Azione 29 del 15 luglio 2019

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Cooperativa Migros Ticino

Società e Territorio Genitori e figli: tre nuovi libri esplorano diversi approcci educativi

Ambiente e Benessere Le antenne della telefonia, ma non solo, generano elettrosmog: se per i dispositivi mobili le radiazioni sono difficili da rilevare, gli impianti di comunicazione sono ben monitorati

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXII 15 luglio 2019

Azione 29 Politica e Economia Chi è Kamala Harris, il volto nuovo e progressista dei democratici americani

Cultura e Spettacoli In mostra al MASI di Lugano le incisioni di Franz Gertsch, Edvard Munch e Paul Gauguin

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Luna superstar

NASA

di Loris Fedele pagina 27

Adotta un giornale, è ecologico di Alessandro Zanoli In queste settimane Luigi si trova a soppesare con una certa preoccupazione i quotidiani ticinesi. Si stanno assottigliando, perdono di sostanza fisica e di peso. Li confronta con gli altri (italiani, svizzero tedeschi) che è solito sfogliare, con impegno abitudinario, in vari momenti della giornata: per tutti è la stessa cosa. Sarà anche la stagione, sarà che d’estate il numero dei lettori cala in modo fisiologico. Le redazioni lo sanno e approntano edizioni leggere, agili, nell’attesa della riapertura delle scuole, del ritorno del pubblico. Ma questa leggerezza è davvero soltanto un fenomeno temporaneo? La risposta alla domanda purtroppo è negativa. Fior di inchieste e di statistiche mostrano che la stampa cartacea è in grande difficoltà. I giornali dimagriscono non a causa della stagione calda, ma della carenza di inserzionisti (e di lettori). Ma cosa è successo? Per una persona come Luigi la cosa è davvero inspiegabile. Fin da ragazzo, grazie all’abitudine appresa dai suoi genitori, Luigi si è impegnato ad abbonarsi a un quotidiano. Lo trova la sera quando torna a casa dopo il lavoro. In realtà

l’ha già letto in ufficio, ma la sera conclude la lettura di quegli articoli lunghi, che per motivi di tempo non ha potuto approfondire. Oltre al quotidiano, Luigi è abbonato da tempo immemorabile a un settimanale regionale. In Ticino sono effettivamente un’altra importante istituzione, fondamentale anzi, per capire cosa succede nel grande microcosmo locale. Nella sua libreria Luigi ha, inoltre, un classificatore rosso. È il deposito degli articoli che lo interessano, che meritano di essere conservati. Sono quelli che rispondono a particolari domande o toccano temi che gli stanno a cuore. Staccare da un giornale la pagina con un articolo da conservare è un atto che si compie con grande soddisfazione e serietà: quasi da cercatore di funghi che ha individuato un porcino. Quel ritaglio va a depositarsi in un fondo di idee e di conoscenze che, Luigi ne è ben consapevole, sarà speso in varie occasioni durante colloqui con amici, cene conviviali, incontri fortuiti con sconosciuti al bar. I giornali, da sempre, sono stati per Luigi una miniera di stimoli e di spunti. Costituiscono un patrimonio dialettico di grande utilità pratica. Che gli piove ogni giorno sul tavolo di casa e gli riempie la vita. Non potrebbe farne a

meno. Luigi non riesce a capire le obiezioni di chi li snobba a favore dei media elettronici. Sono troppo cari? Ma un abbonamento annuale è poco più costoso di una bolletta telefonica mensile. La troppa carta utilizzata rende il giornale poco ecologico, in confronto alle notizie lette sui dispositivi elettronici? Ammesso e concesso che si tratti della stessa informazione (il rapporto fisico con il giornale è un’esperienza sensoriale completa, tattile, olfattiva, visiva, da non sottovalutare, che aiuta a «integrare» le notizie, che ce le rende molto più concrete) il giornale cartaceo pare in realtà il media più ecologico. Carta è, e carta ritornerà, in un ciclo virtuoso che si chiude con relativa semplicità. La stessa cosa non è pensabile per tablet e smartphone, il cui funzionamento richiede regolari approvvigionamenti elettrici e il cui smaltimento crea problemi ecologici molto più difficili da risolvere. Insomma, a chi gli fa presente che i tempi sono cambiati e che oggi ci sono modi più moderni di accedere alle notizie, Luigi si trova sempre un po’ perplesso. A volte teme proprio che si stia alterando in modo irreparabile la biodiversità delle idee e questo è un fatto di cui tutti dovrebbero preoccuparsi. Decidendo magari di abbonarsi a un giornale.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 15 luglio 2019 • N. 29

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Società e Territorio Scuola in fattoria L’Unione dei Contadini Ticinesi promuove da anni un programma specifico che porta i bambini e i ragazzi a conoscere agricoltori e contadini per scoprire da vicino il loro lavoro

L’industria svizzera dei videogiochi Prodotti innovativi e con una forte visione artistica, i videogiochi Swiss made sono un settore in espansione. Incontro con Philomena Schwab dello studio Stray Fawn pagina 8

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Diventare genitori migliori

Famiglia Le recenti scoperte delle

neuroscienze, combinate con il moltiplicarsi di teorie pedagogiche e psicocomportamentali, offrono nuove possibilità per scegliere come crescere i propri figli. Tre libri esplorano i diversi approcci

Stefania Prandi Il difficile «mestiere» di genitore è sempre più al centro di dibattiti e discussioni. Le recenti scoperte delle neuroscienze, combinate con il moltiplicarsi di teorie pedagogiche e psico-comportamentali, offrono diverse possibilità per scegliere come crescere i propri figli. Tre nuovi libri, a firma di autrici e autori statunitensi, esplorano l’educazione domestica di bambini e adolescenti. Essere genitori positivi. Come mettere fine ai conflitti e riconnettersi emotivamente, appena uscito in traduzione italiana, è un manuale di Rebecca Eanes, fondatrice del sito Positive-Parenting.org e della pagina Facebook Positive Parenting: Toddlers and Beyond, seguiti da milioni di persone. Il testo è corredato da domande, consigli ed esercizi per i genitori, per aiutarli a uscire da schemi relazionali e mentali controproducenti e «negativi». L’idea di fondo è che per crescere bambini emotivamente sani bisogna preferire il dialogo al controllo, la fiducia al comando, la disciplina orientata alle soluzioni a quella basata sulle punizioni. Fin da quando sono neonati i bimbi non devono essere lasciati piangere inutilmente, i loro bisogni vanno anticipati, quando possibile, e assecondati. I comportamenti considerati comunemente «capricciosi» non devono essere puniti in maniera autoritaria. Secondo Eanes, infatti, «la maggior parte delle bizze, in particolare nei bambini piccoli, sono semplicemente un modo di esprimere emozioni che sono diventate troppo difficili da gestire. Ai bambini non piace avere scoppi di ira più di quanto non piaccia a noi vederli». Esther Wojcicki, educatrice con un bagaglio di trentasei anni di insegnamento, docente alla Palo Alto

High School, in California, spiega la sua «ricetta» per educare figli il più possibile indipendenti e preparati culturalmente in How to Raise Successful People: Simple Lessons for Radical Results (Come crescere persone di successo: lezioni semplici per risultati radicali). Quando nomina la parola «successo», oltre alla realizzazione personale, intende quella lavorativa, forte anche della sorte delle sue tre figlie ormai grandi, in carriera nella Silicon Valley. In un articolo pubblicato su «Time», scrive che Susan è l’amministratrice delegata di YouTube, Janet è una docente di pediatria all’Università di California-San Francisco e Anne è la cofondatrice del sito di test genetici 23andMe. Tutte e tre «sono arrivate al top in professioni ultra competitive e dominate dalla presenza maschile e l’hanno fatto seguendo le proprie passioni e pensando da sé». Wojcicki dice di averle sempre trattate da adulte: «Non ho mai usato un tono infantile né parole semplici, come certe mamme, soltanto perché erano bambine. Ho sempre avuto fiducia in loro e loro in me. Non le ho messe in pericolo ma nemmeno mi sono intromessa nelle loro esperienze di vita. Quando vivevamo a Ginevra, ho mandato Susan e Janet al negozio dietro casa a comprare il pane, da sole: all’epoca avevano cinque e quattro anni». La sua teoria è che il periodo più importante nello sviluppo della personalità sia quello fino ai cinque anni, nei quali si deve cercare di insegnare quanto più si può. I punti principali sui quali insistere sono contenuti nell’acronimo TRICKS: trust (fiducia), rispetto, indipendenza, collaborazione e kindness (gentilezza). Si intitola The Formula: Unlocking the Secrets to Raising Highly Successful Children (La ricetta: svelare i segreti per crescere bambini di successo) – in

Un aspetto considerato fondamentale in tutti e tre i libri è la fiducia in se stessi e negli altri. (Marka)

inglese «formula» significa anche latte artificiale – il saggio scritto dalla giornalista Tatsha Robertson, per anni corrispondente di «The Boston Globe», e Ronald Ferguson, professore e ricercatore di economia e scienze sociali alla Harvard’s John F. Kennedy School. Il libro è nato da un’idea di Robertson: ogni volta che incontrava persone importanti per un’intervista domandava come avessero fatto a raggiungere così alti livelli e se si trattasse soltanto di talento «naturale». Nel tempo si è accorta che molti avevano avuto genitori con tratti simili. In collaborazione con il professore Ferguson, che ha studiato le disparità sociali all’interno delle università, ha pensato di approfondire il tema. Insieme hanno individuato otto funzioni fondamentali svolte dai genitori con figli realizzati. Tra queste: bisogna innanzitutto appassionare i figli alla conoscenza e alla capacità di risol-

vere i problemi fin da piccoli; mantenere il ruolo di «ingegnere di volo», controllandoli a distanza e intervenendo quando perdono la rotta; fungere da «navigatore GPS», lasciando cioè che la propria voce risuoni anche se si è assenti. Inoltre, occorre mostrare quanto è grande e vario il mondo e comportarsi in modo da essere un modello da imitare. I tre libri hanno approcci e impostazioni differenti, discordanti per certi versi, in particolare il primo insiste sull’incoraggiamento continuo e sull’empatia anche di fronte agli sbagli, mentre l’ultimo ritiene che non vadano spese lodi eccessive, nemmeno quando i figli raggiungono obiettivi importanti, un metodo per spronarli a fare sempre meglio e a restare umili. Tutti, comunque, sono concordi su due aspetti considerati fondamentali per una crescita sana: la fiducia in se

stessi e negli altri e lo sviluppo di un senso profondo, che vada al di là della semplice quotidianità e degli obiettivi scolastici e lavorativi. In The Formula si parla del ruolo «da filosofo» del genitore, per «aiutare il bambino con le incertezze della vita», prendendolo sul serio fin dalla prima infanzia nelle sue domande esistenziali, rispettandolo come pensatore e aiutandolo a trovare un significato generale e la capacità di orientarsi in maniera etica. Quando cresciamo dei bambini, non stiamo pensando soltanto alla nostra famiglia, ricorda l’autrice di How to Raise Successful People, ma «costruiamo le fondamenta per il futuro dell’umanità», contribuendo all’evoluzione della coscienza umana. «Voi siete i genitori di cui vostra figlia o vostro figlio hanno bisogno e, con la fiducia e il rispetto, diventeranno esattamente le persone che devono diventare».


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 15 luglio 2019 • N. 29

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L’architetto con l’occhio del critico

La «Voce» della luna Editoria Una nuova pubblicazione del CDE

ci racconta il nostro satellite... visto dal Ticino

Architettura in lutto Un ricordo dell’architetto e intellettuale

luganese Paolo Fumagalli a pochi giorni dalla sua scomparsa Alberto Caruso La scomparsa di Paolo Fumagalli lascia un grande vuoto non soltanto nel mondo del dibattito e della ricerca architettonica, ma anche più in generale nel mondo della cultura. L’autorevolezza della sua figura e della sua opinione deriva da una vita di battaglie culturali sui temi che interessano il mestiere dell’architetto e dell’ingegnere civile, e sul tema più vasto della condizione delle città e del territorio nel quale gli architetti e gli ingegneri progettano e costruiscono. Il suo lavoro di architetto, esercitato dal 1967 insieme a Mauro Buletti (dal 2013 lo studio è diventato Buletti Fumagalli Del Fedele Bernardi) ha lasciato un segno importante nella storia moderna della città di Lugano. La nuova Resega, il Liceo 2, la sistemazione degli spazi pubblici del centro storico, e il progetto di numerosi edifici (tra i quali il recente restyling del centro Migros di via Pretorio) testimoniano la grande qualità delle realizzazioni. La partecipazione ai concorsi più importanti – tra gli altri, lo studio si è aggiudicato la ristrutturazione del Pretorio e la sistemazione del Lungolago, sempre a Lugano – indicano l’impegno costante nella ricerca. È stato presidente della sezione ticinese della FAS, ha presieduto per lunghi anni l’Archivio Architetti Ticinesi, del quale è stato tra i fondatori, ed ha presieduto la Commissione Cantonale per il Paesaggio. Ma l’attività che ha fatto conoscere ed apprezzare il lavoro di Paolo Fumagalli alla più vasta opinione pubblica è stata certamente quella pubblicistica, l’attività di commento e di critica che ha svolto da sempre, diventando un punto di riferimento del dibattito sui temi di maggiore attualità relativi alle città e al territorio cantonale. Dal 1972, per un decennio, ha diretto «Rivista Tecnica», la storica rivista della SIA Ticino, negli anni nei quali la battaglia importante era quella della difesa della nuova architettura moderna ticinese dalla reazione dei vecchi potentati professionali. Poi è stato redattore di «Werk, bauen + wohnen» e, successivamente, ha curato per 14 anni, dal 2003 al 2017 la rubrica Il Diario dell’architetto su «Archi», la rivista in italiano della SIA. Contemporaneamente ha scritto con frequenza su «Azione» e su altri periodici e quotidiani. È stato un critico «combattente», un militante della critica architettonica e urbanistica, che ha esercitato con rigore, senza fare sconti a nessuno. È stato un architetto-intellettuale, aperto e curioso di ogni novità. È stato intransi-

Paolo Fumagalli, tra i suoi lavori il Liceo 2 e la nuova Resega. (CdT - Gonnella)

gente verso la politica, alla quale addebitava le maggiori responsabilità per la gestione liberistica del territorio, che ha provocato la diffusione insediativa. Fin dagli anni 90 ha denunciato il degrado delle relazioni sociali e gli enormi sprechi di risorse e di energia – in trasporti individuali e in reti tecnologiche – conseguenti alla frammentazione degli insediamenti e al mancato governo del territorio. Era anche consapevole della inadeguatezza delle città ticinesi che, non avendo vissuto l’industrializzazione e l’inurbamento, sono rimaste piccole e non hanno offerto valide alternative alla nuova domanda di abitazioni. L’architettura ticinese degli anni 70 e 80, diventata famosa nel mondo perché ha rivalutato e aggiornato le scoperte e i linguaggi del movimento moderno, ha tuttavia perso la sfida territoriale. Al proposito, Fumagalli non è mai stato indulgente nei confronti dei tanti colleghi che non partecipano al dibattito pubblico su queste grandi questioni, e che non si impegnano esprimendo pubblicamente il loro pensiero, assecondando così le tendenze in atto. Soprattutto negli ultimi 15 anni, Fumagalli ha messo a punto un concetto critico sul rapporto tra architettura e urbanistica, secondo il quale la condizione territoriale costituisce il limite della qualità dell’architettura. La definizione più aggiornata di qualità architettonica, quindi, è nel modo nel quale il progetto affronta la condizione territoriale. Non esiste la qualità in sé. Se vengono edificate mille abitazioni considerate di qualità eccellente (con consumo di energia nullo, con spazi interni bellissimi e tecnologicamente avanzati, ecc.), ma dislocate sul territorio in modo diffuso e disordinato, si tratta comunque di una sconfitta dell’architettura, di una rinuncia alla missione di migliorare il mondo.

Questo è per Paolo Fumagalli il grande tema politico del Ticino di oggi. È la condizione dal cui riscatto l’architettura ticinese può tornare, in forme nuove, a rivendicare un primato. Il modo in cui Fumagalli ha esercitato la critica, la sua scrittura, merita un accenno, perché è una scrittura profondamente diversa da quella usata dai critici e dagli storici di professione. Se, infatti, il compito dell’architetto è di modificare la realtà per migliorarla, ciò non è possibile senza criticare la realtà, senza assumere una distanza da essa. Ed è questo atteggiamento che conferisce alla critica una misura operativa e una tensione, che può esprimere soltanto chi progetta e costruisce, e che non può possedere chi scrive per professione. Paolo Fumagalli ha sempre guardato il mondo con l’occhio critico dell’architetto, che vuole cogliere le debolezze, le storture, le soluzioni irrazionali e gli errori insediativi, per pensare a come correggere e migliorare il mondo. Da vero combattente, ha dedicato le sue ultime settimane, e anche gli ultimi giorni di vita, a raccogliere, ordinare e selezionare i testi pubblicati su «Archi» per farne un piccolo libro, che uscirà a giorni per i tipi di Casagrande. Un testamento del pensiero dell’ultima parte della sua vita, quella più lucidamente critica. Con il suo contributo e con la spinta del suo pacato entusiasmo, fino al 2017 «Archi» ha attraversato una stagione felice, nella quale ogni tema progettuale trattato dalla rivista veniva riportato alle problematiche della condizione territoriale, trasmettendo nei lettori un invito pressante a guardare criticamente il mondo. I suoi testi hanno suscitato riflessioni e pensieri che contribuiranno alla continuazione e al successo delle battaglie civili da lui promosse.

Per descrivere il volumetto curato dal Centro di dialettologia e di etnografia di Bellinzona viene proprio da citare una delle formule messe in rilievo all’interno del testo. Questo nuovo libro, dunque, sicuramente «l’è bón da fagh i barbís ara lüna», è capace di fare i baffi alla luna: ciò «che si dice di persona particolarmente precisa e pignola». Curato da Monica Gianettoni Grassi, Luna è il diciannovesimo lavoro all’interno della collana «Le voci», una serie di estratti dal Vocabolario dei dialetti della Svizzera italiana. I volumetti, nel corso degli ultimi vent’anni, hanno estrapolato (o anticipato) alcuni dei lemmi più significativi, corredandoli di un’ampia e divertente scelta iconografica. L’occasione per la pubblicazione di Luna prende spunto naturalmente dal cinquantesimo anniversario della prima discesa dell’uomo sul nostro satellite. Qualcuno di noi ricorderà ancora quella serata, qualcuno invece sarà più propenso a credere alle teorie complottiste che danno per mai avvenuto quell’allunaggio. Sia come sia, a distanza di tanto tempo la luna è sempre nei pensieri degli scienziati e le ipotesi di potervi un giorno stabilire una base umana sono sempre aperte. Si veda ad esempio il Progetto Igluna, attualmente in fase di attuazione nel ghiacciaio vicino a Zermatt (www.spacecenter.ch/ igluna). Ma senza bisogno di insistere sulle questioni fantascientifiche, per uomini e donne la luna è semplicemente il centro di attrazione di una moltitudine di racconti e di fantasie, che la fisionomia stessa del pianeta sembra saper evocare: nella sezione «Aneddoti, storielle» del volumetto di cui ci occupiamo, a proposito delle macchie lunari, si racconta ad esempio una storia molto diffusa nel nostro cantone, in varie forme: «C’era in un paese un ladro famigerato. In una notte, con un chiaro di luna che pareva giorno, il ladro doveva mettere a segno una grossa furfanteria. Per non essere scoperto, cosa ha pensato il ladro? Ha preso un secchio, lo ha riempito di fango e lo ha gettato sulla luna per oscurarla. Ma insieme al secchio è finito sulla luna anche il ladro. Dopo di allora nella luna si è sempre vista l’immagine del ladro con il secchio». Questo Luna, insomma, risulta piacevole alla lettura quando ci permette di ritrovare espressioni dialettali in cui la luna è chiamata in causa deviando dal contesto semplicemente astronomico e si apre a un ventaglio di significati e di contenuti ricco... quanto la fantasia umana. La luna infatti è associata alla volubilità nelle sue varie forme e all’influenza che può esercitare sull’attività dell’uomo, in vari contesti. È una sorta di grande specchio in cui rivedere la nostra vita da sotto in su.

Il volume è corredato da bellissime immagini.

Nel testo si incontrano credenze che tutti abbiamo sentito esprimere dai nostri nonni: dall’influsso delle fasi lunari sulla coltivazione delle piante nell’orto a quelle sulla crescita dei capelli. Per non parlare di quella legata alla sua influenza sulla fertilità e sulle nascite, sull’attività enologica, eccetera: molti i lavori che vanno eseguiti con luna adatta (anche se le regole non sono sempre uniformi e anzi sono contraddittorie tra luogo e luogo). Questo ha anche d’interessante il libretto: ci mostra quanto le superstizioni legate al ciclo lunare siano ancora attuali e vissute. Non fanno più parte solo del mondo contadino. Anche nella nostra era più o meno civilizzata la luna ci serve da punto di riferimento e sembra potere influenzare il nostro destino: dal campo astronomico la luna entra di prepotenza nel campo della psicologia e, poi, di riflesso anche in quello dell’arte, della poesia. Luna sarà presentato giovedì 18 luglio, alle ore 18.30, nella Sala Anfiteatro del Dipartimento di tecnologie innovative, SUPSI, Manno. / Red.

Concorso Migros Ticino in collaborazione con il Centro di dialettologia e di etnografia mette in palio tra i lettori di «Azione» alcune copie di Luna. Per aggiudicarsele seguire le istruzioni contenute nel sito web www.azione. ch/concorsi. Buona fortuna! In collaborazione con

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NOVITÀ


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 15 luglio 2019 • N. 29

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Idee e acquisti per la settimana

Estate all’insegna della freschezza locale

Attualità Dai campi alle filiali di Migros Ticino in pochissime ore: non c’è niente di più

fresco degli ortaggi nostrani. Una caratteristica che vale naturalmente anche per i prodotti dell’orticoltore Renato Mocettini di Cadenazzo, che abbiamo incontrato Ortaggi Nostrani alla Migros e degustazioni Attualmente sugli scaffali dei supermercati di Migros Ticino la selezione di verdure estive della regione è particolarmente ampia. La scelta include sia varietà coltivate secondo i criteri della produzione integrata, sia quelle provenienti da coltivazione biologica. Inoltre, il 19 e 20 luglio (a S. Antonino, Lugano e Taverne) potrete degustare alcune varietà di pomodori ticinesi accompagnati da aceto balsamico e büscion di capra, naturalmente anch’essi della linea dei Nostrani del Ticino. samente ampia e variegata, sia in serra che in campo aperto. In serra, nel periodo invernale e in primavera, le coltivazioni si concentrano su diverse tipologie di insalata e formentino, mentre in primavera ed estate ci dedichiamo alla produzione di una decina di tipologie di pomodoro, cetrioli tipo «olandese» e cetrioli nostrani. In pieno campo, invece, le colture principali sono quelle di insalata iceberg, cicorino rosso, zucchine, finocchi, verze, broccoli, cavolfiori, patate, cipolle e zucche. Infine, in una parte dei terreni aziendali, a rotazione annuale, vengono coltivati anche girasoli, mais, frumento e soia. Qual è la superficie dell’azienda e quanti collaboratori impiegate?

La nostra azienda agricola attualmente si estende sul Piano di Magadino su una superficie di circa 30 ettari, di cui 2 composti da serre in vetro e plastica. I collaboratori attivi sono una decina, oltre a me e a mia moglie. Inoltre tra qualche anno potremo contare sul contributo di nostro figlio, il quale sta terminando la formazione di orticoltore a Mezzana.

Le vostre colture applicano la produzione integrata. Cosa significa?

Le settimane dei Nostrani

Foto Tresol Group/Däwis Pulga

Fino al 22 luglio i prodotti locali saranno protagonisti nei supermercati Migros con diverse azioni e degustazioni speciali

Signor Mocettini, da quando esiste la vostra azienda agricola familiare?

L’azienda è stata fondata da mio nonno negli anni Quaranta, il quale iniziò con un allevamento di animali da reddito. Successivamente venne ripresa da mio padre, che diede avvio alla produzione orticola. Infine, una quindicina di anni orsono, sono subentrato rilevando l’attività e ampliando ulteriormente la varietà di colture con nuove tipologie. Una selezione di prodotti coltivati da Renato Mocettini.

Quanti sono gli ortaggi che coltivate oggi?

La nostra produzione orticola è deci-

Nella coltivazione dei nostri ortaggi vengono utilizzati prodotti fitosanitari solo in caso di reale necessità. Le piante indesiderate vengono eliminate meccanicamente. Inoltre, grazie a misure di protezione della natura, vengono creati degli spazi che favoriscano la biodiversità all’interno dei terreni coltivati. Tra tutti gli ortaggi della vostra produzione, qual è il suo preferito?

Sicuramente il cetriolo: dalla coltivazione alla raccolta è un coltura che dà molte soddisfazioni. Inoltre è anche un cibo salutare e rinfrescante, ideale da consumare nel periodo più caldo dell’anno. Rispetto ad altri prodotti da noi coltivati, il cetriolo è una verdura che deve essere seguita attentamente per poter ottenere un prodotto di qualità. È un prodotto che cresce rapidamente – a un mese dal trapianto è già pronto per essere raccolto – e ama il caldo, di conseguenza, soprattutto all’inizio, va curato al meglio. Si prevede una buona annata per i suoi prodotti?

Finora, grazie anche a condizioni climatiche particolarmente favorevoli, la stagione sta andando piuttosto bene, sia qualitativamente che quantitativamente. Speriamo continui così…


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 15 luglio 2019 • N. 29

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Società e Territorio

Di pane, latte e vita

Scuola in fattoria L’Unione dei Contadini Ticinesi promuove da anni un programma specifico

che crea incontri tra ragazzi e agricoltori per diventare consumatori più consapevoli e esseri umani più completi

Sara Rossi Guidicelli Si dice spesso che i ragazzi di città non sanno da dove arrivi il formaggio né quante zampe abbia un pollo. Si pensa sempre che questi «ragazzi ignoranti» vengano da metropoli sconfinate, lontane da qualsiasi campagna. Invece, secondo i nostri contadini, anche da noi ci sono bambini che vivono senza interrogarsi sui prodotti che consumano e quindi che non hanno idea di che forma abbia la «pianta della polenta». Addirittura molti la polenta non la mangiano mai e quando la assaggiano in una fattoria la adorano. Per questo motivo e molti altri l’Unione dei Contadini Svizzeri ha ideato un programma che coinvolge scuole e fattorie, per svolgere giornate didattiche fuori dai centri urbani. Perché va bene essere circondati da monumenti frutto dell’ingegno umano come palazzi, strade, computer, macchine, aeroplani, ma non bisogna nemmeno disdegnare ciò che da millenni unisce natura ed esseri umani: l’agricoltura. Il cammino del latte, dei cereali, dell’uva, delle erbe, del miele: sono tutti modi per restare in contatto con la propria vita, perché tutti noi consumiamo formaggio, pasta, marmellata, vino, tè e infusi. Ai bambini molto piccoli si insegnano i versi degli animali, prima che sappiano leggere gli si regalano libri sulle creature che popolano il bosco, il mare, la giungla, la fattoria. E poi? E poi basta. Se i genitori non vanno a camminare fuori città, i ragazzi si dimenticano l’importanza di chi lavora affinché loro possano trovare sulla propria tavola pane, carne, frutta e verdura. Sembra così banale, eppure...

In Ticino sono 28 le fattorie in cui le classi di scuole elementari e medie possono trascorrere una giornata insieme ai contadini per scoprire da vicino il loro lavoro In fattoria, per un giorno, si può imparare a mungere una capra, si possono impastare i büscion con l’erba cipollina raccolta nell’orto, si può strigliare un cavallo, andare nel bosco a raccogliere erbe, guardare un apiario, e molto molto altro. Alla fine sicuramente è meglio farsi preparare un pranzo con prodotti della fattoria piuttosto che portarsi un picnic preconfezionato: fa parte della giornata, anche se è un’opzione a discrezione degli insegnanti (leggi del budget che ha la classe in visita). La scuola in fattoria esiste a livello svizzero da trentaquattro anni e nel nostro cantone da una ventina, sotto la responsabilità dell’Unione dei Contadini Ticinesi. Sono 28 le fattorie in cui le scuole elementari e medie del Cantone possono richiedere un programma di una giornata insieme ai contadini. Si tocca con mano quel mondo che era così presente al momento di incominciare a parlare e che poi è stato relegato in secondo piano. «Ma i bambini quando vedono le cose vere, i macchinari, le stalle, l’imponenza del cavallo e il profumo del fieno, quando sentono qualcuno che parla loro del suo mestiere, non per insegnare, ma per raccontare ciò che costituisce il suo lavoro quotidiano, allora ascoltano, si sentono importanti e si lasciano condurre in un mondo che non conoscono», racconta un insegnante che ha partecipato ogni anno alla scuola in fattoria. E cita Carlo Ossola: «Per un letterato sarebbe impossibile scrivere una poesia sul

In fattoria i bambini sperimentano anche il contatto con gli animali.

pane senza sapere come si fa. Chi si alza di notte per cuocere, impastare e la mattina ti porta una pagnotta sulla soglia di casa, fa ben altro che un alimento. Fa un simbolo di vita». La scuola ha questo compito, difficile: fare il passo indietro e fornire il binocolo per guardare le cose nel loro insieme, per costruire un’idea globale dei fenomeni. Come sostengono Mario Delucchi (Ufficio dell’insegnamento primario) e Francesco Vanetta (Ufficio dell’insegnamento medio) in un documento che spiega il senso della scuola in fattoria, «in una società fortemente condizionata dalla tecnologia, come è quella in cui viviamo, la distanza fra l’origine delle cose e il loro stato finale, così come ci appare nell’uso quotidiano, rischia di diventare sempre più grande, tanto da risultare incolmabile. I numerosi studi sulle rappresentazione spontanee che i bambini hanno dei vari fenomeni scientifici indicano come l’assenza di esperienze dirette, sensoriali e concrete, tipica di una società in cui predomina un sapere mediato, impedisca una reale comprensione dei cicli vitali e delle trasformazioni biologiche che sono alla base della nostra esistenza. La vita della maggior parte dei nostri allievi trascorre in modo “terziarizzato”, in cui le attività umane non hanno alcun collegamento evidente con i luoghi di produzione e di lavorazione delle materie prime, ma si svolgono in un rapporto quasi sempre virtuale con l’ambiente naturale». Perciò esserci, provare, toccare. Fare esperienza. Portare la scuola fuori dalla scuola e entrare nei mestieri, incluso quello dell’agricoltore e allevatore. «Dovrebbe diventare una giornata obbligatoria per tutti durante il percorso scolastico», dice Nicoletta Zanetti, dell’Agriturismo il Mugnaio di Semione, una delle fattorie che aderiscono al programma. «Ed è importante sottolineare che non si tratta di una gita scolastica ma di una giornata di scuola». Uno degli obiettivi, si è detto, è formare consumatori consapevoli: sapere cosa si mangia, scegliere tra chilometro zero, biologico, prodotto fresco o scatola che gira il mondo per atterrare nella nostra dispensa, inspiegabilmente più economica ma certamente con meno gusto e vitamine. Tra gli scopi dunque togliere questa parola: inspiegabilmente. E provare a capire, dando così la possibilità all’agricoltura locale di spiegare meglio le sue

esigenze, i suoi sforzi e i suoi prezzi, oltre che i suoi innumerevoli benefici. Ultimamente sono nati nuovi cammini, come quello della biodiversità, dell’orto in fattoria, del suolo e un cammino del latte rinnovato, tutti con

una storia che racconta del nostro territorio e di chi ci ha preparato il mondo in cui viviamo. «Ogni altro suggerimento da parte di docenti, allievi o agricoltori, è naturalmente ben accetto!», è l’invito finale con cui si rivolge

l’Unione dei Contadini Ticinesi a chi è interessato a partecipare alle proposte della scuola in fattoria. Informazioni

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 15 luglio 2019 • N. 29

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Società e Territorio

Videogiochi Swiss made

Tecnologia L’emergente industria dei videogiochi svizzera è in forte espansione, i suoi prodotti

sono spesso innovativi e con una forte visione artistica Stefano Castelanelli Zurigo. 09h30 di mattina. Philomena Schwab entra nell’ufficio della sua ditta alla Pfingstweidstrasse, nell’emergente quartiere di Zürich-West. Alle 10h è in programma il daily stand-up, il briefing giornaliero in cui ogni membro del team riferisce sullo stato del proprio lavoro e sui problemi incontrati. Il team di 10 persone, che include laureati delle scuole di arte e design, informatici e professionisti che hanno cambiato carriera, lavora a diversi progetti. A seconda del progetto, Philomena deve occuparsi di differenti aspetti. «Il lavoro è diversificato e mi piace molto» rivela Philomena. Si passa dal collaborare con gli influencer di YouTube per sviluppare video LetsPlay, al creare personaggi, contenuti e storie dei videogiochi fino alla programmazione dei videogiochi e delle interfacce grafiche. Philomena è infatti co-fondatrice dello studio svizzero di videogiochi Stray Fawn e si è laureata in game design presso la Scuola d’Arti di Zurigo (ZHdK). Era destino che studiasse game design. «Da bambina mi piaceva tanto disegnare, mentre da ragazza scrivevo fumetti e trovavo interessante l’informatica», ammette Philomena. All’età di 16 anni, quando ha appreso dell’indirizzo di studi in game design, Philomena sapeva che era lo studio perfetto per lei. Tuttavia aveva anche un’altra grande passione: la biologia. Per molto tempo non riusciva a decidersi tra game design e biologia. «Alla fine ho scelto game design – racconta Philomena – durante il lavoro di bachelor, quando dovetti creare il mio primo videogioco, ho però combinato le mie due passioni e ho sviluppato il gioco di sopravvivenza genetica Niche». Il videogioco si basa sulle conoscenze di genetica. All’inizio del gioco si controllano un paio di animali che hanno specifici geni e caratteristiche. Nel corso del gioco, gli animali si trovano su diverse isole, ognuna con il proprio clima, alimenti e predatori. Tramite la riproduzione tra gli animali e le mutazioni genetiche si possono generare nuove specie. L’obiettivo è quello di mantenere in vita i propri animali, nonostante i pericoli causati da predatori, cambiamenti climatici e malattie pericolose. Se la specie muore, si ha perso. Giocando a Niche si imparano i principi base della genetica. Per questo

Il team dello studio Stray Fawn, Philomena Schwab è la quarta da sinistra. (strayfawnstudio. com)

motivo il gioco sarà presto disponibile per le scuole, e questo gratuitamente. Philomena ha sviluppato il prototipo alla fine del bachelor. Nella sua tesi di master, lei e il suo team hanno potuto avviare con successo una campagna di crowdfunding e raccogliere oltre 75’000 franchi. Inoltre hanno anche ricevuto 25’000 franchi da un programma di finanziamento di Pro Helvetia. Con i soldi ottenuti sono stati in grado di sviluppare una prima versione finale del videogioco. Niche è diventato un successo commerciale e ha venduto oltre 200’000 copie. Le entrate hanno consentito a Philomena e al suo team di lavorare a ulteriori progetti. Philomena è una game designer di talento. Nel 2017 è stata nominata nell’elenco di Forbes dei 30 più influenti under 30 dell’industria europea della tecnologia. «Grazie alla fama ho anche ricevuto numerose offerte dalla Silicon Valley, ma ho sempre rifiutato», dice Philomena. «Voglio restare in Svizzera e contribuire a sviluppare l’emergente industria dei videogiochi nazionale». La Svizzera come produttore di videogiochi? A prima vista vengono in mente piuttosto il Giappone o gli Stati Uniti. Tuttavia la scena svizzera è in rapido sviluppo e può già contare su alcuni successi commerciali, come Niche ad esempio. Tutto ha avuto inizio

con un’iniziativa di Pro Helvetia. Dal 2010 la Fondazione per la promozione dell’arte e della cultura svizzera sostiene con contributi finanziari progetti innovativi che sviluppano videogiochi. Il programma di finanziamento ha portato anche alla creazione di un’etichetta: Swissgames. Grazie ai finanziamenti, l’industria svizzera dei videogiochi si è gradualmente professionalizzata. I progetti sono spesso innovativi e hanno sviluppato una loro propria estetica: produzioni relativamente brevi e dinamiche di gioco semplici, ma molto orientate al design e con una grafica chiara e inusuale. Questo carattere innovativo coniugato a una forte visione artistica viene regolarmente premiato ai festival, dove spesso uno o più giochi svizzeri ottengono premi. Ma l’industria del gioco globale è un ambiente complesso e gli sviluppatori svizzeri sono esposti all’aspra concorrenza globale. Il mercato globale dei videogiochi è dominato da un numero limitato di prodotti. Anche se la produzione è estremamente diversificata e serve numerosi mercati di nicchia, il consumo di massa si concentra su alcuni pochi grandi successi. Per gli sviluppatori indipendenti di videogiochi è difficile generare entrate sufficienti dal loro lavoro. Lo sviluppo di videogiochi diventa così un’occupazione secondaria

e solo pochi sviluppatori indipendenti possono vivere della loro attività. Questo vale anche per la Svizzera. «All’inizio abbiamo dovuto fare a meno dello stipendio per un anno intero – rivela Philomena – poi sono arrivati i primi finanziamenti che ci hanno permesso di pagarci un salario minimo. Solo con il successo commerciale di Niche però abbiamo guadagnato abbastanza da poter vivere grazie alla nostra attività». A differenza di altri paesi, la Svizzera non ha ancora un’industria dei videogiochi completamente integrata, ma possiede un numero crescente di attori più o meno indipendenti. Oggi ci sono tra 100 e 120 piccole ditte le cui attività sono completamente o parzialmente orientate alla produzione di videogiochi. Nel 2010 ce n’erano solo una decina. Il settore sta quindi vivendo una forte crescita. La produzione svizzera è caratterizzata da una grande diversità. Alcune ditte hanno creato un business dallo sviluppo dei videogiochi, come lo studio Stray Fawn di Philomena. Ci sono poi ditte che stanno sviluppando i primi videogiochi con un grande potenziale commerciale. Altri sviluppatori stanno lavorando a progetti altamente innovativi: dai simulatori di volo, ai film interattivi o alle opere artistiche. Molti studi di videogiochi sono

ganza della società classista e maschilista non le lesinò mai. Perché lei non solo era una donna, ma era una donna sola, non sposata, senza un uomo a farle da garante. Ed era povera. Donna, zitella, povera. Quanto basta per essere esposta all’atteggiamento svalutativo dei paleontologi maschi e accreditati, che si attribuivano le sue scoperte, «dimenticandosi» regolarmente di menzionare il suo nome. Il romanzo di Annalisa Strada rende giustizia alla figura di Mary, accostandovisi con rispetto e cura, e cercandone anche la peculiare «voce». Non soltanto per la scelta delle metafore, adeguatamente storicizzate: «se avessi immaginato quale sarebbe stata negli anni successivi la sua sorte», dice a un certo punto Mary, parlando dell’Ittiosauro che aveva portato alla luce, «mi sarei buttata tra gli zoccoli dei cavalli!» Ma anche perché l’autrice le dà una voce pacata (apprezzabile il fatto che Annalisa Strada rinunci qui alla sua abituale verve umoristica e ironica) eppure ferma. Una voce che ci porta a quegli anni, tra il 1799 e il 1847, tanto (poco) durò la breve vita di Mary, in

cui si cominciavano a sgretolare le antiche credenze e l’interpretazione letterale del testo biblico, in cui nascevano discipline come la geologia e la paleontologia, in cui accadde che un’umile e intelligente fanciulla, una ragazza single, diremmo oggi, l’orfana del carpentiere (come scrisse Dickens in un articolo, forse l’unico a ricordarla), riuscì – per citare un brano della conclusione del libro – a «insegnare qualcosa a scienziati che stavano segnando il corso della storia». Un plauso lo meritano anche le illustrazioni di Daniela Tieni, in particolare quella, bella e surreale, di pagina 93, dove Mary incrocia lo sguardo con un dinosauro: monstrum (nel senso di creatura insolita, eccentrica, fuori dagli schemi) lui, e monstrum lei. Due creature che si scambiano uno sguardo dolcissimo di riconoscimento reciproco.

stati fondati da laureati delle scuole di arte e design o dai Politecnici federali svizzeri. Queste istituzioni educative e di ricerca svolgono un ruolo centrale nello sviluppo del settore. Le loro attività vanno oltre la formazione. Si formano poli di competenza legati a queste istituzioni. Il Politecnico federale di Zurigo, ad esempio, gestisce un Game Technology Center che combina tutte le attività di ricerca e formazione relative alla tecnologia per videogiochi. All’ECAL di Losanna siede l’EPFL + ECAL Lab che sfrutta il potenziale delle nuove tecnologie nel design. Inoltre, alcune società straniere aprono studi in Svizzera e collaborano con le università. Il Laboratorio Disney Research di Zurigo o lo studio di produzione inglese Gobo si sono ad esempio stabiliti a Zurigo e collaborano con l’ETH di Zurigo. Questo stretto legame tra l’eccezionale formazione di arte e design e l’alto livello di istruzione tecnica è uno dei punti di forza dell’industria svizzera dei videogiochi. Data la loro creatività, originalità e competenza, gli studi di videogiochi svizzeri hanno un grande potenziale per sviluppare progetti competitivi a livello internazionale. In un futuro non troppo lontano, la Svizzera sarà forse famosa in tutto il mondo non solo per il cioccolato, gli orologi e le banche, ma anche per i videogiochi.

Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Annalisa Strada, La cacciatrice di fossili, Editoriale Scienza. Da 10 anni La bella collana «Donne nella scienza» di Editoriale Scienza, nata quando raccontare la vita di donne coraggiose e forti non era ancora una tendenza, ci ha offerto, negli anni, poderosi ritratti di scienziate, dalle più celebri – come ad esempio Dian Fossey, Margherita Hack, Marie e Irène Curie – alle meno note, delle quali è quindi ancor più importante ricordarsi. Sicuramente poco nota, in linea con l’umiltà che contraddistinse tutta la sua vita, è la donna a cui è dedicato il più recente volume della collana: Mary Anning, la «cacciatrice di fossili», vissuta in Inghilterra nella prima parte dell’Ottocento, tra le scogliere del Dorset e del Devon, in quella zona così ricca di fossili da essere soprannominata, molti anni dopo, «Jurassic Coast», e da essere annoverata tra i siti Unesco Patrimonio dell’Umanità. Ma quando la piccola Mary, prima con il suo papà e poi da sola, perlustrava le spiagge o si inerpicava sulle scogliere, sfidando le maree, e cercando – nascosti tra e

dentro le pietre – quegli affascinanti reperti del passato, nessuno lì attorno aveva ancora avuto la lungimiranza di farlo con l’atteggiamento tenacemente scientifico, che invece ebbe lei. E non si trattava solo di scovarli, intuendone la presenza tra le rocce, ma più ancora, successivamente, nella fioca luce e al freddo della sua povera stanza, di ripulirli e – nel caso di reperti appartenenti ad animali preistorici (quelli che poi, nel 1842, vennero da Richard Owen chiamati «dinosauri») – di riassemblarli. Mary lo faceva, ogni giorno, con passione e intelligenza, sopportando le umiliazioni che l’arro-

Le Olimpiadi del cervello per ragazzi arguti; Giochi matematici per ragazzi arguti, Edizioni Salani. Da 11 anni Tra un tuffo e un’escursione in mon-

tagna, anche un po’ di allenamento per la mente può essere un ottimo passatempo vacanziero. Ricchissimi di «rompicapo» molto interessanti sono questi due volumetti proposti da Salani, con giochi ideati dall’inglese Gareth Moore, esperto enigmista, che con queste serie ha già raggiunto le 500’000 copie vendute. Quiz logici, sudoku, giochi di parole, battaglie navali, test di memoria e molti altri tipi di sfide per ragazzi e adulti. Ma il cervello dei ragazzi «ha molte più potenzialità di quello dei grandi»!


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Società e Territorio Rubriche

L’altropologo di Cesare Poppi Damnatio Memoriae Per damnatio memoriae s’intende il divieto da parte dell’autorità costituita o dell’opinione pubblica di menzionare, sotto pena di morte, il nome di una persona che si sia distinta per un atto criminale di particolare efferatezza. L’espressione venne coniata in prima battuta per obliterare dalla storia il nome di Erostrato, un abitante dell’antica Efeso peraltro non originario della città (o così almeno vollero far credere i suoi imbarazzati concittadini) se non forse addirittura – e peggio ancora – uno schiavo. La colpa di Erostrato è presto detta. La notte del 20 luglio del 356 AC aveva dato fuoco al tetto del grande, famosissimo tempio di Artemide ad Efeso (l’Efes dell’odierna Turchia) causandone la totale distruzione. Catturato e torturato prima di essere messo a morte dagli efesini inferociti per la perdita della fonte principale dei loro guadagni (ricorderete che qualche secolo dopo anche San Paolo avrebbe rischiato di fare la stessa fine predicando con un po’ troppo entusiasmo contro il culto della dea nell’anfiteatro cittadino), Erostrato confessò di aver

compiuto il gesto al solo scopo di rendere il proprio nome immortale. Idea un tantino balzana, commenteranno gli assennati lettori dell’Altropologo – ma neanche tanto, ribatte l’Altropologo medesimo: sia sufficiente farsi un giro in youtube per rendersi conto di quanto la fame di fama possa indurre la gente a fare… Il tempio di Artemide Efesia era considerato una delle sette meraviglie del mondo antico. Dopo essere stato distrutto da un’inondazione nel VII secolo, fu ricostruito dal Re Creso di Lidia – certo non noto per lesinare sui suoi investimenti – su progetto di architetti cretesi fra i quali spiccava il famoso Chersifone di Cnosso nel 560 AC. Coi suoi 120 metri lunghezza per 60 di larghezza, il nuovo tempio era stato inserito da Erodoto nella lista Unesco dell’epoca già nel V secolo: all’epoca di Erostrato aveva raggiunto grande fama globale, un po’ – diciamo – come le Torri Gemelle del WTC, e tale comunque da attirare l’attenzione del mitomane di turno. All’imbarazzo di vedersi ridurre in cenere l’orgoglio

cittadino, agli Efesini toccava poi giustificare come mai l’ineffabile, onnipotente e onniveggente Artemide avesse permesso un simile atto di dissacrazione. La risposta fu trovata anni più tardi: la notte del 20 luglio dell’anno fatale, la dea era stata troppo impegnata ad assicurare che tutto andasse bene in occasione del parto del suo pupillo Alessandro Magno per potersi occupare del tempio in fiamme… O così almeno si dice dicesse lo stesso Alessandro quando offrì di pagare di tasca propria per la ricostruzione del tempio. Gli Efesini preferirono tenere a distanza l’ingombrante sponsor. Declinarono con grazia l’offerta e nel 323 cominciarono la costruzione della terza ed ultima versione del tempio. Era ancora più grande del secondo – 137 metri per 69 di larghezza e dotato di 127 colossali colonne. All’interno del tempio erano conservate le immagini della Dea che – fin dai primi tempi – si erano succedute a illustrare ai fedeli l’oggetto della loro devozione. Artemide (Diana, per i latini) è una delle figure più antiche e complesse del

pantheon dell’età antica. In particolare, il culto di Artemide Efesia data almeno dalla prima Età del Bronzo, quando la dea era ancora in stretta relazione storica e simbolica con le grandi figure delle varie Dea Mater dell’area geografica e culturale fra la Mesopotamia e l’Anatolia (l’odierna Turchia) che aveva visto le origini della rivoluzione neolitica. L’etimologia del nome ne certifica l’identità di Signora degli Animali: proviene infatti dall’indoeuropeo «arctos-orsa», laddove l’orso è protagonista principale dello sviluppo dei culti religiosi dell’emisfero boreale fin dal Paleolitico. Associata alla Notte e al Mondo degli Inferi già nelle mitologie interculturali dell’Orsa Maggiore, Artemide, complice l’amante/concorrente – anch’esso stellato – Orione, è anche dea dell’iniziazione femminile ai compiti muliebri: a Brauron, nell’Attica, le era dedicato un santuario presso il quale le giovani adolescenti di Atene dette arctai – «le orsette di Artemide» – passavano un periodo iniziatico prima di assumersi le responsabilità di

giovani e di madri. Da questo sottofondo preistorico, secondo un complesso percorso simbolico e cognitivo di secoli, Artemide diventerà tout court dea della fertilità e dell’abbondanza a tutti i livelli: a Efeso convergevano madri incinte e contadini, pastori e mercanti, soldati e infermi. Ciascuno sicuro di trovare conforto e protezione nella Grande Madre. Poco sappiamo della fine del tempio di Artemide con la vittoria del Cristianesimo. Certo alcune delle colonne del santuario furono usate per la costruzione di Hagia Sophia a Costantinopoli dopo che era stata decretata la chiusura per legge dei luoghi di culto pagani. Nel 268 DC i Goti a loro volta saccheggiarono quel che rimaneva del tempio portando via quanto poterono ancora rimediare. Ma per i misteriosi paradossi della Storia storieggiata, del tempio della Grande Artemide ci resta il nome di chi deliberatamente lo distrusse in quel lontano 356 AC: dei giudici che ne decretarono la proverbiale damnatio memoriae non ce ne resta alcuno.

successivamente danno a quello slancio un volto e un nome, non sempre, come tutti si attendono, del sesso opposto. Tenga conto che l’atteggiamento verso l’omosessualità è profondamente mutato: come sosteneva Freud già negli anni ’30, non si tratta né di un peccato né di una malattia, ma semplicemente di un orientamento che, a sedici anni, non è ancora definitivo. Credo che Marco, che ha appena terminato la seconda Liceo, non sia del tutto impreparato ad affrontare questa evenienza. Viene discussa nell’educazione sessuale e se ne parla, ormai liberamente, anche tra ragazzi. Il fatto che Marco si mostri infastidito fa pensare che non se la senta di ricambiare le attenzioni che l’altro gli rivolge e che cerchi di comunicarglielo senza offenderlo e senza rinunciare alla possibilità di arricchire la cerchia degli amici d’infanzia che probabilmente gli va stretta. La consuetudine rassicura i bambini ma annoia gli adolescenti, affamati di novità e di sfide.

Forse, prima di informare i genitori, sarebbe opportuno parlarne con Marco stesso chiedendogli che cosa ne pensa del nuovo amico, come si trova con lui, quali sono gli interessi e i progetti di quest’ultimo. Probabilmente il fratello minore e la cerchia degli amici si sono già accorti che sta accadendo qualcosa di nuovo e d’inatteso. L’importante sarebbe evitare sospetti e insinuazioni facendo al più presto chiarezza. Se Marco si mostra, benché lusingato, confuso e irritato di tante attenzioni, gli suggerisca di parlarne con sincerità e semplicità all’amico dicendo che non intende ricambiare un affetto così stretto ed esclusivo. Ciò non toglie che possano fare delle cose in gruppo, come lo sport, le gite e le cene in pizzeria, magari stando un po’ distanti. Di solito la compagnia degli amici non accetta defezioni e protegge la dimensione collettiva contro i rapporti a due. Anche le coppie eterosessuali sono inizialmente malviste perché minano la coesione generale.

Quando l’infanzia è finita, emergono spinte centrifughe che inquietano i ragazzi e, di conseguenza, gli adulti. Ma l’estate è appena iniziata e vale la pena di attendere per vedere come andranno le cose. Comprendo e apprezzo il senso di responsabilità che prova per aver in affido due adolescenti, ma mi auguro che Marco riesca, con il suo aiuto, a gestire questa esperienza con cura e delicatezza uscendone, come di solito accade, più consapevole e maturo. Se così non fosse, scriva ai genitori esponendo il problema nel modo equilibrato e sereno che ha adottato in questa lettera. A lei, cara amica, così sensibile e attenta, i più fervidi auguri di serenità.

titi. Un saldo positivo risicato che però rappresenta una novità, e non ha mancato d’incuriosire, al di qua e al di là del Gottardo. E ripropone l’inesauribile tema della convivenza confederata, che emerge anche da questo caso. Perché anziani, che sembravano pienamente inseriti nell’ambiente locale, se ne vanno? Le motivazioni, a volte, sorprendono. Si torna nel Cantone o nella città d’origine, innanzi tutto per ragioni di salute, convinti di trovare servizi medici e ospedalieri più efficienti di quelli ticinesi. Sempre nell’ambito della sanità, si cita anche il fattore linguistico che ostacola i rapporti con il personale di cura. Infatti l’idioma diverso, un italiano rimasto tabù, figura fra le cause che fanno sentire straniero in patria e inducono al rientro in territorio «Schwyzerdütsch». Traspare, da queste giustificazioni, un rimprovero,

neppure velato, che, rivolto al Ticino, ha del grottesco. È il caso, a questo punto, di rievocare un passato che racconta una storia di segno opposto. Quando, negli anni ’30 e poi nel dopoguerra, il Cantone si trovò ad affrontare il pericolo «intedescamento», provocato dall’incessante afflusso di cittadini germanofoni, ma non soltanto. Vi contribuirono anche i ticinesi: vendendo, o svendendo, case e terreni ai nuovi ospiti, e peccando persino di servilismo. Proverbiale il «Wünschen Sie?» rivolto ai clienti nei bar di Ascona. Si rischiava di «defraudare il Paese della sua identità di piccola patria», per dirla con lo scrittore e polemista Guido Calgari, impegnato nella difesa di un’italianità, allora resa insidiosa dal fascismo. Ma, in pratica, al di là del dibattito culturale, il Ticino si dimostrò capace di gestire la sua con-

dizione di paese di frontiera linguistica. Non ha certo ignorato le esigenze dei suoi ospiti. A Locarno, nel 1908, nasceva il trisettimanale «Die Südschweiz», poi «Tessiner Zeitung», che ancor oggi tira 10’000 copie. A Lugano, negli anni ’20 fu fondata la «Literarische Gesellschaft», di cui mio padre, italiano con il pallino del tedesco, era socio e assiduo frequentatore. Fra i ticinesi che vedevano nei contatti con oltralpe un vantaggio, devo citare Vinicio Salati, il primo direttore di questo settimanale, e Guido Locarnini che aprì al «Corriere del Ticino» una dimensione nazionale. Infine, si tocca una questione di reciprocità, determinante in Svizzera. Ciò che implica uno sforzo: imparare una lingua, per noi un tedesco spesso ostico. Evitato, invece, da loro: quelli che abbandonano la Sonnenstube, per via di un italiano ignorato.

La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi Un amico troppo affettuoso Gentile Signora, diplomata maestra, cinquantenne e nubile mi occupo da anni di due splendidi ragazzi, Marco e Luca, di 16 e 14 anni, seguendoli nei compiti e portandoli, d’inverno in montagna e d’estate in vacanza in Sardegna, dove rimaniamo per due mesi perché i genitori, titolari di un impegnativo ristorante, non possono allontanarsi. Finora non ci sono stati problemi tanto che partono entusiasti e non tornerebbero più a casa. Considerano questi due mesi il periodo più bello della loro vita: ritrovano gli amici di infanzia, i giochi di un tempo, gli sport più amati, tra i quali il surf. Ogni volta mi aspetto che incontrino il primo amore ma sinora non è avvenuto. Oppure sì, non so. Sono perplessa e non so cosa fare perché alla compagnia si è da poco aggiunto un nuovo ragazzo dell’età di Marco, ottimo sportivo, bello e gentile con tutti. Ma con Marco forse troppo perché gli sta sempre accanto, parla quasi solo con lui, gli ha

proposto di leggere il medesimo libro e di commentarlo insieme, si offre di spalmargli la crema solare, gli mette un braccio sulle spalle, gli sussurra all’orecchio e così via. Insomma mi sembra che lo corteggi. Marco reagisce in modo un po’ infastidito un po’ lusingato e io non so come comportarmi. Far finta di niente non è nel mio carattere, ma parlarne con i genitori vorrebbe dire allarmarli. Dato che il padre è molto severo e la madre apprensiva, vi è il rischio che si precipitino qui riportando i figli a casa e sarebbe un peccato. Lei cosa ne dice? Grazie. / Giorgia Durante l’adolescenza o la prima giovinezza l’incontro con un coetaneo della stesso sesso, che propone un rapporto diverso dall’amicizia e dal cameratismo, fa parte del processo di formazione. E, come tale, serve a definire la propria identità sessuale, spesso incerta e confusa. In un primo momento ragazze e ragazzi sono innamorati dell’amore e solo

Informazioni

Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch

Mode e modi di Luciana Caglio La «Sonnenstube» perde colpi? A scanso di equivoci, la minaccia non incombe sul Ticino vero e proprio: niente da spartire, quindi, con crisi del bancario e del turismo, temi ricorrenti nell’attualità cantonale. Si tratta, invece, di un guaio di tutt’altro genere, che concerne appunto la «Sonnenstube», termine che definisce, in chiave svizzerotedesca, la nostra realtà. Nel linguaggio elvetico, con «stanza al sole», non si allude semplicemente a una condizione climatica ma a una vitalità, per non dire spensieratezza, d’impronta mediterranea, di cui il nostro cantone sarebbe l’avamposto. Uno stereotipo ovviamente, dove verità e illusione si confondono. Certo al sud delle Alpi il clima è più mite, ma che poi la solarità appartenga alle caratteristiche della popolazione locale rimane da dimostrare. Tuttavia, vera o immaginaria, la «Sonnenstube» ha funzionato da incentivo

attirando, soprattutto sulle rive del Verbano, del Ceresio, e nelle valli del Locarnese, in ondate successive, ospiti svizzero-tedeschi e germanici, fra i quali anche personaggi illustri, da Hermann Hesse a Otto Dix, a Max Frisch. E, con loro, la schiera, sempre più folta, dei pensionati che decidono di emigrare pur rimanendo in patria: insomma, godere le sollecitazioni dell’italianità e in pari tempo le garanzie dell’accuratezza svizzera. Dopo decenni, questa tendenza ha subito un arresto. Per la prima volta, si registra un movimento inverso: «Rückzug aus der Sonnenstube», così, il 22 maggio scorso, la «NZZ» titolava un commento dedicato al fenomeno inatteso dei rientri. In verità, di dimensioni modeste: fra il 2011 e il 2017, sono arrivati in Ticino, in media ogni anno, 264 pensionati, mentre 239 sono par-


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 15 luglio 2019 • N. 29

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Ambiente e Benessere New York Marathon Per i lettori di «Azione», non solo atleti, Hotelplan organizza un viaggio di gruppo dal 29 ottobre al 4 novembre 2020 pagina 19

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Gli sformati in forma A differenza dei soufflé non c’è rischio che si sgonfino e si possono fare sia dolci che salati

Salviamo i Balestrucci L’ornitologo Roberto Lardelli di Ficedula spiega il monitoraggio in corso e come intervenire

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Onde sotto controllo Elettrosmog Poiché gli effetti sulla salute

Elia Stampanoni L’inquinamento da radiazioni non ionizzanti, più comunemente noto con il termine elettrosmog, è tema di grande attualità sia a seguito della maggiore sensibilità di una parte della popolazione, sia a seguito dell’espansione del numero di antenne di telefonia mobile sul territorio. Con l’approdo del 5G, in questi mesi il dibattito è diventato ancora più intenso. I dati statistici dell’Ufficio federale delle comunicazioni (Ufcom) sul numero di abbonamenti di telefonia mobile o di schede prepagate sono eloquenti. Se nel 1992 si registravano circa 220mila sottoscrizioni, nel 2007 erano già oltre 8 milioni, mentre gli ultimi rilevamenti (2017) ne censiscono più di 11 milioni. Altro dato significativo è il graduale passaggio dalla telefonia fissa a quella mobile, come riportato nella Statistica Ticinese dell’ambiente e delle risorse naturali (Star) del 2017: in termini percentuali, la telefonia mobile rappresenta circa il 70% del totale, con un’inversione rapida di tendenza: nel 2000 la telefonia fissa era infatti ancora preponderante (66% del totale) rispetto a quella mobile. Il problema comunque non è del tutto nuovo dato che le emissioni di radiazioni non ionizzanti (si chiamano così perché si tratta di una radiazione che non trasporta energia a sufficienza per ionizzare atomi o molecole, al contrario dei raggi-X) concernono anche altre fonti, quali: impianti ferroviari, linee per il trasporto dell’energia elettrica, stazioni emittenti per radio e TV, radar, e molti apparecchi elettrici di uso comune come televisione, radio, computer, forni a microonde o dispositivi wi-fi. Quest’ultimo gruppo di strumenti, utilizzati anche nelle economie domestiche alla pari dei telefonini, possono generare radiazioni altrettanto o più importanti di quelle degli impianti sopra menzionati. Ciononostante, non essendo installazioni fisse ma piuttosto apparecchi il cui uso è a discrezione dell’utilizzatore, non sottostanno all’ordinanza sulle radiazioni non ionizzanti (Orni). È quindi facile dedurre come quasi tutti siamo oggi esposti in modo più o meno marcato a delle radiazioni, che possono essere considerate tangibili in date condizioni. La nascita di nuove applicazioni, il numero crescente di dispositivi, così come il potenziamento delle reti possono condurre a un aumento delle emissioni, il cui mo-

nitoraggio e controllo in Ticino viene effettuato, per gli impianti di telefonia mobile, dal Dipartimento del Territorio (DT). L’Ufficio federale dei trasporti e l’Ispettorato federale degli impianti a corrente forte sono invece competenti per gli impianti ferroviari e, rispettivamente, per gli elettrodotti. Come cita il rapporto Star del 2017, «Gli effetti sulla salute sono ancora poco conosciuti e al momento si applica dunque un principio di precauzione, vale a dire che si incoraggiano le tecnologie a bassa emissione e si mira a ridurre, per quanto possibile, l’esposizione della popolazione alle radiazioni non ionizzanti». Il Cantone, con l’Osservatorio ambientale della svizzera italiana (creato nel 2002 dal DT in collaborazione con la Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana, Supsi), oggi assicura il monitoraggio continuo, per gli impianti di telefonia mobile, delle radiazioni non ionizzanti. Sul sito www. ti.ch/oasi sono consultabili sia le misurazioni delle stazioni semipermanenti sia i dati relativi agli impianti di telefonia mobile. Quelle semipermanenti sono posizionate in luoghi ritenuti interessanti e in genere per la durata di un mese circa. Le misurazioni, seppur indicative e non certificate dall’Istituto federale di metrologia, sono comunque considerate «scientificamente attendibili» e avvengono su uno spettro di frequenze più ampio (da 0.1 – 3000MHz) rispetto alle misure puntuali che vengono effettuate in prossimità degli impianti di telefonia mobile e comprendono di conseguenza anche gli apparati radio e TV e altri trasmettitori. Questo permette di avere un’indicazione attendibile sul carico complessivo di radiazioni in un determinato luogo e per un periodo di tempo prolungato. La Supsi ha per esempio effettuato su mandato del DT dei monitoraggi delle radiazioni generate da antenne di telefonia mobile nel periodo 20022016. Misure che sono ora in fase di ripetizione per poter avere dei confronti temporali. I luoghi di misura si situano presso edifici privati o pubblici, solitamente sui tetti, e hanno dato dei risultati soddisfacenti, nel senso che non si registrano superamenti dei valori limite previsti dall’Orni, che variano tra 4 e 6 V/m a dipendenza del tipo di impianto. Ogni anno vengono ripetute circa 13 misure di monitoraggio, a cui se ne aggiungono altre specifiche per verifiche puntuali.

Pxhere.com

sono ancora poco conosciuti, al momento si applica il principio di precauzione

Anche le antenne di telefonia sono sotto stretto controllo, come ci spiega Sergio Kraschitz, collaboratore scientifico dell’Ufficio della prevenzione dei rumori della Sezione della protezione dell’aria, dell’acqua e del suolo. «Già in fase di domanda di costruzione ogni impianto deve soddisfare i requisiti teorici per rimanere al di sotto del livello massimo di radiazioni stabilito dall’Ordinanza, che è in vigore dal 2000. Una volta approvato il progetto, su quasi ogni antenna che entra in funzione (vi sono delle eccezioni per quelle che mostrano valori inferiori all’80% del limite Orni, ndr) viene effettuata una misura di collaudo entro 4 mesi dalla sua messa in esercizio, che solitamente registra dei valori inferiori a quelli teorici. Solo raramente sono necessari dei correttivi». Un settore che nel nostro cantone concerne quasi 400 infrastrutture di telefonia mobile o impianti di comunicazione, dove è anche possibile la presenza di più operatori e che possono in seguito essere monitorate a

campione durante l’esercizio. In più, grazie all’Ufcom, è possibile operare controlli per verificare che gli impianti funzionino secondo i parametri impostati e approvati. Il margine d’errore è quindi ridotto, come ci conferma Sergio Kraschitz: «Sì, come detto i superamenti sono molto rari e vengono individuati subito, già nella fase di collaudo, e sono dovuti solitamente a parametri che non sono potuti rientrare nel calcolo teorico. Si tratta inoltre di superamenti rilevati alla potenza massima autorizzata, mentre gli impianti sono quasi sempre in funzione a livelli inferiori. Ci sono inoltre le citate misurazioni di monitoraggio che rilevano dei valori molto bassi, attorno a 1 V/m in generale». In merito all’approdo della tecnica 5G, «ci saranno di sicuro degli adattamenti da effettuare e quindi nuove verifiche s’imporranno in quanto, necessariamente, muterà anche la propagazione del segnale. La rete sarà più performante e quindi l’utenza potrebbe essere invogliata a usarla di più, con un

aumento del traffico di dati, ma i limiti per i locali a utilizzazione sensibile restano comunque gli stessi di oggi, che tra l’altro sono dieci volte inferiori di quelli considerati dall’Organizzazione mondiale della sanità». Limiti che a volte non vengono considerati abbastanza restrittivi per le persone che soffrono di elettrosensibilità e per le quali anche piccoli valori d’esposizione risultano essere un elemento di disturbo. «Sì, esatto, c’è una piccola percentuale della popolazione che soffre la presenza di onde elettromagnetiche, sia da antenne o impianti di comunicazione, sia da elettrodomestici. In generale consigliamo di spegnere qualsiasi apparecchio che emetta delle onde se non utilizzato e nel limite del possibile ridurre l’impiego dei dispositivi mobili in favore di quelli fissi», conclude Sergio Kraschitz, ricordando la campagna di sensibilizzazione promossa nel 2008, e tutt’ora attuale, dal Dipartimento dell’educazione, della cultura e dello sport (www.ti.ch/ telefonini).


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Idee e acquisti per la settimana

Tutti in acqua!

È tempo di vacanze. Ecco qualche proposta di Famigros per occupare e rinfrescare tutta la famiglia durante le calde giornate estive

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Il fascino del fiume

Chi non conosce la Vallemaggia, questa regione di straordinaria bellezza, che dal Lago Maggiore si insinua nelle Alpi? Una magica valle che offre un armonico mix di natura e cultura, che invita alle escursioni, lungo le rive dei fiumi e verso le creste che la incoronano, ma anche alla balneazione e al relax mediterraneo. Cosa c’è dunque di meglio nelle bollenti giornate estive che immergersi nelle acque fresche e cristalline di un fiume montano come la Maggia? Verso il fondo valle si può fare il bagno in diversi punti della Maggia. Ad esempio a Lodano, Gordevio, Avegno e nella gola di Ponte Brolla, un luogo davvero spettacolare. Ai bagnanti si raccomanda comunque molta attenzione. Anche per nuotatori più esperti, i fiumi presentano dei pericoli. Infatti, ci sono acque selvagge con temperature fredde, rocce scivolose, correnti forti, vortici, cascate e, dopo i temporali, il livello dell’acqua si alza in modo imprevedibile. Tutti fattori che non devono essere sottovalutati, soprattutto quando ci si reca alla Maggia con i bambini.

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famigros.ch/maggia

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Una perla in fondo al Ceresio

Volete rifuggire la calca dei principali lidi del canton Ticino? Il Lido di Capolago vi offre questa possibilità. Situato all’estremità meridionale del Lago di Lugano e ai piedi del Monte Generoso, è un luogo incantevole in cui fare il bagno e adatto a tutta la famiglia. Capolago si trova all’estremità meridionale del Lago Ceresio, che divide con Riva San Vitale, e appartiene all’area comunale della città di Mendrisio. Il Lido di Capolago offre una bella

spiaggia, accessibile gratuitamente e ideale per le famiglie. Il piccolo stabilimento privato, collegato al Bar Lido (+41 91 648 11 08), offre un comodo e sicuro accesso al lago ed è quindi l’ideale per le famiglie. Ci sono uno spiazzo per giocare a calcio, prati per prendere il sole, spogliatoi e docce. Un bel luogo anche per grigliate in una serata mite. Il bar dispone di un’ampia terrazza. Attorno, le cime del San Giorgio e del Generoso dispensano frescura e le acque del lago refrigerio. famigros.ch/lago-lugano

Foto PD (2), Martin Stollenwerk/Mühlerama, Sensorium

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Dove il sole ama indugiare

Avete già esplorato tutte le spiagge lungo la riva del Lago Verbano da Ascona a Tenero? Provate ad oltrepassare il fiume Ticino e nel Gambarogno, a Magadino incontrerete il Lido di Magadino. Esposto anche agli ultimi raggi, piacerà in modo particolare a chi vuole godersi il sole e a chi piace indugiare nelle luci del tramonto. Se in Ticino si stimano 2170 ore di soleggiamento all’anno, in media, al Lido di Magadino sono un’ora in più.

A Magadino si ama favoleggiare che il sole sta così volentieri da queste parti da voler stendere gli ultimi raggi sui prati e sulle onde del Verbano per sognare ancora un po’ più a lungo di questi luoghi. Da non dimenticare che giusto accanto al Lido si trovano le Bolle di Magadino, una riserva naturale ricchissima di flora e fauna di importanza nazionale. Un luogo incantevole per passeggiate e punti di vista. famigros.ch/lido-magadino

Info: famigros.ch/lido-locarno

Lago, piscine, wellness e divertimenti L’estate può essere calda e afosa, in Ticino, terra del sole. Chi trascorre qui le vacanze o il tempo libero nella stagione calda non vedrà l’ora di trovare un po’ di refrigerio: la piscina del Lido Locarno è la meta ideale per tutta la famiglia, e non solo nelle belle giornate estive, ma anche in quelle più uggiose. La piscina del Lido Locarno sorge direttamente sul Lago Maggiore e grazie alle diverse vasche e ai numerosi scivoli offre a bambini, giovani e meno giovani azione e divertimento in tutte le condizioni meteo. Il grande complesso sorge direttamente sul Lago Maggiore e offre, oltre a varie vasche interne ed esterne, anche divertenti scivoli e rilassanti proposte wellness, come pure una stupenda vista ad ampio raggio su tutta la parte superiore del lago Verbano e sulle montagne circostanti.


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Ambiente e Benessere

New York Marathon Il «TCS New York City Marathon» è considerato l’evento Numero Uno dell’anno a New York; detto altrimenti è diventato un «must». Tourisme Pour Tous, in qualità di agenzia ufficiale da vent’anni, ha creato un’offerta per vivere il mito della maratona podistica più incredibile di tutte le maratone, e Hotelplan Ticino a sua volta ha deciso di proporlo ai lettori di «Azione». L’obiettivo è organizzare un gruppetto di corridori che prenda il volo per la «grande

maratona» dal Ticino. Un’esperienza che può essere vissuta però anche dai famigliari e amici, per cui le iscrizioni sono aperte anche per loro. Vale la pena di ricordare che l’evento leggendario riunisce circa 50mila corridori, 2 milioni di spettatori, e coinvolge 15mila volontari. Al passo di corsa, si attraversano i ponti più fotografati al mondo, le vie incredibili da Brooklyn al Queens passando da Harlem e Manhattan, fino al cuore del Central Park

dove di alzeranno le braccia al cielo in segno di vittoria.

Prezzo a persona

Pre-Iscrizioni

In camera doppia: CHF 3790.–* Supplemento camera singola: CHF 1070.– Pettorale Maratona CHF 600.– Spese agenzia Hotelplan: CHF 70.– *Riconferma del programma e del prezzo a dicembre 2019.

Per effettuare la pre-iscrizione, bisogna farlo entro il 30 settembre 2019 versando anche una cauzione non rimborsabile di CHF 200.– per ogni corridore. Una serata informativa per i corridori e interessati sarà organizzata entro fine 2019 e offerta da Hotelplan Ticino in collaborazione con il partner Tourisme Pour Tous.

Il programma di viaggio 29 ottobre: Ticino – Zurigo – New York Trasferimento dal Ticino per l’aeroporto di Zurigo. Volo intercontinentale. Arrivo al JFK in serata. Cena libera. 30 ottobre: New York Footing mattutino (facoltativo) in compagnia della «guida-maratoneta». Scoperta della fine del percorso di domenica nell’aria autunnale del Central Park. Rientro per la seduta informativa e ritiro del pettorale presso l’Expo. Fine giornata libera oppure escursione facoltativa «shopping all’outlet di Woodbury». Pasti liberi.

31 ottobre: New York Al mattino, visita guidata di Manhattan o di Brookling (facoltativa contro supplemento). O possibilità di partecipare alla «Dash to the finish line», jogging di 5km tra le Nazioni Unite e Central Park (contro supplemento). Pomeriggio e pasti liberi. 1. novembre: New York Marathon (ore 06.00) Trasferimento dall’hotel al luogo di partenza della maratona, al Ponte Verrazano. 4 linee di partenza permetteranno di raggiungere Central Park dopo 42,195 km. Rientro in hotel individualmente. In serata, Cocktail post

corsa offerto dal nostro partner Tourisme Pour Tous. Pasti liberi. 2 novembre: New York Giornata libera completa a disposizione per scoprire le attrazioni della grande mela con escursioni organizzate in loco (facoltative). Pasti liberi. 3 novembre: New York – Zurigo Mattinata libera. Nel pomeriggio trasferimento in bus all’aeroporto per il volo intercontinentale per Zurigo. Pasti e pernottamento a bordo. 4 novembre: Zurigo – Ticino Arrivo a Zurigo in mattinata, rientro in Ticino.

Bellinzona

Lugano

Lugano

Viale Stazione 8a 6500 – Bellinzona T +41 91 820 25 25 bellinzona@hotelplan.ch

Via Pietro Peri 6 6900 – Lugano T +41 91 910 47 27 lugano@hotelplan.ch

Via Emilio Bossi 1 6900 – Lugano T +41 91 913 84 80 lugano-viabossi@hotelplan.ch

La quota comprende Trasferta all’aeroporto di Zurigo e ritorno; voli di linea in classe economica; tasse aeroportuali; trasferimento dall’aeroporto di New Your fino all’hotel in centro a Times Square; 5 pernottamenti in hotel 3*** con servizi privati; senza pasti; assistenza di lingua italiana per i corridori dalla Svizzera; visto ESTA; serata informativa. Incluso nel pacco gara Trasferimenti ai vari appuntamenti; seduta informativa in lingua francese; t-shirt souvenir; documentazione completa sulla maratona; cocktail dopo gara. La quota non comprende Adeguamento carburante; pasti e bevande; eventuali prenotazione posti a sedere sul volo intercontinentale; extra in genere; assicurazione viaggio da 65.–. IMPORTANTE: ogni partecipante alla maratona deve avere una copertura sanitaria adatta alla prestazione. Obbligatorio passaporto con almeno 6 mesi di validità dalla data di rientro e Visto ESTA.

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Viaggio Per i lettori di «Azione», Hotelplan organizza un viaggio di gruppo dal 29.10 al 4.11.2020

Tagliando di prenotazione Desidero iscrivermi alla Maratona di New York Nome Cognome Via NAP Località Telefono e-mail

Sarò accompagnato da … adulti e … bambini (0-11 anni). Cerchiare se è il caso: Sistemazione singola?

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Ambiente e Benessere

Gas di scarico sotto la lente

Motori I nuovi modelli prima di essere omologati devono effettuare dei test su strada

che simulano le reali condizioni di utilizzo

Mario Alberto Cucchi Da settembre 2018 tutte le automobili vengono sottoposte a due nuovi cicli di omologazione: WLPT, acronimo di Worldwide harmonized Light vehicles Test Procedure; e RDE, Real Driving Emission. Di che cosa si tratta? In parole povere, da alcuni mesi i nuovi modelli prima di essere commercializzati devono effettuare dei test su strada che simulano le reali condizioni di utilizzo. In questo modo i dati dichiarati sui consumi e sulle emissioni dai costruttori automobilistici sono più realistici.

Il sistema di misura elaborato dalla Bosch mostra che il diesel ha ancora punti di vantaggio sulla benzina Grazie a Bosch abbiamo avuto la possibilità di sederci al volante di due vetture per un test simulato di omologazione della durata di 35 minuti in modo da capirne il funzionamento. Le vetture erano equipaggiate con il PEMS – Portable Emissions Measurement System –, un sistema elaborato di centraline che viene installato posteriormente a sbalzo sul gancio traino. Si connette inoltre alla marmitta e a quel punto i gas di scarico passano attraverso il disposi-

tivo che li analizza secondo per secondo. Le vetture dotate di PEMS durante i collaudi vengono guidate su strade aperte al traffico in varie situazioni. Il ciclo prevede tratti urbani, extraurbani e autostrade: percorsi a velocità crescenti e ad altitudini diverse. Al nostro fianco un collaudatore esperto analizza i risultati e fornisce indicazioni sulla guida. L’importante nella prova è non superare i 50 km/h nei tratti urbani e rispettare sempre i limiti di velocità nei tratti extraurbani. Per il resto si può guidare come si vuole. Anche le condizioni climatiche sono ininfluenti ai fini della validità del test, così come il traffico, proprio per simulare le reali condizioni di utilizzo. Nella prova sono state utilizzate delle automobili alimentate a gasolio, ed è risultato che le emissioni inquinanti sono davvero ridotte al minimo. Secondo Bosch, sono cinque gli argomenti a favore del Diesel: 1. un motore diesel Euro 6 emette circa il 15% in meno di CO2 rispetto a un motore comparabile a benzina; 2. grazie al basso consumo di carburante, il diesel consente un risparmio di risorse e di conseguenza in caso di uso frequente anche di denaro; 3. gli obiettivi in termini di consumi ed emissioni definiti dalla UE per il 2020 e per gli anni successivi saranno difficilmente raggiungibili senza il Diesel; 4. da quando è stato introdotto il filtro antiparticolato sui motori Diesel, le polveri sottili non

sono più un problema; 5. indipendentemente dalle temperature e dallo stile di guida, in futuro le auto equipaggiate con motori Diesel all’avanguardia saranno in grado di rispettare i valori limite di ossido di azoto in qualsiasi situazione di guida. Bosch ha segnalato che negli ultimi mesi in Europa, a fronte della diminuzione di immatricolazione di auto diesel, è corrisposto un aumento delle

emissioni delle CO2. Questo anche perché il parco di automobili ibride ed elettriche non è aumentato proporzionalmente, bensì sono solo state vendute più vetture alimentate a benzina. Lo sappiamo, ci sono i fan del motore Diesel e quelli che lo demonizzano ma va detto che l’opinione di Bosch è neutrale, dato che non è un produttore di auto, ma un fornitore di tecnologie. Tra i suoi clienti si annoverano i

maggiori costruttori automobilistici. Bosch lavora inoltre su tutti i tipi di alimentazione: benzina, diesel, ibrida ed elettrica. Su un punto sono probabilmente tutti d’accordo: oggi le quattro ruote vivono un importante periodo di transizione tecnologica, quindi ogni analisi sulle emissioni può essere soltanto benvenuta. D’altronde si sa, l’aria che respiriamo non conosce né confini né dogane. Annuncio pubblicitario

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Ambiente e Benessere

L’Alsazia in cantina

Scelto per voi

Bacco Giramondo I principali vitigni coltivati sono Riesling, Gewürtztraminer,

Pinot Gris, Pinot Blanc, Muscat e Sylvaner

Davide Comoli Non si può parlare d’Alsazia senza parlare dei suoi vigneti. Principale ricchezza agricola, i vigneti alsaziani sono anche una grande attrazione turistica e culturale. Da nord a sud i vigneti si estendono su circa 120 km e coprono una superficie vitata di circa 140mila ettari, da Marlenheim, nel Basso Reno fino a Thann, nell’Alto Reno. I vigneti formano una banda quasi continua e non superano quasi mai i 4,5 metri di larghezza. Raggruppati intorno a piccole città o villaggi, in passato ricchi di storia, i vigneti sono installati nel versante vallonato delle colline intorno al massiccio dei Vosgi, che riparano il territorio dai venti e dalle piogge provenienti dall’Atlantico, creando una barriera. Già le popolazioni celtiche, che popolavano questi luoghi, sapevano produrre vino con le viti selvatiche che numerose si trovavano nelle foreste del Reno. Ciononostante, fu solo nei primi secoli della nostra era, dopo la conqui-

sta da parte di Roma, che si cominciò a parlare di coltura della vite. Nel V sec., l’invasione da parte degli Alemanni portò al declino della viticoltura. Fu la cristianizzazione, portata dai re Merovingi e Carolingi e l’impulso dato dai monasteri, che permise alla viticoltura di rinascere e avere un’importanza sempre crescente nell’economia alsaziana. Documenti antecedenti al 900 d.C. attestano già più di 150 località dove si coltivava la vigna. Il XVI sec. vede l’apogeo della viticoltura: ne sono testimoni i superbi edifici che s’incontrano nei numerosi villaggi che si attraversano. Nello stesso periodo nascono le prime corporazioni di artigiani comprese quelle inerenti alla viticoltura, che fanno prosperare un gran numero di famiglie. La guerra dei Trent’anni, nel XVII sec., riduce a ferro e fuoco la regione e bisognerà attendere il XIX sec. per ritrovare una certa prosperità. In seguito, la concorrenza dei vini e del Midi della Francia, la filossera, le altre malattie parassitarie e non da ultimo l’an-

nessione dell’Alsazia alla Germania dal 1871 al 1918, perpetuarono sino al 1948, le difficoltà per il vigneto alsaziano. Cinquanta milioni di anni or sono, i Vosgi e la Foresta Nera formavano un solo insieme montagnoso. Durante le Ere Primaria e Secondaria, questo massiccio subì una successione di avvenimenti tettonici: erosioni, immersioni, depositi sedimentari, corrugamenti. Nel Terziario, dal cedimento di questo massiccio, nacque una larga pianura nel mezzo della quale scorre il Reno. Nel Quaternario, il fiume spande nella piana enormi quantità di ghiaia, che è quella che ai giorni nostri ci dà modo di spiegare il perché della grande diversità di suoli del vigneto alsaziano. Gli strati accumulati nel corso dei secoli sono ben visibili. La maggior parte dei comuni vinicoli presentano diverse composizioni di terreni. Con l’amico Pierre Gassman, noto produttore locale, abbiamo visitato ben 21 tipi di suoli diversi: solo nel piccolo villaggio di Rorschwihr vengono prodotti 12 crus di grande diversità. Il clima dell’Alsazia è fresco e temperato, gli inverni sono sovente rigorosi e le estati piuttosto calde. Come già scritto, i Vosgi rappresentano un ostacolo all’influenza umida che arriva dall’Atlantico. Ma esistono anche molti microclimi locali che nascono dalle sinuosità dei rilievi e che giocano un ruolo preponderante nelle vendemmie con vigne esposte a sud e a sud-est. Le piogge variano enormemente dalla cresta dei Vosgi alla pianura. Per la viticoltura esse sono piuttosto flebili e regolari: dai 500 ai 650 mm per anno, il che costituisce garanzia di qualità. Grazie a una maturazione lenta e prolungata, favorita appunto dal clima, le costituenti aromatiche delle uve si esprimono pienamente. Fino al XVI sec., non si trovano tracce scritte dei nomi dei vitigni, è solo nel 1551 che il botanico Hieronymus Bock Tragus, menziona in un trattato esposto nella biblioteca di Strasburgo, i vitigni Riesling, Muscat e Traminer. Anche le

Vigneti in Alsazia. (Pxhere.com)

etichette in Alsazia sono molto facili da leggere, la prima informazione che troviamo è il nome del vitigno (vino), la seconda quella del proprietario del vigneto e sovente, soprattutto quando si tratta di Grand Cru, il nome del vigneto o del villaggio dove il vino è prodotto. I principali vitigni coltivati sono: Riesling, è il vitigno più elegante coltivato in Alsazia, con cui si producono vini bianchi grandiosi, molto longevi e così pure degli eccellenti vini bianchi prodotti con vendemmie tardive. Gewürtztraminer, la superficie vitata di questo vitigno aumenta in continuazione e copre quasi un quarto del vigneto Alsaziano, in grandi annate produce vini di grande aromaticità, speziatura, ampi e generosi, si producono anche vini con vendemmie tardive. Il Pinot Gris, vitigno presente già nel XVI sec. sotto il nome di Tokay d’Alsace, ma dal 1984 dopo una querelle da parte del governo Ungherese, questa denominazione è stata proibita dall’Unione Europea, rimpiazzata semplicemente da Pinot Gris. Pinot Blanc, il vitigno sta conoscendo un periodo un po’ oscuro, è usato soprattutto per produrre i Crémant (vini spumanti). Muscat, questo vitigno aromatico è presente in due versioni, il Muscat d’Alsace e il Muscat Ottonel, è da preferire il primo vinificato secco, dai piacevoli sentori di uva molto intensi e usato come aperitivo. Sylvaner, vitigno coltivato nelle zone meno prestigiose del Bas-Rhin, il vino prodotto è fresco e semplice, ma coltivato su terreni eccezionali, può essere paragonato ai grandi Riesling. Pinot Nero, è il solo vitigno rosso coltivato, si producono vini poco colorati, ma quando le rese in vigna sono basse e l’annata è buona, i vini possono essere eccellenti. Da abbinare al fegato d’oca o a un Münster un po’ stagionato, consigliamo di provare una Sélection de Grains Nobles, questi vini sono prodotti solo da uve attaccate dalla Muffa Nobile, raccolte in tre fasi diverse e solo in annate molto calde.

Buttafuoco

Sulla destra orografica del fiume Po, incastonate tra le province di Alessandria e Piacenza si trovano le colline dell’Oltrepò Pavese, un’arenaria vecchia di 3mila anni che ha la forma di un grappolo d’uva; fatto che la dice lunga su questo comprensorio formato da suoli argillosi e calcarei. L’Oltrepò Pavese ha una straordinaria capacità produttiva, e più del 70% del vino della Lombardia proviene da questa zona. Il vitigno più coltivato in Oltrepò è la Barbera, seguito dalla Croatina e l’Uva Rara che guarda caso sono i vitigni alla base del vino che presentiamo oggi, il Buttafuoco. Specialità di Canneto Pavese, questo vino prende il nome dal colore molto acceso, in dialetto «bùta come el foueg». Non v’è dubbio che Carlo Porta (il grande poeta dialettale milanese) volesse riferirsi a questo vino nel suo Brindes de Meneghin all’Ostaria. È un vino semplice, dall’odore vinoso, intenso e fruttato, dal gusto asciutto e di corpo, talvolta vivace. Da servire in estate tra i 14-16° C, ideale nelle serate estive su minestroni freddi o tiepidi, su taglieri di salumi anche cotti e su piatti di carne semplici della tradizione contadina. / DC Trovate questo vino nei negozi Vinarte al prezzo di Fr. 12.90. Annuncio pubblicitario

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Enoteca Vinarte, Centro Migros Agno

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 15 luglio 2019 • N. 29

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Che cosa è lo sformato?

Ambiente e Benessere

Gastronomia Esistono sia salati, sia dolci, ma in entrambi i casi comprendono sempre

Un lettore chiede cosa sia esattamente lo sformato. È una preparazione dolce o salata, a base di ingredienti diversi – ma contenente sempre uova sbattute – cotta in forno in uno stampo. Vengono detti anche budini (impropriamente) e flan. Gli sformati presentano a volte analogie con i soufflé, che però nell’impasto comprendono sempre albumi sbattuti a neve – e si afflosciano facilmente a fine cottura se non vengono preparati con grande attenzione…

Lo sformato non è da confondere con il soufflé che a differenza del primo prevede l’uso di albumi sbattuti a neve: il primo resta in forma, il secondo si affloscia In genere gli sformati sono a base di verdure passate, mescolate con besciamella, uova e formaggio grattugiato; la cottura avviene in forno in grandi stampi a ciambella, ma anche in stampi conici monoporzione (soprattutto nel caso in cui lo sformato venga servito come antipasto). Gli sformati sono a volte accompagnati da una salsa o da un sugo. Ma non esistono solo quelli salati. Gli sformati dolci possono essere preparati con ricotta, cioccolato, mele; tra gli ingredienti compare spesso anche il latte. Vediamo alcuni sformati. Sformatini di porri. Ingredienti per 4-6 persone. Mondate e tagliate a rondelle 4 porri, poi stufateli in una casseruola con 4 cucchiai di olio e poca acqua per 20’, alla fine frullateli. Amalgamateli con 300 g di besciamella, 4 uova e 60 g di grana grattugiato; regolate di sale e di pepe. Imburrate 4-6 stampi monoporzione, versatevi il composto e cuocete in forno a bagnomaria a

180° per 25’ circa. Lasciate riposare per circa 10’ prima di sformare. Se volete, serviteli nappando con una densa salsa di pomodoro caldina. Sformato di lenticchie e carote. Per 4 persone. Sciacquate 300 g di lenticchie, copritele a filo con brodo vegetale bollente, portatele a cottura e frullatele. Mondate 4 carote e tagliatele a fettine; fatele cuocere con una cipolla mondata e spezzettata e poca acqua per 30’, poi passatele al passaverdura con i buchi grossi. Aggiungete alle carote un uovo leggermente sbattuto e un pizzico di pepe e alle lenticchie un tuorlo e la scorza grattugiata di un limone, poi regolate, separatamente, di sale e di pepe. Ungete con olio una teglia da forno e spolverizzatela di pangrattato: versatevi prima la purea di lenticchie, poi di carote, spolverizzate con altro pangrattato, condite con un filo di olio e infornate a 200° per 20’. Servite tiepido. Sformato di pesce. Per 4 persone. Spellate, diliscate e spezzettate 800 g di pesce bianco a piacere. Fate fondere abbondante burro in poco latte, unite il pesce, cuocete per 3’ mescolando bene, spegnete, lasciate intiepidire e frullate; amalgamatevi poi 200 g di pangrattato e 2 uova sbattute. Regolate di sale e di pepe. Versate il composto in una pirofila leggermente imburrata, sigillate con un foglio di carta d’alluminio e cuocete a bagnomaria per 1 ora. Rimuovete l’alluminio, guarnite con qualche cucchiaio di besciamella a cui avrete aggiunto 100 g di funghi tagliati a fettine e trifolati e servite. Sformato alla crema pasticciera. Per 4 persone. Mettete 8 amaretti a bagno in mezzo bicchiere di rum e lasciateveli per 2’. Montate 5 albumi a neve e incorporatevi 6 cucchiai di zucchero a velo e 1 cucchiaio di vino dolce. Sistemate 300 g di fette di pan di Spagna in una teglia, spalmatele con 2 dl di crema pasticciera e guarnite con gli amaretti bagnati nel rum; coprite infine con 1 dl di crema pasticciera e con gli albumi montati. Cuocete in forno a 190° per 20’ senza mai aprire lo sportello del forno.

CSF (come si fa)

Pixabay.com

Allan Bay

Cristina Sanvito

una certa quantità di uova sbattute

I soba sono spaghetti giapponesi preparati con farina di grano saraceno. Non vanno confusi con gli udon, confezionati con farina di grano tenero. In Giappone, i soba sono da un lato un cibo ultra popolare, che si trova praticamente ovunque: nei fast food, nelle stazioni ferroviarie, nelle bancarelle per strada, ma dall’altro lato si trova-

no anche nei ristoranti più esclusivi. Possono essere consumati sia freddi sia caldi, sia asciutti sia in brodo, con varie guarnizioni e condimenti. Il piatto classico è il kake soba, che consiste in soba bolliti e serviti in una tazza di brodo caldo, guarniti con fettine di negi (cipolletta). I soba freddi possono essere gustati con il brodo a parte o versato sopra gli spaghetti; i più noti, i zaru soba, sono proposti su un piatto in bambù a forma di graticola, guarniti con pezzettini di alga nori o con wasabi, porro o zenzero. In commercio sono disponibili i soba secchi, già pronti per l’uso, da immergere direttamente nel brodo o da lessare in acqua. Vediamo come si fa una versione ultra europeizzata dei soba: oramai mi conoscete e sapete quanto amo mescolare tradizioni diverse...

Soba alle verdure. Ingredienti per 4 persone. Preparate 4 dl di brodo vegetale saporito, quindi fatto con tante diverse verdure, e portatelo al bollore insieme con 60 g di salsa di soia light, quella meno salata, 1 cucchiaino di zucchero e 1 dl di vermut dolce. Filtrate la salsa, poi riducetela a circa 2 dl e fatela intiepidire. Mondate 1 porro e tagliatelo ad anellini sottili, mondate 1 pezzo di daikon, grattugiatelo e fatelo scolare in un colino, tagliate a julienne una piccola carota e tagliate a fettine sottili 2 ravanelli. Cuocete 250 g di soba per 5’, scolateli e passateli sotto acqua fredda per fermarne la cottura. Distribuiteli in 4 ciotoline, arricchite con il daikon, i ravanelli, la carota e il porro, aggiungete 1 pomodorino a testa tagliato a fettine, bagnate con il fondo concentrato e portate in tavola.

Ballando coi gusti Oggi due facilissimi dolcetti adatti a pressoché qualsiasi occasione

Dolcetti alla confettura

Dolcetti di mais

Ingredienti per 6 persone: 250 g di farina bianca · 2 uova · 2 cucchiai di vino

Ingredienti per 6 persone: 125 g di farina di mais · 250 g di farina bianca · 1 bustina di lievito per dolci · 250 g di burro · 180 g di zucchero · 3 uova · la scorza grattugiata di 1 limone.

bianco · ½ limone · 300 g di confettura · 4 cucchiai di olio di oliva · sale.

Setacciate la farina a fontana in un’ampia ciotola; al centro sgusciate le uova e unite il vino, la scorza grattugiata di limone, 4 cucchiai di olio e un pizzico di sale. Lavorate il composto fino a ottenere una pasta morbida, aggiungendo poca acqua, se necessario. Stendete l’impasto a uno spessore di 5 mm, bucherellatelo con una forchetta, ritagliate dei dischi di 10 cm di diametro e al centro di ognuno deponete un cucchiaio di confettura. Richiudete i dischi di pasta formando delle mezzelune, sigillate i bordi premendo con le dita e trasferitele su una teglia foderata di carta da forno. Cuocete i dolcetti in forno a 190° per 15 minuti circa. Sfornateli e lasciateli raffreddare prima di servirli.

Setacciate le farine con il lievito, disponetele a fontana in un’ampia ciotola e al centro mettete il burro ammorbidito a pezzetti, lo zucchero, le uova, la scorza di limone e un pizzico di sale. Lavorate gli ingredienti, in modo da ottenere una pasta morbida; lasciatela riposare al fresco per circa 15 minuti. Trasferite la pasta nella tasca da pasticciere munita di bocchetta a stella, quindi deponete l’impasto su un’ampia placca foderata di carta da forno, formando degli anelli di 5 cm di diametro o dei biscotti a forma di esse o altra forma a piacere. Cuoceteli in forno a 180° per 20 minuti, sfornate e lasciate raffreddare i biscotti prima di servirli.


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Idee e acquisti per la settimana

La variante più conveniente di un viaggio in Italia Peter Wieland (66 anni) di Zurigo è un estimatore della cucina italiana. «Ho spesso trascorso le vacanze in Italia e mi sono innamorato del paese, della gente e del cibo», racconta il fiduciario. Questo il motivo per cui da Wieland vengono regolarmente proposti antipasti con gamberetti e filetti di trota, così come pasta fresca. «Da anni preparo i ravioli in casa». I suoi ravioli preferiti hanno il ripieno di salmone e quark e sono accompagnati da una salsa al limone. Dal momento che ora molti prodotti Migros sono ancora più convenienti, sicuramente gli inviti a gustare un menu italiano saranno più frequenti .

Il prezzo del cestino della spesa Fr. 17.10 finora 22.85

«I ravioli possono essere congelati, così ho sempre qualcosa di pronto da preparare quando arrivano ospiti inaspettati».

Dopo le riduzioni di prezzo apportate, questo cestino della spesa costa Fr. 17.10; il 3 luglio i clienti pagavano ancora Fr. 22.85.

Riduzioni di prezzo permanenti

Peter Wieland

I prodotti preferiti sono più convenienti Recentemente il prezzo di molti dei prodotti preferiti dai clienti Migros, vale a dire i prodotti più venduti, è diventato più conveniente. Tra questi le mozzarelline e il salmone affumicato. Settimanalmente se ne aggiungono altri. L’aspetto più interessante: non si tratta semplicemente di promozioni, bensì di riduzioni di prezzo permanenti.

Foto e Styling Tina Sturzenegger, Foto MGB Fotostudio

Facilmente riconoscibili Grazie al logo riprodotto qui sotto, nei prossimi mesi sarà facile riconoscere a colpo d’occhio i sempre più numerosi prodotti preferiti che hanno beneficiato di una riduzione di prezzo permanente.

D’ora in poi alla Migros i tuoi soldi valgono ancora di più: nei prossimi mesi ribasseremo settimana per settimana in modo permanente i prezzi dei prodotti preferiti dai nostri clienti, continuando a investire nella comprovata qualità Migros


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Ambiente e Benessere

Balestrucci in difficoltà

Mondoanimale Per proteggere questi volatili è necessario censirli e aiutarli nella nidificazione Entro fine luglio la mappatura sarà terminata e si potrà scoprire, ad esempio, se la posa dei nidi artificiali sia stata favorevole. «Il nido costruito dal Balestruccio è molto fragile per sua natura. D’inverno può cadere o rompersi e viene ricostruito l’anno successivo con materiale che sembra aderire bene all’intonaco fresco della casa». Una buona alternativa particolarmente sensata è l’impiego di nidi artificiali laddove il Balestruccio è ancora presente ma manca materiale da costruzione. «È importante che i nidi artificiali siano collocati in modo che la parte superiore sia a diretto contatto con il sottotetto. Eventuali spazi vuoti devono essere chiusi. È auspicabile collocare diversi nidi artificiali gli uni accanto agli altri». Ma la necessità da prendere ancora più seriamente è che vanno puliti ogni anno: «Quando il Balestruccio lo lascia, il nido artificiale viene sovente occupato dai passeri che se ne appropriano, lo insudiciano e diventano prevalenti al Balestruccio, scacciandolo». Se da un lato Lardelli indica come organizzarsi con un kit con il materiale utile alla costruzione di un nido, dall’altro ribadisce l’importanza della pulizia sotto i nidi perché non venga tolto spazio al Balestruccio: «Per il kit ci si può rivolgere a www.ficedula.ch: bastano acqua e materiale di costruzione per favorire il Balestruccio nella realizzazione del suo nido. Mettiamogli a disposizione una palata di fango dell’orto e una vaschetta di plastica con un po’ d’acqua e ci pensa lui». Una pagina web di Ficedula è a disposizione di chi desidera tutte le spiegazioni del caso per aiutare questi volatili in difficoltà.

Maria Grazia Buletti «Il Balestruccio è più piccolo della Rondine e possiede una coda meno biforcuta. La parte superiore è nera con riflessi blu ad eccezione del groppone, che è bianco. La parte inferiore è color bianco puro. Invece la Rondine è tutta nera nelle parti superiori, e bianco-nerorossa in quelle inferiori», così esordisce l’ornitologo Roberto Lardelli di Ficedula (Associazione per lo studio e la conservazione degli uccelli della Svizzera italiana) con l’intento di attirare l’attenzione su questi piccoli volatili che, dice, ora più che mai sono in seria difficoltà. Con Lardelli approfondiamo il tema per risvegliare la comprensione delle esigenze che ha il Balestruccio, e per indicare nel contempo alcune possibilità di protezione e di conservazione. «Ciò è più che mai necessario, poiché la specie è in diminuzione da parecchio tempo e dal 2010 figura sulla Lista Rossa come potenzialmente minacciata», afferma l’ornitologo e aggiunge che nessuno, per ora, è riuscito a individuare una causa unica e plausibile all’origine di questo calo, definito dall’ornitologo come un «vero e proprio crollo delle popolazioni su scala continentale». Porta ad esempio i dintorni della sua abitazione dove, afferma, nel 1976 si contavano circa 26 nidi di Balestrucci: «L’ultima riproduzione di un nido è avvenuta nel 2017: ciò dimostra una decrescita costante nel tempo di cui ancora non si conosce il motivo ed è ipoteticamente relazionabile solo al volume di traffico automobilistico che è aumentato parecchio». L’ipotesi, per

Esiste anche la possibilità di collocare una serie di nidi artificiali nei sottotetti. (Ficedula)

ora, sarebbe quella dell’inquinamento atmosferico più che la carenza di nidi («In primavera li ritrovano») o la carenza di insetti («non risulta una carenza alimentare e gli insetti dovrebbero essere sufficienti al loro fabbisogno»). Per meglio comprendere come proteggere questi volatili in difficoltà, bisogna sapere che nidificano volentieri in colonie: «Occasionalmente su pareti rocciose, spesso però all’esterno di stabili, dove costruiscono il nido nell’angolo tra la facciata e il sottotetto». Attraverso quello che Lardelli definisce «un clamoroso esempio», scopriamo che il legame del Balestruccio con la campagna è minore di quello della Rondine: per nidificare predilige tetti, grondaie e recinti. «Qualche anno fa, a Tenero è comparsa quasi dal nulla una colonia di Balestrucci che è cre-

Giochi Cruciverba Per andare d’accordo non servono… Termina la frase rispondendo alle definizioni e leggendo nelle caselle evidenziate. (Frase: 2, 6, 4, 2, 2, 6, 8).

sciuta in tre anni da due o tre nidi fino a più di un centinaio». Facile intuire che la tolleranza dei proprietari e fruitori degli edifici nei confronti di questi nidi e del loro sterco sia stata messa a dura prova. Eppure gli edifici appena costruiti sono particolarmente attrattivi per loro e spesso si installano nelle vicinanze di cantieri dove trovano materiale da costruzione di ottima qualità. Si ipotizza sia andata proprio così nel caso di una grande colonia a Tenero che, d’un tratto, si è quasi dileguata: «Inizialmente hanno cominciato a creare problemi sporcando i tavoli di un bar annesso alla struttura. Allora, in accordo con i proprietari, sono state posate delle reti di protezione giusto sopra il bar. Subito dopo nella colonia si è verificato un crollo della popolazione, non per le reti posate come potremmo pen-

Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku 1

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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch

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I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.

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15. Il Falk del tenente Colombo 17. Le iniziali dell’Ariosto 19. Unità di misura 1 2 3 4 20. Nome femminile 7 8 22. L’attore Pittinson 24. Dispensati9da un dovere 10 27. Regnante 11 29. Arriva in testa... 12 13 14 15 30. Collocate, posizionate a Londra... 1631. È «in funzione» 17 33. Un numero 19 20 35. L’antico precede il medio 23 24 37. Torna se ora non c’è... 2538. L’odio nel cuore... 26 39. Le iniziali della Vanoni

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38. Fedeli 40. Negazione russa 41. Liquido mucoso delle articolazioni VERTICALI 1. Solleva e gonfia 2. Stato mistico di rapimento 3. Le iniziali del regista Spielberg 4. L’ultimo è Silvestro 5. Oscuro, tenebroso 6. Pronome personale 7. Destinate da Dio ad una missione 8. Caldo tessuto 9. Segue il «così» liturgico 10. Le iniziali di Diaz 12. Catasta di legna per condannati

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Scoprire i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.

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ORIZZONTALI 1. Bollito 7. Ripara la mano dello spadaccino 11. Alzate, sollevate 12. Comoda copertina 13. Congiunzione francese 14. Le iniziali di una Rinaldi attrice 15. Quella del fiume è dovuta alla pioggia 16. Di Non nel Trentino 18. La «legge» del silenzio 21. Fiume di Monaco 23. Stato francese 24. Lette senza consonanti 25. In fin dei conti... 26. Più versa più guadagna 28. L’oriente inglese 30. Il poliziotto... per il malvivente 32. Quando cantano sono confessi 33. Conserva la mozzarella 34. Le coperte meno corte 36. Le iniziali della cantante Zilli 37. Tutt’altro che luminose

sare, ma anche perché era terminato il grande cantiere edile che fino ad allora forniva loro materiale per la costruzione dei nidi». Queste sono preziosissime osservazioni che Ficedula raccoglie, insieme al progetto di censimento in atto, in accordo con l’Ufficio natura e paesaggio del Dipartimento del territorio e in collaborazione con tre studenti liceali che proprio su questo realizzano il loro lavoro di maturità: «Tre ornitologi seguono i lavori, informano ed educano le persone sul procedere, e sulla base dei dati raccolti potremo elaborare un modello per cercare di identificare gli elementi di risposta sui luoghi in cui il Balestruccio è sparito, dove risulta in calo, stabile o in lieve aumento (le colonie si spostano da un sito all’altro anche se la tendenza generale è in calo)».

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Partecipazione online: inserire la

soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-

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luzione, corredata da nome, cognome, indirizzo, email del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui

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concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.


Il pescato del giorno: conveniente e sostenibile.

Sostenibilità

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Filetto di salmone con pelle M-Classic, ASC d’allevamento, Norvegia, per 100 g

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Filetti di trota M-Classic, ASC d’allevamento, Danimarca, 125 g

Migros Ticino


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Politica e Economia Diario dalla Cina Federico Rampini descrive i cambiamenti che hanno trasformato il Paese negli ultimi dieci anni

Chi è Kamala Harris La prima tappa della lunga campagna elettorale americana è stata vinta dalla senatrice della California, una dei venti candidati democratici che alle primarie di partito si contendono la nomination per sfidare, il 3 novembre del 2020, Donald Trump

Gli Usa criticano la BNS Il Ministero delle finanze americano deplora gli interventi per evitare il rincaro del franco pagina 30

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Che ci importa della Luna? Apollo 11 Mezzo secolo dopo il primo

Loris Fedele Cinquanta anni fa ci abbiamo messo un piede sopra per la prima volta. Dopo tre anni l’abbiamo abbandonata dicendole arrivederci e non addio, ma è un arrivederci che dura da quarantasette anni, quindi molto più lungo del previsto. In realtà di previsioni a quel tempo non se ne fecero: si trattò piuttosto di una speranza, quella di tornare presto sulla Luna, suffragata dall’apparente velocità con la quale gli americani l’avevano conquistata. Sembrava tutto facile, anche se non lo era stato affatto. Il programma Apollo che portò l’uomo sulla Luna fu interrotto perché costava troppo e perché si erano affievolite le motivazioni politiche che lo avevano fatto nascere. Gli Stati Uniti d’America avevano battuto sul tempo l’antagonista Unione Sovietica, avevano dimostrato di essersi ripresa la vera o presunta supremazia nello Spazio e cercavano di uscire dalla cosiddetta Guerra fredda. In più avevano altri problemi interni con guerre e discriminazioni razziali. Avevano una società a cui pensare, e quella stessa società sembrò accettare senza difficoltà lo stop temporaneo. Lo stesso Eugene Cernan, il comandante di Apollo 17, che nel dicembre 1972 fu l’ultimo uomo ad abbandonare il suolo lunare, dichiarò: «Credo che il programma Apollo si sia concluso al momento giusto. Avevamo imparato molto, avevamo già tanto su cui riflettere». Ma tutti sapevano che prima o poi qualche politico avrebbe rilanciato il sogno lunare o qualche altro programma ancora più ambizioso. Infatti nel 1989 il presidente George Bush propose il ritorno sulla Luna e il viaggio su Marte, ma il Congresso rifiutò di accreditare una ventina di miliardi di dollari per circa vent’anni e rifiutò il finanziamento. Tuttavia il discorso colonizzazione di Marte stava facendosi strada. Per arrivarci sarebbe stato necessario anzitutto imparare a vivere nello spazio e quindi si lanciarono le stazioni orbitanti. La prestigiosa Mir, dell’Unione Sovietica, era già in funzione e tre anni dopo si firmarono gli accordi per il programma ISS, la stazione spaziale internazionale, fortemente voluta dagli americani e che avrebbe accolto tra gli altri anche l’A-

genzia spaziale europea, di cui fa parte la Svizzera. La ISS è tutt’ora in orbita. Per preparare il viaggio dell’uomo su Marte si sono mandati in avanscoperta dei robot, che stanno percorrendo varie zone del pianeta, e dei satelliti, che lo stanno osservando accuratamente dall’orbita marziana. In questo lungo discorso spaziale si è inserita anche la Cina, che nel 2003 lanciò in orbita terrestre il suo primo «taikonauta», dimostrando di avere la tecnologia per confermarsi la terza potenza mondiale in questo tipo di operazioni. In quell’occasione Pechino annunciò anche l’intenzione di portare uomini sulla Luna, proprio perché sembrava che gli Stati Uniti stessero puntando solo su Marte. L’allora amministratore della NASA Sean O’Keefe, che incontrai con altri giornalisti proprio in quei giorni, ci disse di essere felice del successo cinese, ma fu molto evasivo sulle possibilità di collaborazione, e, guarda caso, negli Usa riprese quota l’idea di un ritorno sulla Luna, in un clima di competizione dal sapore antico. Oggi, mezzo secolo dopo il primo allunaggio, la Luna è tornata alla ribalta. Tutti vogliono andarci e la Cina è appena riuscita nell’inedita impresa dell’allunaggio di un robot sulla sua faccia nascosta, in un punto fra i più interessanti di tutta la superficie perché è nelle vicinanze del polo sud, dove precedenti missioni hanno rivelato la presenza di ghiaccio d’acqua in superficie. Qualcuno vi ha già ipotizzato la costruzione di una eventuale prima base lunare. A dare rilievo allo sbarco cinese c’è soprattutto l’aspetto tecnologico che ha comportato, tra l’altro, l’immissione in orbita lunare di un satellite che fa da ponte radio fra il lander nascosto alla nostra vista e i ricevitori terrestri. Sono arrivate anche nitide immagini della località. Proprio la conoscenza tecnologica è il valore aggiunto figlio delle missioni lunari di 50 anni fa. Possiamo concludere che siamo stati coraggiosi e forse incoscienti, ma abbiamo ispirato generazioni a fare cose straordinarie. Non è la roccia portata dalla Luna che ha cambiato la nostra vita, ma è il telefonino che avete in tasca, è il navigatore che con l’aiuto dei satelliti ci porta dove vogliamo, è la possibilità di prevedere lo sviluppo di alcuni catacli-

Keystone

allunaggio, tutti vogliono tornarci. Ultima la Cina sbarcata con un robot sulla sua faccia più nascosta

smi climatici: stiamo sfruttando tante tecnologie derivate dall’esplorazione spaziale. Pensando a cosa possiamo farcene ora della Luna, il successo della cinese Chang’e-4 ci riporta alle politiche spaziali e ai rapporti internazionali nel loro complesso. Lo spazio da tempo non è più appannaggio di sole due nazioni: l’Europa, l’India, il Giappone e molti altri paesi hanno politiche spaziali. Tutti sanno che la riconquista umana della Luna, e ancora di più, la conquista di Marte, saranno frutto di un’opera congiunta e dell’impegno tecnologico di più nazioni. Anche negli Stati Uniti, seppur siano percorsi da una ventata isolazionista, c’è questa consapevolezza. Nel 2011 il Congresso americano impedì alla NASA l’avvio di qualun-

que tipo di collaborazione con la Cina in campo spaziale. Era il momento nel quale, finiti i voli Shuttle, gli Usa dovevano appoggiarsi esclusivamente alla Russia per portare equipaggi sulla Stazione spaziale e forse si stavano cercando delle alternative. La politica inevitabilmente si intrecciava coi discorsi puramente tecnici. Oggi i nuovi contendenti fanno la voce grossa pubblicamente, ma non sappiamo cosa avvenga dietro le quinte. Cina a parte parliamo degli altri. L’India per celebrare il 75esimo anniversario dell’indipendenza del Paese nel 2022 conta di lanciare un uomo e una donna nello spazio su un proprio veicolo. Con una sua sonda aveva trovato acqua sulla Luna, ora ne sta ultimando una nuova, che partirà presto.

La Russia, forte del grande passato ereditato dall’Unione sovietica, non accetta il ruolo di partner di minoranza tra Usa e Cina e ha rilanciato e intensificato il suo programma lunare. L’Agenzia spaziale europea sta sostenendo sul piano tecnico tutte le altre agenzie spaziali nei loro programmi lunari. Anche il Giappone sogna la Luna. Nel 2007 vi aveva mandato una sonda e adesso sta sviluppando un sistema per l’atterraggio preciso, a beneficio proprio e degli altri. La Corea del Sud vuole entrare nel giro e sta mettendo capitali a disposizione delle nuove compagnie private americane impegnate nello spazio. Con le stesse compagnie ha preso contatto perfino Israele, proprio in chiave Luna. Che dire? Luna, eccoci di nuovo.


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Politica e Economia

Balzo avanti della «mia» Cina Diario da Pechino Dieci anni dopo aver chiuso l’ufficio di Pechino, il giornalista di «Repubblica»

torna per raccontare i cambiamenti che si sono verificati: alcuni positivi, altri negativi, tutti molto significativi – Prima parte

Federico Rampini Cinque giorni di cielo azzurro a Pechino… e senza neppure le Olimpiadi! È una delle prime sorprese – questa decisamente positiva – che mi accolgono al mio ritorno. Esattamente dieci anni fa chiudevo la mia esperienza cinese. Avevo inaugurato il primo ufficio di corrispondenza di «Repubblica» a Pechino nel luglio 2004, ci sarei rimasto fino al mio trasferimento a New York nel luglio 2009. Da allora ci sono tornato regolarmente, circa una volta ogni anno. Il più delle volte come inviato al seguito di un presidente degli Stati Uniti, Barack Obama o Donald Trump, per seguire qualche vertice bilaterale o dei super-summit tipo il G20. Altre volte in vacanza per rivedere i miei tre figli adottivi. Dunque non ho mai veramente staccato la presa, l’attenzione verso la Cina è rimasta costante. Però gli anniversari ti rendono più sensibile ai cambiamenti; ti costringono a fare dei bilanci. Così quest’ultima visita – tutta privata, una riunione familiare – mi ha imposto di misurare la distanza percorsa. Enorme. Sì, la Cina è cambiata tantissimo in questi dieci anni. Non ce ne siamo resi conto abbastanza. Forse anche perché questo Paese si è chiuso all’informazione, ha eretto barriere più alte che ostacolano la circolazione di notizie e di idee nei due sensi. Loro subiscono la censura a casa propria, ma anche noi abbiamo sofferto inconsapevolmente di una certa rarefazione delle informazioni. L’inquinamento in ritirata, è una cosa fantastica. I miei cinque giorni di cielo azzurro potrebbero essere una coincidenza dovuta a una meteo particolarmente fortunata, dei venti benefici e dalla direzione giusta che spazzano via lo smog. Ma luglio è un mese difficile, perché la temperatura sale molto, ricordo delle estati opprimenti, insopportabili, con l’afa e l’inquinamento che si fondevano in una miscela tossica. Fece eccezione l’estate 2008 per via dei Giochi olimpici: un evento-svolta, che doveva consacrare il nuovo status internazionale della superpotenza cinese agli occhi del mondo intero. Per non turbare in alcun modo quella celebrazione le autorità – allora era presidente Hu Jintao – presero delle misure più che drastiche, draconiane: molte settimane prima dell’apertura dei Giochi chiusero tutte le fabbriche in un vasto perimetro urbano e anche nella cerchia della periferia allargata; le automobili private vennero messe al bando o soggette a pesanti limitazioni; molti uffici pubblici mandarono in vacanza forzata una parte del personale per ridurre la popolazione residente e quindi i consumi energetici. Tutto questo armamentario si rivelò efficace: se fermi l’economia abbatti l’inquinamento. Ma dieci anni dopo, tanti amici cinesi e stranieri che risiedono a Pechino mi confermano una nuova realtà. Non è più soltanto in occasione di grandi eventi internazionali che scatta l’operazione «cieli azzurri».

Bejing oggi è una città raffinata e cosmopolita, sotto molti aspetti ha superato le città occidentali. Keystone)

L’inquinamento è davvero in diminuzione. Fantastica novità davvero, che dieci anni fa non mi sarei aspettato: non in tempi così rapidi. D’altronde è un caso da manuale in cui i metodi di un regime autoritario «funzionano». Un caro amico cinese – in questo mio diario eviterò di citare nomi, capirete perché – mi racconta la sua versione personale. È un piccolo imprenditore, fa produzione e manutenzione di pannelli solari. È dunque un’attività ambientalista come poche. Però, siccome viene catalogata come una «fabbrica», anche la sua azienda è stata colpita dall’editto governativo: ha dovuto spostarsi molto lontano dalla capitale. Lui obietta che così facendo il governo sta semplicemente trasferendo l’inquinamento da una regione all’altra. Però la sensazione è che molte cose si stiano muovendo nella direzione giusta. A livello aneddotico c’è l’invasione di Tesla e altre auto elettriche per le strade di Pechino, incentivata dalla «targa verde» che le esime dai turni (le altre automobili non possono circolare in certi giorni della settimana, a rotazione). Niente gilet gialli per protestare contro queste misure, per le strade della capitale cinese! A livello macro: la Cina attraverso le sole fonti rinnovabili produce ormai più elettricità pulita di quanta la Germania genera con tutte le fonti, energie fossili comprese. Il balzo avanti della Cina in que-

sto decennio è ancora più spettacolare in un altro campo: la padronanza delle tecnologie digitali. Mi sono sentito un troglodita, entrando nei negozi con il mio piccolo pezzetto di plastica: la carta di credito è preistoria, è pateticamente superata. Ormai il cinese medio usa una sola app dello smartphone, per esempio associata alla messaggeria Weixin (detta in inglese WeChat, sostituisce il nostro Whatsapp), per una serie infinita di funzioni della sua vita quotidiana. Al momento di pagare, in un negozio o ristorante, ma anche al posteggiatore e in molti servizi pubblici come i trasporti, basta aprire lo schermo di Weixin con il QR, il crittogramma o codice a barre bidimensionale. Quel codice viene visto dal lettore ottico dell’esercente e autorizza il pagamento. Si stima che il volume di pagamenti su smartphone in Cina sia il centuplo che negli Stati Uniti. Il centuplo, sì. Quando io lasciai Pechino eravamo ancora nella fase della «rincorsa», oggi l’allievo ha superato il maestro. Per molti aspetti il futuro è la Cina di oggi, noi siamo il passato. Il balzo avanti nella modernità, se unito al nazionalismo in ascesa, mi riserva altre sorprese. Nella «mia» Cina di dieci anni fa era uno status symbol del giovane ceto medioalto urbano andare a fare la spesa negli ipermercati Carrefour o da Ikea: un modo per omologarsi all’Occidente e un segnale

di esterofilia nei consumi, per distinguersi dal popolo della provincia e delle campagne. Oggi Carrefour è in difficoltà, soppiantato da tante agili start-up cinesi che offrono la consegna a domicilio e ti salvano dagli ingorghi nel traffico. Dal car-share al commercio online, tutti i precursori della Silicon Valley sono in difficoltà. Amazon chiude i battenti perché sgominata da Alibaba; Uber non regge la concorrenza con gli omologhi cinesi del car-share (o del bike-share). Dietro questa ritirata delle aziende occidentali c’è anche una buona dose di protezionismo, occulto o palese. Ma non tutto si può ridurre all’azione discriminatoria del governo. Pesa anche la crescita di un tessuto imprenditoriale locale iper-competitivo, di cui gli occidentali hanno sottovalutato le capacità, troppo convinti di essere i primi della classe. Pesa, infine, un nazionalismo spontaneo dei consumatori. Nell’ultimo anno del mio soggiorno a Pechino fece notizia l’inaugurazione del primo Apple Store, i giovani della borghesia chic facevano la fila per entrarci. Oggi gli iPhone Apple sono scivolati al quinto posto tra le marche più vendute. Il «made in China», per molti cinesi è diventato sinonimo di una qualità più avanzata. È una Pechino molto raffinata e cosmopolita, quella che mi accoglie dentro Page One, la bellissima libreria aperta in un locale dal design elegante.

Gli scaffali sono affollati anche da titoli americani e inglesi. Il pubblico che mi circonda, nell’abbigliamento e nei modi, potrebbe essere a Manhattan, a Tribeca o Soho; oppure a Londra Berlino o Parigi. Eppure… La scelta dei titoli in lingua straniera è ricchissima per la letteratura classica moderna e contemporanea; limitatissima invece per la saggistica. Nulla viene venduto che possa risultare lontanamente scomodo o irritante per il regime. È il paradosso di una superpotenza sempre più ricca, sempre più moderna, apertissima al commercio globale, disponibile a generare turismo di massa verso quattro continenti; e tuttavia sempre più chiusa alla circolazione di informazioni e idee. Che cosa sapete di quel che è accaduto a Hong Kong? La domanda la ripeto a tanti amici cinesi. La risposta è sempre la stessa. «È successo qualcosa a Hong Kong?» Chi s’informa sui media cinesi non ne sa nulla. Silenzio assoluto. Ci sono naturalmente dei modi per aggirare la censura, cercare notizie sui siti stranieri. Bisogna usare dei Vpn, Virtual Private Network, che by-passano le vie d’accesso cinesi a Internet. Però bisogna avere una motivazione particolare. Inoltre, ognuno lo fa a proprio rischio e pericolo. Tra i diplomatici stranieri raccolgo una fitta aneddotica sugli «incidenti tecnici» che possono colpire gli utenti di Vpn. Io stesso ne fui vittima. Pur viaggiando al seguito di un presidente americano, quindi assistito e protetto da una squadra di esperti telecom venuti dagli Usa per crearci attorno una «bolla extra-territoriale», ebbi una giornata funestata da malware che divorava i miei file sul computer. La vendetta della polizia cinese? Di certo l’uso di Vpn viene monitorato. Anche in questo, loro sono un passo più avanti di noi. Lo stesso vale nelle tecnologie di «facial recognition»: l’intelligenza artificiale applicata alla biometrica, al servizio della sicurezza. Prevenzione del crimine, anti-terrorismo: la Cina è una specie di Israele al multiplo, su scala continentale, per la quantità di videocamere e la vigilanza 24 ore su 24. Un popolo intero, gli uiguri di religione islamica, è stato la cavia di un gigantesco esperimento di vigilanza digitale: passaporti sequestrati, Internet sigillato, mappatura biometrica e genetica su milioni di persone. Il Grande Fratello come nessun paese occidentale può neppure sognarselo; ben più avanzato anche rispetto ad altri regimi autoritari o democrature come Russia Iran Turchia. La Cina è all’avanguardia e ne va fiera: ufficialmente è così che avrebbe sgominato le infiltrazioni di Al Qaeda e dell’Isis tra gli uiguri, i complotti jihadisti. Ma il Grande Fratello si estende ben oltre lo Xinjiang musulmano. Oltre al Tibet c’è pure la Mongolia Interna, ultima entrata fra le regioni dove il giornalista o il diplomatico straniero non hanno accesso, salvo visti speciali. Un terzo del territorio cinese è off-limits. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia

La nuova star dei democratici

Fra i libri di Paolo A. Dossena

rappresenta l’ala più progressista della politica americana e il volto nuovo dei democratici

GRETA THUNBERG, La nostra casa è in fiamme, Mondadori, 2019

Casa Bianca 2020 Kamala Harris, la senatrice di origini indiane e giamaicane,

Kamala Harris, senatrice della California. (AFP)

Christian Rocca La prima tappa della lunga campagna elettorale americana è stata vinta da Kamala Harris, una dei venti candidati democratici che alle primarie di partito si contendono la nomination per sfidare, il 3 novembre del 2020, il presidente in carica Donald Trump. Cinquantaquattro anni, madre indiana e padre giamaicano, senatrice della California, ex procuratore distrettuale di San Francisco e Attorney General della California, prima asio-americana a candidarsi alla Casa Bianca, seconda donna di colore nella storia del Senato di Washington, Kamala Harris è una predestinata che lavora da anni per questo momento. Il 27 gennaio di quest’anno, il giorno in cui ha annunciato di candidarsi a presidente, Kamala Harris ha raccolto ad Oakland, sua città natale, una folla oceanica, che ha colpito anche Donald Trump, solitamente restio a complimentarsi con gli avversari. Dopo quell’inizio sfolgorante, ha stentato ad emergere tra i tanti candidati, ma il 27 giugno scorso, sul palcoscenico televisivo di Miami, ha dominato il dibattito democratico assestando alcuni colpi potenzialmente letali al grande favorito della competizione, l’ex vice presidente di Barack Obama, Joe Biden. Commentatori e analisti, confortati dalle interazioni social, hanno decretato la vittoria politica della senatrice della California, la quale sta impostando il suo messaggio presidenziale sulla stessa lunghezza di quello obamiano, ovvero fornire soluzioni intelligenti a problemi complessi e mostrare agli elettori un’edificante storia personale di riscatto sociale. Il momento chiave dello scambio Harris-Biden è stato quando la senatrice ha raccontato la storia di una piccola bambina che faceva parte della seconda

Azione

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

annata di studenti che finalmente uscivano dalla segregazione razziale ancora in vigore nelle scuole pubbliche della California: «E quella piccola bambina ero io», ha detto Harris rivolto a Biden che all’epoca aveva espresso dubbi sulla desegregazione forzosa degli scuolabus pubblici, coniando una di quelle frasi che finiscono dritte sulle t-shirt di tendenza e fanno la storia. Harris punta a mobilitare gli elettori di colore, ma anche le donne ancora scottate dalla sconfitta di Hillary Clinton nel 2016, fino a oggi l’unica donna nominata da uno dei due partiti principali alle elezioni presidenziali. Sono sei le candidate alle primarie, oltre a Harris anche le colleghe senatrici Elizabeth Warren de Massachusetts, Amy Klobuchar del Minnesota e Kristen Gillibrand di New York, più la deputata delle Hawaii Tulsi Gabbard e la life coach Marianne Williamson, tutte tranne quest’ultima fotografate da Annie Leibovitz sul numero di luglio di «Vogue» America.

È stata decisiva nel processo, nato in California, che ha portato al riconoscimento del matrimonio omosessuale Ma guai a chiedere alla senatrice Harris di parlare di questioni femminili: «Quando qualcuno mi chiede di parlarmi di questioni femminili – ha detto Harris a «Vogue» – lo guardo, sorrido e dico che sono molto felice di parlargli di economia o di sicurezza nazionale». Subito dopo il dibattito, Kamala Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

Harris è schizzata in alto nei sondaggi che registrano il consenso degli elettori, superando l’altro favorito Bernie Sanders, senatore socialista del Vermont, e piazzandosi, a seconda delle diverse rilevazioni, al secondo o al terzo posto dopo Biden, assieme alla collega Warren. Oltre ai sondaggi, l’altro elemento di valutazione della popolarità dei candidati è la quantità di denaro raccolto. Anche qui, la senatrice Harris è messa bene: seconda dopo Sanders nella raccolta fondi nei primi tre mesi dell’anno e quinta nel trimestre successivo, dietro Pete Buttigieg, Biden, Warren e Sanders, con un exploit di denaro ricevuto nelle 24 ore successive al dibattito. «Ciò che i dibattiti danno, i dibattiti tolgono», è la regola non scritta delle campagne presidenziali, in particolare di questo ciclo con tanti candidati e ancora altre due tornate di confronti televisivi, il 30 e il 31 luglio e il 12 e il 13 settembre, prima dell’apertura delle urne il 3 febbraio 2020 con i caucus in Iowa. Ma la strategia di Harris, studiata assieme alla sorella Maya, già consigliera politica di Hillary Clinton, è quella di far pesare negli incontri con gli altri candidati le sue superiori capacità dialettiche, addestrate nelle aule dei tribunali californiani e, più di recente, nelle commissioni al Congresso, dove si è distinta per essere riuscita a mettere in seria difficoltà i membri dell’Amministrazione Trump coinvolti nel Russiagate. In un Partito democratico che si è spostato molto a sinistra rispetto alla tradizione americana, fino a sfiorare posizioni socialiste, Harris è considerata appartenente all’ala progressista, non moderata, ma nella città più di sinistra dell’Unione, San Francisco, le contestano di non aver assecondato, quando era procuratore distrettuale, la decisione di una corte federale che

avrebbe portato alla dichiarazione di incostituzionalità della pena di morte, pur essendo lei contraria alla pena capitale e nonostante (o forse proprio per questo) agli inizi della carriera sia stata sul punto di essere rimossa dal ruolo perché non aveva chiesto l’esecuzione dell’assassino di un poliziotto, limitandosi a chiedere l’ergastolo. Harris invece è stata decisiva nel processo, nato in California, che ha portato al riconoscimento giurisprudenziale del matrimonio omosessuale. L’accusa, insomma, è di essere molto cauta e troppo attenta a prendere posizioni che non la danneggino nelle più importanti sfide successive: per questo diceva di essere contro la pena di morte a San Francisco, ma evitava di diventarne una paladina quando l’obiettivo era quello di diventare Attorney General di tutta la California convincendo anche elettori meno progressisti di quelli residenti a San Francisco. Alla seconda Convention nazionale di Obama, a Charleston nel 2012, da Attorney General, era stata annunciata come la futura stella del partito indicata personalmente dal presidente, ma il suo discorso fu talmente guardingo e ponderato da risultare noioso ed essere dimenticato seduta stante. Ora che sta affrontando la sfida più grande, Kamala Harris sembra finalmente più libera di dire ciò che pensa, ma sempre con la circospezione del caso. La strada per arrivare a sfidare Trump è complicata e gli ostacoli sono imprevedibili, ma Harris ha cominciato bene, prendendo di mira il favorito Biden e sovrastando il vicefavorito Sanders. Chi l’ha vista in televisione su quel palco di Miami non ha potuto fare a meno di pensare in che trappola retorica potrebbe catturare Trump l’estate prossima. Tra questi c’era anche Trump.

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«Mi chiamo Greta Thunberg. Sono un’attivista svedese per il clima». Così, nelle prime due righe del suo libro, si presenta l’autrice di La nostra casa è in fiamme. Greta Thunberg è una ragazza scandinava di sedici anni che ha dato vita a un movimento internazionale giovanile per segnalare la gravità dell’attuale «crisi climatica», come viene definita. Questa crisi esiste, è un dato di fatto, anche se è vero che sappiamo che il clima non è un fenomeno stabile. Per esempio, tra le cause della Guerra dei trent’anni (1618-1648) ci fu una «piccola glaciazione» europea, descritta dal professor George Schmidt dell’Università di Jena e dal professor Emmanuel Leroy Ladurie della scuola francese degli Annales. Secondo gli storici del clima, alla «piccola glaciazione» sarebbe seguita il «periodo del caldo secolare» (1850-1950). Ci sono quindi, indubbiamente, epoche fredde ed epoche calde, e c’è una storia del clima che (insieme a un’infinità di altri fattori) influenza gli eventi. È tuttavia innegabile che la calotta polare artica sta sciogliendosi, ed è una novità assoluta. Il grido di allarme lanciato da questa coraggiosa ragazza scandinava non dovrebbe di conseguenza essere ignorato. Ammettendo infatti, solo per un attimo, che Greta Thunberg possa aver esagerato l’influenza dell’uomo nel cambiamento climatico, questa crisi è di una tale portata che, per attenuarla, sarebbe comunque utile ridurre questa piccola (o grande che sia) influenza. Dunque, se ci sono gli storici del clima, ci sono anche i militanti del clima come Greta Thunberg. Il cui libro raccoglie (nella sua prima parte, intitolata Sciopero per il clima) i discorsi pubblici dell’autrice, tenuti rispettivamente a Parliament Square (Londra, 31 ottobre 2018) a TedX (24 novembre 2018) e in varie occasioni a Stoccolma, Davos, Helsinki e altrove (2018-2019). La seconda parte del libro (Scene dal cuore) è invece una storia della famiglia Thunberg: Greta, la sorella Beata e i genitori Svante e Malena Ernman. Questi ultimi hanno scritto la parte biografica del volume, che riguarda specialmente Greta, affetta dalla sindrome di Asperger, e Beata, a sua volta affetta da disturbo da deficit di attenzione/iperattività (ADHD). È interessante notare che nel mondo anglosassone (presso l’editore Penguin) e in Scandinavia le due parti del libro sono state pubblicate separatamente. L’editore italiano Mondadori ha invece raccolto Sciopero per il clima e Scene dal cuore in un solo grosso volume di quasi 240 pagine. In Scene dal cuore, Malena Ernman (una famosa cantante lirica) giunge alla conclusione che i disturbi delle sue bambine (Asperger e ADHD) non sono un handicap, bensì un super potere. In particolare, Greta sarebbe così determinata, nella sua battaglia, proprio grazie a particolari aspetti della sindrome che la affligge. Questo libro, caldamente consigliato, lancia dunque (attraverso la riproduzione dei suoi discorsi e attraverso l’autobiografia di famiglia) il messaggio di Greta Thunberg: «Non voglio che siate ottimisti. Voglio che siate in preda al panico.Vogliocheagiatecomeselavostracasafosseinfiamme.Perchéloè». Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–


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Politica e Economia

Gli Usa criticano la difesa del franco svizzero

Rapporti commerciali Nell’ambito delle misure per difendere l’economia il Ministero delle finanze americano

rimprovera la BNS per gli interventi contro un rafforzamento eccessivo della nostra moneta Ignazio Bonoli Mentre la piazza finanziaria svizzera continua a subire attacchi a destra e a manca, con rimproveri di ogni sorta, quando questo conviene a chi li formula, di tanto in tanto arriva, per fortuna, anche qualche piccola notizia positiva. Giorni fa, per esempio, la «Neue Zürcher Zeitung» riferiva della decisione del ministero americano delle finanze di togliere la Svizzera dalla lista speciale di osservazione dei possibili manipolatori di divise. In sostanza di quei paesi che utilizzano la manipolazione del tasso di cambio della loro moneta per favorire l’economia del proprio paese. Infatti, questa lista si basa su tre criteri: un’eccedenza commerciale bilaterale nei confronti degli Stati Uniti, interventi ripetuti unilaterali nei confronti della propria moneta nazionale, nonché un’importante eccedenza della bilancia dei pagamenti. Poiché, durante gli ultimi due periodi di osservazione, si può applicare soltanto uno dei tre criteri (quello di un’importante eccedenza della bilancia dei pagamenti), la Svizzera è stata tolta dalla lista nera dei paesi tenuti sotto osservazione speciale. Questa lista viene pubblicata ogni sei mesi dal ministero americano delle finanze e concerne i paesi che intrattengono i maggiori rapporti commerciali con gli Stati Uniti. In pratica, quei paesi

che possono essere sospettati di usare lo strumento valutario per orientare gli scambi commerciali, nell’ottica di Washington. In effetti, negli ultimi tempi, la Svizzera ha potuto realizzare saldi commerciali positivi nei confronti degli Stati Uniti, ha potuto realizzare un’importante eccedenza nella bilancia dei pagamenti, ma è ripetutamente intervenuta con la Banca Nazionale per impedire una eccessiva rivalutazione del franco. Per ottenere questo risultato (che comunque gli americani considerano un indebolimento del franco), la BNS ha acquistato grandi quantitativi di euro e, in parte e in certi momenti, anche di dollari, gonfiando i propri bilanci di divise estere. La Svizzera non avrebbe quindi rispettato – in questi momenti – solo uno dei tre criteri utilizzati dal ministero americano delle finanze, mediante i quali potrebbe essere considerata un manipolatore del mercato delle divise. L’essere tolti dalla speciale lista può essere considerata una buona notizia. Infatti, recentemente, il ministero americano del commercio ha minacciato di introdurre dazi doganali in futuro anche quegli Stati che possono essere considerati manipolatori di valute. E questo proprio nel momento in cui la Svizzera sta discutendo con gli Stati Uniti un accordo commerciale di vasta

La Svizzera comunque è stata tolta dalla lista nera degli Stati manipolatori di divisa.

portata con non poche difficoltà, a causa dei prodotti agricoli in particolare. Almeno in questo contesto un ostacolo di una certa portata sembra essere superato. Nel rapporto semestrale, si constata, infatti, che la Banca Nazionale Svizzera ha ridotto di parecchio i suoi interventi sul mercato a partire dalla metà del 2017, che nel 2018 si sono ulteriormente ridotti a soli 2 miliardi di dollari (0,3 per cento del PIL). Quindi ben al di sotto dei criteri americani che prevedono interventi sul mercato delle divise

del 2 per cento al massimo del PIL, in un lasso di tempo fra i 6 e i 12 mesi. Questo non significa però che la Svizzera sia definitivamente esclusa dalla lista americana dei manipolatori di divise. Anzi, il ministro americano si permette di dare alcuni consigli alla BNS. Chiede per esempio di pubblicare con maggior frequenza tutti i dati degli interventi sul mercato delle divise. Le autorità politiche svizzere dovrebbero inoltre adeguare la loro politica economica e utilizzare gli spazi di manovra che si aprono per sostenere l’economia

interna. Questo permetterebbe – sempre secondo gli americani – di alleggerire la politica monetaria, con lo scopo di indirizzare gli sforzi verso un tasso di inflazione costante del 2 per cento. Evidentemente il punto di vista americano è molto lontano da quello svizzero, soprattutto per quanto attiene al mercato interno e al tasso di inflazione. Ma vi è anche una specie di automatismo che riporterebbe la Svizzera nella lista nera. Se le esportazioni svizzere negli Usa aumentano, sale anche l’eccedenza della bilancia commerciale, superando probabilmente il limite dei 20 miliardi di dollari. Inoltre se dovessero sorgere altre difficoltà in campo monetario, molti investimenti finanziari tornerebbero sul franco svizzero, la BNS dovrebbe nuovamente intervenire sul mercato e il ritorno nella lista nera è presto fatto. Ma forse gli americani dimenticano che questi nuovi criteri politici sono rivolti soprattutto verso la Cina. Inoltre non si ricordano che le più ampie misure di indebolimento di una moneta furono praticate in tempi recenti proprio per il dollaro, con il «Quantitative Easing», poi imitato dall’Europa. Quanto alla trasparenza dei dati della Banca Nazionale è bene ricordare che le misure sono efficaci se immediate e a sorpresa. Altrimenti servirebbero solo a favorire gli speculatori. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Radiografia del tirocinio L’anno scolastico si è appena chiuso. È cominciata ora l’annuale battaglia per il collocamento dei nuovi apprendisti. È utile ricordare che, terminata la scuola dell’obbligo, al giovane e alla giovane ticinesi si aprono due possibilità: o continuare gli studi iscrivendosi a una scuola superiore (liceo, scuola cantonale di commercio) o iniziare un tirocinio per imparare una professione. Quest’ultima strada può essere perseguita, a seconda delle professioni che si intendono imparare, o lavorando in azienda, o seguendo i corsi di una scuola professionale a tempo pieno. Non è sempre facile reperire i numeri riguardanti la consistenza degli effettivi che seguono ciascuna di queste direzioni. Le nostre stime per l’anno scolastico 2016/17 dicono che il 43% seguiva un tirocinio in azienda, il 34% continuava gli studi o al liceo o alla scuola cantonale di commercio e il 23% stava formandosi in una scuola

professionale a tempo pieno. Il mondo delle professioni, anzi dei mestieri, per usare un termine che sembra stia ritornando di moda, è dunque quello che maggiormente interessa i giovani ticinesi d’oggi. Circa due terzi dei giovani tra i 15 e i 20 anni stanno imparando un mestiere, seguendo la via tradizionale della formazione duale o frequentando una scuola professionale a tempo pieno. In una recente conferenza stampa lo hanno ribadito anche i rappresentanti del Dipartimento dell’educazione della cultura e dello sport. Nel corso della stessa hanno inoltre presentato due interessanti rapporti che meritano di essere commentati. Il primo riguarda le scelte dei giovani al termine della scuola media e il collocamento a tirocinio. Come è già stato rilevato più volte, anche in questa rubrica, i giovani che terminano la scuola media esprimono scelte diverse da quelle che

si realizzano poi negli anni seguenti. Nell’inchiesta del 2019, il 44% vorrebbe infatti continuare a studiare frequentando una scuola superiore. Per il tirocinio in azienda si è espresso invece solo il 29% degli allievi che hanno partecipato all’inchiesta. Un altro 22% ha invece scelto l’opzione della scuola professionale a tempo pieno. Come si può constatare la quota degli allievi che preferisce la formazione in una scuola professionale a tempo pieno è praticamente uguale alla quota dei giovani che effettivamente si formano in una di queste scuole. Le due altre quote sono molto diverse da quelle effettive. Gli allievi che terminano la scuola media vorrebbero, in misura superiore a quella che poi si realizza effettivamente, continuare gli studi. Il tirocinio in azienda, invece, è, per loro, meno attrattivo. Si ha però l’impressione che, nel corso degli ultimi anni, forse in seguito alla creazione

delle scuole universitarie professionali, la formazione professionale abbia, in questa inchiesta, guadagnato qualche punto rispetto all’opzione di continuare gli studi. L’altro rapporto si occupa invece di quello che capita alla fine dell’apprendistato e presenta i risultati di un’inchiesta che si ripete ogni dieci anni. Il 32% dei giovani che hanno partecipato all’inchiesta ha dichiarato di voler continuare gli studi in una scuola del livello terziario mentre il 25% aveva già trovato un posto di lavoro. Il resto dei partecipanti all’inchiesta si divideva tra un 22% di giovani che stava cercando un posto di lavoro ma ancora non l’aveva trovato e un 21% che ancora non si era messo alla ricerca di una futura occupazione. Altro risultato importante di questa inchiesta è che il 92% di coloro che avevano già trovato un posto di lavoro l’hanno trovato nella professione imparata. Una larga maggioranza,

70%, ha potuto continuare a lavorare nell’azienda nella quale hanno svolto il loro tirocinio. Queste percentuali non sono di facile interpretazione. Mentre ci si può rallegrare constatando che un quarto degli apprendisti che terminavano la loro formazione avevano, nel mese di maggio di quest’anno, già ottenuto un posto di lavoro, ci si può chiedere che cosa faranno quegli apprendisti, e sono più del 40%, che ancora non sanno quale futuro scegliere. Per gli autori del rapporto dipartimentale i risultati di questa inchiesta provano che esiste una domanda significativa di consulenza sul futuro professionale anche da parte dei giovani che già hanno concluso il loro tirocinio. Alla stessa si dovrebbe poter meglio rispondere domani, quando questi giovani potranno fare ricorso ai servizi che metterà a disposizione la futura «Città dei mestieri della Svizzera italiana».

le registrazioni moscovite potrebbero dargli il colpo di grazia. Essendo ancora in fase ascendente, gli italiani preferiscono per ora nascondere la testa sotto la sabbia, e far finta di non vedere e non sentire. Eppure le difficoltà di Salvini sono evidenti. La Lega ha vinto le elezioni in Italia, ma le ha perse in Europa. Nel nuovo assetto che sta emergendo a Bruxelles, l’Italia non conta molto più di nulla. L’unica carica di vertice l’ha conquistata un esponente del partito democratico, David Sassoli, nuovo presidente del Parlamento europeo, che non è certo un amico del nuovo governo (e infatti né i Cinque Stelle né i leghisti l’hanno votato). Questa tornata di nomine europee ha se non altro strappato il velo dell’ipocrisia: la Commissione alla Germania, la Banca centrale alla Francia; in Europa comandano loro. E uno dei motivi per cui Parigi riesce a stare accanto a Berlino, pur pesando parecchio

meno in termini economici, è perché il sistema francese consente una stabilità politica che quello italiano (anche a causa del disastro referendario di cui sopra) non prevede. Pure il sistema spagnolo regge meglio; non a caso la Spagna oggi in Europa conta di più. Pretendere che un governo a trazione leghista desse il via libera al socialista Timmermans, simpatico ultrà della Roma, era troppo. Però il governo Conte non esce bene dalle nomine. La Germania piazza un esponente dell’ala destra della Cdu, Ursula von der Leyen, che non farà sconti sul rispetto dei parametri, tanto meno all’Italia. Anche Christine Lagarde, che raccoglie l’eredità di Mario Draghi alla guida della Banca centrale, ha già dimostrato il suo rigore. La novità più interessante è che si tratta di due donne. E di due donne di destra. In Germania tutti i partiti sono guidati da donne, cui si aggiunge ovviamente la Cancelliera e ora la pre-

sidente della Commissione europea. L’Italia resta un Paese maschilista. Le donne in politica devono pagare un prezzo altissimo. A loro in quanto donne è richiesto di più. Forse per questo non sono molte. In particolare a destra. Resta da chiarire il dramma che sembra vivere il più importante politico emerso in Europa negli ultimi vent’anni: Angela Merkel. Per tre volte la Cancelliera ha tremato visibilmente in pubblico, e per tre volte ha ripetuto che sta bene e non ci sono motivi per preoccuparsi. Eppure non è riuscita a dissipare le angosce. Da tempo ormai la Merkel ha imboccato il viale del tramonto. Ma la sensazione che dopo di lei le cose non possano che peggiorare attanaglia un po’ tutti gli europei che hanno a cuore il futuro del loro continente. E che non vogliono un’Unione europea debole di fronte alla Russia di Putin, disposta a comprarsi partiti amici, magari neppure a caro prezzo.

partire alle 13.35 c’era la sindrome di Berlino. Meteo perfetta, alle 13.40 tutti a bordo, ma fermi, a sentire una serie di poco comprensibili comunicati del pilota per una probabile disputa con la torre di controllo. Ci consolano con cioccolatini rossocrociati fino alle 14.45, momento in cui riusciamo a staccarci dal suolo elvetico. Viaggio piatto di un’oretta e, arrivando a Tegel con un’ovvia ora di ritardo, qualcuno deve aver pensato che il volo fosse stato annullato. Solo così si spiega la scaletta di accesso ferma a un metro dalla nostra carlinga in attesa che qualcuno la attaccasse alla porta. Lo ha fatto 35 minuti dopo l’arrivo, contribuendo ad accorciare la nostra vacanza: la sindrome dei ritardi aveva annullato il programma del sabato pomeriggio. Suggestivo comunque il tuffo nella grande Berlino: verso sera, uscendo dall’albergo dall’altra parte della strada vediamo il muro; ovviamente non quello originale caduto nel 1989, bensì una copia riposizionata dal municipio lungo

la Sprea come lavagna / palestra per artisti. Superate le strisce pedonali eccoci davanti al tremendo bacio fra Breznev e Honecker, spettacolo in parte mitigato da lucchetti con iniziali e messaggini di innamorati appesi su un vicino reticolato-finestra del muro. La domenica la trascorriamo con ampi giri sui bus turistici per conoscere quartieri e luoghi storici. Il giorno dopo, per le visite mirate, ci affidiamo a una brava guida (exallieva alla Supsi) che da otto anni vive nella capitale della Germania. Martedì tutto per recuperi di «must see» da visitare, compresa una bella mostra di Emil Nolde nell’Hamburger Bahnhof, stazione della vecchia Berlino est ora museo dell’arte moderna tedesca. Ripercorsa l’Unter den Linden verso Alexanderplatz, scopriamo una delle tante fonti della sindrome dei ritardi: trent’anni dopo la «Wiedervereinigung» Berlino esibisce ancora un cantiere ogni due o tre isolati. I più impressionanti sono quelli delle grandi opere pubbli-

che, spesso aperti da anni, come la ricostruzione dell’Humbold Forum nel cuore della capitale tedesca. Era l’immensa reggia/castello, residenza degli Hohenzollern, distrutta durante la guerra, lasciata in rovina dalla Ddr e ora «salvata» dal governo tedesco. I ritardi stanno rinfocolando le critiche non tanto per i 700 milioni di euro già spesi (poca cosa rispetto ai miliardi ingoiati dal nuovo aeroporto Brandenburgo che sta diventando vecchio senza entrare in funzione) ma verso le destinazioni museali e le iniziative culturali previste dall’università Humbold. Passando il ponte sulla Sprea, impossibile non imbattersi sulla riva opposta in Karl Marx e Friedrich Engels, ovviamente in bronzo e monumentali: sembrano i due vecchietti delle vignette che spiano il mega-cantiere, magari con qualche nostalgico «ai nostri tempi»... La vacanza a Berlino è finita. Anche il volo Swiss di rientro accumula ritardo, forse per restituirci l’ora «rubata» all’arrivo.

In&outlet di Aldo Cazzullo Salvini in difficoltà Lo scandalo Buzzfeed – il sito americano che ha pubblicato la trascrizione dei colloqui nel più lussuoso hotel di Mosca tra l’ex portavoce di Salvini, due altri interlocutori italiani e tre russi – è più serio di quel che i media amici della Lega non lascino trasparire. Gianluca Savoini non è un uomochiave del Carroccio di oggi, ma ha avuto un ruolo nel costruire i rapporti tra Salvini e il sistema di potere che ruota attorno al regime di Vladimir Putin. La registrazione non potrebbe essere più chiara: si parla di affari e di soldi. Non c’è la prova che l’oro di Mosca sia davvero servito a finanziare la campagna elettorale della Lega in vista delle trionfali Europee del 26 maggio scorso. Ma la magistratura italiana ha aperto un’inchiesta al riguardo. E gli alleati dei Cinque Stelle sembrano disposti a votare insieme con l’opposizione del partito democratico una commissione che indaghi sul finanziamento della politica.

Non è un mistero che Putin abbia tentato di condizionare le libere elezioni in Occidente, dal referendum sulla Brexit all’elezione di Trump, compreso il disastroso referendum del 4 dicembre 2016 in cui gli italiani, convinti di votare sul futuro di Renzi, diedero un colpo mortale alla possibilità di modernizzare la democrazia parlamentare, riportando il Paese nelle sabbie mobili del sistema proporzionale. La Lega è sicuramente il partito più filorusso che ci sia in Europa, insieme con il Rassemblement National di Marine Le Pen. Salvini ultimamente ha tentato di avvicinarsi all’America di Trump, ma i vecchi legami sono duri a morire. Non è un caso che sia stato un sito Usa a divulgare la registrazione. Ho qualche dubbio che lo scandalo sia destinato a scuotere più di tanto l’opinione pubblica italiana. Salvini ha il vento in poppa. Fosse in fase calante,

Zig-Zag di Ovidio Biffi Vacanza a Berlino con sindrome Fine primavera a Berlino. Fatti due calcoli optiamo per il treno fino a Zurigo. La spinta non giunge da Greta Thunberg, ma da un’offerta delle Ffs: ritiro del bagaglio a domicilio e consegna all’aeroporto di Berlino, con check-in compreso. Mi è sembrato un ottimo servizio. Per sicurezza chiedo lumi agli sportelli di Lugano stazione. Fattibile, mi dicono; devo solo prepararmi riempiendo un formulario reperibile sul sito delle Ffs. Subito mi accorgo che non mi accetta la data di partenza che è poi quella della giornaliera e del volo. Ricorro allora al numero telefonico lunghissimo per avere informazioni e scopro un piccolo particolare non trovato sul sito: per usufruire del comodissimo servizio occorre preparare e consegnare i bagagli a chi li ritira almeno 5 giorni in anticipo! Cioè: 120 ore prima delle 100 ore a Berlino... Di colpo non è più un ottimo servizio. Ma non sarà mica una tragedia, per un arzillo vecchiotto, trascinare 25 kg di Samsonite sui perron delle Ffs per arrivare all’aero-

porto di Kloten. Infatti ci arriviamo: si sbuca dalla sotterranea e ci si dirige ai check-in, per la solita attesa. C’è tempo per qualche considerazione sul viaggio in treno appena compiuto. Innanzitutto internet: anche per le Ffs è ormai via obbligata e, in teoria, tutto diventa digitale, quasi puerile con uno smartphone. E chi il cellulare non ce l’ha? Che s’arrangi. Dato che l’arrangiarsi comprende anche la possibilità di beneficiare di biglietti risparmio e giornaliere delle Ffs, me la cavo esibendo al capotreno l’icona digitale stampata dal pc su un foglio A4. Ho notato che tra Zurigo e Kloten un controllore ha impiegato tutto il tempo (12 minuti) per intercettare e vidimare elettronicamente i documenti di una decina di passeggeri. Mette tenerezza pensare che 30 anni fa un bigliettaio (si chiamavano così) con la sua mitica perforatrice avrebbe obliterato decine e decine di biglietti di 5 cm per 3 cm di antica memoria. Basta Ffs, anche perché in attesa sul Bombardier che avrebbe dovuto


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Cultura e Spettacoli Otto stanze per Cucchi Tutta la forza della parola nella raccolta Sindrome del distacco e tregua di Maurizio Cucchi pagina 34

A Matera non solo il passato La Capitale europea della cultura 2019 offre una suggestiva cornice per un confronto con l’arte contemporanea

Mentona Moser e gli altri Nel nuovo libro di Eveline Hasler protagonista è una donna moderna e dai solidi ideali

Dieci personaggi diversi Giancarlo Bosetti presenta dieci personalità storiche che seppero opporsi al pensiero dominante

pagina 35

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pagina 38 Franz Gertsch Inverno [Winter], 2016, xilografia. (Collezione privata, courtesy Galleri K, Oslo © Franz Gertsch. Foto: Dominique Uldry, Particolare)

Xilografie a confronto Mostre Gertsch, Gauguin e Munch al Masi di Lugano Gianluigi Bellei Ho scritto di Franz Gertsch su queste colonne il 12 settembre 2011 in occasione della sua personale al Kunsthaus di Zurigo. Lo faccio ancora oggi non perché espone al Museo d’arte della Svizzera italiana di Lugano bensì perché il curatore è in ambo i casi Tobia Bezzola, nuovo direttore del Masi. Non ripeteremo quanto detto allora se non che Gertsch appartiene di pieno diritto alla corrente degli Iperrealisti. Questa nasce in America alla fine degli anni Sessanta e ha la sua consacrazione internazionale nel 1979 grazie ad Harald Szeemann – del quale Bezzola è stato assistente dal 1992 al 1995 – con Documenta 5 di Kassel. L’Iperrealismo è visto da alcuni come arte reazionaria (nixoniana) per altri un atto di conoscenza. Sia come sia, Gertsch ne è, assieme a Peter Stämpfli, l’esponente svizzero di spicco. Due le caratteristiche dei suoi lavori. Da una parte l’assenza di figure nei paesaggi e dall’altra la sovrabbondanza di informazioni nei ritratti. A Zurigo l’esposizione era composta sia da ritratti che da paesaggi; realizzati a tempera o con la tecnica xilografica. A Lugano ci sono solo xilografie. Allora tutto era

incentrato sul ciclo delle quattro stagioni, ora con il confronto-incontro fra Gertsch, Gauguin e Munch. Questo perché Bezzola ha chiesto all’artista di curare la sua esposizione. Decisione coraggiosa: a volte gli artisti sono dei curatori particolarmente competenti. In questo caso, magari è l’età, Gertsch si è dimostrato un po’ indolente (o interessato). Ha semplicemente demandato il suo lavoro a una delle sue gallerie di riferimento: la K Galleri di Oslo che, guarda caso, si occupa dei lavori di Gauguin e Munch. Tutte le loro xilografie in mostra provengono dalla K Galleri. Bel conflitto di interessi. Ma partiamo dall’inizio. Che cosa è la xilografia? Ci sono tre tipi di stampe. Quella in cavo, come l’acquaforte su rame, quella in piano, come la litografia su pietra e quella in rilievo come appunto la xilografia. Termine che deriva dal greco e che vuol dire, appunto, scrivere su legno. È il più antico procedimento di stampa. Si sviluppa durante il Quattrocento nei Paesi Bassi e in Germania. Il suo uso decade in fretta soppiantato dalla calcografia che permette segni più piccoli e modulabili. All’inizio si usa una tavoletta di legno tagliato nel senso della fibra e quindi non tanto dura e viene lavorata con delle sgorbie.

Alla fine del Settecento viene usato il legno tagliato trasversalmente alla fibra (legno di testa) e pertanto maggiormente duro e per questo intagliato con un oggetto più resistente: il bulino. Oggi si usa prevalentemente quello di filo, come fa Gertsch. La xilografia nasce come forma d’arte democratica. Il moltiplicare le immagini fa abbassare il prezzo dell’opera. Infatti viene spesso usata per realizzare carte da gioco, i cosiddetti naibj, immagini sacre o per illustrare i libri. Oggi forse non è più così. Secondo Il Sole 24 ore del 2011, e quindi di parecchi anni fa, «mediamente i ritratti xilografati a colori di Gertsch quotano sul secondo mercato da 60mila a 120mila dollari». In ogni caso la scelta dei due artisti da affiancare allo svizzero è dettata, secondo lo stesso Gertsch dal fatto che li riconosce come suoi maestri. Tobia Bezzola in catalogo scrive che le profonde affinità fra questi tre artisti sono un «intreccio di malinconia ed eros, la visione mistica del paesaggio e il senso di solitudine ed estraneità dell’artista nella società e nella natura». Gerd Woll, per anni capo curatrice del Museo Munch di Oslo, scrive che in tutti e tre gli artisti «si riscontra un elemento

narrativo (sic), si vedono delle persone in uno spazio, in un ambiente, inserite in una storia». Raccontare un’opera, raccontare delle opere, è una sorta di «narrazione» di quello che si vede o si vuole vedere. È un modo per decifrare e capire quello che abbiamo davanti. Quello che vediamo e come lo vediamo è ovviamente soggettivo e per questo di particolare fascinazione. Raccontare un’opera è un modo di incontrare se stesso e per questo ogni artista cerca sempre nuovi critici che scrivano del proprio lavoro. Prendiamo i tagli di Fontana. Si può raccontare se il taglio è verso destra o verso sinistra, quanto è lungo e quanti centimetri è largo; poi però bisogna addentrarsi nei meandri dell’opera; diversamente tutti i testi diventano simili, se non uguali. Ed è qui che il lavoro del critico diventa essenziale. E soggettivo. Argan sostiene che il «valore di un’opera non dipende dalla cosa rappresentata, ma dal modo della rappresentazione». In caso contrario tutti i dipinti storici sarebbero uguali. Quelli di Rubens come quelli di Courbet o di Gérôme. E ovviamente non è così. Gauguin nelle xilografie ha un

segno e una ritualità primitiva con scene imprecise, sbiadite e poco definite. Non si ferma alla riproduzione illusionista della realtà ma lavora per sottrazione e sintesi. Con ritmo e senza armonia. Munch lavora emotivamente creando linee di contorno curve e ripetute che diventano, negli anni, nette e marcate con contrasti violenti fra il nero e il bianco. Gertsch, al contrario, realizza le sue monumentali xilografie, utilizzando delle diapositive, con un segno molto secco e preciso, quasi asettico. Un lavoro lungo e forse noioso. Il risultato è sorprendente e ingannatore. Molto estetico e forse meno artistico. La mostra rende omaggio a uno dei maggiori artisti svizzeri per il suo novantesimo compleanno facendogli «l’onore» di aver accanto personaggi quali Gauguin e Munch. Dove e quando

Gertsch – Gauguin – Munch. Cut in Wood. A cura di Franz Gertsch e Tobia Bezzola, Museo d’arte della Svizzera italiana, Lugano. Fino al 22 settembre. Catalogo Kehrer edizioni, Fr 39.–, I/D/E. www.masilugano.ch


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Cultura e Spettacoli

Camminare per interrogarsi

Poesia Nella sua nuova raccolta Sindrome del distacco e tregua, il poeta Maurizio Cucchi si interroga

sul vivere in una società complessa e per certi versi anonima come la nostra

Guido Monti Nel nuovo libro di Maurizio Cucchi uscito per la collana Lo specchio (Mondadori, pp. 110, euro 18) dal titolo Sindrome del distacco e tregua, con bandella di copertina di Alberto Bertoni, ecco venirci all’occhio la sapienza del vero poeta che continuamente sembra formarsi e prendere abbrivio da quel semplice gesto di ogni uomo che è il camminare e che diventa poi in queste pagine pura osservazione, interrogazione profonda del sé, del noi. Il libro potremmo pensarlo composto di otto stanze-capitoli, tra loro comunicanti, dalla prima Improvvisa adesione, all’ultima Un Idiota sociale; dentro il poeta vi lavora come un artigiano del pensiero e sembra far uscire di lì, come per incanto, parole sempre piene di reale. Nel primo capitolo, ecco le prime interrogazioni sulle moltitudini, il camminatore scruta le masse del contemporaneo, che svuotate di ogni ideologia novecentesca, sembrano tornare a quel che sempre sono state: spasmo di natura, sommovimenti ciechi senza alcuna escatologia finale: «/ Eccomi già precipitato, allora, / in questo orrendo formicolio pulsante, / in questi pullulare di infinitesimali / esseri indistinti all’opera, //…». E nella seconda stanza-capitolo, dal titolo Il penitente di Pryp’ jat’, si affaccia la diapositiva di una memoria personale che apre però ad altra memoria collettiva di una comunità, quella devastata dall’incidente

nucleare di Černobyl’. La forza di Cucchi, è proprio nello scatto onirico che corre tra le righe, più vero di ogni realtà; il momento lontano nel tempo della città di Miramare, del bambino giocatore, si inabissa di colpo e nello spazio di poco, la voce narrante riemerge in altro luogo, vicino la cittadina di Pryp’jat’: «…Mi rialzai, ancora stordito, sui bolognini dei salesiani, e cadendo una seconda volta, finivo chissà come in una specie di pozza fangosa… e più in là, su un cartello di legno issato sulla palude, la scritta Pryp’jat’…» e dentro quello spazio infestato da Cesio-137 fa uscire dalle bocche dei colpiti persino della pungente ironia: «…//Erano i coloni della radioattività, / una comunità sghemba di ostinati, / di sopravvissuti. “Del resto // ovunque” sussurrava “alcuni muoiono ed altri scampano...”/…». In questa naturale giostra dei tempi, il poeta passeggia agevolmente e in Felicità frugale, torna nella quotidianità, traversando i luoghi di una Milano lontana, con loro senso di storia, di economia essenziale come le sciostre, magazzini lungo gli argini dei Navigli e poi oltre Villa Linterno con la casa del Petrarca; e il camminatore andando, fa pulizia per principio di salubrità mentale, di tutti gli accessori inutili, che l’uomo nel tempo si è costruito: «E allora ho pensato a un personaggio, con un bisogno crescente di viva frugalità, di ritrovata manualità a contatto diretto con le cose…». Nel libro dunque la materia in tutte

Il poeta milanese Maurizio Cucchi. (poesiafestival.it )

le sue varianti ci interroga, da lì veniamo e sembriamo essere di essa snodo e punto di raccolta. E anche la vera lingua, degna d’essere assimilata, è proprio quella che esce dalle vite che scorrono nelle strade, voci-parole lungo i mercati, i rioni di Nizza e proprio nella stanzacapitolo nizzarda dal titolo Babazouk, il poeta si sofferma rapito sull’etimo delle vie, che striscia dentro i nomi, come ad indicare conciso, la storiografia di un territorio: «Un bel cancello al 12 di rue de l’Abbaye. / Decifro con emozione 1651. Hobbes, / il Leviatano,… /…». E nell’ultima parte della raccolta dal titolo Un idiota sociale, convergono di nuovo i tempi nel frammento di un muro, nell’androne di una porta; la memoria dunque è lì nella pagina, sempre viva, quasi a riformulare e arcuare la linea del presente, verso un orizzonte tutto da interpretare. E forse il segreto di questa scrittura, è che posandosi nelle profondità della materia, ridà ad essa vita come fa un archeologo. Maurizio Cucchi restituisce quindi alla parola, la forza della sua immensa possibilità: tenere compresenti nel verso gli attimi mai finiti di ogni storia: «Quale sarà, di tutte, la vera dimora a cui ritorno? Forse là in fondo al cortile, dov’è la scaletta, di fronte alla casetta della portinaia? O forse là dov’era il letto più morbido del mondo,… //Poi mi sono guardato allo specchio e ho rivisto il volto di mia madre, mentre lui aveva / una mano mangiucchiata dai topi nel bosco». Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli

In mostra, l’arte nell’arte

Itinerari d’arte a Matera Una ricca offerta di opere, dal rupestre al contemporaneo, dal Rinascimento

alle avanguardie – Quarta e ultima parte Tommaso Stiano Matera è conosciuta e riconoscibile, come detto, per il paesaggio edificato a cielo aperto e soprattutto grazie ai numerosi ipogei: le case-grotta, le chiese rupestri con gli affreschi del tardo Medioevo e le cisterne. Quest’anno, grazie alla promozione dell’UE a «Città della cultura 2019», la città pullula di offerte culturali aggiuntive che sono elencate nel sito ufficiale www.matera-basilicata2019.it. Spiccano per importanza due mostre d’arte, una sul Rinascimento nel Sud Italia, l’altra sul surrealismo di Salvador Dalì. Inoltre, ci sono diverse esposizioni d’arte contemporanea nelle chiese rupestri già segnalate. Di seguito la presentazione di alcune mostre. Il Rinascimento nel Meridione d’Italia tra ’400 e ’500

È il più grande evento di «Matera 2019», imperdibile per i cultori dell’arte rinascimentale. Questa esposizione temporanea, divisa in otto sezioni, intende presentare il Rinascimento italiano con opere del Meridione dal 1438 al 1535, un’epoca di grandi navigatori, di mercanti, di mecenati, di notevoli artisti che ruotano attorno al Regno di Napoli e al Mediterraneo. Nelle sale troverete più di duecento tra dipinti, miniature, sculture, stampe, oreficerie, mappe geografiche, tutte opere che testimoniano l’eccellenza artistica di quel secolo nel Sud Italia, crocevia tra le grandi città della Penisola, il «Mare Nostrum» e l’Oriente. Nella medesima sede, vale la pena soffermarsi anche nella Sala Carlo Levi ad ammirare la grande tela Lucania ’61 (18.50 x 3.20 m). Questo lavoro è custodito negli spazi dedicati allo scrittore-artista assieme ad altre sue 41 opere. L’opera fu commissionata a Levi dal Comitato per le Celebrazioni del Centenario dell’Unità d’Italia al fine di rappresentare la Basilicata (Lucania) alla mostra Italia 61 allestita a Torino in quell’anno. Il pittore decise di ispirarsi alla quotidianità della regione meridionale dove era stato confinato dai gerar-

chi fascisti tra il 1935 e il 1936, periodo che aveva raccontato nel celebre Cristo si è fermato a Eboli, pubblicato per la prima volta nel 1945 e riedito in continuazione fino ai nostri giorni.

Il multimediale al servizio dell’arte dello scavo

Questa mostra temporanea ripercorre la storia dell’uomo e della sua arte di scavare e di lavorare la pietra lungo i secoli creando architetture d’ogni genere a partire dalle grotte trogloditiche passando per le sculture d’ogni epoca, fino alla scultura per eccellenza, che è la Città dei Sassi. Il percorso si svolge in una galleria spazio-temporale multimediale e in cinque tappe cronologiche dal paleolitico fino a Matera 2019. A orari fissi, oltre la mostra, una guida porta i visitatori a esplorare gli ipogei sotto Palazzo Lanfranchi. Nel medesimo museo è esposta la collezione permanente di reperti greci e la ricostruzione di un villaggio neolitico del Parco della Murgia.

Dove e quando

Rinascimento visto da Sud, Museo Nazionale d’Arte Medievale e Moderna della Basilicata (Palazzo Lanfranchi), Piazzetta G. Pascoli 1. Orari: lu-do, 9.00-20.00, fino al 19 agosto. Il surrealismo di Salvador Dalì nella concretezza delle chiese rupestri

Entrando in Piazza Vittorio Veneto a Matera ci si imbatte in un grosso elefante con zampe lunghissime e con una piramide vuota sul groppone. È in qualche modo l’incipit della grande esposizione Salvador Dalì. La persistenza degli opposti che presenta qualcosa come duecento opere autentiche del poliedrico artista spagnolo. Come spiegavamo, Matera è la patria dei contrari: la vita sotto terra (case-grotta) e sopra, la miseria del secolo scorso e la ricchezza dei luoghi oggi, la luce del sole e la tenebra delle spelonche, il sotto che è pavimento per gli uni e tetto per gli altri. Richiamando la peculiarità di Matera come città degli opposti, gli organizzatori degli eventi hanno pensato a un artista che ha perseguito tutta la vita una filosofia fatta di contrasti: Salvador Dalì (1904-1989). Per aumentare l’effetto surrealista, la sede principale della mostra di Dalì si trova nelle antiche chiese rupestri di Madonna delle Virtù e di San Nicola dei Greci (XII secolo); con questa ubicazione l’arte contemporanea si sposa con quella medievale delle chiese e degli affreschi rupestri, qui le sculture fuse nel bronzo sono ospiti delle nicchie scolpite nel tufo. Si può ben dire che la sede scelta si presta a esaltare il contrasto tra l’arte sacra rupestre che richiama le realtà terrestre ed eterna (l’essere) e l’espressione surrealista del maestro catalano che invece punta sul

Lucania ’61, (part.) di Carlo Levi, Palazzo Lanfranchi. (Tommaso Stiano)

sogno, sull’effimero, sul tempo che fugge, sull’essere in continua metamorfosi. Contrasti che però convivono, opposti che si fondono nelle opere scultoree esposte suddivise in quattro tematiche: il tempo, la religione, la metamorfosi e il dualismo duro/esterno e molle/ interno. La maggior parte dei lavori in mostra sono sculture in bronzo, ma ci sono pure accessori d’arredamento stravaganti, sale con dipinti, disegni, litografie, matrici per stampe, piccole sculture e filmati esplicativi. Quanto basta per passare almeno un paio d’ore tra surrealismo e rupestre. L’esposizione è disposta su tre livelli interni e uno esterno che guarda verso il Parco della Murgia; inoltre ci sono cinque sculture monumentali, tre delle quali piazzate nei punti cruciali della città lucana. Dove e quando

Salvador Dalì. La persistenza degli opposti, Complesso rupestre di Madonna delle Virtù e San Nicola dei Greci, Via Madonna delle Virtù (Sasso Barisano). Orari: lu-do, 10.00-20.00, fino al 30 novembre. www.daliamatera.it

Un ipogeo per l’importanza del pane

Si tratta di installazioni d’arte contemporanea del calabrese Angelo Aligia esposte nel grande ipogeo Matera Sum (1200 mq, percorso audioguidato) vicino a Piazza Vittorio Veneto. Dalla terra al grano, dal grano al «Panem», di generazione in generazione si tramandava l’arte di preparare il pane consegnando alla novella sposa il lievito madre, un dono prezioso per la continuità della vita. Ecco perché in una delle installazioni gli uomini vestiti di biancofarina recano luccicanti pagnotte d’oro come augurio di fecondità, una fecondità che non è solamente materiale ma pure segno culturale identitario di un popolo, che rimane nel tempo e che l’artista intende riproporre nel presente con le sue opere. Dove e quando

Panem, Ipogeo Matera Sum, Angelo Aligia, Recinto XX Settembre 7. Orari: 9.00-13.00 / 15.00-19.00, fino al 14 settembre. www.ipogeomaterasum. com

Dove e quando

Ars Excavandi. Utopie e distopie, Museo Archeologico Nazionale Domenico Ridola. Via Domenico Ridola 24. Orari: lu. 14.00-20.00 / ma-do, 9.00-20.00, fino al 31 luglio. Sculture contemporanee e avanguardie tra gli ipogei

Il Museo della scultura contemporanea di Matera (MUSMA) è una fondazione privata nata nel 2006 che si occupa solamente di scultura contemporanea italiana e internazionale. L’esposizione si sviluppa su 2000 mq e su due livelli, uno sotterraneo. Suggestiva è la collocazione delle opere in sette ipogei che in origine erano un convento domenicano trasformato in seguito dalla famiglia Pomarici in magazzini per cereali, cantine, stalle e carbonaie. Dal livello ipogeo si raggiunge il piano superiore (con un lift) dove in dieci sale sono esposte altre sculture dal XIX secolo fino alle avanguardie recenti. Dove e quando

MUSMA, Palazzo Pomarici. Via San Giacomo. Orari: 10.00-14.00 / 16.0020.00 (lu chiuso). www.musma.it Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 15 luglio 2019 • N. 29

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Cultura e Spettacoli

Mentona, storia di una benefattrice

Incontri A colloquio con la scrittrice elvetica Eveline Hasler, che ha dedicato le sue ricerche più recenti alla pioniera

svizzera della socialità Mentona Moser

Natascha Fioretti Il sipario si alza e si chiude a Berlino. In questa città, in tempi e circostanze diversi, si incrociano i destini di due donne. Sono quelli della scrittrice Eveline Hasler e della ricca ereditiera Mentona Moser. Galeotto fu l’anno 1986, quando il comitato dell’Associazione degli scrittori svizzeri ricevette un invito dalla DDR valido per due scrittori o per due scrittrici: «Eravamo tutti elettrizzati», racconta Eveline Hasler, «in quegli anni si poteva viaggiare ovunque ma la Repubblica Democratica Tedesca era rimasta un mondo a sé. Eravamo in tanti a voler andare e tirammo a sorte. La fortuna scelse me e una collega». Raggiunta Berlino Est, durante una delle serate organizzate dall’Associazione degli scrittori della DDR «il direttore nominò quella che per lui era stata una grande eroina svizzera, Mentona Moser. E poi ci disse “voi la conoscete sicuramente”. In verità, nessuno di noi sapeva di chi stesse parlando». Qui, nella Berlino del muro, è nata la curiosità di Eveline Hasler per Mentona Moser, discendente di una delle famiglie più ricche d’Europa e protagonista del suo recente romanzo Tochter des Geldes. Mentona Moser, die reichste Revolutionärin Europas.

Figlia di una donna arida e avida, Mentona scopre presto le gioie che derivano dall’aiuto ai meno fortunati Figlia del famoso orologiaio Heinrich Moser che fece la sua fortuna in Russia, sorella di Fanny, famosa zoologa e parapsicologa, figlia della baronessa Fanny Louise von Sulzer-Wart, avara di sentimenti e di denari, tra le cinque donne valutate negli studi sull’isteria di Freud che portò alle sue teorie psi-

coanalitiche, Mentona Moser sin dai primi del Novecento si impegna a favore della politica sociale, fonda una società per ciechi e apre il primo centro di assistenza per tubercolotici a Zurigo. Femminista convinta si batte per i diritti delle donne e nel 1920, in qualità di direttrice del servizio di assistenza alle madri e ai neonati per Pro Juventute, apre un consultorio per la prevenzione delle gravidanze a Zurigo. Nel 1921 contribuisce alla fondazione del Partito comunista svizzero. Ma tutto questo non basta a definire lo spirito, la tempra e il coraggio di questa donna cresciuta sulla penisola di Au con una madre anaffettiva, arricchitasi alla morte del facoltoso marito di molti anni più vecchio, intascandone tutta l’eredità. Una vicenda misteriosa che è stata ghiotta materia di conversazione nei salotti europei dell’epoca, dato che Heinrich Moser aveva alle spalle un precedente matrimonio con figli. Mentona e Fanny rimasero per molto tempo all’oscuro di tutto finché non ci mise lo zampino un famoso psichiatra: Sigmund Freud. Fu proprio lui, durante una seduta, a rivelare alla sorella Fanny l’esistenza dei fratelli di Sciaffusa. I soldi non fanno la felicità, e Mentona lo capisce ben presto. Essi non possono nemmeno alleviare il dolore di una bambina odiata dalla propria madre. Semmai, tutte le cicatrici inflitte possono fortificare una giovane donna e la sua indole spingendola ad aiutare le persone bisognose, a stare dalla parte dei più deboli. Nel periodo trascorso in Inghilterra studia per diventare un’assistente sociale al Women’s University Settlement. A Zurigo nel 1908 avvia il primo corso di assistenza all’infanzia, gettando di fatto le basi per la prima Scuola femminile di assistenza sociale in Svizzera. Là incontra anche il suo futuro marito, Hermann Balsiger, funzionario e membro del partito comunista. Innamorati e uniti dalla stessa visione per un mondo più giusto, hanno due fi-

Un’immagine della giovane Mentona Moser. (Wikipedia)

gli. Purtroppo Eduard, il più piccolo, è affetto da un grave morbo, la spondilite anchilosante, una malattia infiammatoria cronica sistemica dello scheletro assiale. Mentona si rivolge ai migliori medici e trascorre un lungo periodo con il piccolo Edi a Leysin, lontano dal marito. Quando è tempo di tornare, le cure hanno divorato i suoi pochi averi e Hermann Balsiger le comunica che vuole il divorzio, «È una circostanza tremenda: la madre non le dà nulla per il figlio malato e in città tutte le persone mormorano, non riescono a credere che una donna tanto ricca possa abbandonare così la propria figlia. A questo si aggiunge il comportamento del marito che non le paga nemmeno gli alimenti. Disperata Mentona si chiede “dove sono i diritti, le leggi che salvaguardano le donne in uno stato socialdemocratico”?». Il vento inizia a soffiare dalla parte giusta qualche anno dopo, più precisamente il 2 aprile 1925, quando muore la baronessa: «ora che riceve la sua parte

di eredità Mentona può finalmente perseguire il suo sogno: lavorare per un mondo più giusto. Il suo primo progetto è quello di costruire un ospizio internazionale per bambini in Russia, il paese che portò fortuna a suo padre. Ad aiutarla nel suo progetto che prende forma a Waskino è il compagno comunista Fritz Platten». Molto presto però, con la salita al potere di Stalin in Russia iniziano a soffiare venti minacciosi e Mentona fugge a Berlino. Anche qui c’è fermento e i presagi non sono buoni, ma lei non si tira indietro, si unisce alla Lega dei combattenti del Fronte Rosso e diventa una sorta di agente segreto. Quando nel 1933 i nazisti prendono il potere, Mentona finisce sulla lista nera, tutti i suoi conti vengono bloccati e la sua eredità confiscata. Costretta a fuggire, il destino la conduce prima a Morcote e poi a Zurigo. «Scoppia la Seconda guerra mondiale, Mentona è povera, il suo corpo affaticato. Trascorre molti inver-

ni in una sorta di ostello della gioventù senza riscaldamento fino a quando, un giorno, riceve una lettera dal Presidente della neo costituita DDR. Wilhelm Pieck, Mentona ben lo aveva conosciuto nei suoi anni berlinesi, le scrive che la DDR desidera prendersi cura di lei fino alla fine dei suoi giorni. L’invito a tornare a Berlino Est è il segno di ringraziamento per una donna che ha speso la sua vita per gli altri». Mentona Moser, «la grande benefattrice, l’amica delle persone», come la definisce Eveline Hasler, riceve la cittadinanza onoraria nel 1950 e vive a Berlino Est fino all’età di 97 anni. Muore il 10 aprile 1971 e oggi giace al cimitero di Friedrichsfelde, il memoriale dei socialisti. Sulla sua tomba, alla fine degli anni 80, Eveline Hasler con in mano i primi appunti, aspetta una sua grande amica e scrittrice tedesca. Purtroppo Irmtraud Morgner a quell’appuntamento non arriverà mai… Ma questa è un’altra storia.

Billie Holiday, Lady Day

Anniversari Un piccolo omaggio alla Signora del Jazz con le gardenie bianche tra i capelli, a 60 anni dalla morte Enza Di Santo La sua influenza nel panorama musicale, il suo jazz, il suo blues, non hanno paragoni, perché Billie Holiday non cantava mai due volte un brano allo stesso modo, perché considerava la sua voce alla stregua di uno strumento a fiato, perché ogni singola parola, era attraversata da un incredibile senso del ritmo e dalla forza del sentimento. Era capace di trascendere il testo e caricarlo di un pathos quasi logorante, esprimendo tutto l’amore che aveva per la musica. L’ascolto delle sue canzoni è ancora un’esperienza unica, un concentrato orchestrale di assoluta bellezza e profondissima melanconia, una sorta di dolce abisso dal quale si fatica a riemergere. I brani The man I love (1935) e Summertime (1936) composti da George Gershwin, rappresentano a pieno quel modo di Billie di scivolare sulla musica con un attacco leggermente in ritardo, il suo swing. Il palco ha dato tanto a questa donna afroamericana, nata nel 1915, abilissima nell’improvvisazione, che con molta fatica è riuscita a farsi strada nell’ambiente prettamente maschile del jazz degli anni 30 e 40 del ’900. Lady Day, soprannome datole dal suo grande amico, anima affine e sassofo-

nista Lester Young, si afferma durante un periodo storico durissimo; la depressione economica aveva colpito gli Stati Uniti nel 1929, le persecuzioni razziali e il proibizionismo creavano un clima teso e certamente svantaggioso per una donna che cercava la sua strada, con un trascorso che definire complicato è un assoluto eufemismo. Eppure nonostante un’infanzia terribile, la prostituzione giovanile, gli stupri, il carcere, le relazioni sen-

timentali sbagliate, l’alcol e la droga, Billie è sempre tornata a cantare sino al giorno della sua morte, il 17 luglio del 1959. La storia di Billie è raccontata attraverso il suo album più celebre, Lady Sings the Blues, del 1956, anno in cui esce anche la sua autobiografia, omonima. Nel 1972 le è stato dedicato un film, non sempre coerente con la realtà, che lascia un po’ di amarezza perché Billie, interpretata da Diana Ross,

Billie Holiday in realtà si chiamava Eleanora Fagan. (Keystone)

viene dipinta come vittima di se stessa, del suo passato e del suo successo, così l’intento di risollevarne la reputazione distrutta mentre era in vita, fallisce in una scontata ipocrisia. Ma Billie era forte e carismatica. Nel 1933 venne notata dal produttore John Hammond e, appena diciottenne, diventò la stella di tutti gli speakeasy della Swing Street di Manhattan, dove cantava Riffin’ the Scotch con Benny Goodman. Ebbe modo di incidere con il pianista Teddy Wilson, poi entrò nella band di Count Basie collezionando gelosamente a memoria un centinaio di brani. In seguito si unì all’orchestra di Artie Shaw, composta da musicisti bianchi. Dopo viaggi sfiancanti attraverso gli Stati Uniti, il poeta ebreo Abel Meeropol le propose di cantare il suo Strange Fruits (Grammy Hall of Fame Award nel 1978), un cruento brano di denuncia contro il linciaggio dei neri nel sud del Paese. Dopo molti dubbi iniziali, lo presentò nel 1939 al Cafè Society, uno dei primi nightclub misti dell’epoca. Lo scalpore fu immediato, le radio e le case discografiche lo rifiutavano, inoltre occorreva un permesso per poterlo eseguire nei locali. Senza accorgersene, Billie diventò un’artista molto discussa e un bersaglio politico. Si dimostrava dura, ma si sentiva minacciata,

sfruttata e sola. Aveva sempre un cane a farle compagnia, la faceva sentire sicura e poteva rivelarsi un buon nascondiglio per l’eroina. Nel 1941 Billie portò al successo la versione di Sam Lewis di Gloomy Sunday e uscì God Bless the Child (Grammy Hall of Fame Award 1976), un meraviglioso incontro tra gospel, bop e rural blues. Tra il 1942 e il 1944, non incise nulla, la sua evidente dipendenza veniva nascosta da lunghi guanti e Billie, considerata problematica, era controllata dalla narcotici. Nel documentario del 2015, A Sensation di Katja Duregger, si racconta di come anche l’FBI fosse molto attenta alle sue mosse e cercasse addirittura di boicottarne la carriera. Nel 1945 uscì Lover Man, premiata con il Grammy Hall of Fame Award nel 1989, poi dal 1946 al 1959 pubblicò una valanga di album tra cui Lady Day (1954) e Lady Satin (1958), partecipò allo sfortunato film del 1947 New Orleans con Louis Armstrong, partì per il tour europeo e soprattutto, si esibì alla Carnegie Hall, dove nel 1956 cantò l’incredibile Don’t Explain. In vita non fu consacrata dai riconoscimenti, ma fu molto amata, che forse è ciò che più conta, e si guadagnò l’affetto del pubblico e il rispetto di tutti i migliori musicisti jazz bianchi e neri di quei tempi.


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Cultura e Spettacoli

Sapere di non sapere Pubblicazioni Nel suo nuovo libro Giancarlo Bosetti racconta

dieci personalità storiche che si opposero al pensiero dominante

Eliana Bernasconi Nel recente La verità degli altri Giancarlo Bosetti ha scelto dieci protagonisti della storia, dall’antichità sino ai nostri giorni, in una galleria che unisce l’imperatore Ashoka Mauryia, vissuto nell’India del III sec. a.c. con Origene, martire della chiesa cattolica nel III sec. d.c., con Nicola Cusano, il grande filosofo del 1400 che dopo la presa di Costantinopoli da parte dei turchi parlò di pacificazione universale, con il filosofo Michel de Montaigne, con il teologo e gesuita contemporaneo Jacques Dupuis, con l’antropologa Margaret Mead le cui inchieste scandalizzarono la cultura sessuale vittoriana dell’America, e altri personaggi ancora. Li accomuna il fatto di essersi distanziati dai dogmi dominanti del loro tempo, pagando prezzi molto alti. Il libro tocca punti nevralgici del nostro presente. Giancarlo Bosetti dirige «Reset-Dialogues on Civilizations», associazione internazionale dedicata al pluralismo culturale; nel 1993 ha fondato la rivista «Reset».Tra le sue pubblicazioni vi sono il libro-intervista del 1992 con Karl Popper, La lezione di questo secolo e la raccolta di interventi di Karl Popper e John Condry Cattiva maestra televisione, del 1994. La verità degli altri tocca problematiche religiose, politiche, filosofiche e antropologiche, parla di complementarietà delle religioni, mette in luce la coerenza morale dei dieci personaggi, ci restituisce con precise riattualizzazioni

del passato l’ambiente e le relazioni del contesto storico nel quale vissero e agirono. Malgrado gli argomenti spesso ardui e complessi presi in esame il risultato è una lettura sorprendentemente facile e avvincente, che potrebbe essere scambiata per una narrazione romanzata se non fosse rigorosamente storica. Abbiamo posto alcune domande all’autore.

Non vale solo in campo religioso, ma anche per i portatori di assoluti «troppo» forti nella vita pubblica. Aveva ragione l’imperatore Ashoka: non bisogna esagerare nel difendere la propria fede e le proprie convinzioni. Immaginiamo sempre che a sbagliare potremmo essere noi.

Lei individua dieci personaggi storici che si rifiutarono di aderire a quello che chiama «monismo», ossia l’esistenza di una verità assoluta e di un unico dio. Da dove proviene il bisogno del monismo?

È una tendenza umana: dove nasciamo e cresciamo è davvero il centro del nostro cosmo, quanto più la nostra cultura è semplice e primitiva tanto più il nostro cosmo diventa «il Cosmo». Poi però siamo capaci di imparare tante cose «de l’infinito universo e mondi», da Giordano Bruno a Galileo, da Charles Darwin a John Barrow e a tutta la divulgazione scientifica contemporanea. La centralità della nostra «tribù» la viviamo nella comprensibile difesa dei nostri interessi, abitudini, costumi.

La scoperta del pluralismo, del fatto che non siamo soli ma sono possibili molti mondi e altre verità che esibiscono la stessa convinta assolutezza con la quale tendiamo a vivere quella in cui siamo stati cresciuti, è una fonte di incertezza umanamente comprensibile. L’uscita dal «monismo ingenuo», come lo chiamava Karl Popper, nel mondo contemporaneo ci butta addosso tante diversità, attraverso i media ma anche nella vita delle nostre città e dei nostri palazzi così multicolori, multilinguistici e multireligiosi. Come non fare i conti con questa varietà di costumi? Come non mettere in relazione le nostre certezze con quelle degli altri? Intolleranza e violenza nascono dal rifiuto di entrare in dialogo con la pluralità. Come definirebbe il monismo?

Se vogliamo un termine più chiaro chiamiamolo «fondamentalismo».

Michel de Montaigne in un ritratto del 1578 di Daniel Dumonstier. (Keystone)

I suoi personaggi hanno superato l’etnocentrismo, cioè la tendenza a considerarsi il centro del mondo.

Come spiega la morale diversa e contraddittoria di alcune leggi?

Le leggi cambiano non solo nello spazio ma anche nel tempo. Ci sono paesi dove gli omosessuali sono puniti a morte, e altri in cui il matrimonio gay è ammesso. In Italia il divorzio è stato ammesso solo nel 1970: «Legge di qua da una montagna e di un fiume, crimine dall’altra parte», dicevano Montaigne e Pascal. Un tempo si bruciavano gli eretici e le streghe, scrive Montaigne: «È un tenere in ben alta considerazione le proprie congetture il volere arrostire sulla loro base degli esseri umani».

«Congetture» è la parola importante, non la indiscutibile verità di chi ha pronta la torcia per appiccare il fuoco.

Il mondo globalizzato ci costringe al confronto e allo scontro tra verità opposte; il concetto di nazione ad esempio è un prodotto della modernità o ha radici antiche?

Il nazionalismo fiorisce nell’800, sulla sua base si formano e consolidano stati come Italia, Grecia e Germania. L’ideologia aveva spesso tratti liberali e rivoluzionari contro ordinamenti dell’«ancien régime», con un’impronta più conservatrice o moderata; come si è visto può però assumere forme anche più pericolose. Il nazionalismo di Atatürk ad esempio si è lungamente scontrato con l’incapacità di ammettere che nel territorio turco vivono anche curdi e aleviti. Ciò è stato ed è un fattore di instabilità della Turchia contemporanea. Su cosa si fonda l’idea di nazione oggi?

Sulla separazione tra etnia e cittadinanza. Noi concepiamo la cittadinanza come appartenenza a uno stato, senza pregiudizi e discriminazioni di razza e religione, vogliamo che tutti imparino

la lingua o le lingue necessarie per la partecipazione consapevole alla vita pubblica.

Lei scrive che la nostra conoscenza è parziale: quali campi del sapere scientifico o umanistico potrebbero portarci a comprendere il fanatismo e l’intolleranza prodotti dalla non accettazione della verità altrui? Discipline come la sociologia o la psicoanalisi potrebbero aiutarci a sviluppare un pensiero politico, come fa ad esempio l’arte?

Tutti i mezzi che lei cita possono essere utili allo scopo. L’educazione e la conoscenza ci aiutano a vedere il giusto senso della misura, la parzialità del nostro sguardo, la provincialità, «municipalità» (diceva Montaigne) del nostro sapere. Noi giudichiamo sempre «secondo ignoranza» nel senso che ogni nostro giudizio include una dose di sapere e una dose di non sapere. Imparare le dimensioni inevitabili della nostra ignoranza è segno di maturazione ed è forse il passo più difficile, si tratta di riconoscere la nostra fallibilità. Che bello quando qualcuno in un’accanita discussione se ne esce con il dire: su questo punto sono piuttosto incerto. Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli Rubriche

In fin della fiera di Bruno Gambarotta Tutta roba genuina Ho deciso che era arrivato il momento di descrivere a futura memoria il carattere dei Torinesi, miei concittadini e coetanei, prima che l’avvento delle nuove generazioni ne faccia scomparire ogni traccia. Inizierò con il Torinese al ristorante dove si dedica a spaventose strippate, non tanto per riempirsi fino a scoppiare quanto per poterlo raccontare agli amici e ai colleghi. I resoconti, dove ogni inessenziale dettaglio viene adeguatamente esaltato, sono fatti sul luogo di lavoro, preferibilmente alla mensa aziendale. Il racconto non è mai ambientato in un ristorante di città, dove si va solo per pranzi di lavoro o cene di rappresentanza, dove servono microporzioni da nouvelle cuisine e dove bisogna rispettare l’etichetta e le buone maniere. Se non è nouvelle cuisine è «cucina tradizionale rivisitata», dove i trionfali piatti di un tempo sono «alleggeriti», cioè resi pallidi e insapori. Per il Torinese il ristorante degno di essere raccontato deve essere situato in

campagna e così ben nascosto che …«è inutile che vi spieghi dov’è tanto da soli non sareste mai in grado di rintracciarlo. A noi ci ha portato uno del posto che conosce mio cognato perché cinquanta anni fa hanno fatto il militare insieme. Ci hanno fatto giurare di non dire a nessuno dove si trova, altrimenti la clientela si allarga, il gestore si monta la testa e alza i prezzi. Tanto il ristorante ha quel tot di coperti e bon. Dimenticavo: se arrivi in ritardo, anche solo di un minuto, non ti danno più da mangiare, loro sono fatti così, o prendere o lasciare. Pensate che la prima volta che sono passato di lì per caso e senza sapere che quello era un ristorante perché non c’è nessuna insegna o cartello che te lo indichi, ho visto quei ruderi e ho pensato che si trattasse di una discarica. Invece ci siamo trovati benissimo. Tanto per dirne una: quando ti portano gli antipasti, affettati misti, carne cruda, acciughe al verde, pomodoro e mozzarella, lingua, insalata di nervetti, uova sode in salsa aurora, insa-

lata russa, insalata capricciosa, lasciano lì il piatto di portata, caso mai uno volesse fare il bis. Non basta: quando servono ai tavoli vicino al vostro qualcosa che tu non hai ordinato, fanno in modo di avanzarne un po’ e te lo portano da assaggiare. Se anche dici no grazie te lo sbattono nel piatto dicendo: “Mangi mangi, tanto quello che avanza lo diamo ai maiali”. Tutta roba genuina. Hanno il loro orto, il frutteto, i conigli, le galline e i maiali che vengono ingrassati con gli avanzi. Le galline hanno tutte un nome, così quando te le portano in tavola bollite o arrosto te le presentano: questa era Samantha, figlia di Deborah. C’è il suo bello stagno con l’allevamento di trote e di carpe e se vuoi ti fanno pescare quelle che ti verranno cucinate dopo che le avrai uccise con una martellata in testa facendo attenzione a tenerle perché tendono a sgusciare e tanti finiscono per darsi una martellata sulla mano. I pesci però non hanno un nome perché sembrano tutti eguali, si confondono,

magari tra di loro si riconoscono, ma per noi è difficile. Finito il giro degli antipasti, ti portano una fantasia di primi, in un grande piatto diviso a spicchi, dove ogni spicchio è un tipo diverso di pasta o di risotto. Ma la cosa straordinaria che da sola merita una visita, sono i carrelli dei secondi, uno per i bolliti e uno per gli arrosti. Noi, non sapendo cosa scegliere, abbiamo preso un assaggio di tutto. A questo punto eravamo già un po’ pieni ma ci siamo ricordati che eravamo andati lì per assaggiare la specialità della casa, che sarebbe il fritto misto, così l’abbiamo ordinato, anche perché abbiamo capito che il padrone altrimenti si sarebbe offeso. Sono sei portate di sei pezzi l’uno, totale trentasei. Fanno friggere di tutto, tu di’ una cosa e loro la fanno friggere, le pantofole, i tappi delle bottiglie, il biglietto da visita, gli scontrini fiscali, i bugiardini delle medicine, tutto insomma. Naturalmente c’è anche il suo bel carrello dei dolci e se lo chiedi ti danno un assaggio di tutto. Io mi sono

tenuto e ho preso solo cinque assaggi che poi tanto assaggi non sono, a casa nostra mangiamo in quattro con uno di quegli assaggi. Alla fine, dopo il caffè, la grappa che fino a poco fa era ancora distillata dal nonno, poi gli è scoppiato l’alambicco e adesso la fanno produrre da una famiglia di albanesi, ma è tutta roba genuina, offerta col cuore». È arrivato il momento del quiz: «Indovinate un po’ quanto abbiamo pagato a cranio?» Qualunque cifra azzardiate, anche ridicolmente bassa, il vero prezzo è sempre la metà. «Per forza, hanno tutto in casa, è un’azienda famigliare, non devono pagare stipendi». Così, nella mensa aziendale, davanti a un mesto vassoio, con un piatto di pasta scotta, una pallida fettina e una stitica mela, si conclude il racconto. Nelle stesse ore, davanti alla trattoria famigliare immersa nello sprofondo della campagna, un camion frigorifero scarica i precotti di una multinazionale della ristorazione. Tutta roba genuina.

grado infimo la materia, la materia prima, priva di forma e quindi oscurità non conoscibile. Il vertice è l’Uno, il bene, di cui il bello è detto «anticamera», vestibolo. Tra il primo principio e la materia, una griglia cui nulla sfugge, dove, attraverso le idee e i numeri ideali, si passa dalle «cose di mezzo» (anime, demoni, numeri reali) per comprendere in questa discesa verso la materia le cose, gli umani, la natura. Questo schema piacque moltissimo – escludendo le critiche e l’ironia di Aristotele e dei suoi – perché sembrava risolvere definitivamente proprio il problema dell’ordine, dell’organizzazione di questo nostro mondo. Nel corso dei successivi venticinque secoli, il paradigma platonico non è stato mai dimenticato. Ora più incentrato sulla matematica, così negli ultimi secoli a.C., ora più mirato all’identificazione con le anime, i numeri, le idee, fino a un primo principio che si può incontrare solo attraverso un’esperienza estatica. Questo è Plotino,

filosofo egiziano trasferitosi a Roma nel secondo secolo d.C. L’ordine del mondo è evidente, passa attraverso i numeri, se pur il suo finale è mistico, l’ascesa della mente non può prescindere dalla matematica. Abbandonato l’attaccamento alle cose e al proprio corpo – si dice che Plotino non si lavasse e scacciasse tutti coloro che tentavano di ritrarlo. Le donne, comprese imperatrici e nobili madame, tributando al filosofo un tifo degno dei Beatles. Di questo possiamo sorridere, ma conviene invece prendere sul serio quella che in Cartesio diverrà la tensione alla mathesis universalis, il tentativo di leggere il mondo in maniera matematica. Sì, dirà il filosofo francese che scriveva a letto, al mattino, abitudine direi non estranea anche ai filosofi d’oggi, esiste una materia che è estensione, connessa attraverso il cervello, in particolare la ghiandola pineale, al pensiero. Ma noi siamo spirito, e dobbiamo costruire un ordine del mondo secondo ragione, secondo i

numeri, senza preoccuparci della materia. Un sogno che ritornerà attraverso i diversi platonismi, nella costruzione hegeliana che premia la filosofia come livello ultimo di conoscenza per l’umano, oltre, naturalmente, la materia, ma anche l’arte e la religione. Più semplicemente, sul finire del quarto secolo, Agostino da Ippona, in ritiro prima del Battesimo con amici e familiari, fa trascrivere un dialogo de ordine. Lo spunto di queste poche pagine è lo scorrere di un torrente, ora più impetuoso ora più tranquillo, mai uguale a se stesso. Dov’è l’ordine in questo mondo? Si potrebbe rispondere in diversi modi, parlando di luci e ombre, di bellezza della diversità. Ma finalmente difficile da comprendere, come possiamo pensare di comprendere l’ordine dell’universo? La domanda vale anche per chi lascia le scarpe in mezzo a una stanza, perde gli scontrini, ammassa libri nella vana speranza di leggerli (quando?). Ognuno sia chi sia, i sensi di colpa servirebbero a ben altro.

ciò che non andava, infine di preparare un rapportino per il direttore, che alla riunione del mattino distribuiva le sue botte micidiali. Oggi il cimitero degli errori è sterminato: «un pò» e «qual’è» sono all’ordine del giorno e Lorenzetto, che deve essere un appassionato collezionista di obbrobri, segnala in recenti editoriali un «Matteo Renzi non centra un tubo» e un delizioso «a indotto in errore», per non parlare delle i mancanti nelle prime persone plurali, tipo: «insegnamo». Ma c’è di peggio: «sul seno e sul linguine», «dopo aver tentato un misterioso tentativo di suicidio», eccetera. Ed esilaranti tautologie come: «Muore prima del funerale». Morire dopo, in effetti, sarebbe ancora più crudele… A volte le trasandatezze stilistiche sono peggio dell’errore. Una marea di stereotipi ci travolge quotidianamente: essere nel mirino di qualcuno; la caccia all’uomo; il traffico che va in tilt; la villetta degli orrori; l’autostrada che diventa un inferno; la tragedia annunciata; il braccio di ferro; l’auto impazzi-

ta… Per non dire che il riserbo è sempre necessariamente «rigoroso», l’ottimismo «cauto», il corpo «contundente», i motivi «futili», l’asfalto «viscido», il gesto «folle», la folla «fitta»… Anche il «grande Montanelli» è uno stereotipo. O il Grande Vecchio. Ma pazienza. «Ogni tanto, se mi viene un bell’aforisma, lo metto in conto a Montesquieu o a La Rochefoucauld: non si sono mai lamentati», diceva. L’agiografia non finisce mai. Raccontò il Grande Vecchio di aver intervistato Hitler il 1° settembre 1939, quando le truppe tedesche occuparono la Polonia. Precisò di avere inviato il pezzo al direttore del «Corriere» Aldo Borelli, aggiungendo però che il clamoroso scoop fu bocciato dal Minculpop, dunque cestinato. Essendo defunti i possibili testimoni, nessuno avrebbe mai più potuto smentire o confermare quel racconto: ma Michele Brambilla, che aveva raccolto tante volte il ricordo di Montanelli, disse che a furia di ripeterlo, il Grande Vecchio (3–) aveva finito per crederci.

Lo scopo di Lorenzetto è più ammirevole: sfatare i miti, smontare i luoghi comuni, segnalare le bufale citazionistiche attraverso ricostruzioni filologiche si massime come «Ubi major, minor cessat», «A ciascuno il suo» eccetera. Chi pensi (i più) che «pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà» si debba a Gramsci, verrà a sapere che prima dell’intellettuale comunista venne lo scrittore francese Romain Rolland. «Eppur si muove!» (riferito alla terra) è una falsa attribuzione settecentesca a Galileo. Franco Basaglia non ha mai pronunciato la frase che passa per essere il suo slogan: «La malattia mentale non esiste». Il celebre proverbio «Chi va con lo zoppo impara a zoppicare» lo possiamo dire a cuor leggero ma dobbiamo tener presente che risale a Pindaro e Plutarco. Ma nessuno è riuscito a capire chi (non) ha inventato queste frasi memorabili: «Chi va col vecchio impara a invecchiare», «Eppur si muore!», «A pensar peccato si fa male», «A nessuno il mio», «Ubi minor, major cessat»…

Postille filosofiche di Maria Bettetini Ordine e sensi di colpa Tra le tante possibili suddivisioni eccone una particolarmente indovinata: l’umanità oltre che tra scapoli e ammogliati, tra uomini e donne, tra pigri e sportivi, si divide tra ordinati e amanti del proprio disordine. Non il disordine sciatto, quello che dipende solo dalla svogliatezza del soggetto, ma il proprio disordine, in cui «io comunque so dove è tutto». Gli ordinati, naturalmente non ci credono, pensano che ogni forma di disordine sia una grave ferita alla dignità umana. Soffrono, desiderano intervenire e compiono il peggiore dei disastri, mettendo mano a carte, documenti, libri altrui. Sistemano i golfini per colore, e non per «lo uso» e «lo tengo perché la zia è ancora viva, una volta l’anno mi tocca indossarlo». Dividono le scarpe in estive e invernali, senza avere idea di quando finisce l’inverno e comincia l’estate, e viceversa. Patiscono se vedono una «cosa» senza padrone, ovvero senza classificazione. Ma che cos’è l’ordine? Certo non una batta-

glia per dividere presine e strofinacci. Il tema viene da molto lontano: per i Greci, era davvero un problema da risolvere. Ai primordi della filosofia, si cerca di semplificare. Si propongono soluzioni che non moriranno con la civiltà greca. Per esempio l’idea di Parmenide, che il mondo sia un tutto senza passato né futuro, un intero che si ripete nei secoli, sarà in Nietzsche, ma anche nel «neoparmenidismo» di Bontadini e Severino, che ancora vive e ha molti discepoli. Non è da meno la posizione di altri antichi, che cercavano di ridurre l’origine del mondo come emanazione di un solo elemento (l’acqua di Talete) o del mescolarsi di diversi, come i quattro di Anassimandro, aria terra fuoco acqua, che si attraggono e respingono, creando cicli temporali. Colui che davvero ha cercato di unificare le diversità del mondo è stato Platone, con teorie poi raffinate da medio e neo platonici. Per la prima volta viene impostata una struttura del mondo che vede al suo

Voti d’aria di Paolo Di Stefano Cerberi e ferrovieri in redazione Di chi è la celebre frase «I buoni artisti copiano, i grandi rubano»? No, non è di Pablo Picasso. E chi ha detto: «A pensar male si fa peccato, ma spesso si indovina»? No, non è Giulio Andreotti. E lo sapete che Sherlock Holmes non ha mai pronunciato la sentenza per cui è famoso: «Elementare, Watson»? Né una frase del genere uscì mai dalla penna di Arthur Conan Doyle. Vanno riviste un bel po’ di certezze, ragazzi. Ce lo dice Stefano Lorenzetto in Chi (non) l’ha detto. Dizionario delle citazioni sbagliate (5+), appena uscito dall’editore Marsilio. Lorenzetto è giornalista di lunghissimo corso, nonché collaboratore dello Zingarelli per la segnalazione delle nuove voci e accezioni. «Cinque volte nel Guinness World Records per le sue interviste». Quel che si scopre, sfogliando il suo libro, è che non esistono attribuzioni certe per i motti famosi, perché probabilmente c’è sempre qualcuno che, una frase famosa, l’ha detta prima. «Dio è morto, Marx pure, e anch’io non mi sento molto bene»? Lo

sanno tutti, è di Woody Allen. Sbagliato: è di Eugène Ionesco. C’è anche molta aneddotica divertente e istruttiva, che appassiona anche più del «dizionario». L’illustre e venerato fondatore dell’Espresso Arrigo Benedetti veniva chiamato il «cerbero» dallo scrittore e critico televisivo Sergio Saviane: «Gli portavi il pezzo, cominciava a leggere, poi incontrava l’avverbio finalmente, lanciava un urlo, “vada a fare il ferroviere!”, appallottolava i fogli e ci saltava sopra con entrambi i piedi». Non si capisce la ragione di tanta rabbia (3 a Benedetti). È vero che una volta gli errori venivano spesso fermati prima. Giampaolo Pansa ha raccontato a Lorenzetto che alla Stampa, nel 1960, il direttore Giulio De Benedetti (5) aveva voluto ben cinque filtri di sicurezza per individuare gli strafalcioni o le imprecisioni prima dell’uscita in edicola: l’ultimo filtro era affidato a due redattori in pensione, i quali all’alba avevano il compito di rileggere il giornale da cima a fondo, di correggere e di sottolineare


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