Azione 28 del 8 luglio 2019

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Cooperativa Migros Ticino

Società e Territorio Dallo scorso aprile all’interno della Polizia cantonale è attivo il Gruppo minori. Ce ne parla il commissario Marco Mombelli

Ambiente e Benessere In Svizzera, in un anno, si sono contati 275 morti per infezioni batteriche resistenti agli antibiotici, Gianluca Bianchetti spiega come agire preventivamente affinché ciò non accada

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXII 8 luglio 2019

Azione 28 Politica e Economia Sono tre i nuovi volti che guideranno l’Europa

Cultura e Spettacoli Alla Pinacoteca Züst di Rancate le opere del «coloraro» del ’700 Carlo Storni

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Tommaso Stiano

La fede abbarbicata alla roccia

di Tommaso Stiano pagina 41

Le Federali si tingono di verde e rosa di Peter Schiesser Mancano tre mesi, poco più, alle elezioni federali, e a questo punto le parole chiave sono due: verde e donna. Le 500mila persone che il 14 giugno hanno aderito alle manifestazioni pubbliche nella giornata dello sciopero delle donne sono un indizio concreto che il tema dell’uguaglianza fra i sessi può riverberarsi sulla composizione del nuovo parlamento federale. Ma soprattutto è l’ambiente, il clima che ancor più potranno determinare uno spostamento a sinistra al Consiglio nazionale, rovesciando la risicata maggioranza di centrodestra oggi composta da PLR e UDC che su temi sociali ed economici può imporre la sua volontà (anche se poi ci pensa il popolo a correggere progetti e riforme troppo squilibrati). Le elezioni cantonali di Zurigo e i sondaggi pre-elettorali lo mostrano: Verdi e Verdi liberali hanno il vento in poppa, il PS non perde anzi potrebbe guadagnare qualcosa, il PPD e con esso il PBD proseguono a gambero, mentre perde punti pur restando primo partito l’UDC che questa volta non riesce a dettare l’agenda del dibattito (migrazione, stranieri, Unione europea non scaldano gli

animi). Il fatto che i socialisti non perdano mentre i Verdi avanzano significa che l’area rosso-verde cresce.Tuttavia, i Verdi liberali possono rosicchiare loro dei voti (e personalità: come gli zurighesi Chantal Galladé e Daniel Frei, già presidente cantonale PS). E siccome oggi cresce chi può vantare una sensibilità ambientale, ecco che la settimana scorsa anche il Partito socialista ha sentito il bisogno di ricordare ai cittadini di essere sempre stato in prima linea nella difesa dell’ambiente. Per dimostrare che non si limita ai proclami, ha annunciato una strategia denominata «Piano Marshall per il clima» ricco di obiettivi e misure concrete: zero emissioni di gas ad effetto serra entro il 2050, un divieto di auto a benzina o diesel dal 2035, 3 miliardi di investimenti pubblici per la svolta energetica (rispetto ai 500 milioni odierni) che generino 9 miliardi di investimenti privati. Che non si possa più prescindere dai temi ambientali, dall’emergenza clima, se n’è accorto anche il PLR nazionale, innanzitutto la sua presidente Petra Gössi, che a sorpresa in febbraio ha annunciato una svolta ecologica del partito, con tanto di consultazione della base. Le voci critiche all’interno del PLR non sono state poche, ma alla fine persino l’assemblea dei delegati l’ha approvata, reintegrando

nel programma futuro anche quella tassa sui voli che i parlamentari PLR avevano bocciato. Anche i liberali radicali vogliono dunque una Svizzera a zero emissioni nel 2050, se necessario con una tassa sul CO2, ma pure un maggiore impegno a favore della potabilità dell’acqua e contro un eccessivo uso di pesticidi nell’agricoltura. Che cosa differenzia allora questo PLR dai Verdi? L’approccio: divieti e imposte solo dove necessario (da devolvere in parte alla popolazione, in parte ad un fondo pro clima) ma anche molto senso di responsabilità e innovazione tecnologica. È una mossa per contrastare il calo dei consensi, dopo i successi elettorali in diversi cantoni avuti fino all’anno scorso? La presidente Gössi e chi la sostiene è consapevole che a breve termine la svolta potrebbe costare consensi al PLR, ma ne rafforza la credibilità come soggetto politico. E in Ticino? La novità è la ventilata congiunzione delle liste fra PPD e PLR con lo scopo di rafforzare il centro rispetto alla sinistra e alla destra – anche se a Palazzo federale finora il PLR era più vicino alla destra e il PPD alla sinistra. Ma forse la svolta verde del PLR di Gössi (viene percepita nel PLR ticinese?) lo riporterà più vicino al centro, e allora la congiunzione può avere un senso anche «nazionale».


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 luglio 2019 • N. 28

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Idee e acquisti per la settimana

Sua altezza il pomodoro!

Attualità Un po’ di storia e curiosità sulla produzione ticinese col direttore della Foft

di Cadenazzo, Marco Bassi

Pomodori Nostrani alla Migros e degustazioni Attualmente sugli scaffali dei supermercati di Migros Ticino la scelta di pomodori ticinesi è ampia e variegata. La gamma include una ventina di varietà coltivate secondo i criteri della produzione integrata, sia quelle provenienti da coltivazione biologica, come per esempio pomodori tondi tradizionali, carnosi, cherry, cuore di bue, peretto, ramato, kumato, intense e datterino. Inoltre, il 10 e 11.7 (presso le Migros di Bellinzona, Locarno e Serfontana), il 12 e 13.7 (Giubiasco, Arberdo-Castione e Agno) e il 19 e 20.7 (S. Antonino, Lugano e Taverne) potrete degustare alcune varietà di pomodori ticinesi accompagnate da aceto balsamico e büscion di capra, naturalmente anch’essi della linea dei Nostrani del Ticino.

Le settimane dei Nostrani

Flavia Leuenberger Ceppi

Fino al 22 luglio i prodotti locali saranno protagonisti nei supermercati Migros con diverse azioni e degustazioni speciali.

Marco Bassi, direttore della Foft e Tior SA di Cadenazzo.

Chi regna nell’estate ticinese? «Sicuramente il principe è il pomodoro, lo dice già il nome!» ci dice entusiasta Marco Bassi, direttore della Federazione ortofrutticola ticinese (Foft) e della società commerciale Tior SA. Queste salutari bacche rosse, importate dagli spagnoli dall’America del sud e poi diffuse in tutte le terre del Mediterraneo, fino al caldo sole del Ticino, hanno contraddistinto per anni la Foft, a cui manca un ventennio al centenario. «Siamo partiti nel marzo del 1937, dove già allora il pomodoro era il prodotto principe. C’era addirittura un fondo di compensazione, che oggi non c’è più, per sostenerne

la coltivazione» ricorda Bassi. La Foft ha permesso di coordinare la produzione locale e rispondere meglio al mercato. Partita con un magazzino in un piccolo locale di via Ariosto a Lugano, riporta la cronaca di allora, la Foft si è poi trasferita a Giubiasco e poi nell’attuale moderna sede di Cadenazzo. Da giugno a ottobre del 1937 la Foft vantava già «uno smercio di oltre 400 vagoni di prodotti ticinesi», quasi 10mila quintali, pomodori compresi ovviamente. Nel 1959 erano già 75mila i quintali. Agli albori della Foft si contavano circa 400 aziende a conduzione famigliare dedicate al pomodoro, ci dice Bassi. Oggi sono solo 34, perché «si va sempre verso aziende un po’ più grandi, con gli anni si è avuto lo sviluppo di coltivazioni e di quantitativi sempre in aumento» spiega. Non solo. «Sono cambiate le varietà, ma anche le condizioni di coltivazione. Si piantava a terra e in pieno campo, oggi è quasi tutto fuori suolo, in serra o sotto copertura» racconta. Il più conosciuto era il classico pomodoro liscio e tondo, oggi «abbiamo cherry, cherry ramati, datterini, cuori di bue, carnosi, Merinda ecc.». Tutte varietà che esistevano già, precisa Bassi, ma erano conosciute altrove. E la sua varietà preferita? «Il Kumato, una selezione di una vecchia varietà, il cui tasso zuccherino è più alto e l’acidità inferiore. Inoltre rispecchia il gusto e il sapore che la gente riconosce come quello di una volta», rivela. Quelle più richieste in Ticino «sono il ramato e il ramato cherry!» dice Bassi, un pomodoro che, si pensi, solo venti anni fa era sconosciuto. «Alla Foft abbiamo anche i nostri produttori, sia convenzionali sia biologici, un tipo di coltura che prende sempre più piede!» fa notare Bassi. Biologico significa per esempio valutare il tipo di concime o di letame, l’uso di estratti di ortiche contro i pidocchi al posto della chimica. «Il 70% dei nostri pomodori è esportato oltre Gottardo, perché da tempo produciamo di più della richiesta locale, inoltre il mercato ticinese è piccolo. Una volta si trasportava tutto con la ferrovia, a volte nemmeno nei frigoriferi!» ricorda Bassi. «Come Foft lavoriamo con la verdura di stagione, un trend che cavalcano anche i vegani. Quello che vogliamo far conoscere al consumatore è anche la stagionalità, da aprile a novembre, come da dicembre a marzo, grazie alla coltivazione in serra, ma anche il territorio. E con Migros lo facciamo volentieri!» conclude Bassi. / mj


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 luglio 2019 • N. 28

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Società e Territorio Lavoro e andicap Gli sportelli alle stazioni di Bellinzona e Giubiasco, un progetto di inclusione sostenuto dalla popolazione

In vacanza accompagnati Una settimana di relax per i malati e per chi si prende cura di loro: un’opportunità garantita da Alzheimer Ticino e Pro Senectute Ticino e Moesano

La banda oltre la musica Una tradizione che promuove lo spirito aggregativo, il senso di comunità e lo scambio intergenerazionale pagina 9

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pagina 7 I reati giovanili sono a volte da correlare alla carica di ribellione tipica della fase adolescenziale. (Marka)

Polizia: agenti esperti per i ragazzi

Giovani e reati Dallo scorso aprile all’interno della Polizia cantonale è attivo il Gruppo minori, ne abbiamo parlato

con il commissario Marco Mombelli e con il magistrato dei minorenni Reto Medici Romina Borla «Ciberbulli contro la docente: “Uccidiamola!”». «Ragazzini senza rispetto mi rovinano il locale». «Amicizie sbagliate e droga: quattro giovani a processo». Sempre più spesso quotidiani e siti di informazione evidenziano un fenomeno in crescita, quello degli adolescenti che sconfinano nei territori banditi dalla legge. «Nel 2018 – afferma Reto Medici, magistrato dei minorenni del Canton Ticino – sono stati aperti 1198 procedimenti penali, 24 in meno del 2017 ma molti di più rispetto al 2016 (870 incarti). I primi sei mesi del 2019 confermano la tendenza degli ultimi due anni. Mentre negli anni Novanta si parlava in media di 600 procedimenti sui 12 mesi». Nell’aprile scorso, per trattare i casi più gravi, è stata creata una task force di agenti specializzati denominata Gruppo minori. La squadra, integrata nella Sezione reati contro l’integrità della persona (SRIP) della Polizia cantonale, è composta da 6 agenti tra cui un’unità messa a disposizione dalla Polizia della Città di Lugano. «Da anni il minore vittima di reato viene seguito da personale esperto», evidenzia il commissario della SRIP Marco Mombelli. «Fino a pochi mesi

fa, per contro, a qualsiasi agente poteva capitare di imbattersi in un ragazzo che aveva oltrepassato i confini della legalità. Si è quindi deciso di ottimizzare il lavoro, seguendo le raccomandazioni emerse a livello internazionale, come la Convenzione ONU sui diritti del fanciullo, affidando così ad agenti formati ad hoc anche la presa a carico di quelle situazioni che vedono coinvolto un minorenne in veste di imputato». Nel nostro Paese il diritto penale minorile prevede due concetti, ricorda l’intervistato. Quello della pena e quello delle misure. Queste ultime hanno lo scopo di proteggere e di educare. Studi specialistici dimostrano infatti che un intervento adeguato su un minore di 14 anni riduce in maniera significativa il rischio di recidiva. Lo sa bene il Gruppo minori, il quale nei primi mesi di attività ha incontrato soprattutto giovani autori di gravi atti di (ciber)bullismo e reati legati alla sfera sessuale o alla pornografia vietata. «Tra loro – spiega Mombelli – troviamo chi scarica e trasmette sulla chat di classe immagini o video inenarrabili, senza porsi troppe domande. A questo proposito è opportuno riflettere sulle nuove tecnologie che da un lato offrono straordinarie op-

portunità, dall’altro incrinano il senso di responsabilità individuale e facilitano la veloce diffusione di esempi di sessualità spinta, quando non distorta. Video e immagini possono influenzare pesantemente la psiche dei ragazzi». «Recenti ricerche a livello nazionale ed internazionale – dice dal canto suo Medici – mettono in evidenza il legame tra consumo di pornografia online o videogiochi violenti e lo sviluppo di comportamenti aggressivi nella sfera sessuale. Il fenomeno si riscontra anche in Ticino, già a partire dalle Elementari. Per quel che riguarda la protezione dei minori dai contenuti pericolosi, le normative elvetiche mostrano delle lacune. Il legislatore ci pensa infatti due volte prima di bloccare prodotti che producono magari enormi guadagni». Abbiamo detto che il Gruppo minori si occupa dei giovani che commettono reati di una certa gravità. Più in generale, scorrendo le statistiche delle condanne a livello nazionale, si può dire che l’80% degli autori di reato è maschio e ha più di 15 anni al momento del primo «sgarro». Il 70% di loro non ha recidive. «La devianza penale giovanile – spiega infatti Medici – è in parte da correlare alla carica di ribellione e alla

voglia di esplorare tipiche della fase adolescenziale. In questo senso ricordo che la maggior parte delle pene che noi pronunciamo non viene iscritta nel casellario giudiziale, in modo da non compromettere il futuro del ragazzo». Per quello che riguarda le fattispecie più frequenti in Ticino, indica il nostro interlocutore, si possono citare i reati contro il patrimonio (furti e danneggiamenti), le contravvenzioni alla Legge federale sugli stupefacenti (in aumento) e le infrazioni alla Legge federale sulla circolazione stradale. «Stabili i casi di violenza. Questi ultimi preoccupano molto perché di solito si tratta di situazioni di estrema sofferenza per la vittima, a cui l’autore arriva dopo un percorso di devianza protrattosi nel tempo. Si registrano inoltre una trentina di casi di (ciber)bullismo l’anno. Ma questi sono solo la punta dell’iceberg di un fenomeno più diffuso che tende a rimanere nell’ombra». «È necessario che gli agenti attivi in ambito minorile abbiano la capacità di pensare in un’ottica allargata», sottolinea poi Mombelli. «Partendo dal presupposto che spesso il ragazzo che infrange la legge ha alle spalle trascorsi famigliari difficili. Non di rado i giovani che incontriamo si sfogano con noi, cer-

cando un sostegno e una via di scampo. L’idea del Gruppo minori è proprio quella di riuscire ad andare oltre al singolo fatto e cercare di dare una risposta ai bisogni di ragazzi che non sono solo carnefici ma spesso sono anche delle vittime». In questo senso la formazione degli agenti è fondamentale. Il corso base per le unità della task force – spiega il commissario – è andato a toccare numerosi temi: diritti del fanciullo, psicologia dei minorenni in base alle differenti fasce di età, aspetti giuridici della procedura penale minorile, diritto civile e di protezione, tecniche e tattiche di polizia in ambito minorile, ecc. «Aspettavamo da tempo questa squadra speciale e le prime esperienze si sono rivelate positive», commenta Medici. «Ora è il momento di affinare la collaborazione. Il Gruppo minori, lo ricordo, lavora fianco a fianco con i vari servizi della Polizia cantonale e mira al coinvolgimento di tutti gli attori, come le Autorità regionali di protezione e gli istituti scolastici. Non da ultimo va sottolineata l’essenziale collaborazione con il Gruppo visione giovani della Polizia cantonale che da tempo svolge un eccellente lavoro di prevenzione con i giovani del nostro cantone».


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 luglio 2019 • N. 28

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Società e Territorio

Sui binari dell’inclusione

Lavoro e andicap Gli sportelli alle stazioni di Bellinzona e Giubiasco, un successo sostenuto dalla popolazione Nicola Mazzi La paventata chiusura dello sportello FFS di Giubiasco – dove alcune persone con andicap erano impiegate e altre seguivano una formazione – aveva fatto parecchio discutere un paio di anni fa. Poi, grazie a una petizione e a un accordo, il tutto si è risolto al meglio. inclusione andicap ticino (ex-FTIA Federazione Ticinese Integrazione Andicap), di recente, ha organizzato delle porte aperte per presentare quanto di buono si sta facendo. Ne abbiamo approfittato per ripercorrere quella vicenda. È la portavoce di inclusione andicap ticino, Sara Martinetti, a spiegarci come nacque il caso. «Alcuni anni fa le FFS hanno iniziato a rivedere le loro strategie per migliorare la propria redditività. Tra le misure che avevano individuato c’era anche il taglio dei mandati alle agenzie terze. La nuova strategia prevedeva infatti di centralizzare la vendita e la distribuzione di biglietti ferroviari unicamente attraverso i canali diretti delle FFS. Una misura che coinvolse 52 realtà in tutto il Paese e tra di essi c’era anche lo sportello di Giubiasco». «Per noi, quella drastica misura, significava una grave perdita poiché, oltre ai posti di lavoro che sarebbero andati persi c’erano in gioco anche posti di formazione. E quindi ci siamo mossi di conseguenza. Dapprima cercando di instaurare un dialogo con le FFS, ma senza grandi risultati. In un secondo tempo sensibilizzando l’opinione pub-

blica attraverso i media. Volevamo far capire l’importanza dello sportello al di là del mero profitto economico. Un lato, quest’ultimo, che era comunque importante visto che realizzavamo una cifra d’affari di 1 milione di franchi. In un terzo tempo – continua Martinetti – abbiamo deciso di avviare una petizione raccogliendo, in poche settimane, più di 8500 firme a sostegno dello sportello. Fu un vero successo». Un sostegno popolare che permise all’allora FTIA, con l’appoggio dei media e della città di Bellinzona, di presentarsi davanti alle FFS più forti e decisi e che aiutò l’associazione a portare a casa un risultato concreto. La portavoce di inclusione andicap ticino rileva che le discussioni furono positive, malgrado il fatto che la richiesta principale non fu accolta. «Volevamo mantenere la vendita presso lo sportello di Giubiasco, ma per varie ragioni non è stato possibile. Tuttavia, le FFS hanno riconosciuto l’importanza del nostro operato e ci hanno quindi offerto di proseguire con l’attività di vendita dei biglietti nella nuova stazione di Bellinzona. Ora c’è un nostro sportello che si mimetizza con il resto della struttura, realizzato proprio nella direzione di uno dei nostri concetti chiave e cioè l’inclusione. Non è separato dagli altri sportelli, ma è parte integrante dello spazio vendita. Inoltre, per facilitare l’accesso a clienti anziani, mamme con bambini e persone con andicap, è stato deciso di realizzare una soluzione con tavolo e sedie. Lì siamo presenti per una consulenza sul

trasporto pubblico e con la vendita di biglietti e abbonamenti». In totale sono nove le persone coinvolte nel progetto di inclusione andicap ticino. Cinque posti sono dedicati alla formazione e sono divisi tra Giubiasco e Bellinzona, altri quattro sono impieghi a tutti gli effetti. Come aggiunge Martinetti: «Il settore Formazione di inclusione andicap ticino lavora su mandato dell’AI e pianifica provvedimenti professionali per giovani e adulti. Tra questi c’è la formazione commerciale legata agli impiegati di commercio AFC e di assistenti d’ufficio CFP che comprende l’ottenimento, alla fine del percorso, di un diploma federale. Entrambi i percorsi di studio prevedono una parte di lavoro pratico in un’azienda formatrice come la nostra e una parte teorica a scuola. Grazie agli sportelli possiamo offrire sia attività pratiche di back-office, sia un’offerta di compiti tipicamente da front-office a contatto con il pubblico». Le persone in formazione svolgono una serie di lavori amministrativi sia per clienti terzi (aziende che ci affidano dei mandati) sia per l’associazione stessa, per garantirne il buon funzionamento. Per quanto riguarda il front-office esiste un’offerta diversificata tra Bellinzona e Giubiasco. Se nella capitale il compito è chiaro ed improntato alla vendita, lo sportello di Giubiasco, a seguito della decisione FFS, ha cambiato orientamento. «Abbiamo trovato un accordo con la Commissione regionale dei trasporti del Bellinzonese, AutoPostale e Arcobale-

Lo sportello di Bellinzona ha compiuto un anno. (inclusione andicap ticino)

no, per i quali forniamo consulenza sul trasporto pubblico. In caso di necessità possiamo anche aiutare le persone alla biglietteria automatica. Poi eseguiamo una serie di lavori amministrativi per il Comune di Bellinzona, fungendo anche da sportello comunale fuori orario. Da poco abbiamo anche avviato una collaborazione con l’Associazione Quartiere Giubiasco». Lo sportello di Bellinzona ha aperto la sua attività il 1° gennaio del 2018. Le persone in formazione sono coadiuvate da formatori professionali qualificati che li affiancano costantemente. «Devo dire che c’è grande entusiasmo per questa nuova sede e anche la formazione stessa ne sta traendo vantaggio» ci dice Martinetti. È chiaro che la ricerca dei profili più adatti è ora più dif-

ficile, relazionarsi con il pubblico alla biglietteria può essere più problematico per taluni. In qualsiasi caso, per chi è più introverso, possiamo offrire un percorso più amministrativo in sede. Ma per tutti l’obiettivo è uno solo: ottenere un diploma riconosciuto a livello federale per poi accedere al mercato del lavoro come chiunque altro». In questo senso, conclude la responsabile della comunicazione di inclusione andicap ticino: «La nostra esperienza pluriennale ha dimostrato come l’inserimento professionale sia fattibile e i riscontri avuti sono molto positivi. Le aziende che hanno assunto persone con disabilità ce ne parlano in modo positivo in quanto vedono una grande forza di volontà e un’importante voglia di riuscire a farcela». Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 luglio 2019 • N. 28

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Società e Territorio

In vacanza accompagnati

Alzheimer Una settimana di relax grazie all’aiuto di un volontario: un’opportunità

per i malati e per chi si prende cura di loro garantita dalla collaborazione tra Alzheimer Ticino e Pro Senectute Ticino e Moesano

Dall’eclisse al jazz, in vetta Monte Generoso

Il programma di attività per luglio 2019

Stefania Hubmann «Una settimana insieme, come una volta» è l’invito che accomuna le proposte di vacanze accompagnate organizzate da Alzheimer Ticino. Partire in coppia o con un parente per un luogo di villeggiatura quando una delle due persone lamenta un deterioramento cognitivo rischia di diventare un incubo. Questo non significa però dover rinunciare completamente a un momento di svago e relax, soprattutto per il familiare curante sottoposto a grande fatica. Da oltre quindici anni Alzheimer Ticino, che oggi lavora in stretta collaborazione con Pro Senectute Ticino e Moesano, con la quale ha aperto a Lugano il Centro di competenza Alzheimer e altre forme di demenza (vedi «Azione 02» 2019), offre la possibilità di trascorrere una vacanza serena con il sostegno di una persona volontaria per coppia. Dai tradizionali soggiorni per persone anziane, tuttora organizzati da Pro Senectute, l’offerta dei due enti si sta ampliando tenendo conto dei nuovi bisogni legati in particolare alle malattie degenerative. Mare, montagna e terme sono le destinazioni che meglio si prestano a questo tipo di vacanza e predilette dai partecipanti. Il riscontro di questi ultimi è sempre molto positivo, come ci racconta la signora Matilde di Lugano che per diversi anni ha potuto approfittare di questa formula assieme al marito. «L’ultima vacanza trascorsa da soli era stata un disastro. Non potevo mai lasciare mio marito solo nemmeno un istante. Grazie alle capacità organizzative delle due responsabili delle vacanze Alzheimer e alla presenza dei volontari abbinati alle coppie, tutto è cambiato. Mio marito si è sempre trovato in ottime mani ed io ho finalmente potuto rilassarmi. Le visite (alcune solo per i familiari), i bagni nell’acqua termale, i balli e la tombola sono preziose occasioni di svago e ricarica per chi vive con una persona affetta dalla malattia di Alzheimer. Quest’ultima nel contempo ha la possibilità di ritrovare un po’ se stessa». A queste attività – precisa la responsabile del Centro di competenza Ombretta Moccetti – va aggiunto il beneficio degli incontri fra i partecipanti, organizzati a inizio e fine soggiorno, ma che si sviluppano in modo naturale durante la settimana. Si creano legami stretti, che proseguono al rientro in Ticino, favorendo il confronto con altre situazioni delicate e lo scambio di esperienze. La testimonianza conferma l’importanza di aprirsi e condividere le difficoltà nell’affrontare la malattia del proprio caro. «Nascondere la malattia non serve a nulla e a nessuno. Anche nella vita quotidiana è molto meglio parlare con i vicini di casa e informarli. Possono capire, aiutare, intervenire. Penso soprattutto a quando il malato si comporta in modo strano». La signora Matilde è diretta e solare. Grazie ad Alzheimer Ticino conserva bei ricordi delle ultime vacanze con il marito, coltivando tuttora rapporti di amicizia nati in quelle occasioni. Introdotte nel 1993 da Alzheimer Svizzera, le vacanze accompagnate sono state promosse dall’associazione

Azione

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

Entra nel vivo la stagione sul Monte Generoso e il programma di attività in cartellone si anima di interessanti idee che ci invitano a scoprire (o ritornare) su una delle cime più affascinanti delle Prealpi ticinesi. Nel corso del mese di luglio sarà possibile infatti approfittare di offerte che propongono un prezzo speciale per la salita con il trenino a cremagliera. Giunti sulla vetta, oltre all’esperienza di un paesaggio sicuramente unico e di grande bellezza, oltre alla possibilità di ammirare il «Fiore di Pietra», la celebre costruzione di Mario Botta, i visitatori potranno prendere parte a una serie di manifestazioni pensate per dare alla loro visita un carattere ancora più memorabile. Ecco il programma completo degli eventi: • Venerdì 12.07, 19.07 e 26.07

Generoso Sunset Apero: comprende viaggio di A/R, musica dal vivo, buffet di stuzzichini misti e 33cl di birra o un calice di vino. Prezzi: adulti Fr. 27.–; ragazzi 6-15 anni: Fr. 27.–. • Sabato 20.07

Una breve vacanza può portare un enorme beneficio nella qualità di vita di chi vive una malattia invalidante. (Pro Senectute)

cantonale ticinese undici anni dopo, dapprima in destinazioni turistiche nazionali (Weggis e Interlaken) e in seguito prevalentemente in Italia. Questo perché ci si è accorti che la lingua diversa in un contesto già delicato può rappresentare un’ulteriore barriera da superare. Ecco quindi prediligere Montegrotto quale meta termale (già sperimentata da Pro Senectute) e Cervia per godere il mare. Quest’anno è stata reintrodotta la montagna al posto del mare con una settimana svoltasi in giugno in Valposchiavo. Le richieste, in costante aumento, esprimono però una marcata preferenza per la destinazione marina. Da una settimana all’anno si è passati a due e forse l’anno venturo si riuscirà a programmarne tre. I posti a disposizione sono sempre esauriti in breve tempo, per cui gli interessati devono annunciarsi con largo anticipo. Lo stato di salute di una persona colpita da un deterioramento cognitivo può mutare notevolmente sull’arco di diversi mesi, ma Alzheimer Ticino assicura grande flessibilità in questo senso. L’organizzazione, pur essendo complessa, è ormai collaudata. Spiega Ombretta Moccetti: «Da 8-10 coppie siamo saliti a 14 per cercare di soddisfare un maggior numero di richieste. Oltre però non aumentiamo, perché già così l’intero gruppo è composto da una quarantina di persone. Abbiamo bisogno di strutture alberghiere grandi e accoglienti, in grado di capire le esigenze di persone con possibili autonomie ridotte. Dagli accessi privi di barriere architettoniche al personale informato e attento, alla possibilità di pasti adeguati. Senza dimenticare l’attrattività della regione in modo da soddisfare i desideri ricreativi e culturali dei vacanzieri». Come avviene invece la selezione dei volontari? Risponde sempre la responsabile del Centro di competenza: «Alcuni accomSede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

pagnatori sono già volontari al Centro diurno di Pro Senectute, per cui conoscono bene la realtà dei malati e delle loro famiglie. Altri sono legati professionalmente al settore socio-sanitario come gli assistenti di cura delle case per anziani o gli allievi infermieri per i quali la vacanza è considerata un periodo di stage. A tutti offriamo una formazione specifica, cercando poi il miglior abbinamento possibile fra volontario e coppia da assistere».

Le vacanze sono anche un’occasione per creare legami di condivisione e confronto che a volte sfociano in rapporti di amicizia Oltre ad offrire una bella opportunità di evasione dalla vita quotidiana – in alcune situazioni divenuta molto stressante per la costante attenzione di cui necessita la persona colpita da demenza – le vacanze accompagnate veicolano un messaggio confortante riguardo alla qualità di vita di cui si può ancora godere nell’ambito di una malattia invalidante. Rappresentano inoltre un aiuto per l’integrazione sociale, poiché queste malattie sono ancora oggetto di pregiudizi. Dal punto di vista finanziario la proposta è piuttosto onerosa, ammette le responsabile organizzativa, ma Alzheimer Ticino riceve un sostegno mirato dall’associazione nazionale e da sponsor esterni. L’energia ritrovata e le nuove risorse di cui dispongono i familiari al termine del soggiorno permettono loro di continuare a prendersi cura del proprio partner o parente al domicilio. Per chi gode ancora di una certa autonomia essendo allo stadio iniziale Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31

di una malattia degenerativa, si stanno sperimentando con successo nuove formule. Fra queste figura la vacanza di sei giorni al Serpiano destinata a persone sole o accompagnate che non hanno ancora raggiunto l’età pensionabile. Organizzato per la prima volta l’anno scorso da Alzheimer Svizzera, il soggiorno riunisce malati provenienti dalla Romandia e dal Ticino creando un gruppo misto di un massimo di venti persone. Pure molto apprezzata l’iniziativa di Pro Senectute (in collaborazione con Alzheimer Ticino) di una vacanza accompagnata da un’équipe professionale che permette di coprire il bisogno di sicurezza legato al cambiamento di abitazione e di clima. Possono prendervi parte persone anziane sole residenti al domicilio in perdita di autonomia o con lievi problemi cognitivi alle quali è garantito un accompagnamento per svolgere uno o più compiti della vita quotidiana. I soggiorni proposti questa estate sono due: termale in agosto (in collaborazione con Associazione Ticinese Terza Età) nella località grigionese di Andeer e marino, sempre a Cervia, a fine agosto-inizio settembre. L’evoluzione delle malattie che minano le capacità cognitive delle persone pone nuove sfide anche a livello delle opportunità di riposo e benessere per loro stesse e i familiari. Pro Senectute Ticino e Moesano e Alzheimer Ticino le affrontano sperimentando con successo nuove formule di vacanza che si adattano ai bisogni dei loro utenti più fragili. I feed-back raccolti a fine soggiorno tramite un questionario confermano che le famiglie si sentono capite, aiutate e sollevate.

Grigliata a 1704 metri: comprende viaggio di A/R, musica dal vivo, gran spiedino alla griglia con patatine e 50cl di birra o un calice di vino. Prezzi: adulti Fr. 55.–; ragazzi 6-15 anni: Fr. 40.–. • Sabato 13.07 e 27.07

Serata Ticinese: comprende viaggio di A/R, musica dal vivo, menù a buffet e visita all’osservatorio astronomico. Prezzi: adulti Fr. 55.–; ragazzi 6-15 anni Fr. 40.–. • Domenica 14.07 e 28.07

Treno a vapore: Un viaggio storico verso il futuro! Comprende viaggio di A/R. Prezzi: adulti Fr. 80.–; ragazzi 10-15 anni: Fr. 70.–; ragazzi 6-9 anni: Fr. 60.–. • Martedì 16.07

Eclissi parziale di luna: «The dark side of the moon». Dalle ore 21.00 alle ore 23.00 si potrà ammirare il fenomeno astrale e la presenza di Giove e Saturno. Comprende viaggio di A/R + Osservatorio. Prezzi: adulti e ragazzi 6-15 anni Fr. 35.–; bambini 0-5 anni: gratis. • Domenica 21.07

Matinée Apero-Jazz Panoramico. Aperitivo-Jazz in vetta con Ivana Vanoli e Pier Salvadeo dalle ore 11.15 alle ore 12.30. Concerto gratuito. Prezzi: secondo tariffe sul sito; aperitivo à la carte.

Informazioni

www.alz.ch/ti, tel. 091 912 17 07, www. prosenectute.ch, tel. 091 912 17 17. Tiratura 102’022 copie Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch

Il Fiore di Pietra, realizzato dall’architetto Mario Botta nel 2017. Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 luglio 2019 • N. 28

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Società e Territorio

La banda, tradizione e passione

Musica Maestro! Oggi sono 46 le bande affiliate alla Federazione bandistica ticinese, una realtà che promuove

lo spirito aggregativo, il senso di comunità e lo scambio intergenerazionale

Roberta Nicolò Una tradizione che arriva da lontano, molto sentita e che affonda le sue radici nell’antica usanza di proclamare nuove leggi sulla pubblica piazza, chiamando la gente a raccolta con tamburo, pifferi, tromba e oboe. Nasce così, la banda, una formazione musicale che accompagnava, e ancora oggi accompagna, eventi istituzionali e religiosi. Il Ticino è terra di bande, sono molte le filarmoniche presenti sul territorio, che condividono non solo la grande passione per la musica, ma anche valori di solidarietà e amicizia. Fiorenzo Rossinelli, Presidente uscente della Federazione bandistica ticinese (FEBATI), racconta: «la federazione bandistica ticinese è nata nel 1910 con l’intento di promuovere la qualità della formazione e dare unità ai tanti gruppi presenti sul territorio. In Ticino c’erano molte bande legate ai partiti politici, questo faceva sì che in un paese ci potessero essere due formazioni musicali: una dei liberali e una dei conservatori. Erano periodi caldi e difficili, per questo la Federazione ticinese si è battuta per la neutralità delle bande sapendo imporre, anche a livello nazionale, questa visione nuova. Chi si iscrive alla Federazione deve quindi rappresentare la comunità e non può essere legata ad un singolo partito. Molte bande si sono fuse dando vita ad una formazione unitaria, un segno di passaggio che si ritrova ancora oggi in molti nomi come, per esempio, la banda Musica Unione Novazzano o ancora la Unione Filarmoniche Asconesi ad Ascona. Oggi sono 46 le bande affiliate alla Federazione» con l’aggiunta dell’OFSI, l’Orchestra di fiati della Svizzera italiana. Una realtà storica e tradizionale che sa rappresentare, attraverso l’amore per la musica, anche dei valori di sussidiarietà e di senso di comunità che fanno da collante e rappresentano un elemento di aggregazione tra i cittadini e le cittadine. «La cultura bandistica è davvero molto seguita in tutta la Svizzera, basti pensare che alla Festa Federale della Musica del 2016 a Montreux erano presenti ben 558 formazioni musicali. La banda è uno spaccato della nostra

Giovane musicista a Tremona. (Civica filarmonica Mendrisio)

società. – prosegue Giovani Jelmini, Presidente della Civica Filarmonica di Mendrisio – in una banda trovi donne e uomini, giovani e anziani, professionisti e lavoratori dipendenti. In una banda c’è chi suona, chi dirige, ma c’è anche chi si occupa degli aspetti più organizzativi. È senza dubbio un’attività che ha bisogno di impegno. Durante l’anno ci sono diversi eventi che prevedono l’accompagnamento della banda, sono generalmente legati a funzioni religiose, come le processioni, ma anche a impegni istituzionali del Comune. Ma ci sono anche incontri organizzati dalla bande stesse, come i concerti di gala. Quest’anno proprio la Civica di Mendrisio è stata incaricata di organizzare la Festa Cantonale della Musica che si presenta ogni cinque anni. In questa occasione le bande si confrontano in un concorso diviso per categorie. Organizzare la festa cantonale significa mettere in campo tutte le risorse umane presenti nella banda e chiamare a raccolta il senso di comunità di un paese o di una città. A Mendrisio molti hanno

messo a disposizione, a titolo gratuito, parte del proprio tempo e delle proprie competenze e alcuni membri della Civica hanno saputo coinvolgere anche amici e familiari per la buona riuscita della manifestazione. In queste occasioni si riscopre il valore dell’amicizia e dello stare insieme, che sono sentimenti fondanti. Si dimostra, una volta di più, come una sana competizione, scevra di sentimenti di puro agonismo, arricchisca la crescita di tutti. Anche tra i Maestri e i Presidenti delle varie filarmoniche c’è un rapporto di cordialità e stima. Un altro elemento particolare e degno di nota è il principio di solidarietà; ci sono musicanti, come nella Civica Filarmonica di Mendrisio, che prestano servizio in più di una formazione bandistica e questo anche in un momento di competizione come durante la Festa cantonale della musica. Essere parte di una banda significa essere parte di una comunità, di una famiglia. L’omaggio che alla fine della Festa Cantonale gli organizzatori offrono ad ogni banda partecipante è un simbolo di questa

cordialità e unione. In questa occasione, abbiamo voluto offrire un omaggio importante e significativo; la stampa, in copie numerate e autografate, di un disegno che l’architetto Mario Botta ha realizzato per l’occasione e che rappresenta il teatro di architettura di Mendrisio con qualche nota in cielo. Un gesto di amicizia e generosità nei confronti della Civica e specchio di quello che il mondo bandistico rappresenta per tutti». Rossinelli riprende: «L’aiuto trasversale e il senso di amicizia hanno radici nella storia del nostro territorio. Una terra di emigranti. Molti uomini, in passato, emigravano oltr’Alpe, o addirittura all’estero, nella stagione buona in cerca di lavoro. Allora la banda del paese restava senza alcuni elementi. Ecco che la sussidiarietà, lo scambio di musici tra bande, era quanto mai necessaria. Uno scambio che ancora oggi vige e che può essere anche transfrontaliero. È una tradizione ancora viva e un valore altamente simbolico di scambio tra le genti». L’impegno della banda è qualcosa che oggi tende ad essere meno attraente

per le giovani generazioni che, a differenza di un tempo, hanno molte possibilità di svago. «Ho iniziato a suonare che avevo otto anni – prosegue Fiorenzo Rossinelli – la passione per la musica mi ha spinto a entrare nella banda e ho avuto la fortuna di avere dei bravissimi insegnanti. La figura del Maestro è un altro elemento importante. Abbiamo ottimi Maestri in Ticino. Il nostro Cantone ha, non a caso, due bande di eccellenza: la Civica Filarmonica di Mendrisio e la Civica Filarmonica Lugano. Il Maestro è colui che non solo dirige la banda ma che si occupa anche di comporre o arrangiare brani. La scuola di musica della banda offre ai giovani una formazione che è di ottimo livello. Impari lo strumento e hai anche occasione di fare esperienza di musica di assieme. Cosa che manca spesso nelle tante scuole di musica private. E naturalmente offre tutto il patrimonio della tradizione che ogni banda porta con sé. L’obiettivo per FEBATI e per le civiche del territorio è certamente quello di preservare questo importante patrimonio, pochi sanno che la musica bandistica svizzera fa parte delle “Tradizioni viventi” da salvaguardare». «Una volta, nella nostre realtà, c’erano la banda, la società di ginnastica, quella di calcio e poche altre. Un giovane poteva scegliere una di queste attività. Oggi le proposte sono molteplici e differenziate. Far parte di una banda diventa quindi una scelta che presuppone una maggior consapevolezza, una vera passione per la musica. Fare parte di una formazione bandistica offre però la possibilità a tutti di avvicinarsi alla musica, di studiarla e di imparare a suonare lo strumento scelto senza un impegno economico eccessivo. Una possibilità, ancora una volta, che rappresenta lo spirito comunitario della tradizione. Tradizione che si ritrova anche nello scambio generazionale. Un esempio molto bello e interessante che abbiamo all’interno della Civica Filarmonica di Mendrisio è quello della famiglia Imperiali: nonno, figlio e nipote fanno parte della nostra compagine. Una famiglia che condivide la passione per la musica. Tramandare ai giovani la passione per la banda oggi è un vero e proprio compito, una sfida interessante» conclude Giovanni Jelmini.

Dove nascono le disparità

Libri Intervista a Chiara Volpato autrice de Le radici psicologiche della disuguaglianza Stefania Prandi Il divario tra chi possiede grandi ricchezze e chi fatica a raggiungere la soglia minima del benessere è in aumento nelle società occidentali. Le disuguaglianze sono tra le cause principali dell’infelicità collettiva: seminano sfiducia e mettono a rischio la democrazia. Perché, allora, i tentativi di contrastarle sono pochi e deboli? Quali processi psicologici impediscono a chi è in condizione svantaggiata di ribellarsi? Con Le radici psicologiche della disuguaglianza (Laterza), Chiara Volpato, professoressa di Psicologia sociale all’Università di Milano-Bicocca, cerca di rispondere a queste domande. Professoressa Volpato, perché secondo lei dovremmo riflettere sul fatto che le diseguaglianze sociali ed economiche sono in aumento?

La crescita delle disuguaglianze dovrebbe preoccuparci tutti perché ha come conseguenza il declino delle aspettative di vita, l’incremento dello stress e degli stati di ansia e angoscia e l’aumento della criminalità. Ci sono moltissimi studi, di

vari ambiti, dall’economia all’epidemiologia, che dimostrano gli effetti negativi dell’allargamento del divario tra ricchi e poveri. Un testo appena pubblicato in italiano, L’equilibro dell’anima di due epidemiologi, Richard Wilkinson e Kate Pickett, si concentra proprio sullo stress psicosociale che condiziona la vita di chi è in una posizione subordinata.

Le società con minori disparità socio-economiche che particolarità hanno?

Sono più fortunate, si avvicinano a quella che si può definire «felicità collettiva». Anche in termini di salute, ci sono dei benefici. L’uguaglianza, infatti, è associata a una più alta speranza di vita e a minori tassi di mortalità infantile. Da un punto di vista del benessere psicologico, meno disparità implica meno stress e ansia e meno pregiudizi nei confronti degli altri. I livelli di convivenza sono migliori perché c’è più fiducia tra cittadini e istituzioni.

Nel libro spiega che spesso le persone non si rendono conto delle ingiustizie che le circondano perché tendono a dimenticarle e a credere

che «il mondo sia un posto giusto». Ci spiega questo concetto?

Pensare che il mondo sia un posto giusto, stabile, prevedibile, ordinato, dove gli individui ricevono quanto meritano, fa accettare con più facilità la realtà, aiuta a controllare la paura, con un accrescimento del benessere e della soddisfazione anche se si sta male. Questa credenza diffusa, un pregiudizio possiamo dire, serve sicuramente a sopportare meglio la complessità ma ha anche effetti negativi: contribuisce a giustificare il sistema e fa sì che, di fronte a situazioni di dolore e ingiustizia, si sia portati a colpevolizzare le vittime, attribuendo loro la responsabilità di quanto accade.

In uno dei capitoli, lei si sofferma su un altro pregiudizio: tendiamo a credere che essere ricchi e potenti sia un merito. Che cosa dice la psicologia sociale al riguardo?

Per rispondere a questa domanda bisogna considerare che una delle ideologie del mondo in cui viviamo è la meritocrazia, che porta a credere che chi è ricco e potente si sia meritato quello che ha,

mentre chi è povero e marginalizzato non abbia fatto abbastanza per emergere dalla sua condizione. Quest’idea maschera il dato di fatto che non tutte le persone partono dalla stessa posizione. Potremmo parlare di meritocrazia se tutti fossimo nelle stesse condizioni da quando nasciamo, con le identiche opportunità e facilitazioni. Sappiamo che non è così, ma siamo comunque portati a credere il contrario. E questo accade perché siamo condizionati da un sistema di pensiero, un’ideologia appunto, fomentata da chi detiene il potere e la ricchezza e non vuole perdere il suo privilegio.

Spesso sentiamo dire, soprattutto quando si parla di certe aree del mondo: se stanno davvero così male, perché non si ribellano? Che cosa risponderebbe lei?

Diverse indagini ci dicono che chi sta molto male, ad esempio, chi soffre la fame, non ha energie per ribellarsi. Certe situazioni di bisogno e di scarsità sono tali da impedire alle persone di avere la disponibilità mentale per reagire. Poi ci sono quelli che stanno un po’ meglio, ma

che sono sempre in fondo alla società, e che non si ribellano perché farlo ha dei costi molto alti. Inoltre è difficile che si crei coesione sociale quando ci troviamo di fronte a una grande disparità economica. La cosiddetta «guerra tra poveri» è dovuta al fatto che ognuno cerca di pensare per sé e per la propria famiglia e disprezza chi ha meno per sentirsi meglio. Informazioni

Si può leggere l’intervista in versione integrale su ww.azione.ch.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 luglio 2019 • N. 28

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Società e Territorio Rubriche

Lo specchio dei tempi di Franco Zambelloni La Natura si rivolta? Era quasi una consuetudine, non molti anni fa (e forse lo è ancora): quando cominciavano a manifestarsi cambiamenti climatici o avveniva qualche catastrofe naturale, qualcuno puntualmente annunciava che «la Natura si ribella». Le emissioni di gas serra, la deforestazione dell’Amazzonia, lo sfruttamento esasperato delle risorse naturali – tutto questo viene interpretato come una violenza contro la Natura che poi comporta una sorta di vendetta della Natura stessa. Non sono propenso a condividere questa interpretazione del surriscaldamento del pianeta e di altre modifiche ambientali. Si tratta di un’interpretazione che si fonda sulla mentalità «animistica» degli uomini primitivi e che ancora si manifesta nel pensiero infantile: una tendenza che porta ad attribuire anche alle piante, al cielo e ai fenomeni naturali un’anima, una volontà e delle intenzioni analoghe a quelle umane. Condivido

piuttosto l’idea di una «Natura matrigna» come la pensava il Leopardi – un’entità del tutto indifferente nei confronti delle vite che ha generato. Ma sono anche consapevole che questa mentalità animistica, retaggio di un’umanità preistorica, permane nel fondo della psiche anche dell’uomo d’oggi. C’è una fase del pensiero infantile che Jean Piaget ha appunto definita «del pensiero animistico» o «magico»: tutti ci passiamo, nel corso dell’infanzia, e ragioniamo secondo una logica primitiva che presuppone un’intenzione anche dietro gli eventi più casuali. Se un bambino di cinque anni ti chiede perché le nuvole si spostano, e dove vogliono andare, hai un bel da fare a spiegargli che una differenza di pressione atmosferica risucchia le nuvole in una certa direzione: lui ti sta a sentire, e magari capisce anche; ma poi continuerà a pensare che le nuvole si spostano per portare la pioggia dove vogliono

o dove ce n’è bisogno. È sempre in forza di questa mentalità magica che, fin da tempi antichissimi, derivano l’idea e il nome di «Madre Natura»: immagini dell’antichità, riprese poi nell’arte occidentale almeno fino al Cinquecento e al Seicento, raffigurano la Natura come una donna dotata di una molteplicità di mammelle, conformemente all’idea di una «natura nutrice». E, in effetti, è dai prodotti naturali che l’uomo ricava l’alimentazione e i mezzi di sussistenza: solo che, per averne in abbondanza, fin dagli inizi della civiltà agricola ha dovuto correggere la natura, modificarla e forzarla ricorrendo a deviazioni di fiumi, disboscamenti, domesticazione di animali e così via. Poi, a partire dalla rivoluzione industriale, lo sfruttamento delle risorse naturali e le devastazioni ambientali hanno conosciuto un incremento parossistico. Quando, nel 1755, un tremendo ter-

remoto distrusse la gran parte della città di Lisbona, ovviamente ci fu chi, per giustificare l’orribile catastrofe, ipotizzò un castigo divino per gravi peccati commessi; e Voltaire ironizzò, secondo il suo stile, contro questa lettura superstiziosa di un fenomeno naturale. «Nella natura tutto perisce e tutto si rinnova» – scriveva: un terremoto o un’eruzione vulcanica non sono effetti di un intervento divino, ma solo meccanismi determinati da cause naturali, che non intendono né punire né premiare un qualsiasi essere vivente. La sua spiegazione risulta rispettosa del Divino: molto più di quella di coloro che attribuivano a Dio una vendetta che magari sterminò dei peccatori, ma di sicuro anche molti innocenti. Eppure, ancora nel 1883, quando si verificò la famosa esplosione del vulcano Krakatoa, qualcuno tornò a evocare lo spettro di una punizione divina. È indubbio, però, che oggi, quando

qualcuno interpreta i cambiamenti climatici come una reazione della Natura che «si vendica» dei soprusi umani, abbia molte più ragioni a suo sostegno che in passato. E però, la via per modificare le tendenze consumistiche è lunga e incerta, e più si registra una crescita demografica più, ovviamente, aumenta il bisogno di risorse, non solo alimentari, ma energetiche, logistiche, tecnologiche. Da questo punto di vista, in base a statistiche recentissime il nostro Cantone sembra avere imboccato una via di ritorno: i dati dello scorso anno indicano che la popolazione è in calo, il 2018 ha fatto registrare più decessi che nascite. Un segno di responsabilità ecologica? Lo si potrebbe anche interpretare così: come insegnava Darwin, la natura appare come una madre assai generosa nel distribuire la vita, ma piuttosto avara nel fornire agli esseri viventi i mezzi per mantenerla.

da teli bianchi come i monumenti impacchettati da Christo. Sembra una soluzione da disperati, eppure secondo il glaciologo svizzero David Volken, riduce del settanta per cento lo scioglimento estivo. Ad ogni modo, se si riesce ancora a salvare la storica attrazione turistica, vana è la lotta contro la lenta agonia di quello che d’un tratto mi sembra un gigantesco pesce San Pietro spiaggiato e morente. Ogni anno, per via dell’arcinoto cambiamento climatico, il ghiacciaio che lasciò a bocca aperta Goethe, si ritira di diversi metri. Gli ultimi passi del tragitto sprofondano nella neve. E così, dopo le nove e mezza di un mattino di fine giugno che sarà ricordato per la canicola record, entro nella grotta di ghiaccio (2212 m) a una decina di minuti di cammino da una curva sulla strada della Furka. Assi per terra, ghiaccio trasparente, sgocciolìo inquietante, crepacci che mostrano il telo protettore in polyester. Il mio scetticismo iniziale si squaglia all’istante quando incomincia il blu

glaciale unico. François-Alphonse Forel, scienziato esperto del Lemano e inventore della limnologia, nel 1907 annota: «di nessun altro ghiacciaio conosco un blu così splendido, profondo, e forte». È una benedizione questo blu luminescente, di preciso però ora forse la sua tonalità si dirige più verso l’azzurro Grotta Azzurra di Capri, quasi turchese artico nel punto di fuga. Le tonalità esatte di blu però dipendono anche un po’ dall’orario di visita e dallo spessore del ghiaccio. Il tunnel è scolpito con sapienza, frastagliato, per accentuare la fuga prospettica. Fino a non molto tempo fa, alla fine del percorso refrigerante, due orsi polari sorprendevano i visitatori. A quanto pare, la foto ricordo iperbolica con i due stoici esseri umani travestiti da orsi polari, era di rito. Sembra però che questo misterioso azzurro nel cuore del ghiacciaio del Rodano, visibile dalle otto di mattina alle sei di sera fino a metà ottobre, basti a sorprendere: «Urca!» sento provenire in fondo al tunnel.

cucine per le masse. Nel 1926 disegnò la famosa «Frankfurt kitchen» installata in 10’000 nuovi appartamenti a Francoforte. Perché ve lo racconto? Perché Schütte-Lihotzky disegnava per le persone non per gli utenti o i fruitori. La parola utente definisce una persona nella sua relazione con un prodotto o un servizio. In realtà la persona che usa o interagisce con un prodotto è molto altro. Brava Schütte-Lihotzky che in un’era pre-internet disegnava cucine per donne della classe media che erano mogli, madri, lavoratrici, sorelle e figlie. E non possono starci tutte in una sola parola, una persona non può essere definita soltanto dal suo rapporto con un servizio o un prodotto perché non si limita ad utilizzarlo ma lo investe di significato, lo incorpora nelle sua vita in una miriade di modi che designer e professionisti del web o dell’industria digitale nemmeno

immaginano. Dunque torniamo alle buone abitudini e mettiamo le persone al centro. Faccio un esempio: sul sito della radio pubblica tedesca Deutschlandfunk c’è un testo che recita «c’è un’intervista che quest’anno ha avuto particolare successo tra i nostri utenti, quella al filosofo Richard David Precht». Perché utenti e non ascoltatori, pubblico, persone? Utente è così asettico e disumanizzante. E non è una banalità perché le parole contano e gli universi che rappresentano pure. In un mondo che corre incontro all’intelligenza artificiale, un mondo robotizzato e meccanico non solo l’empatia, di cui parlavamo la volta scorsa, ma anche le nostre identità individuali e complesse devono rimanere al centro dell’orbita. O – tra macchie di dentrificio, spruzzi e aloni indefiniti – sarà sempre più difficile riconoscerci allo specchio.

A due passi di Oliver Scharpf La grotta di ghiaccio sulla strada della Furka L’hotel Belvédère entra in scena, con il ghiacciaio del Rodano sullo sfondo, alle spalle della Rolls-Royce Phantom III Sedanca de Ville gialla e nera di Auric Goldfinger guidata dal maggiordomo-killer-caddy Oddjob, al trentaquattresimo minuto e ventitreesimo secondo di Agente 007-Missione Goldfinger (1964). Appena scendo dalla posta me lo ritrovo davanti al naso, in posizione impossibile lungo un tornante della Furkastrasse. Facciata rasapietra, tetto di zinco, abbaini sprangati, persiane verdi, l’insegna rossa ormai quasi scolorita del tutto che mostra il legno delle quattordici lettere separate. Nato nel 1892 riappare qualche minuto dopo, assieme alla Ford Mustang convertible avorio e sedili in pelle cremisi con al volante una Bond-girl interpretata da Tania Mallet che ha appena superato la Aston Martin DB5 argento betulla di Sean Connery. Iconico e chiuso da un lustro, è di proprietà della famiglia Carlen che da quattro generazioni gestisce la grotta scavata ogni anno,

dal 1870, nel ghiacciaio del Rodano ormai sparito dalla vista dell’hotel. Belvédère è anche toponimo – parte del comune di Obergoms, in Vallese – come si legge in bianco sul cartello blu sulla strada che attraverso di corsa. Tante moto e macchine sfrecciano su a tutta birra, scimmiottando la famosa scena di James Bond, verso il passo della Furka. Qui in faccia all’angolo curvilineo dell’hotel Belvédère, c’è lo chalet-bazar. Dove si deve entrare per forza, se si vuole visitare la grotta nel ghiacciaio del Rodano che latita ancora nel paesaggio. Verso metà maggio un elicottero atterra sul tetto piatto dell’annesso al bazar: sette uomini isolati dal mondo – la strada della Furka è sepolta da metri di neve – per circa un mese vivranno lì con una sola missione in testa. Scavare nel ghiacciaio, in tempo per l’inizio dell’estate, la grotta di ghiaccio reclamizzata prima della curva e segnata perfino sulle cartine geografiche come Eisgrotte. Wienerli mit Kartoffelsalat si legge, in gesso, su una lavagnetta del

chioschetto. Cagnolini Sanbernardo di peluche, mucche in tutte le salse, cristalli, pietre da tutto il mondo, e un sacco di altri souvenir s’incontrano prima della cassa in fondo dove alla vegliarda Sophie Harnisch, si paga l’entrata di nove franchi. Novantenne pezzo da museo che cercando a fatica il franchetto di resto, sostiene autoironicamente: «oggi i miei occhiali non funzionano». E mi rivela che il Belvédère è in vendita. «Due milioni» esclama divertita. Passato il tornello, m’incammino verso il ghiacciaio del quale si sente l’acqua sciolta scorrere giù impetuosa per la valle. Laggiù c’è un laghetto grigio-azzurrastro con piccoli iceberg piatti che galleggiano. Alla fine del laghetto ecco cosa rimane del ghiacciaio del Rodano. Catturato ancora con un certo magnetismo nelle riprese del terzo film della serie di James Bond e immortalato da Caspar Wolf a colpi di pennello in tutta la sua imponenza sublime nel 1778, si sa, è ora l’ombra di se stesso. Tutto intorno all’entrata della grotta è coperto

La società connessa di Natascha Fioretti Siamo persone Cari lettori, vi svegliate mai al mattino e vi chiedete chi siete, dove andate? Mentre vi lavate i denti davanti allo specchio pieno di macchie di dentifricio, spruzzi d’acqua e aloni o mentre state sorseggiando il caffè con i capelli in aria che supplicano di incontrare un pettine al più presto? Vi sentite mai, nel farvi questa domanda, un po’ persi e smarriti? Insicuri, persino? E poi, vi capita di prendere in mano il cellulare, guardare le ultime notifiche, i nuovi messaggi, oppure sedervi al pc a leggere le notizie, gli aggiornamenti su Fb e avere all’improvviso la sensazione che tutto torni a posto? Che avete di nuovo il controllo della situazione? È una bella sensazione, lo so, ma è illusoria. Perché se l’identità in Rete è una cosa semplice, nella vita reale è una questione molto più complessa, soggetta a variazioni, insicurezze, stati di benessere ma sempre in

movimento e in evoluzione, specie nei nostri tempi in cui spesso navighiamo a vista e tocca reinventarci più volte e ripensare i nostri ruoli in famiglia, nella società, sul lavoro e così via. In Rete tutto questo è racchiuso in due semplici parole che penso siano tra le più inflazionate: nome utente e password. Voi, per curiosità, a quale categoria appartenete: siete di quelli che le memorizzano, le cambiano per ogni piattaforma o usano sempre le stesse per non perdere tempo e, soprattutto, non correre il rischio di dimenticarle? Vero è che nell’uso corrente che ne facciamo, abituati ormai a loggarci ovunque con i nostri dati, che sia su una testata online, il sito delle ferrovie o un social network questo passaggio è talmente abituale e scontato che sembra insignificante. E, invece, se ci pensate, è un po’ come una carta d’identità personale, sono i nostri segni di riconoscimento in

Rete. Dietro ad ogni utente e password si celano volti, sorrisi, rughe, persone in carne e ossa. Ma per la Rete e chi la abita, la frequenta siamo tutti utenti, users come dicono gli inglesi, persone è caduto in disuso. E, pensandoci, questa cosa mi disturba. Per spiegarvi cosa intendo voglio scomodare l’architetta e designer austriaca Margarete Schütte-Lihotzky il cui lavoro è stato parte di una mostra londinese di design lo scorso anno. Classe 1897, impegnata in un progetto che nel secolo scorso – in un’ottica di un’economia di scala e di spazi piccoli – prevedeva di pensare e disegnare cucine facilmente replicabili in diverse abitazioni, fu esortata dal suo mentore Oskar Strnad ad andare a vedere di persona come vivevano le persone. L’incontro con la povertà delle classi operaie di quel tempo fu per lei molto scioccante ma anche costruttivo perché da lì in avanti decise di fare


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Ambiente e Benessere Micro-grotte artificiali I muretti a secco sono manufatti artificiali di grande valore ecosistemico

Le sorprese del surriscaldamento Il ritiro del ghiacciaio grigionese del Ducan porta alla luce un fondale marino di 241 milioni di anni or sono pagina 13

Viaggiatori verdi Aumenta sempre di più la sensibilità verso i problemi ambientali anche in chi viaggia pagina 14

pagina 12

Il Ramadan in Marocco A Marrakech il mondo sembra rallentare durante il giorno, per rivitalizzarsi nottetempo

pagina 16 Gianluca Bianchetti, medico accreditato alla neonatologia della Clinica Sant’Anna di Sorengo. (Stefano Spinelli)

Antibiotici con criterio

Farmacologia La lotta alla resistenza sviluppata dai batteri inizia già dall’infanzia Maria Grazia Buletti «È dimostrato che quando il paziente conserva a casa dei resti di antibiotici, può capitare che li assuma in automedicazione e questo favorisce l’insorgenza della resistenza agli antibiotici: uno dei grandi problemi della medicina che stiamo affrontando», ha di recente spiegato il farmacista cantonale Giovan Maria Zanini, invitando le farmacie a consegnare solo e strettamente le dosi di antibiotico prescritte dal medico. Il concetto si basa sulla vendita di antibiotici «sfusi» per lottare contro lo sviluppo della resistenza agli antibiotici da parte dei batteri che questi farmaci devono combattere. All’ottantina di farmacisti che hanno aderito a questo principio va il compito di convincere il paziente della bontà di quest’iniziativa atta a tutelarne la salute. Una proposta giudicata ottima oltre Gottardo dal vicepresidente di Pharmasuisse, Peter Burkhard, che si dice certo che sempre più farmacie vi aderiranno, a beneficio dei pazienti: «Si tratterà di regolare anche l’aspetto economico che deve tener conto dell’impegno dei farmacisti, e individuare la formula per dare al paziente solo parte della scatola di antibiotico senza che ne paghi il contenuto per intero». È un’idea che ha una sua vitale ra-

gione di essere perseguita: poter avere a disposizione un’importantissima famiglia di farmaci per la cura di alcune importanti patologie, preservandone l’efficacia. Per raggiungere questo obiettivo serve evitare «che i batteri sviluppino una resistenza agli antibiotici», dunque «bisogna usare questi ultimi con estrema cognizione e solo su precisa indicazione medica; solo così essi possono rimanere grandi alleati della nostra medicina», esordisce il pediatra Gianluca Bianchetti (medico accreditato alla neonatologia della Clinica Sant’Anna di Sorengo) da noi interpellato per capire come agire sin dalla nascita, senza incappare nell’abuso che potrebbe portare alla loro inefficacia proprio quando invece sarebbe necessario funzionassero. Gianluca Bianchetti conferma che gli antibiotici uccidono i batteri o ne impediscono la crescita: «Non hanno alcun effetto contro virus, funghi e parassiti responsabili di molte malattie: per questo è importantissimo che siano usati solo in caso di infezioni batteriche, sotto prescrizione del pediatra che ne avrà calcolato la dose precisa e il tempo esatto in cui andrà somministrata». Il nostro interlocutore spiega che già con l’uso dei primi antibiotici, negli anni Quaranta, ci si rese conto che alcuni batteri riuscivano a diventarne resistenti: «È

un fenomeno per cui i batteri diventano insensibili agli antibiotici che invece dovrebbero debellarli. I batteri hanno la capacità di adattarsi rapidamente al loro ambiente, quindi anche agli antibiotici, sviluppando una resistenza contro di essi». La conseguenza è la loro perdita di efficacia come medicamento: «Un uso scorretto o troppo frequente degli antibiotici favorisce o accelera questo processo di adattamento». Facendo riferimento all’Ufficio federale della sanità pubblica (Ufsp), Bianchetti osserva: «Ciò che mi ha colpito del gruppo di mille persone in Svizzera che ha risposto alle domande dell’Ufsp, è che l’85 per cento dei pazienti sa che l’antibiotico non è efficace per curare l’influenza o il raffreddore, ma solo il 50 per cento è cosciente che non funzionano contro i virus». D’altronde, anche per il pediatra non è semplice riuscire a valutare se il suo piccolo paziente è affetto da un’infezione batterica o virale, diagnosi a cui deve giungere prima di prescrivere la terapia adeguata: «E non sempre è facile perché nell’anamnesi e nella visita bisogna riuscire a comprendere il contesto (va all’asilo, dove i virus si trasmettono facilmente?), il racconto dei genitori e lo stato oggettivo del bambino che non sempre è in grado di esprimersi, secondo l’età».

Pure i genitori dovrebbero riuscire a comprendere quanto segue: «Quando l’infezione è di origine virale, il bambino reagisce bene all’antifebbrile, quando è batterica no. Ciò significa che se con l’antifebbrile la febbre scende e il bimbo ritorna a essere quello di sempre, riprende a giocare e non si dimostra apatico, possiamo aspettare tre giorni prima di recarci dal pediatra». Il pediatra rende però attenti sul fatto che: «Se siamo dinanzi a un’infezione batterica, la somministrazione dell’antifebbrile farà scendere la febbre solo per pochissimo tempo, il bambino è apatico e soporoso, e allora bisogna cercare l’origine dell’infezione. In questo caso è perciò consigliabile rivolgersi subito al proprio medico (anche in prima giornata se il bambino è molto piccolo) che effettuerà una visita approfondita controllando orecchie, gola, polmoni, urine e, secondo l’età, procedendo a uno striscio alla gola per la ricerca dello streptococco che verrà combattuto (a quel punto, sì) con una terapia antibiotica adeguata». Ecco il motivo per cui i genitori sono invitati a seguire la valutazione e le relative indicazioni del pediatra, dalla decisione della prescrizione alla durata della somministrazione: «L’inchiesta dell’Ufsp rivela che il 15 percento dei

genitori termina anzitempo la somministrazione del farmaco perché il bambino si sente meglio. In effetti, il piccolo paziente sta meglio già dopo tre-quattro dosi di antibiotico, non è più infettivo e può non avere più sintomi come febbre e mal di gola. Ma per essere certi di aver debellato completamente l’infezione batterica bisogna assolutamente terminare tutta la cura (questo vale per tutte le infezioni)». Il dottor Bianchetti ribadisce a suon di numeri quanto affermato dal farmacista cantonale: «Combattere i batteri resistenti è la sfida della medicina moderna; l’OMS parla di 700mila morti all’anno nel mondo a causa di batteri resistenti agli antibiotici, mentre la previsione al 2050, se non correremo ai ripari, è di 10 milioni». In Ticino ci viene detto che «siamo messi piuttosto bene», e in Svizzera: «Nel 2015 si sono contati 275 morti per infezioni batteriche resistenti agli antibiotici». Affidarsi al pediatra per la diagnosi e la relativa prescrizione antibiotica quando necessaria, essere genitori responsabili nella somministrazione corretta e fino in fondo dell’antibiotico, sono condizioni essenziali. «Se sapremo usare gli antibiotici correttamente, anche in futuro disporremo di ottimi alleati», conclude il pediatra.


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Ambiente e Benessere Un tipico muretto a secco. (Alessandro Focarile)

Informa Novità Progetto intergenerazionale al centro diurno di Faido Durante il mese di agosto i ragazzi dai 7 ai 14 anni della Leventina potranno frequentare il centro per 6 giornate di attività con giovani e anziani, dalle 9.00 alle 16.00. Iscrizioni obbligatorie. > Centro diurno socio-assistenziale di Faido Telefono 091 866 05 72 cdsa.faido@prosenectute.org Non c’è tempo da perdere. L’Alzheimer riguarda tutti. Il centro di competenza Alzheimer e altre forme di demenza è a disposizione con prestazioni di sostegno diverse rivolte a persone ammalate e ai propri famigliari. > Telefono 091 912 17 07 ombretta.moccetti@prosenectute.org

I vantaggi dei muretti a secco

Attività e prestazioni

Biodiversità Ingegnose opere d’arte che ospitano la vita

Consulenza e presa a carico in caso di maltrattamento I nostri professionisti accolgono le segnalazioni di sospetto maltrattamento di qualsiasi tipologia e gravità e accompagnano le persone coinvolte alla ricerca di soluzioni.

Alessandro Focarile

Vacanze Vi sono ancora posti liberi per i soggiorni di agosto e settembre a Gatteo, Bellaria, Gabicce, Pinarella e Laigueglia. Tempo libero I nostri centri diurni a Faido, Massagno, Lamone, Tenero, Bellinzona e Maggia sono aperti anche durante l’estate e propongono numerose attività per stare in compagnia, anche durante il pranzo. Residenze a misura di anziano Questa soluzione permette di vivere in un appartamento autonomo contando sui servizi di assistenza e supporto grazie alla presenza di un custode sociale. Possibilità di partecipare a momenti conviviali con gli altri inquilini. Volontariato Cerchiamo volontari per i diversi ambiti della nostra Fondazione, in particolare cerchiamo persone disponibili per l’accompagnamento a domicilio nel Bellinzonese.

Contatto Pro Senectute Ticino e Moesano, Lugano Via Vanoni 8/10, 6904 Lugano Telefono 091 912 17 17, info@prosenectute.org Le nostre sedi regionali si trovano anche a: Balerna, Bellinzona, Biasca e Muralto

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Cinquanta chili sulle spalle, due zoccoli sbilenchi, un passo falso. «Croci, croci ovunque, troppe croci» annotava angosciato Mauro Corona, che ricordava quanto fosse penoso e pericoloso il lavoro che attendeva lui e i suoi compaesani di Erto, ogni primavera, quando dovevano trasportare verso il monte fertile terra asportata da piogge e nevi fondenti sui terrazzamenti sostenuti verso valle, e faticosamente costruiti sopra il paese di erti pendii. Per cinque schei e per due secchi di patate. Schei per dire soldi. Durante la dominazione austro-ungarica della prima metà dell’Ottocento, infatti, nel Lombardo Veneto circolavano anche monetine di modesto valore facciale sulle quali era impressa la scritta in tedesco «Scheiben-Münze». La gente leggeva solo la prima parte della scritta pronunziata in italiano, per l’appunto: Schei. I muretti a secco e i terrazzamenti sono parte integrante di ogni paesaggio umanizzato in tutto il Mondo. E questo, dalle risaie pensili nelle Isole Filippine, lungo centinaia di chilometri sui pendii dell’Asia sud-orientale, fino alle mirabili costruzioni realizzate dagli Incas sulle Ande del Perù per irrigare le coltivazioni di granoturco, fagioli e patate. Dai vigneti delle Langhe in Piemonte a quelli delle Cinque Terre in Liguria a picco sul Mare Tirreno. Agli innumerevoli terrazzamenti che sono sostenuti da muretti a secco in tutte le regioni collinari e del pedemonte lungo l’arco meridionale delle Alpi, fino a 2000 metri nel Vallese e in Valle d’Aosta. I muretti a secco (tali perché non contengono sostanze cementificanti tra sasso e sasso) sono ingegnosi manufatti creati dall’uomo per impedire che i terreni sovrastanti ogni gradino possano franare verso il basso. Oppure sono in grado di sostenere canalizzazioni per addurre e distribuire l’acqua, onde rendere attuabile l’irrigazione anche in zone distanti parecchi chilometri nelle Alpi prendendo origine dai torrenti glaciali. Ricordiamo le bisses nel Cantone Vallese (vedi articolo di Romano Venziani, su «Azione» del 18 febbraio 2019), e i rus in Valle d’Aosta. Muretti a secco: mirabili e ingegnosi manufatti che l’uomo ha realizzato attraverso i

secoli in tutto il Mondo. Oltre un certo angolo di inclinazione del pendio, la massa di terreno e di detriti rocciosi di vario calibro scende scivolando verso il basso per gravità. Si tratta di una massa eterogenea per dimensioni, non trattenuta dagli alberi e dalla cotica erbosa. Altrettanto ineluttabilmente l’uomo ha avuto sempre la necessità vitale di scoprire e adottare razionali tecniche per conservare il suolo al suo posto, cioè in posizione il più possibile orizzontale. Nella storia che ha scandito la presenza e la sua successiva affermazione del nostro antenato sulla Terra, vi è stata la scoperta dell’agricoltura durante il Neolitico, un’epoca compresa tra 8mila e 10mila anni or sono, a partire dall’Asia fino alla regione mediterranea. Soprattutto ben conosciuti sono i primi insediamenti sedentari nel Medio Oriente (Mesopotamia), regione coperta di boschi e ricca di acque, dove ora c’è il deserto. Bagnata da due maestosi fiumi, Tigri ed Eufrate, questa zona vantava della terra fertile in virtù delle loro periodiche alluvioni. A seguito di ripetuti incendi voluti, però, il suolo si andò progressivamente scoprendo, generando la conseguente erosione che asportava la terra lungo i pendii verso il basso.

I muretti a secco hanno le stesse peculiarità fisiche e biologiche di un sistema carsico naturale Dopo innumerevoli tentativi, riflessioni, prove e insuccessi, il nostro uomo ormai agricoltore stanziale, metteva in opera le sue capacità tecniche che gli consentivano la costruzione di muretti a secco e di terrazzamenti. Tutte geniali realizzazioni di ingegneria per salvaguardare il territorio e arricchire le sue capacità di aumentare la produzione di cibo. A Gerico, nell’attuale Palestina, ricerche archeologiche hanno permesso di scoprire il più antico chicco di frumento finora conosciuto, datato 10mila anni or sono, con il metodo del radio carbonio (C14). I muretti a secco sono dei manufatti artificiali creati dall’uomo. Queste

costruzioni hanno tutte le caratteristiche per essere definite «Ambienti sotterranei superficiali», cioè un sistema di micro-grotte e di fessure nell’insieme del manufatto. I muretti a secco hanno le stesse peculiarità fisiche e biologiche di un sistema carsico naturale, un microclima particolare a causa delle temperature e dell’umidità che si rilevano nella parte iniziale delle grotte. Essi danno ricetto a una fauna e a una flora che richiamano una ricca ed eterogenea compagine, articolata in un complicato contesto alimentare: produttori e consumatori, predati e predatori, dal minuscolo insetto fino agli uccelli rapaci. Le fessure più o meno ampie ospitano piccole felci (Asplenium), chelidoni (l’erba per le verruche), semprevivi, e qualche arbusto che preannunzia l’installazione degli alberi, stadio finale della colonizzazione del muretto. In definitiva, il muretto ha tutte le caratteristiche di un mucchio di sassi di vario calibro artificialmente collocati. La catena alimentare ospitata ha inizio con la presenza di una comune formica (Lasius) che porta nel formicaio i semi del chelidonio, muniti di caruncola. È questa una piccola escrescenza carnosa, ricca di sostanze nutritive e vitaminiche particolarmente appetite da formiche non granivore, in quanto a loro interessa la caruncola e non il seme che viene in tal modo passivamente veicolato. Le lumache si cibano di vegetali, e sono predate da topolini e da voraci insetti coleotteri. Nelle fessure dei muretti nidificano di preferenza alcuni uccelli come l’upupa e il torcicollo. Le cui uova, insieme con i topolini, sono predate dalle vipere, molto frequenti in questi ammassi artificiali di sassi. A sua volta, la vipera è predata da un rapace diurno, il biancone, (Circaëtus gallicus), la cui alimentazione è costituita per il 90 per cento da vipere. Nel Cantone Vallese questo rapace molto selettivo è una specie protetta da 150 anni. Per finire, è molto probabile che un bell’esemplare di biancone faccia bella mostra (debitamente imbalsamato) in una dimora umana. È l’anello ultimo della lunga catena alimentare che popola a nostra insaputa un muretto a secco, la degna conclusione di un’avventura.


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Mari tropicali riemersi dai ghiacci

Ambiente e Benessere

Paleontologia Il ritiro del ghiacciaio grigionese del Ducan porta alla luce un fondale marino

di 241 milioni di anni or sono. Una nuova pubblicazione ne racconta la storia

Rudolf Stockar La Val da Stugl è una valle grigionese che, tra Bergün e Filisur, confluisce in quella dell’Albula. Attraversando gli sfasciumi di roccia che ne coprono i versanti, nel 1942 due soldati s’imbatterono in alcune ossa fossili emergenti da una lastra di calcare. Il frammento scheletrico lungo 12 cm finì all’Università di Zurigo, nelle mani del paleontologo Emil Kuhn. Il pensiero corse probabilmente a quella domenica d’autunno del 1927 quando, in Ticino, gli capitò di trovare qualcosa di simile. Allora ventiduenne, percorreva la Val Serrata del Monte San Giorgio. Erano le ossa di un piccolo rettile marino dell’ordine dei Pachipleurosauri. Nel 1959, Kuhn-Schnyder – così aveva modificato il cognome dopo il matrimonio – pubblicò la descrizione del reperto della Val da Stugl. Convinto che si trattasse di una specie nuova, la battezzò con il nome Pachypleurosaurus staubi, dedicandola al geologo Rudolf Staub e ai suoi studi sulla geologia dei Grigioni. La validità della specie fu però messa in dubbio dagli autori successivi poiché basata su un reperto incompleto, addirittura privo di cranio. Nel frattempo, un paio di nuovi fossili erano emersi altrettanto casualmente, sempre nel detrito di versante ma questa volta nell’adiacente Ducantal, accessibile dalla Val da Stugl attraverso il passaggio della Ducanfurgga (2667 m). Si trattava di un altro frammento dello stesso rettile e di un pesce fossile trovato nel 1949 da uno studente delle scuole medie di Coira. Kuhn lo aveva pubblicato attribuendolo alla specie Eoeugnathus megalepis, nota già dal 1939 sul Monte San Giorgio grazie agli studi dell’inglese James Brough. Per quanto occasionali e frammentari – proprio per le evidenti analogie con i ritrovamenti del Monte San Giorgio questi fossili delle montagne che, tra Bergün e Davos, si stagliano spesso oltre i 3000 m di quota –furono certo considerati con un occhio particolare dai paleontologi zurighesi. Provenivano tuttavia dal detrito dei versanti e ciò ne precludeva l’attribuzione a strati rocciosi di età precisa. Intorno al 1960, il rapido ritiro del Ghiacciaio del Ducan (3020 m slm) offrì tuttavia una nuova opportunità, giungendo a mettere in luce nuovi affioramenti che rivelarono l’origine di quei detriti e dei fossili in essi racchiusi. Il limite inferiore del ghiaccio, che ancora verso il 1850 scendeva nell’omonima valle fino a una quota di 2550 m, si era ormai ritirato di oltre 200 m. Dopo una serie di ricerche iniziate nel 1976, dal 1997 un team diretto da Heinz Furrer scava ogni estate all’estremità del ghiacciaio, quasi a inseguirne

Il Ghiacciaio del Ducan e gli affioramenti rocciosi al suo margine inferiore. (Heinz Furrer)

il ritiro, alla quota prima impensabile di 2740 m. Gli strati indagati appartengono alla Formazione di Prosanto, così denominata dal Piz Prosonch che dai suoi 2684 m domina Bergün. La loro età risale al Triassico Medio, più precisamente al Ladinico e in termini numerici a 241 milioni di anni or sono, come indicato da un’analisi radiometrica pubblicata nel 2008. Sono pertanto rocce coeve al Calcare di Meride del Monte San Giorgio, su cui da anni si concentra la ricerca del sito Unesco. Si sono formate in un bacino marino tropicale di una ventina di chilometri di diametro e una profondità di qualche decina di metri, simile a quello del Monte San Giorgio che doveva a quel tempo trovarsi a una distanza di 200 km. Entrambi s’inserivano in una grande piattaforma coperta da pochi metri d’acqua, una sorta di Bahamas del Triassico estesa al margine occidentale dell’Oceano Tetide e a tratti emersa in piccole isole. Separati in tal modo dal mare aperto, tali bacini possedevano fondali stagnanti che hanno permesso la conservazione eccezionale degli organismi che vi giungevano dopo la morte. Sono gli unici esempi del genere in Svizzera ma anche a livello mondiale i giacimenti di questo tipo si contano sulle dita delle mani. Nel suo libro Fische und Saurier aus dem Hochgebirge. Fossilien aus der mittleren Trias bei Davos, Heinz Furrer fornisce un resoconto di queste scoperte iniziate per caso 77 anni or sono. I fossili di trentatré specie di pesci, di sei rettili, di numerosi invertebrati (so-

Ricostruzione in vita di Foreyia maxkuhni. (Alain Bénéteau in Cavin et al. 2017)

prattutto molluschi e crostacei) e di alcune piante forniscono le tessere di un puzzle ecologico perduto nell’abisso del tempo e finora sommerso dal ghiaccio. Alcuni degli organismi appaiono identici a quelli custoditi dal Monte San Giorgio, altri sono invece unici, forse evoluti in modo endemico, come accade in ambienti isolati di questo tipo. Tra i ritrovamenti più bizzarri vi è sicuramente il pesce Foreyia maxkuhni, un celacanto affine all’attuale Latimeria ma che, nonostante la coda con il lobo centrale a ciuffo tradisca l’appartenenza a questo gruppo di pesci, sembra discostarsi dal loro modello corporeo conservativo, sviluppando una forma più tozza e una testa a cupola. In realtà l’organizzazione scheletrica è identica e l’aspetto bizzarro deriva da diversi rapporti dimensionali delle ossa. È forse un esempio di eterocronia: piccole modifiche genetiche pro-

ducono tassi di crescita diversi in alcune strutture aprendo la strada a nuove forme. Tra i rettili merita una menzione particolare il ritrovamento attribuito a Macrocnemus pubblicato per la prima volta già nel 2013. Si tratta di un rettile terrestre dagli arti posteriori notevolmente allungati rispetto agli anteriori; il suo nome significa «grande tibia», alludendo proprio a ciò. Di lunghezza fino a un metro, aveva aspetto simile a una lucertola ricordando, secondo alcuni, l’attuale basilisco sudamericano, capace di sollevarsi in posizione quasi eretta sulle zampe posteriori durante la corsa. Macrocnemus fu descritto per la prima volta nel 1930 dal Monte San Giorgio, ove alcuni fossili conservano addirittura lembi di pelle. Il ritrovamento della Ducantal appartiene però non solo a una specie diversa, dedi-

cata a Christian Obrist (lo scopritore del giacimento), ma racconta anche gli ultimi istanti drammatici della sua esistenza. Un intrigante snapshot dei rapporti tra gli abitanti del bacino marino. Si tratta, infatti, di un frammento di corpo lungo quaranta centimetri che, sebbene molto ben conservato, ne comprende solo la porzione posteriore: bacino, coda e zampe posteriori con le lunghissime tibie. Lo strato non conservava traccia del resto: niente tronco, zampe anteriori e tantomeno testa. I paleontologi vi leggono il risultato di una predazione, sviluppata con un unico morso a tranciare in due il corpo. Davanti agli occhi vediamo così passare i fotogrammi degli ultimi istanti di vita di un rettile che cercava cibo lungo la spiaggia, finendo accidentalmente in acqua per essere immediatamente attaccato da un predatore più grande. A tale proposito, il principale indiziato è un rettile marino appartenente ai Notosauri, lunghi alcuni metri e ai vertici della catena alimentare in quegli ambienti costieri. Un predatore che probabilmente ingoiò la porzione anteriore del Macrocnemus, mentre quella posteriore finì sul fondale conservandosi nell’archivio degli strati. E a proposito di rettili, che ne è stato di Pachypleurosaurus staubi, emerso in Val da Stugl nel 1942? Nuovi esemplari, lunghi fino a sessanta centimetri e questa volta completi, confermano la validità della specie (oggi assegnata al genere Neusticosaurus) eretta da KuhnSchnyder 60 anni or sono interpretando con grande intuizione i miseri indizi a disposizione. Una riabilitazione paleontologica per il rettile marino e un definitivo riconoscimento per chi ne porta la paternità scientifica. Da sapere

I fossili della Ducantal sono protetti e le ricerche possibili solo con autorizzazione del Cantone dei Grigioni e del Comune di Davos. Bibliografia

Il frammento di scheletro di Macrocnemus obristi, lungo 40 cm. (UZH)

Ricostruzione dell’attacco di un Macrocnemus obristi da parte di un Notosauro. (Beat Scheffold / UZH)

Heinz Furrer, Fische und Saurier aus dem Hochgebirge. Fossilien aus der mittleren Trias bei Davos, Neujahrsblatt der Naturforschenden Gesellschaft in Zürich NGZH, 221, 2019, 112 pp.


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Ambiente e Benessere

La vergogna di volare

Un sasso per volta

Viaggiatori d’Occidente Un ripensamento dei viaggi in aereo è sempre più necessario

Da qualche tempo la lingua svedese ha una nuova parola, «flygskam», «vergogna di volare», quando avvertiamo un senso di colpa pensando al danno ambientale causato dagli aerei. E subito sono sorte parole collegate come «tagskryt» («vantarsi di andare in treno») e «smygflyga» («volare in segreto»). Greta Thunberg per il suo intervento a Davos ha preferito viaggiare 32 ore in treno dalla Svezia. Ma non è sola. Due sue connazionali, Maja Rosen e Lotta Hammar, hanno convinto quasi 15mila persone a smettere di volare per tutto il 2019: «Tanti sono preoccupati ma non sanno da dove cominciare. Un anno senza voli può essere il modo migliore per cambiare abitudini» ha spiegato Lotta. Secondo una ricerca del WWF, il 23% degli svedesi ha rinunciato a viaggiare in aereo nell’ultimo anno per ragioni ambientali, preferendo il treno. In tutto il mondo cresce il numero di persone che ha scelto di non volare (o di volare meno). Tra loro molti studiosi del clima e dell’ambiente (e questo dovrebbe farci pensare) ma anche gente comune come Zoe Hatch, di Maidenhead, Regno Unito. Zoe ha smesso di volare nel 2015 e ha coinvolto nella scelta il marito e i due figli. Non è andata così male: «Quando voli il senso del viaggio scompare, mentre in treno avverti continuamente i cambiamenti nel mondo intorno a te». Sophie Voillot, una traduttrice di Montreal, ha volato un’ultima volta nel 2014 per organizzare il funerale del padre in Francia. Nella lista dei desideri aveva ancora viaggi negli Stati Uniti, India e Nepal, ma non pensa di aver perso qualcosa d’essenziale. Volare è un diritto? Potrebbe piuttosto essere considerato un privilegio di pochi pagato da tutti. Infatti, solo il 3% della popolazione mondiale ha volato almeno una volta nel corso del 2017; e sino ad ora meno del 20% dell’umanità è salita su un aereo. Nonostante queste modeste percentuali, gli aerei producono una parte importante (tra il 2 e il 5%, a seconda delle stime) dei gas serra responsabili dell’inquinamento globale, a comin-

ciare dall’anidride carbonica (CO2), oltretutto rilasciata direttamente nelle zone più elevate (e delicate) dell’atmosfera. Indicativamente un aereo consuma come quattromila auto ma trasporta solo qualche centinaio di passeggeri. Un volo di linea tra Londra e New York, andata e ritorno, produce due tonnellate di CO2 per passeggero (fonte: «BBC») e provoca lo scioglimento di dieci metri quadri di ghiaccio artico (fonte: «Huffington Post»). Senza dubbio le compagnie aeree potrebbero fare di più, ma sono state abituate male. Per troppo tempo sono state aiutate in ogni modo (anche con qualche problema di concorrenza rispetto per esempio al treno). Soprattutto nessuno ha chiesto loro di farsi carico della sostenibilità ambientale. Il risultato è stato la continua crescita dei voli, anche oltre la reale necessità. Ora qualcosa si muove. Il costo del carburante (la principale spesa) ha spinto diverse compagnie a rinnovare la flotta con aerei più efficienti e meno inquinanti. E finalmente la IATA (International Air Transport Association) si è impegnata per ridurre o compensare le emissioni degli aerei. L’accordo CORSIA (Carbon Offsetting and Reduction Scheme for International Aviation) sarà in vigore dal 2021, con l’obiettivo di mantenere le emissioni al livello attuale. È anche nel loro interesse: da qualche tempo le turbolenze sono più frequenti e più pericolose, l’aumento delle temperature riduce la portanza e rende più difficile il decollo da piste corte. I passeggeri possono fare un’offerta per compensare le emissioni legate al proprio viaggio, sostenendo la creazione di nuove foreste o la produzione di energie rinnovabili. Non male, ma meglio sarebbe se non fosse volontaria, ma inclusa nel prezzo del biglietto. Si capirebbe allora meglio come molte tariffe irrisorie in realtà scaricano dei costi nascosti sulla collettività e l’ambiente. Inoltre non tutte le forme di compensazione proposte sono efficaci e certificate da organismi indipendenti. Altri interventi vengono continuamente rimandati, come la cancellazione dei programmi fedeltà. Al momento oltre

letture per viaggiare

«Nella lunga storia della nostra civiltà, noi umani ci siamo sempre spostati a piedi. (…) In qualche caso asini e cavalli hanno aiutato, ma fino agli inizi del secolo scorso per spostarci nella geografia dei luoghi che ci stavano a cuore, per necessità o per svago, ci è toccato affrontare lunghe scarpinate. I mezzi di trasporto – automobili, treni, aerei – hanno sconvolto questo schema consolidato…».

Needpix.com

Claudio Visentin

Bussole Inviti a

130 compagnie hanno programmi di questo tipo, con premi (per esempio voli gratuiti) sulla base dei chilometri percorsi. Sono ovviamente un incentivo a viaggi non necessari. E tuttavia diverse organizzazioni – per esempio Greenpeace o Friends of the Earth – chiedono di più: far pagare alle compagnie aeree i costi reali della loro attività e tassare in misura crescente chi vola più spesso. Metà dei viaggi internazionali sono in aereo, metà di questi per turismo. Ha senso? Forse il volo dovrebbe tornare ad essere qualcosa di straordinario, giustificato da ragioni stringenti. Altrimenti meglio viaggiare con un altro mezzo di trasporto: il treno, per esempio. Un viaggio da Zurigo a Milano in aereo comporta l’emissione di oltre 100 kg di CO2 per passeggero rispetto a solo tre chilogrammi nel caso del treno. Su una tratta più lunga il rapporto migliora ma resta sempre nell’ordine di dieci a uno. L’aereo consuma molto cherosene nella fase di decollo. Per questo un volo di breve durata può inquinare il doppio rispetto a uno a lunga distanza. Sulla base di questi dati in Francia alcuni deputati hanno proposto di vietare i voli tra città vicine tra loro, quando è disponibile un rapido collegamento ferroviario. Se si tenesse conto del tempo perso in aeroporto per i controlli doganali e

di sicurezza, secondo un calcolo di «Le Monde», poco più della metà dei voli in Francia potrebbe essere sostituita dal treno. Per esempio il volo Lione-Marsiglia: 50mila passeggeri nel 2018 hanno causato inquinamento inutile. Non è difficile immaginare un’applicazione del modello francese alla Svizzera, grazie anche alla geografia e alla buona qualità del sistema ferroviario. Sarebbe anzi interessante sperimentare la possibilità di abolire completamente i numerosi voli interni per la prima volta nel mondo. In maggio il Consiglio federale si è pronunciato contro l’ipotesi ma la questione non è certo chiusa. Al contrario altri mezzi di trasporto apparentemente inquinanti potrebbero in realtà essere preferibili. Una macchina di costruzione recente con quattro persone a bordo è ineccepibile dal punto di vista ambientale. Anche gli autobus a lunga percorrenza possono essere un mezzo di trasporto ecologico, economico, flessibile e confortevole. Il cambiamento climatico pone una sfida ardua ma ha questo di buono: nessuna scelta contraddice le altre. Rinunce personali in favore di uno stile di vita più sobrio, progresso tecnologico, leggi più stringenti degli Stati e degli organismi internazionali, tutto va nella stessa direzione: quella giusta per l’ambiente.

Una riduzione anche radicale dei viaggi aerei non segnerà la fine del piacere di viaggiare, al contrario. Da tempo, infatti, i viaggiatori hanno riscoperto una mobilità più lenta e profonda, spesso camminando lungo sentieri storici. Tra loro il nostro collaboratore Natalino Russo. Uno dei cammini descritti in questo libro, il Sentiero degli Dei lungo la Costiera amalfitana, fu raccontato una prima volta proprio sulle pagine di «Azione» con la storia di Antonio e del suo mulo Limone. Dopo una breve introduzione sul camminare, Natalino riordina diverse esperienze personali dall’infanzia sino ad oggi. Ci sono le vie più note, la Via Francigena o il Cammino di Francesco, ma anche inattese rivelazioni, come Saepinum-Altilia, città romana sulle rotte di transumanza, uno dei siti archeologici più belli e meno conosciuti d’Italia. Oppure, in luoghi a me cari, la Via del sale che dalla medievale Varzi conduce sino a Genova attraverso la solitaria bellezza dell’Appennino. O ancora il Faro di Punta Palascìa, a Capo d’Otranto, nel Salento, là dove l’Adriatico e lo Ionio mescolano le loro acque. Da ogni viaggio, Natalino riporta un sasso, conservato poi in una scatola insieme ad altri provenienti dai più diversi angoli del mondo; ma la collezione non sarà mai completa, perché c’è sempre da qualche parte un altro sasso da cercare, un altro cammino da scoprire… / CV Bibliografia

Natalino Russo, L’Italia è un sentiero. Storie di cammini e di camminatori, Laterza, 2019, pp. 180, € 16,–. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 luglio 2019 • N. 28

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Ambiente e Benessere

Tarte Tatin di pesche

Migusto La ricetta della settimana

Dessert

migusto.migros.ch/it/ricette Per diventare membro di Migusto non ci sono tasse d’iscrizione. Chiunque può farne parte, a condizione che un membro della sua famiglia possieda una Carta Cumulus.

Ingredienti per 4 persone per una tortiera di circa 16 cm: 1 baccello di vaniglia · 100 g di zucchero · 0,8 dl d’acqua · 20 g di burro · 4 pesche. Pasta frolla: 150 g di farina bianca · 50 g di mandorle spellate macinate · 40 g di zucchero · 80 g di burro salato, congelato · 0,5 dl di latticello al naturale · zucchero per spianare la pasta.

1. Per la pasta frolla, mescolate la farina con le mandorle e lo zucchero. Grattugiate il burro con la grattugia per rösti sulla farina. Impastate rapidamente gli ingredienti con le mani in modo da ottenere un impasto friabile. Unite il latticello e impastate velocemente. Se necessario, aggiungete ancora un po’ di latticello. Formate una palla, schiacciatela leggermente e avvolgetela nella pellicola trasparente. Lasciate riposare in frigo la pasta per circa 30 minuti. 2. Per il caramello, incidete per il lungo il baccello di vaniglia senza dividerlo a metà. Versate lo zucchero con 2 cucchiai d’acqua in una padella. Scaldate la miscela finché lo zucchero non inizia a caramellare. Abbassate subito il fuoco al minimo. Non appena il caramello assume un colore ambrato, sollevate la padella dal fuoco. 3. Unite con attenzione il resto dell’acqua. 4. Incorporate il baccello di vaniglia. Inclinando più volte la padella, fate sobbollire il caramello per circa 2 minuti, finché assume una consistenza sciropposa. Unite il burro a pezzetti e fatelo sciogliere nel caramello. Eliminate il baccello di vaniglia. Distribuite il caramello sul fondo della tortiera. 5. Sciacquate le pesche e con un canovaccio sfregate la buccia pelosa. Tagliate i frutti a metà e snocciolateli. Disponete le pesche ben strette, con la superficie di taglio rivolta verso il basso, sul fondo della tortiera, lasciando un po’ di spazio lungo il bordo per la pasta. 6. Su poco zucchero spianate la pasta in una sfoglia di 3 millimetri di spessore e della grandezza della tortiera. Sollevate la sfoglia di pasta aiutandovi con il matterello e adagiatela sulle pesche. Ripiegate il bordo verso il basso e bucherellatela più volte con una forchetta. 7. Scaldate il forno ventilato a 220 °C. Cuocete la torta fredda al centro del forno per circa 15 minuti. Sfornatela e lasciatela riposare brevemente. Coprite la tortiera con un piatto da portata o per torte e sformate la torta capovolgendola. Fate attenzione a non ustionarvi con il caramello bollente. Servite la Tarte Tatin tiepida. Preparazione: circa 30 minuti + riposo di circa 30 minuti + cottura in forno di

circa 15 minuti.

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Ambiente e Benessere Alcuni scorci dell’«altra» Marrakech; sul sito www.azione. ch si trova una più ampia galleria fotografica.

Fuoco e fiamme La nutrizionista Laura Botticelli

La città dalle due facce

Reportage Il Ramadan a Marrakech, un mese di digiuno diurno e astensione sessuale

Fredy Franzoni, testo e foto È affascinante la Marrakech dell’immensa piazza Jamenaa el-Flaa con i suoi saltimbanchi a formare crocchi di curiosi tra ritmi berberi e gli incantatori di serpenti. Ma è altrettanto capace di lasciare a bocca aperta anche la periferia. E non occorre andare lontano. Bastano alcune centinaia di metri al di là della zona turistica. Viuzze che paiono essere tracciate da fili di lana impazziti. Piccoli bugigattoli, carretti, una semplice tela messa sul selciato diventano negozi di quartiere. C’è di tutto, mancano solo gli oggetti per turisti, sempre decantati più in là come autentici prodotti artigianali. È bello perdersi in questo mare di umanità. Camminare senza meta, lasciarsi guidare dal solo istinto, dalla semplice curiosità. Un vagare ricco di incontri. Qui nessuno vuole venderti qualcosa. Siamo a maggio, e per tutto il mese sarà rispettato il Ramadan, un lungo periodo annuale di astensione sessuale e digiuno diurno. Nel piccolissimo negozio di spezie, il barbuto venditore infilato nell’immancabile camicione sembra non cu-

rarsi di te. Forse gli pare strano che un turista si sia fermato da lui. Bastano un sorriso e due parole in un misto di francese e inglese e ci si incontra dopo la domanda di sempre «Da dove vieni?». Gli argomenti si ripetono: quanto è duro rispettare il Ramadan; la meteorologia, ma senza grandi possibilità di variazioni, il sole sembra splendere sempre. Non c’è nessuna voglia di trattare il prezzo, sembrerebbe scortese, anche perché si tratta di una spesa di pochi franchi. Più in là, invece, nel cuore della Marrakech turistica, nel suk attraversato in continuazione da migliaia di stranieri, negoziare i prezzi è d’obbligo, anche per una sola bottiglietta d’acqua minerale. Una modalità di fare gli acquisti che irrita molti turisti. Non manca molto al tramonto. Al richiamo della moschea si potrà mangiare, dopo una lunga e assolata giornata di digiuno. Le viuzze diventano un formicolio di donne, molte velate, altre a capo scoperto. In mano borse gonfie di cibi: pagnotte, uova, datteri, dolci, frutta, verdure, bottiglie d’acqua. Si sente una frenesia nell’aria, dopo una giornata in cui tutto sembrava procedere al rallentatore. Aumenta il traffico delle

motorette che sfrecciano tra la gente. Un carretto trainato da un cavallo avanza a fatica. Si spostano i banchetti con le merci esposte per lasciarlo passare. Si crea un ingorgo. Nessuno protesta. Si aspetta, semplicemente. Come non pensare alle colonne sulle nostre strade e alla reazione di insofferenza di noi automobilisti. Non è facile tornare nel quartiere

turistico. C’è quasi fastidio incrociando i primi stranieri. Terrazze dei ristoranti bene con gente che sorseggia una bibita fresca, chi già si gusta la tajine o un panino. Ai tavoli dei ristoranti popolari e attorno ai banchetti dei rivenditori ambulanti tutto è pronto per la cena. Ma mancano ancora dieci minuti alla preghiera e tutti aspettano. Incrociamo un’avvenente ragazza bionda, vestitino di seta rosa, cortissimo e lungo la parte posteriore un vertiginoso spacco che nasconde poco della sua schiena e altro ancora. Figura per lo meno strana in una realtà fatta soprattutto di donne le cui fattezze del corpo possono essere solamente indovinate. Mondi che si confrontano, o forse semplicemente stanno imparando a ignorarsi. La moschea della Koutoubia è la più grande di Marrakech. Il suo minareto è uno dei pochi punti di riferimento per chi si perde in una città senza alture. È già calata la notte. Migliaia di fedeli riempiono le strade. Tutti con il tappetino della preghiera sotto il braccio. Con grande ordine si allineano sul grande spiazzo. Donne da una parte, uomini dall’altra. Una voce possente, ricama le parole del Corano con la leggerezza della calligrafia araba. Pare una supplica, un lamento; ma anche un canto di gioia, di riconoscenza. Difficile capire per chi sta dall’altra parte delle transenne a fotografare le ondate di schiene che all’unisono si piegano, si stendono, si rialzano. Rimarranno verosimilmente solo immagini da esibire una volta tornati a casa.

È inevitabile, con l’arrivo del caldo, che alle nostre latitudini si avverta un forte e goloso richiamo all’utilizzo della griglia… bene, ma attenzione alla cottura delle vostre carni! Premetto che non voglio seminare il panico e men che meno apparire esagerata. Quello che vi dirò, oggi, concerne evidenze scientifiche riconosciute, ma ancora lontane da quelle che potrebbero suggerire chiare linee guida. Ve ne parlo quindi col solito invito a mettere le informazioni che volentieri condivido con voi in un cassettino e di utilizzarle al bisogno. Quando la carne di manzo, maiale, pollame e pure di pesce viene cotta utilizzando metodi ad alta temperatura, come la griglia direttamente sulla fiamma aperta, si formano ammine eterocicliche (HCA) e idrocarburi policiclici aromatici (IPA). Gli HCA si formano quando gli amminoacidi (gli elementi costitutivi delle proteine), gli zuccheri e la creatina o la creatinina (sostanze presenti nei muscoli) reagiscono a temperature elevate. Gli IPA si formano invece quando grasso e succhi di carne grigliati direttamente su una superficie riscaldata o fuoco aperto gocciolano sulla superficie o sul fuoco, provocando fiamme e fumo. Il fumo contiene IPA che aderiscono alla superficie della carne. Vi dico tutto ciò perché la formazione di queste sostanze, purtroppo, «può» essere negativa per la nostra salute. Esperimenti di laboratorio mostrano infatti che HCA e IPA sono potenzialmente mutageni, cioè possono provocare cambiamenti nel DNA che possono aumentare il rischio di cancro. Il fatto è che questa capacità di danneggiare il DNA avviene solo dopo che queste sostanze sono state metabolizzate da specifici enzimi nel corpo, un processo chiamato «bioattivazione». Gli studi hanno anche scoperto che l’attività di questi enzimi può differire tra le persone, per questo non esistono ancora soglie «minime» di esposizione a queste sostanze o indicazioni in merito per la prevenzione al cancro. Col principio: «meglio prevenire che curare» trovo quindi importante suggerirvi alcuni metodi per diminuire la produzione di queste sostanze. La prima è quella di evitare l’esposizione diretta della carne alle fiamme libere o su superfici metalliche calde. Sono pure sconsigliati i tempi di cottura prolungati; per limitarli, prima di mettere la carne sulla griglia la si può bollire o stufare o scaldare nel microonde. È importante anche girare continuamente la carne, rimuovere le parti carbonizzate e astenersi dall’utilizzare il sugo ottenuto dallo sgocciolamento della carne. Spazio anche alle marinature e alle spezie prima della cottura: olio d’oliva, aglio, rosmarino e salvia hanno proprietà antiossidanti che possono aiutare a bloccare la formazione di HCA e IPA. Inoltre è importante accompagnare sempre le nostre grigliate con tanta verdura fresca in insalata come contorno e una bella macedonia di frutta come dessert. Da bere consiglio pure di sorseggiare un bicchierino di vino e tanto tè verde. Tutti questi alimenti possono aiutare il nostro corpo a eliminare i composti cancerogeni perché ricchi di polifenoli. Come forse già detto altrove, ma è bene ricordarlo, il consiglio finale che vi do è, in generale (che si tratti di griglia o altro metodo di cottura) di non consumare carne rossa che una volta alla settimana. È tutto. Che il clima sia piacevolmente favorevole alle vostre gustose grigliate! Informazioni

Avete domande su alimentazione e nutrizione? Laura Botticelli, dietista ASDD, vi risponderà. Scrivete a lanutrizionista@azione.ch Le precedenti puntate si trovano sul sito: www.azione.ch


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Ambiente e Benessere

Ladri di emozioni

Sport Chi ruba e viene sorpreso, paga. Perché non dovrebbero fare altrettanto anche coloro

che rubano momenti emozionanti?

otto anni più tardi, Froome ha visto il suo nome apparire in classifica accanto al numero 1. Non escludo che se ne faccia un baffo di questo successo ottenuto a posteriori, un campione come lui, che in seguito ha vinto quattro Tour de France, un Giro d’Italia e una Vuelta di Spagna. Comunque giustizia è fatta. Una giustizia che invece non è riuscito a ripristinare il Tour de France. I sette trionfi consecutivi di Lance Armstrong, grande guru del doping di squadra, sono stati semplicemente cancellati, spazzati via dalla classifica e nessuno di coloro che si erano piazzati al secondo posto, si è visto indennizzare per il danno subito. Perché chi aveva conquistato il posto d’onore, tra il 1999 ed il 2005, era stato a sua volta coinvolto in storie di doping, e i terzi classificati non erano certo dei verginelli in materia. Morale: per sette anni, sugli Champs Elysées, al termine della Grande Boucle, sono state dispensate emozioni fasulle, «taroccate», rubate a chi, gareggiando senza barare, avrebbe potuto viverle pienamente. Sorge spontaneo chiedersi se, oltre ad essere stralciato dalle classifiche, chi truffa nelle competizioni sportive non debba passare alla cassa per pagare una sorta di IPSDE, Indennizzo Per Sottrazione Di Emozioni. E sarebbe ancora poco. Chi viene gabbato, oltre a perdere attimi imperdibili e spesso irripetibili, ne esce penalizzato anche dal punto di vista della sua forza contrattuale poiché, per quanto banale possa sembrare, un Campione olimpico tira più di un Vice Campione.

Giancarlo Dionisio È il 27 febbraio del 2014. Nella Medal Plaza dei Giochi Olimpici di Sochi, gli speaker ufficiali, in tre lingue – russo, inglese e francese – chiamano sul gradino più alto del podio gli svizzeri Alex Baumann e Beat Hefti, i dominatori della gara di bob a due. Le Miss, in abiti tradizionali, distribuiscono baci e fiori, i notabili dello sport dispensano strette di mano, e soprattutto mettono la medaglia d’oro al collo dei nostri due eroi. Sul pennone più alto sale la bandiera rossocrociata, nell’aria risuonano le note del salmo svizzero. Nello stadio migliaia di fan cantano: «Quando bionda aurora – Trittst im Morgenrot daher – Sur nos monts, quand le soleil – En l’aurora la damaun…». Sulle guance dei due omoni, commossi come due bimbi nel giorno della prima Comunione, scendono alcune lacrimucce. Alex e Beat faticano a trattenere i singhiozzi. L’emozione, sul palco, nella piazza e nelle case, si taglia a fette grandi come un panettone da dieci chili. Fantastico! Siamo fieri! Siamo con voi! Viva la Svizzera! Invece no! Quel giorno, sul gradino più alto del podio ci salirono Alexander Zubkov e Alexey Voevoda, e le note che si diffusero, furono quelle dell’inno russo, le stesse dell’ex trionfale inno sovietico. Beat e Alex si portarono a casa la medaglia d’argento. Punto. Fine della storia. C’è stata tuttavia un’importante appendice. La nazionale russa, ai Giochi Olimpici di Sochi fu travolta da un mega scandalo doping. Molti atleti furono in seguito

Il momento della premiazione dei Giochi Olimpici di Sochi, nel 2014, vede gli svizzeri sul secondo gradino del podio. (Tim Hipps)

squalificati. Nel frattempo Zubkov era stato persino eletto alla presidenza delle Federazione Russa di Bob e Skeleton. Ma la giustizia continuava il suo corso. Senza guardare in faccia a nessuno. Per oltre cinque anni. Dal canto loro Hefti e Baumann avevano proseguito la loro onestissima carriera fino allo scorso anno. Solo pochi giorni fa sono stati risarciti del torto. Nella piccola località appenzellese di Schwellbrunn, Swiss Olympic ha finalmente consegnato loro la me-

ritatissima medaglia d’oro. Si è trattato di una cerimonia semplice, fra amici, parenti e qualche fan. Le emozioni, le lacrime, i singhiozzi, oramai erano già stati rubati. Una storia analoga, l’ha vissuta anche Christopher Froome. Nel 2011, il fenomenale britannico, allora 26enne ancora a digiuno di successi importanti, era giunto secondo nella classifica finale della Vuelta di Spagna, nonostante avesse dovuto fungere da gregario per il capitano del Team Sky,

Bradley Wiggins. Quella corsa la vinse Juan Josè Cobo, per soli 13’’ su Froome. A gran parte degli osservatori, quel podio non quadrava. Come era possibile che il corridore spagnolo, che fino ad allora si era accontentato di pochi traguardi parziali, riuscisse ad addomesticare fino all’ultimo metro uno dei tre Grandi Giri? Ma, del resto, con i sospetti, non si va lontano. Tuttavia, col tempo, i sospetti si sono trasformati in prove, le prove in verdetti. Cobo è stato squalificato, e,

Giochi

Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku

Cruciverba Il serpente nella foto è il più veloce del mondo e uno dei più velenosi. Scopri come si chiama, dove vive e come viene soprannominato a causa del suo potente veleno, leggendo a soluzione ultimata nelle caselle evidenziate. (Frase: 5, 4 – 6 – 5, 5)

ORIZZONTALI 1. Una cascata… tra le più alte d’Europa 7. Scorrono senza far rumore... 8. Isola dell’Adriatico 9. Le iniziali dell’attore Accornero 10. L’Ultima... opera di Leonardo da Vinci 11. L’attore di nome Raz 12. Capitale europea 15. Romano... a Roma 16. Ghiaccio inglese 17. Costellazione dell’emisfero australe 19. Le iniziali dell’attore Accorsi 20. Un albero nel frutteto 21. Le iniziali di Tolstoj 23. Ingrandisce a vista d’occhio... 24. Rende stretti i vestiti 25. Si scontava lontano 26. Era dolce e nuovo... in poesia

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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch

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I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.

VERTICALI 1. In mezzo ai rovi 2. Corrisponde a 100 metri quadrati 3. Una nota 4. Stato degli USA 5. Un’agile saltatrice 6. Legno pregiato 10. Pallido, bianco 11. Un sapore 12. Liti con percosse 13. Ha la pelle anserina 14. Pronome personale 15. Sfoggio di ricchezza 17. Indispensabili se di prima necessità 18. Le valicò Annibale 20. Di carota quello di Renard 22. Il signor dei tali 23. Avverbio di luogo 24. Congiunzione latina Partecipazione online: inserire la

soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-

Sudoku Soluzione:

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Scoprire i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.

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Soluzione della settimana precedente

BUONA NOTTE – Mentre dormiamo possiamo fare scatti involontari, si chiamano: MIOCLONIE E SONO SUSSULTI IPNICI.

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C O L O R I D E R O V E N E I S I L O S N E L A T T I P R N N O I C A R R I S

luzione, corredata da nome, cognome, indirizzo, email del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 luglio 2019 • N. 28

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Politica e Economia Il caso della Sea Watch 3 Riottiene la libertà la comandante della nave carica di profughi approdata a Lampedusa

Trump in Estremo Oriente È stata la trasferta asiatica di tutte le pacificazioni. Donald Trump a Osaka in Giappone ha usato il G20 per allentare la tensione commerciale con la Cina di Xi Jinping. E sul confine tra le due Coree ha ripreso i contatti con Kim Jong-un pagina 22

Accordo storico L’Unione europea e i paesi del Mercosur (Brasile, Argentina, Uruguay e Paraguay) hanno raggiunto un’intesa commerciale dopo 20 anni di trattative

Nuova riforma dell’AVS Nuovo progetto del Consiglio federale per contenere le spese dell’assicurazione vecchiaia, fra le novità un pensionamento a 65 anni per le donne

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I volti nuovi dell’Europa

Nomine europee Più che la vittoria di un presunto asse franco-tedesco, la scelta di Ursula von der Leyen

alla Commissione europea e Christine Lagarde alla Bce testimonia il caos in cui versano le istituzioni comunitarie Lucio Caracciolo La peggiore ministra della Difesa della storia tedesca, Ursula von der Leyen, è stata designata dai leader europei alla guida della Commissione. Premesso che non sarà facile ottenere il placet del Parlamento Europeo – al cui vertice un italiano (David Sassoli, nella foto) subentra a un suo connazionale (Antonio Tajani) – quella che è stata segnalata dai media come una vittoria della Germania a ben guardare non appare tale. Alla scelta della von der Leyen si è arrivati dopo il classico negoziato prolungato fra i principali leader europei, in specie tra Merkel e Macron. Si tratta evidentemente di una candidatura di compromesso, il cui basso profilo segnala per l’ennesima volta quanto scarso sia il rilievo di chi presiede il cosiddetto «governo europeo».

Non solo, all’interno stesso della maggioranza di governo a Berlino questa scelta è stata oggetto di disputa. I socialdemocratici, alla ricerca di una scusa per abbandonare prima o poi un’alleanza con i cristiano-democratici che li sta avviando alla scomparsa, hanno pubblicamente criticato l’opzione von der Leyen. Ciò che ha costretto la cancelliera Merkel, che della sua responsabile per la Difesa non ha mai avuto un’enorme stima, ad astenersi in sede di Consiglio europeo sulla candidata tedesca. Bel paradosso. Destinato forse ad accelerare ulteriormente il tramonto della cancelliera, che rischia di rivelarsi troppo lungo per le necessità della Germania. Per quanto riguarda le cariche brussellesi, va anche segnalato l’avvento di uno spagnolo alla responsabilità della «politica estera» europea,

Josep Borrell. Borrell rappresenta un paese che non riconosce il Kosovo. Siccome il negoziato di questo paese con la Serbia è probabilmente oggi il dossier più caldo su cui l’Alto Rappresentante per la politica estera europea è chiamato a intervenire, sarà interessante vedere se lo spagnolo farà l’europeo o viceversa. Anche perché nella querelle serbo-kosovara si legge, nemmeno troppo fra le righe, la ben più corposa contrapposizione tra Madrid e Barcellona. Borrell starà bene attento a non aprire «involontariamente» sul fronte balcanico un precedente utile ai riottosi catalani. Contemporaneamente, la signora Christine Lagarde è stata promossa alla successione di Mario Draghi quale presidente della Banca Centrale Europea. Scelta inaspettata, interessante sotto diversi profili. Il più ov-

vio e rilevante consiste nella sconfitta della candidatura di Jens Weidmann, il capo della Bundesbank, che nelle valutazioni dominanti avrebbe significato una svolta verso l’austerità dopo l’èra Draghi. Evidentemente la Germania non poteva assumersi la responsabilità di una simile virata in una fase di sua debolezza. Tutti gli osservatori considerano scontato che, almeno per i primi mesi del suo prossimo mandato, Christine Lagarde resterà nelle coordinate tracciate d Draghi: tassi di interesse sempre più bassi e quantitative easing più o meno mascherato. La signora Lagarde brilla per il fatto di non avere una formazione da economista. La sua provenienza scientifica è nell’ambito del diritto. Il suo profilo politico, invece, segnala un carattere forte, con una vocazione per le battute

di cui la più celebre è forse quella per cui «se Lehman Brothers fosse stato Lehman Sisters non sarebbe fallito». Più concretamente, la signora Lagarde proviene dall’entourage dell’ex presidente francese Nicholas Sarkozy, che proprio in questi giorni è stato a un passo dal carcere. E non è detto che in futuro non possa subire l’onta di un processo senza precedenti per un capo dello Stato francese. Già questo, oltre ad essere stata sfiorata da un altro caso giudiziario, quello relativo a Bernard Tapie, espone la signora Lagarde a qualche dubbio d’immagine. Conclusione: più che una vittoria del presunto asse franco-tedesco, il provvisorio quadro delle nomine in ambito europeo testimonia della confusione in cui versano le istituzioni comunitarie, e segnalano il rischio che questo caos possa accentuarsi.


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Politica e Economia

Carola, capitana coraggiosa

Il caso Sea Watch Isolata dal suo contesto giuridico, la scena nel porto di Lampedusa con l’arresto

della comandante, riassume il clima tesissimo che la questione migratoria ha generato in Italia e in Europa

Alfredo Venturi L’avevano arrestata subito dopo il contestato approdo, ma dopo tre giorni la giudice per le indagini preliminari Alessandra Vella le ha restituito la libertà. Carola Rackete, comandante della Sea-Watch 3, è stata alleggerita delle due accuse che ne avevano determinato l’arresto: resistenza a nave da guerra e resistenza a pubblico ufficiale. Rimane l’imputazione per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. È dunque prevalsa nella decisione della giudice una prassi consolidata, secondo la quale in caso di emergenza il salvataggio ha priorità assoluta. L’episodio della Sea-Watch, che batte bandiera olandese ma appartiene a una organizzazione non governativa tedesca che la impegna lungo le rotte fra Libia e Sicilia, chiama in causa proprio quella prassi. E anche l’eterno dibattito sui diritti umani, nello specifico quella specie di diritto consuetudinario internazionale che è la cosiddetta «legge del mare»: prima di tutto salvare chi è in pericolo. Con quaranta profughi a bordo, la Sea-Watch ha ignorato l’ordine di tenersi al largo ed è entrata nel porto di Lampedusa. La comandante è stata arrestata per avere violato la legge forzando il blocco. Si tratta di una norma voluta da Matteo Salvini e contenuta nel decreto sicurezza bis, che autorizza il governo a impedire la navigazione nelle acque territoriali italiane. Carola dichiara di avere agito, ben conoscendo il rischio che correva, perché la situazione a bordo era critica e alcuni fra i profughi, stremati da settimane di vagabondaggio in mare, erano tentati dal suicidio. Stato di necessità dunque, quello stesso di cui chi l’accusa nega l’esistenza. Dopo la decisione della giudice, secondo cui il decreto sicurezza bis non può applicarsi ai salvataggi, un irritatissimo Salvini, ignorando il principio della separazione dei poteri, parla di sentenza «vergognosa e politica» e della necessità di riformare la giustizia. Inoltre annuncia l’espulsione immediata. Ma immediata non potrà essere: Carola è libera, ma essendo tuttora indagata l’attende l’avvio del procedimento. Una causa di forza maggiore ha dunque indotto la comandante al gesto

Carola Rackete, la comandante di Sea-Watch 3, al momento dell’arresto. (AFP)

disperato e coraggioso cui è seguito il rapido sbarco degli ospiti che saranno distribuiti fra Germania, Francia, Portogallo, Finlandia e Lussemburgo, e l’altrettanto rapido arresto della «capitana». Un’altra colpa le viene addebitata, quella di aver tentato, durante la manovra di attracco, di speronare una motovedetta della Guardia di Finanza che si era messa di traverso. Lei ammette di avere forzato la situazione ignorando il divieto, ma respinge quest’altra accusa: non voleva investire l’imbarcazione, è stato un errore di manovra del quale si scusa. Anche su questo punto la giudice per le indagini preliminari le ha dato ragione. Di diverso avviso i finanzieri: veniva dritto verso di noi, per poco non ci ha schiacciati contro la banchina. Isolata dal suo contesto giuridico, quella scena nel porto di Lampedusa riassume con plastica efficacia il clima tesissimo che la questione migratoria ha generato in Italia e nell’intera Europa. Quando Carola è comparsa, impassibile, fra gli agenti che l’hanno fatta scendere dalla nave per portarla via in auto, da alcune decine di persone radunate sulla banchina sono partiti segnali decisamente contrastanti. Da una parte un applauso di stima e di incoraggiamento, dall’altra un coro di ingiurie. Come regolarmente accade quando si tratta

di una donna, la contestazione ha imboccato i binari del più becero sessismo. Accanto a chi si limitava a contestarle un comportamento ritenuto inopportuno c’era chi le augurava niente meno che lo stupro. Insulti di analoga volgarità hanno salutato la decisione della giudice Vella. Dai testimoni oculari dello sbarco, il compito di impersonare questi opposti sentimenti è poi passato alle reti sociali, letteralmente intasandole. Anche qui una netta spaccatura: da una parte chi plaude al coraggio della ragazza tedesca, dall’altra i soliti haters che si lasciano andare alle ingiurie più violente. Senza che nessuno, fra i dirigenti che chiedono una punizione esemplare, si senta in dovere di prendere le distanze da quegli eccessi. Ormai l’eccesso viene tollerato se non incoraggiato: la segretaria di uno dei partiti che appoggiano in materia di migrazioni la linea dura di Salvini, Giorgia Meloni dei Fratelli d’Italia, fin dalla vigilia dello sbarco aveva suggerito non solo di riportare i profughi al luogo di partenza, ma anche di affondare la nave. La faccenda è resa paradossale dal fatto che i profughi della Sea-Watch non sono certo i soli a sbarcare in questi giorni sulle coste italiane. Nonostante le sfuriate di Salvini si registra uno stil-

licidio continuo di sbarchi alla spicciolata: seicento i nuovi arrivati nell’ultimo mese. Mentre la nave di Carola attraccava a Lampedusa, una piccola imbarcazione scaricava dodici tunisini poco distante dal porto. Qualche ora più tardi una motovedetta della Guardia costiera depositava sul territorio nazionale una cinquantina di persone. Ma di questo si preferisce non parlare, mentre si fa un caso della Sea-Watch perché rappresenta un capitolo della vicenda in corso da mesi, la guerra privata del vicepresidente del consiglio contro le organizzazioni non governative. Non sono forse le ong, impegnate a raccattare naufraghi al largo della Libia per portarli in Italia, fiancheggiatrici dei mercanti di uomini? Se vogliono mettere in salvo quella gente, perché non se la portano a casa loro, per esempio in Olanda visto che la nave è registrata lassù, o in Germania, patria di Carola e del suo equipaggio? Così si risponde all’ondata di critiche piovuta sul governo italiano. Alle proteste di Parigi, che giudica «inaccettabile» la linea di Salvini, quest’ultimo replica: ma perché non aprite alle ong il porto di Marsiglia? La polemica è alimentata dal fatto che in materia di migranti nessuno in Europa ha la coscienza a posto. A Berlino l’ong Sea-Watch, armatrice

della nave che porta il suo nome, critica Roma ma anche il governo federale, al quale fra l’altro chiede che certi battelli destinati all’Arabia saudita vengano dirottati verso i salvataggi nel Mediterraneo. L’Olanda dichiara che non aveva alcun obbligo di accogliere la nave con il suo carico umano, ma critica Carola per avere bussato alle porte dell’Italia: non poteva portare i naufraghi in Tunisia? Mentre l’episodio della Sea-Watch accentua l’isolamento dell’Italia in Europa, proprio nel momento in cui è in discussione la fedeltà di Roma agli impegni di stabilità finanziaria, Salvini insiste nella sua crociata contro l’«invasione». In quella che è ormai una campagna elettorale permanente, con la prospettiva di un voto anticipato per il rinnovo del parlamento, questo continua a essere un elemento centrale del confronto. Incurante dei moniti di papa Francesco (lui che pure esibendo crocifissi e rosari si fa paladino dell’«Europa cristiana»), e dei richiami al dialogo e alla tolleranza del presidente della repubblica Sergio Mattarella, il ministro continua a battere su quel chiodo. Secondo i sondaggi la scelta funziona: la Lega è ormai stabilmente il partito di oltre un terzo degli italiani. Ora ci si chiede dove una simile politica andrà a parare. Nessuno s’illude che le gestioni muscolari possano interrompere il fenomeno migratorio. È vero che la strategia dei porti più o meno chiusi, e dell’intesa con la Guardia costiera libica, ha ridimensionato i flussi (riducendo di conseguenza il numero assoluto delle vittime dei naufragi): ma molti in Italia e altrove si chiedono che senso abbia affidare il salvataggio a chi fa ripiombare quei derelitti nell’inferno della Libia, un paese straziato dalla guerra civile dove mancano le risorse per gestire i profughi ma non certo i maltrattamenti, le umiliazioni, le torture, e ora persino i missili che fanno strage nei centri di detenzione Questo aspetto del problema sta emergendo anche a livello ufficiale: la Libia non è un porto sicuro, ha detto qualche giorno fa il ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi. Per la prima volta risuona nel governo italiano una voce che prende le distanze dallo scaricabarile fra Roma e Tripoli. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia

La diplomazia dei colpi di scena

Bilancio G20 Schiarita fra Cina e Stati Uniti che si limitano a non passare alla fase successiva dell’escalation sui dazi.

Tregua anche fra il leader nordcoreano Kim e Trump, d’accordo di riprendere i negoziati sulla denuclearizzazione

Federico Rampini È stata la trasferta asiatica di tutte le pacificazioni. Donald Trump a Osaka in Giappone ha usato il G20 per allentare la tensione commerciale con la Cina di Xi Jinping. Sul confine tra le due Coree ha ripreso i contatti con Kim Jong-un, promettendo una ripresa dei negoziati. Chi lo aveva descritto come un falco, dove sbagliava? Che cosa dovremmo capire, «estrapolando» da questa visita in Estremo Oriente, sulla politica estera americana da qui alle elezioni? L’incontro più atteso di tutto il G20, il summit bilaterale fra Trump e Xi, si è concluso con una fumata bianca. Ma di quale accordo si tratta? «Riprendiamo i negoziati – ha spiegato Trump – e per adesso non ci saranno i dazi aggiuntivi su 350 miliardi di dollari d’importazioni dalla Cina. Loro cominciano subito ad aumentare gli acquisti di nostri prodotti agricoli. I benefici per i nostri agricoltori saranno formidabili e quasi da subito». Fin qui lo scambio di favori è limitato: gli Stati Uniti infatti non aboliscono quei dazi già in vigore, che colpiscono con aliquote dal 10% al 25% un ventaglio di prodotti made in China del valore di 200 miliardi annui. Si limitano a non passare alla fase successiva dell’escalation, che avrebbe allargato i dazi fino a tassare la quasi totalità delle importazioni dalla Cina. In quanto a Pechino, si limiterebbe per il momento a riaprire le porte alle importazioni di soya, cereali, dal «granaio» del Midwest.

Trump vi aggiunge una schiarita parziale su un altro dossier delicato, quello del gigante cinese delle telecom Huawei. Su quest’azienda, fiore all’occhiello dell’alta tecnologia cinese, si sono abbattute nei mesi scorsi due forme di embargo. Da una parte gli Stati Uniti non vogliono acquistare infrastrutture Huawei per la telefonia di quinta generazione (5G, il digitale iperveloce che spiana la strada al cosiddetto «Internet delle cose»); e premono su tutti gli alleati dall’Europa al Giappone all’Australia perché facciano lo stesso, onde non aprire varchi allo spionaggio di Pechino. D’altro lato, più di recente, Washington ha vietato alle aziende americane che producono semiconduttori di venderli a Huawei, mettendo in difficoltà l’azienda cinese che continua a usare tanta componentistica americana nei suoi smartphone. C’è poi la vicenda della direttrice finanziaria di Huawei arrestata in Canada su richiesta degli americani (l’accusa è di violazione delle sanzioni contro l’Iran), la quale rimane agli arresti domiciliari mentre procede l’iter per la sua estradizione. Di tutta la partita Huawei, Trump ha deciso di mollare sul secondo embargo, anche per assecondare le pressioni della Silicon Valley dove hanno sede alcuni colossi dei semiconduttori elettronici. È il grande tema della sfida Usa-Cina per la supremazia nelle tecnologie avanzate, che ha una dimensione geopolitica e strategica, nel lungo periodo ben più rilevante degli squilibri commerciali.

La tregua è una buona notizia per il mondo intero: la crescita globale sta rallentando e molti esperti attribuiscono questa frenata proprio al protezionismo. Però è presto per stappare lo champagne. Anche al G20 precedente, che si era tenuto a Buenos Aires all’inizio di dicembre, una cena tra le delegazioni americana e cinese aveva portato a un’apparente schiarita. Poi l’accordo si era arenato su questioni sostanziali. Il governo cinese ha ritirato dal tavolo del negoziato molte concessioni: in particolare la promessa di riformare le sue leggi in materia di tutela della proprietà intellettuale. Una delle lamentele annose delle multinazionali americane – ed europee – riguarda proprio il saccheggio sistematico di know how, perpetrato con mezzi legali e illegali. L’irrigidimento di Xi su questo punto è stato decisivo per far scattare la minaccia di nuovi dazi. Ora la palla passa ai veri negoziatori. Sul fronte americano ci sono dei falchi come Peter Navarro e Robert Lighthizer, ma come si è visto negli ultimi mesi anche la delegazione cinese gioca duro. Il G20 è stato dominato dai sovranisti e Trump si sentiva a casa: con Vladimir Putin, Narendra Modi, Jair Bolsonaro, il feeling è evidente. I risultati concreti sono assenti, nella nuova globalizzazione «a somma zero» in cui ciascuno gioca per sé. Ma ad essere isolati o impotenti sono i vecchi leader affezionati al multilateralismo, come Angela Merkel ed Emmanuel Macron. L’apice è stato la «rimpatriata» con Pu-

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Kim e Trump si stringono la mano nella zona demilitarizzata fra le due Coree. (AFP)

tin, dopo il vertice a Helsinki un anno fa. Le prove generali per rilanciare un idillio a due – più volte tentato, più volte affondato – sono esplicite. «È un grande onore – ha detto Trump – essere con lui, abbiamo un’ottima relazione, da cui nasceranno cose molto positive». Il leader russo gli ha restituito la cortesia, in un’intervista al «Financial Times» ha detto di Trump: «Ha talento e sa cosa i suoi elettori si aspettano da lui». Nella stessa intervista Putin dichiara quel che pensa dei valori dell’Occidente: «La liberaldemocrazia è entrata in conflitto con gli interessi della maggioranza della popolazione». Ma l’intesa con Putin non produce finora nulla di concreto: i dossier che dividono le due superpotenze rimangono irrisolti, dal trattato sulle armi nucleari all’Ucraina, dall’Iran alla Siria. La carrellata degli uomini forti che piacciono a Trump prosegue con il turco Erodgan e con il principe saudita Mohammed bin Salman. Prevalgono gli autocrati. Ed è con un iper-autocrate che è nato il colpo di scena conclusivo, al termine della trasferta asiatica di Trump: l’incontro con Kim «oltrepassando» a piedi la frontiera maledetta fra le due Coree. A farlo sono stati i leader di due nazioni formalmente tuttora in guerra, da 69 anni. Stanno attraversando una linea rossa tracciata dalle parti del 38esimo parallelo, un confine dalla memoria insanguinata: 1,2 milioni di morti. Trump in quell’istante entrava nella grande Storia: è stato il primo presidente degli Stati Uniti a metter piede sul territorio della Corea del Nord. Con la dittatura comunista di Pyongyang gli Stati Uniti non solo non hanno relazioni diplomatiche, ma neppure un formale trattato di pace che chiuda ufficialmente il conflitto del 1950-’53. Il confine oltrepassato da Trump è lungo la zona chiamata DMZ, acronimo di «de-militarized zone». Tutt’altro che smilitarizzata, lì attorno la concentrazione di arsenali e di truppe è tale da farne il potenziale detonatore di una terza guerra mondiale. In quell’area infatti si fronteggiano le due Coree con i propri alleati e protettori, le superpotenze americana e cinese. Migliaia di missili puntati. Ogive nucleari. Lo storico attraversamento della linea rossa maledetta era nato quasi per scherzo, appena 24 ore prima. Un gesto a effetto, nato dall’istinto di uno showman. Trump aveva in programma da tempo la visita di Stato in Corea del Sud subito dopo il G20 di Osaka. La mattina stessa in cui il summit si chiudeva, da Osaka il presidente inviava un tweet a Kim, come fosse la cosa più normale del mondo: io sto arrivando a visitare il confine, perché non ci vediamo, per un saluto e una stretta di mano? Anche Kim ha il senso dello spettacolo. Il dittatore sanguinario, ultimo rampollo

di una monarchia rossa specializzata nell’affamare, terrorizzare e torturare il proprio popolo, vede la sua immagine e la sua statura internazionale nobilitate. Capisce il gioco e ci sta. Il saldo netto è questo: riprendono i negoziati sulla denuclearizzazione, che erano partiti a Singapore il 12 giugno dell’anno scorso ma si erano incagliati malamente in un secondo vertice ad Hanoi nel febbraio di quest’anno. I seguaci di Trump torneranno a sostenere che merita il Nobel della pace, almeno quanto Barack Obama. Al di là del simbolismo della tranquilla passeggiata oltreconfine, va dato a Trump questo merito: da quando ha capovolto l’atteggiamento verso Kim passando dagli insulti («folle omettorazzo») e dalle minacce («fuoco e distruzione») alle lusinghe e ai summit bilaterali, i test atomici e missilistici tacciono. Sotto le presidenze Obama e Bush, quell’area del mondo era il focolaio di tensioni; i test di Pyongyang facevano gravare una minaccia su due paesi alleati dell’America (Corea del Sud e Giappone), sulla base militare Usa di Guam, perfino su alcune città della West Coast vista la gittata dei missili balistici di ultima generazione sperimentati da Kim. Il solo fatto che i test siano fermi da quando è sbocciata la luna di miele tra i due leader, è un risultato della eccentrica, imprevedibile diplomazia di Trump. Il vasto partito degli oppositori di Trump e degli scettici, punta sulle tante lacune e opacità di questo disgelo. Ogni volta che gli americani hanno tentato di ottenere impegni concreti sulla denuclearizzazione, un calendario del disarmo, o anche soltanto l’ubicazione dei bunker atomici, Kim si è tirato indietro. Non c’è sul tavolo di questo negoziato nessuna richiesta sui diritti umani: la Corea del Nord rimane un grande gulag, ora con la legittimazione dell’amico americano. Ma altri presidenti che perseguivano il «regime change» (Bush in Iraq) o l’esportazione della libertà (Obama prima versione sulle Primavere arabe) non hanno ottenuto risultati migliori. Una contraddizione stridente è con l’atteggiamento di Trump verso gli ayatollah iraniani, dove la via prescelta è l’escalation delle sanzioni, anche a costo di avvelenare ulteriormente i rapporti con l’Europa. La partita del Golfo Persico è complicata dal fatto che lì Trump si fida ciecamente di Israele e Arabia saudita, fautori della linea dura con Teheran. Però quando Trump ha dato l’altolà al Pentagono dieci minuti prima che partisse un attacco punitivo contro l’Iran, forse ha svelato un suo sogno: ripetere altrove la diplomazia dei colpi di scena. È l’altra faccia di America First. L’isolazionismo radicale detesta il ruolo di gendarme del mondo.


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Politica e Economia

Ue-Mercosur, c’é l’accordo

Commercio globale L’intesa bilaterale è stata siglata a Bruxelles dopo vent’anni di negoziati. In una fase di tensioni

commerciali internazionali, è un segnale al protezionismo di Donald Trump Angela Nocioni Dopo vent’anni di tira e molla il braccio di ferro diplomatico l’ha vinto la Germania. La Francia, alla fine, pur temendo la reazione dei suoi imprenditori agricoli, ha ceduto. È stato questo, in estrema sintesi, il dietro le quinte della tesissima negoziazione per l’accordo commerciale tra Unione europea e Mercosur firmato la settimana scorsa a Bruxelles.

Darà accesso alle imprese europee a un mercato di 260 milioni di consumatori: tanti ne comprende il Mercosur Si tratta del più grosso accordo, in tema commerciale, mai firmato dalla Ue. Darà infatti accesso alle imprese europee a un mercato di 260 milioni di consumatori: tanti ne comprende il Mercosur, l’area di libero mercato sudamericano costituita da Argentina, Brasile, Uruguay e Paraguay. Si crea quindi un’area di libero scambio che comprende 780 milioni di persone attraverso l’eliminazione di dazi e, in teoria, si dovrebbe anche inchiodare agli accordi di Parigi sul clima il Brasile (che da solo conta 200 milioni di persone) dell’attuale governo di Jair Bolsonaro, estremista di destra totalmente contrario al rispetto dei patti globali sui cambiamenti climatici, ma portatore degli interessi della potente lobby brasiliana dell’agrobusiness che era molto interessata ad ottenere l’accordo. La firma è stata presentata, anche dai francesi, come prova dell’intenzione europea di difendere le regole della libera circolazione delle merci (di quella delle persone, al momento, non se ne parla nemmeno) in una fase politica in cui Cina e Stati uniti tornano a difendere barriere protezionistiche d’ogni sorta. L’Unione europea punta quindi a rivendicare d’essere un bastione della libertà di scambio a fronte di due superpotenze tutte intente a prove di forza reciproche giocate sui dazi. Quanto questa rivendicazione sia puramente retorica e quanto invece aderisca alla realtà è un interrogativo al quale si potrà rispondere solo quando si vedrà come e se l’accordo fra Ue e Mercosur sarà ratificato dagli Stati membri del Parlamento europeo e quindi solo dopo che sarà passato al vaglio degli interessi di ciascuno. La Francia, che deve vedersela con la probabile reazione non entusiasta dei gilet gialli, ha già fatto sapere di voler verificare il testo parola per parola. Poiché, però, i negoziati dell’accordo tra Ue e Mercosur duravano da vent’anni, il solo fatto che alla fine un documento finale sia stato firmato è una notizia notevole. Le prove tecniche del patto iniziarono addirittura nel 1995, quando a Madrid venne firmato un Accordo quadro di cooperazione interregionale. Prevedeva la creazione di una zona di

La cancelliera tedesca Angela Merkel, insieme ad altri leader europei, ha guidato il negoziato Ue-Mercosur di Bruxelles. (AFP)

libero scambio fra i due spazi economici da realizzare entro il 2005 e che non fu poi realizzata. Ora, ad accordo firmato, le industrie europee (e quella tedesca per prima) guadagnano 260 milioni di consumatori a cui proporre senza dazi auto e prodotti industriali. Dall’altra parte i produttori agricoli del Sud America contano di moltiplicare le loro esportazioni nella Ue: carne e zucchero brasiliani, limoni argentini ecc. Il commissario europeo all’agricoltura, Phil Hogan, ha messo le mani avanti: «L’accordo presenta grosse sfide per gli agricoltori europei, la Commissione è disponibile ad aiutarli a superarle». In cosa si concreterà questa disponibilità, al momento, non si sa. L’Unione Europea è già, in realtà, il primo partner commerciale per il Mercosur. Per la Ue il Mercato comune del Sudamerica è il sesto per flussi commerciali. Negli ultimi dieci anni, nonostante un rallentamento economico che ha investito entrambe le regioni, le esportazioni europee verso il Mercosur sono comunque raddoppiate. Gli interessi europei si concentrano principalmente nell’esportazione di prodotti dell’industria manifatturiera, (soprattutto macchinari, prodotti del settore dei trasporti e preparati chi-

mici). Le importazioni dal Mercosur riguardano principalmente i prodotti agricoli, che rappresentano il 43% del totale importato, e le materie prime, che sono il 28%. Nonostante la bilancia commerciale sia a favore dell’Unione Europea, nel settore agricolo lo squilibrio è netto. I paesi del Mercosur esportano già verso la Ue prodotti agroalimentari per circa 21 miliardi di euro annui. Le importazioni in questo settore, si fermano invece a soli 2 miliardi all’anno, confermando la vocazione esportatrice dei paesi sudamericani e la crescente domanda di prodotti di questa provenienza nel mercato europeo. L’argomento brandito dai critici dell’accordo, guidati dalle associazioni di categoria francesi appoggiate anzitutto dalle irlandesi e dalle italiane, riguarda essenzialmente i timori per la genuinità dei prodotti alimentari. I produttori europei lamentano la scarsa tracciabilità delle carni provenienti da Brasile e Argentina e standard sanitari considerati assai dubbi. Quel che poi ufficialmente non viene detto, ma viene abbondantemente lasciato capire, è che i meccanismi di controllo del rispetto di tali standard sono da molti ritenuti non affidabili. Con l’iniziale proposta europea in questo settore si è provato ad escludere

nuove concessioni per le importazioni di carne, suscitando proteste nel Mercosur. Nonostante gli ostacoli doganali, l’Ue rappresenta il principale partner commerciale del blocco sudamericano: le esportazioni europee verso Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay hanno raggiunto i 45 miliardi in valore nel 2018, mentre le importazioni hanno toccato quota 42,6 miliardi. L’Europa è il principale investitore straniero in quell’area che ha un prodotto interno lordo di 2,2 mila miliardi di dollari ed è il quinto più grande mercato fuori dai confini comunitari. Al momento i dazi che si applicano alle auto sono del 35 per cento. Quelli che si applicano ai macchinari vanno dal 20 al 35 per cento. I prodotti farmaceutici hanno dazi del 14 per cento. Questi pochi dati basterebbero da soli a spiegare perché la Germania ha tanto spinto per ottenere l’accordo. La Francia, invece, in una lettera inviata alla Commissione europea così ha illustrato le ragioni della sua preoccupazione: «Per ogni accordo commerciale, ci sono alcuni paesi maggiormente beneficiati e altri che ottengono minori vantaggi. Una situazione che si è verificata anche con altri trattati conclusi in questo mandato, come quello con il Giappone, Singapore e Canada: non si

verifica mai un’equa redistribuzione dei benefici. Ad esempio, nell’accordo con il Giappone – dove l’agrifood è un mercato di notevole interesse – la Francia e l’Italia sono stati tra i paesi più favoriti per le loro esportazioni». La premessa serviva a chiedere poi maggiori garanzie sul rispetto degli standard produttivi, ambientali e fitosanitari per tutti i prodotti venduti nell’Ue, soprattutto per la carne, in modo da «offrire ai cittadini comunitari prodotti di qualità». Una preoccupazione condivisa dalle organizzazioni e cooperative agroalimentari Ue, che si sono opposte all’accordo, parlando dei rischi di aumentare le importazioni da paesi come il Brasile dove, tanto per dirne una, «il governo Bolsonaro ha autorizzato oltre 150 nuovi pesticidi». Alla fine l’ha comunque spuntata la Germania, che guidava un blocco composto anche da Spagna, Portogallo, Olanda, Svezia, Repubblica ceca e Lituania. Vincente, almeno per quanto riguarda la retorica politica, è stato l’argomento della necessità di opporsi ai venti protezionistici che spirano da parte populista. «Siamo ad una svolta – hanno scritto questi paesi in una lettera rivolta alla Commissione Ue – l’Unione europea non può cedere il passo ad argomenti populisti e protezionistici nemmeno nella politica commerciale». Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia

I soldi sono sempre più verdi

Finanza etica Crescono i volumi di strumenti finanziari creati per sostenere le tematiche ambientali.

Anche la Confederazione si impegna in questo ambito, ma gli ostacoli non mancano

Marzio Minoli Lo scorso 24 maggio molti giovani sono scesi in piazza per manifestare contro il cambiamento climatico. Tra gli «imputati» dei mutamenti climatici le due grosse banche svizzere, UBS e Credit Suisse, che sarebbero corresponsabili di emissioni di CO2 pari a 22 volte quelle emesse dalla totalità della popolazione svizzera. E questo tramite il finanziamento di industrie che utilizzano combustibili fossili.

A sostegno dell’ambiente sono nati i green bonds, nella metà dei casi servono a finanziare energie rinnovabili Al di là della retorica della manifestazione, su una cosa si può essere d’accordo: gli investimenti in strumenti finanziari destinati a sostenere l’ambiente non sono redditizi a breve termine, quindi sono ancora poco appetiti dagli investitori, banche comprese. Ma attenzione: il mondo degli affari non è così cinico ed estraneo ai temi ecologici. Anzi. La finanza verde sta avanzando, soprattutto grazie ai green bonds, ovvero obbligazioni emesse per sostenere la salvaguardia dell’ambiente. L’ultima emissione di cui si è parlato è sta-

Le Seychelles hanno lanciato un’obbligazione per salvaguardare il mare, raccogliendo solo 15 milioni di dollari; ma è un inizio. (Keystone)

ta quella delle isole Seychelles, che lo scorso anno hanno lanciato un’obbligazione per raccogliere finanziamenti

allo scopo di salvaguardare il mare, soprattutto per incentivare la pesca sostenibile.

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Non solo le Seychelles. Anche la Confederazione Svizzera si sta impegnando in questo senso. Recentemente infatti il Consiglio Federale ha discusso il tema di una piazza finanziaria sostenibile. Dal 2020 l’Ufficio Federale dell’Ambiente (UFAM) e la Segreteria di Stato per le questioni finanziarie internazionali (SFI) proporranno degli esami sulla compatibilità climatica degli investimenti, e, per la prima volta, saranno diretti non solo a casse pensioni o assicurazioni, ma anche alle banche e ai gestori patrimoniali. Ma torniamo ai green bonds. Cosa sono esattamente? Come detto, ricerche di finanziamento per progetti sostenibili. Sono relativamente giovani e dal 2007 stanno conoscendo una crescita costante. Inizialmente erano le grandi istituzioni internazionali, come Banca Europea degli Investimenti oppure la Banca Mondiale, ad emettere queste obbligazioni. Poi si sono aggiunti gli Stati e le aziende private. E oggi sono molte le banche che offrono questo tipo di investimento.

Un punto dolente dei green bonds è che ad oggi non esistono regole condivise che le autorità possano far rispettare Prospettive rosee per questo tipo di finanza? No, o perlomeno, non ancora. Tornando alle Seychelles, la loro richiesta di finanziamento a salvaguardia del mare ha raccolto solo 15 milioni di dollari. Pochi. I problemi che i green bonds devono superare sono sostanzialmente due: il primo è che chi investe vuole un ritorno. Logico, normale. Lo vuole però entro tempi relativamente brevi e gli investimenti puramente rivolti a salvaguardare terre e mari non lo sono. La finanza verde, attualmente, si concentra molto sulle energie rinnovabili. Si calcola che il 51% dei fondi raccolti finisca in questo segmento. Un settore ampiamente collaudato, che apre molti spazi alla ricerca e all’innovazione e che offre garanzie di rendimento in tempi relativamente brevi. Si pensi a quanto tempo deve passare prima che qualcuno cominci a

raccogliere i frutti dopo aver investito nel rimboschimento di un terreno e lo sviluppo di un ecosistema. Prima che questo terreno diventi attrattivo, magari per il settore turistico, possono passare anche dieci anni. Un lasso di tempo lunghissimo e quindi poco incentivante. Oltre alle energie rinnovabili un altro 25% dei fondi raccolti finisce per costruzioni di immobili ecosostenibili e trasporti. Della torta, già di per sé non grandissima, solo il 10% finisce in progetti per la salvaguardia del territorio. Il secondo punto dolente dei green bonds è il fatto che non vi sono degli standard condivisi. Cosa significa? Che mancano delle regole chiare a livello normativo che devono essere rispettate e che siano fatte rispettare da autorità preposte, che però condividano dei principi comuni, degli standard, come detto. Se questo settore fosse regolamentato, come lo sono gli altri strumenti dei mercati finanziari, il potenziale per gli investitori sarebbe immenso e a dirlo è chi opera quotidianamente su questo mercato. Oggigiorno invece spesso il tutto è ancora in mano a persone che vogliono semplicemente fare del bene. Obiettivo nobile, ma nel mondo della finanza, quando si chiedono soldi, non basta. Un aiuto a risolvere questa situazione potrebbe arrivare dal cosiddetto investing impact, gli investimenti a impatto sociale. In poche parole, per usare una terminologia attuale, si tratta della «finanza etica 2.0». Se fino ad oggi la finanza etica tendeva ad escludere dai suoi portafogli, investimenti in aziende inquinanti, il passo successivo è di cercare progetti ecosostenibili. Si tratta quindi di creare una vera e propria piattaforma che riesca ad organizzare questo mercato. Attualmente questo settore è in piena espansione nella City di Londra, che sta diventando il centro mondiale della finanza verde. Non solo green bonds, ma anche fondi d’investimento, azioni e altri strumenti. Si stima che a fine 2019 si possa arrivare a 500 miliardi di dollari di capitali raccolti e destinati a progetti climatici. Una goccia nel mare di fronte ai 61’000 miliardi di capitalizzazione mondiale delle borse. Ma se questa goccia aiuterà a mantenere il mare pulito, sarà già un successo.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 luglio 2019 • N. 28

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Politica e Economia

La riforma del Consiglio federale per stabilizzare i conti dell’AVS

Previdenta vecchiaia Il messaggio sarà pronto in agosto e punterà sull’aumento dell’età di pensionamento

delle donne e sull’aumento dell’IVA dello 0,7%. Si stabilizzano i conti fino al 2030, ma rimane l’onere a carico delle giovani generazioni Ignazio Bonoli Il Consiglio federale ha deciso le misure della riforma AVS 21, volta a mantenere il livello delle rendite, garantire l’equilibrio finanziario fino al 2030, flessibilizzare l’età di pensionamento, e ha incaricato il Dipartimento dell’Interno di preparare un messaggio e un disegno di legge entro fine agosto. Il messaggio prevederà le misure seguenti: l’età di riferimento delle donne sarà aumentata di tre mesi all’anno fino a 65 anni; l’aumento sarà accompagnato per nove anni da misure compensative per 700 milioni di franchi, mediante la riduzione delle aliquote in caso di pensionamento anticipato e l’aumento della rendita AVS per donne con redditi medio-bassi; la libera scelta del momento del pensionamento tra i 62 e i 70 anni; la possibilità di anticipare o rinviare parte della rendita AVS; il proseguimento dell’attività lucrativa oltre l’età di pensionamento con incentivi specifici; l’aumento dell’IVA al massimo dello 0,7% a favore dell’AVS. Secondo il Consiglio federale, la riforma AVS 21 permetterà di sgravare i conti di circa 2,8 miliardi di franchi all’anno (nel 2030), stabilizzando le finanze dell’AVS. Pochi giorni prima della decisio-

ne, uno studio del Centro di ricerche sui contratti fra generazioni, dell’Università di Friburgo in Brisgovia (Germania) e dell’UBS, aveva calcolato che, secondo le regole attuali, lo scoperto del fondo AVS sarebbe di 1100 miliardi di franchi. Si tratta delle rendite promesse, che non sono coperte dalle relative entrate. Secondo il progetto di riforma del Consiglio federale nel 2018 «AVS 21» questo scoperto verrebbe ridotto a 550 miliardi di franchi. In questa situazione, anche lo studio citato conferma che le giovani generazioni dovranno farsi carico di quelle anziane e più precisamente le persone tra 0 e 40 anni con un supplemento di contributi tra i 25’000 e i 30’000 franchi per abitante, le persone oltre i 55 anni con circa 10’000 franchi a testa, contributo che si riduce a 6000 franchi per chi raggiunge i 65 anni d’età. Un’altra conferma di quanto già si prevedeva sta nel fatto che non si potrà far a meno di lavorare più a lungo. Aumentando l’età di pensionamento si potrebbero avvicinare le esigenze dei pensionati agli oneri di coloro che pagano i contributi. Uno dei capisaldi di questa riforma è l’aumento a 65 anni dell’età di pensionamento delle donne. Si sa che il tema è tuttora molto

Alain Berset, con il neo designato direttore dell’Ufficio federale delle assicurazioni sociali, Stephane Rossini. (Keystone)

combattuto. A livello politico – in particolare dopo lo sciopero delle donne – si segue con molta prudenza ogni decisione che comporta la parità di trattamento tra uomini e donne, con rivendicazioni opposte. Le donne si chiedono comunque perché debbano sopportare il sacrificio del risanamento dell’AVS. Ma ancora una volta il ministro delle finanze Ueli Maurer – dopo la

vittoria ottenuta con il voto congiunto sulla riforma fiscale e sociale – avrebbe presentato una proposta molto pragmatica: aumentare nel contempo l’età di pensionamento degli uomini a 66 anni. Ne aveva già accennato in aprile in un’intervista, ma ora avrebbe presentato il suo progetto al Consiglio federale, in occasione della discussione sulla riforma dell’AVS. La mossa, con-

fermata da fonti giornalistiche, avrebbe sicuramente il vantaggio di ridurre di circa la metà il previsto scoperto dell’AVS, soprattutto perché, accanto al risparmio di un anno di rendite totali, vi sarebbe anche un anno di aumento dei contributi. Si allontanerebbe però di un altro anno la parità fra uomini e donne nell’AVS. Comunque l’AVS potrebbe rinunciare alle previste compensazioni per le donne, dal momento che anche gli uomini ne sono toccati. La proposta Maurer non avrebbe però ottenuto la necessaria maggioranza. Probabilmente si ritiene che un aumento dell’età di pensionamento degli uomini susciterebbe almeno altrettante opposizioni di quello dell’età di pensionamento delle donne. Non si vuole correre questo rischio, dal momento che la riforma dell’AVS è sempre più urgente. Ma anche sulle proposte di compensazioni alle donne per l’aumento dell’età di pensionamento, le opinioni sono ancora divise, soprattutto circa i costi. L’aumento dell’età di pensionamento delle donne procura, però, risparmi all’AVS per soli 1,4 miliardi, meno i costi delle compensazioni. Altri 2,5 miliardi di entrate dovranno essere procurati tramite il previsto aumento dello 0,7% dell’IVA. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 luglio 2019 • N. 28

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Politica e Economia

Diritto di voto... per meriti economici

Cittadinanza Almeno nelle consultazioni locali, potrebbero prendervi parte anche gli stranieri che partecipano

attivamente alla vita economica del luogo in cui vivono, secondo il principio dello ius oeconomicum Edoardo Beretta Il concetto di «Stato» trae le sue origini talmente da lontano che non è inconsueto assistere tuttora a dibattiti, in cui per dare legittimazione all’argomentazione si «rispolveri» il pensiero dei grandi teorizzatori dello stesso (fra cui Jean-Jacques Rousseau, Thomas Hobbes ed altri ancora). Ciò è, in particolar modo, il caso allorquando si discuta su quali debbano essere i criteri «guida» per l’attribuzione del diritto di voto o della cittadinanza. Il dibattito politico nella vicina Penisola italiana, che vede da un lato contrapporsi i sostenitori dell’attuale ius sanguinis, cioè del «diritto per cui un individuo ha la cittadinanza di uno Stato se uno dei propri genitori o entrambi ne sono in possesso»1, a quelli dello ius soli, per cui «la cittadinanza si acquisisce automaticamente per il fatto di essere nati nel territorio di un determinato Stato»2 , è esempio emblematico di quanto il dibattito sia attuale, ma allo stesso modo affrontato

con un approccio definibile per svariati motivi quale «superato». In epoche di incessante «nomadismo lavorativo» (a cui le società stesse conducono o indirettamente a fronte di posti di lavoro insufficienti rispetto all’offerta di impiego o direttamente ai fini di un pedigree lavorativo solo asseritamente migliore) è, però, evidente che lo ius sanguinis sia troppo restrittivo per applicarsi a chi si dovesse trasferire all’estero. Allo stesso modo, lo ius soli rischia di soggiacere alle criticità appena illustrate, cioè al fatto che la permanenza sul suolo estero sia sì lunga, ma comunque insufficiente all’ottenimento di diritti di compartecipazione alle decisioni rilevanti per quell’area geografica. Naturalmente, potrebbe insorgere il quesito (legittimo) sul perché uno Stato estero dovrebbe sentirsi tenuto a permettere a cittadini stranieri (residenti su territorio nazionale) di giocare un ruolo nei processi decisionali interni. Stavolta, però, lo sbaglio consisterebbe nel tralasciare quello che

Popolazione straniera 3

(in % del totale) 2007

2017

Variazione

Proprietari di seconde case (in % del totale)4 2015

(2007-2017) Austria

9,7

15,4

+5,7

15,4

Finlandia

2,3

4,4

+2,1

12,1

Francia

6,0

-

-

8,2

Germania

8,3

12,2

+3,9

5,4

Grecia

5,8

-

-

32,8

Italia

5,0

8,5

+3,5

15,2

Paesi Bassi

4,1

5,7

+1,6

5,6

Polonia

0,1

-

-

25,1

Portogallo

4,0

3,9

-0,1

17,0

Regno Unito

6,3

9,3

+3,0

7,0

Repubblica Ceca

3,1

4,6

+1,5

19,2

Slovacchia

0,6

1,3

+0,7

23,0

Spagna

10,0

9,5

-0,5

20,4

Svezia

5,4

8,6

+3,2

11,8

Svizzera

20,2

23,9

+3,7

-

Turchia

-

1,0

-

24,8

in epoche di globalizzazione economica dovrebbe essere considerato un principio giuridico altrettanto fondamentale, cioè quello qui definibile ius oeconomicum (ossia il «diritto di appartenenza a fronte di una compartecipazione economica»). Del resto, ogni «portatore di interesse» (stakeholder nella terminologia internazionale) o azionista di un’impresa gode del diritto di voto riguardo ad ogni decisione di potenziale rilevanza per le proprie aspettative economiche. Sarebbe, infatti, fuorviante (come avviene, però, in ambito nazionale) legare quasi sempre il diritto di voto all’acquisizione della cittadinanza, rendendo quest’ultima peraltro spesso e volentieri una «conquista» rispetto al suo carattere di «assegnazione automatica» per chi ne avesse la sorte sin dalla nascita. Come in una qualsiasi azienda del mondo nessuno si sognerebbe di precludere a un azionista estero, non appartenente alla famiglia o ai fondatori originari il diritto di voto (in quanto partecipante al capitale aziendale), è difficilmente giustificabile che nel 2019 e con i macrotrend poc’anzi citati qualunque non-cittadino in possesso di regolare legittimazione di permanenza sul territorio, contribuente in termini tributari al gettito fiscale non sia legittimato da un punto di vista economico ad esprimersi almeno nelle elezioni che lo coinvolgono più direttamente, cioè quelle comunali/regionali (ossia locali). Ancora una volta, la questione non è politica bensì meramente economica, cioè di «diritto di compartecipazione alla gestione della casa», in quanto «economia» nella sua accezione greca originaria significa proprio ciò. Ma trascurare lo ius oeconomicum non coinvolge, però, soltanto la popolazione straniera, ma anche in molte Nazioni del mondo tutti quei connazionali che posseggano una seconda abitazione o proprietà immobiliari (non di residenza) aggiuntive. Tornando al caso italiano, ben il 15,2% della popolazione complessiva – in alcuni Paesi europei ancora di più – dispone di un ulteriore immobile di proprietà, in cui non risiede ma trascorre le proprie vacanze o affitta a terzi. Bene, tutti questi cittadini – lo si ribadisca: il problema non è sol-

Anche i proprietari di case secondarie (nella foto, Zermatt) devono poter votare quando ne va dei loro interessi?. (Keystone)

tanto di una categoria extra-nazionale – non hanno diritto di voto nell’ambito delle elezioni tenute nelle località dei loro immobili secondari, cioè non possono esprimersi su decisioni potenzialmente molto rilevanti per il valore del proprio possedimento economico quando un eventuale altro concittadino (magari, pure da affittuario anziché proprietario) lo avrebbe solo per il fatto di risiedere in quella località. Va da sé, però, che i proprietari di seconde case contribuiscano con la loro fiscalità alla gestione del territorio oltre che allo sviluppo territoriale di zone potenzialmente meno appetibili in assenza di investimenti esterni: ciononostante, il loro ruolo è oggi di fatto ridotto a quello di mero contribuente. Inutile dire che l’attribuzione del diritto di voto in base alle sole caratteristiche di nazionalità anziché anche per motivi economici sia – che piaccia o meno – anacronistica nel 2019 oltre che discriminatoria. Su quali debbano essere i criteri per l’applicazione dello ius oeconomicum si può discutere, premettendo però che per sua natura intrinseca uno dei principali criteri dovrebbe essere proprio il possesso durevole di attività economiche o patrimonio (ad es., aziende, immobili etc.) e comunque sempre l’attestazione di contribuire per pagamento effettivo delle imposte ad

un determinato territorio geografico. In assenza di almeno una di tali condizioni lo ius oeconomicum – almeno per il periodo temporale considerato – decadrebbe. Qualunque siano gli esatti criteri di applicazione rimane inalterato un principio risalente alla Rivoluzione americana o guerra d’indipendenza americana nel XVIII, cioè no taxation without representation, con cui si protestava contro la sola tassazione senza potere essere rappresentati a livello politico. Note

1. Elaborazione propria di: http:// www.treccani.it/vocabolario/iussanguinis_%28Neologismi%29/. 2. Elaborazione propria di: http:// www.treccani.it/vocabolario/iussoli_%28Neologismi%29/. 3. Elaborazione propria di: http:// dx.doi.org/10.1787/888933752144. 4. Elaborazione propria di: https:// www.spanishpropertyinsight. com/2015/10/22/richest-europeancountries-cool-about-secondhome-ownership/ e https://www. remax.it/Sites/REMAXItaly/RegionalWeb/Documents/Areastampa_2015/04_2015.07.27_INDAGINE%20AT%20HOME%20IN%20 EUROPE.pdf. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 luglio 2019 • N. 28

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Politica e Economia

Contributi nella cassa pensioni, riscatti con doppio beneficio La consulenza della Banca Migros Jeannette Schaller

Jeannette Schaller è responsabile della pianificazione finanziaria alla Banca Migros

I riscatti di contributi nella cassa pensioni offrono una combinazione interessante. Consentono di migliorare la vostra situazione previdenziale e allo stesso tempo di risparmiare sulle tasse; questo a condizione che vi siano lacune contributive. Simili lacune possono verificarsi ad esempio in caso di aumento dello stipendio, perché un reddito più alto offre automaticamente l’opportunità di risparmiare per ottenere una rendita più elevata. Eventuali lacune contributive possono crearsi anche in caso di cambio di lavoro e quindi con il passaggio a un datore di lavoro con una cassa pensioni con prestazioni migliori, in caso di anno sabbatico, di pensionamento anticipato o di divorzio e di conseguenza con la suddivisione del vostro patrimonio previdenziale. L’importo relativo al riscatto di contributi è riportato nel certificato della cassa pensioni. L’importo massimo si riduce del valore riferito ai conti e alle polizze di libero passaggio che possedete in aggiunta alla vostra cassa pensioni. L’importo ottenuto può essere versato nella cassa pensioni e dedotto dall’imposta sul reddito. Per motivi fiscali è consigliabile scaglionare i riscatti di una certa entità sull’arco di più anni. Per i riscatti di contributi nella cassa pensioni occorre tenere conto di

I riscatti di contributi per la cassa pensione permettono di ridurre le imposte. (Keystone)

tre restrizioni. La prima riguarda la situazione finanziaria della vostra cassa pensioni. Se quest’ultima è in difficoltà, dovreste evitare di investire altro denaro. La seconda riguarda un eventuale prelievo di fondi dalla cassa pensioni per l’acquisto della vostra casa di proprietà. Prima di effettuare un

riscatto e una deduzione dalle imposte, dovrete rimborsare il capitale prelevato anticipatamente. La terza restrizione riguarda infine il periodo di blocco di tre anni: se intendete effettuare un prelievo di capitale al momento del pensionamento, almeno tre anni prima non potete effettuare alcun riscatto di

contributi nella cassa pensioni. In caso contrario dovrete accettare di pagare un’imposta successiva oppure prelevare il vostro avere della cassa pensioni esclusivamente sotto forma di rendita. La soluzione migliore è chiedere consiglio a un esperto in materia di previdenza o di pianificazione finanziaria. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Il ritorno dei lavoratori indipendenti I lavoratori attivi nell’economia ticinese si dividono in due categorie: i dipendenti o salariati e gli indipendenti. I primi offrono le loro prestazioni ai datori di lavoro, i secondi, invece, sono i datori di lavoro di se stessi. È utile aggiungere che la statistica suddivide gli indipendenti di nuovo in due categorie: i lavoratori indipendenti e i salariati nella propria azienda. Non è una distinzione da poco perché la quota dei salariati nella propria azienda (società anonima o società a garanzia limitata) tende ad aumentare, il che potrebbe significare che i lavoratori indipendenti ticinesi tendono, nella misura del possibile, a limitare i rischi imprenditoriali che devono assumere. Queste informazioni sullo sviluppo della categoria degli indipendenti le abbiamo tratte da un interessante studio di Silvia Walker, pubblicato nell’ultimo numero di «Dati», la rivista semestrale dell’Uffi-

cio cantonale di statistica. Dallo stesso si apprende che la quota di indipendenti nell’occupazione dell’economia ticinese continua a crescere. È una delle tendenze del nuovo modello di economia che, in Ticino, ha cominciato a svilupparsi a partire dagli anni Ottanta dello scorso secolo. In precedenza, invece, la quota degli indipendenti, in seguito alla decadenza dell’attività agricola, era diminuita dal 33% del 1888 a circa l’11%. Dal 1980 si può dire che sia cominciato un fenomeno di lenta ripresa che ha portato la quota dei lavoratori indipendenti a salire fino a toccare, nel 2018 il 17,4% dei lavoratori residenti in Ticino. Come mette in evidenza Silvia Walker nel suo studio, questa quota è la più elevata tra quelle delle grandi regioni svizzere. In nessun’altra regione, infatti, la quota degli indipendenti supera il 15%. Ovviamente la quota degli indipendenti varia da un ramo

all’altro dell’economia. Oggi però non è più l’agricoltura a conoscere la quota maggiore di indipendenti, ma il ramo delle attività specializzate, tecniche e scientifiche. In questo ramo, che ancora 40 anni fa contava pochissimi posti di lavoro nel nostro Cantone, la quota dei lavoratori indipendenti raggiunge quasi il 40%. Altri rami con quote elevate di lavoratori indipendenti sono l’agricoltura e la selvicoltura, le costruzioni, gli alberghi e ristoranti, il commercio e le riparazioni. Come si può constatare si tratta di rami nei quali l’attività è dominata dalla piccola e dalla piccolissima azienda. L’aumento di importanza della quota degli indipendenti va dunque, da noi, di pari passo con l’aumento del numero delle piccole aziende. La piccola azienda è però anche quella maggiormente sottomessa ai capricci della congiuntura. Non ci si deve quindi sorprendere se l’evoluzione della

quota degli indipendenti manifesta fluttuazioni anche importanti. Aggiungiamo ancora che la quota di lavoratori indipendenti è minima, inferiore in pratica al 10%, in rami come la sanità, l’informazione e la comunicazione, l’industria, i trasporti e l’insegnamento, rami in cui si trovano aziende di grande taglia, con centinaia di dipendenti. Silvia Walker nel suo studio ha anche cercato di definire le maggiori caratteristiche del lavoratore indipendente. Si tratta in prevalenza di uomini (e sarebbe interessante conoscere gli ostacoli che si frappongono alle donne che desiderano diventare indipendenti) con un livello di formazione di grado secondario o terziario. In Ticino, poi, si riscontra una quota elevata (rispetto alla media nazionale) di lavoratori indipendenti di nazionalità straniera. Infine, il lavoratore indipendente è, in Ticino (più che nelle altre grandi

regioni), una persona che ha superato i 40 anni. Che il lavoratore indipendente sia una persona in età matura induce a pensare che prima di aprire un’attività indipendente, il lavoratore ticinese cerca di fare esperienze in altre aziende e di mettere da parte qualche franco. In altre parole, l’attività indipendente non sembra, in Ticino, essere destinata ai giovani. E questo nonostante gli sforzi importanti compiuti, durante gli ultimi due decenni, dallo Stato, da fondazioni e da associazioni ad hoc, dalle associazioni padronali e sindacali e dalle scuole professionali di tutti gli ordini per promuovere l’imprenditorialità tra i giovani. I dati e le informazioni offerti dalla Walker ci aiutano a meglio capire il fenomeno dell’aumento di importanza della quota degli indipendenti, anche se resta ancora da spiegare in che misura la scelta per l’indipendenza lavorativa sia libera o coatta.

vuole, il presidente russo, dividerci. «Liberalismo» in occidente è diventato un termine controverso e a tratti indicibile: persino il liberalissimo presidente francese, Emmanuel Macron, ha deciso di non mettere alcun riferimento nel nome del suo nuovo partito europeo, Renew Europe. Non si può certo dire che Macron sia poco coraggioso nel suo liberalismo, ma un po’ di tattica e cautela servono sempre: il popolo va pur sempre convinto. Per di più, il liberalismo è diventato ormai il simbolo di tutti i mali anche in territori politici che dovrebbero avere a cuore quella libertà che sta alla base etimologica del termine, con effetti perversi e anche parecchio miopi. Piaccia o no, non c’è grafico, trend, analisi che non dimostri che benessere e liberalismo vanno a braccetto, e che anzi questa formula ha permesso di coccolare e compiere molti progressi. Ma anche i fatti e i numeri sono ormai strattonati dall’ideologia e così ci siamo ritrovati nella bizzarra posizione di doverci sentir dire da Putin che il liberalismo è obsoleto, cioè siamo stati sgridati da un leader che per mantenere il potere

ha sacrificato la stragrande maggioranza delle libertà del suo Paese – non ultima quella libertà economica che ha contribuito a impoverire la Russia. Ce lo dimentichiamo con straordinaria ostinazione, ma l’economia russa non è affatto prospera: il pil pro capite è la metà di quello americano, ma un altro dato interessante dice che la crescita in rapporto al pil per ogni russo è stata, dal 2009 al 2018, soltanto di 1,8 per cento ogni anno. Il legame virtuoso tra libertà, progresso e ricchezza è dimostrato proprio dal caso russo. Ma i fatti e i numeri, dicevamo, non contano. Conta che il presidente americano, Donald Trump, quando gli viene chiesto se il liberalismo è obsoleto si mette a parlare della California e delle politiche liberal, cioè di quella che lui chiama la «deriva socialista» del Partito democratico: se il presidente degli Stati Uniti non sa nemmeno di che cosa si parla quando si parla di liberalismo, diventa tutto un po’ complicato. Per di più in una stagione in cui il fascino per le idee forti, per gli uomini forti ha la meglio su tutto il resto. Così la difesa del liberalismo non è toccata a Trump, che

non ne è nemmeno capace – e probabilmente non la farebbe comunque, il che è peggio – ma agli europei che più sono stati e sono esposti alla minaccia russa. Quando l’assenza di libertà la puoi vedere da vicino o anzi l’hai anche vissuta sulla tua pelle, trovi presto le parole per uno come Putin. L’europeista polacco Donald Tusk, presidente del Consiglio europeo in uscita (al suo posto è stato nominato il belga Charles Michel), ha detto: «Chiunque dichiari che la democrazia liberale è obsoleta dice anche che le libertà sono obsolete, lo stato di diritto è obsoleto, i diritti umani sono obsoleti». Si carica il liberalismo di ogni accezione negativa possibile, ma obsoleto, tanto per dirne una, è il ritorno di ideologie che sono state seppellite dalla storia (liberale), un revival tanto violento che sono tornati gli omicidi politici di stampo neonazista, come quello di Jo Cox in Inghilterra nel 2016 e quello recentissimo del politico tedesco cristianodemocratico Walter Lübcke. E ancora ci voltiamo dall’altra parte, anzi siamo addirittura ossequiosi con il putinismo, rendendo attuale quel che sì era davvero obsoleto.

sia in calce all’edizione sopraccitata, sia nel volumetto a più voci uscito recentemente nelle edizioni Casagrande (Discorsi sulla neutralità. A cento anni dal Premio Nobel a Carl Spitteler). Allo scrittore il San Gottardo valse davvero una miniera d’oro, in soldoni. La sorte volle che nel 1892 la Compagnia ferroviaria privata «Gotthardbahn», con sede a Lucerna, decidesse di affidare a Spitteler la redazione di una guida turistica; un vademecum in cui accanto ai consigli pratici (fermate, alloggi, piatti tipici) figurassero anche suggerimenti per visite ed escursioni nelle valli laterali. Per la stesura lo scrittore fu retribuito lautamente: settemila franchi (che allora era una cifra cospicua) più tre biglietti gratuiti di prima classe della durata di un anno. L’illustre viaggiatore non si accontentò di fugaci viaggi verso il cielo d’Italia, ma percorse la tratta una trentina di volte, sempre

osservando, annotando, salendo e scendendo da carrozze e calessi. «In fuga dal freddo e dalla neve» s’immerse nella magia e nei profumi del sud, ogni volta rinnovando l’esperienza del «Drang nach Süden», quel risveglio dei sensi che sospingeva i nordici verso la terra dove fioriscono i limoni: un polo magnetico irresistibile, una forza sovrannaturale, ieri come oggi. Il successo di quella personalissima guida fu immenso. La ferrovia del Gottardo si era già conquistata un posto stabile nella gerarchia delle mete turistiche più ambìte («Swiss Tour»). L’attraversamento del massiccio alpino non poteva mancare nel carnet di viaggio della facoltosa clientela tedesca ed inglese. Per conquistarla e sedurla, le agenzie collegate alle compagnie ferroviarie arruolarono i migliori artisti e grafici per la cartellonistica (su tutti spiccava il parigino Hugo d’Alési), e persino cartografi per

la realizzazione di plastici tridimensionali. Il passo successivo consisteva nel distribuire tutto questo materiale propagandistico oltre confine: nelle agenzie di viaggio, nelle sale di lettura dei grandi alberghi e degli stabilimenti termali e balneari, presso gli sportelli delle stazioni ferroviarie e marittime. Insomma, un’operazione di marketing studiata nei minimi particolari, che non dimenticava i politici più in vista, i governi cantonali, le biblioteche e le scuole d’ordine superiore. Oggi la linea storica del Gottardo lotta per la sua sopravvivenza. Fa quindi un certo effetto riprendere in mano questa guida d’autore pubblicata nel 1897, in un’epoca in cui le gallerie elicoidali dell’alto Ticino e le gole urane erano riuscite ad alimentare l’immagine di un esotismo alpino, mete imperdibili agli occhi di gentiluomini e dame di mezz’Europa.

Affari Esteri di Paola Peduzzi Il putinismo è obsoleto Vladimir Putin si è di recente concesso ai giornalisti europei per quelle che vengono chiamate le intervistemanifesto: provo a raccontarvi la mia filosofia. Dopo vent’anni di potere, il presidente russo non ha molto di nuovo da dire e un’idea su di lui ce l’abbiamo più o meno tutti, ma Putin ama comunque colpire dove fa male e gli europei sempre sulla difensiva non riescono quasi mai a parare le scudisciate russe: è accaduto ancora negli scorsi giorni quando il capo del Cremlino ha detto al «Financial Times» che il «liberalismo è obsoleto», è «entrato in conflitto con gli

interessi della stragrande maggioranza della popolazione» e con «i valori tradizionali». A quel punto i commentatori si sono divisi in due, lungo quella faglia che abbiamo imparato a conoscere: c’è chi dice che va bene tutto, ma lezioni di liberalismo da Putin non ne prendiamo; c’è chi dice che, scoccia ammetterlo, ma Putin ha ragione, lo dicono orde di politici e intellettuali anche da questa parte del mondo che il liberalismo non funziona più. Questa frattura – sempre identica a se stessa, ma molto profonda e anche dolorosa – sancisce il successo dell’operazione di Putin: è questo che

Vladimir Putin: la sua intervista al «Financial Times» ha sollevato un coro di critiche.

Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti In carrozza con un premio Nobel Spitteler, chi era costui? Alzi la mano chi può dire di conoscere vita e miracoli (letterari) del primo, e finora unico, premio Nobel svizzero per la letteratura (Hesse era nato in Germania, a Calw). Silenzio di tomba, e si capisce, giacché perfino nella sua area linguistica di riferimento, quella tedesca, Carl Spitteler passa per un Carneade. Le sue opere maggiori, rubricate sotto l’etichetta di «poemi epici», hanno l’aria di appartenere ad un’epoca remota: Primavera olimpica, Prometeo ed Epimeteo, Imago. Quest’anno, in occasione del centenario del Nobel conferitogli nel 1919, alcuni suoi testi sono tornati in circolazione, ma è presto per parlare di «riscoperta». In italiano c’è poco, e in ogni caso bisogna rivolgersi agli antiquari. Con un po’ di fortuna salta fuori una silloge curata da Carlo Picchio per le edizioni UTET (1970). Nato a Liestal nel 1845, Spitteler ebbe

una formazione teologica, ma consacrato pastore decise di rinunciare al ministero. Dopo vari soggiorni all’estero, tra cui uno a San Pietroburgo, fu dapprima insegnante nel canton Berna e poi redattore delle pagine culturali della NZZ. Il matrimonio con una facoltosa signora olandese, Marie Op den Hooff, lo liberò dalle preoccupazioni economiche. Poté quindi dedicarsi completamente all’attività letteraria. Si spense a Lucerna nel 1924. Autore caduto nell’oblio, si diceva. Eppure sarebbe ingiusto lasciarlo per l’eternità in quella condizione. Almeno due testi suoi vanno tenuti in bella vista sugli scaffali. Ci riferiamo a Il Gottardo (Der Gotthard), ora disponibile anche in italiano (a cura di Mattia Mantovani, editore Dadò) e alla conferenza tenuta a Zurigo nel dicembre 1914 La neutralità di noi svizzeri (orig. Unser Schweizer Standpunkt), ripresa


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 luglio 2019 • N. 28

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Cultura e Spettacoli L’arte della botanica Al Museo Vela di Ligornetto una mostra celebra Josef Hanel e Gabriela Maria Müller

Raccontarsi secondo Trevi In Sogni e Favole le riflessioni di Emanuele Trevi sul valore di raccontare e di raccontarsi

La magia delle chiese rupestri Continua il nostro viaggio alla scoperta del fascino nascosto della città di Matera, dichiarata capitale della Cultura europea 2019 pagina 41

pagina 33

Sul carrozzone di Dylan Dopo il (discusso) Nobel per la letteratura, Bob Dylan in un nuovo cofanetto di CD e su Netflix in un film di Scorsese pagina 45

pagina 37 Particolare di Paesaggio con pini marittimi e imbarcazioni di Carlo Storni da un affresco di Villa Lancellotti a Frascati. (Pinacoteca cantonale Giovanni Züst, foto Ely Riva)

Carlo Storni e i suoi teleri

Mostre Alla Pinacoteca Züst di Rancate si celebra un artista ticinese che nel 1761, a soli 23 anni,

partì alla volta di Roma in cerca di fortuna Elena Robert Rimane ancora molto da scoprire sulla figura di Carlo Storni (1738-1806) di Lugaggia, pittore e «coloraro» attivo a Roma, anche se negli ultimi anni ricerche d’archivio incrociate in Ticino e nella capitale italiana hanno consentito di ricostruire la vita di questo artista della Capriasca di cui, fino a poco tempo fa, non si sapeva praticamente nulla. A motivare questi studi è l’esistenza di un bel ciclo di teleri sulle Storie della vita della Vergine, da lui realizzati alla fine del Settecento per la parrocchia di Tesserete. Sono stati al centro di non poche vicissitudini da quando furono trafugati nel 1968, quindi immessi sul mercato antiquario e dall’anno successivo venduti. La maggior parte di essi è confluita poi in collezioni pubbliche e private del Cantone. Questa storia «recente» dai risvolti penali a distanza di anni è stata ripercorsa e integrata nei saggi della pubblicazione che accompagna la mo-

stra dedicata a Carlo Storni in corso alla Pinacoteca Züst. L’iniziativa si rivolge a pubblico e storici dell’arte affinché conoscano l’esito incoraggiante delle prime ricerche sull’artista nonché questo ciclo pittorico del capriaschese, consentendone una inedita visione d’insieme, con la speranza di recuperare i teleri tuttora dispersi. Il ciclo completo si compone infatti di quindici pezzi, solo dodici dei quali esposti a Rancate: cinque provengono dalle chiese di Cagiallo e Tesserete, tre dal Museo d’arte della Svizzera italiana, Collezione Città di Lugano, altri tre dalla stessa Pinacoteca Züst, uno da un privato. Tre teleri, tra quelli che a suo tempo finirono nelle mani di un antiquario di Golino poi dileguatosi, risultano tuttora introvabili. E nonostante il sequestro conservativo delle opere, deciso nell’ambito dell’inchiesta aperta dalla Procura pubblica sottocenerina su istanza del Consiglio parrocchiale, fosse stato revocato nel 1970 con il diritto alla libera disposizione delle stesse.

Oggi l’auspicio è di riuscire a riunire in un unico spazio nella Capriasca almeno i dodici teleri presentati a Rancate e, chissà, un giorno, con un colpo di fortuna, l’intero ciclo pittorico, una volta ritrovati i tre dispersi. Tenuto conto delle tematiche trattate sui teleri che conosciamo, quelli mancanti potrebbero verosimilmente raffigurare L’assunzione di Maria al cielo, La discesa dello Spirito Santo su Maria e gli apostoli e Maria e il discepolo Giovanni ai piedi della croce (oppure Le nozze di Cana). L’ultima volta che i fedeli li videro tutti insieme fu nel 1951 nella chiesa di Tesserete. Dopo così tanti anni fa un certo effetto poterli ammirare uno accanto all’altro e a una distanza ravvicinata tale da poter apprezzare trama e bellezza del materiale, un lino tessuto a mano, e modalità pittorica. I teleri sono stati dipinti con i «succhi d’erba», una tecnica molto diffusa in Europa tra Sei e Settecento, ossia con colori ad acqua di origine vegetale stesi direttamente sul supporto con il pen-

nello. Dalla scritta Carolus Storni Romae delineavit et pinxit 1792 traspare l’indipendenza creativa dell’autore e la fierezza di lavorare in un ambiente speciale e stimolante come quello della Città Eterna. Questi teleri devozionali, destinati ad essere esposti durante l’anno nelle festività mariane, furono con molta probabilità donati da Carlo Storni alla parrocchia per affermare il legame affettivo con la sua terra d’origine e testimoniare il successo del suo operato a Roma. L’impostazione delle scene, la compostezza dei personaggi nel portamento, negli sguardi e nei gesti, la chiarezza dell’episodio narrato, riflettono canoni artistici del classicismo seicentesco di matrice emilianobolognese ancora seguiti nella Roma di fine Settecento. La mostra e soprattutto i saggi in catalogo ci fanno scoprire un Carlo Storni emigrato nel 1761 a 23 anni, molto introdotto nella Roma del tempo, che ivi mantiene stretti legami con altri ticinesi lontani dalla patria, in particolare capriaschesi come i Lepori.

Si sposò con una romana dalla quale ebbe dieci figli, dedicandosi alla pittura e decorazione a carattere profano, oltre che religiosa. Sono suoi infatti gli affreschi mitologici, eseguiti tra il 1775 e il 1778 per l’antica e potente famiglia Piccolomini, nell’edificio annesso a Villa Lancellotti a Frascati. E non sorprende che avesse a Roma anche una bottega di colori e affini frequentata da celebri artisti, ereditata da suo suocero, non lontana dal Pantheon e tuttora esistente. Dove e quando

Carlo Storni (1738-1806) – Pittore e «coloraro» svizzero a Roma, mostra e catalogo a cura di Antonio Gili, Pinacoteca cantonale Giovanni Züst, Rancate e Fidia edizioni d’Arte, Lugano e Milano, 2019. L’esposizione è visitabile fino al 25 agosto 2019. Orari fino a giugno 9.00-12.00 e 14.0017.00, luglio e agosto 14.00-18.00, giorni festivi compresi, lunedì chiuso. decs-pinacoteca.zuest@ti.ch


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Cultura e Spettacoli

Quando il creato svela i suoi segreti Mostre Al Museo Vela di Ligornetto l’arte incontra natura e scienza

Alessia Brughera È il 2015 quando la conservatrice del Museo botanico dell’Università di Zurigo si imbatte in cinque piccole casse di legno nei depositi dell’istituzione. Aprendole, scopre che al loro interno sono custodite numerose diapositive su vetro che ritraggono forme di vita del mondo vegetale: le immagini di felci, funghi, piante da fiore, muschi e licheni, immortalati nel loro habitat naturale, appaiono agli occhi della studiosa di una tale bellezza da indurla a esaminarle con particolare attenzione. A colpirla più di ogni altra cosa è l’estremo realismo con cui sono realizzate, come se fossero frutto delle più sofisticate tecnologie moderne. Una meticolosa analisi del materiale evidenzia come questi soggetti botanici siano fotografie in bianco e nero su cui qualcuno è intervenuto poi con il colore mediante l’ausilio di un pennello finissimo, donando loro raffinati giochi di luce e delicati effetti chiaroscurali. Dipinte a mano con una simile accuratezza, le diapositive non potevano che essere opera di un artista abile sia nelle vesti di fotografo sia in quelle di pittore. E difatti, partendo dalle iniziali riportate sulle lastre di vetro, la conservatrice riesce a risalire al loro autore, Josef Hanel, pittoredecoratore formatosi probabilmente a Vienna e fotografo autodidatta, nato nel 1865 nella regione austriaca del Sudeti e attivo tra il paese d’origine, la Germania e la Cecoslovacchia. Hanel, vero e proprio pioniere del genere, si era specializzato nella produzione di fotografie e diapositive colorate per la divulgazione scientifica e collaborava con università e riviste del settore botanico grazie alla sua maestria nella resa finale dell’immagine. Dalle ricerche è emerso difatti che le riproduzioni così veritiere dell’artista erano molto apprezzate dagli insegnanti come valido supporto alle loro lezioni e dalle case editrici come illustrazioni per manuali dedicati all’argomento. Sebbene create con un intento perlopiù didattico, le diapositive di Hanel riflettono chiaramente le sue ambizioni di pittore: l’attenta inqua-

dratura della composizione, la perizia nella stesura del pigmento e le sottili sfumature atte a restituire i minimi dettagli del soggetto attribuiscono a queste raffigurazioni un valore artistico di non poco conto, accostando alla loro funzione scientifica quella di elementi estetici a tutti gli effetti. Tra gli oltre milleduecento temi botanici eternati da Hanel in tutta la sua carriera, quelli rinvenuti nei depositi del Museo di Zurigo, realizzati nei primi decenni del XX secolo, sono il fulcro attorno a cui si sviluppa la mostra allestita nelle sale del Museo Vela di Ligornetto. La rassegna vuole instaurare uno stretto dialogo tra natura, scienza e arte attraverso il felice accostamento dell’inedita serie di diapositive del fotografo e pittore austriaco a una selezione di opere dell’artista Gabriela Maria Müller, due figure che, sebbene lontane nel tempo e nel linguaggio espressivo, spartiscono la medesima visione del creato come preziosa entità da celebrare e custodire. Della natura entrambi indagano con i loro lavori il fascino e il mistero insiti in ogni elemento, anche il più piccolo e apparentemente insignificante. Entrambi esplorano i ritmi e le metamorfosi di un universo splendido e fugace, lasciandosi guidare da quel senso di stupore che nasce proprio dalla consapevolezza della sua precaria bellezza. La perizia tecnica nell’esecuzione delle opere, poi, è l’altra affinità che lega i due artisti, una cura estrema che li porta a concepire il processo creativo come frutto di un lavoro paziente e meticoloso, mosso anch’esso dalla volontà di spingersi dentro le trame della natura per conoscerla nel profondo. Ecco allora che accanto alle lastre di Hanel, di cui a Ligornetto sono esposti anche numerosi ingrandimenti per coglierne meglio la qualità, troviamo le opere della Müller, artista nata in Appenzello ma ticinese d’adozione, da sempre innamorata della natura fin nelle sue estrinsecazioni più minute, reputate come porzioni indispensabili di una totalità armoniosa. Dietro a ogni piccolo frammento, sia esso una foglia, un seme o un gra-

nello di terra, si cela per l’artista, che da anni vive in simbiosi con i boschi di Pura, la dimensione primigenia del creato, l’anima del cosmo che svela la sua grazia e la sua energia. Per la Müller l’esperienza dell’arte si fonde completamente con quella della natura, dando vita a un linguaggio simbolico costituito da forme elementari, da trasparenze e luminosità che raccontano di un mondo intimo e raccolto, nobile e pacato. Affascinata dalla delicatezza di un seme così come dalla solidità di una roccia, l’artista lavora i materiali ora con gesti morbidi e cadenzati, come in una sorta di rituale, ora con forza e fatica fisica, quasi a voler potenziare attraverso le sue mani lo spirito fecondo dell’universo. Quello della Müller è l’approccio di chi comprende la natura, di chi ne ammira la vitalità e l’enigmatica essenza ma ne riconosce nondimeno la fragilità, aspetto che la rende ai suoi occhi ancora più preziosa. Emerge potente questo concetto dalla grande installazione che l’artista ha realizzato appositamente per la rassegna di Ligornetto: appese al soffitto, ventiquattro ciotole di porcellana bianca, levigata prima e dopo la cottura per ottenere uno spessore finissimo, contengono ciascuna un seme di canna e hanno la base ricoperta di lamina d’oro, a rimarcare la straordinarietà di ogni singola particella dell’immenso organismo naturale. Significativa, ancora, della poetica dell’artista, è l’opera Coeurs sacrés, un grande disco in tessuto trasparente su cui la Müller ha incollato migliaia di semi di olmo, da lei stessa raccolti e fatti essiccare, disposti a formare una spirale, simbolo dell’eterna ciclicità che governa il creato e metafora di come dalla più piccola traccia della natura possa scaturire l’infinito. Dove e quando

In-flore-scientia. Arte e botanica. Josef Hanel (1865-1940) / Gabriela Maria Müller. Museo Vincenzo Vela, Ligornetto. Fino all’11 agosto 2019. Orari: da ma a do 10.00-18.00; lu chiuso. www.museo-vela.ch

Josef Hanel, Papavero domestico, Museo botanico dell’Università di Zurigo. (© Botanisches Museum der Universität Zürich)

Il ritorno di Nabucco a Zurigo

Opera In cartellone a Zurigo la terza opera di Verdi che ha visto l’ottimo debutto del baritono Michael Volle

Marinella Polli Un felice ritorno all’Opernhaus, quello di Michael Volle che debutta nel ruolo in titolo del Nabucco: le grandi aspettative per questa nuova produzione trasmessa live da ARTE, firmata dal padrone di casa Andreas Homoki e per la direzione musicale di Fabio Luisi, erano principalmente dovute proprio alla presenza del cantante tedesco. Il Nabucco, dunque, rappresentato per la prima volta nel 1842 alla Scala, terza opera di Giuseppe Verdi, quella che già evidenzia uno stile inconfondibile e che segna definitivamente la sua carriera. È un dramma lirico in quattro parti che concentra le forti dinamiche psicologiche della storia d’amore e di gelosia vissuta da Abigaille e Fenena, figlie di Nabucco, con l’ebreo Ismaele, e la lotta per il potere sullo sfondo del contrasto fra le divinità pagane e la fede nell’unico dio degli ebrei. Anche il Maestro Fabio Luisi, con il dovuto rispetto per la partitura di cui sottolinea adeguatamente i detta-

gli, dirige per contrasti guidando una «Philarmonia Zürich» sempre attenta alla sua vibrante bacchetta lungo un percorso musicale ora energico ora sommesso. Di enorme impatto l’esecuzione del celeberrimo Va pensiero, struggente lamento degli Ebrei per la patria lontana, ma anche simbolo di

ogni sofferenza umana, a prescindere da colore politico o religioso. E il coro (Chor der Oper Zürich, Chorzuzüger e Zusatzchor des Opernhauses Zürich preparati da Janko Kastelic) è compatto e in forma eccezionale anche in numerosi altri momenti dell’opera; nulla di meglio per un’o-

Michael Volle nei panni di Nabucco. (Monika Rittershaus)

pera primariamente corale come il Nabucco. Ottimo anche il debutto di Michael Volle nel ruolo del titolo. ll carismatico baritono offre una notevole prova interpretativa; grande mestiere, e un’abile espressività, la sua, che concentra tutte le sfumature del personaggio: forza e tracotanza già nello splendido «tutti» che è S’appressan gli istanti e fino al Non son più re, son Dio; smarrimento, introspezione, accoratezza e dolcezza, poi. Sia scenicamente che vocalmente, mai visto un Nabucco più coinvolgente e umano di lui. Limpido il canto di Benjamin Bernheim, pure al suo debutto come Ismaele, ruolo ben interpretato anche scenicamente; con solenne autorevolezza vocale, si impone anche Georg Zeppenfeld nei panni di Zaccaria. Anna Smirnova è invece una Abigaille in difficoltà soprattutto con gli acuti e le agilità tipiche dello smoderato personaggio, laddove Veronica Simeoni quale Fenena non trasmette particolari emozioni. Dignitosi, ma piuttosto incolori i comprimari Sta-

nislav Vorobyov (Gran Sacerdote), Omer Kobiljak (Abdallo) e Ania Jeruc (Anna). A parte qualche spunto interessante, come la presenza in scena di Abigaille e Fenena bambine, affettuosamente seguite da Nabucco, piuttosto tradizionale e piatta la visione registica di Homoki; buona la guida dei personaggi principali, ma molto manieristica quella di gruppi e masse. Netta differenza visiva fra le due fazioni che si oppongono, ma prevalentemente sul verde la scenografia di Wolfgang Gussmann: essenziale, funzionale e composta di un enorme muro girevole. Verdi anche i costumi ottocenteschi delle signore assirobabilonesi (di Gussmann e di Susana Mendoza), il tutto corredato dal Light Design di Franck Evin. Il folto pubblico della première, inizialmente alquanto tiepido, ha poi riservato calorosi e sentiti applausi a Volle e al Coro in particolare, ma anche agli altri cantanti e al maestro e orchestra. Repliche di questa penultima produzione della stagione 2018/2019 fino al 16 luglio.



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Cultura e Spettacoli

Mi ritraggo

Pubblicazioni In Sogni e favole, libro autobiografico

di Emanuele Trevi, innumerevoli spunti per una profonda riflessione

Laura Marzi «Nella sua essenza più profonda, la poesia è la forma suprema della biografia. Al contrario, le epoche di mediocrità letteraria sono caratterizzate da una generale estraneità delle opere all’esistenza che le produce»: Emanuele Trevi offre un nuovo punto di vista per giudicare il proliferare di testi autobiografici che caratterizza la narrativa contemporanea, rispetto ai quali la critica tende istintivamente ad arricciare il naso. E se, come scrive Trevi, la poesia fosse davvero la forma suprema della biografia? E se il piacere che le persone provano a leggere testi autobiografici, in cui potersi facilmente immedesimare con l’io narrante non fosse da considerare peccato di gola, ma un piacere non solo condivisibile, ma anche esteticamente elevato? Trevi, poi, propone un metro semplice e netto per distinguere tra i libri mediocri: «che potrebbero, con minime differenze, essere stati scritti anche da altre persone, tanto in loro è prevalente il carattere di prodotto e tanto la vita che ne è il presupposto si riduce a una carriera» e quelli che non lo sono. Se il racconto autobiografico potrebbe essere stato scritto dalla persona il cui nome compare sulla copertina come da altre che hanno caratteristiche simili, per età, genere sessuale e provenienza

sociale, allora quel testo è un prodotto. Se invece ciò che leggiamo è catartico, anche se si tratta del racconto della vita della nonna dell’autore, è bene smettere di arricciare il naso e godersi l’esperienza della lettura. Nel caso di questo libro di Emanuele Trevi, del tutto autobiografico, l’autore è riuscito a porsi nella condizione di estrema consapevolezza di Ivan Il’ič del racconto di Tolstoj che cita: «Ivan Il’ič ragiona sull’abissale differenza tra imparare a scuola che tutti gli uomini sono mortali e capire che, in quel dato momento, a tirare le cuoia è proprio lui e non c’è più niente come “tutti gli uomini”». Ecco, Trevi dà al lettore la sensazione che non ci sia «più niente come tutti gli uomini», per questo ciò che sta scrivendo lo comunica attraverso un ideale dialogo solo tra lui e te, che lo stai leggendo. Come è bello essere destinatari di una confidenza. E di molti insegnamenti, che spaziano dalla storia dell’arte a quella della letteratura, sempre a partire da un approccio che resta umano, perché non dimentica la decadenza, anzi sorge dalla consapevolezza di essa: «questa è la vita umana, un nome e un lavoro incorniciati da due date, è questo che si prende la morte. C’è sempre poco da dire su ciascuno di noi, poco da ricordare, poco da incidere su un marmo bianco». A partire da tale consapevolezza della

condizione umana, di Amelia Rosselli raccontata da Trevi ci rimane impresso il bisbiglio che lei fa in macchina «come un lievissimo lamento – forse un modo per tenere a bada il flagello delle voci interiori, degli spioni» e il fatto che di tutte le letture possibili, Rosselli gli consigli quella di Pitagora. In un romanzo in cui il ritratto viene definito: «tra tutte le arti umane, ancora più della musica, la più filosofica, ovvero la più ostinata nella ricerca della verità», Trevi cerca il vero con lo strumento che meglio può aiutare a trovarla, allora: proprio il ritratto. Per questo, il racconto che scrive del suo amico Arturo Patten, grande fotografo statunitense del ’900, è il dipinto di un amico, talmente bello che si prova desiderio a vederlo comparire nelle pagine: «i lineamenti affilati e gli occhi chiarissimi gli davano l’aspetto di un uccello rapace, e nei tanti anni che l’ho frequentato a partire da quella sera ho sempre pensato a lui come a un falco […] Io adoravo Arturo per tanti motivi, ma al centro di tutto c’era la sua capacità di conoscersi». Nel testo sono vari i ritratti pittorici sacri descritti come un incontro invece che come un oggetto d’arte, per questo il libro può essere utilizzato anche come guida turistica di eccellenza, per un viaggio a Roma alla ricerca dei luoghi in cui si nascondono capolavori

Molti sono gli insegnamenti nel libro di Trevi.

artistici. Trevi fornisce informazioni sulle opere nascoste, a cui si sono sovrapposte opere d’arte più recenti e più celebri, come nel caso della chiesa di Santa Maria Odigitria. Come i pittori hanno l’ardire di dipingere la Madonna, Trevi dall’alto di una spregiudicatezza liberatoria conquistata con lo studio ritrae Vittorio Alfieri come un invidioso: «quella che Alfieri non sopporta è la vista di un uomo sereno, realizzato». Accanto all’avverbio che Alfieri usa in Vita (1806) per descrivere il modo di comportarsi di Metastasio, che è la prima fonte di ispirazione di questo libro di Trevi, leggiamo: «Servilmente. Ma che

cazzo ne sai!». Mentre si ride di gusto per questa impertinenza, Vittorio Alfieri e Metastasio ritornano vivi, riemergono dalla sabbia dei testi di storia della letteratura in cui ce li ricordavamo mummificati, perché se «è pure vero che del tempo che ci è concesso noi facciamo un solo uso: lo perdiamo, non sappiamo fare altro che perderlo» l’incontro con un testo, un’opera d’arte, resta tra i modi migliori che esistono per perdere tempo, cioè per vivere. Bibliografia

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Cultura e Spettacoli Lo sperone roccioso di Sasso Caveoso in cui sono state scavate le chiese rupestri di Santa Maria de Idris e San Giovanni in Monterrone. (Tommaso Stiano)

Chiese rupestri, il culto tra le rocce

Itinerari d’arte a Matera Scavate nel tufo, abitate sin dall’VIII secolo, diffuse

su tutto il territorio di Matera e del Parco della Murgia sono uno scrigno dell’arte rupestre tardo medievale – Terza parte

Tommaso Stiano Nel 1993, assieme ai Sassi, anche il Parco delle Chiese rupestri di Matera – detto anche Parco della Murgia Materana – è entrato a far parte del patrimonio dell’umanità protetto dall’Unesco; questo perché sul territorio del parco dedito alla pastorizia sono disseminati 150 siti religiosi cristiani che costituiscono un’unicità mondiale. Sono tutti luoghi di culto ricavati nella rupe, una roccia piuttosto ripida che si inerpica per decine di metri a partire dal greto della Gravina materana fino all’altopiano della Murgia di fronte alla città. Questi edifici sotterranei, sia nel parco sia nell’antica Matera, sono una straordinaria testimonianza della pregnante relazione tra uomo e natura; qui le comunità monastiche latine e orientali hanno saputo plasmare l’ambiente alle necessità del loro culto. Risalenti all’Alto Medioevo, le chiese in rupe sono spesso impreziosite da oggetti scolpiti, incisioni e affreschi in parte conservati fino ai nostri giorni. Dal profilo architettonico presentano diverse forme: ad aula unica, a due o tre navate, con absidi e transetti, con cupole; talvolta sono completamente sotto terra, in altri casi mostrano belle facciate costruite con il sasso tolto alla montagna. Le prime chiese ipogee risalgono all’VIII secolo con la diffusione della vita monastica benedettina, seguono poi quelle di matrice bizantina (grecoorientale) con eremiti e anacoreti che, in fuga dai conflitti dell’Oriente dove l’avanzata musulmana non permetteva più l’esercizio del culto cristiano, trovarono un rifugio adatto alla loro vita solitaria e di preghiera nella zona della Murgia materana. Nel corso del tempo questi edifici hanno subito diverse trasformazioni d’uso diventando casegrotta, laboratori, depositi di mercanzie o ricoveri per animali. Di seguito citiamo alcuni esempi di chiese rupestri di Matera che abbiamo visitato:

Chiesa dei Cento Santi è stata soprannominata «Cappella Sistina del rupestre» per tutta una serie di affreschi dai colori brillanti presenti in un unico spazio. Ricavata nella roccia tra l’VIII e il IX secolo da una comunità monastica benedettina la chiesa presenta tre rudimentali absidi. Probabilmente, l’autore del ciclo di affreschi dei Cento Santi (Apostoli, Madonne, Arcangeli) è uno dei frati del convento; sulle pareti di fondo troviamo anche scene della Genesi con l’episodio del Peccato Originale che ha dato il nome alla cripta. Abbandonato dai monaci, il sito divenne rifugio di pastori e pecore; scoperto nel 1963, fu sottoposto a minuziosi restauri conservativi e oggi è aperto agli estimatori dell’arte rupestre. Solo visite (audio)guidate con viaggi organizzati in bus da Matera da diverse agenzie che si occupano della prenotazione obbligatoria. Altre info: www.criptadelpeccatooriginale.it. Chiesa San Pietro Barisano

Si trova nella piazza omonima in Sasso Barisano ed è il più grande edificio sacro rupestre di Matera. Risale al XII-XIII secolo con successivi continui ingrandimenti fino alle tre navate attuali e ai molti altari laterali. Solo il campanile e la facciata (del 1755) sono a cielo aperto, tutto il corpo della chiesa è sotterraneo e a un livello inferiore ci sono le catacombe riservate ai sacerdoti

Madonna delle Virtù e San Nicola dei Greci

Questo complesso rupestre in via Madonna delle Virtù del Sasso Barisano, oltre ai due luoghi sacri, è composto anche da un convento, da una casa-grotta e da un’antica cantina; tutti gli ambienti sono collegati tra loro grazie a stretti passaggi e ripide scalinate che conducono ad un terrazzino bellavista da cui si può scorgere l’altipiano della Murgia e il torrente Gravina. La chiesa dedicata alla Madonna delle Virtù è sorta nel XII secolo interamente scavata nel tufo e si sviluppa su due piani; all’interno si presenta con tre navate e absidi semicircolari che richiamano le basiliche romaniche. Abbandonata e in disuso era diventata sede di una discarica finché nel 1967 è stata completamente restaurata. La chiesa di S. Nicola, posta sopra quella della Madonna, invece ha fattezze tipicamente bizantine risalenti pure al IX secolo; è formata da due navate che terminano con absidi e presenta alcuni affreschi rupestri realizzati nei secoli successivi (Crocifissione, San Giovanni Battista, la Madonna, Santa Barbara). Oggi le due chiese sono la sede principale della mostra Salvador Dalì. La persistenza degli opposti in occasione di Matera Città della cultura 2019. Santa Lucia alle Malve

Cripta del Peccato Originale

È la più bella in assoluto. Pur trovandosi a 15 km dal centro, tra campi d’ulivi e di grano, la Cripta del Peccato Originale appartiene alle chiese rupestri di Matera. Conosciuta anche con il nome di

perché San Pietro Barisano era chiesa parrocchiale fino al 1903. Con l’abbandono dei Sassi dopo il 1950, l’edificio subì furti, saccheggi e vandalismi alle opere pittoriche di cui rimangono pochi esemplari. Oggi è sede della mostra d’arte contemporanea «Aion nei Sassi» (sculture femminili ricoperte con materiali poveri) di Louise Manzon fino al 15 luglio.

La Vergine Regina tra due Santi in una nicchia della Cripta del Peccato Originale. (criptadelpeccatooriginale.it)

Ubicata nel rione Malve del Sasso Caveoso, questo edificio rupestre porta il nome Alle Malve per la pianta che cresce spontanea nella zona ed era parte integrante del monastero benedettino femminile fondato attorno al IX secolo; dopo il trasferimento delle monache fu usata come abitazione privata fino al 1960; ha subito importanti restauri negli anni Settanta del secolo scorso. La facciata presenta tre calici scolpiti con

gli occhi della Santa protettrice della vista e l’interno è composto da tre navate con molti affreschi tra cui una bella Madonna del Latte e un imponente San Michele Arcangelo. Nella navata di destra è stata ricavata una nuova chiesa tuttora aperta al culto. Matera è nota come città «al contrario» dove i morti stanno sopra i vivi, infatti proprio qui, non sotto ma sopra questa chiesa è stata scoperta una necropoli con 140 tombe conosciuta come il Cimitero barbarico dell’VIII-XII secolo.

La musica degli antichi scalpelli Càvea Festival Un

singolare progetto di animazione del territorio ad Arzo

Se avessero raccontato alle generazioni di scalpellini e di manovali, per secoli al lavoro nelle cave di Arzo, che l’area in cui estraevano con gran fatica le lastre di pietra pregiata un giorno sarebbe diventata la sede di un festival musicale, certamente non ci avrebbe creduto. E invece, la fantasia dei discendenti spesso supera l’immaginazione degli antenati. Il comprensorio che circonda le vecchie cave, oggi parte del patrimonio dell’Unesco, è da qualche tempo oggetto di un progetto di riqualifica ambientale, che ha anche l’obiettivo di ridefinirne la funzione e il ruolo all’interno della regione. Un intervento molto azzeccato che l’ha trasformata in un suggestivo anfiteatro. L’area rocciosa, circondata dal bosco del San Giorgio, si è prestata con pochissimi interventi ad assumere una nuova fisionomia. Lo spiazzo, accogliente, intimo e allo stesso tempo piuttosto maestoso, si è dimostrato in grado di accogliere un festival musicale giovanile, il «Càvea Festival», la cui prima edizione, lo scorso anno, si è svolta con grande soddisfazione di pubblico e di organizzatori. Anche quest’anno, dunque, «Càvea Festival» si ripropone al pubblico, forte di un programma musicale di ottima qualità, offrendo oltre 12 ore di musica, spettacoli e performance artistiche. Il

Santa Maria de Idris e San Giovanni in Monterrone

Santa Maria de Idris è interamente scavata sotto lo sperone di roccia che domina il rione Sasso Caveoso e offre una vista spettacolare sulla città e sull’Altopiano della Murgia. Vi si accede salendo una rampa di scale che affianca la chiesa Santa Lucia alle Malve ed è collegata per mezzo di un cunicolo alla cripta di San Giovanni in Monterrone dove ci sono i migliori affreschi rupestri del XII-XVII secolo da ammirare (Sant’Andrea, San Nicola, San Pietro, San Giacomo Maggiore, il Cristo Pantocratore, San Michele Arcangelo) e un presbiterio sopraelevato. Per Matera 2019 le due chiese ospitano opere d’arte contemporanea. Così come le case-grotta, anche l’architettura in negativo degli ipogei sacri e le pitture rupestri hanno dato un buon contributo alla notorietà di Matera. Esplorando per un’intera settimana da turista interessato questi gioielli dell’arte rupestre tardomedievale, si rimane affascinati dalla bravura e dalla cura con cui i nostri antenati hanno saputo comunicare la loro fede fino ai nostri giorni, una comunicazione fatta di forme e di immagini che nell’era del digitale ci insegnano ancora qualcosa: la fede, la cultura, la bellezza sono la sostanza, non importa lo strumento con cui vengono diffuse. Oltre alle chiese ipogee, passeggiando per Matera si incontrano anche molti luoghi di culto in superficie del periodo barocco e rinascimentale come la cattedrale e le chiese di San Francesco, del Purgatorio, di San Giovanni Battista, di San Biagio e di Sant’Agostino, ognuna delle quali conserva opere degne del patrimonio artistico materano.

È in programma il 13 luglio, dalle 14.00 alle 03.00. (O. Cartulano)

momento più importante sarà sicuramente l’esibizione serale dell’australiano Nic Cester, accompagnato dai Milano Elettrica, super band di nove elementi. Ma il lungo programma musicale, che inizierà già nel pomeriggio, vedrà alternarsi sui due palchi vecchie conoscenze della scena musicale ticinese, tra cui i Bumblebees, vincitori di Palco ai Giovani 2017, i Make Plain, duo ticinese che va sempre più affermandosi sulle scene europee, i Flanard, e altri. In collaborazione con l’associazione Cavaviva, il pomeriggio alle cave sarà animato da un busker festival su misura, con musicisti, artisti di strada, clown e molto altro. Uno spazio speciale sarà riservato alle creazioni estemporanee di artisti visivi che realizzeranno progetti specificamente pensati per lo spazio delle cave. La serata si chiuderà con un Dj set curato da Rete Tre. Dal punto di vista logistico sarà possibile raggiungere il festival con uno sconto del 20% sui biglietti dei mezzi pubblici, mentre una navetta gratuita collegherà la stazione di Mendrisio alle cave, a partire dalle 18.00. Per informazioni e prevendite: http://cavaviva.ch/ cavea-marmart-festival In collaborazione con


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 luglio 2019 • N. 28

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Cultura e Spettacoli

Dylan l’antesignano

Musica Gli «anni ruggenti» del palco: a distanza d’oltre un quarantennio, l’influenza del più

ardito esperimento di Bob Dylan è ancora presente nell’immaginario rock odierno

Benedicta Froelich Dopo il Premio Nobel per la Letteratura conferitogli nel 2016, non vi è dubbio che molti si siano infine resi conto del peso che la figura di un cantautore quale Bob Dylan ha avuto, in termini di stile narrativo e poetico, non solo sulla musica, ma sull’intera cultura popolare di lingua inglese; meno evidente, però, rimane il contributo fornito dal Bardo di Duluth non soltanto come compositore e storyteller, ma anche come protagonista di performance dal vivo tranquillamente definibili

come rivoluzionarie. Certo, il grande pubblico è abituato a identificare l’eccellenza «live» con altri nomi storici della scena rock, noti per il vigore e l’energia assoluti delle loro esibizioni, ad esempio, i sempreverdi Rolling Stones o l’iperattivo Bruce Springsteen. Eppure, non tutti sanno che, proprio nel pieno della gioiosa ubriacatura musicale degli anni 70, Bob Dylan ha condotto un esperimento dal vivo più unico che raro, definibile come alquanto in anticipo sui tempi nella sua poco convenzionale modernità: la creazione di una specie di anarchico carrozzo-

Sul poster del film di Scorsese, in senso orario, Bob Dylan, Jack Elliott, Bob Neuwirth e Joan Baez. (Keystone)

Il lager della solidarietà

In scena Storie di umanità e immigrazione

ne rock, popolato da un improbabile assortimento dei più eterogenei ed eccentrici talenti della scena musicale del tempo, uniti in una sorta di zingaresca avventura on the road attraverso l’America. Una carovana circense a cui si accodarono, tra gli altri, la musa e compagna di un tempo Joan Baez e perfino l’ormai appesantito Allen Ginsberg, protagonista di episodi al limite del surrealismo puro. Benché sia oggi ricordata soprattutto per la pubblicità che diede al caso di Rubin «Hurricane» Carter (il pugile afroamericano ingiustamente accusato di omicidio e scarcerato solo vent’anni dopo, proprio grazie alla mobilitazione pubblica favorita da Dylan), l’avventura della «Rolling Thunder Revue», come venne battezzato l’eterogeneo ensemble, rappresenta in realtà ben più di una stravaganza in spirito seventies, così come le performance di quel periodo si differenziano fortemente da ogni altra esibizione affrontata da Bob nell’arco della sua pur lunga carriera (incluso il celeberrimo Never Ending Tour, intrapreso negli anni 80 e tuttora in corso). Infatti, sebbene, in ogni show, Dylan si sia sempre distinto per l’abitudine a riarrangiare audacemente i brani del suo repertorio in modo sempre diverso e a seconda dell’ispirazione del momento, tra il ’75 e il ’76 la Rolling Thunder Revue ha visto spingersi ben oltre tale desiderio, conferendo nuova vita alle canzoni (e quasi stravolgendole, anche nei testi) con una sorta di furia rabbiosa, che, ogni sera, ha dato vita a una vibrante cavalcata rock dall’intensità a tratti quasi eccessiva, a cui non era certo estraneo il copioso consumo di cocaina che caratterizzò la lunga tournée; e proprio tale dirompente brama musicale – il personale tentativo di Bob di rivitalizzare il rock contemporaneo – ha reso le performance tratte da quest’avventura irripetibile le più richieste tra tutto il materiale mai circolato sotto forma di cosiddetti bootleg (registrazioni abusive passate di mano in mano tra i fan più accaniti).

Forse anche per questo, la Columbia Records ha oggi deciso di donare ai fan uno splendido cofanetto di ben 14 CD, che permette finalmente una vera retrospettiva antologica di un episodio cruciale nella storia del «vintage rock». Pubblicato in modo da coincidere con la messa in onda su Netflix del documentario realizzato da Martin Scorsese sull’argomento, The Rolling Thunder Revue: The 1975 Live Recordings non si limita a proporre la solita compilation di brani sparsi, ma indulge piuttosto in un vero lavoro filologico, basato sui nastri completi di cinque concerti tratti dalla prima parte del tour (gli unici a essere stati registrati con apparecchiature professionali). In più, la vera sorpresa è costituita da ben quattro bonus discs, che rendono il box set indispensabile per ogni vero «dylaniano»: di questi, tre CD offrono registrazioni tratte dalle prove pre-tour effettuate dalla line-up al completo in location intime e informali quali il Seacrest Motel di Falmouth e gli studi S.I.R. di New York, mentre l’ultimo offre una miscellanea di cosiddette rarità (principalmente brani eseguiti solo una manciata di volte, come Jesse James e The Tracks of My Tears). L’unico limite di questa lodevole operazione discografica sta forse nel fatto che le registrazioni sono incentrate quasi esclusivamente sui set di Dylan, ideatore e indiscusso protagonista della Rolling Thunder Revue; e per quanto comprensibile, tale scelta fa inevitabilmente scivolare in secondo piano gli altri performer coinvolti, tra cui Roger McGuinn dei Byrds, lo storico folksinger Ramblin’Jack Elliott, e la già citata Baez. Eppure, il cofanetto riesce pienamente nell’obiettivo di ricordarci quanto unica e irripetibile l’esperienza della Rolling Thunder sia stata: un ricordo congenito che ogni successiva generazione di rockers reca tuttora nel proprio DNA – e di cui, grazie a questa retrospettiva, anche gli ascoltatori più giovani potranno infine essere consapevoli.

Un intenso momento dello spettacolo dell’Accademia Teatro Dimitri. (accademiadimitri. ch)

nello spettacolo di Diploma dell’Accademia Teatro Dimitri di Verscio Giorgio Thoeni

Per un’imprevedibile mossa del destino le vicende legate alla nave Sea Watch, con la sua intrepida capitana Carola Rackete, hanno fatto involontariamente da corollario al debutto e alle repliche di Avanti Avanti, Migranti! Storie di fughe e di arrivi, lo spettacolo di fine formazione per il conseguimento del Diploma dell’Accademia Teatro Dimitri di Verscio. Ogni anno, i giovani attori vengono diretti da un regista professionista chiamato a confrontarli con testi o progetti particolari destinati a un lavoro collettivo, un processo che altrimenti, sia per tempi di realizzazione sia per densità di preparazione, non sarebbe alla loro portata. Almeno nell’immediato. Quest’anno, per concludere il triennio, l’Accademia ha voluto richiamare Volker Hesse, dopo che lo stesso nel 2013 si era cimentato nell’allestimento dell’Orlando Furioso, sempre con allievi di fine formazione. Il regista tedesco, oltre a una lunga e prestigiosa

carriera in Germania e in Svizzera, è noto anche per aver ideato, con la coreografa e danzatrice Andrea Herdeg, l’evento Sacre del Gottardo creato in occasione della cerimonia di apertura della galleria di base dell’Alptransit. Ma che si tratti di attualità oppure di storia, il tema dei migranti non è che la punta dell’iceberg di un soggetto nel quale albergano vicende drammatiche, tragedie umane fra violenze quotidiane o episodi di crudeli sradicamenti. Che siano barche, gommoni, treni o camion, la sostanza dei flussi migratori rimane sempre un miraggio d’attualità. Non c’è giorno infatti che quella realtà non sia oggetto d’interesse per l’informazione, materia per scontri politici e sociali farciti di luoghi comuni su un fenomeno che, all’occorrenza, viene vissuto ora come un’invasione ora come un attentato alla cultura, ma anche come un pericoloso peso per una società in cui ancora si confonde la politica di accoglienza con la tolleranza, il dovuto soccorso con l’azione umanitaria. Tempi in cui è duro dare un senso e cercare delle risposte.

Il progetto di Avanti Avanti, Migranti! Storie di fughe e di arrivi, andato in scena a Locarno nel cortile del DFA ha coinvolto dodici studenti unitamente a rifugiati e richiedenti asilo, uomini e donne provenienti da centri di tutto il Ticino. Insieme hanno dato corpo a un modello di integrazione teatrale, un’inclusione densa di significati in cui l’equilibrio e la forza del messaggio si sono associati in una coralità esemplare. Diretto da Volker Hesse con Andrea Herdeg, un tandem ormai collaudato, e con la collaborazione di Ruth Hungerbühler, lo spettacolo non è stato un pretesto per studiati movimenti d’assieme o individuali, quanto più occasione di intensi slanci di contenuto, frutto di un lavoro meticoloso, iniziato a gennaio e animato da molti incontri, discussioni, visione di materiali filmati, documentari, articoli, libri: «tutto ciò», ci ha raccontato Hesse, «ha contribuito a creare una forte motivazione nel gruppo attorno a un progetto che ha

richiesto molta energia. Non si trattava di mostrare solamente quanto fosse brava l’Accademia nel formare i ragazzi, ma occorreva anche costruire un progetto». Da qui l’incontro con gli «ospiti», i migranti con le loro storie vissute nei campi di raccolta: «storie estreme e toccanti che hanno creato consapevolezza e coinvolgimento». Attori acerbi, chi più determinato e chi invece ancora intimidito, ma nel complesso un bell’assieme. Resta però certamente da migliorare l’uso della voce – disciplina distante dalla formazione dell’Accademia – per uno spettacolo di circa un’ora e mezza che ha lasciato un segno nel cuore del pubblico grazie a un artificio dalla doppia prospettiva: un percorso modellato lungo un alto reticolato di transenne per un voyeurismo da spettatore e un transfer emotivo in cui le regole del gioco sono spesso la denuncia di un sistema culturale colpevole, protetto da paure inconsce verso la diversità.

King Salmo e l’energia dei live Questo nuovo sound I concerti del

cantante sardo sono frequentatissimi

Tommaso Naccari Mentre Ligabue piange e si sfoga ammettendo con gran coraggio il flop del suo tour, c’è un artista che continua a macinare numeri incredibili – che qualcuno più anziano ma anche più sul pezzo di me definirebbe da capogiro. Quel qualcuno è Salmo. Mentre in queste ore esce il Machete Mixtape 4, che è l’ennesima conferma dello strapotere sardo sulla scena, in barba a chi pensa di poter accentrare tutto a Milano, la SIAE ha pubblicato i 10 concerti con più affluenza nel primo semestre del 2019 e ben tre su 10, poco meno del 33,3%, sono proprio di Salmo. I live di Salmo sono – in queste ore – uno degli argomenti più discussi d’Italia visto che senza essere un mediocre come lui, il rapper sardo ha imitato Dave Grohl, lesionandosi un crociato e un osso durante un live e proseguendo seduto. Questo, poi, non lo fermerà certo nelle prossime date, tutte confermate. Gli unici a tener testa al nostro Salmo sono i Negramaro o i Florence and The Machine, rispettivamente tre e due volte in questa speciale top ten – che si completa con Calcutta e i Twenty One Pilots. Salmo è però al primo, al quinto e al decimo posto, mentre i Negramaro occupano ottava e nona posizione, con una piccola risalita alla sesta, intervallati dai Florence. In questi ultimi anni continua a dirsi che il rap sia il genere per eccellenza, ed effettivamente è così. La forza di Salmo però è quella di convincere «grandi e piccini», come se fosse uno di quei puzzle o giochi di società con scritto «da 0 a 99 anni». Il fatto che i più lo abbiano conosciuto mentre rappava sull’elettronica non è un caso. E infatti, nulla meglio di Salmo può spiegare il suo successo: «Sono passati 10 anni da quando è nata la Machete. Nel 2010 facevamo le rime sulla musica elettronica in maniera molto istintiva, non eravamo supportati da tutti i vecchi rapper della scena, ma almeno eravamo originali e potevamo distinguerci dal resto! Quando siamo arrivati a Milano bastava guardarci in faccia per capire che avevamo fame e la nostra musica era violenta! Le cricche nei bar ci chiamavano terroni, sardignoli, pecore, zulù. Un giorno mi hanno chiesto se arrivava internet in Sardegna. A noi non fregava un cazzo di quello che dicevano in giro, volevamo fare la storia e così è stato. I Machete Mixtape sono diventati con il tempo una consacrazione per gli artisti emergenti. Abbiamo visto passare mode, rapper meteore, arrivisti, figli di papà, approfittatori e infami. Negli ultimi anni ci siamo allontanati dalla famiglia, ma queste cose possono capitare. È bastato riunirci e fare musica insieme per risentire quella magia che ci ha spinti fino a qui! Sono passati 10 anni e la Machete ancora in piedi. Più forte di prima! Tra 5 giorni esce il quarto capitolo e non vediamo l’ora di martellarvi il cranio!». E martellare il cranio gli riesce benissimo live.


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