prendere il 34 per cento dei voti alle Europee, e a salire ancora nei sondaggi. Ma il futuro del governo non è soltanto nelle mani di Salvini. Al di là delle illusioni sovraniste, l’Italia non è sola al mondo. L’Europa, la Merkel, i mercati internazionali, la globalizzazione possono non piacere; ma esistono. L’Italia ha un debito pubblico enorme rispetto al peso della sua
A Salvini non converrebbe cambiare schema politico. (Keystone)
Zig-Zag di Ovidio Biffi Radici fra Linn e Massagno Non che sia un patito della nostalgia, ma da sempre mi affascinano i servizi fotografici che consentono, con un salto di decenni o addirittura di un secolo, di rivedere paesaggi, piazze o angoli di strade di un tempo. Ho già avuto modo di confessare questa mia patologia su «Azione». Se ne parlo di nuovo è perché la nostalgia è tornata a colpirmi all’improvviso visitando il pdf di una rivista trovata per caso su Twitter. Sulle prime ho pensato di inviare il documento al collega Oliver Scharpf per suggerirgli una possibile meta delle sue mirabili escursioni «walseriane». Ho desistito appena ho scoperto che riguardava un paese del Giura argoviese turisticamente già noto (e dirò poi perché), tanto da figurare fra le proposte di Postauto. Comunque il messaggio trasmesso dal documento non riportava solo operazioni legate alla nostalgia, consentiva anche la riscoperta di certi valori importanti, oggi ignorati o minimizzati, quando non derisi e criticati. Il documento digitale di cui parlo
riguarda Linn, un minuscolo comune del canton Argovia. O meglio: quello che una volta era un comune. Colpito dalla solita aggregazione che privilegia i grandi, da cinque anni è soltanto una frazione e il nome di Linn è scomparso. Da questa triste sepoltura burocratica gli abitanti e gli attinenti di Linn hanno però saputo far partire una splendida iniziativa: stampano, vendono e diffondono sul web, ogni anno una bellissima rivista che si chiama «FokusLinn». Quella reperibile ora, e scaricabile gratuitamente da internet, è una «Jubiläumsausgabe», un’edizione giubilare che non commemora i cinque anni della morte di Linn per imposta incorporazione in un altro comune, ma al contrario celebra in maniera splendida il quinquennio della nascita e della crescita di «ProLinn», l’associazione che, pur accettando il verdetto democratico, si è mobilitata per salvare l’identità e l’eredità culturale di oltre 700 anni di esistenza del paesino argoviese. Più o meno la stessa longevità la
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 1 luglio 2019 • N. 27
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Cultura e Spettacoli Il post-punk è vivo Un genere musicale introverso e drammatico che non sembra perdere smalto nel cuore degli appassionati e dei musicisti pagina 36
Quel calcio è una danza Olivier Guez ha firmato una storia del football brasiliano e ha scoperto che alle sue origini c’è anche una questione di discriminazione sociale
I gerghi come poesia L’arte del «parlare oscuro» serve a camuffare i discorsi ma anche a discutere d’amore
La Smum a Estival Il venticinquesimo della scuola luganese festeggiato sul palco dalla sua Big Band: intervista
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Le case-grotta: dimore notturne per tutti, persone e bestie Itinerari d’arte a Matera Scavate nel tufo, abitate fin dal paleolitico, oggi sono testimoni di un’identità singolare
recuperata dopo la «vergogna nazionale»; alcune sono diventate museo etnografico – Seconda parte
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I disegni di Leonardo
Una delle mete obbligatorie a Matera sono le case-grotta scavate con abilità nel tufo fin dal paleolitico. Testimonianza di un passato remoto, simbolo culturale della città, sono presenti in gran numero sia nel rione Sasso Barisano sia nel Sasso Caveoso. In queste costruzioni sotterranee, arieggiate e illuminate unicamente dalla porta d’ingresso e da una finestrella in cima alla stessa, viveva una buona parte degli abitanti della città lucana – si parla di almeno 15mila persone – fino allo sfollamento coatto degli anni 50. La maggioranza era composta da contadini con le loro famiglie allargate, comprendenti cioè più generazioni. Le dimore ipogee erano inoltre condivise con le poche bestie (pecore, muli, asini, capre, galline, conigli, a volte il maiale) usate nei lavori agricoli o per scopo alimentare. Bisogna specificare che la vita rurale si svolgeva soprattutto fuori di casa: gli uomini con i loro animali da soma e da pascolo alle prime luci del giorno raggiungevano i prati e i campi dove passavano la maggior parte della giornata intenti alla pastorizia e alle coltivazioni; le donne, i bambini e i vecchi rimanevano nel borgo ed erano attivi nel cortile che accomunava alcune famiglie, il cosiddetto «vicinato» che permetteva loro di intrecciare una fitta rete di relazioni, di mutui aiuti, di inevitabili litigi. Di conseguenza, la casagrotta fungeva soprattutto da riparo notturno per uomini e animali e per i pasti dei famigliari. Queste costruzioni potevano essere ampliate, a seconda dei bisogni, scavando verso l’interno; con il tufo estratto si abbelliva l’entrata e, talvolta, si ingrandiva l’edificio verso l’esterno.
Mostre Grande, bella esposizione vinciana
alla Queen’s Gallery di Londra
Gianluigi Bellei Quest’anno ricorre il cinquecentenario della morte di Leonardo da Vinci. Ormai ne parlano e ne scrivono tutti, ovunque. Sia perché l’occasione è troppo ghiotta e importante, sia perché Leonardo si è interessato di svariati argomenti che spaziano dall’architettura alla geologia, dall’idraulica alla cartografia, dall’ingegneria militare alla botanica. Molte le esposizioni di ogni tipo sparpagliate in Europa: in genere legate a un aspetto particolare e settoriale del suo lavoro. Spesso di poco conto e risibili. In Italia, per esempio, dopo anni di discussioni non sono riusciti a organizzare nulla di organico e rilevante. Noi abbiamo programmato la visita alle due esposizioni artistiche maggiormente esaustive: quella di Londra con i disegni, che affronteremo ora, e quella autunnale al Louvre con i dipinti. La prima cosa da fare, ovviamente, è documentarsi. Per i disegni potete acquistare la versione italiana del catalogo londinese che si intitola Leonardo, il genio nel disegno di Martin Clayton, Jaca Book (un po’ caro rispetto al catalogo ufficiale, ma ne vale la pena). Nel Regno Unito dal 1. febbraio al 6 maggio si sono svolte varie esposizioni di disegni in anteprima sparpagliate in diverse sedi: Belfast, Birmingham, Bristol, Cardiff, Derby, Glasgow, Leeds, Liverpool, Manchester, Sheffield, Southampton e Sunderland. Ma le mostre più importanti sono alla Queen’s Gallery di Buckingham Palace a Londra dal 24 maggio al 13 ottobre con 200 disegni e alla Queen’s Gallery di Edimburgo dal 22 novembre al 15 marzo 2020 con 80 disegni. Leonardo muore in Francia il 2 maggio 1519 e lascia buona parte della sua eredità all’allievo prediletto Francesco Melzi. Fra queste opere vi sono gli scritti con i disegni. Melzi muore nel 1570 e lo scultore Pompeo Leoni acquista dal figlio la maggior parte di questi fogli. Leoni rilega il tutto in due codici. Quello Atlantico – che ora è alla Biblioteca Ambrosiana di Milano – contenente gli studi tecnici e quello
artistico di circa 600 pezzi montati su 234 fogli. Quest’ultimo codice è prima a Madrid, dove muore Leoni, e poi dal 1630 in Inghilterra presso il più grande collezionista di disegni d’Europa: Thomas Howard, 14° Conte di Arundel. Dal 1690 fa parte delle proprietà Reali e dal primo Ottocento si trova nella Royal Library del castello di Windsor. Qui, all’inizio del Novecento, i fogli sono staccati dal volume e separati. Rimane la rilegatura in cuoio, ora esposta come cimelio. Leonardo ha una mente onnivora. Si interessa di molte cose diverse contemporaneamente. Raramente riesce a concludere i suoi progetti dei quali rimangono quasi unicamente gli schizzi. Da un punto di vista artistico realizza solo una ventina di dipinti. Sebastiano Serlio nel Secondo libro di perspettiva del 1551 scrive che «non si contentava di cosa ch’ei facesse, et pochissime opere condusse a perfettione, et diceva sovente la causa essere questa: che la sua mano non poteva giungere all’intelletto». I suoi pensieri si traducono in disegni. Tantissimi. Uno accanto all’altro, uno sopra l’altro, in fogli disordinati che accolgono scritti e disegni di periodi diversi. Scrive, schizza tutto quello che gli passa per la testa o che vede durante le dissezioni anatomiche, i meccanismi per la fusione dei metalli, le osservazioni per il volo degli uccelli o le tempeste… Il suo segno unisce cose e persone e le conforma come unico modello. In una sorta di panteismo cosmico. Martin Clayton scrive che il suo lavoro è caratterizzato da «una moltitudine di attività simultanee». Disegna con la penna d’oca – per l’inchiostro mescola sali di ferro e acido tannico – oppure con la punta d’argento o con una di rame e zinco come rilevano gli esami ottenuti con la fluorescenza di raggi X. Poi gessetti rossi, neri o sanguigna. La spettroscopia Raman – che consente di determinare i composti chimici su di un oggetto senza utilizzarne un campione – rivela tracce di bianco naturale, piombo rosso, ematite blu e carbone. Utilizza carta ottenuta da stracci di canapa o lino che a volte colora di blu.
Tommaso Stiano, testo e foto
La casa tipica materana è composta da più di un ambiente sebbene in un’unica cavità che manteneva una temperatura costante di 14/15°C ed era sempre umida perché la calcarenite è una pietra porosa che lascia filtrare l’acqua, i muri erano quindi ricoperti da muffe scure. In media ogni famiglia aveva sei figli, ma gli occupanti di una dimora ipogea potevano anche superare la decina. La cucina. Di solito era pavimentata in cotto e ubicata vicino all’unica entrata della casa-grotta per l’evacuazione del fumo. C’era un focolare con cappa, mobili e utensili necessari alla preparazione e al consumo dei pasti. Al centro un unico tavolo a cui si sedevano i famigliari per i pasti; questo era piccolo e amovibile perché sul medesimo suolo dovevano passare le bestie verso la stalla. Con i vasi di terracotta si raccoglieva l’acqua o si conservavano gli alimenti. Un mobile importante presente in ogni abitazione era la madia dove si conserva la farina e il lievito madre per preparare il pane; l’impasto veniva poi contrassegnato dalle famiglie con uno stampino di legno e cotto a turni nel forno comunitario del vicinato una o più volte alla settimana. La stanza. È composta da un letto rialzato (contro l’umidità) con il materasso imbottito di foglie di granoturco o paglia dove dormivano i genitori e i figli più piccoli; c’era poi una cassettiera per la biancheria minima i cui cassetti potevano anche fungere da culla per i neonati e sul suo pianale o sulle pareti trovavano posto i santi protettori e i ricordi dei parenti defunti. Lo spazio sotto il letto serviva come deposito di merci e utensili o anche da rifugio notturno per galline e conigli. Non c’erano servizi igienici, ci si accontentava di
I vicoli della cittadina in Basilicata. Altre foto su www.azione.ch.
un grosso vaso (il càntaro) il cui contenuto finiva nel letamaio, nella fogna a cielo aperto sulla via o in un condotto che scaricava direttamente nel torrente Gravina. La cisterna. Solitamente la raccolta delle acque piovane avveniva in una cisterna al centro di un cortile condiviso con i vicini; in alcuni casi la casa-grotta aveva un pozzo personale da cui si attingeva l’acqua per gli usi domestici e per abbeverare il bestiame. Siccome il tufo è un minerale assorbente, le cisterne, generalmente a forma di campana (di goccia), erano impermeabilizzate dal coccio-pesto, un impasto di calce e terrecotte frantumate finemente. La stalla. Assieme agli attrezzi
agricoli, occupava gli spazi più interni della dimora sotterranea e gli animali di grossa taglia, così come il letamaio fungevano da fonte di calore nei periodi freddi. Una nicchia della casa era destinata all’accumulo dello sterco animale (e umano) che poi veniva portato nei campi come concime… biologico, diremmo oggi. La neviera. Era il frigorifero di un tempo, presente in modo saltuario nei rioni di Matera. In inverno, attraverso un’apertura soprastante, la neve veniva gettata sul fondo di questo deposito dove si stendeva uno strato di fascine, una sorta di filtro che lasciava passare l’acqua della neve sciolta verso una cisterna di raccolta. La neve accumu-
lata veniva spianata e compressa per ottenere strati di ghiaccio di 20/30 cm alternati a strati di paglia; tale procedura favoriva il taglio a blocchi del ghiaccio che era venduto al dettaglio agli abitanti nei periodi di maggiore siccità e di caldo per conservare i cibi deperibili. Chi possedeva una neviera poteva quindi aprire un fiorente commercio. In certe strutture ipogee più capienti troviamo anche lo spazio per la macinazione del frumento, la pigiatura dell’uva, la cantina, il magazzino per i cereali o altre mercanzie. Secondo un piano di rilancio dei Sassi di Matera partito nel 1986, alcuni di questi ipogei sono diventati albergo, resort o B&B, altri sono stati trasformati in osterie o ristoranti, altri ancora oggi sono abitazioni private o commerci al dettaglio; molti sono ancora disponibili ad essere rivitalizzati. In alcuni casi, queste antiche dimore hanno subito un restauro conservativo per diventare museo etnografico aperto al pubblico; segnaliamo quelle visitate che vi consigliamo: ▪ Casa Grotta del Casalnuovo (5 ambienti) + cripta di Sant’Andrea, Rione Casalnuovo 309 (Sasso Caveoso). www. casagrottadelcasalnuovo.com ▪ Casa Grotta antica «C’era una volta», Via Fiorentini 251 (Sasso Barisano), www.sassidimatera.net – Nel negozio dirimpetto è esposto un grande e meraviglioso plastico di Matera (12 mq) scolpito nel tufo da Eustachio Rizzi alla fine degli anni ’90. ▪ Casa Grotta di Vico Solitario (+ neviera e video su Matera), Vico Solitario 11 (Sasso Caveoso), www.casagrotta.it ▪ Casa Cisterna sotterranea, Ponte S. Pietro Caveoso 39 (Sasso Caveoso), www.casacisterna.it Annuncio pubblicitario
Leonardo, Studio per la testa di Leda. (Windsor, Royal Library)
Per lui la natura è luce e colore e di conseguenza adatta il segno a seconda dell’immagine. Può essere secco e rigido per i progetti di macchine o imbarcazioni oppure modulato per suggerire il senso del colore per le figure. Per Lionello Venturi il cartone di carboncino, acquarello e biacca de La Vergine col Bambino con sant’Anna e San Giovannino, del 1499-1500 ubicato alla National Gallery di Londra, «presenta l’estremo grado di finitezza disegnatoria cui sia giunto Leonardo, ed è anche l’estremo possibile». In mostra alla Queen’s Gallery di Londra troviamo all’inizio del percorso disegni di Lorenzo Credi, Filippino Lippi, Domenico Ghirlandaio e Pietro Perugino. Fra quelli di Leonardo citiamo una Testa della Madonna e una di Sant’Anna del 1510-15 particolarmente intensi e alcuni panneggi molto suggestivi fra i quali quello del braccio destro della Vergine in una combinazione di «lumeggiature e piani di colore diversi» che riproducono non soltanto la forma ma pure i vari strati del dipinto. Diversi anni prima, verso il 1490, Leonardo
realizza con la punta d’argento uno Studio di mani femminili dai contorni netti e incisivi probabilmente utilizzato in seguito per il dipinto la Dama con l’ermellino dello stesso anno, ora al Museo Nazionale di Cracovia. Da notare alcuni schizzi per L’ultima cena come la testa di Giacomo e quella di Filippo, entrambi del 1495, e i gessetti neri per la Testa di Leda del 1505-08 con l’acconciatura delle trecce a spirale. Discorso a parte per alcuni cavalli e nudi della perduta Battaglia di Anghiari e le due famosissime sanguigne di nudi maschili in piedi del 1504-6. Infine la Mappa di Imola del 1502 che potrebbe servire ancor oggi e il Feto all’interno del grembo del 1511. Qui a fianco Leonardo annota: «A questo punto non batte il cuore e non alita, perché al continuo sta nell’acqua, e se alitasse annegherebbe. E lo alitare non gli è necessario, perché lui è vivificato dalla vita e cibo della madre… una medesima anima governa questi due corpi e li desideri e le paure e i dolori son comuni sia ad essa creatura come a tutti li altri membri animati». Splendidi gli ultimi lavori riguar-
danti i diluvi con una lunga descrizione di circa duemila parole, scritte fitte fitte su due fogli datati 1517-18. Qui i suoi tratti diventano un vortice impetuoso di nubi, pioggia, detriti, polvere, fumo come a rappresentare l’Apocalisse. Ed è proprio questo concetto di distruzione che richiama la sua riflessione sulla fine della vita. Leonardo ha visto le sue opere rimanere incomplete, in disfacimento o distrutte ed è ora più consapevole della transitorietà della vita. Utilissime le varie vetrinette contenenti gli strumenti utilizzati da Leonardo, come lo stilo d’argento, le penne di piume, o i materiali come le galle di quercia, la gomma arabica, i lapislazzuli e la malachite. Ottimo l’allestimento come le luci.
Fare la cosa giusta
Quando la povertà mostra il suo volto
Dove e quando
Leonardo da Vinci: A Life in Drawing. A cura di Martin Clayton. The Queen’s Gallery, Buckingham Palace, Londra. Fino al 13 ottobre. Catalogo £ 14.95. www.rct.uk/leonardo500/ london
Per saperne di più su Marie: farelacosagiusta.caritas.ch
Marie Bamounmanan (56 anni), Ciad, ha acquisito l’autonomia
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 1 luglio 2019 • N. 27
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 1 luglio 2019 • N. 27
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Cultura e Spettacoli Il post-punk è vivo Un genere musicale introverso e drammatico che non sembra perdere smalto nel cuore degli appassionati e dei musicisti pagina 36
Quel calcio è una danza Olivier Guez ha firmato una storia del football brasiliano e ha scoperto che alle sue origini c’è anche una questione di discriminazione sociale
I gerghi come poesia L’arte del «parlare oscuro» serve a camuffare i discorsi ma anche a discutere d’amore
La Smum a Estival Il venticinquesimo della scuola luganese festeggiato sul palco dalla sua Big Band: intervista
pagina 37
Le case-grotta: dimore notturne per tutti, persone e bestie Itinerari d’arte a Matera Scavate nel tufo, abitate fin dal paleolitico, oggi sono testimoni di un’identità singolare
recuperata dopo la «vergogna nazionale»; alcune sono diventate museo etnografico – Seconda parte
pagina 37
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I disegni di Leonardo
Una delle mete obbligatorie a Matera sono le case-grotta scavate con abilità nel tufo fin dal paleolitico. Testimonianza di un passato remoto, simbolo culturale della città, sono presenti in gran numero sia nel rione Sasso Barisano sia nel Sasso Caveoso. In queste costruzioni sotterranee, arieggiate e illuminate unicamente dalla porta d’ingresso e da una finestrella in cima alla stessa, viveva una buona parte degli abitanti della città lucana – si parla di almeno 15mila persone – fino allo sfollamento coatto degli anni 50. La maggioranza era composta da contadini con le loro famiglie allargate, comprendenti cioè più generazioni. Le dimore ipogee erano inoltre condivise con le poche bestie (pecore, muli, asini, capre, galline, conigli, a volte il maiale) usate nei lavori agricoli o per scopo alimentare. Bisogna specificare che la vita rurale si svolgeva soprattutto fuori di casa: gli uomini con i loro animali da soma e da pascolo alle prime luci del giorno raggiungevano i prati e i campi dove passavano la maggior parte della giornata intenti alla pastorizia e alle coltivazioni; le donne, i bambini e i vecchi rimanevano nel borgo ed erano attivi nel cortile che accomunava alcune famiglie, il cosiddetto «vicinato» che permetteva loro di intrecciare una fitta rete di relazioni, di mutui aiuti, di inevitabili litigi. Di conseguenza, la casagrotta fungeva soprattutto da riparo notturno per uomini e animali e per i pasti dei famigliari. Queste costruzioni potevano essere ampliate, a seconda dei bisogni, scavando verso l’interno; con il tufo estratto si abbelliva l’entrata e, talvolta, si ingrandiva l’edificio verso l’esterno.
Mostre Grande, bella esposizione vinciana
alla Queen’s Gallery di Londra
Gianluigi Bellei Quest’anno ricorre il cinquecentenario della morte di Leonardo da Vinci. Ormai ne parlano e ne scrivono tutti, ovunque. Sia perché l’occasione è troppo ghiotta e importante, sia perché Leonardo si è interessato di svariati argomenti che spaziano dall’architettura alla geologia, dall’idraulica alla cartografia, dall’ingegneria militare alla botanica. Molte le esposizioni di ogni tipo sparpagliate in Europa: in genere legate a un aspetto particolare e settoriale del suo lavoro. Spesso di poco conto e risibili. In Italia, per esempio, dopo anni di discussioni non sono riusciti a organizzare nulla di organico e rilevante. Noi abbiamo programmato la visita alle due esposizioni artistiche maggiormente esaustive: quella di Londra con i disegni, che affronteremo ora, e quella autunnale al Louvre con i dipinti. La prima cosa da fare, ovviamente, è documentarsi. Per i disegni potete acquistare la versione italiana del catalogo londinese che si intitola Leonardo, il genio nel disegno di Martin Clayton, Jaca Book (un po’ caro rispetto al catalogo ufficiale, ma ne vale la pena). Nel Regno Unito dal 1. febbraio al 6 maggio si sono svolte varie esposizioni di disegni in anteprima sparpagliate in diverse sedi: Belfast, Birmingham, Bristol, Cardiff, Derby, Glasgow, Leeds, Liverpool, Manchester, Sheffield, Southampton e Sunderland. Ma le mostre più importanti sono alla Queen’s Gallery di Buckingham Palace a Londra dal 24 maggio al 13 ottobre con 200 disegni e alla Queen’s Gallery di Edimburgo dal 22 novembre al 15 marzo 2020 con 80 disegni. Leonardo muore in Francia il 2 maggio 1519 e lascia buona parte della sua eredità all’allievo prediletto Francesco Melzi. Fra queste opere vi sono gli scritti con i disegni. Melzi muore nel 1570 e lo scultore Pompeo Leoni acquista dal figlio la maggior parte di questi fogli. Leoni rilega il tutto in due codici. Quello Atlantico – che ora è alla Biblioteca Ambrosiana di Milano – contenente gli studi tecnici e quello
artistico di circa 600 pezzi montati su 234 fogli. Quest’ultimo codice è prima a Madrid, dove muore Leoni, e poi dal 1630 in Inghilterra presso il più grande collezionista di disegni d’Europa: Thomas Howard, 14° Conte di Arundel. Dal 1690 fa parte delle proprietà Reali e dal primo Ottocento si trova nella Royal Library del castello di Windsor. Qui, all’inizio del Novecento, i fogli sono staccati dal volume e separati. Rimane la rilegatura in cuoio, ora esposta come cimelio. Leonardo ha una mente onnivora. Si interessa di molte cose diverse contemporaneamente. Raramente riesce a concludere i suoi progetti dei quali rimangono quasi unicamente gli schizzi. Da un punto di vista artistico realizza solo una ventina di dipinti. Sebastiano Serlio nel Secondo libro di perspettiva del 1551 scrive che «non si contentava di cosa ch’ei facesse, et pochissime opere condusse a perfettione, et diceva sovente la causa essere questa: che la sua mano non poteva giungere all’intelletto». I suoi pensieri si traducono in disegni. Tantissimi. Uno accanto all’altro, uno sopra l’altro, in fogli disordinati che accolgono scritti e disegni di periodi diversi. Scrive, schizza tutto quello che gli passa per la testa o che vede durante le dissezioni anatomiche, i meccanismi per la fusione dei metalli, le osservazioni per il volo degli uccelli o le tempeste… Il suo segno unisce cose e persone e le conforma come unico modello. In una sorta di panteismo cosmico. Martin Clayton scrive che il suo lavoro è caratterizzato da «una moltitudine di attività simultanee». Disegna con la penna d’oca – per l’inchiostro mescola sali di ferro e acido tannico – oppure con la punta d’argento o con una di rame e zinco come rilevano gli esami ottenuti con la fluorescenza di raggi X. Poi gessetti rossi, neri o sanguigna. La spettroscopia Raman – che consente di determinare i composti chimici su di un oggetto senza utilizzarne un campione – rivela tracce di bianco naturale, piombo rosso, ematite blu e carbone. Utilizza carta ottenuta da stracci di canapa o lino che a volte colora di blu.
Tommaso Stiano, testo e foto
La casa tipica materana è composta da più di un ambiente sebbene in un’unica cavità che manteneva una temperatura costante di 14/15°C ed era sempre umida perché la calcarenite è una pietra porosa che lascia filtrare l’acqua, i muri erano quindi ricoperti da muffe scure. In media ogni famiglia aveva sei figli, ma gli occupanti di una dimora ipogea potevano anche superare la decina. La cucina. Di solito era pavimentata in cotto e ubicata vicino all’unica entrata della casa-grotta per l’evacuazione del fumo. C’era un focolare con cappa, mobili e utensili necessari alla preparazione e al consumo dei pasti. Al centro un unico tavolo a cui si sedevano i famigliari per i pasti; questo era piccolo e amovibile perché sul medesimo suolo dovevano passare le bestie verso la stalla. Con i vasi di terracotta si raccoglieva l’acqua o si conservavano gli alimenti. Un mobile importante presente in ogni abitazione era la madia dove si conserva la farina e il lievito madre per preparare il pane; l’impasto veniva poi contrassegnato dalle famiglie con uno stampino di legno e cotto a turni nel forno comunitario del vicinato una o più volte alla settimana. La stanza. È composta da un letto rialzato (contro l’umidità) con il materasso imbottito di foglie di granoturco o paglia dove dormivano i genitori e i figli più piccoli; c’era poi una cassettiera per la biancheria minima i cui cassetti potevano anche fungere da culla per i neonati e sul suo pianale o sulle pareti trovavano posto i santi protettori e i ricordi dei parenti defunti. Lo spazio sotto il letto serviva come deposito di merci e utensili o anche da rifugio notturno per galline e conigli. Non c’erano servizi igienici, ci si accontentava di
I vicoli della cittadina in Basilicata. Altre foto su www.azione.ch.
un grosso vaso (il càntaro) il cui contenuto finiva nel letamaio, nella fogna a cielo aperto sulla via o in un condotto che scaricava direttamente nel torrente Gravina. La cisterna. Solitamente la raccolta delle acque piovane avveniva in una cisterna al centro di un cortile condiviso con i vicini; in alcuni casi la casa-grotta aveva un pozzo personale da cui si attingeva l’acqua per gli usi domestici e per abbeverare il bestiame. Siccome il tufo è un minerale assorbente, le cisterne, generalmente a forma di campana (di goccia), erano impermeabilizzate dal coccio-pesto, un impasto di calce e terrecotte frantumate finemente. La stalla. Assieme agli attrezzi
agricoli, occupava gli spazi più interni della dimora sotterranea e gli animali di grossa taglia, così come il letamaio fungevano da fonte di calore nei periodi freddi. Una nicchia della casa era destinata all’accumulo dello sterco animale (e umano) che poi veniva portato nei campi come concime… biologico, diremmo oggi. La neviera. Era il frigorifero di un tempo, presente in modo saltuario nei rioni di Matera. In inverno, attraverso un’apertura soprastante, la neve veniva gettata sul fondo di questo deposito dove si stendeva uno strato di fascine, una sorta di filtro che lasciava passare l’acqua della neve sciolta verso una cisterna di raccolta. La neve accumu-
lata veniva spianata e compressa per ottenere strati di ghiaccio di 20/30 cm alternati a strati di paglia; tale procedura favoriva il taglio a blocchi del ghiaccio che era venduto al dettaglio agli abitanti nei periodi di maggiore siccità e di caldo per conservare i cibi deperibili. Chi possedeva una neviera poteva quindi aprire un fiorente commercio. In certe strutture ipogee più capienti troviamo anche lo spazio per la macinazione del frumento, la pigiatura dell’uva, la cantina, il magazzino per i cereali o altre mercanzie. Secondo un piano di rilancio dei Sassi di Matera partito nel 1986, alcuni di questi ipogei sono diventati albergo, resort o B&B, altri sono stati trasformati in osterie o ristoranti, altri ancora oggi sono abitazioni private o commerci al dettaglio; molti sono ancora disponibili ad essere rivitalizzati. In alcuni casi, queste antiche dimore hanno subito un restauro conservativo per diventare museo etnografico aperto al pubblico; segnaliamo quelle visitate che vi consigliamo: ▪ Casa Grotta del Casalnuovo (5 ambienti) + cripta di Sant’Andrea, Rione Casalnuovo 309 (Sasso Caveoso). www. casagrottadelcasalnuovo.com ▪ Casa Grotta antica «C’era una volta», Via Fiorentini 251 (Sasso Barisano), www.sassidimatera.net – Nel negozio dirimpetto è esposto un grande e meraviglioso plastico di Matera (12 mq) scolpito nel tufo da Eustachio Rizzi alla fine degli anni ’90. ▪ Casa Grotta di Vico Solitario (+ neviera e video su Matera), Vico Solitario 11 (Sasso Caveoso), www.casagrotta.it ▪ Casa Cisterna sotterranea, Ponte S. Pietro Caveoso 39 (Sasso Caveoso), www.casacisterna.it Annuncio pubblicitario
Leonardo, Studio per la testa di Leda. (Windsor, Royal Library)
Per lui la natura è luce e colore e di conseguenza adatta il segno a seconda dell’immagine. Può essere secco e rigido per i progetti di macchine o imbarcazioni oppure modulato per suggerire il senso del colore per le figure. Per Lionello Venturi il cartone di carboncino, acquarello e biacca de La Vergine col Bambino con sant’Anna e San Giovannino, del 1499-1500 ubicato alla National Gallery di Londra, «presenta l’estremo grado di finitezza disegnatoria cui sia giunto Leonardo, ed è anche l’estremo possibile». In mostra alla Queen’s Gallery di Londra troviamo all’inizio del percorso disegni di Lorenzo Credi, Filippino Lippi, Domenico Ghirlandaio e Pietro Perugino. Fra quelli di Leonardo citiamo una Testa della Madonna e una di Sant’Anna del 1510-15 particolarmente intensi e alcuni panneggi molto suggestivi fra i quali quello del braccio destro della Vergine in una combinazione di «lumeggiature e piani di colore diversi» che riproducono non soltanto la forma ma pure i vari strati del dipinto. Diversi anni prima, verso il 1490, Leonardo
realizza con la punta d’argento uno Studio di mani femminili dai contorni netti e incisivi probabilmente utilizzato in seguito per il dipinto la Dama con l’ermellino dello stesso anno, ora al Museo Nazionale di Cracovia. Da notare alcuni schizzi per L’ultima cena come la testa di Giacomo e quella di Filippo, entrambi del 1495, e i gessetti neri per la Testa di Leda del 1505-08 con l’acconciatura delle trecce a spirale. Discorso a parte per alcuni cavalli e nudi della perduta Battaglia di Anghiari e le due famosissime sanguigne di nudi maschili in piedi del 1504-6. Infine la Mappa di Imola del 1502 che potrebbe servire ancor oggi e il Feto all’interno del grembo del 1511. Qui a fianco Leonardo annota: «A questo punto non batte il cuore e non alita, perché al continuo sta nell’acqua, e se alitasse annegherebbe. E lo alitare non gli è necessario, perché lui è vivificato dalla vita e cibo della madre… una medesima anima governa questi due corpi e li desideri e le paure e i dolori son comuni sia ad essa creatura come a tutti li altri membri animati». Splendidi gli ultimi lavori riguar-
danti i diluvi con una lunga descrizione di circa duemila parole, scritte fitte fitte su due fogli datati 1517-18. Qui i suoi tratti diventano un vortice impetuoso di nubi, pioggia, detriti, polvere, fumo come a rappresentare l’Apocalisse. Ed è proprio questo concetto di distruzione che richiama la sua riflessione sulla fine della vita. Leonardo ha visto le sue opere rimanere incomplete, in disfacimento o distrutte ed è ora più consapevole della transitorietà della vita. Utilissime le varie vetrinette contenenti gli strumenti utilizzati da Leonardo, come lo stilo d’argento, le penne di piume, o i materiali come le galle di quercia, la gomma arabica, i lapislazzuli e la malachite. Ottimo l’allestimento come le luci.
Fare la cosa giusta
Quando la povertà mostra il suo volto
Dove e quando
Leonardo da Vinci: A Life in Drawing. A cura di Martin Clayton. The Queen’s Gallery, Buckingham Palace, Londra. Fino al 13 ottobre. Catalogo £ 14.95. www.rct.uk/leonardo500/ london
Per saperne di più su Marie: farelacosagiusta.caritas.ch
Marie Bamounmanan (56 anni), Ciad, ha acquisito l’autonomia
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 1 luglio 2019 • N. 27
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Cultura e Spettacoli
Il disagio non è morto
Post-Punk Uno degli stili più dark degli anni 80 vanta ancora oggi
esecutori e band dall’ottimo séguito e dalle grandi doti musicali
Muriel Del Don L’attesissimo concerto dei Cure al Paleo Festival di Nyon (25 luglio) sembra volerci ricordare che il post-punk (in tutto il suo oscuro splendore) non fa certo parte di un passato remoto diventato stantio. Al contrario, molti sono i gruppi attuali che si impossessano dei codici di questo genere in modo audace ed inaspettato. Un’eredità rivendicata che diventa fiera identità. Robert Smith, il mitico frontman dei Cure è stato per molti adolescenti (ma non solo) vissuti negli anni Ottanta e Novanta un vero e proprio modello, venerato come un dio dallo stile decisamente controcorrente. I «curehead», come amavano definirsi, ne copiavano lo stile dark: capelli cotonati all’inverosimile, matita sugli occhi e rossetto rosso (accuratamente sbavato), senza dimenticare i vestiti spesso oversize rigorosamente neri. La musica dei Cure ne accompagnava i tormenti adolescenziali rendendoli poeticamente reali. Smith e compagni si insinuavano nelle camerette di queste anime tormentate attraverso un rituale condiviso fatto di beats ipnotici, atmosfere oscure e sensuali e romanticismo alla Keats. I Cure nascono e crescono nel grande e creativamente fertile marasma del post-punk, in un’epoca artisticamente ghiotta di contraddizioni e incline alla provocazione. Grazie al loro stile decisamente goth e ad un universo musicale oscuro, la nostra band
del Lancashire si è issata alla testa di un plotone di gruppi decisi a gridare il proprio malessere: Siouxsie and the Banshees, Joy Division, Soft Cell e Cabaret Voltaire o ancora Trisomie 21 e Marquis de Sade nei territori francofoni ma anche e soprattutto mostri sacri quali Current 93, Nurse With Wounds, Coil e Death in June. Eredi di gruppi e artisti mitici quali il Velvet Underground (Nico in primis), Bowie o i Doors, questi musicisti a fior di pelle si impongono ai loro fedeli con un nuovo austero autoritarismo. Poco importa lo stile adottato (più goth, industrial o neofolk), queste band non nascondono di certo il proprio malessere. Al contrario lo utilizzano come motore di una ricerca artistica basata su di un esistenzialismo esacerbato spesso accompagnato da drum machines, drones e sonorità oscure. L’eredità dei Cure (e del post-punk più in generale) non è fortunatamente andata persa e molti sono i gruppi attuali che si ispirano alle loro atmosfere dark e disperate. Come è stato il caso per i loro predecessori, i risultati ottenuti sono alquanto eterogenei. Ognuno esprime il proprio disagio e la propria carica emotiva in modo estremamente personale. I gruppi provenienti da realtà francofone (che hanno scelto però la lingua di Shakespeare per i loro testi) che hanno deciso di seguire questa via sono numerosi e alquanto interessanti. In una vena intimista basata su sonorità elettroniche troviamo il ginevri-
no (londinese d’adozione) Nelson Beer, artista ancora poco conosciuto ma che ha saputo convincere un pubblico di nicchia grazie a concerti durante i quali arti performative, cultura queer e provocazione dominano sovrane. Con lo stesso tocco arty, ma questa volta arricchito da atmosfere barocche alla Mylène Farmer, si impone sulla scena belga (e internazionale) la misteriosa e goth Mathilde Fernandez. Con la sua voce in falsetto e le sue scenografie opulente che ricordano il film Suspiria di Dario Argento, Mathilde Fernandez intriga e ammalia. In sintonia con l’universo di questa sirena franco belga, con la quale ha duettato nel brano Walhalla, ritroviamo Perez, artista multidisciplinare (musica, sound installation,…) dai mille talenti. La sua musica, pop elettronica, misteriosa e sexy sembra provenire direttamente da oscuri club berlinesi. Non stupisce scoprire tra le sue influenze artisti quali Pulp e Suicide ma anche Christophe o Bashung. In versione più rock ed elettronica si impongono invece gruppi quali Rendez Vous, Cathedrale e Carambolage. Anche se tutti rivendicano senza vergogna il loro amore per il post-punk, la coldwave e la musica elettronica, il loro suono rimane attuale, potente e magnetico. Nati poco più di cinque anni fa a Parigi, Rendez Vous ha saputo sfornare un eccellente primo album (Distance) osannato da pubblico e critica e può vantare al suo attivo ben 80 concerti
Uno dei miti assoluti nel genere, Robert Smith dei Cure. (Keystone)
europei. Un gruppo dalla pelle dura insomma, lontano anni luce da quella pop francese sdolcinata che troppo spesso domina le charts dell’Esagono. Più a nord, nei paesi scandinavi (e più in particolare in Danimarca), si annidano perle oscure dai nomi evocativi: Lust For Youth, Communions, Croatian Amor o ancora Cult Of Youth, Marching Church e Sexdrome. Avvolti nel manto accogliente del label indipendente Posh Isolation (capitanato da Christian Stadsgaard e Loke Rahbek), questi gruppi rivisitano con sensuale sfacciataggine il post-punk in chiave dark synth pop, ambient o ancora techno minimal. Loke porta avanti con successo il progetto Croatian Amor grazie ad un affascinante collage di sonorità ambient elettroniche che si appoggiano spiritualmente alla musica electro goth di Arca o ancora all’industrial senza concessioni dei Throbbing Gristle, ma anche a melodie pop più commerciali alla Kanye West. Ammettiamolo pure, gli scan-
dinavi sono sempre un passo in avanti. Dulcis in fundo e senza particolari sorprese, i paesi anglofoni dominano la corrente revival del post-punk capitanati da gruppi ed artisti strepitosi quali: Zola Jesus, incantatrice dalla voce cristallina che ricorda quella di Elizabeth Fraser dei Cocteau Twins, Chelsea Wolfe e il suo universo dai riferimenti heavy metal scandinavi, Grouper, Cold Cave e Salem che grazie alle loro atmosfere tetre e misteriose si sono conquistati il cuore di un’agguerrita base di fans. Impossibile non citare anche Balam Acab e le sue composizioni dal forte impatto emotivo che giocano con l’ambient e l’elettronica, The Soft Moon, gruppo californiano che oltre a strizzare l’occhio al post punk guarda anche allo shoegaze, senza dimenticare l’electro dark dei maestosi Boy Harsher, Lebanon Hannover e Essaie Pas. Il post-punk non è certo stato messo nel dimenticatoio, al contrario si trasforma e arricchisce grazie ad una nuova generazione che vuole dettare legge. Post-punk is not dead! Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 1 luglio 2019 • N. 27
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Cultura e Spettacoli
Il calcio che sembra danza
L’etica della fatica
ha ripercorso la storia del football vista dal Brasile
Massimario classico Un antidoto
Intervista A colloquio con lo scrittore Olivier Guez, che nel suo Elogio della finta
alla pretesa moderna del «tutto subito»
Blanche Greco Ci vuole un pallone da football per scoprire l’anima nera del Brasile. Bisogna farlo rimbalzare indietro nel tempo nell’urlo degli stadi e nell’ebrezza delle vittorie; prima che i giocatori fantasisti brasiliani, imbattibili saette in verde e oro, diventassero leggenda; ancora prima di Pelé e del mitico Garrincha; solo così si può capire la poesia di quel calcio legato alla storia del Paese, a metà tra capoeira e samba. Ce la racconta Olivier Guez in Elogio della Finta, piccolo libro dove sulla copertina è immortalato proprio Manuel Francisco dos Santos, lo «scricciolo», Garrincha appunto, fotografato nel bel mezzo di una delle sue «diaboliche esibizioni»: nel 1958, nel 1962, eccolo che gioca con il pallone «come un gattino con un gomitolo di lana», mentre la squadra avversa boccheggia, «i difensori restano con un palmo di naso, o si scontrano tra loro, ridicoli e umiliati». Per Guez, che abbiamo incontrato poco tempo fa, alla presentazione del libro a Roma, all’Accademia di Francia, il calcio è una passione che l’ha conquistato sin da bambino mentre studiava la geografia con le squadre della Coppa d’Europa degli anni 80, e la sera si lasciava contagiare dall’entusiasmo dello stadio che gli arrivava attraverso il televisore, così si sgolava nel silenzio della casa, dimentico del sonno delle sorelline e delle sberle di suo padre. Divenuto giornalista e scrittore, Olivier Guez (La scomparsa di Josef Mengele) nella sua «adorazione» per il calcio, per raccontare il Brasile della Coppa del Mondo del 2014, decise di ricordare i grandi giocatori brasiliani: gl’invincibili «re della finta e del dribbling», cercando di scoprire dove e come fosse nata quella tecnica sublime che ad una certa epoca aveva reso la squadra del Brasile superiore a tutte le altre. «Avevo sempre pensato che il football fosse espressione ineluttabile della società e della storia dei vari paesi, ma andando alle origini del calcio brasiliano, non mi aspettavo di trovare un tale intrico di cause e conseguenze, di di-
Elio Marinoni
Arthur Friedenreich, detto El Tigre, fu uno dei più grandi giocatori brasiliani. (Wikipedia)
sparità e sofferenza» ci ha detto. «Il football arrivò in Brasile nel 1894, nei primi anni dell’abolizione della schiavitù (la legge è del 1888), portato dagli inglesi e fu subito adottato dalle élite bianche come lo era stato il tennis e il cricket, tanto che ai primi del ’900, sono i club velici di Rio, Flamengo, Vasco da Gama e Botafogo a inaugurare le sezioni di calcio, e, si va alle partite azzimati come al teatro dell’opera». Tuttavia dopo poco tempo il gioco del football dilagava e quella prima partita passata alla storia tra i dipendenti della Compagnia del Gas paulista e quelli della São Paolo Railway Company, tutti inglesi, veniva replicata dagli emigrati italiani, dai tedeschi, dai polacchi e in breve anche dai neri e dai mulatti che, come gli altri, con impegno e senza scarpe, correvano dietro ad un pallone di stracci, ma rigorosamente per conto proprio. I neri non potevano giocare con i bianchi e non erano neppure ammessi tra il pubblico. I primi mulatti che ci riuscirono, dovettero «travestirsi»: lisciarsi i capelli con chili di brillantina e «schiarirsi» il viso con abbondanti passate di cipria. Ma soprattutto durante il gioco, dovevano
evitare qualsiasi contatto fisico con i giocatori bianchi, e così misero a punto una tecnica per ingannare e battere l’avversario tenendolo a distanza. Ecco il fantastico segreto dei giocatori brasiliani: le «finte» sono l’eredità degli schiavi dell’Angola e quel movimento repentino delle anche e del bacino, è lo stesso che si ritrova nella capoeira, la loro lotta, e nella samba, perché il calcio in Brasile è emanazione diretta della cultura afro-brasiliana. Il piccolo libro di Guez è una miniera di fatti, di nomi leggendari come Arthur Friedenreich, la prima star del calcio brasiliano, un mulatto dagli occhi verdi di padre tedesco, soprannominato El Tigre, un giocatore fortissimo, grazie al quale il Brasile vinse la Coppa America nel 1919, e poi la perse due anni dopo, quando, come l’Argentina, decise di far giocare la Coppa solo dai bianchi. Ma l’anno successivo riammise El Tigre e riconquistò il titolo. «Fried» era un’artista della schivata, la sua tecnica disorientava e sconcertava tutti, ma lui sapeva che «il giocatore nero che serpeggia e ancheggia evita le cariche violente degli avversari bianchi e non verrà pestato né in cam-
po, né dagli spettatori a fine partita: il dribbling può salvargli la pelle». Lui è uno dei primi malandro del calcio, figura mitica che, come quelli delle favela cantati da Chico Buarque, si muove furbo e leggero «tra legalità e illegalità»; flirta con il fuorigioco e con la linea laterale; danza su un filo, sempre al limite che sia la bandierina del corner, o la favela, come gli idolatrati Leonidas, Garrincha, Pelé, emblemi di quel futebol mulato che dava spettacolo. Il glossario divertito di Olivier Guez ci racconta le tante figure del calcio di strada dalla pedalada, all’ovinho, al chapeu, e allo stesso tempo ci dimostra come quella gorduchinha danzante, (la grassottella), uno dei tanti vezzeggiativi femminili con cui da quelle parti gli adepti chiamano il pallone da football, ebbe l’effetto di una palla di cannone sulla società brasiliana. In Elogio della finta Olivier Guez porta in campo con passione e allegria la musica, l’antropologia, l’economia, la politica e la storia per raccontarci, anche attraverso epiche partite, non solo l’evoluzione del calcio brasiliano sino ai nostri giorni, ma come questo sia strettamente legato alla Storia del Brasile.
Parlare oscuro, anche per parlar d’amore Editoria Il denso libro di Daniel Heller-Roazen dedicato a gerghi
e lingue oscure nella storia Stefano Vassere «Un gruppo in crescita tanto veloce, e che giornalmente praticava nuove e strane villainies, non poteva non dotarsi di una parlata che fosse compresa unicamente dal gruppo stesso. Tale fu lo scopo per cui fu inventata questa lingua, che taluni chiamano “francese del venditore ambulante”». Daniel Heller-Roazen insegna Letteratura comparata nell’Università di Princeton. Il sito della editrice maceratese Quodlibet (che fa, in italiano, «quello che piace») ci dice che ha già pubblicato tra l’altro, in traduzione, un saggio sull’oblio delle lingue e uno su Il tatto interno. Archeologia di una sensazione dedicato alla percezione di sé nella storia del pensiero occidentale. Ora, diciamo subito che leggendo questo suo ultimo Lingue oscure. L’arte dei furfanti e dei poeti viene un forte desiderio di dedicarsi a studi di letteratura comparata e una subitanea invidia per chi, come lui, lo può fare con il profitto e il divertimento che da questo libro in più punti saltano fuori. In linguistica il gergo si colloca più o meno dove stanno di casa registri e sottocodici, a metà strada tra due assi di variazione che i sociolinguisti chiamano diafasici e diastratici. In senso tradi-
Lettera iniziale di un manoscritto, con immagine femminile.
zionale, un tipo di lingua per essere un gergo deve avere due caratteristiche: il carattere criptico che trasmette significati linguistici opachi e sconosciuti per il resto della comunità e la condivisione presso i suoi parlanti di un comune sentimento di appartenenza; vale a dire: «parliamo così, gli altri non ci capiscono e formiamo un gruppo compatto con interessi comuni». A queste caratteristiche, più passi del magnifico libro di Heller-Roazen ne
aggiungono una terza: il gergo serve, di regola, per fare qualcosa di male, il più delle volte per delinquere. Pensiamo all’inglese cant: «il cant fa un passo in più rispetto al jargon. Il suo scopo principale è ingannare, truffare e occultare. È la lingua usata dai mendicanti e dai criminali per nascondere le loro attività disoneste ed illegali». L’occasione è quella di passare in rassegna tutta una serie di marginalità: dagli spunti che vengono da una serie di faldoni legali quattrocenteschi con le attività di una banda di furfanti e le chiavi del gergo corrente al suo interno; a un Liber vagatorum («Libro dei vagabondi») cinquecentesco uscito con prefazione severa di Martin Lutero; ai nomi con cui gli dei dell’antica Grecia chiamavano le cose terrene; ai gerghi del francese, con nomi che sono tutto un programma: il verlan, il javanais, la lingua delle prostitute francesi dell’Ottocento, quello dei macellai parigini. Ma, nell’immaginifico settore di studi delle letterature comparate (l’invidia nei confronti dell’autore prende forma più concreta, avanzando con la lettura), il gergo aumenta la sua portata e viene arditamente paragonato alla poesia (non è forse la poesia una sorta di codice nascosto dei poeti?) e alla letteratura in generale; tanto che l’inter-
rogarsi sui gerghi diventa piano piano, in questo libro, un’indagine sul senso dei canoni letterari. C’è per esempio un capitolo, il quarto, dove si trattano i misteri dell’opera dei trovatori medievali. «Le opere vernacolari del Medioevo, a dispetto della loro relativamente giovane età, sono più oscure di quelle prodotte dal mondo antico», tanto da rientrare a pieno titolo nell’ampia descrizione dei codici nascosti. Del poco certo attorno a questi poeti di respiro europeo precoce c’è il porre al centro della loro opera la donna amata; il cui nome è però spesso dissimulato, ricorrendo addirittura a forme maschili («Mon Esteve» «Stefano mio», «Mon Bel Vezi» «Mio Buon Vicino», «Fin Joy» «Pura Gioia», «Bel Esgar» «Bello Sguardo»). Su tutti risplende, nelle ultime righe di questa sezione, il nome di Na Castelloza, donna trovatore (trovatrice? Trovatora? Si diventa matti, in questo periodo!) del XII secolo. Unica donna a fare uso di un segnale, «ella chiamò il suo amato, con luminosa oscurità, Bels Noms “Bel Nome”». Bibliografia
Daniel Heller-Roazen, Lingue oscure. L’arte dei furfanti e dei poeti, Macerata, Quodlibet, 2019.
Nil sine magno / vita labore dedit mortalibus «La vita non dà nulla ai mortali senza grande fatica». (Orazio, Satire, I, 9, 59-60) La massima esprime con chiarezza il concetto che nella vita umana ogni successo è il frutto di una conquista faticosa. Essa ha alle spalle una secolare tradizione. In Esiodo (VII sec. a.C.) si legge che «gli dei immortali posero il sudore davanti alla virtù» (Le opere e i giorni, 289-290), immagine più volte ripresa in ambito sia greco che latino, fino al senecano virtus […] sudore et sanguine colenda est: «la virtù dev’essere coltivata col sudore e col sangue» (Lettere a Lucilio, 67, 12). Similmente si esprime il coro nella tragedia Eraclidi di Euripide (V sec. a.C.): «La virtù cammina attraverso gli affanni» (625); ma la formulazione più simile a quella oraziana è forse costituita da una sentenza del poeta ionico Focilide (VI sec. a.C.): «nessun’opera è agevole e senza fatica per gli uomini» (162). Nella cultura greca l’eticità della fatica, necessario viatico verso il successo, è simboleggiata dalla figura di Eracle, l’eroe filantropo autore delle mitiche dodici fatiche, a cui si può aggiungere come tredicesima quella immaginata nella tragedia Alcesti di Euripide, in cui egli scende nell’Ade a lottare contro Thanatos (il demone della morte) per riportare in vita l’eroina protagonista (la vittoria sulla morte, del resto, è già il tema delle fatiche 10-12). L’idea che il successo passi attraverso una costante e diuturna applicazione vale nei più diversi ambiti della vita umana, a partire da quello agonistico: non è un caso che Eracle sia connesso con la fondazione dei giochi olimpici; e sulle metope del tempio di Zeus a Olimpia (560 ca. a.C.) compaiono per la prima volta le dodici fatiche dell’eroe. Il riferimento all’ambito sportivo perdura fino alla letteratura cristiana antica («Nessun atleta ottiene la vittoria senza sudore», leggiamo in Girolamo, Lettere, 14, 10), nella quale ricorre spesso la metafora dell’atleta per indicare profeti e santi. Oggi la fatica non è più di moda. La società moderna tende all’eliminazione della fatica: sia con l’abolizione dei riti di passaggio che un tempo scandivano la crescita dell’individuo (servizio militare, esami); sia con l’introduzione di dispositivi (dapprima meccanici, poi elettrici, ora elettronici) finalizzati a sostituire lo sforzo fisico. Non stupisce perciò che i mass media (in primis i messaggi pubblicitari) veicolino l’idea che si possa ottenere il proprio obiettivo (sia esso l’agiatezza economica, o un titolo di studio o la conoscenza di una nuova lingua) in breve tempo e senza sforzo, insomma che si possa avere «tutto e subito». Questa mentalità sembra essersi fatta strada perfino nel campo dello sport, o quanto meno di certe discipline che sono sotto i riflettori del grande pubblico, a cominciare ovviamente dal calcio: qui lo spirito di sacrificio – come osservava amaramente Aldo Cazzullo a proposito dell’ingloriosa esclusione della squadra italiana dai mondiali del 2018 («Azione 48», 2017) – lungi dall’essere apprezzato e coltivato, è già tanto se non viene dileggiato. E così lo spirito di sacrificio sembra essere rimasto una prerogativa quasi esclusiva di quegli sport che non procurano grande notorietà e ricchezze stratosferiche, di quegli sport insomma di cui il grande pubblico si ricorda solo ogni quattro anni in occasione delle olimpiadi.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 1 luglio 2019 • N. 27
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Cultura e Spettacoli
Una Big Band d’argento Estival Jazz 2019 I 25 anni della Scuola di musica moderna di Lugano vengono festeggiati dal vivo
con un concerto speciale il 6 luglio prossimo: intervista a Guido Parini e Giorgio Meuwly
Si può cercare di prenderli dal lato emotivo ma è difficile: i due «maestri» del jazz ticinesi sono abbastanza sicuri e tranquilli. Suonare a Estival per loro è un po’ come andare a bere il caffè al Pedrini? «Abbiamo un’ottima formazione, rodata in vari concerti; abbiamo ottimi pezzi con ottimi arrangiamenti; suoniamo su un palco che conosciamo benissimo; abbiamo dei solisti eccezionali. Quindi siamo davvero tranquilli» dice Guido Parini, batterista e direttore amministrativo della Scuola di Musica moderna di Lugano. «Se pensassimo di andare a suonare come a bere il caffè al Pedrini saremmo un po’ incoscienti» aggiunge Giorgio Meuwli, direttore musicale della SMUM. «Un po’ di preoccupazione c’è sempre, ma ci stiamo preparando bene e l’orchestra è solida. La presenza di Bobby Watson e di Ambrosetti sono un’occasione fenomenale, oltretutto».
Per chi frequenta Estival dalle sue origini, del resto, Parini e Meuwly sono veramente due vecchie conoscenze. Quelli che con Walter Schmocker suonarono le prime note del festival luganese (Parini canticchia ancora il tema, mimando con le mani il tocco di bacchetta sui piatti della batteria: «Era un pezzo di Elvin Jones, ricordo come fosse ieri» ci confida) e che poi su quel palco ci sono tornati in varie occasioni e con varie formazioni. «Abbiamo suonato anche con la nostra Big Band, qualche anno fa, ma mai con la formazione attuale» precisa Meuwly. Sul palco di Estival 2019, infatti, la Big band SMUM arriva quest’anno in una versione di gran lusso, con ospiti d’eccezione, come il sassofonista Bobby Watson, appunto, e con la famiglia del jazz ticinese per eccellenza: quella di Franco Ambrosetti. E ci arriva soprattutto dopo aver pubblicato un bel-
Le serate in Piazza Riforma 4 luglio dalle 20.30 ▪ Ulf Wakenius ▪ Ray Lema con l’Orchestra della Svizzera italiana. Direzione: Mariano Chiacchiarini; feat. Etienne Mbappe ▪ Mario Biondi 5 luglio dalle 20.30 ▪ Billy Cobham Crosswinds Project; feat. special guest Randy Brecker
▪ Zara McFarlane ▪ Mart’nalia canta Vinicius de Moraes 6 luglio dalle 20.30 ▪ SMUM Big Band 25° Silver Session special guest Bobby Watson with Ambrosetti Family ▪ Marcus Miller Laid Black Tour 2019 ▪ Patax
lissimo album (25 Silver Session) che commemora i 25 anni di attività della Scuola di musica moderna di Lugano. Proprio 25 anni fa, infatti, iniziava l’avventura della prima scuola di jazz ticinese. Loro due, insieme all’indimenticabile Duca Marrer, ne erano stati gli ideatori. Oggi, dopo anni di insegnamento, con varie decine di allievi passati per le aule della scuola luganese, (alcuni dei quali sono diventati a loro volta insegnanti) vi sentite tranquilli, «arrivati»? «Diciamo che ogni anno le preoccupazioni si rinnovano un po’» spiega Parini «perché la scuola deve riuscire a mantenere il suo profilo di qualità e anche un numero di studenti che ne garantisca il funzionamento. Però tutto sommato mi sembra che le statistiche confermino la nostra solidità». «Ricordo ancora quando siamo andati a discutere con Franco Ambrosetti per illustrargli il nostro progetto» racconta Meuwly. «Eravamo nel suo ufficio con un documento elaborato da Guido, Duca e da me. Noi tre eravamo già insegnanti ognuno per conto suo, e avevamo pensato di riunire le forze per proporre agli allievi un corso completo. E con l’aiuto di Franco abbiamo trovato un accordo con il Comune di Lugano». La SMUM, con le sue due sedi in Ticino, è oggi l’unica scuola ticinese in grado di proporre anche una formazione pre-professionale. Anzi, dallo scorso anno, i suoi allievi possono addirittura essere inclusi nel programma di formazione per talenti sportivi ed artistici, cosa che permette di affianca-
La Smum Big Band a JazzAscona, nel 2016. (www.smum.ch)
re la pratica musicale ad una formazione scolastica normale. «La formazione “pre-college” è sicuramente molto impegnativa» ci spiega Giorgio Meuwli. «È una sorta di collo di bottiglia nel cursus scolastico, perché sono effettivamente pochi quelli che scelgono di frequentarlo». «D’altro canto» precisa Giorgio Parini «è importante rassicurare i genitori dei ragazzi che desiderano prendere questa direzione di studio. Sul mercato del lavoro odierno, chi sceglie di concludere un corso di studi musicali a livello professionale ha delle ottime possibilità di trovare un impiego subito dopo il diploma. In altre parole, la carriera del musicista professionista ha sicuramente prospettive positive».
Sono elementi che confortano i direttori della SMUM, perché mostrano la validità del loro progetto e della loro impostazione. Ma ora è il momento di concentrarsi su Estival. «Porteremo alcuni arrangiamenti di miei pezzi, tra cui uno nuovo che si intitola Future Memory» anticipa Giorgio Meuwly. «Ci saranno poi alcuni brani dei nostri ospiti: ne abbiamo previsti cinque di Franco Ambrosetti e uno di Bobby Watson. Gli arrangiamenti saranno curati come sempre dal nostro Gabriele Comeglio. Infine, per chiudere in bellezza, abbiamo un bis dedicato a Flavio Ambrosetti». Un ricordo di un vero padre fondatore del nostro jazz e, in un certo senso, anche della SMUM. /AZ Annuncio pubblicitario
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Cultura e Spettacoli Rubriche
In fin della fiera di Bruno Gambarotta Pubblicità di regime Sono stato vittima di Carosello. Ci pensavo leggendo il libro di Vito Molinari Carosello … e poi tutti a nanna, uno studio su questa impresa unica nel suo genere durata dal 1957 al 1977. Carosello è stato un prodotto tipico dell’Italia democristiana, incline al compromesso, in nome di una pace sociale. La programmazione televisiva debutta in Italia il 3 gennaio 1954 ed è lo stesso Vito Molinari, prossimo a compiere 90 anni, a tenerla a battesimo. La Rai opera in regime di monopolio e, poiché esige un canone di abbonamento (tuttora in vigore) non dovrebbe ricavare introiti dalla pubblicità. Il mondo industriale preme e anche i contabili dell’azienda. Così nasce questo teatrino, in onda tutte le sere alle 20.50 dopo il telegiornale, della durata di dieci minuti, composto da quattro scenette della durata di un minuto e 45 secondi l’una, più un «codino pubblicitario» di 30 secondi. Dal 1961 le scenette diventano 5. Il prodotto pubblicizzato poteva essere visto e
nominato solo nel codino. Secondo «Le Figaro»: Carosello è stato il contributo più originale dato dall’Italia alla storia della televisione. Nel 1957 avevo vent’anni e qualcosa di meglio da fare che guardare lo schermo di un televisore che, tra l’altro, sarebbe entrato in casa nostra solo due anni dopo. Ho scoperto di essere una vittima di Carosello nel 1965 quando mi sono trasferito a Roma. Ogni volta che aprivo bocca, nelle riunioni di lavoro o nelle chiacchierate con i colleghi, c’era sempre qualcuno che mi faceva il verso dicendo, con voce cantilenante: «Lo vedi come sei?», imitando il grande Erminio Macario, presente fin dalla puntata inaugurale del 3 febbraio 1957, testimonial dello Stock ’84. Mentre la televisione di Stato realizzava con successo l’unificazione linguistica dell’Italia, portando per la prima volta tutti i cittadini a parlare lo stesso italiano e a capirsi, gli autori delle scenette su Carosello facevano parlare i personaggi comici nei vari dialetti al
fine di renderli più simpatici e facilitare l’identificazione degli spettatori. Erano presenti tutte le parlate, con picchi rappresentati da veneto, napoletano, romano e siciliano. L’italiano senza inflessioni dialettali era presente ai piani alti della cultura, con letture di poesie affidate a Nando Gazzolo, Vittorio Gassmann, Arnoldo Foà, confermando negli spettatori l’idea che si trattava di una lingua aulica poco adatta alla comunicazione famigliare. I numeri sono impressionanti: in venti anni sono stati realizzati 35 mila episodi che messi uno in fila all’altro totalizzano quasi 30 ore di proiezione. Che idea si farebbe dell’Italia di quegli anni un alieno che avesse solo quel film a disposizione? Quella di un popolo che si abbandona ai sogni, in grado di reggere ai bruschi risvegli con l’aiuto di qualche prodotto miracoloso. Un popolo ossessionato dalla pulizia, disposto a patire la fame pur di dotarsi di detergenti, diversificati in base al prodotto da pulire. Tutti profumati,
così quando Mina estrae dalla lavatrice gli indumenti li odora voluttuosamente. Ma solo il colletto delle camicie, mai un paio di mutande. Diceva Marcello Marchesi, geniale umorista e autore di 4000 sceneggiature per Carosello, che «l’Italia è una donna di facili consumi» e «la pubblicità è il commercio dell’anima». Per gli attori e i comici dell’epoca Carosello è stato una notevole fonte di reddito e uno strumento di notorietà. Tutti l’hanno fatto, soltanto due hanno rifiutato l’occasione di arricchirsi, Anna Magnani e Marcello Mastroianni. Alcuni sono stati vittime di Carosello. Nel 1972 Paolo Ferrari è protagonista di uno spot girato in un grande magazzino: accosta le clienti alla cassa quando stanno per pagare un fustino di Dash e propone un cambio, ne offre due anonimi al posto di quello che stanno comprando e loro rifiutano, almeno tutte quelle poi mandate in onda. Lavoravo in quegli anni alla direzione programmi della Rai e prendevo parte alle riunioni nelle
quali si decideva il cast dei protagonisti degli sceneggiati; posso testimoniare che ogni volta che qualcuno faceva il nome di Paolo Ferrari si alzava un coro di obiezioni: il pubblico l’avrebbe sempre visto con un fustino in mano. Succede sempre quando un testimonial ha troppo successo e viene identificato con il prodotto reclamizzato. L’aspetto più esilarante dello studio di Molinari è l’attenzione posta sulla censura esercitata dalla Sacis, la concessionaria della pubblicità per la Rai. Nel 1960 un personaggio animato, ambientato nell’antica Roma, è «Caio Gregorio il guardiano del pretorio» e una frase fuori campo lo colloca «nell’anno 40 avanti Cristo». Bloccato, era vietato nominare il nome di Cristo. Fra le parole vietate: uccello, passera (passero era tollerato), membro (anche del Parlamento), non citare troppo la squadra del Benfica. Proibite le parole cardinale, catarro, depilazione, lassativo, organo, suora, water. Davvero qualcuno rimpiange quell’Italia?
fatta con strumenti antichi in rame, latte senza tutti gli ingredienti del latte, acque minerali leggere e piacevoli al gusto, olio, aceto balsamico ma anche no. Nonni che mangiano dolci preparati dai nipoti, ineffabili yogurt che provocano – non posso tacere – momenti di ebbrezza sessuale alle ragazze. La mia mamma anni fa, ineffabile nella sua ingenuità, diceva a proposito di un gelato su cui la modella scatenava la sua carica erotica «ma secondo me quella pubblicità ha un senso nascosto, non presenta solo il gelato». Beata mammina. Però non posso fermarmi su quei lunghi minuti pubblicitari. Con un leggero senso di nausea cambio per un canale più serio, dove ridendo e scherzando si presenta una gara, mi pare tra regioni o tra città. La presentatrice forse non ha mai fatto una torta, come quella di cui detto sopra, ma proprio non capisce niente, e svolazza tra i cuochi per rallegrare l’ambiente. I cuochi sono divisi tra l’onore delle telecamere, i
buffetti della signora e d’altra parte il fastidio per le intromissioni indebite nel loro lavoro, che è una cosa seria. S’è fatta ormai l’ora di pranzo, non ho tanta fame. E non c’è canale privo di sughi, arrosti, torte di frutta e panna. Evviva un telegiornale! Che si conclude rendendo conto di una gara di gnocchi. Tradimento. Un sonnellino e riprendo la mia faticosa indagine. Pubblicità di street food, arancini fritti e altre leggerezze. Poi chi c’è? Loro, i grandi chef, che pubblicizzano pasta, sughi, caffè, magiche pastiglie (che come noto sono sempre eccessivamente forti e usurano lavastoviglie e stoviglie) per togliere lo sporco di cosa? Delle lasagne amorosamente preparate da signore che dedicano ogni mattinata intera alla cucina. Come tutti. Finita la pubblicità ecco uno degli chef andare nei peggiori ristoranti, sgridare i proprietari, e in una giornata risistemare menù sala da pranzo colore delle pareti. Mi darebbero anche fastidio queste cucine sporche,
le ventole intasate, gli avanzi sbattuti in frigorifero. Ma il viaggio infernale non può finire qui. C’è una trasmissione che si intitola qualcosa come «I più unti degli unti». Seguono «Le trattorie dei camionisti», «Cucine orrende». Sono parafrasi, se lo spettatore le guarda perché chiudere questo fior fiore? Intanto impagabili chef si presentano con la finezza di un damerino, incuranti dei programmi a loro – ahimè – fratelli. Insomma, il cuoco è un nuovo Byron, un elegante Casanova, l’alternativa è spazzatura. Mi sento ripiena di crema pasticcera, rosolata come un arrosto, cosparsa di profumato succo di mirtillo e pancetta. Tra il radicchio selvatico, raccolto in città – molto ecologico – e l’infuso di radici di palissandro, afferro il telecomando. Forse troverò qualche puntata del «Paradiso delle signore», di «Uomini e donne», di una vecchia puntata di un talent di Raffaella Carrà: credo di poter digerire di tutto.
trerà in camerata. Che cosa è accaduto? Non si sa, o meglio qualcuno lo sa ma non lo dice. Nel contrappello delle 23.45 viene segnalata l’assenza dell’allievo, ma i superiori non se ne preoccupano e nel rapportino annotano un semplice «mancato rientro». Passa il 14 e passa la domenica di Ferragosto. I genitori si trovano nella loro villetta al Lido di Noto e un po’ si stupiscono che il figlio, così puntuale, non abbia chiamato nelle ultime due sere: dunque lo chiamano loro ma il cellulare squilla a vuoto. Nel pomeriggio di lunedì, Corrado Scieri, funzionario doganale in pensione, sente il suono del campanello, raggiunge il cancello e trova due carabinieri: «Suo figlio Emanuele aveva dei problemi?», gli chiedono. «No, perché?». Emanuele è morto gli dicono. È stato trovato cadavere ai piedi della torre di asciugatura dei paracadute. Emanuele non aveva nessun problema, non era depresso, non prendeva psicofarmaci, ma la pista del suicidio è già segnata ancora prima che le indagini vengano avviate. Com’è
possibile che siano passate tante ore prima che qualcuno avvistasse il suo corpo nella discarica sotto la scala? Com’è possibile che siano passati oltre due giorni prima che qualcuno avvertisse l’afrore emanato dal cadavere decomposto riverso in mezzo a tavoli e suppellettili in disuso? Nessuna risposta. I vari procedimenti penali si concludono con l’archiviazione, anche se il «nonnismo» diffuso nella Gamerra è noto a tutti, così come è noto lo Zibaldone, un documento simil-poetico colmo di razzismo e di maschilismo truce redatto dal generale Enrico Celentano (voto inclassificabile), in cui sono elencate le pratiche della violenza sugli allievi ad uso dei caporali e degli ufficiali. «Mi arrendo, – dirà il procuratore (1) – del resto ci sono anche i delitti perfetti, quelli che nessuno scopre». Lo stesso Celentano (inclassificabile---) si inventa un incidente da «autononnismo», e insinua che Emanuele sia salito sulla torretta per verificare la sua tenuta fisica oppure per trovare il campo per il cellulare
oppure per avvistare qualche ragazza nei paraggi. Un esaltato, un imprudente o un voyeur. Tutto tranne che la vittima di uno «scherzo» demente. La stranezza è che Celentano stesso, senza avvertire nessuno, abbia fatto una visita speciale alla Gamerra all’alba di Ferragosto. C’è voluta una Commissione parlamentare (6) per costringere la Procura a riaprire il caso: la buona politica per una volta ha risvegliato la magistratura. E dalla nuova indagine salta fuori la telefonata di un caporale tra i più violenti della Gamerra in cui si parla di scarponi da far scomparire. Il sospetto è che siano gli scarponi premuti sulle mani di Scieri mentre gli era imposto di stare appeso all’esterno della torre dopo averla scalata con le scarpe slacciate. Quegli scarponi, per caso, vent’anni dopo sono rinvenuti in una discarica vicino a Cerveteri. Vengono compiuti tre arresti, il corpo del povero Emanuele viene riesumato e la verità finalmente si avvicina. Papà Corrado non c’è più, ma veglia dall’alto perché giustizia sia fatta.
Postille filosofiche di Maria Bettetini Il mondo è una cucina Approfittando di un’influenzetta, ho deciso di aggiornarmi sulla panoramica offerta dalla televisione, diciamo così, gratuita – canone a parte. Febbricola e altri danni laterali, in estate ci fanno sentire in punto di lasciare questa Valle di Lacrime, cosa c’è di meglio di trasmissioni di per sé vacue? Ecco, tanto vuote non sono, ma vediamo di cosa sono piene, anzi meglio dire «ripiene». Sapevo che i grandi chef sono al centro di programmi il cui scopo è chiaramente riversare su dei meschini l’ira e l’invidia che altrimenti non saprebbero come sfogare. È anche difficile ascendere al ruolo, quindi mettiamoci pure il rancore per la fatica dell’ascesa sociale. È mattina presto, diligente accendo il televisore. Mi appare un cappone pronto per essere farcito, nelle mani di un signore che da qualche parte esercita l’arte culinaria. Tra l’altro graffia con posate di metallo le pentole di alluminio. Inguardabile, poi polli e capponi danno un po’ di fastidio al
mattino presto. Cambio: c’è una gara di torte, presentata da una nota giornalista (avrà mai preparato una torta?). Siccome ella è gentile e sorridente, viene aiutata da due energumeni che si occupano di maltrattare i concorrenti. Forse, mentre la ragazza si sdilinqua tra cuoricini e fiori, dietro le quinte un tapino viene colpito col mattarello, così, per mantenere le buone abitudini. E finalmente la pubblicità, come canterebbe Baglioni: c’è il reparto igiene intima, deodoranti che non maltrattano le ascelle, che non creano aloni, che più sudi e più ti rinfrescano. Creme e gel per problemi di cui non ci interessa trattare. Ma la pulizia personale occupa una minima parte della pubblicità. La parte del leone la fanno: ragù come li faresti tu, pesto profumato, merendine, pesce che piace anche ai bambini, galletti, pisellini verdi – come avessimo una vasta gamma di altri colori, i famosi pisellini viola, gialli, arancioni. E ancora caffè degni di un re, pasta
Voti d’aria di Paolo Di Stefano Il caso uscito dal buio Sono passati quasi vent’anni e qualcosa di nuovo emerge solo adesso, dopo un lungo viaggio nel buio. Emanuele Scieri aveva 26 anni, si era da poco laureato in Giurisprudenza: era il 21 luglio 1999 quando dalla sua città, Siracusa, si era spostato verso Firenze per il servizio militare. Aveva scelto di svolgere la leva nei paracadutisti della «Folgore». Il 13 agosto, Emanuele e i componenti dello scaglione 7/99 vengono trasferiti su due pullman da Scandicci alla Caserma Gamerra di Pisa. Durante il viaggio i caporali chiedono alle reclute di tenere la posizione cosiddetta della «sfinge»: immobili, schiena staccata dalla spalliera e mani sulle ginocchia. I finestrini devono rimanere chiusi e il riscaldamento acceso, l’ordine è di tenere il basco in testa e la sciarpa di lana avvolta al collo. È il tipico «scherzo» dei «nonni», che si divertono a inveire sugli allievi con imposizioni assurde e violenze: il «battesimo», che consiste nel colpire le vittime con forti pugni sul torace, mentre la «comunione» è l’obbligo di bere
un liquido con escrementi umani. Dopo il pranzo nella mensa militare, verso le 15.30, l’Avvocato, come lo chiamano gli amici, alto quasi un metro e 90, simpatico, allegro ma responsabile fino alla severità, è al magazzino del casermaggio per ricevere lenzuola, coperta e cuscini da sistemare nella branda. La cena, sempre in caserma, è alle 18 e un paio d’ore dopo Scieri si trova con altri in Piazza dei Miracoli, dove per la prima volta può ammirare a bocca aperta tutta la bellezza del Battistero e della Torre di Pisa. Telefona al fratello e, come ogni sera, chiama i genitori. Sono le 22.15 quando rientra in caserma con quattro commilitoni, si attarda a fumare una sigaretta con Stefano Viberti nel vialetto lungo il muro perimetrale della caserma, nei dintorni della torre di asciugatura dei paracadute. Pare che Emanuele abbia chiesto a Viberti di restare solo per fare una telefonata, ma si accerterà poi che dal suo cellulare non è partita nessuna chiamata. Fatto sta che Scieri, lasciato nel semibuio, non rien-
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