Cooperativa Migros Ticino
Società e Territorio A Osco e Ludiano: due iniziative per abbinare amore per i libri e incontri tra persone
Ambiente e Benessere Leila Fedulov, pedagoga curativa clinica ed estetista oncologica alla Clinica Sant’Anna di Sorengo, spiega l’efficacia e i benefici dell’estetica sui pazienti
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXII 22 luglio 2019
Azione 30 Politica e Economia L’Italia, grande malato d’Europa, sotto la lente di Bruxelles e non solo
Cultura e Spettacoli Al m.a.x. Museo di Chiasso foto, disegni e quadri del grafico italiano Franco Grignani
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Keystone
Ricercando l’armonia in famiglia
di Alessandra Ostini Sutto pagina 11
L’osservatorio in movimento di Alessandro Zanoli Il nostro caro amico e collaboratore Eros Costantini usava ricordarci spesso quanto fossero per lui di grande ispirazione i brevissimi viaggi sulla funicolare di Lugano. Osservare le persone da distanza ravvicinata, ci diceva, gli forniva un numero incredibile di spunti. Ottimi per essere organizzati poi in uno dei suoi acuti e divertenti articoli, ma utili anche per capire il mondo in cui viveva. Una sorta di laboratorio sociologico, minimo, ma eloquente. Seduti in un vagone delle ferrovie della Lombardia, non potendo per un disguido usufruire dei più veloci collegamenti Freccia Rossa, ci è capitato di affrontare un viaggio attraverso la Pianura Padana su un convoglio regionale. Tra una folla di pendolari, di studenti, di pensionati e di altre persone in movimento tra Milano e Parma, ci è tornato in mente l’insegnamento di Eros. Il treno parte da uno dei più remoti binari della Stazione Centrale: quelli laggiù in fondo, lontani, in una parte del mondo che sembra già estranea per conto suo. Una volta trovato posto, ognuno dei passeggeri cerca di occuparsi delle proprie faccende, in attesa della partenza. Ma di
lì a poco si fa strada il desiderio di osservare i nostri compagni di viaggio. Nei quattro sedili del nostro scompartimento ci troviamo spalla a spalla con una giovane signora di origine orientale (cinese?), mentre di fronte a noi un gioviale omone in camicia ha pronto il suo spuntino. Intrecciato alle dita della mano penzola un rosario di quelli che si usano in Grecia. Nel quarto posto, un signore magro, con la barba tagliata all’uso musulmano. Nei sedili a fianco, invece, altri con il computer portatile aperto, con valigette e cartelle: gente che sta andando a lavorare o a scuola. La cosa curiosa è che non appena il treno si mette in moto, ognuno dei miei tre vicini estrae il suo telefono cellulare. La signora cinese si infila le cuffiette e inizia una sessione di videochiamata con il marito: in cinese. Il signore greco chiama un amico e inizia un dialogo, incomprensibile ma apparentemente divertente, mentre sbocconcella il suo panino. Il terzo uomo, invece, guarda lo schermo e muovendo le labbra inizia una lettura muta: molto probabilmente sta studiando o recitando il Corano. La situazione è davvero bizzarra: in quattro posti contigui si praticano quattro lingue diverse, ognuno ignorando i suoi vicini. Dove sono finiti i bei tempi in cui viaggiando
sui treni italiani si poteva chiacchierare con tutti e si stringevano impensabili amicizie? Ecco. Il quadretto offerto da questa minima esperienza può servire forse da foto istantanea in tema d’immigrazione, un argomento che sta tanto occupando il dibattito politico italiano (ma non solo). Il nostro scompartimento è, forse, un piccolissimo spaccato dell’Italia odierna. Una minuscola porzione di mondo che ci propone un cambiamento sociale, in un fenomeno concreto e quotidiano di frammentazione reale (che, oltretutto, i nuovi apparati tecnologici contribuiscono a fomentare, creando tante piccole bolle di incomunicabilità). Da un lato i vari volti dei nuovi cittadini, quelli che con il loro lavoro, le loro famiglie e le loro tradizioni culturali «straniere» stanno disegnando un nuova fisionomia sociale all’Italia. Dall’altra l’isolamento, la distanza, il timore persino, con cui gli italiani vivono questa nuova realtà quotidiana, non si sa bene quanto preparati ad affrontarne le implicazioni. Chi voglia prendersi cura delle sorti nazionali dovrà sviluppare idee e armarsi di coraggio, perché è necessario un lavoro di mediazione enorme. La complessità della situazione non permette soluzioni semplicistiche.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 luglio 2019 • N. 30
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Società e Territorio Spazzacamini ticinesi La storia della famiglia Leoni di Contone che fondò a Vienna un’azienda passata di padre in figlio per tre generazioni pagina 7
Psicologia e famiglia I genitori dovrebbero educare fin da subito i bambini allo stare insieme in famiglia. Intervista allo psicologo Pierre Kahn pagina 11
Tecnoscienze Salvaguardare la distinzione tra scienza «pura» e scienza «applicata» è fondamentale in una società in cui sembra dominare la tecnica pagina 13
Un viaggio attraverso libri e giochi nei boschi sopra Osco. (Fabia Jurietti)
Siamo fatti di storie
Leggere Osco e Ludiano: due iniziative dell’Alto Ticino per abbinare amore per i libri e incontri tra persone Sara Rossi Guidicelli Passeggio per i boschi sopra Osco e trovo due percorsi indicati da pannelli e valigie: come due viaggi attraverso i libri e i giochi. Sull’asse nord-sud, posso scoprire opere di narrativa legate al tema del viaggio, mentre sull’asse estovest vengono presentati giochi di altri tempi: uno è per adulti, l’altro per tutti. L’inaugurazione avviene domenica 28 luglio, con ritrovo in paese alle 11. Vado a Ludiano, in piazza. Entro nella cabina telefonica che già da tempo era stata trasformata in minianarchica-biblioteca, di quelle dove prendi, porti, leggi, basta che sia fatto con rispetto. Era a tema: per un periodo si trovavano solo libri di cucina, poi libri sorpresa: impacchettati col fiocco, con solo le indicazioni di genere, fascia età e un piccolo riassunto, come un appuntamento al buio. Adesso invece la cabina di Ludiano è tornata una cabina telefonica, ma se alzi la cornetta puoi ascoltare una fiaba letta da Pietro Aiani, Matteo Casoni, Monica Piffaretti, Daniele Dell’Agnola, Federico Soldati e altri. A lato c’è una lista di storie per bambini: per ora una trentina, ma il progetto prosegue con
un’inaugurazione ufficiale il 30 agosto e durante l’anno la collaborazione con altri lettori e bambini delle scuole, che potranno caricare altre storie nel telefono fisso in piazza. Sono tutte donne quelle che propongono questi allettanti (e molti altri) appuntamenti liberi con la lettura: una è Fabia Jurietti, di Osco, le altre sono un gruppo di Ludiano, che ha fondato l’Associazione Libera il Libro Serravalle. Leggere è un’attività solitaria, però il libro può essere quello che fa innamorare, come Paolo e Francesca, può essere quello che riunisce davanti al camino una famiglia intera, può essere un salone con milioni di persone che ascoltano, frugano, scoprono, cercano, trovano, scartano, comprano, pubblicano, presentano, discutono. L’iniziativa del quotidiano «Repubblica» nel 2000 di pubblicare ogni settimana un classico del Novecento, venduto a prezzo bassissimo insieme al giornale, aveva avuto un enorme successo: e non solo perché permetteva ai patiti di letteratura di completare la propria biblioteca o di rileggersi un grande romanzo, ma perché moltissimi nuovi lettori si affacciavano al piacere di leggere. Poi se ne discuteva come di un programma
televisivo, che passa per tutti alla stessa ora lo stesso giorno. Fabia Jurietti nata nel 1988, ha studiato Economia aziendale e da poco ha passato gli esami di contabile federale. Grande amante della lettura (nonostante precisa che anche i numeri le piacciano molto), nel suo tempo libero gestisce la piccola biblioteca di Osco, «Leggi che ti passa», che lei stessa ha fondato otto anni fa. «Ho aperto la biblioteca perché in casa mia non avevo più spazio per riporre tutti i miei libri», racconta Fabia. «Attualmente abbiamo circa quattromila titoli a disposizione per il prestito. Molti sono stati regalati da amici». Oltre alla biblioteca, aperta il sabato mattina, ogni anno ad agosto Fabia e la sua collega Genny Pedrinis preparano un percorso «all’insegna della buona lettura nella natura»: l’anno scorso lungo due sentieri ad anello nei boschi sopra Osco hanno esposto alcuni pannelli che presentavano più di 20 autori contemporanei di romanzi gialli. Su ogni pannello c’era una breve biografia dell’autore, la trama del romanzo e un estratto di un paio di pagine del libro (oltre a una piccola cartina con l’indicazione del punto in cui ci si trovava del
percorso). A ogni tappa c’era inoltre da raccogliere un indizio che alla fine del percorso permetteva di risolvere un piccolo quiz a concorso. Nelle tappe del primo anello (più facile rispetto al secondo) era previsto anche un piccolo indovinello/gioco per i bambini. Quest’anno, come detto, il tema è il viaggio e anche questa volta ci sono indizi che portano a risolvere un quiz, ma soprattutto c’è la scoperta di buoni libri abbinata a una rigenerante passeggiata tra i boschi. A Ludiano invece è un’associazione che si occupa della passione per i libri e le storie: Libera il Libro Serravalle. Per loro «leggere è come volare, come dormire, come svegliarsi», mi hanno detto un giorno, e così questo gruppo di quattro donne si è dato da fare negli ultimi anni per attizzare continuamente la voglia di leggere e la libertà di prendersi il tempo per farlo. Ogni settimana ci sono incontri nella Soffitta del libro (all’ultimo piano della ex casa comunale di Ludiano), in cui si possono andare a leggere, prendere o scambiare i libri. Ogni mese è poi organizzata una serata di giochi di società e di tanto in tanto si può anche partecipare a un momento conviviale durante
il quale si parla liberamente di libri oppure si incontra uno scrittore che viene a presentare la sua opera. Ogni due anni Libera il Libro organizza anche un’occasione culturale di incontro con vari scrittori, libri, racconti. In primavera, «Incontri d’autore» porta una dozzina di scrittori ticinesi all’Atelier Titta Ratti di Malvaglia, con una formula tutta sua: venti minuti a testa. Un presentatore introduce lo scrittore, lo fa parlare per alcuni minuti e in seguito Pietro Aiani (che molti ricordano come il Signor Pietro) legge una pagina del loro libro. Poi avanti il prossimo. Pausa. Si ricomincia. Così per tutto il pomeriggio: alla fine il pubblico avrà conosciuto dieci autori, che dopo aver parlato restano a disposizione del pubblico all’Atelier Titta Ratti. Verso la fine del pomeriggio c’è poi un momento di dibattito tra alcuni degli autori e il pubblico, seguendo un tema specifico. Non sono questi gli unici punti di ritrovo e di consigli per i lettori: numerose biblioteche propongono una lettura mensile, da commentare poi insieme oppure organizzano incontri, presentazioni di libri e altre attività. Tutte iniziative benvenute da un punto di vista sociale e intellettuale insieme.
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Censire gli alberi da frutto
Lugano Dal centro a Cimadera, la Città invita tutta la popolazione a collaborare al censimento degli alberi da frutto
rimasti sul territorio: un progetto che valorizza il patrimonio naturale e recupera antiche varietà di alberi ma anche i saperi e gli usi ad esse legati
Guido Grilli Cercansi melo, pero, ciliegio, pesco, prugno, fico. Ma anche castagno, caco, cotogno. Persino il rosso e spontaneo corniolo, il gelso o il nespolo. Alzi la mano chi possiede un albero da frutto nel proprio giardino o chi ha antica memoria della presenza di un albero da frutto con radici sul disteso suolo cittadino – dal centro fino alla Val Colla. Anzi, si metta in contatto direttamente con il Verde pubblico della Città di Lugano (058 866 73 11) o compili il modulo online disponibile sul sito di lugano.ch e il proprio esemplare potrà così essere censito e offrirsi quale utile contributo alla «ricostruzione» del patrimonio naturale (e culturale) di Lugano. È questo in sintesi il singolare progetto di mappatura promosso lo scorso giugno dall’autorità cittadina e tuttora in corso. L’appello è rivolto a tutti i proprietari di piante da frutto e a chiunque desideri contribuire a «fotografare» nel modo più realistico possibile numero e specie delle preziose e generose presenze della natura nel comprensorio urbano. L’ampio giardino terrazzato che attornia la casa di Mario Berardi, 85 anni, al numero 7 di via Sassa a Lugano, rappresenta uno fra i migliori esempi del singolare progetto lanciato dalla Città. La gentilezza del proprietario e il suo sorriso ci conducono nel suo «patrimonio naturale», esito delle sue costanti cure e di quelle della moglie Graziella. «Guardi, lì c’è il caco» – indica il nostro interlocutore. «Là invece, una decina di anni fa, abbiamo piantato due peschi e un prugno, mentre all’angolo della casa abbiamo un nespolo giapponese». C’è anche una pianta mirabelle. «Sì, ma non metta troppo nell’articolo altrimenti mi aumentano le tasse» – risponde ironico Mario Berardi, che dopo il nostro incontro ci informa che aderirà al censimento degli alberi da frutto in corso. Ma qual è il motivo di una mappatura e quali gli sviluppi futuri? Michele Bertini, vice sindaco di Lugano e capo dicastero sicurezza e spazi urbani: «Il progetto prevede di censire gli alberi da frutto sulla proprietà pubblica, così come su quella dei privati, invitando – per averne poi una visione d’insieme – i proprietari a farsi avanti e a segnalare soprattutto quelle varietà genetiche importanti e particolari di alberi da frutto. L’obiettivo è da un lato quello di venire a conoscenza delle qualità presenti sul territorio. Ci interessa soprat-
W. Brockendon – E. Finden, Lugano da settentrione, 1829, incisione su acciaio.
Il frutteto di Cornaredo. (Città di Lugano)
tutto mettere a fuoco quel patrimonio che si sta inesorabilmente perdendo ma c’è anche l’aspetto culturale. Ci sono infatti tante specie legate alle tradizioni o alle storie di migrazioni: il nonno, ad esempio, che tornato dall’America aveva piantato un tal albero da frutto... Se ad esempio un tal frutteto porta con sé una storia locale interessante si potrà pensare di valorizzarlo creando una camminata con un percorso didattico con tavole divulgative sia per la popolazione sia per le scuole dove si potrà ammirare questo importante patrimonio. Più in generale, c’è la volontà di offrire ai cittadini più qualità di vita, che è sempre più legata a una maggiore accessibilità agli spazi verdi. Questo progetto vuole approcciare pure un aspetto legato alla biodiversità per salvaguardare il patrimonio varietale e genetico». Concretamente il censimento approderà su una piattaforma informatica? «Sì, l’obiettivo va in questa direzione» risponde Michele Bertini. «A fine anno tireremo le fila sui diversi dati che avremo raccolto dai cittadini attraverso i moduli che ci saranno ritornati e che attualmente sono disponibili sul nostro sito online. I risultati si aggiungeranno a quelli che stiamo nel frattempo raccogliendo negli spazi pubblici (giardini, parchi, prati) che sono naturalmente di nostra competenza». Il vice sindaco di Lugano non esclude che in un futuro prossimo questo progetto potrà pure sfociare in giornate di raccolta di frutta coinvolgendo la popolazione e le scuole. «Un po’ come è avvenuto in passato con la valorizzazione degli ulivi a Gandria, che ha portato alla nascita di associazioni lo-
cali. Uno degli obiettivi è proprio quello di non perdere il valore delle varietà di piante presenti e riuscire a preservarle nel migliore dei modi, accanto alla storia e alle tradizioni che esse portano con sé».
Il progetto di censimento e mappatura si avvale del sostegno di Lugano al verde, l’alberoteca, ProSpecieRara, ProFrutteti e l’Associazione amici del Torchio di Sonvico Il progetto di mappatura degli alberi da frutto è partito dalla città di Lugano ma si avvale del sostegno di altre importanti sodalizi presenti sul territorio. La collaborazione da parte di chi conosce un albero da frutto, di chi semplicemente l’ha individuato sul proprio cammino o di chi ne conserva preziosi ricordi – evidenzia il portale cittadino – è fondamentale per riscoprire e salvaguardare la diversità genetica del patrimonio naturalistico. Il censimento e la mappatura saranno seguiti da un progetto di reintroduzione delle antiche varietà individuate. Esempi recenti di valorizzazione, in tal senso, riguardano il frutteto di Cornaredo, così come il frutteto della scuola Elementare di Cadro, realizzati in collaborazione con l’alberoteca, ProFrutteti e l’Alleanza territorio e biodiversità. Concretamente il censimento
sarà realizzato, indicativamente entro dicembre, dalla Città di Lugano (segnatamente dal Verde pubblico, diretto dall’architetto e paesaggista Christian Bettosini, con il supporto di Lugano al verde) in sinergia con l’alberoteca, ProSpecieRara, l’Associazione amici del Torchio di Sonvico e ProFrutteti. Quest’ultima rappresenta una «costola» di Capriasca Ambiente, nella quale è attivo Nicola Schoenenberger, biologo, consigliere comunale a Lugano e granconsigliere dei Verdi, che saluta con grande entusiasmo il progetto cittadino di mappatura degli alberi da frutto, pur giudicandolo «tardivo». Schoenenberger evidenzia il mutamento storico che ha portato più cemento e meno verde nel nostro paesaggio odierno, con, quale conseguenza, la diversità degli alberi da frutto sempre più ridotta al lumicino. «Con l’abbandono dell’agricoltura tradizionale nel dopoguerra siamo passati a un territorio che è radicalmente cambiato. Sono sparite le campagne tradizionali all’interno delle quali vi era la presenza di alberi da frutto. Da un lato la città è andata a invadere questi spazi, e dall’altro il bosco è cresciuto e tutto questo a scapito delle campagne. La campagna agricola o non esiste più oppure è appena riconoscibile in brandelli qua e là. Vedasi la campagna di Sonvico, oggi ancora relativamente grande ma ridottasi notevolmente». Le piante da frutto disponibili nelle proprietà private e oggetto della mappatura promossa dalla città di Lugano rappresentano pertanto un bene irrinunciabile? «Assolutamente sì. Qui si trovano ancora alberi da frut-
to e quello che è sorprendente è che in questi luoghi si preservano centinaia e centinaia di varietà uniche che non si trovano da nessun’altra parte. Dunque andare nel territorio luganese a recuperare quel poco che è rimasto, magari appunto nel giardino di una villetta che ha mantenuto quell’angolino di campagna agricola tradizionale con dentro l’albero da frutto, spesso e volentieri si riscopre una varietà mai vista prima ed è dunque importante poterla salvaguardare». Nicola Schoenenberger individua un altro aspetto significativo: «Le persone e i loro saperi sui nomi e sugli usi delle antiche varietà di alberi da frutto rappresenta una generazione che non è ormai quasi più presente. Trovare ancora qualche anziano che si ricorda come si innestava e come si chiamava la tal mela e a quale utilizzo era destinata è divenuto molto raro. Il patrimonio culturale è insomma l’altra metà della medaglia del patrimonio naturale. L’obiettivo sarebbe quello di recuperare ambedue le parti, nella misura del possibile. Si pensi ad esempio che oggi in Svizzera la varietà di mele si è ridotta da migliaia di unità a 1500, mentre il mercato ce ne propone soltanto cinque o sei, oltretutto imparentate l’una all’altra. Io sapevo che a Breno esisteva la mela Breno, e questa l’abbiamo recuperata grazie a un inventario: erano rimasti solo tre alberi con questa varietà in tutto il paese malcantonese. A Caslano, invece, esisteva la mela Caslanora della quale ho ritrovato un riferimento scritto, ma sul territorio questa varietà non si è più ritrovata. Il motivo? Si è ormai estinta».
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Idee e acquisti per la settimana
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ulteriormente raffinata, per esempio con l’aggiunta di qualche goccia di salsa worcestershire, uno spruzzo di tabasco oppure del cognac. Servitela guarnen-
dola con degli anelli di cipolla, dei cetriolini e dei capperi sottaceto e lasciatevi conquistare da questa ricetta ricca di carattere e gusto.
Altre proposte per l’estate Oltre alla tartare di manzo, presso le macellerie Migros con banco a servizio sono disponibili altre specialità a base di carne, ideali per il periodo estivo, tutte preparate direttamente in filiale con ingredienti selezionati. Il carpaccio di manzo è un must dei menu estivi e conquista tutti i palati con le sue morbidissime fettine di carne guarnite di scaglie di parmigiano, rucola e olio di oliva. Chi è alla ricerca di piatti regali, troverà di che soddisfare le proprie golose aspettative nel tenero arrosto all’inglese ben rosato al suo interno. Infine, non può certo mancare il vitello tonnato, una ricetta dove carne e pesce si uniscono a meraviglia.
Carnoso e aromatico Attualità Il pomodoro Cuore di bue
è apprezzato per le sue caratteristiche organolettiche. E se è di produzione locale, ancora meglio
Giovanni Barberis
La tartare di manzo figura sicuramente tra i piatti estivi più gettonati da coloro che desiderano coniugare sapidità, freschezza e leggerezza. Accompagnata da fettine di pane tostato imburrato, si trasforma in una pietanza incredibilmente gustosa, ideale per aprire una bella grigliata tra amici oppure come piatto unico completo, accostata a una croccante insalata di stagione o alle classiche patatine fritte. Si suppone che le origini del piatto vadano fatte risalire all’antico popolo dei Tartari, i quali, durante il loro girovagare a cavallo per la steppa, usavano cibarsi di carne cruda salata che avevano precedentemente posto sotto la loro sella alfine di renderla più tenera. Siete amanti di questo piatto a base di carne cruda ma avete poco tempo a disposizione o vi manca la voglia per prepararlo personalmente? In questo caso vi consigliamo di assaggiare la nostra tartare di manzo bell’e pronta da portare in tavola. Preparata dagli specialisti dei banchi macelleria con tenerissima carne svizzera di prima scelta e sapientemente aromatizzata con una delicata miscela di spezie, la specialità è in vendita in una pratica vaschetta take away ri-
in confezione take away prodotta in filiale con carne svizzera
Di grosse dimensioni (può arrivare a pesare anche 600 g), rosso intenso, costoluto, con polpa soda dal sapore delicato e forma che ricorda appunto un cuore: questa è la carta d’identità del pomodoro Cuore di bue, un prodotto orticolo molto diffuso e consumato nella nostra regione. Dal momento che perde poco succo ed è facile da affettare, è particolarmente apprezzato per il consumo a crudo in insalata. Se ben maturo, è tuttavia ideale anche per la preparazione di ottimi sughi per pasta. Come gli altri pomodori, anche il Cuore di bue è poco calorico (solo una ventina di calorie per 100 grammi), facile da digerire, vitaminico e rinfrescante, tanto che non manca mai come ingrediente della tavola estiva. L’autentico Cuore di bue appartiene a una vecchia varietà di pomodoro italiano. L’ortag-
gio di coltivazione ticinese è disponibile sul mercato dalla fine maggio fino a fine settembre. Per uno sviluppo ideale, il pomodoro necessita di molto calore e luce. La sua coltivazione avviene principalmente in serra e tunnel, nel rispetto dei principi della produzione integrata, vale a dire con il minimo utilizzo di prodotti fitosanitari e fertilizzanti. Dalla semina (febbraio-marzo) alla raccolta dei primi pomodori passano all’incirca 10-11 settimane. Una volta acquistati, i pomodori vanno conservati in un luogo fresco – mai in frigorifero – e consumati entro 3-4 giorni. Pomodoro cuore di bue Nostrano sciolto, al kg Fr. 3.90* invece di Fr. 4.90 *Azione 20% valida dal 23 al 29.7.
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Idee e acquisti per la settimana
Buone vacanze!
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 luglio 2019 • N. 30
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Società e Territorio
Spazzacamini ticinesi a Vienna
Emigrazione La famiglia Leoni di Contone fondò una piccola azienda famigliare nella capitale austriaca,
passata di padre in figlio per tre generazioni, e che chiuse nel 1996
Flavio Zanetti Correva l’anno 1879 quando i due fratelli Giovanni Battista e Celestino Leoni, originari di Contone, oggi comune di Gambarogno, non trovando occupazione in patria decisero di emigrare in direzione di Bratislava, ora capitale della Slovacchia e allora parte dell’Impero austro-ungarico. La scelta della destinazione fu probabilmente casuale non avendo i due giovani alcun punto di appoggio o di riferimento da parte di connazionali, i cui flussi migratori erano perlopiù rivolti verso altri paesi europei se non oltremare. Del loro soggiorno a Bratislava non si hanno testimonianze. Di Celestino si persero addirittura le tracce mentre si sa che il fratello approdò poco dopo a Vienna dove riuscì a trovare lavoro in
una ditta specializzata nella pulizia dei camini. Vi lavorò per alcuni anni prima di mettersi in proprio allorché gli venne offerta la possibilità di coprire quale spazzacamino il distretto di Kaltenleutgeben alla periferia di Vienna dove nel frattempo si era stabilito con la famiglia. Contemporaneamente il figlio Ludwig si era pure avviato alla professione di spazzacamino seguendo la formazione dall’apprendistato fino all’ottenimento della maestria che gli permise nel 1919, alla morte del padre, di continuare l’attività della piccola azienda familiare. Ludwig ebbe a sua volta un figlio, di nome Hans, nato nel 1931, che pure continuò la tradizione professionale di famiglia, in fondo più per necessità che per scelta spontanea. La seconda guerra mondiale era appena terminata e la situazione, ricorda
Raduno internazionale dello spazzacamino In programma da venerdì 30 agosto a lunedì 2 settembre 2019 la 38esima edizione del Raduno Internazionale dello Spazzacamino è un appuntamento storico. Ogni anno la Val Vigezzo è animata da ricordi, musica, racconti e dalla tradizionale sfilata degli spazzacamini provenienti da tutto il mondo. Sono più di mille gli spazzacamini, accompagnati dagli attrezzi del mestiere, colorati di fuliggine sui volti e con gli abiti di lavoro tradizio-
nali (tutti neri, tranne per la delegazione olandese, che si differenzia da sempre con la propria divisa di un candido bianco), che si danno appuntamento a Santa Maria Maggiore, dove le loro tradizioni, storie autentiche e drammatiche sono custodite nel Museo dello Spazzacamino. Informazioni
www.santamariamaggiore.info
Hans Leoni, era catastrofica. Sul mercato del lavoro infatti mancava la manodopera; gran parte degli uomini era morta al fronte sicché Hans ritenne un dovere imprescindibile aiutare il padre nel suo lavoro. Ottenuto il diploma di maestria quale spazzacamino egli iniziò a lavorare nella piccola azienda paterna di cui assunse la gestione succedendo alla morte del padre nel 1952. Ancora oggi riaffiorano nella sua memoria le ristrettezze, le sofferenze e le paure vissute durante la guerra quando rievoca i bombardamenti aerei su Vienna, le ripetute interruzioni delle lezioni di scuola e le ore trascorse nei rifugi antiaerei nonché i frequenti cambiamenti di sede scolastica dal centro cittadino verso la campagna, siccome gli edifici scolastici venivano adibiti a lazzaretti. Con un profondo senso di riconoscenza verso il nostro Paese rammenta le regolari distribuzioni, al termine del conflitto mondiale, di pacchi dono di generi alimentari provenienti dalla Svizzera, un sollievo per molti abitanti. A differenza dei suoi antenati che con il cantone di origine hanno tenuto contatti molto sporadici, Hans Leoni ha riallacciato i legami con il Ticino che più volte ha visitato, riannodando relazioni di parentela, e soprattutto frequentando i raduni che le associazioni professionali organizzavano al museo degli spazzacamini a Santa Maria in Val Vigezzo. Un’occasione questa che gli ha consentito di scoprire momenti della storia dell’emigrazione ti-
Hans Leoni (a destra) con il padre Ludwig.
cinese e in particolare il tristissimo capitolo dello sfruttamento di minorenni quali spazzacamini. Hans Leoni ha deposto gli attrezzi di lavoro nel 1996 a 65 anni. Con lui finisce la generazione degli spazzacamini della sua famiglia, avendo suo figlio preferito avviarsi agli
studi accademici. Ma probabilmente si esaurisce con i Leoni la presenza di spazzacamini ticinesi nella capitale austriaca non essendoci testimonianze, a sua conoscenza, di altri emigranti ticinesi operanti a Vienna in questa professione. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 luglio 2019 • N. 30
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Società e Territorio
Stare insieme in famiglia
Psicologia I genitori dovrebbero educare i bambini allo stare insieme fin dalla nascita: un lavoro di «senso
di appartenenza familiare» indispensabile per il benessere individuale come spiega lo psicologo Pierre Kahn
Ci troviamo circa a metà delle tanto agognate vacanze estive dei nostri bambini o ragazzi. Un periodo relativamente lungo, caratterizzato da un ritmo diverso da quello del resto dell’anno e che comporta il fatto di passare più tempo assieme, sia a casa che quando si parte per la meta prescelta per le ferie. Queste considerazioni ci hanno portato a riflettere sul concetto di «stare insieme in famiglia» e sulla necessità di educare i propri figli in tal senso. La famiglia non è infatti qualcosa di acquisito – per mezzo dei vincoli di sangue che ne accomunano i membri – ma qualcosa che va costruito e coltivato. Di queste tematiche abbiamo parlato con lo psicologo e psicoterapeuta Pierre Kahn, che esercita nel suo studio di Mendrisio. Signor Kahn, nel suo lavoro lei applica una psicoterapia sistemica. In che misura essa è pertinente con il tema di cui vogliamo parlare?
Il mio modello di lavoro come psicoterapeuta diventa, in questo caso, una sorta di griglia di lettura, dal momento che considera la famiglia come un sistema, composto da singole persone: se funziona bene, i singoli ne beneficiano per la loro crescita, rinforzando al contempo il sistema stesso. Si parla in questo caso di «auto-rinforzo reciproco», un concetto sicuramente importante in relazione al tema di cui ci stiamo occupando. E a tal proposito, cominciamo con l’esplicitare perché è importante educare i bambini allo stare insieme in famiglia…
Ciò è importante sia per il loro sviluppo individuale, sia per accrescere il loro sentimento di appartenenza, protezione e benessere. Nel 1954 lo psicologo Abraham Maslow propose un modello motivazionale dello sviluppo umano basato su una gerarchia di bisogni, nel quale la soddisfazione di quelli più elementari è la condizione per fare emergere quelli di ordine superiore. In questa piramide dove si situa la tematica che stiamo trattando?
Alla base della Piramide di Maslow ci sono i bisogni primari, fisiologici. Con il nostro tema, ci situiamo al secondo e terzo livello, rispettivamente quello della sicurezza fisica e psicologica e quello dell’appartenenza e dell’affettività familiare. Ricevere risposta a questi bisogni risulta indispensabile per raggiungere i livelli più alti della piramide, quello relativo all’autostima e quello nel quale il soggetto potrà realizzarsi attraverso dei progetti sognati, attendibili e possibili. Questo perché nel frattempo avrà imparato nel sistema familiare la moralità e altri valori come la creatività e la capacità di risolvere situazioni difficili.
to. Se però abbiamo seminato bene, abbiamo cioè instaurato una relazione significativa prima, questo momento passerà e ci sarà di nuovo il piacere di stare assieme. Bisogna saper essere pazienti. Ai genitori consiglio sempre di non scoraggiarsi ma di continuare ad esprimersi, di dire la loro, di dare i propri consigli senza aspettarsi che i figli li seguano immediatamente come succedeva quando avevano sei o sette anni. Però loro sono in ascolto e ne tengono conto; registrano, elaborano e modificano. Questa è la mia esperienza con gli adolescenti.
Vista l’importanza dell’educazione allo stare insieme, concretamente, in che modo essa va attuata?
Implicando quotidianamente i bambini – naturalmente tenendo conto della loro età – in tutti gli aspetti dello stare insieme. E con questo intendo nei momenti belli, condividendo e spiegando, ma pure in quelli difficili, che diventano esperienza del dolore momentaneo che ci può essere in qualsiasi situazione e di come esso possa venir superato. Questo lavoro di «senso di appartenenza familiare», ma anche di benessere individuale, va intrapreso fin dalla nascita del bambino. Se ciò non avviene, avremmo – prendendo l’immagine della casa – delle fondamenta fragili, che potrebbero crollare nel tempo. Con quali rischi evolutivi?
Inizialmente i rischi riguardano la visione o la «lettura» che il bambino ha del proprio sistema di appartenenza. Concretamente, egli potrebbe cominciare ad avere pensieri del tipo «devo contare solo su di me» oppure «è meglio non contare sugli altri» che possono portarlo troppo precocemente da un lato a distanziarsi dagli altri, dall’altro a sovrastimarsi, o ancora ad evitare le relazioni perché fonte di indifferenza da parte dell’altro o di sofferenza più che di piacere. Gli mancherà inoltre probabilmente il valore del rispetto reciproco e la capacità di immedesimarsi nell’altro. Un individuo con questo tipo di vissuto farà poi verosimilmente fatica a salire i piani della piramide di Maslow di cui parlavamo e rischierà
Marka
Alessandra Ostini Sutto
di perdere dei pezzi essenziali per la sua costruzione individuale coerente evolutiva.
Dall’altro lato invece in che modo i momenti di qualità trascorsi in famiglia possono influenzare lo sviluppo psicofisico dei bambini?
Questi momenti influenzano la crescita individuale, in particolare il sentirsi sicuri, capiti, accettati, capaci, ma anche il piacere di stare assieme e di condividere i vari aspetti della vita di tutti giorni.
Lo stare insieme cambia nel tempo; qual è la situazione attuale e da quali fattori è principalmente influenzata?
Lo stare assieme è effettivamente molto cambiato rispetto al passato. Nelle famiglie patriarcali o matriarcali, per esempio, era legato al podere, quindi ad una situazione economica determinante per la coesione del nucleo familiare. I figli, allora, erano una necessità, per avere forza lavoro e per la successione. Oggi, al contrario, sono spesso visti come un onere finanziario gravoso, quasi un lusso. Le statistiche di nascita, perlomeno in Europa, ci danno la misura di questa affermazione. Oggi, inoltre, bisogna voler stare assieme. Bisogna cioè creare un progetto di vita familiare e avere la volontà di condividerlo.
In che misura, nelle odierne famiglie, i dispositivi elettronici influenzano lo stare assieme?
Essi possono indubbiamente essere un freno o un ostacolo alle relazioni. Dal mio punto di vista quindi più tardi arrivano nella vita del bambino meglio è. Considerando però che la tendenza in atto è l’esatto opposto, diventa fondamentale il ruolo limitativo dell’adulto, che deve educare il bambino a gestire questi strumenti, sia in termini di qualità che di quantità di tempo, ma soprattutto deve attivarsi per creare delle alternative accattivanti che riescano a fare emergere il piacere di stare insieme senza questi mezzi. Dal punto di vista dei genitori, sembra più facile proporre delle attività per stare assieme quando i bambini sono piccoli piuttosto che, per esempio, durante l’adolescenza. Che consigli si sente di dare a riguardo?
Innanzitutto ribadisco che è anche in vista di queste fasi critiche che vanno poste delle basi solide durante la prima infanzia. Detto ciò, effettivamente, nell’adolescenza, per questa e per altre tematiche, ci può essere un momento di apparente «rottura» o comunque di forte contrasto, che può portare il genitore a pensare che tutto quanto costruito in precedenza sia sbaglia-
Tra le attuali tendenze, c’è quella di occupare molto del tempo libero dei figli, con la conseguenza che i genitori assumono un ruolo passivo, di «accompagnatori»…
Fare svolgere delle attività ai figli – fisiche, creative, musicali,... – permette al bambino di fare nuove esperienze esplorative, stare e confrontarsi con gli altri, misurarsi con se stesso. Le attività extra-scolastiche possono, tra l’altro, essere degli ottimi antidoti ai dispositivi elettronici di cui parlavamo prima, a patto, ovviamente, di non essere dei semplici riempitivi. In questo ambito, il tragitto per accompagnare i figli, che ha spesso una connotazione negativa, dovrebbe invece essere visto come un’occasione di scambio, di confidenze, di rassicurazione, comunque come un momento di condivisione.
Signor Kahn, lei è padre di due figli, poco meno che trentenni. Come giudica la sua esperienza genitoriale nell’ottica del tema di cui ci stiamo occupando?
Io ho sempre sostenuto un «mio» concetto: mi sono sempre detto, ho sempre detto a mia moglie e anche i nostri figli, che quando avrebbero avuto una certa maturità, sarebbe arrivato il momento in cui loro avrebbero potuto giudicare il nostro operato e in cui gli eventuali nodi sarebbero venuti al pettine. Questo significa che bisogna investire tanto, dare il meglio, anche in funzione di questo momento. Perché superare questo esame dà una gioia enorme e ricompensa i tanti sacrifici fatti.
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Società e Territorio
Tecnoscienze: realtà e ambiguità Tempi moderni Salvaguardare la distinzione tra scienza «pura» e scienza «applicata», cioè tecnica,
è fondamentale per non perdere di vista il valore della conoscenza Massimo Negrotti Il termine «tecnoscienze», introdotto da Gilbert Hottois circa cinquanta anni fa, riflette una situazione reale e, allo stesso tempo, introduce una rischiosa ambiguità con cui è bene fare i conti. In effetti, molti sostengono che sia tramontata l’era della separazione concettuale, entrata in uso nel secolo scorso, fra scienza «pura» e scienza «applicata» per il semplice fatto che la seconda, che può intendersi come sinonimo di «tecnica», appare da molti decenni come dominante. Tale dominanza non consisterebbe solo nell’evidente rilevanza che la tecnica e i suoi oggetti o servizi esercitano sulla vita quotidiana in ogni suo aspetto, poiché i suoi sviluppi riguardano e condizionano anche la stessa scienza di base. D’altra parte, una simile posizione sottolinea con eccessiva enfasi una circostanza che, di per sé, è del tutto ovvia. Si tratta del fatto che, nelle sue fasi sperimentali, ovviamente la scienza non può che fare uso di strumenti e dispositivi che le sono forniti dalla tecnica. Ciò che si dimentica è che l’intera storia della scienza mostra come, per conoscere il mondo naturale, l’uomo non può limitarsi alla costruzione di teorie ma deve vedersela con la realtà delle cose ed è proprio su questa necessità che si è fondata la rivoluzione galileana. >Esattamente come fece Galileo – quando nel 1609 venne a sapere dell’invenzione del telescopio da parte di Hans Lippershey – molti scienziati del passato e contemporanei progettano o modificano gli strumenti di cui hanno bisogno. Il rapporto fra scienza e tecnica si è poi andato istituzionalizzando nelle università, nelle quali le facoltà scientifiche venivano separate da quelle tecniche pur mantenendo rapporti di mutua collaborazione. La novità più considerevole, semmai, sta nel fatto che la collaborazione si è fatta sempre più stretta. Sempre più spesso, infatti, non solo gli scienziati «commissionano» ai tecnici dispostivi aventi caratteristiche desiderate (e funzionali alle proprie teorie), ma gli stessi tecnici sono sempre più attenti agli avanzamenti della scien-
Il telescopio dell’Osservatorio Leopold Figl dell’Università di Vienna: la scienza non può fare a meno degli strumenti e dei dispositivi forniti dalla tecnica. (Wikipedia)
za. Inoltre, nel loro lavoro, i tecnici non raramente pongono in essere oggetti e processi sui quali la scienza è chiamata a fornire spiegazioni. Come ho già osservato recentemente (Noi e il futuro delle cose, 10/12/2018) la distanza temporale fra una invenzione tecnica e la scoperta scientifica che ne dà spiegazione tende a divenire negativa, nel senso che talvolta viene prima l’applicazione e poi la spiegazione dei fenomeni naturali sottostanti. Per esempio, numerosi studi fisiologici o ambientali sono stati indotti dalla diffusione di prodotti tecnici di largo consumo, come automobili o computer, elettrodomestici o farmaci. È poi inevitabile il riferimento ai viaggi
spaziali, nei quali le procedure e gli strumenti tecnici generano grandi quantità di problemi scientificamente rilevanti. La nascita di una specifica «scienza dei materiali», che si occupa dello studio e della progettazione di nuovi materiali, infine, testimonia l’intima relazione fra ricerca di base e ricerca applicata. Tuttavia la separazione rimane e non riguarda solo le attitudini dei ricercatori e dei progettisti o le diverse tradizioni delle facoltà universitarie. Il riferimento rimane la distinzione di principio, che risale a Hume e Kant, fra il sein e il sollen il quale indica come studiare le cose della natura sia cosa diversa dal cercare di cambiarle.
Lo sviluppo scientifico degli ultimi due secoli, soprattutto l’avvento della fisica quantistica, ha posto in evidenza come lo studio della realtà naturale implichi qualche modificazione dell’oggetto sottoposto ad osservazione. Ciò è inevitabile per il fatto stesso che l’impiego di strumenti di manipolazione delle cose studiate, anche nel caso di oggetti macroscopici, possono modificarne alcune caratteristiche. In qualsiasi laboratorio, per esempio, le interazioni fra e con gli strumenti istituiscono un contesto nel quale l’oggetto studiato può presentarsi in modo diverso da quello in cui presumibilmente si trova in vivo. Tutto questo ci porterebbe lontano poiché solleva complesse
questioni filosofiche circa l’oggettività e la verità. Sarà sufficiente sottolineare il fatto che, se la scienza sottopone a qualche modificazione la realtà e se la tecnica lo fa espressamente, ciò non significa che esse siano due attività convergenti. Poiché il fine della scienza è stabilire come stanno le cose, la sua tendenza ineliminabile a modificarle in qualche misura viene assunta come un limite e una costrizione laddove, invece, per la tecnica, la modificazione è esattamente ciò che si desidera. Per questo gran parte delle metodiche scientifiche – in biologia come in astronomia, in fisiologia come in psicologia – è tesa a cercare di mitigare il più possibile l’effetto degli strumenti adottati mentre nella progettazione tecnica sono proprio questi effetti ad essere al centro dell’interesse. C’è infine un’ulteriore differenza che non va sottovalutata e che ha a che fare con il tempo. La ricerca scientifica non ha quasi mai scadenze ravvicinate. Molto spesso essa non sa nemmeno anticipare se e quali applicazioni potranno derivare da possibili nuove conoscenze. Al contrario, la tecnica ha sempre a che fare con scadenze precise e non raramente addirittura urgenti. Ambedue, inoltre, fanno largo ricorso alla «teoria», poiché anche un progetto tecnico, quando è innovativo, si regge su qualche visione secondo la quale le cose, se messe assieme come vuole il progetto, «dovrebbero» comportarsi in un certo modo piuttosto che in un altro. In questo senso pragmatico, quindi, si può legittimamente sostenere che anche la tecnica genera conoscenza. Ma la teoria scientifica, soprattutto quella delle scienze più mature e «speculative», accetta e si confronta direttamente con la decifrazione del mondo naturale piuttosto che assumerlo come interlocutore da persuadere in modo che risponda ai nostri bisogni. Salvaguardare la distinzione, quanto meno ideale, di cui abbiamo parlato, è dunque un obiettivo estremamente importante per una società la cui cultura non voglia perdere di vista il valore della conoscenza. Che è sì molteplice, ma perfettamente distinguibile.
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Società e Territorio Rubriche
Lo specchio dei tempi di Franco Zambelloni Il complesso di Caino Le cronache quotidiane danno con grande frequenza notizie di episodi di violenza: casi di violenze domestiche, scontri fra bande giovanili, aggressioni verbali o fisiche, risse degli hooligans negli stadi… Nel distretto di Lugano, nel primo trimestre di quest’anno, le forze dell’ordine sono dovute intervenire novantun volte per casi di violenza domestica: un fenomeno che, a quanto pare, fa registrare una crescita. E proprio per questo dallo scorso novembre la polizia luganese ha designato un agente appositamente preposto a questa problematica. Anche dal Consultorio delle donne vengono segnali preoccupanti: le donne che in Ticino hanno chiesto aiuto lo scorso anno, denunciando percosse e abusi dal parte del compagno, sono aumentate del 32% rispetto all’anno precedente. In Francia, come informava «Le Monde» pochi giorni fa, il femminicidio è diventato una «urgenza nazionale»:
dall’inizio dell’anno si sono avute 73 vittime. A che si deve questa crescita della violenza? Ovviamente, non è affatto detto che il fenomeno sia tipico del nostro tempo: l’aggressività e la violenza percorrono tutta la storia dell’uomo e, anzi, uno studioso come Steven Pinker ha potuto scrivere un libro dal titolo Il declino della violenza. Sulla base di dati d’archivio, Pinker dimostra che un calo della violenza rispetto a epoche passate esiste, e può addirittura essere quantificato. È ovvio che il potenziamento delle normative giuridiche, dei servizi di polizia e delle istituzioni giudiziarie ha contribuito a contenere e a ridurre le forme di aggressione: non a caso Freud scriveva, nel 1915, che lo Stato ha vietato a ogni individuo l’uso della forza non perché la voglia abolire, ma perché ne vuole avere il monopolio, come del tabacco. Ma – per quanto possa sembrare pa-
radossale – è appunto sul tema della giustizia che occorre soffermarsi per comprendere, almeno in parte, la tendenza umana alla violenza. Sono stati condotti molti esperimenti che dimostrano come il senso della giustizia si debba considerare innato in ogni individuo. Ad esempio, ad un bambino di poco più di un anno vengono mostrati tre pupazzi che, manovrati opportunamente, recitano una scenetta: il pupazzo al centro della scena lancia una palla a quello di destra, che poi gliela ripassa. Poi la palla viene data al pupazzo di sinistra, che però scappa portandosela via. Alla fine della scenetta il pupazzo «buono» e quello «cattivo» sono stati mostrati al bambino; di fronte a entrambi era stato messo un dolcetto, e al bimbo è stato chiesto di prenderne uno. Come previsto (e come ha fatto la maggior parte dei bambini sottoposti all’esperimento), il piccolo ha preso il dolce del
personaggio «cattivo», quello che era scappato con la palla. Non contento, si è proteso verso quel pupazzo per colpirlo sulla testa. Possiamo dunque pensare che «buoni si nasce» (come dice il titolo del libro di Bloom dal quale ho tratto questo esempio): il bisogno di giustizia ce lo portiamo dentro, fin dai primi anni di vita. E questo, forse, può aiutarci a capire anche molte esplosioni di violenza. Supponiamo di essere in coda da una decina di minuti per arrivare a uno sportello, e la fila lì davanti fa capire che l’attesa sarà ancora lunga; ed ecco che arriva di fretta un tale che passa di lato, e poi s’infila con prepotenza tra i primi posti: la voglia di tirargli una sberla di sicuro la si prova, anche se, da persone civili, ovviamente ci si trattiene. Quando poi l’ingiustizia subita è avvertita come ben più grave, l’impulso naturale alla vendetta può prevalere. Un uomo che viene arrestato per aver ferito l’aman-
te della moglie è – dal punto di vista della legge – un aggressore e l’amante è la vittima; ma, dal punto di vista del marito, è lui la vittima, e l’amante è l’aggressore. Proprio per questo, annota Pinker, «la maggior parte degli omicidi sono in realtà casi di pena capitale in cui da giudice, giuria e boia funge un privato cittadino». Oggi, poi, in un’epoca di narcisismo dilagante, anche una ferita all’orgoglio o il non sentirsi apprezzati come si vorrebbe possono indurre a «fare giustizia»: se i tifosi di una squadra perdente se la prendono con l’arbitro o con chi tifa per l’avversario, è anche perché la sconfitta è un oltraggio personale che chiede vendetta. In fondo, è così da sempre. Caino fu il primogenito di Adamo ed Eva; poi nacque Abele. Entrambi i fratelli rendevano sacrifici a Dio, ma Dio apprezzava solo quelli di Abele (nel testo biblico non si dice perché): così Caino uccise suo fratello.
bellezza del legno antico al naturale. Graziosi il cardine e la cerniera in ferro battuto a forma di rapa, non male la presenza di una finestrella con vista. Passeggio così un po’, a piedi nudi, sulle assi di questo stabilimento balneare lacustre disegnato dall’architetto Karl Köpplin e regno di Anni Görtz per trentaquattro anni: hotdog e birchermüesli le sue specialità. I tuffi verticali all’indietro sono invece stati la specialità di Lotti Garbe. Un nome da attrice e una vita divisa tra gli uffici amministrativi della Roco – fabbrica di conserve nota per i ravioli in scatola – e la capanna balneare. Dove fino all’età di ottantasei anni la si poteva vedere tuffarsi elegantemente in acqua con una capriola. A rana nuoto nel lago di Costanza conosciuto anche molto come Bodensee o meno come lago Bodanico che bagna, si sa, ma non si sa mai, anche Austria e Germania. Il mio intento è salire sulla zattera presidiata dai gabbiani accovacciati, ma volando via svelano la loro mappatura di escrementi. Lasciando perdere possibili macchie
di Rorschach ulteriori in natura, continuo a nuotare. Il cocktail della casa è composto da gin, succo di pompelmo, acqua tonica, wondersirup. «Sciroppo di rosa» mi dice Béatrice rivelando il quarto elemento del Rosalyn da cui trae il nome. Mi accontento di un Rakete: il ghiacciolo a forma di razzo spaziale nato proprio qui a Rorschach l’estate del 1969, in onore dell’allunaggio del venti luglio. Ai gusti di arancia e ananas, ricoperto sulla punta di cioccolato, è infatti della Frisco, costola della Roco, acronimo tra l’altro, credo, di Rorschach e conserve. Addento dunque il Rakete che in questi giorni compie mezzo secolo, al quale però ho quasi sempre preferito il Winnetou, e sprofondo in una sedia a sdraio. Il panorama lacustre della costa tedesca è solo una striscia indistinta di azzurro narcotizzante. Mentre è ormai solo un ricordo il Napoli, ghiacciolo tricolore risalente al 1974 ed estinto nel 1990. Ma il vero indimenticato, in questo pomeriggio di metà luglio, rimane il pernicioso e impareggiabile Vampir.
contriamo rallentando i nostri ritmi anche online e dandoci la possibilità di osservare cose, contenuti che non avremmo mai pensato di trovare, contenuti ai quali nessun altro prima aveva prestato attenzione. Un po’ come dovremmo fare nella vita reale che invece è sempre più programmata e compressa e il tempo per rallentare, il momento della sorpresa, sono ormai una rarità (ma ci si può sempre provare). Detto in altre parole, in un mondo nel quale ogni volta che abbiamo un momento libero qualcuno sembra volerselo accaparrare, per sopravvivere è fondamentale apprendere l’arte dell’attenzione verso ciò che è importante per noi, il nostro modo di essere, di pensare e di vivere sia on che offline. Ogni volta che ricevo Smarter Living, complici anche i titoli e le immagini che definiscono ogni pezzo, sono curiosa di cosa leggerò.
E preservare, mantenere viva la curiosità nei propri lettori è vitale. Sono sempre più convinta che il tempo in cui viviamo, questa società connessa che definiamo, nella quale abitiamo e per la quale non abbiamo ancora trovato le ottimali regole di convivenza e sopravvivenza, ci dia la possibilità di essere ciò che preferiamo scegliendo tra innumerevoli possibilità. Informarsi non è mai stato così bello. Che sia sul digitale o sul cartaceo è secondario, ciò che conta è la possibilità di scelta unita alla consapevolezza del valore e dell’autorevolezza delle fonti alle quali attingo e al loro sforzo di venire incontro alle mie esigenze mantenendo viva, appunto, la mia curiosità. Perché alla curiosità si accompagna la mia disponibilità a leggere, capire, confrontarmi e, più concretamente, ad acquistare un contenuto o un intero giornale.
A due passi di Oliver Scharpf La capanna balneare di Rorschach L’alchemilla, in una piccola caraffa di vetro accanto allo zucchero di canna, accoglie chi si siede a uno di questi dieci tavoli sospesi sul lago di Costanza. I suoi fiorellini giallo-verdognoli sono a corimbo, la giornata nuvolosa, la cameriera sorridente. Tre i tavoli in metallo che si affacciano sul rettangolo d’acqua ritagliato dentro la Badhütte di Rorschach (397 m). Comune del canton San Gallo dove non ero mai stato che mi ha sempre fatto venire in mente, per prima cosa, le macchie di Rorschach. L’acqua è verdastra: due erbacce acquatiche, crescendo quasi fino in superficie, ondeggiano simmetriche e sireniche. L’omonimia tra il toponimo sangallese e lo psichiatra zurighese inventore del noto test psicologico proiettivo scandito in dieci tavole e ispirato dalla kleksografia – disegni ottenuti da macchie d’inchiostro piegate e dispiegate creando una simmetria – ormai è radicata. Come pure la convinzione che Hermann Rorschach (1884-1922), in una fotoritratto, assomigli come una goccia d’acqua
a Brad Pitt. Il legno di questa incantevole capanna balneare inaugurata nell’estate del 1924, spennellato di scuro, ricorda gli chalet imbruniti dai secoli intravisti dal treno una volta scendendo nella valle di Goms. Ma c’è anche una certa assonanza con le capanne degli orti condivisi che non mi perdo mai di mangiare con gli occhi, da una vita, ogni volta che passo via in treno. Mentre prima, camminando sul lungolago, per un attimo ha richiamato il ponte coperto di Lucerna. Oltre alle assi di legno, la stessa sospensione e il tetto a scandole di cotto. Qui il tetto a capanna è molto spiovente, due finestrelle incorniciate di bianco occhieggiano da un abbaino. Una vecchia esce dall’acqua con l’aria di chi compie quest’azione tutti i giorni alla stessa ora. Sulla lavagna spicca un cocktail di nome Rosalyn. Béatrice – la cameriera che in realtà è al contempo la gerente da tre stagioni di questo luogo fuori dal tempo considerato qui a Rorschach un po’ un’istituzione – mi porta il tè freddo e il pane integrale. Ho ordinato una
zuppa di carote, curcuma, e non ho capito bene ancora di cosa. Tra le assi s’intravede il colore dell’acqua. Nel tè freddo fatto in casa naviga uno spicchio di limone e un ciuffo di menta. Di menta qui ce n’è per i beati: otto vasi di menta rigogliosa vivono silenziosamente sopra due panchine sistemate ad angolo retto. Davanti alla fila di menta a sinistra dell’entrata, lungo le prime cabine, è seduta la vecchia nuotatrice ammantata con un asciugamano e le gambe distese su un altra sedia. Beve un caffè e fuma muratti. Altri pensionati con giacche a vento ad altri tavoli mangiano insalate e camembert. Un papà divora il suo hotdog annaffiato da una birra con il figlio incompreso e introverso in crisi adolescenziale. Ottima la zuppa, cosparsa di erba cipollina. Torta di albicocche con panna accompagnata da un caffè tazza grande da detective americano, poi via. Nella cabina numero quindici a spogliarsi e mettersi il costume da bagno con su non so quante ninfee. La cabina, spaziosa, mostra tutta la
La società connessa di Natascha Fioretti Preservare la curiosità dei lettori Scrivevo qualche settimana fa su queste pagine quanto sia importante un giornalismo che onori l’intelligenza dei lettori e coltivi ogni giorno – in ogni sua azione e iniziativa editoriale – il rapporto con loro. Questo significa anche domandarsi di che cosa i lettori hanno bisogno, cosa cercano, quali notizie sono di loro interesse in una società che vive di cambiamento, di costanti sollecitazioni in un continuo rimescolamento delle carte. Che un giornale sia cartaceo, digitale, o entrambi, non fa differenza, questi principi dovrebbero valere per ogni testata, direttore e redattore ed essere per ognuno i punti cardini del mestiere. Vi racconto un esempio che mi ha colpita, ve ne racconterò altri nelle prossime puntate. Si tratta di Smarter Living – Vivere in modo più intelligente – del «New York Times», una rubrica che esiste già da qualche
tempo e ho scoperto per caso in una delle mie peregrinazioni virtuali. Il titolo così semplice, così attuale mi ha conquistata subito. L’idea di Tim Herrera, ex giornalista del «Washington Post», esperto di cultura digitale consiste nel pubblicare e curare storie che aiutano i lettori a vivere meglio, a condurre una vita realizzata e appagante. Se siete interessati a questo link www.nytimes.com/by/tim-herrera trovate tutti i contenuti finora pubblicati e così come ho fatto io potrete iscrivervi alla Newsletter settimanale che arriva nella vostra casella ogni lunedì. Trovate di tutto, dalle conversazioni semiserie sui benefici di un pisolino sul posto di lavoro senza dovervi vergognare ai consigli pratici su come risparmiare e fare attenzione ai vostri soldi a quelli più intimi ed esistenziali del tipo: investite le vostre energie nelle relazioni umane che vi
stanno a cuore. Oggi è lunedì e mentre scrivo ricevo una nuova edizione. Il tema è perfetto «Non state prestando attenzione e invece dovreste». Penserete alla solita litania per cui essere più attenti e concentrati fa il paio con essere disconnessi. Non è così, o meglio, non è questo il punto. Il punto è come riuscire a stare attenti, dare il giusto peso alle cose importanti quando siamo in Rete perché pensare di farne a meno è ormai impossibile o, meglio, equivale a perdere una fetta di conversazione che accade, esiste e va in onda ogni giorno. È importante saper stare in Rete nel modo giusto, far sì che la nostra presenza sia in qualche modo virtuosa per noi e per gli altri. Ed ecco che la rubrica di Tim Herrera ci dà una serie di consigli e di strategie che si possono applicare per fare attenzione e, al tempo stesso, lasciarci sorprendere da ciò che in-
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Ambiente e Benessere Quanto è radioattivo il Ticino? Dopo l’incidente di Chernobyl sono state introdotte misurazioni di monitoraggio sui livelli di radioattività ambientale per suolo, vegetazione e derrate alimentari
Un bacino prezioso Specifici aspetti socio-culturali caratterizzano il Lago Malawi, nel sud-est africano
Piacere e danno del turismo Le navi da crociera hanno probabilmente superato il loro limite di sostenibilità pagina 21
Contrabbandi a Broadstairs Terra di astuti trafficanti attivi nel commercio illecito, ma anche memoria di Dickens
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Salute allo specchio Prendersi cura L’estetica in aiuto di chi
sta affrontando una terapia oncologica
Maria Grazia Buletti «Ho passato un’ora molto piacevole, assolutamente a mio agio e rilassata. Ho inoltre ricevuto degli ottimi consigli per il mio aspetto esteriore, ma soprattutto rivolti a una tranquillità interiore. Esperienza molto, molto positiva»; «Un’ora di assoluto benessere: a parte la competenza e la professionalità di Leila, è un servizio fantastico non solo per la “pelle”, ma anche per lo spirito, in un percorso particolarmente “pesante” nella vita di una donna (o di un uomo). Grazie!». Leila Fedulov è laureata in pedagogia curativa clinica e si occupa di estetica oncologica alla Clinica Sant’Anna di Sorengo, e questi pensieri di gratitudine le sono stati rivolti da due delle tante pazienti che si sono affidate a lei. Persone che stanno facendo un percorso terapeutico in seguito alla scoperta di una malattia che ancora oggi fa paura, ma che spesso si può sconfiggere: il cancro. «Una malattia che, lungo il percorso terapeutico, possiamo combattere anche con un po’ di illuminante (ndr. una sorta di fondotinta) e un accompagnamento che aiuta la paziente (o il paziente) a sentirsi più a suo agio nella propria pelle», esordisce la nostra interlocutrice che una quindicina di anni fa venne interpellata dalla Lega vodese contro il cancro, a Gland dove viveva allora, per approfondire la sua formazione di estetica al servizio dei pazienti oncologici della clinica Genolier. Oggi anche nel canton Ticino si è compresa l’importanza della formazione di estetiste diplomate che dispongano le migliori competenze per poter aiutare, con il loro lavoro e i loro consigli estetici, le persone che stanno affrontando questo tipo di terapie. «Si tratta di andare incontro al desiderio più che lecito di queste pazienti di riuscire a mantenere la propria immagine, la propria personalità, in modo che la malattia non prenda il sopravvento sulla loro individualità» afferma Leila. Il desiderio di sentirsi comunque belli, malgrado i disagi che alcune cure oncologiche comportano, è legittimo e non va interpretato come sinonimo di superficialità: «È importante che queste persone, durante la terapia oncologica, continuino a considerarsi le stesse di sempre e non si riducano a immedesimarsi unicamente con l’essere pazienti: prendersi cura di sé in modo adeguato permette di trovare la forza necessaria per affrontare un percorso faticoso, non certo semplice e spesso in salita».
Allora, gesti semplici come una manicure, un make up leggero ma d’effetto e una crema idratante possono fare la differenza su umore e autostima. Tutto questo ci viene confermato da Simona Gentile, un’altra estetista che ha seguito il percorso di approfondimento professionale che oggi permette pure a lei di essere al servizio di queste particolari pazienti seguite e coccolate, dice: «Anche con semplici accorgimenti, come un aiuto nella scelta del foulard adatto quando i capelli cadono, oppure il sapersi truccare delicatamente quando mancano le sopracciglia, e via dicendo». Sì, perché uno dei grossi compiti dell’estetica oncologica sta nel riuscire a consigliare i trattamenti che permettono di attutire almeno in parte quegli effetti collaterali che comporta una terapia antitumorale, la quale danneggia specialmente la pelle. Difatti, Leila Fedulov conferma: «La pelle è il tessuto che risente di cicatrici e di gonfiori; poi dobbiamo considerare la caduta di sopracciglia, ciglia e capelli, che sulle pazienti può incidere profondamente dal profilo psicologico». Dunque, grazie alla ricerca medica e soprattutto alla collaborazione fra medici curanti ed estetiste specializzate si stanno facendo davvero passi da gigante per attutire il più possibile tutti questi disagi. Simona Gentile ci parla, ad esempio, di correttori, blush e rossetti naturali adatti alla pelle sensibilizzata, ad esempio, dalla radioterapia, così come dei fattori di cui l’estetista oncologica deve tenere conto nel consigliare i trattamenti alle sue pazienti: «Ad esempio, può manifestarsi una lacrimazione aumentata per via della mancanza delle ciglia, possiamo intervenire con creme calmanti e drenanti su un viso un po’ gonfio durante certi tipi di terapie, e via dicendo». Le testimonianze delle pazienti di Leila che abbiamo preso ad esempio, insieme a quanto ci hanno raccontato le due estetiste oncologiche, ci hanno permesso di comprendere che, in tal modo, le donne che ricorrono alla loro competente consulenza potranno sentirsi più vicine a com’erano prima di ammalarsi. Anzi, come le nostre interlocutrici affermano all’unisono: «Quelle che agiamo, sono piccole attenzioni che riescono ad andare oltre la superficie e fanno sentire meglio, a maggior ragione, anche nei momenti più difficili». Di fatto: «Non perdere la voglia di sentirsi belle sollecita l’amor proprio ed è un sintomo di forza, quella forza che permette di andare avanti, di rapportarsi con gli altri, di mostrarsi
Leila Fedulov, pedagoga curativa clinica ed estetista oncologica alla Clinica Sant’Anna di Sorengo. (Vincenzo Cammarata)
così come ci si sente e come si desidera essere considerate dalle persone attorno, anche durante la malattia», spiega Leila. Tra gli esempi concreti a proposito dell’efficacia e soprattutto dei benefici dell’estetica oncologica, «ad esempio, alle donne che a causa della terapia sono prive di sopracciglia, spieghiamo che si può scegliere una pomata anziché la matita e questo può cambiare tutto», racconta Simona a cui fa eco Leila: «Così come è importante conoscere qualche piccolo trucchetto per rendere l’incarnato meno grigio e più sano, più rosa». Il risultato sta in quelle frasi, quei pensieri in ordine sparso che Leila Fedulov raccoglie nel suo Quaderno del cuore: «È un piccolo taccuino su cui
ogni paziente, se lo desidera, mi scrive ciò che il trattamento le ha portato». Ci racconta che alcune le chiedono di essere accompagnate anche in quella fase che segue la fine della terapia, quando tutte le attenzioni si affievoliscono e i riflettori si spengono. Allora le persone si possono sentire un po’ svuotate e sole, e lei le accompagna ancora volentieri: «Le nostre pazienti riusciranno in tal modo a metabolizzare meglio ciò che hanno dovuto affrontare, memori di quando le abbiamo aiutate e accompagnate a superare il dolore fisico e morale che la malattia e le cure inevitabilmente hanno loro inflitto», conclude Leila, ricordandoci quello che Patch Adams aveva già detto: «Se si cura una malattia, si vince o si perde; ma se si
cura una persona, vi garantisco che si vince, si vince sempre, qualunque sia l’esito della terapia».
Video intervista Sul canale Youtube di «Azione» e su www.azione.ch la videointervista a Leila Fedulov, pedagoga curativa.
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Ambiente e Benessere
Misurazioni e controlli «grazie» a Chernobyl
Radioattività I più contaminati sono funghi e cinghiali, ma comunque nulla di pericoloso per la salute
Elia Stampanoni La rete di rilevamento SwissMetNet di MeteoSvizzera conta 160 stazioni di misura automatiche che ogni dieci minuti forniscono numerosi dati meteorologici e climatologici, ma anche altri parametri, tra cui quello relativo alla radioattività, accertato costantemente in una settantina di postazioni distribuite sul territorio. La radioattività ambientale è un parametro che viene oggi monitorato anche a causa dell’incidente di Chernobyl di 33 anni or sono, quando dal reattore nucleare avvenne la dispersione nell’atmosfera di grandi quantità di materiale radioattivo che, vorticando a più di 1200 metri di altezza, in pochi giorni fu trasportato dalle correnti anche in direzione della Svizzera. Se quindi, all’epoca, le prime informazioni circa i danni prodotti dal disastro arrivarono ben dopo l’aumento della radioattività al suolo, oggi grazie al sistema di monitoraggio ci accorgeremmo nel giro di una decina di minuti se un valore dovesse risultare anomalo. In quel periodo non era, infatti, ancora disponibile un controllo continuo e, in collaborazione con la centrale di allarme Nazionale CENAL (l’organo federale competente per gli eventi straordinari), si decise pertanto di implementarlo in alcune delle stazioni meteorologiche di MeteoSvizzera, come a Magadino, Stabio, Piotta, Locarno Monti, Lugano, Vicosoprano, Poschiavo, Santa Maria e San Bernardino. Attualmente, la media registrata nelle varie stazioni e consultabile sul sito della Centrale nazionale d’allarme CENAL, oscilla tra gli 80 e i 260 nanosievert all’ora (nSv/h), l’unità di misura per la radioattività ambientale. Una variabilità dovuta soprattutto a differenze della radiazione naturale, la quale è influenzata principalmente dalla configurazione geologica del suolo e dall’altitudine. Il sistema di sorveglianza viene testato annualmente applicando al sensore una debole fonte radioattiva di cesio 137 che fa immediatamente salire la misura fino a oltre 4000 nSv/h, quindi ben oltre la soglia di 1000 nSv/h, oltre la quale viene generato un allarme inviato direttamente alla centrale. Oltre al monitoraggio continuo sui valori ambientali, sono regolarmente effettuate pure misurazioni su campioni di suolo, vegetazione o derrate alimentari, dato che le particelle emesse il 26 aprile del 1986 a Chernobyl raggiunsero tutta l’Europa e oggi, a 33 anni dal disastro, si misurano ancora tracce radioattive. Oltre all’incidente della centrale sovietica, anche gli esperimenti nucleari degli anni sessanta sono stati una causa delle immissioni su scala mondiale di radionuclidi artificiali nell’ambiente. Degli elementi altamente persistenti, in particolare il cesio-137 (che ha un tempo di dimezzamento di circa 30 anni) e lo stronzio-90 (circa 29 anni) che impiegano quel periodo si tempo prima di decadere in un altro elemento. Le campagne di monitoraggio in Ticino vengono svolte dal Laboratorio cantonale (in collaborazione con l’Uffi-
Azione
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
Monumento alle vittime di Chernobyl e, sullo sfondo, il reattore numero 4 della centrale nucleare, nella zona di alienazione. (www.publicdomainpictures.net)
cio federale della sanità pubblica, Ufsp, per i dati ambientali) che pubblica i dettagli sulle misurazioni della radioattività nel rapporto d’esercizio. Nello stesso si legge come alcuni campioni di terra, erba e latte prelevati nei tre punti fissi del nostro Cantone nel 2018 abbiano presentato dei residui leggermente superiori alla media svizzera, ma fortunatamente non tanto alti da destare preoccupazioni di ordine sanitario. Questo dato, in linea con i valori misurati negli scorsi anni, si giustifica con le maggiori ricadute radioattive in Ticino dopo l’incidente di Cernobyl. Un altro settore implicato nelle misurazioni della radioattività è quello dei funghi selvatici commestibili, essendo questi particolarmente predisposti all’accumulo di cesio-137 grazie
alla loro capacità di assorbire e trattenere l’elemento radioattivo dal terreno, con variazioni che dipendono sia dalla specie sia dal luogo di prelievo. I risultati delle analisi svolte dal Laboratorio cantonale nel 2018 hanno rilevato la presenza di Cs-137 in quasi tutti i funghi nostrani e due superamenti del limite di legge fissato a 600 becquerel per Kg (Bq/kg). Le analisi sono state effettuate su 50 campioni di funghi raccolti su territorio ticinese dai membri dell’Associazione svizzera dei controllori di funghi (Vapko) e appartenenti a sei specie commestibili: Boletus edulis ed erythropus (dei porcini), Xerocomus badius, Rozites caperata, Leccinum scabrum e aurantiacus. Da notare che la presenza del cesio-137 si aggiunge a quella di origine assolutamente natura-
Gli ungulati, soprattutto i cinghiali, in Ticino, sono i più contaminati. (Pixnio.com) Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni
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le di potassio-40 ed entrambi i nuclidi contribuiscono all’esposizione annua alle radiazioni ionizzanti. Dalle analisi emergono due superamenti di cesio-137 nei funghi, ma quali le conseguenze o i rischi per il consumatore? Lo abbiamo chiesto a Nicola Forrer, chimico cantonale aggiunto e vicedirettore del Laboratorio cantonale d’igiene: «I leggeri superamenti del valore massimo hanno riguardato due Xerocomus badius, una specie comunque poco consumata. La presenza del Cs-137 si aggiunge come detto a quella di origine assolutamente naturale del K-40 e in ogni modo la rilevanza dosimetrica della contaminazione radioattiva dovuta al consumo di funghi commestibili selvatici ticinesi è di scarsa importanza. Considerando un consumo medio pro capite di circa 2 kg di funghi freschi all’anno, la dose efficace assunta per ingestione dovuta a questo radionuclide artificiale equivale infatti a 16-32 µSv, pari allo 0,4-0,8% dell’esposizione media della popolazione svizzera alle radiazioni di circa 4000 µSv all’anno (0,61,2% se si considera anche il contributo naturale del potassio-40). Per chi consuma più di due chilogrammi di funghi all’anno, la situazione non è tanto diversa: «Per raggiungere un’esposizione radioattiva rilevante, bisognerebbe consumare circa 60 kg/ anno del fungo più contaminato. Se invece consideriamo il valore medio ritrovato nei funghi analizzati, sarebbe necessario un consumo di 600 kg/anno di funghi per raggiungere una dose radioattiva significativa. In poche parole, l’assunzione dei funghi contaminati (da cesio-137) non ha conseguenze sul-
la salute e i funghi commestibili raccolti sul nostro territorio possono pertanto essere consumati tranquillamente in riferimento alla radioattività». Anche la selvaggina, è risaputo, può essere soggetta ad accumuli di nuclidi radioattivi, data la predisposizione dell’animale a cibarsi anche di funghi, vegetali e radici a loro volta già contaminati: «In particolare i cinghiali – commenta Nicola Forrer – che talvolta si nutrono di specie come il tartufo dei cervi (Elaphomyces granulatus), un fungo non commestibile per l’uomo che cresce in autunno nei boschi specialmente sotto i pini, quasi alla superficie del terreno, e che può assorbire quantità rilevanti di cesio-137 (anche fino a 17’000 Bq/kg)». Il Laboratorio cantonale effettua quindi con regolarità delle verifiche prelevando dei campioni di carne cruda e prodotti derivati di cervo, capriolo, camoscio e cinghiale, sia catturati in Ticino sia d’importazione. Le analisi vengono svolte su prelievi effettuati nelle macellerie, quindi dopo il primo controllo eseguito dall’Ufficio del veterinario cantonale, in collaborazione con la Sezione radioattività ambientale dell’Ufsp. Questa verifica permette già di intercettare ed eliminare gli ungulati, soprattutto i cinghiali, particolarmente contaminati. I 20 campioni esaminati durante l’ultima campagna d’analisi hanno mostrato tracce di Cs137, con una contaminazione media di 38 Bq/kg e valori massimi riscontrati in due carni di cinghiale catturati in Ticino di 136 e 163 Bq/kg, quindi sempre al di sotto del valore massimo di 600 Bq/ kg e, di conseguenza, senza impatto sulla salute dei consumatori.
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Le donne del lago Malawi in cerca di un riscatto sociale
Franco Banfi
Ambiente e Benessere
Reportage Un ecosistema lacuale dai risvolti (etologici, politici, economici) molto complessi – Prima parte
Quando ho iniziato a interessarmi dei pesci ciclidi del lago Malawi, mai mi sarei aspettata che dei pesciolini colorati d’acqua dolce avessero un potenziale sociale, etologico, politico ed economico così complesso e che il lago stesso avesse peculiarità tanto interessanti. Siamo abituati a riconoscere i pesci d’acqua dolce per il loro aspetto spesso poco appariscente, con livree abbastanza monotone se confrontate con quelle dei pesci marini. Al contrario, i ciclidi sono molto colorati, simili ai pesci che abitano le barriere coralline. Avrebbero affascinato anche Charles Darwin, se solo lui avesse avuto modo di studiarli. Sono presenti prevalentemente in Africa e America Latina, e sono abbondanti nei laghi Malawi e Tanganika, dove si sono diversificati in oltre 700 specie riconosciute; ben più numerose delle specie ittiche che si trovano complessivamente in tutti i bacini di acqua dolce europei. Per questo e per altri motivi, i ciclidi hanno suscitato l’interesse di molti ricercatori e ittiologi, come Jay Richard Stauffer Jr., il quale ne ha scoperte ben 60 nuove specie. Il lago Malawi è un bacino enorme, nel cuore dell’Africa (è situato a formare gran parte del confine fra Malawi e Mozambico, e in parte tocca anche la Tanzania), e nel corso dei millenni vi si sono sviluppati ecosistemi tropicali molto particolari. Fa parte della Western Rift Valley (fossa tettonica occidentale) che include alcuni dei più profondi laghi mondiali. Ha una topografia incredibile: pareti verticali che sprofondano soprattutto nella parte a nord, grandi franate rocciose vicino alle coste, molte caverne sommerse. È il terzo lago più profondo (-706 m) della Terra e vanta un altro fenomeno straordinario. È infatti un lago «meromitico», cioè le sue acque sono stratificate in tre livelli che non si mescolano, similmente al lago di Cadagno, nell’area del Ritom, il quale è stratificato in due livelli (con la presenza di acido solfidrico
nel livello inferiore). Nella zona a sud, meno profonda, alcune micro-isole emergono dalla superficie e si scorgono molti scogli a pelo d’acqua (vedi fotografia in basso; su www.azione.ch si trova una galleria più ampia). Questo è il territorio dei ciclidi Mbuna, endemici del lago Malawi, che si nutrono raschiando lo strato di alghe incrostanti, diatomee, microscopici crostacei e larve di insetti, e che trovano protezione dai predatori nelle fessure rocciose. Hanno sviluppato una spiccata aggressività che permette la difesa del territorio e della prole. Proverbiale è il coraggio dimostrato da questi pesciolini nella strenua difesa dagli attacchi dei predatori di taglia maggiore. Le cure parentali sono davvero sorprendenti: le femmine incubano le uova in bocca per circa tre o quattro settimane, durante le quali smettono di alimentarsi. Un’altra tipologia è detta Haps, l’abbreviazione di Haplochromines, anch’essi endemici. Questi raggiungono dimensioni maggiori degli Mbuna e sono molto colorati; comprendono specie che sono in prevalenza abitanti del fondo e delle acque aperte. Il mio primo incontro dal vivo con i ciclidi del Lago Malawi è stato particolarmente fortunato poiché sono riuscita a osservare un’altra strategia comportamentale davvero peculiare, che è condivisa da pochi altri pesci marini, sebbene in modo meno appariscente. È una chiara dimostrazione della forza della natura, degli adattamenti all’ambiente, degli stratagemmi che alcuni animali mettono in atto pur di assicurare il mantenimento della specie. Dopo la schiusa delle uova, i piccoli appena nati restano nella bocca della madre. Quando raggiungono una certa autonomia, lei sceglie accuratamente un’area priva di ogni rischio per consentire loro di uscire, di sgranchirsi, di nuotare, ma resta sempre all’erta per la probabile intrusione di qualche predatore. Se la madre avverte un pericolo per i piccoli pesci, dapprima cerca di scacciare l’intruso, poi – onde
fugare ogni incertezza – spalanca la bocca e loro vi si precipitano, al riparo. Contemporaneamente lei si rifugia fra le spaccature rocciose del fondale. Rilascerà nuovamente i piccoli pesci in un’area più tranquilla e priva di predatori. È emozionante osservare la vivacità dei giovani pesci nuotare vicino al pesce madre, e rifugiarsi nella sua grande bocca al primo accenno di pericolo. Altra considerazione importante è data dalla mancanza di partecipazione delle donne nell’ecosistema acquatico del lago. Il genere (essere nati maschio o femmina) in Malawi discrimina il modo in cui le persone beneficiano di un medesimo ecosistema, così come il ruolo determinante degli ecosistemi nell’alleviare la povertà è condizionato dalle relazioni sociali. Ciò è particolarmente evidente considerando le barriere sociali poste al coinvolgimento delle donne nell’industria ittica, e in special modo in quella di sussistenza, dove esse non hanno alcuna indipendenza economica, né sociale per affrancarsi e migliorare la condizione di vita propria e dei loro figli. L’analisi è basata su una ricerca fatta da Joseph Nagoli, Lucy Binauli e Asafu Chijere, pubblicata nell’agosto dello scorso anno, e condotta in cinque villaggi del lago. Le barriere sociali che impediscono alle donne di
partecipare all’industria ittica sono di natura legale, finanziaria, socio-culturale e di ruolo. In Malawi, oltre due milioni di persone sono impiegate o beneficiano direttamente dalle attività correlate alla filiera ittica, dalla pesca vera e propria, alla lavorazione del pesce, al trasporto, al marketing, alla vendita, e relativo indotto. Nella zona sud del lago, le donne si occupano delle faccende domestiche, della cura dei figli, degli anziani, degli ammalati e dell’agricoltura di sussistenza. Lavorano molto e non percepiscono alcun compenso. Ciò limita maggiormente la loro emancipazione, la possibilità di apprendere un mestiere, di partecipare alla filiera ittica ricavandone un vantaggio economico e, di conseguenza, una migliore condizione di vita. Esse non hanno accesso ad alcuna tipologia di finanziamento per sviluppare una propria attività, che spesso è proibita dalle leggi esistenti. La pesca e la vendita del pescato sono appannaggio degli uomini, mentre la lavorazione del pesce è svolta sia da uomini (per i pesci più pregiati) sia da donne, che si occupano quasi esclusivamente dell’essicazione dei pesci di taglia più piccola. Alle donne non è consentito pescare in acque libere, né lavorare con gli uomini durante la pesca. La raccolta della legna da ardere
Franco Banfi
Sabrina Belloni
per l’essicazione e la vendita del legno sono effettuate dalle donne, mentre il trasporto del pescato – su strada o via lacuale – tocca agli uomini, che trattano con gli acquirenti di maggior peso. Gli uomini sono pertanto coinvolti nelle attività che sviluppano un maggior valore aggiunto. La brutta china di questa situazione è il baratto sessuale. Nei piccoli villaggi costieri, basati su una economia di sussistenza, gli uomini si occupano della pesca e le donne della vendita del pesce agli acquirenti locali. Spesso le donne prendono il pesce con la promessa di pagare il pescatore successivamente alla vendita, che talvolta ha esito negativo. La forma più consueta di estinzione del debito è avere rapporti intimi, che rappresentano un veicolo concreto di diffusione di malattie quali l’HIV. Accade anche quando la quantità di pesce pescato è scarsa e le donne, pur di accaparrarsi cibo per sfamare la propria famiglia, si offrono ai pescatori o agli acquirenti. Oppure anche quando la donna riesce a vendere il pesce ricavando un buon prezzo: in tal caso il pescatore lascia il guadagno alla donna, barattando un rapporto. I pescatori si spostano lungo il lago, in diverse aree, e pertanto portano il pescato in vari villaggi costieri. Quando contraggono le malattie trasmesse sessualmente, loro stessi diventano veicolo di propagazione. Si tratta di situazioni di angoscia e povertà, con ben poche speranze di cambiamento. Trasformazioni stanno invece lentamente avvenendo in alcuni villaggi, dove sono avviati progetti sostenuti da organizzazioni no-profit quali World Connect, le quali offrono garanzie di pagamento degli investimenti. Fra questi, alcune donne intraprendenti hanno costituito una cooperativa per acquistare l’attrezzatura necessaria alla pesca e costruire una propria barca. Sono donne molto motivate, che non temono di contrastare i condizionamenti sociali, culturali e di ruolo che dominano la vita nei villaggi.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 luglio 2019 • N. 30
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Ambiente e Benessere
La non-sostenibilità delle nostre vacanze
Una sterzata inattesa alla vita Bussole Inviti a
Viaggiatori d’Occidente L’inquinamento delle grandi navi da crociera è poco conosciuto
letture per viaggiare
Claudio Visentin
«Un viaggio può cambiare, in positivo, un’esistenza. Proprio come la vita stessa, ciascuna di queste esperienze è unica sia per come è avvenuta, sia per il segno che ha lasciato in chi l’ha vissuta…».
Wolfgang Moroder
Due settimane fa abbiamo visto come una parte importante dei gas serra responsabili del riscaldamento globale sia prodotta dagli aerei, e dunque dal turismo, dato che questa è la motivazione principale di oltre metà dei voli internazionali. Nel poco tempo trascorso qualcosa si è mosso. La compagnia di bandiera olandese KLM ha diffuso un video coraggioso dove invita a volare meno e a preferire il treno se appena è possibile. E se la Francia non ha ancora abolito i voli interni tra città ben collegate dalle ferrovie (ma se n’è discusso), quanto meno ha introdotto dal 2020 un’ecotassa da 1,50 a 18 euro sui biglietti aerei di tutte le compagnie operative da aeroporti francesi. La decisione sostiene anche le ragioni dei gilet gialli: invece di tassare i francesi più poveri, costretti a usare vecchie auto perché abitano in zone poco servite, si colpiscono i benestanti (meno del venti per cento della popolazione mondiale ha volato almeno una volta nella vita), abituati troppo bene dalle compagnie low cost. L’attenzione si è poi spostata sulle grandi navi da crociera, anche in seguito ad alcuni incidenti registrati a Venezia. Il 2 giugno scorso la nave MSC Opera (275 metri di lunghezza per 65mila tonnellate di stazza) ha perso il controllo per un’avaria al motore e ha urtato un’altra imbarcazione con a bordo 130 persone (cinque i feriti), ormeggiata di fianco all’imbarcadero di San Basilio. Pochi giorni fa un secondo incidente è stato sfiorato. La Costa Deliziosa poco dopo la partenza ha «scarrocciato», rischiando di schiantarsi su Riva Sette Martiri e di investire uno yacht. Solo all’ultimo momento i piloti dei rimorchiatori sono riusciti a riprendere il controllo della situazione. La situazione di pericolo era dovuta anche a una forte e improvvisa tempesta di vento, pioggia e grandine; ma sappiamo che proprio il cambiamento climatico produce sem-
pre più spesso queste condizioni metereologiche estreme. Meno noto invece è il contributo delle grandi navi da crociera, all’inquinamento ambientale. Le navi da crociera di ultima generazione sono gigantesche. Se il celebre «Titanic» aveva una stazza di 46mila tonnellate, la più grande nave da crociera al mondo, «Symphony of the Seas», raggiunge le 228mila tonnellate, cinque volte tanto. In pratica è una città galleggiante, con 6680 passeggeri, 2200 membri dell’equipaggio, 16 ponti, 22 ristoranti, 24 piscine, un parco acquatico, un campo da basket e una pista di pattinaggio sul ghiaccio, una parete per scalate… Le navi da crociera non sono moltissime (314 secondo il portale Cruise Market Watch) ma inquinano in misura sproporzionata al loro numero. Per cominciare bruciano il carburante più inquinante conosciuto, l’olio combustibile pesante, un prodotto di scarto della raffinazione vietato su terraferma in moltissime parti del mondo, ma ovviamente di minor costo rispetto al diesel raffinato. Una nave da crociera di medie dimensioni può consumare fino a 250mila litri di carburante al giorno.
Mentre le città limitano la circolazione delle auto diesel, permettono poi a questi giganti del mare di sostare a lungo nei porti coi motori accesi per far funzionare i servizi di bordo. E così nel 2017 le 203 imbarcazioni di lusso che hanno solcato i mari europei hanno emesso 62mila tonnellate di ossidi di zolfo, 155mila tonnellate di ossidi di azoto, 10mila tonnellate di polveri sottili. In particolare, secondo ricerche recenti della ONG Transport & Environment, le circa duecento navi da crociera dislocate nei nostri mari emettono dieci volte più ossido di zolfo dell’intero parco automobilistico europeo, che conta 260 milioni di veicoli. Quasi il 90 per cento delle emissioni avviene mentre le navi sono alla fonda nei porti di città già molto inquinate: Barcellona, la maglia nera. E naturalmente non se la passa per niente bene anche chi sta a bordo e respira a pieni polmoni quella che crede aria pura del mare. Non si tratta di colpevolizzare le crociere o l’industria del turismo. Il vero problema sono le dimensioni eccessive della navi, ormai fuori misura per la maggior parte dei porti, e l’utiliz-
zo di forme di propulsione non sostenibili dal punto di vista ambientale. Come nel caso degli aerei, c’è stato un tempo nel quale inquinare nel cielo o in mare aperto sembrava senza conseguenze, ma quel tempo è passato. Una soluzione provvisoria potrebbe essere un intervento normativo pubblico anche per le navi da crociera. Già oggi le soluzioni disponibili per ridurre le emissioni non mancano, anche solo l’utilizzo di elettricità da terra, così da tenere i motori spenti nei porti. Tanto meglio poi se in futuro, oltre ad adottare motori più efficienti e meno inquinanti, si ridurranno le dimensioni della navi, tornando a un’idea «classica» di crociera. Oggi le grandi navi hanno stanze uguali a quelle degli alberghi e ospitano a bordo l’equivalente di parchi a tema e centri commerciali, tutte esperienze per le quali non occorre certo imbarcarsi. Le navi da crociere di dimensioni minori conservano invece il piacere di navigare in mare aperto, di scendere a terra in città e paesi mai visti prima, di condividere la vita di bordo con un numero ragionevole di persone. C’è molto futuro nel passato.
È il filo conduttore delle cento storie, tutte diverse tra loro, raccolte in questo libro. Per qualcuno quel momento di svolta ha marcato irrimediabilmente un prima e un dopo. Per esempio Matt Philipps sulle rive del Gange capisce lucidamente che la peggior tragedia che possa capitargli non è la morte, quanto piuttosto una vita banale. John Lee approfitta del tempo lentissimo di un viaggio in treno sulla Transiberiana per decidere cosa fare della sua vita: e proprio quei primi appunti del suo diario saranno l’inizio di una nuova carriera di scrittore. Su una remota isola delle Figi un vecchio pescatore rivela a Simon Heptinstall cosa sia davvero ricchezza e povertà. Raggiungendo Tristan da Cunha, l’isola più remota del mondo, sperduta nell’Oceano Atlantico, Lucy Corne realizza il suo sogno di ragazza e stabilisce un legame tra momenti diversi della sua vita. In una mattina a Salamanca come tante, Kait Reynolds sente di aver finalmente superato il muro di estraneità con la Spagna e i suoi abitanti, di essere diventata, almeno un poco, una di loro. A volte invece il senso profondo di un evento si chiarisce solo a distanza di tempo. Andrew McCarthy crolla in ginocchio a metà del Cammino di Santiago e scoppia in un pianto disperato, senza capire perché. Solo il giorno dopo comprende di essersi lasciato alle spalle la paura che sino a quel giorno aveva camminato al suo fianco… / CV Bibliografia
Matt Philipps, Viaggi che cambiano la vita. 100 memorabili esperienze on the road, EDT, 2019, pp. 272, € 25.–. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 luglio 2019 • N. 30
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Ambiente e Benessere
I giorni del contrabbando nella Isle of Thanet
Reportage Un viaggio a Broadstairs, uno dei ritrovi preferiti dei contrabbandieri sulla costa del Kent,
nel sud-est dell’Inghilterra
Botany Bay, con i suoi cunicoli e nascondigli, sede della famosa battaglia che ebbe come protagonista il contrabbandiere Joss Snelling; sul sito www. azione.ch si trova una galleria fotografica più ampia.
Simona Dalla Valle, testo e foto Per la sua vicinanza a Londra e all’Europa continentale e per le sue baie isolate ricche di caverne, durante gran parte del XVIII e XIX secolo, la costa del Kent ha creato le condizioni ideali per lo sviluppo del contrabbando organizzato. Il fenomeno iniziò su larga scala con il traffico illecito di lana e filati verso il continente, dopo che il governo impose tasse sulla loro esportazione nel tentativo di proteggere la produzione di tessuti di lana in Inghilterra. Nel XVIII secolo, il commercio abusivo passò all’importazione illegale di una varietà di beni tra cui gioielli, pizzi, sete e soprattutto tè, vini, liquori e tabacco, dopo che il Governo fu costretto a imporre dazi su questi beni per aumentare le entrate necessarie a combattere una lunga serie di guerre. Il contrabbando rimase al suo apice per un lungo periodo che rientra tra il 1700 e il 1840; si stima che nel 1773, 15mila uomini fossero impegnati nel solo Kent e che dieci anni dopo vi fosse una media giornaliera di 1500 galloni di gin, 450 galloni di brandy e 4 tonnellate e mezza di tè contrabbandati attraverso le regioni di Kent e Sussex. Un’economia sommersa che pervadeva tutti i livelli sociali; secondo alcune voci persino Sir Robert Walpole (Primo Ministro inglese fra il 1721 e il 1742) accumulò gran parte della sua fortuna grazie al contrabbando.
Soltanto nel 1671 fu istituito un ufficio doganale permanente che, oltre a riscuotere le entrate doganali per il Tesoro, aveva il compito di prevenire e individuare il traffico commerciale illecito. Ogni ufficiale della Guardia di Terra normalmente pattugliava da solo ma poteva, in linea di principio, chiedere aiuto all’esercito. In realtà molti ufficiali si risentivano nel prendere ordini da un uomo delle entrate, di fatto riducendo l’efficienza del sistema. Il passaggio verso una forza anti-contrabbando più integrata avvenne nel 1810 con la creazione di una Guardia d’Acqua preventiva. L’isola di Thanet, situata nell’angolo nord-orientale della contea amministrativa e storica del Kent, in Inghilterra, è delimitata dall’estuario del Tamigi e da due rami del fiume Great Stour. Nei secoli precedenti, Thanet era una vera e propria isola; il Wantsum Channel, un’importante via d’acqua, la separava dalla terraferma. I contrabbandieri del mare portavano le merci a terra in un processo noto come sbarco, prima che le bande dell’entroterra prendessero il sopravvento per nascondere e distribuire la merce. Per questo, molte delle bande operavano in città e villaggi a diverse miglia dal mare. La costa del Kent presenta insenature fangose a nord, insenature sabbiose e scogliere di gesso a est, lunghe spiagge di ghiaia e paludi a sud. Queste differenze di terreno han-
Particolare della Viking Bay; sullo sfondo svetta la Bleak House.
no portato allo sviluppo di diverse tecniche di sbarco e nascondiglio. Al suo apice, il commercio illegale era controllato da bande spietate che non esitavano a commettere omicidi, violenze, ricatti e tangenti. La loro posizione era così consolidata che trasportavano merci in pieno giorno in convogli di centinaia di uomini pesantemente armati: si trattava di un crimine organizzato su vasta scala. I contrabbandieri sfidavano apertamente le autorità e costringevano la popolazione locale a fornire loro foraggio e cavalli freschi. Broadstairs era sede di piccole bande locali, la più famosa delle quali era guidata da Joss Snelling. Nato nel vicino villaggio di St Peters nel 1741, visse nel Callis Court Cottage sulla Lanthorne Road e spesso organizzò le sue attività nel Fig Tree Inn sulla Callis Court Road. La banda di Joss è meglio conosciuta per la battaglia di Botany Bay, avvenuta nella primavera del 1769, durante la quale diciotto uomini furono uccisi o catturati sulla riva tra Kingsgate e Foreness Point, lasciando Joss e quattro compagni di fuga a Kemp’s Stairs, nei pressi di Kingsgate. Uno degli ufficiali a cavallo fu colpito e portato al vicino Captain Digby Inn. Nei pressi della baia di Joss Bay si possono ancora vedere le grotte utilizzate per immagazzinare le merci di contrabbando. Oggi la baia è un luogo popolare per i surfisti, che amano le sue onde soprattutto nella stagione invernale. Fu la baia di Joss Bay a Broadstairs a prendere il nome da Joss Snelling, o è il contrabbandiere ad avere assunto il suo nome di battesimo dalla baia? In ogni caso, quando la regina Vittoria visitò Broadstairs, Snelling era così noto che le fu presentato come «The famous smuggler» («Il famoso contrabbandiere»)! La vita di pericolo deve aver fatto bene a Snelling: visse fino a 96 anni e all’età di 89 anni fu multato per 100 sterline – una somma enorme per l’epoca. Nel giro di vent’anni, i giorni d’oro del contrabbando si sono drasticamente ridimensionati; le barche più veloci e il regolare posizionamento di stazioni di guardia costiera hanno reso il servizio commerciale molto più efficiente.
Promenade sulla Louisa Bay.
Scorcio della scalinata sulla Louisa Bay.
Oggi Broadstairs è una tranquilla cittadina di pescatori amata dai turisti e rinomata per la sua aria fresca. Molte delle vecchie case che costeggiano la centrale Harbour Street ospitano cantine e nascondigli un tempo utilizzati dai contrabbandieri. Charles Dickens venne in visita regolarmente tra il 1837 e il 1859 e descrisse così il paese: «You cannot think how delightful and fresh the place is and how good the walks» («Non puoi immaginare quanto sia bello e fresco il posto e quanto sia bello camminare»). Situata in cima alla collina che domina la Viking Bay, la Bleak House, di ispirazione per la dimora di Betsey
Trotwood nel romanzo David Copperfield, si affaccia sul porto. Fino a poco tempo fa l’edificio ospitava un piccolo museo del contrabbando nel seminterrato, ma è ora una casa privata; i nomi di numerosi altri edifici prendono ispirazione dalle opere di Dickens. A rinnovare l’amore reciproco tra la città e lo scrittore, dal 1937 a giugno di ogni anno si tiene l’annuale Dickens Festival con parate, rappresentazioni e travestimenti. Le donne indossano eleganti abiti vittoriani, corsetti e cappelli vistosi, gli uomini sfoggiano gilet, orologi da tasca e cappelli a cilindro, e i ragazzi spesso si vestono da spazzacamino.
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Ambiente e Benessere Migusto La ricetta della settimana
Calamari ripieni alla griglia Primo piatto di pesce
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Ingredienti per 4 persone: 300 g di spinaci · 1 cipolla rossa · 1 spicchio d’aglio · 6 c d’olio d’oliva · 1 rametto di timo · 1 rametto di maggiorana · 1 limone · 50 g di pomodori secchi sott’olio, sgocciolati · 1 cc di harissa · ½ cc di sale · 600 g di calamari piccoli, già puliti · 3 prese di fleur de sel.
1. Sciacquate gli spinaci e lasciateli sgocciolare. Tritate finemente la cipolla e l’aglio. Scaldate 2 cucchiai d’olio e fate appassire il trito d’aglio e cipolla per circa 3 minuti. Aggiungete gli spinaci e continuate la cottura, finché si afflosciano. Trasferite il tutto in una scodella. Sfogliate le erbe, tritate grossolanamente le foglie e mettetele nella scodella. Unite la scorza di limone grattugiata. Spremete il succo e aggiungetene 1 cucchiaio, mettete da parte il resto. Tritate finemente i pomodori. Mescolateli con l’harissa e il sale e incorporateli agli spinaci. 2. Preriscaldate il grill a 220 °C. Sciacquate bene i calamari sotto l’acqua corrente e tamponateli con carta da cucina. Riempite i calamari con la farcia di spinaci, avendo cura di spingerla fino in fondo con il manico di un cucchiaio. Lasciate un po’ di spazio alla fine per chiudere i calamari con uno stuzzicadenti. Spennellate i calamari con 2 cucchiai d’olio. Grigliateli a fuoco medio per 8-10 minuti. Disponeteli su un piatto, irrorateli con l’olio rimasto e spruzzateli con il succo di limone. Condite i calamari con la fleur de sel e, a piacere, guarniteli con scorza di limone grattugiata. Preparazione: circa 45 minuti + cottura circa 5 minuti + cottura alla griglia
8-10 minuti.
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Ambiente e Benessere
L’Internazionale in casa
Sport Quali benefici può portare alla Città di Lugano la visita dell’Inter di Mister Antonio Conte,
ammesso che ne porti? Giancarlo Dionisio Chissà, magari i tifosi di Juventus, Milan, Napoli e Roma metteranno una croce su Lugano, rea di aver ospitato i nemici dell’Inter per il loro ritiro precampionato. È tuttavia lecito supporre che questo atteggiamento estremo lo avranno solo gli ultras, gli integralisti, quelli che, una volta incontrata in discoteca una ragazza d’una bellezza spaziale, le chiedono per chi tifa, pronti persino ad andare in bianco, qualora la suddetta fanciulla dovesse ammettere una fede calcistica diversa dalla loro. I fans più morbidi potrebbero invece volare oltre gli steccati e approdare sulle rive del Ceresio per vedere dove Antonio Conte ha portato i suoi ragazzi a preparare il campionato della riscossa. È il classico gioco di mercato, in cui i testimonials fanno tendenza. Credo però che si tratti prevalentemente di un indotto a breve termine, fatto di panini, birra e gelato. Un indotto che può essere anche cospicuo, se si pensa ad esempio alla fiumana di curiosi che nel 2006 era giunta a Weggis, sulle rive del Lago dei quattro Cantoni per vedere da vicino le stelle della nazionale brasiliana di calcio mentre preparava la Coppa del Mondo di quell’estate. Dubito però che in seguito la località lucernese sia diventata meta di pellegrinaggio dei fans della nazionale verdeoro. La presenza dei nerazzurri a Lugano è figlia delle circostanze: l’inagibilità del centro di Appiano Gentile, la Pinetina, sottoposto a restyling; il fatto che il General Manager dell’Inter, Giuseppe Marotta volesse evitare il consueto sog-
Un momento durante l’amichevole Lugano-Inter di due domeniche fa, il 14 luglio. (CdT - Putzu)
giorno in altura a Pinzolo, nel Trentino; e i buoni contatti fra il club milanese e il direttore sportivo (in partenza) del Lugano, Giovanni Manna. La città non si è fatta pregare, così, dopo alcune settimane di trattative, è stato trovato un accordo. Antonio Conte ha imposto riservatezza e tranquillità assoluta, allenamenti blindati, e contatti centellinati con i media. Fa parte del gioco. Anche per questa ragione, sui social media si sono scatenati i detrattori di questa operazione di marketing da parte della Città di Lugano. «Utilizzano i nostri soldi per pagare degli sportivi miliardari». A me pare una considerazione dagli orizzonti piuttosto ristretti. Il Municipio ha stanziato un bud-
get di circa 20mila franchi, per concedere le infrastrutture di Cornaredo e per garantire la sicurezza durante gli spostamenti della squadra fra Villa Sassa e lo stadio. A sostenere il soggiorno è subentrata la Casinò SA. Qualcuno ha obiettato che anche in questo caso si tratta di denaro dei contribuenti. Osservazione corretta, tuttavia i Casinò e le Lotterie hanno il dovere statutario di sostenere iniziative sportive o culturali. Qualcuno potrebbe obiettare, e sui social media lo si è letto, «Ma a noi, dell’Inter, cosa cavolo ce ne frega?» A questa stregua si dovrebbero però mettere in discussione tutte le iniziative sostenute anche da denaro pubblico, poiché ciò che interessa a me
non interessa a te, e viceversa. Nella Svizzera Italiana, fra festival musicali, cinematografici, teatrali e altro, l’elenco è lunghissimo. Credo sia invece indispensabile trovare una risposta a questi interrogativi: la presenza dell’Inter a Lugano è semplicemente da archiviare alla voce «spese», oppure la si può inserire anche nella colonna «investimenti»? In termini generali, gli eventi sportivi generano un importante indotto a medio e lungo termine? La storia ci insegna che i risultati non si fanno attendere là dove si è lavorato bene. Nel caso in questione le premesse sembrano lasciar presagire scenari interessanti. Se da un lato gli allenamenti a porte chiuse possono ir-
ritare gli appassionati, è pur vero che l’amichevole di lusso di domenica 14 luglio davanti a 7mila spettatori, sotto l’occhio delle telecamere di RSI e diffusa da SKY, ha funto e fungerà da cassa di risonanza. I rappresentanti della città di Lugano hanno più volte ribadito che l’«Operazione Inter» va ben al di là di un puro e semplice campo di allenamento. La squadra milanese è una sorta di multinazionale, sia per quanto concerne la nazionalità dei suoi calciatori, che hanno veicolato sui social media centinaia di foto di Lugano, sia per quanto riguarda la proprietà. La Suning, fondata nel 1996 da Zhang Jindong, è un colosso cinese del settore degli elettrodomestici e dei prodotti elettronici, che diffonde il proprio marchio in tutti gli angoli del globo. Prima di lasciare Lugano, durante un piacevole business lunch sul Ceresio, il suo staff si è incontrato con i rappresentanti dell’AITI e della Camera di Commercio. Qualche malizioso potrà obiettare che scambiare strette di mano tra tartine, sushi e coppe di champagne è un esercizio piacevole, ma fine a se stesso, tuttavia è lecito, anzi doveroso, sperare che i rappresentanti dell’economia ticinese abbiano approfittato dell’occasione per stringere anche alleanze, che potrebbero rivelarsi produttive. Se così non fosse, ma non c’è ragione per immaginare questo scenario, dovremmo dare ragione ai conservatori a oltranza, che auspicano l’autarchia totale. Poi però non spaventiamoci se le cifre del turismo non ci premiano a sufficienza, nonostante la bellezza del nostro paesaggio.
Giochi
Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku
Cruciverba Se io ho un panino e tu non hai niente… Trova il resto della frase leggendo, a cruciverba risolto, le lettere evidenziate. (Frase: 8, 7, 5, 6)
ORIZZONTALI 1. Prima della fine di... 5. Sostituzioni 9. Appellativo per una moglie 10. Costringono a scegliere una direzione 11. Preposizione articolata 12. Si spoglia d’inverno 13. Simbolo chimico del tallio 14. Strade alberate 16. Sono di famiglia 17. Osso alla radice della lingua 18. Dietro a un numero lo moltiplicano 20. Sigla di radiotelevisione svizzera 22. Insenatura costiera 24. Tredicesima lettera dell’alfabeto greco 25. L’avrebbe amata Bacco... 27. Le iniziali dell’attore DiCaprio 28. Un singolare giardino
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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch
I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.
VERTICALI 1. A volte precede il... fatto! 2. Il nome della Campbell 3. Contrario a babordo 4. A capo del 22 orizzontale 5. Tempestose quelle di Emily Brontë 6. Matusalemme lo era di Noè 7. Pronome personale 8. Monti siciliani 10. Nozione fondamentale 12. La maggiore isola dell’Egeo 13. Un gigante in tiro... 15. Manifestazioni di allegria 16. Una metà di zero 19. Città della Russia sull’Oka 21. In quel del Re nasce il Po 23. Congiunzione inglese 24. Coda di lince 26. Congiunzione eufonica Partecipazione online: inserire la
soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-
Sudoku Soluzione:
Scoprire i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.
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SAGGE PAROLE – Per andare d’accordo non servono… Resto della frase: …LE STESSE IDEE MA LO STESSO RISPETTO. L I E V I T O
E S T A S I
S S A S A T N R L O A R O S S B I S I E R T E T R E N I E T
T O E P P I M E R E T A T E R R O O P D E S I N
E L E T T E
L S A A I D N A A L E E A S T R E I E N Z V O T I O V I A
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 luglio 2019 • N. 30
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Politica e Economia Conservatori in crisi In tutto il mondo affonda il pensiero conservatore: non si tratta di una sua evoluzione, ma di un vero e proprio ripudio
Diario da Pechino In questa seconda parte Federico Rampini continua a stilare l’elenco dei cambiamenti avvenuti negli ultimi dieci anni in Cina. Che in gran parte hanno sorpreso anche l’Occidente
La fine del valore locativo Il Consiglio degli Stati vuole introdurre modifiche fiscali per la proprietà di immobili
Tassazione e patrimonio Una riflessione economica sul ruolo svolto dal risparmio e sul perché debba essere tutelato pagina 34
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AFP
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Il grande malato d’Europa
L’Italia sovranista Il governo di Roma è sotto stretto controllo da parte delle autorità comunitarie e non solo
per monitorare una crisi che potrebbe affondare l’eurozona. Anche a causa delle sue deviazioni politiche Lucio Caracciolo Fino a qualche anno fa l’Italia si considerava, con qualche supponenza, il terzo o quarto grande d’Europa. Oggi è da tutti trattata come il grande malato del continente. L’Italia ha infatti dimensioni strategiche ed economiche tali da apparire nazione sistemica – sì, ma in senso negativo. Se va a gambe all’aria rischia di crollare l’insieme dell’Unione Europea, o almeno se ne dovranno rivedere sostanzialmente i profili. Su questo sfondo va considerato il rischio Italia nel contesto internazionale, specialmente per quanto riguarda l’area dell’euro. A differenza della Grecia, ma anche del Portogallo o perfino della Spagna, le dimensioni dell’economia italiana rivelano che la fuoriuscita di Roma dall’eurozona avrebbe un effetto devastante per l’intero gruppo dei paesi aderenti alla moneta europea. Per conseguenza di un
tale evento, le onde sismiche si diffonderebbero in tutto il mondo. Questo spiega l’attenzione, davvero rara nel Secondo dopoguerra, con cui i media internazionali, specialmente europei americani, osservano la Penisola. Il governo italiano è sotto stretto controllo da parte delle autorità comunitarie e delle principali potenze, non solo europee. Ma nessuno è in grado di stabilire una prognosi sufficientemente attendibile riguardo al suo futuro. Nell’attesa di poterlo fare, prevale la prudenza. Questo spiega perché Bruxelles abbia finora rinunciato a imporre la procedura d’infrazione contro l’Italia, nel timore di suscitare reazioni negative da parte delle agenzie di rating (tutte americane) e per conseguenza dei mercati finanziari globali. Ad aggravare il profilo di crisi che molti disegnano intorno all’Italia, le recenti e meno recenti deviazioni di Roma dall’ortodossia atlantica ed europea. L’accordo con la Cina sulle
vie della seta, siglato in occasione di una visita dal sapore imperiale compiuta in marzo a Roma dal presidente Xi Jinping, è stata considerata da Washington come un atto di vero e proprio tradimento. L’Italia ne sta già pagando le conseguenze, sia attraverso la riduzione del flusso di informazioni segrete di cui gode in quanto membro dell’Alleanza Atlantica, sia anche sotto il profilo del trattamento nelle grandi partite geoeconomiche. Nelle ultime settimane, l’attenzione critica delle maggiori capitali europee, oltre che di Washington, è stata moltiplicata dall’accostamento crescente di Roma a Mosca. Nulla di straordinariamente nuovo, considerando la storica russofilia italiana, del tutto indifferente al regime: le simpatie italiane per Mosca erano evidenti ai tempi della monarchia sabauda, perfino durante il fascismo, e in maniera più smaccata durante la guerra fredda, via Partito comunista, Eni o Fiat. Ma
l’ultima visita di Putin in Italia (nella foto con Conte) e gli indizi che portano a individuare una filiera di rapporti e finanziamenti privilegiati da parte di Mosca verso il principale partito italiano di governo, la Lega, hanno accentuato l’allarme. Il documento che illustra l’incontro tra Gianluca Savoini, intimo di Matteo Salvini, con alcuni emissari russi, in cui si sarebbe trattato di possibili tangenti a favore della Lega, è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Associata all’insistenza italiana, sia pure per vie riservate, che mira a sospendere o almeno ridurre le sanzioni europee (imposte da Washington) alla Russia per l’annessione della Crimea, quel documento disegna uno scenario molto inquietante. Agli osservatori esterni, e anche a molti italiani, lo scontro perenne interno alla maggioranza di governo a Roma, formata da due partiti polarmente opposti, indica la prossimità
di una nuova crisi e quindi di nuove elezioni. Se questo dovesse materializzarsi prima del varo della legge finanziaria, che rivelerà se e fino a che punto l’Italia vorrà attenersi alle regole di bilancio fissate dall’Europa, le conseguenze sullo spread e quindi sull’affidabilità di Roma sarebbero enormi. Non sembra che i gruppi dirigenti dei maggiori partiti italiani siano perfettamente consapevoli delle responsabilità che hanno non solo verso i loro concittadini ma verso l’insieme europeo e i loro alleati storici. Se questa incoscienza dovesse produrre risultati catastrofici, ne conseguirebbe il commissariamento dell’Italia. La trojka a Roma sembrava fino a ieri ipotesi di pura scuola, oppure incubo. Domani, o dopodomani, potrebbe rivelarsi realtà. E l’Italia si confermerebbe, ancora una volta, paese sistemico, capace di innescare crisi destinate a cambiare il profilo del continente e del mondo. Non in senso positivo.
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Politica e Economia
La crisi dei conservatori Dibattito L’«Economist» ha dedicato una copertina alla crisi globale del pensiero
conservatore ordita principalmente da una destra reazionaria e sovranista che aspira alla rivoluzione sociale
Christian Rocca Uno spettro si aggira per l’Europa: la fine del pensiero conservatore. In realtà la minaccia non si aggira solo per l’Europa, ma anche per il Nord America e il Sud America, per la società democratica globale e per tutto il web. Negli Stati Uniti di Donald Trump e nell’Italia di Matteo Salvini e di Luigi Di Maio, nell’Inghilterra della Brexit e nel Brasile di Jair Bolsonaro, nell’Ungheria di Viktor Orbán e nelle Filippine di Rodrigo Duterte, nel Messico di Andrés Manuel López Obrador e per non parlare dei social network, la destra che vince le elezioni e domina quel che è rimasto del dibattito pubblico, cioè i selfie e i tweet, non ha niente a che fare con le antiche e solide tradizioni conservatrici, figlie del secolo dei Lumi esattamente come i principi del pensiero liberale. I conservatori sono tradizionalmente favorevoli allo status quo, lo dice la parola stessa, non amano i salti nel buio, mentre la destra di oggi aspira alla disruption, alla rottura degli schemi, alla rivoluzione sociale. Dire che non ci sono più i conservatori di una volta sembra una formula nostalgica, ma sono davvero scomparsi quelli che preferiscono le cose conosciute a quelle ignote, quelle già provate a quelle da verificare, quelle realistiche a quelle da realizzare. Al contrario, sono stati rimpiazzati da rivoluzionari senza bussola, senza ideologia, senza fiducia nell’ordine sociale, quell’ordine sociale che un tempo era considerato, a destra, la base fondamentale per costruire le condizioni di una maggiore libertà. A inizio luglio, l’«Economist» ha dedicato una copertina alla crisi globale del conservatorismo, ricordando che il pensiero conservatore è sempre stato molto attento ad affidare il cambiamento sociale all’autorità della famiglia, della chiesa, della tradizione e dell’associazionismo locale, in modo da poterlo controllare e rallentare. L’idea era che ribaltare in modo repentino le istituzioni collettive e individuali della società sarebbe stato un pericolo troppo grande. Eppure, ha scritto l’«Economist», in questi anni ad essere demolito è stato proprio il pensiero conservatore, in nome della rivoluzione, e l’opera di abbattimento è stata ordita principalmente a destra. Alla base del discontento generale ci sono ragioni storiche e sconquassi geopolitici, economici e sociali di grande impatto, a cominciare dal discredito sui partiti tradizionali generato dalla crisi finanziaria, dalle politiche di austerità fiscale, dalle guerre in Medio Oriente, ma anche il collasso dell’Unione Sovietica che all’inizio degli anni Novanta ha rotto il variegato fronte conservatore fino a quel momento unito dalla comune lotta al collettivismo comunista. Ma questa stanchezza della società occidentale ha anche un suo carattere specifico, forgiato dalle innovazioni tecnologiche del XXI secolo. La rivoluzione digitale e i social network sono creature e strumenti nati in ambienti li-
Secondo il settimanale britannico si tratta di un ripudio delle idee conservatrici.
bertari e prosperati grazie alla spinta del mondo liberale e progressista. Chi ha rincorso il mito della disintermediazione, ovvero la possibilità di abbattere le barriere del cambiamento rappresentate dai corpi intermedi, in principio non sono stati i conservatori, ma i liberal conviti che senza quei filtri simboleggiati dalla famiglia, dalla religione, dai partiti, dai sindacati, dai media, dalle istituzioni e dalle regole internazionali avremmo avuto più possibilità di progresso e meno ostacoli alla libertà. A causa della disintermediazione sono saltate le istituzioni sociali che per secoli hanno fatto da filtro tra popolo e potere, e il sistema è andato in tilt. Politicamente, però, se ne sono avvantaggiati i nemici della società aperta, abili a intercettare il malcontento e la rabbia di chi si è sentito, a torto o a ragione, escluso dai cambiamenti epocali che abbiamo vissuto in questi anni. È nata, così, una destra rivoluzionaria e reazionaria allo stesso tempo, nazionalista e populista, capace prima di indebolire l’arcipelago conservatore e poi di sfidare e battere i progressisti, ritenuti i responsabili e i difensori dello status quo.
La crisi del conservatorismo non è soltanto una questione di studiosi di scienza politica, ma è un pericolo reale perché il prossimo obiettivo della nuova destra rivoluzionaria, che per ispirarsi guarda ai regimi autoritari, è quello di far saltare la democrazia rappresentativa, ovvero la democrazia come la conosciamo da un paio di secoli, in nome di un’inesistente democrazia diretta digitale o, a seconda dei casi, di un rapporto diretto del leader con il suo popolo. Questa nuova destra nazionalista e sovranista si abbevera al pensiero dell’uomo forte rappresentato da Vladimir Putin, il leader che giudica «obsoleta» la democrazia liberale e insostenibile la società aperta, ma anche al modello autoritario del comunismo cinese, mostrando segni di simpatia finanche per il dittatore nordcoreano Kim Jong-un. Da Trump a Salvini, passando per Di Maio e per tutti gli altri, i nuovi condottieri sono ammiratori sia di Putin sia di Kim, hanno stretto rapporti politici e personali con l’uno o con l’altro e, in alcuni casi, sono anche sospettati di aver ricevuto qualche aiutino nella loro scalata al potere. Secondo l’«Economist», questa cui
stiamo assistendo non è un’evoluzione del pensiero conservatore, ma un ripudio delle idee conservatrici: «Gli usurpatori sono afflitti e insoddisfatti. Sono pessimisti e reazionari. Guardano il mondo e vedono quello che Trump una volta ha definito “carneficina”. Basti pensare a come hanno frantumato una tradizione conservatrice dopo l’altra. Il conservatorismo è pragmatico, ma la nuova destra è fondamentalista, ideologica e sprezzante della verità». L’assenza di un fronte conservatore serio e razionale provoca un danno anche al mondo liberal progressista che, di fronte al successo dei nuovi avversari populisti, tende a radicalizzarsi e a inseguire tattiche e comportamenti uguali e contrari a quelli della nuova destra. L’impoverimento culturale e sociale di questa spirale al ribasso è evidente a tutti. L’equilibrio garantito da due schieramenti contrapposti che si confrontano anche duramente nella battaglia delle idee, ma che sono uniti nella difesa dei principi fondamentali della democrazia liberale e della società aperta, non è un aspetto secondario: è la base della convivenza civile e del progresso della comunità.
Notizie dal mondo F-35: Gli Stati Uniti puniscono Ankara Gli Usa hanno confermato che la Turchia non potrà partecipare al programma dei caccia Usa F-35 Nato, perché Ankara ha comprato il sistema di difesa aerea russo S-400. La Casa Bianca ha ufficializzato che «sfortunatamente la decisione della Turchia di acquistare i sistemi missilistici anti aereo S-400 dalla Russia rende impossibile la prosecuzione del coinvolgimento nel programma degli F-35» ha detto in una nota la portavoce della Casa Bianca Stephanie Grisham. «Gli F-35 non possono coesistere con una piattaforma russa per la raccolta di informazioni di intelligence che sarà usata per imparare le loro capacità avanzate». Secondo gli Stati Uniti, uno dei problemi maggiori sarebbe che il sistema missilistico S-400 è incompatibile con i sistemi NATO, e che il fatto che la Turchia operi con entrambi i sistemi potrebbe far sì che i russi abbiano accesso ad alcune tecnologie segrete relative al funzionamento degli aerei statunitensi. Ciononostante, assicura Grisham, Washington «proseguirà l’ampia cooperazione con la Turchia, tenendo conto delle limitazioni comportate dalla presenza del sistema S-400». Usa: Ergastolo per El Chapo Joaquin Guzman Loera, il boss del cartello di Sinaloa che ha costruito il suo impero con la vendita di tonnellate di droga in tutto il mondo, finirà i suoi giorni nella prigione di massima sicurezza di Florence in Colorado, detta «l’Alcatraz delle montagne rocciose» perché è a prova di evasione. Anche per uno come lui, sfuggito già due volte alle autorità messicane. La prima nel 2001, quando riuscì ad evadere dal carcere in cui era stato rinchiuso dopo essere stato arrestato in Guatemala otto anni prima. Poi nel 2015 quando i suoi uomini lo liberarono scavando un tunnel di un chilometro e mezzo che finiva esattamente sotto la doccia della sua cella. La sua fuga stavolta è durata soltanto sei mesi. I marines messicani l’hanno braccato a Los Mochis, a 500 chilometri dal suo paese natale, La Tuna. Nel 2017 è stato estradato negli Stati Uniti dove la giuria l’ha ritenuto colpevole di dieci capi d’imputazione su dodici, che vanno dall’associazione a delinquere, al riciclaggio di denaro sporco, all’uso e traffico di armi da fuoco, passando per il traffico di droga. Tonnellate di sostanze stupefacenti smerciate in tutto il globo e fatte entrare dal Messico agli Stati Uniti attraverso una rete di tunnel lungo il confine. «Ho venduto più eroina, metanfetamina, cocaina e marijuana di chiunque altro nel mondo», si vantava nel 2016 con l’attore Sean Penn, in un’intervista pubblicata sul magazine «Rolling Stones». Un business che secondo la procura federale di Brooklyn ha fruttato al signore della droga messicano almeno 12,6 miliardi di dollari, di cui 11,8 ricavati soltanto dalle montagne di polvere bianca venduta negli Stati Uniti e in Europa. Soldi che secondo i giudici El Chapo dovrà restituire a Washington. Annuncio pubblicitario
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Una sfida a 360 gradi
Politica e Economia
Diario da Pechino Molti segnali sembrano preannunciare che stiamo entrando in una nuova guerra fredda.
Ma rispetto a quella passata fra Usa e Urss il confronto non è più solo militare – Seconda parte
L’inquinamento che arretra in modo spettacolare. La censura che avanza implacabile, affiancata da forme sempre più sofisticate di bio-mappatura e controllo su noi umani, affidate all’intelligenza artificiale. Un Blade Runner dai cieli azzurri, futuro distopico (e dispotico) ma senza le pioggie acide del cult-movie di Ridley Scott. Delle impressioni fortissime e contraddittorie mi assalgono al mio ritorno in Cina dieci anni dopo. Per esempio quando mi sento un provinciale primitivo quando azzardo il gesto di pagare con quel pezzetto di plastica che chiamiamo carta di credito, anacronistica, pateticamente superata. Ho iniziato la scorsa settimana, nella prima puntata di questo diario, un primo bilancio di tutti questi cambiamenti avvenuti dal luglio 2009, quando chiusi la mia esperienza quinquennale di corrispondente a Pechino per rientrare negli Stati Uniti. La mia recentissima visita nella capitale cinese l’ho usata proprio per questo: stilare un elenco di tutti i campi in cui la Cina ha realizzato trasformazioni spettacolari, positive o negative. Abbondano, nei due segni. Il futuro è già la Cina. Ci penso quando faccio un viaggio da Pechino a Tianjin, la città portuale più vicina alla capitale, con 16 milioni di abitanti e un curioso passato italiano (la ricevemmo come premio per aver partecipato alla guerra dei Boxer, vi abbiamo comandato noi, lasciando anche un’impronta architettonica, dal 1900 alla Seconda guerra mondiale). Ci torno 15 anni dopo la mia prima visita per ammirare un centro culturale avveniristico, con una meravigliosa biblioteca pubblica dal design spaziale, realizzata da architetti olandesi. Fra Pechino e Tianjin ogni ora sfreccia un «bullet-train», uno di quei treni ad alta velocità che ormai raggiungono tutte le grandi città cinesi (foto). Quando lasciai la California nel 2004 per trasferirmi in Cina, si stava discutendo della costruzione della prima linea ferroviaria ad alta velocità in America, che dovrebbe collegare San Francisco a Los Angeles. Se ne discute ancora adesso. Nelle infrastrutture gli Stati Uniti sprofondano, cascano a pezzi; la Cina sfavilla di modernità (a breve aprirà il nuovo mega-aeroporto di Pechino; l’ultimo fu inaugurato nel 2008).
Se noi occidentali abbiamo sottovalutato il balzo avanti dei cinesi, in gran parte è colpa dei cinesi che non si lasciano raccontare facilmente Ci eravamo distratti per un attimo e qualcuno tra noi ancora pensa che i cinesi «ci copiano». Il furto di know how, lo spionaggio industriale, il saccheggio di tecnologie occidentali resta una realtà; ma non esaurisce la spiegazione di quel che è accaduto. Un pezzo di questa economia ha sorpassato l’America, che se ne rende conto di colpo e tenta di correre ai ripari quando forse è troppo tardi. Un punto di svolta è stato certamente la crisi economica del 20082009: sia perché ha concentrato l’attenzione dell’Occidente e ci ha resi meno attenti a quel che avveniva lontano da noi; sia perché quella crisi ha dato a Xi Jinping la certezza che il sistema autoritario è più efficiente della liberaldemocrazia nel governare l’economia e la società. Ma se noi occidentali ci siamo distratti, e abbiamo sottovalutato
Keystone
Federico Rampini
il balzo in avanti dei cinesi, non è solo colpa nostra. Questa Cina non si lascia osservare, esplorare e raccontare facilmente. Ha eretto barriere più alte che ostacolano la circolazione di notizie e di idee nei due sensi. Loro subiscono la censura a casa propria, ma anche noi abbiamo sofferto di una rarefazione delle informazioni. L’elenco dei colleghi americani a cui hanno negato visti d’ingresso si allunga e include alcuni tra i massimi esperti della Cina come Nicholas Kristof del «New York Times»; e colui che fu il mio mentore, l’ex rettore della facoltà di giornalismo di Berkeley, Orville Schell. Il caso di Schell è particolarmente assurdo: fu uno dei più grandi giornalisti americani esperti della Cina, su cui scrisse libri che restano tuttora dei punti di riferimento obbligatori; è sposato con una cinese; dirige la sezione cinese nel think tank Asia Society a New York. Negargli un visto è una vendetta, un castigo, che lo priva della possibilità di aggiornarsi sul terreno. Come lui sono colpiti regolarmente tanti sinologi: o scrivono cose gradite a Pechino, oppure il regime gli nega l’accesso al Paese che è l’oggetto dei loro studi. Si capisce che la nostra conoscenza della Cina debba superare ostacoli notevoli, eretti volutamente per farci sapere solo quello che vogliono loro. Nei giorni della mia ultima visita un ulteriore elemento di tensione e preoccupazione riguarda i diplomatici canadesi arrestati. Si tratta senza ombra di dubbio di una vendetta legata al caso Huawei. Dal dicembre scorso è agli arresti domiciliari in Canada la direttrice del colosso cinese delle telecomunicazioni, nonché figlia del fondatore. È stata arrestata su richiesta del Dipartimento di Giustizia di Washington, accusata di aver violato le sanzioni contro l’Iran. La vicenda s’intreccia con l’embargo contro Huawei che gli Stati Uniti cercano di imporre
anche ai propri alleati europei, per il sospetto che la tecnologia cinese nella telefonìa 5G sia un cavallo di Troia dello spionaggio. Lo scontro è Usa-Cina, però Xi Jinping ha deciso in questa prima fase di infierire sui canadesi, calpestando l’immunità diplomatica con gli arresti. Quando lasciai la Cina, vigeva ancora il principio di una direzione collegiale ai vertici del regime. L’allora presidente Hu Jintao era una figura grigia. L’avvento di Xi ha cambiato tutto: questo presidente è una star, gestisce la propria immagine come un leader occidentale, perfino la First Lady è una celebrity. Ha sgominato la maggior parte dei suoi avversari interni, spesso colpendoli con accuse di corruzione e pesanti condanne. Ha fatto cambiare la Costituzione per iscriverci il suo nome (un onore riservato al fondatore del regime, Mao Zedong). Ha fatto abrogare ogni limite al suo mandato. È dai tempi di Deng Xiaoping che un leader cinese non concentrava un tale potere nelle proprie mani. La sua legittimità lui la costruisce intorno a una narrazione iper-nazionalista: la Cina si afferma come una superpotenza senza più remore nell’esibire un progetto egemonico; cancella per sempre il «secolo delle umiliazioni» aperto dalla guerra dell’oppio. Tutto questo piaceva moltissimo ai cinesi, soprattutto nella fase iniziale dell’ascesa di Xi. Vera culla del sovranismo, anche sul piano politico la Cina ci ha preceduti in molti esperimenti. Per esempio la religione riscoperta e valorizzata come pilastro nella ricostruzione di un’identità nazionale forte. In questa Pechino che fu la culla dell’ateismo di Stato ai tempi di Mao Zedong, oggi visito templi buddisti sempre più affollati, con la benedizione ufficiale di Xi Jinping (anche Confucio, il profeta laico, è stato arruolato con la stessa funzione). Da Israele – oltre alla tec-
nologia della videosorveglianza e dei controlli biometrici – questa Cina ha mutuato un’altra idea: finanzia viaggi di «scoperta delle proprie radici» ai giovani cinesi della diaspora, un regalo costoso ma lungimirante, per garantire che la vasta comunità d’oltremare (ormai quasi cento milioni fra emigrati ed espatriati temporanei) sia partecipe dello stesso revival nazionalista della madrepatria.
L’Europa si trova a un bivio perché rispetto al passato la sua economia è molto integrata con quella cinese Sul destino delle minoranze etniche ho un punto d’osservazione ravvicinato; e alternativo? I miei tre figli adottivi, Sanza, Cheghe e Seila, sono degli Yi del Sichuan: fisicamente più simili ai tibetani o ai mongoli; con la pelle dal colore più scuro degli Han (il ceppo della maggioranza cinese). Il nostro primo incontro avvenne 13 anni fa nel loro villaggio di montagna, Jiudu, nella contea di Xichang. Quando lo visitai mancavano le fognature, le strade erano sterrate, molte case non avevano luce né acqua corrente. I tre ragazzi sono ormai ventenni e la loro vita ha avuto una svolta nelle grandi città. Sono rimasti affezionati alle radici, amano tornare al villaggio natìo in occasione delle feste tradizionali in costume etnico. Mostrano con orgoglio le foto delle loro visite. Il governo cinese ha investito nella modernizzazione di quelle zone remote e povere. Le strade sono asfaltate, le loro casupole semi-abbandonate hanno ricevuto un intervento pubblico di restauro. In quanto orfani e membri di una minoranza etnica, Sanza, Cheghe e Seila hanno diritto a un assegno
mensile, un reddito di cittadinanza. Le vie del consenso in un regime autoritario sono molteplici: includono la costruzione di un Welfare; la sicurezza; la lotta alla corruzione a colpi di condanne esemplari; l’esportazione delle sovraccapacità (manodopera, acciaio e cemento) con le Nuove Vie della Seta. In fatto di nazionalpopulismo, quello di Xi Jinping viene da lontano; ha i muscoli gonfiati con gli steroidi. Molti segnali sembrano preannunciare che stiamo entrando in una nuova guerra fredda. L’America sta vivendo un altro «momento Sputnik»: così fu definito lo shock del 4 ottobre 1957 quando l’Unione sovietica riuscì a mettere in orbita il primo satellite (chiamato Sputnik, appunto). Il sorpasso sugli Stati Uniti nella corsa allo spazio era inatteso, scosse gli americani che si consideravano superiori; li costrinse a correre ai ripari accelerando e potenziando i loro programmi spaziali. Oggi in alcune tecnologie come la telefonìa mobile di quinta generazione e l’intelligenza artificiale la Cina ha i suoi Sputnik. Ancora una volta, come 62 anni fa, l’America deve risvegliarsi dal suo torpore e scoprire che rischia il sorpasso. Ma la sfida con l’Urss si svolgeva tutta sul terreno strategico-militare, dalle bombe atomiche ai missili (lo spazio era un luogo di esercitazione e simulazione per vettori uttilizzabili anche a scopi bellici). Con la Cina la sfida è a 360 gradi. L’economia cinese ha dimensioni ormai eguali a quella americana, mentre l’economia russa rimase sempre inferiore e in certi settori sottosviluppata. L’Europa è al bivio perché a differenza dalla prima guerra fredda, la sua economia è molto più integrata con quella cinese. Insieme all’orgoglio avverto tra i miei amici cinesi anche tante inquietudini: alcuni temono che Xi stia contribuendo proprio a quella «trappola di Tucidide» che dice di voler evitare.
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Politica e Economia
A piccoli passi verso l’abolizione del valore locativo
Fiscalità La Commissione dell’economia e dei tributi del Consiglio degli Stati ha varato un progetto che prevede
anche la soppressione di parecchie deduzioni. La proposta non piace però ai direttori cantonali delle finanze
Ignazio Bonoli La Commissione dell’economia del Consiglio degli Stati ha posto in consultazione già da febbraio un progetto di legge che prevede la soppressione del cosiddetto «valore locativo». Si tratta del reddito presunto che un contribuente si vede accollare dal fisco se vive in un’abitazione di sua proprietà. La tassazione è comunque attenuata dalla possibilità di calcolare parecchie deduzioni, in particolare quella degli interessi passivi sul debito contratto dal proprietario per l’acquisizione dell’abitazione. Su questo tema la Commissione propone diverse varianti, così come per il delicato tema delle deduzioni, di cui si propone l’abolizione. Se sul fondo della questione le opinioni sono abbastanza convergenti a livello politico, sul fatto di sopprimere questo reddito «fantasma» l’accordo è molto lungi dal realizzarsi, anche fra coloro che sono favorevoli. Questo spiega perché a scadenze regolari si cerchi di trovare una soluzione equa al problema. Per questo anche la Commissione dell’economia del Consiglio degli Stati ha posto in consultazione fra gli esperti del ramo un suo ultimo progetto, che cerca di conciliare due esigenze: la soppressione di tale reddito «fittizio», accompagnata dalla soppressione di buona parte delle
deduzioni che questo reddito oggi permette. In realtà il problema del «valore locativo» viene parecchio complicato dalle numerose deduzioni che esso consente e che spesso variano anche da cantone a cantone. E proprio la Conferenza dei direttori cantonali delle finanze giudica non soddisfacente la proposta della commissione parlamentare. Del resto, i cantoni non ritengono necessaria né urgente una riforma in questo particolare settore. L’attuale legislazione è, infatti, conforme alla Costituzione, è giustificata tanto sul piano giuridico, quanto su quello economico, ed è equilibrata, secondo quanto hanno precisato in un comunicato. Per i responsabili delle finanze cantonali, se si deve trovare una soluzione a questo problema, è necessario che si tenga conto di tutte le implicazioni e di tutte le conseguenze, meglio di quanto faccia la proposta commissionale. In primo luogo, tutte le deduzioni oggi concesse dalla Confederazione per il risparmio energetico, per la protezione ambientale, per la salvaguardia dei monumenti e per il risanamento dovrebbero essere soppresse anche a livello cantonale. Un trattamento differenziato di questi vantaggi tra la Confederazione e i cantoni, e anche tra i cantoni fra di loro, provocherebbe tanto per i contribuenti, quanto per le autori-
In apparenza, un vantaggio per i proprietari, ma la materia è complessa. (Ti-Press)
tà fiscali oneri finanziari supplementari e numerosi problemi da risolvere, per esempio già nel definire i limiti per i costi di manutenzione. In secondo luogo, i direttori delle finanze cantonali chiedono che la possibilità di dedurre gli interessi sul debi-
to (in genere ipotecario) venga ristretta rispetto all’attuale 80 per cento del reddito immobiliare. Infine, chiedono anche che la possibilità di deduzione del cosiddetto «primo acquisto» venga soppressa senza compensazione. Questa possibilità comporta al massimo
10’000 franchi per il primo anno, per poi diminuire negli anni seguenti, fino al decimo anno. Questa misura è volta a facilitare alle giovani famiglie l’acquisto di un’abitazione in proprietà. Secondo i cantoni, questa deduzione non sarebbe efficace e presenterebbe grossi problemi di applicazione. Anche secondo i direttori cantonali delle finanze, la proposta della Commissione degli Stati sarebbe comunque un passo nella giusta direzione, in particolare per quanto concerne le deduzioni. Il progetto presenterebbe comunque alcuni problemi sul piano della conformità con la Costituzione, in quanto non rispetterebbe alcuni principi basilari sulla tassazione dei redditi. Per esempio per quanto concerne l’armonizzazione delle imposte dirette fra Confederazione e cantoni e fra i cantoni stessi. In sostanza, il progetto non introduce nessuna semplificazione rispetto alla situazione attuale e, a lunga scadenza, aggraverebbe la pressione fiscale sulle famiglie. La consultazione sulle proposte commissionali si è chiusa la settimana scorsa. Un progetto di legge definitivo verrà presentato nel mese d’agosto e potrebbe essere discusso dal Consiglio degli Stati nella sessione di dicembre. La nuova regolamentazione potrebbe entrare in vigore, al più presto, nel 2021. Annuncio pubblicitario
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Politica e Economia
La tassazione patrimoniale
Risparmio Analisi dei motivi per cui il «mattone» non dovrebbe essere utilizzato dai Governi come bancomat
Edoardo Beretta Si è già discusso su come la questione se tassare (o meno) il benessere individuale convenga da un punto di vista economico. Certi del fatto che il lettore, esposto per anni al mantra per cui il patrimonio in quanto simbolo di possesso debba essere tassato per garantire la ridistribuzione delle ricchezze, non si lasci convincere facilmente, è opportuno formulare una premessa fondamentale. Da un lato, infatti, i Governi così come la società civile stessa sono soliti caldeggiare «investimenti produttivi», che sono una spesa durevole in capitale fisso quali macchinari, infrastrutture, locali aziendali etc. a garanzia dell’espansione economica: dall’altro, quindi, l’accumulazione di ricchezza individuale deve essere esaminata da un’angolatura macroeconomica alla stregua dei sopra citati «investimenti produttivi». In altre parole, immobilizzare parte dei propri risparmi individuali sotto forma di patrimonio non soltanto non è negativo, ma è anzi benefico per la società, perché pone le basi di spese future ed è un attivo contributo al mantenimento della domanda locale, oltre che alla crescita personale e professionale in loco. L’opposto, cioè la tassazione di quanto accumulato sotto forma di patrimonio, costituisce un’iniqua «duplice imposizione» in quanto i redditi necessari per l’acquisto di un asset patrimoniale sarebbero già stati tassati in passato. Eredità, immobili e sostanza nel loro complesso non dovrebbero quindi essere tassati se non una tan-
tum per la sola differenza fra il valore di acquisto (indicizzato all’inflazione) e quello attuale (ad esempio, di vendita). Anche l’argomento della ridistribuzione a prevenzione di diseguaglianze sociali non tiene: è la maggiore ricchezza accessibile a tutti ad essere «madre» di crescita economica, mentre il trasferimento dall’uno all’altro individuo non può garantire lo stesso meccanismo (quanto, certamente, conflittualità sociale). Un’analisi dei dati statistici mostra che il gettito fiscale della tassazione patrimoniale è andato aumentando nel tempo, creando un sistematico disincentivo all’accumulazione del proprio benessere. Ma con quale risultato? Creando società sempre più «nomadi» e slegate da necessità di mantenimento territoriale di un cespite; favorendo «ondate» migratorie (anche fra Nazioni ricche) oltre che maggiore esposizione a precarietà lavorativa, cioè dipendenza da flussi reddituali in entrata laddove (in presenza di asset patrimoniali) se ne potrebbe monetizzare qualcuno compensando il reddito mancante. Il patrimonio nient’altro è che un vero e proprio «ammortizzatore sociale» la cui penalizzazione è in palese contrasto con l’essenza dello stesso capitalismo. In Francia, ad esempio, nel 2014 sarebbero stati necessari ben 9,7 anni di salari netti medi per l’acquisto di una casa (contro i 5,1 del 1984) oppure 23,5 anni di salari netti medi per acquisire un appartamento da 76 mq a Parigi (quando nel 1984 sarebbero bastati 13,3 anni di sforzi economici). A questo punto, il lettore potrebbe ri-
Tassazione della proprietà (in % del PIL)
Tasso di proprietà immobiliare
1965
1970
1975
1980
1985
1990
1995
2000
2005
2010
2015
Δ%
2007
2016
Δ%
Francia
1,44
1,61
1,80
1,90
2,42
2,59
2,79
2,95
3,29
3,51
4,05
+2,61
60,5
64,9
+4,4
Germania
1,84
1,55
1,32
1,19
1,09
1,17
1,00
0,83
0,84
0,81
1,07
-0,77
-
51,7
-
Grecia
1,66
1,78
1,81
0,95
0,66
1,17
1,13
2,03
1,30
1,66
3,08
+1,42
75,6
73,9
-1,7
Italia
1,78
1,49
0,81
1,07
0,82
0,82
1,75
1,89
1,96
2,02
2,81
+1,03
73,2
72,3
-0,9
Media
1,86
1,95
1,69
1,54
1,61
1,77
1,64
1,78
1,81
1,73
1,91
+0,05
-
-
-
4,38
4,37
4,34
4,02
4,20
2,69
2,99
3,81
3,90
3,92
4,09
-0,29
73,3
63,4
-9,9
Spagna
0,91
1,01
1,13
1,00
1,59
1,74
1,75
2,14
2,99
2,06
2,61
+1,70
80,6
77,8
-2,8
Svizzera
1,63
1,80
1,81
1,93
2,23
1,92
1,92
2,48
2,08
1,86
1,86
+0,23
-
42,5
-
USA
3,73
3,64
3,43
2,72
2,63
3,02
2,96
2,87
2,96
3,09
2,70
-1,03
-
-
-
OCSE Regno Unito
Elaborazione di: http://www.quechoisir.org/actualite-consommation-infographie-30-ans-de-changements-a-la-loupe-n2591.
tenere confermata l’opinione, per cui il possesso immobiliare debba essere tassato. In realtà, se da un lato sarebbe giusto, per la differenza di valore (indicizzata all’inflazione) fra il periodo d’acquisto e quello fiscale in esame, dall’altro il punto focale risiede nella perdita generalizzata di potere d’acquisto. Quanto sopra non deve stupire in quanto gli istituti bancari centrali nelle loro analisi sull’inflazione tendono a ragionare in termini di indice dei prezzi al consumo, ma assai meno di asset correndo così il rischio di non prevedere bolle in altri settori «cardine» dell’economia locale. L’involuzione francese è semmai causata dall’inflazione, che con il suo effetto distorsivo ha avvantaggiato chi avesse all’epoca investito i risparmi in un appartamento in un’avenue parigina rispetto alla detenzione
di tale somma sotto forma di cash (ma non solo). L’aumento della tassazione patrimoniale destabilizzerebbe ancor più Nazioni ad elevata preferenza per tale forma di investimento quali l’Italia, ma penalizzerebbe anche ogni Paese nel suo complesso. Il fatto che in alcune zone d’Europa un minor numero di persone scelga di essere proprietario non è un bene: il canone di locazione è una spesa fissa che non produce un durevole ritorno economico. A ciò si aggiunge la possibilità di una decisione repentina di (s)vendere casa: fra il 2007 e 2016 il tasso di proprietà immobiliare nel Regno Unito è «scivolato» dal 73,3% al 63,4% mentre quello dell’Area Euro a 19 Paesi dal 71,4% al 66,1%. Il tema dunque è attuale ed in evoluzione anche in quelle Nazioni che presentino tuttora tassi elevati di proprietari.
Se la tenuta dei bilanci pubblici è un must, essa non si raggiunge con la sola fiscalità, quanto piuttosto con la riduzione della spesa improduttiva, in primis sussidi e forme di sgravio, che a loro volta necessitano per essere assorbiti di una migliore capacità di creazione di posti di lavoro. Solo quest’ultima è la base della ricchezza, mentre il risultato dell’attività economica è il reddito netto e il risparmio che gli è connesso. Disincentivare una forma strategica di detenzione di risparmio quale quella patrimoniale nelle sue forme più disparate è, invece, la base per impoverire le società e ‒ non da ultimi ‒ gli stessi Stati. Una «sterzata» non è certamente in vista, ma sarebbe bene che venisse ben presto presa in considerazione perché la precarietà reddituale-lavorativa è ormai una piaga sociale. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 luglio 2019 • N. 30
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Misure tedesche contro lo spopolamento Dei movimenti migratori si discute, anche da noi, da più di un decennio. Ma, salvo eccezione, solo di quelli che riguardano gli stranieri. La migrazione che concerne flussi interni al nostro territorio nazionale non fa quasi notizia. Al massimo si parla, di quando in quando, della fuga di cervelli che affligge qualche regione, come, per non citare che un esempio , il nostro Cantone. Delle migrazioni interne e dello spopolamento di intere regioni si è tornato invece a parlare in Germania. Due settimane fa, infatti, è stato pubblicato il rapporto della commissione federale sulle condizioni di vita che ha suscitato, e non solo perché in questo periodo le notizie sono scarse, una viva discussione a livello nazionale. Proprio come, una quarantina di anni fa, aveva suscitato discussioni e commenti il rapporto della com-
missione federale sui problemi delle regioni di montagna svizzere. L’analisi della situazione è presto fatta. Le migrazioni interne sono determinate, dicono gli economisti, da sostanziali differenze nelle condizioni di vita da una regione all’altra. In Germania si è constatato che esistono ancora enormi disuguaglianze di reddito tra le diverse regioni. Anche rispetto alle possibilità di ottenere un impiego le disparità regionali sono grandi. Ulteriori differenze si riscontrano inoltre per quel che riguarda l’accessibilità (stradale, ferroviaria, aerea), la dotazione di infrastrutture per i bisogni di base, in particolare nel settore della sanità, e i servizi pubblici a livello locale (energia, trasporti, educazione, ecc..). Infine la commissione federale tedesca sulle condizioni di vita ha constatato che esistono grosse differenze anche
a livello di finanze pubbliche locali, in particolare per quel che riguarda il peso del debito pubblico. Nella commissione sedevano rappresentanti dei comuni, dei Länder e del governo nazionale. Purtroppo il rapporto finale non è stato approvato da tutti i commissari, ragione per cui le misure, rese note dal ministro degli interni Seehofer, non riguardano, per il momento, che l’azione governativa. Quali sono queste misure? Dapprima il governo tedesco ha intenzione di riorganizzare la sua politica regionale sostituendo al cosiddetto «patto di solidarietà» che, finora, ha sostenuto lo sviluppo delle regioni della ex-DDR, con un sistema di promovimento esteso a tutte le regioni strutturalmente deboli, indipendentemente dal dove siano situate. Il governo nazionale si obbliga poi a localizzare in queste regioni ammi-
nistrazioni federali e centri di ricerca. Parallelamente il governo tedesco intende migliorare la situazione di queste regioni in materia di telecomunicazioni. Il governo tedesco si propone poi di migliorare l’infrastruttura viaria e quella digitale anche nelle regioni più deboli aumentando il suo aiuto agli investimenti nei comuni. Il terzo obiettivo dell’intervento federale dovrebbe essere l’eliminazione del debito pubblico accumulato dai comuni delle regioni che hanno problemi strutturali. In che consisterà l’aiuto governativo in questo campo resta però da definire. Il governo tedesco si propone ancora di rafforzare il sistema di milizia soprattutto nelle regioni rurali. A questo proposito intende creare una fondazione tedesca per sostenere chi si impegna nel volontariato e chi assume cariche non remunerate, in
particolare nelle regioni rurali. Infine Berlino intende sottoporre a controllo tutte le nuove leggi per accertare che contribuiscano a creare e a sostenere condizioni di vita uguali in tutte le regioni del paese. Realizzare questi obiettivi non sarà facile. A livello politico le intenzioni del governo hanno già sollevato molte obiezioni. Come ci si poteva aspettare gli oppositori non criticano tanto il come, ma piuttosto il dove e il quanto. I rappresentanti delle regioni dell’Est temono che la nuova politica possa ridurre l’attenzione che il governo nazionale, finora, ha loro consacrato. I rappresentanti dei verdi e della sinistra, invece, trovano che non solo le misure, ma soprattutto i mezzi finanziari che si intendono devolvere per questa nuova politica siano insufficienti.
terroristi dicono di avere agito da soli. L’omicidio di Lübcke ne è stata la dimostrazione, perché Stephan Ernst, l’autore dell’omicidio, quarantacinque anni, era conosciuto ai servizi, aveva partecipato a manifestazioni neonaziste – compare in alcune foto – e anche se ha detto di avere agito da solo, sono state arrestate altre due persone che hanno fornito quel sostegno logistico (armi) che fa sì che possa parlare di cellule terroristiche. Ernst ha confessato l’omicidio e il movente: Lübcke era a favore delle politiche di accoglienza del suo partito, la Cdu di Angela Merkel al governo. Meritava di morire, lo hanno detto anche molti sui social, confermando che di solitario non c’è proprio niente. Qualche giorno fa, il sindaco socialdemocratico di Hockenheim, Dieter Gummer, è stato aggredito da uno sconosciuto che ha suonato alla porta di casa: un pugno in faccia e Gummer, che ha 67 anni, è sindaco della città dal 2004, tra qualche settimana andrà in pensione, è caduto pestando la testa. È stato ricoverato, non si sa ancora nulla né dei danni che ha subito né dell’ag-
gressore, ma la paura che anche in questo caso si possa parlare di tentato omicidio politico è alta. Anche perché si stanno accumulando notizie di questo genere. Henriette Reker, sindaco indipendente di Colonia, la città delle prime manifestazioni di Pegida, movimento d’ispirazione neonazista, contro le politiche di accoglienza della Merkel, aveva reagito alla morte di Lübcke con una frase che è anche il suo motto: «Non un passo indietro». La Reker sa di cosa parla, nel 2015 era stata accoltellata alla schiena da un estremista, si era salvata e il suo aggressore era stato arrestato. Ma «non un passo indietro» è risuonato forte, così anche lei ha ricevuto di recente una email di minacce: «La fase di pulizia è iniziata con Walter Lübcke. Ma ce ne saranno altri dopo di lui. Inclusa tu. La tua vita finirà nel 2020». Anche Andreas Hollstein, sindaco di una piccola cittadina, Altena, ha ricevuto minacce simili e anche lui un paio di un anno fa era stato aggredito: stava mangiando in un ristorante etnico, un uomo lo aveva afferrato alla gola con in mano un coltello. Il movente? Sempre lo stesso: le politiche
di accoglienza. Anche una fondazione che si occupa di monitorare l’estrema destra, la Amadeu Antonio Foundation, ha ricevuto un messaggio dall’Inferno: la Germania sarà «ripulita dagli ebrei e dagli altri parassiti stranieri». Le intelligence sono al lavoro, stanno cercando di ricostruire sostegni, reti, incroci, la minaccia interna è tornata a essere potente, ogni giorno si aggiunge un pezzetto a questo puzzle che sembra sbucato da un passato dimenticato. L’Europa che cerca di controllare le sue frontiere e che cerca di ritrovare un’unità perduta sta riscoprendo il terrore degli omicidi politici: il primo di questa serie risale al 2016, quando fu uccisa in Inghilterra la parlamentare laburista Jo Cox. L’omicidio avvenne a una settimana dal referendum sulla Brexit e fu strumentalizzato dalle logiche prevalenti in quel momento, come se ammazzare una parlamentare contraria alla Brexit potesse in fondo aiutare il campo del remain. Non si voleva vedere niente, non si voleva capire niente: l’assassino era un neonazista che gridava Britain First.
avversario che permetta di applicare la logica binaria dell’amico/nemico. Sul piano locale, bersagli perfetti sono i frontalieri e, a dipendenza dei moti migratori, i profughi; sul piano nazionale, gli stranieri e i paggetti di Bruxelles. L’espediente funziona sempre, porta consensi e voti, ma far rientrare i rapporti tra la Confederazione e la UE in questo schema è decisamente improprio. Le istituzioni europee non sono quell’ombra satanica che si vorrebbe far credere; molte deficienze politiche – tra cui quella riguardante la gestione dei migranti – sono imputabili ai singoli Stati e alle loro discordie, non genericamente all’Unione. Comunque è curioso notare come molti argomenti tuttora presenti sulla scena politica siano maturati già cent’anni or sono. Nel 1919 prese avvio un acceso dibattito sulla collocazione della Svizzera nel concerto delle nazioni all’indomani della Grande Guerra. Agli occhi dei Consiglieri federali più influenti (Gustave Ador,
Felix Calonder, Giuseppe Motta) era tempo di rivedere il principio della neutralità assoluta per adattarlo alle nuove circostanze, in particolare agli auspici del presidente americano Wilson, il quale, nei suoi famosi quattordici punti, aveva suggerito la costituzione di un’assemblea generale, detta Società delle Nazioni, che fosse in grado di impedire nuove guerre. L’adesione alla SdN fu infine sancita dal popolo dopo una lunga discussione il 20 maggio 1920, ma la decisione restituì un paese spaccato: 56,3 sì contro 43,7 no, e una maggioranza dei cantoni sul filo del rasoio. Allora il Ticino, trainato da Motta, non ebbe esitazioni, con quasi l’85% dei consensi. L’avvicinamento all’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), nate nel secondo dopoguerra, fu invece molto più laborioso. La Svizzera rimase in sala d’attesa fino al 2002. Anche questa volta la proposta d’ingresso non convinse una larga parte dei votanti, e questa volta c’erano anche le donne:
54,6 sì contro 45,4 no. Nel frattempo il Ticino aveva abbandonato i cugini romandi per schierarsi con i cantoni conservatori. Ora l’euroscettico si dichiara sovranista, fiero delle proprie radici e delle proprie tradizioni. È un suo diritto, ma non dovrebbe dimenticare che l’intento della SdN prima e dell’ONU poi non era quello di ordire complotti antielvetici, ma di favorire accordi di pace tra paesi che in precedenza avevano conosciuto soltanto la legge delle armi. Anche questo è patriottismo. Un sentimento che fa del soccorso umanitario il cuore del suo agire. Diceva Mazzini: «I primi vostri Doveri, primi almeno per importanza, sono, com’io vi dissi, verso l’Umanità. Siete uomini prima d’essere cittadini o padri. […] La Patria è il punto d’appoggio della leva che noi dobbiamo dirigere a vantaggio comune. Perdendo quel punto d’appoggio, noi corriamo rischio di riuscire inutili alla Patria e all’Umanità». Pensieri sui doveri dell’uomo. Correva l’anno 1860.
Affari Esteri di Paola Peduzzi Gli spettri del passato Minacce, aggressioni, omicidi. La Germania sta attraversando una fase di incertezza molto profonda, che a molti fa fare un salto all’indietro, negli spettri di un passato spaventoso. Joe Kaeser, direttore generale di Siemens, una delle aziende-simbolo del sistema tedesco, ha ricevuto una minaccia di morte da un account e-mail fatto così: adolf.hitler@ nsdap.de. «I tipi come te devono fare la fine di Lübcke», diceva il messaggio, e Walter Lübcke è il politico cristianodemocratico che è stato ucciso a giugno nel patio di casa sua: un colpo di pistola molto ravvicinato. A differenza di molti suoi colleghi (tedeschi e no) che si tengono ben lontani da commenti e interventi che possono avere effetti collaterali anche fastidiosi, Kaeser è un manager molto politico: attivo sui social, si è infilato in questioni che pure molti politici maneggiano con fatica. Molto critico con i deputati e i leader dell’Alternative für Deutschland, Kaeser si è rifiutato di andare a una conferenza di businessmen a Riad dopo l’uccisione del giornalista saudita Jamal Khashoggi (il principale indiziato è il principe «rifor-
matore» Mohammed bin Salman) e da ultimo ha anche difeso Carola Rackete, capitano della SeaWatch diventato simbolo internazionale delle politiche sull’immigrazione dei governi sovranisti (quello italiano), «arrestata per aver salvato vite umane», ha detto Kaeser. Che di fronte all’email di minacce ha twittato, ironico e tragico: «La digitalizzazione è arrivata all’Inferno: ora anche il diavolo ha una mail». Ecco, il diavolo sembra un po’ ovunque e come spiegano tutti gli esperti di intelligence sembra imprendibile: perché è il diavolo della porta accanto e negli ultimi vent’anni i servizi segreti si sono preoccupati di individuare e prevenire minacce esterne – i fondamentalisti islamici in particolare – e ora si trovano impreparati di fronte a minacce, aggressioni e omicidi organizzati da gruppi di estrema destra d’ispirazione neonazista. Anche in questo caso, come è accaduto con il terrorismo islamico, si parla di «lupi solitari», ma proprio come accade con lo jihadismo di solitario c’è ben poco: c’è sempre una rete, uno scambio, una collaborazione pure quando i
Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti I sovranisti non leggono Mazzini Tra una decina di giorni, una nutrita pattuglia di politici, uomini e donne, sarà chiamata a riflettere pubblicamente intorno al significato del primo agosto, il Natale della Patria. Compito non facile, va detto, a meno di ripetere il solito imparaticcio sulle origini, il giuramento, le gesta di Tell. Ragionare sul sentimento patrio senza cadere nella retorica o nei luoghi comuni è incarico che richiede impegno, giacché sul rocchetto di questa parola – la patria – confluiscono, intrecciandosi, vari fili, da quelli storici a quelli emotivi. C’è la dimensione intima e domestica, e c’è la dimensione collettiva, superiore. La lingua tedesca distingue tra «Heimat» e «Vaterland»: il primo termine incorpora la sfera femminile, il perimetro della casa; il secondo ha invece come riferimento la terra del padre. L’italiano si rifà con «madrepatria», fondendo i generi femminile/maschile. Che cos’è la patria nell’era del sovranismo galoppante? Siamo di fronte ad una super-patria, oppure ad un’esal-
tazione che ricicla elementi dell’antico nazionalismo? La competizione in atto tra i partiti in vista delle elezioni d’autunno tende a restringere il campo all’iconografia d’immediata assimilazione. Ecco allora riapparire, accanto allo scontato tripudio di bandiere rossocrociate, gli stilemi che un tempo, ma soprattutto durante gli anni 30, erano simbolo di resistenza: il «Sonderfall» con la sua democrazia diretta, la neutralità armata, figure d’identificazione nazionale come il generale Guisan. Allora il nemico era il nazi-fascismo, un’ideologia criminale impastata di razzismo e brutalità. Ma oggi chi è il nemico, qual è la minaccia che incombe sulla piccola Svizzera? Per la destra nazional-populista è l’Unione europea, Bruxelles, Strasburgo, la Banca centrale, i poteri occulti che manovrano dietro le quinte per ridurre la Confederazione a vassallo delle grandi potenze intente a spartirsi il mondo. Si sa che il discorso politico ha bisogno di costruirsi un «altro da sé», un
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 luglio 2019 • N. 30
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Cultura e Spettacoli Arte nel paesaggio Una corrente che persegue la precarietà e la sostenibilità nella creazione artistica pagina 40
Thom, solista elettronico Anima, ultimo disco del frontman dei Radiohead non convince pienamente e propone sonorità non particolarmente originali pagina 41
Nel retrobottega di Roth È stato uno dei più importanti narratori americani: le sue riflessioni nella raccolta di saggi Perché scrivere?
pagina 42
Ricordo di Camilleri Paolo Di Stefano traccia un ritratto del celebre scrittore siciliano scomparso di recente
pagina 43
Le infinite possibilità della visione Grafica Chiasso dedica una mostra
alla poliedrica figura di Franco Grignani
Alessia Brughera Tra i più accaniti esploratori dei territori della percezione, Franco Grignani è stato un grande maestro della ricerca visiva del XX secolo. Sperimentatore, innovatore e precursore, ha lavorato come fotografo, grafico e pittore travasando da un ambito all’altro i frutti di un’assidua indagine sulla natura recondita delle forme. Ciò che ha contraddistinto il percorso dell’artista italiano, classe 1908, è stato difatti l’interesse per la dinamica della visione, per lo studio «della funzionalità ottica e mentale dell’immagine», come ebbe a sottolineare il critico Giulio Carlo Argan, con l’obiettivo di dare piena espressione alla sua esigenza comunicativa. Abile nel fondere scienza ed estro, Grignani ha analizzato l’affascinante relazione tra ordine e caos, incrinando le simmetrie strutturali dello spazio per dar vita a composizioni che modificano e rigenerano le forme in un sottile equilibrio tra armonia e dissonanza. Proprio questo linguaggio basato su parametri visivi inediti è l’aspetto fondante della sua intera, sterminata produzione, che dalla ricerca fotografica, iniziata alla fine degli anni Venti del Novecento, passa per il graphic design, nel periodo del pieno sviluppo economico italiano, e per la pittura, in una continua compenetrazione di stimoli e risultati. Sono stati gli studi di matematica a Pavia, città natale dell’artista, e quelli di architettura a Torino a conferire una peculiare impronta scientifica all’universo di Grignani, conducendolo verso un’arte che chiama in causa, prima di tutto, intelligenza e capacità interpretativa. Fondamentale per la maturazione del suo stile sono stati poi l’avvicinamento al Secondo Futurismo, che gli ha trasmesso l’esaltazione per il dinamismo e per le potenzialità della materia che muta nello spazio e nel tempo, così come le tante suggestioni assorbite a Milano (dove l’artista si è trasferito nel 1933), città culturalmente tra le più vivaci e aggiornate d’Europa. È qui che Grignani ha frequentato lo
Studio Boggeri, è entrato in contatto con le ricerche di arte costruttivista e concreta dello svizzero Max Bill, ha conosciuto gli esiti del gruppo degli astrattisti lombardi e ha fatto propri i principi del Bauhaus grazie alla presenza del designer basilese Xanti Schawinsky. Altrettanto importante deve essere stato anche quel corso di avvistamento aereo che durante il secondo conflitto mondiale l’artista è stato chiamato a organizzare, un’esperienza, questa, per molti aspetti rivelatrice. Grignani ha saputo rielaborare i molteplici impulsi ricevuti riuscendo a creare un lessico personale in cui l’armonia geometrica viene sempre sorretta dalla componente emozionale. Dell’eterogenea produzione dell’artista rende conto la mostra allestita nelle sale del m.a.x. museo di Chiasso, una rassegna ricca di opere che spaziano dalle fotografie ai materiali legati alla grafica e alla comunicazione pubblicitaria, dai lavori pittorici agli oggetti di design, con lo scopo di documentare i tre grandi ambiti artistici e progettuali in cui Grignani si è cimentato. Il percorso espositivo parte dal Grignani fotografo. Un Grignani che da subito ha concepito lo strumento ottico in maniera non convenzionale. Già dagli anni Trenta, infatti, eccolo impegnato in fotomontaggi, doppie esposizioni e sovraimpressioni, per esplorare, come lui stesso aveva sottolineato, l’ambiguità dell’immagine fotografica, finanche la sua magia. «Entro nel labirinto delle tensioni, delle distorsioni. È in me il veleno del dinamismo», aveva dichiarato. Attraverso la fotografia Grignani ha messo alla prova la visione in forma di illusione, di dubbio, e ne ha mostrato l’appartenenza a una dimensione sospesa tra realtà e mistero. Con le sue manipolazioni ottiche ottenute con gli espedienti più ingegnosi (tante e significative quelle esposte a Chiasso, datate anni Cinquanta), l’artista si è mosso sui limiti estremi della percezione visiva arrivando a rappresentare una spazialità virtuale.
Franco Grignani, Senza Titolo, anni 50. (Museo di Fotografia Contemporanea, Milano-Cinisello Balsamo)
Ecco poi il Grignani grafico, quello più conosciuto. Un Grignani duttile e creativo che in questo campo è riuscito a sintetizzare mirabilmente la vitalità di matrice futurista e le ricerche costruttiviste e astratte europee. La grafica è la disciplina in cui l’indagine sperimentale dell’artista si spoglia completamente dell’aspetto speculativo trovando la sua ragion d’essere nella necessità comunicativa. Anche in queste opere Grignani muove da una profonda ricognizione sulla visione: le sue composizioni sono il risultato di deformazioni, scissioni, torsioni e reiterazioni, di nuove prospettive e di arditi interventi sulla struttura dell’immagine. È ciò che emerge dai tanti lavori realizzati per la grande committenza, per cui Grignani disegna marchi e cura campagne pubblicitarie di prodotti diventando una delle figure principali del graphic design italiano. Basti pensare che già alla fine degli anni Cinquanta l’artista è stato
un punto di riferimento per tantissimi giovani che sceglievano di fare pratica professionale nel suo studio milanese; tra questi molti provenivano proprio dalla Svizzera, freschi di diploma alla Kunstgewerbeschule di Zurigo o di Basilea. Emblematiche, in mostra, le opere realizzate per i due committenti più importanti dell’artista, la Farmaceutica Dompé, con cui Grignani collabora per oltre un decennio in qualità di direttore artistico della rivista aziendale «Bellezze d’Italia», e l’industria tipografica Alfieri & Lacroix, con cui stringe un lungo sodalizio occupandosi della comunicazione visiva dal 1952 alla metà degli anni Settanta. Per entrambi i clienti Grignani concepisce una sconfinata gamma di soluzioni moderne ed esteticamente godibili, utilizzando stratagemmi percettivi che conquistano l’osservatore sul piano polisensoriale. Infine, il Grignani pittore. Autore di oli, tempere e acrilici, ma anche
di opere a metà tra dipinti e sculture, come le Psicoplastiche, in cui la sua ricerca penetra nel regno della fruizione estetica pura. Vicini, in parte, all’Optical Art, i lavori di Grignani sono esperimenti sui «fenomeni ottici rivelatori del mondo delle tensioni strutturali»: popolati da disgregazioni segniche, geometrie impossibili (il pensiero non può che andare a Escher), distorsioni reticolari, mobilità plastiche molecolari e dissolvenze scalari, essi racchiudono la razionalità del metodo e l’emotività del contenuto, piegando la geometria alle ragioni del sentimento. Dove e quando
Franco Grignani (1908-1999). Polisensorialità fra arte, grafica e fotografia. m.a.x. museo, Chiasso. Fino al 15 settembre 2019. Orari: ma-do 10.0012.00/14.00-18.00. Chiusura estiva da lu 29.07 a lu 19.08 compresi. www.centroculturalechiasso.ch
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Cultura e Spettacoli
Land Art, il paesaggio da soggetto a materia
Cosa mi metto? di Maria Bettetini IL VELO
Correnti creative Un movimento espressivo fra il minimalismo e l’arte concettuale
che si sviluppa in Europa e negli Stati Uniti
Emanuela Burgazzoli Nell’aprile del 1969 l’umanità è sul punto di scoprire un paesaggio remoto, altro; quello lunare. Il 15 aprile in Germania ARD trasmette in tarda serata un film intitolato Land Art, un progetto sperimentale diretto da Gerry Schum. Il filmato, che voleva essere «una esposizione televisiva», che presentava otto opere di artisti americani ed europei, fra questi nomi che diventeranno mondialmente noti, come Richard Long, Michael Heizer e Robert Smithson. Si trattava di opere d’arte effimere visibili soltanto per la durata della trasmissione: un esperimento fallimentare sul piano televisivo, ma per la storia dell’arte quel titolo – Land Art, abbreviazione di landscape art – diventa un marchio di successo nell’arte contemporanea. A dire il vero negli Stati Uniti un anno prima la critica d’arte Rosalind Krauss aveva già coniato l’espressione «sculpture in expanded field» (scultura in campo espanso) per designare una pratica artistica che impiegava tecniche e materiali anticonvenzionali, nuovi luoghi e dimensioni, con opere realizzate direttamente sul posto. Nell’ottobre del 1968 la memorabile collettiva Earth Works allestita alla Dwan Galley di New York aveva segnato una svolta, presentando un’arte che si sganciava «da forme e ordini duraturi preconcepiti», come scriveva l’artista Robert Morris nel saggio Antiform. Questa nuova arte – concepita per essere realizzata in un luogo specifico – scardinava il triangolo atelier-galleriacollezionista, presentando nello spazio espositivo spesso soltanto fotografie, progetti o i filmati che documentavano i lavori situati altrove, come la foto di Earth Mound. Quella collinetta di terra realizzata ad Aspen nel 1955 da Herbert Bayer ha reso il grafico austriaco ex insegnante al Bauhaus, uno dei pionieri di quest’arte figlia del minimalismo, che cercava l’essenza, come in Brancusi e Donald Judd. Un’essenza che è sinonimo di semplificazione formale-estetica, ma anche di ricerca spirituale. Del resto Michael Heizer preferisce
Richard Long, Dusty Boots line, The Sahara, 1988. (richardlong.org)
considerare l’arte come una religione, piuttosto che un’attività ricreativa: la sua Double Negative – spettacolare e gigantesca scultura in terra realizzata su un altipiano del Nevada – è diventata un’icona della earth art americana, tanto quanto la Spiral jetty di Robert Smithson, spirale di roccia, terra, e detriti, realizzata sul Grande Lago salato nello Utah. La spirale, o i cerchi spezzati, e il recupero artistico di paesaggi industriali (convinto che l’arte potesse «diventare una risorsa per mediare tra ecologia e industria») sono i tratti caratteristici di quello che è considerato uno dei più importanti teorici fra i land artist. Altra opera icona è quella ideata da James Turrell, autore del monumentale progetto del Roden Crater, in una regione vulcanica dell’Arizona, a cui inizia a lavorare nel 1974. Scultore della luce, Turrell concepisce la sua arte
come una sorta di «aiuto allo sguardo»: ogni spettatore («My art is made for one person») si ritrova immerso in situazioni spaziali che prevedono particolari aperture, vivendo così una personale esperienza percettiva del cielo e degli eventi celesti. La componente contemplativa e la scelta di luoghi sperduti caratterizzano anche i lavori dell’inglese Richard Long, che ha saputo trasformare il «camminare» in un’autentica forma d’arte, fin da A line made by walking del 1967. A Long piace camminare, tanto quanto gli piacciono le pietre, materiale semplice legato alla storia della Natura, che l’artista dispone in linee, croci e soprattutto in cerchi («i cerchi sono universali e senza tempo») per creare opere presentate, a partire dagli anni Settanta, in prestigiosi musei americani attraverso fotografie. Le «camminate artistiche» di Long si trovano in pae-
saggi lontani come il Nepal o il Sahara, ma anche nelle stanze del padiglione britannico della Biennale di Venezia del 1976 che indagava i rapporti fra arte e ambiente. «La mia opera non è urbana né romantica; è la realizzazione di idee moderne nei soli luoghi adatti ad accoglierle. Il mondo naturale supporta quello industriale. Io uso il mondo così come lo trovo», scrive Long, escludendo ogni interpretazione romantica della propria arte. Molte delle opere di land art appartengono all’arte concettuale: sono effimere, soggette alla forza del tempo e degli elementi naturali, erose, sommerse o cancellate in pochi minuti, come il vortice di azoto liquido disegnato nel cielo californiano da un aereo nel 1973, progetto di Dennis Oppenheim, convinto «che una delle principali funzioni dell’arte sia quella di forzare i limiti di ciò che si può realizzare».
Quelle virgole come la gramigna
La lingua batte Riflessione su un elemento dell’ortografia molto spesso trascurato
o, al contrario, piuttosto esasperato Laila Meroni Una pagina, un testo, parole che si rincorrono lungo le linee. È un ordine rigoroso soltanto in apparenza, quello che si crea sulla pagina. Durante la lettura tutto fila liscio; provate però a sfocare l’immagine, ad allargare il campo visivo espandendolo oltre le singole parole: ecco che il testo (l’italiano si presta in modo particolare, a differenza ad esempio del tedesco) si anima, di un movimento ondivago appena percettibile. E si trasforma, ricordando una fotografia in bianco e nero di un prato lasciato libero di fiorire come vuole e di fare le sue scelte. Fra le parole, fra le lettere, respirando fra uno spazio e l’altro, crescono e vivono in armonia i «fiori» appartenenti alla specie della Punteggiatura: virgole, punti e virgola, punti, hanno iniziato molto tempo fa a donare chiarezza ai testi scritti, così che la lettura diventasse meno gravosa.
Tante forme diverse, per usi altrettanto vari. (U. Wolf)
Della virgola, la «piccola verga», si vuole riflettere qui in particolare: un filo d’erba del grande prato, che tuttavia a volte sembra volerlo soffocare. Troppo spesso accade infatti di imbattersi in
testi in cui qualche virgola si trasforma in gramigna infestante: sono quelle che si insinuano fra soggetto e predicato, o fra verbo e complemento («queste inutili interruzioni, mozzano il respiro, creando, una spiacevole sensazione di fastidio grammaticale»: ecco, proprio di questi mostriciattoli stiamo parlando, senza voler toccare per carità la legittimità delle licenze poetiche, o quelle virgole eccezionali che in realtà come un ponte aiutano la lettura quando la distanza tra soggetto e predicato è notevole). Stiamo parlando di erbacce che purtroppo si ritrovano qua e là anche in contesti prestigiosi e inaspettati, forti di lunghe tradizioni editoriali, e che guastano il sapore del pensiero scritto e del racconto trasmesso. Non tutto è da demonizzare nell’era del messaggio breve che cavalca l’onnipresente telefono cellulare, ma certo la frenesia delle dita che massaggiano lo schermo dà sfogo al desiderio di velocità a scapito di quello della comuni-
cazione; là la punteggiatura è stata soppiantata dalle faccine. Così accade che, di fronte alla necessità o all’occasione di scrivere un vero testo, molti cadano nella tentazione di utilizzare la virgola in abbondanza, seguendo una curiosa legge del contrappasso; come in un prato lasciato alla libera fantasia della natura l’occhio può essere tratto in inganno da due vegetali simili ma diversi per la presenza di sostanze benefiche o venefiche, così nel testo si infilano virgole ingannevoli, infingarde, che mirano a dividere l’indivisibile secondo l’analisi logica, presentandosi al contrario come l’orpello che promette bellezza estetica alla frase. No. Con la punteggiatura non si scherza. O si rischia di mettere in pericolo il valore stesso del pensiero messo nero su bianco sulla pagina. Nei lettori più severi e meno indulgenti potrebbe crescere la tentazione di cancellare la magia del prato in fiore con una colata di catrame.
Questi pensierini sugli oggetti amati e usati dalle donne ci accompagneranno per tutta l’estate. Non è, forse non solo, una rubrica di moda: cercheremo di studiare la storia di cappelli, velette, scarpe, borse, gioielli, insomma l’imprescindibile. Conosciamo per primo il velo, che noi oggi attribuiamo solo a mezzo miliardo di donne musulmane. Dallo hijab (grande foulard che copre capelli, fronte, collo, orecchie) al burqa (dall’Afghanistan, tendaggio celeste che lascia solo una leggera rete davanti agli occhi, tutto il resto del corpo è nascosto): a seconda delle culture e delle aree geografiche, il velo islamico nasconde i capelli o il volto, o tutto, solo per le donne, naturalmente, donne punite con la morte se non lo indossano – e in maniera corretta – oppure donne che tornano volontariamente al velo, come gesto di orgoglio musulmano: così alcune nordafricane e le turche, così le ragazze islamiche migrate nel mondo cosiddetto occidentale o convertite. Malala, per esempio, non potrà accettare la proposta di insegnare in Quebec, perché le chiedono di togliersi il velo in aula. Una legge già francese e svizzera, mentre in Italia la proibizione raggiunge solo gli ospedali lombardi, a titolo anti-terroristico, mentre non è reato indossare veli e burqa, soprattutto veli. Ma se osserviamo con curiosità, compassione, a volte scherno, queste giovinette avvolte in colorati foulard, ci stiamo proprio sbagliando. Sì, il velo è stato ed è segno di repressione della donna (ricordate l’incontro tra Oriana Fallaci e l’ayatollah Komehini, quando lei si strappò dal capo il pur obbligatorio velo?), di una donna che deve vivere come se non esistesse, coperta. E dire che nel Corano si legge solo che alle mogli del Profeta e alle donne nobili ci si deve rivolgere quando sono protette da una tendina, una stoffa. Ebbene, questo velo, oggi anche segno di orgoglio di un’appartenenza, viene da lontano, da secoli prima dell’ègira. Quando Rebecca vide Isacco, lo guardò con amore, si accertò che fosse proprio lui, e immediatamente si velò (Gn 24,65). Nel mondo ebraico, anche oggi le nozze si svolgono sotto una tenda che copre gli sposi. Le Madonne poi dalle prime icone alle visioni di Bernadette e dei tre bambini di Fatima, sono molto raramente non velate. Si tratta spesso di veli trasparenti, o trapunti d’oro, o celesti per indicare il blu della divinità che prende per sé il rosso dell’umanità (suo figlio infatti è spesso vestito al contrario). Ma poi che dire delle suore velate, dell’obbligo per la donna cristiana di coprire il capo in chiesa, tolto solo nel Novecento. Cambiano i colori, il valore, il modo di indossarlo, ma sempre di velo si tratta. Quando la sorella di S. Ambrogio, Marcellina, prende i voti (IV secolo d.C.), si copre con un velo rosso fuoco, a indicare l’amore per l’unico Sposo divino e la disponibilità al martirio. Nei secoli le suore sono state velate di nero, bianco, azzurro… ora spesso non hanno il velo, anche per la varietà di ciò che le impegna, bambini, ospedali, missioni. La differenza è solo nell’obbligo e purtroppo nelle punizioni (uno chador messo male può costare almeno sessantasei frustate, in Iran), ma il velo viene da molto lontano.
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Cultura e Spettacoli
Presunzioni d’avanguardia
CD L’esperienza di oltre un decennio non basta a permettere al Thom Yorke solista di sfuggire alla noia
di un’elettronica poco ispirata Benedicta Froelich Sebbene non molti tra i fan più affezionati siano disposti ad ammetterlo, è innegabile come l’attuale influenza artistica dei Radiohead – l’eccitante rock band «alternativa» a lungo considerata l’esperimento musicale forse più intrigante offerto dalla scena inglese degli anni 90 – sia andata progressivamente riducendosi a misura che il gruppo cominciava a mostrare segni di stanchezza dovuti alla ripetitività del suo pur particolarissimo sound. Forse anche per questo, da oltre un decennio il frontman Thom Yorke ha inaugurato una carriera solista parallela alla produzione via via più scarna del gruppo; carriera alla quale ha appena aggiunto un nuovo capitolo, anche stavolta registrato senza l’ausilio di una vera band d’accompagnamento, ma semplicemente immergendosi al cento per cento nel sound offerto dai campionamenti, sintetizzatori, loop ed effetti digitali tipici della musica elettronica nella sua accezione più attuale e moderna, caratterizzata da ritmi ossessivi e ripetitivi e dall’assenza quasi totale di melodie riconoscibili. Questo nuovissimo Anima ripropone infatti il medesimo percorso seguito da ogni precedente lavoro solista di Thom, a partire dal debutto The Eraser, dato alle stampe nel 2006, durante un periodo di pausa dall’attività con i Radiohead; la differenza sta nel fatto che, secondo un’abitudine ora in voga tra molti rocker, l’album è accompagnato da un omonimo cortometraggio, diretto da Paul Thomas Anderson e proposto dall’immancabile Netflix. Del resto, Yorke sembra aver deciso di riservare la propria carriera solista a esperimenti elettronici dagli esiti in verità piuttosto sicuri e tranquillamente ripetibili, senza voler indulgere in troppe possibili sorprese nella linea stilistica o emozionale dei suoi dischi; e questo nuovo Anima si presenta come un album di durata breve – un lavoro che, in virtù della propria natura cinematografica, va, per così dire, «dritto al punto», avvolgendo fin dal primo istante l’ascoltatore in atmosfere e suggestioni ipnotiche e, in fondo, quasi asettiche nella loro scarna sobrietà digitale.
Il frontman dei Radiohead conduce da tempo una carriera da solista. (pressassociation.io)
Lo si avverte fin dal brano di apertura, il cadenzato Traffic, quasi una sorta di stream of consciousness in cui la voce di Thom fa da contrappunto alle ritmate inflessioni di una linea melodica volutamente incerta, che in alcuni punti riporta alla mente alcuni recenti exploit dei geniali Muse; sulla medesima scia, altri brani mostrano un legame ancor più labile tra il cantato di Yorke e la base musicale, in una pigrizia che purtroppo sfiora l’inerzia (come in Impossible Knots). Nel contempo, i campionamenti da dj anni 90 su cui sono basati pezzi quali Twist e Not the News giungono ormai fuori tempo massimo, recando con loro un forte sapore di déjà-vu, al punto da risultare alla lunga quasi irritanti; va un
po’ meglio con I Am a Very Rude Person, principalmente grazie agli abituali cori eterei nei quali Thom si produce in sottofondo, e lo stesso si può dire di The Axe, brano che di fatto si avvicina non poco ai più recenti lavori dei Radiohead, gradualmente sempre meno improntati sulla forma canzone classica (si veda A Moon Shaped Pool, del 2016). Il fatto è che la cosiddetta «musica elettronica» rappresenta, in realtà, un ambito molto delicato, specialmente in un’epoca in cui il genere è quantomeno inflazionato; oggi, questa branca del pop-rock spazia infatti dal tipo di scelta operata da quegli artisti che indulgono in ballate musicate secondo sonorità, appunto, elettroniche (come i talentuosi The National o gruppi più
stagionati quali i Depeche Mode), per arrivare agli esperimenti di stile veri e propri, spesso piuttosto estremi e derivati direttamente dal progressive rock dei seventies o dal synth-pop più d’assalto; e come l’ultimo ventennio ha dimostrato, poche imprese possono definirsi complesse e disperate quanto il concepimento di un disco di musica elettronica che non risulti noioso o perfino alienante nelle sue continue ripetizioni di frasi e ritmi spesso esclusivamente sincopati, soprattutto laddove la cosiddetta «electronica» viene spesso confusa con la disco o la dance più dozzinali, come accade anche alle nostre latitudini. Così, spesso appare lontana l’epoca in cui l’ossessività del sound raggiunge-
va picchi di assoluta finezza tematica e originalità narrativa con gruppi del calibro dei teutonici Kraftwerk; e proprio questo «ristagno» resta, al momento, il vero problema di Yorke, tuttora incapace di distaccarsi dal segno distintivo della sua produzione con i Radiohead, quel cantato quasi surreale, strascicato e lamentoso, ormai divenuto manierismo. E poiché simili espedienti di forma non possono comunque sostituire la vera «sostanza» di un lavoro di songwriting, l’indiscutibile professionalità di Yorke non basta a smentire l’impressione che l’artista di Anima sia ormai invischiato in una sorta di pigra presunzione creativa, a lungo andare inevitabilmente destinata a nuocere alla sua credibilità.
Last call, ovvero l’ultima chiamata
In scena Debutto a Zurigo della prima opera per il teatro scritta dal compositore svizzero Michael Pelzel Marinella Polli Al contrario di certo sentire, l’opera lirica non è certo morta, anzi, attualmente conta composizioni di valore che, a prescindere dalla trama, rac-
contano l’uomo moderno con il linguaggio che di continuo si rinnova, tipico di oggi. Svecchiando il genere, le nuove composizioni affrontano anche temi di attualità e sono dunque fonte d’interesse per un pubblico nuo-
Ruben Drole veste i panni di Urguru. (opernhaus.ch)
vo. Benché a scadenze irregolari, l’Opernhaus sostiene il filone investendo anche nel non proprio commerciale settore dell’opera contemporanea. Con l’ensemble Opera nova, giovani ed entusiasti musicisti della Philarmonia Zürich, è possibile allestire lavori di recente realizzazione. Quello di quest’anno è Last Call, la prima opera per il teatro di Michael Pelzel (classe 1978), su libretto di Dominik Riedo. Pelzel lo definisce semplicemente «Musiktheater», ma si tratta di una vera e propria opera da camera. Un’opera da camera contemporanea, dunque difficile e non per tutti i palati, che narra una storia distopica, sul genere della narrativa speculativa di Margaret Atwood, per intenderci, ma con l’ironia di un Christoph Marthaler e con certi aspetti grotteschi alla György Ligeti. Denunciando una società ormai non più in grado di comunicare e che, distruggendo la natura e l’intero pianeta va inesorabilmente incontro alla catastrofe, compositore e librettista riflettono sul senso della vita all’insegna
di digitalizzazione, megabyte e chips. Ma sono proprio gli Urchips a ribellarsi, annunciando però, via voce elettronica, possibili soluzioni che consentano di reagire per poter poi riavvolgere il nastro e ricominciare daccapo: fermare la rotazione della terra, emigrare sul pianeta Elpisonia, una volta avvenuta la distruzione totale, o darsi ad un bel megaparty. Tant’è: l’evacuazione su Elpisonia si conclude, tutti hanno ormai lasciato la terra, tutti tranne due che si ritrovano a dover comunicare per forza tra loro: Sulamit Hahnemann (Annette Schönmüller) e Johnny (Christina Daletska). E quando l’ultima nave spaziale ritorna, i due non riescono a decidere di partire, né a capire se farebbero meglio o no a restare; quasi un dubbio amletico per loro, e per gli spettatori. Last call, varata alla fine di giugno alla Studiobühne dell’Opernhaus, è un’opera audace anche vocalmente; la prestazione dei sei cantanti è mozzafiato, anche se atonale e sul linguaggio onomatopeico di Riedo. Oltre ai due strepitosi interpreti citati, ricordiamo i bravi Ruben Drole nel ruolo di Urguru,
Alina Adamski in quello dell’influencer Trendy-Sandy-Mandy, Thomas Erlank, quale Harald Gottwitz, Jungrae Noah Kim quale Karitzoklex. La partitura è una geometria di reminiscenze contemporanee come fruscii, colpi di gong, rumori industriali generati anche dagli strumenti e considerati suoni, esattamente come le parole che assumono qui un colore proprio. Un’alchimia timbrica che amplia lo spazio acustico, creando una nuova dimensione. Jonathan Stockhammer guida i dotatissimi membri dell’Opera Nova: violino, viola, due violoncelli, contrabbasso, percussioni, due pianoforti, celesta, Glasharmonica. L’occhio ha altresì la sua parte, grazie alla dinamica regia di Chris Kondek, alle scene di Sonja Füsti, ai costumi di Julia von Leliwa e, soprattutto, ai video di Ruth Stofer che, evidenziando momenti non raccontati a parole, fanno quasi da personaggio. Il tutto per ottanta minuti e con un pubblico coinvolto che si diverte anche. Peccato che il debutto di Last Call avvenga a fine stagione. Repliche la stagione prossima.
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Cultura e Spettacoli
La bottega delle meraviglie di Roth
Editoria Il «Corriere della Sera» ristampa Perché scrivere?, affascinante volume in cui lo scrittore americano
riflette sulla sua carriera e, più in generale, sul senso dell’attività letteraria Manuel Rossello Roberto Calasso, editor-in-chief dell’Adelphi, ha scherzosamente dichiarato di suddividere le novità librarie in quattro categorie: pattume, paccottiglia, sana mediocrità e... i volumi pubblicati da Adelphi. Benché il libro di cui si accenna non sia edito dal celebre marchio milanese, ci sentiamo di includere questa raccolta di scritti critici di Philip Roth (Perché scrivere? Saggi, conversazioni e altri scritti, 1960-2013, Einaudi, 2018; ora ristampato dal «Corriere della Sera») nella quarta, eletta, categoria. In questo volume si trova una tale abbondanza di osservazioni acute sulla letteratura, giudizi taglienti, ritratti a tutto tondo di scrittori e politici (delizioso quello di Reagan: «Un leader terribilmente potente, ma con l’animo di una nonnina da soap opera, il senso civico di un venditore di Cadillac di Beverly Hills»), nonché di illuminanti riflessioni narratologiche formulate con tono brillante, da far ritenere che il Roth critico non abbia nulla da invidiare al celebrato scrittore. Ma questo libro è anche una girandola di interviste-conversazioni a pezzi da novanta della letteratura mondiale (adunate sotto un titolo che è un capolavoro di understatement: «Chiacchiere di bottega»). In veste di intervistatore di lusso Roth conversa con Primo Levi, Isaac Singer, Milan Kundera, Mary McCarthy, Edna O’Brian (magnifiche
le osservazioni su Joyce) e Saul Bellow. Nomi da far tremare le vene e i polsi. Scegliendo a caso tra le molte pagine memorabili del libro non si può non menzionare la cena che ha luogo a metà degli anni Novanta a Cambridge, Massachusetts, tra Saul Bellow, Aharon Appelfeld e Roth stesso. In quell’occasione Roth registra ammaliato la metamorfosi dei due grandi scrittori, che dall’aplomb anglosassone che li caratterizza passano a un fervore di espressioni e di gesti innescato dal fatto di parlarsi in yiddish. «Ciascuno di loro sembrava il magico rimescolamento di se stesso, dotato di una dimensione prima inattiva. Era come se grazie allo yiddish avessero trovato un altro significato, un modo diverso di guardare alla vita che li poneva in una condizione psichica del tutto diversa». La dannazione di Roth, da Lamento di Portnoy in poi, sono state tre categorie di persecutori: gli entusiasti, che stazionavano sotto la sua abitazione di Manhattan per osservare da vicino l’autore osceno e depravato (e sperando di vederlo all’opera in qualche estemporanea acrobazia erotica); i moralisti, intenzionati a spedirlo all’inferno senza nemmeno concedergli di passare per un auto da fé; infine gli ebrei ortodossi, poiché, lo rimprovera un rabbino, «questo scrittore, ebreo per nascita, non fornisce un ritratto equilibrato, bensì insiste troppo nella raffigurazione di ebrei come ladri, prostitute e piccoli trafficanti disonesti e fornicatori,
mentre, pur dotato, sa cogliere così poco della portentosa saga della storia ebraica». Roth ha buon gioco nel replicare che a lui interessa raffigurare la realtà nel suo pulsare, «la sporca realtà» direbbe il cubano Gutiérrez. In ogni caso egli è in grado di scrivere solo su ciò che conosce. E ciò che conosce, nel bene e nel male, è la comunità di immigrati ebrei di Newark dove è cresciuto negli anni Quaranta. Quanto all’accusa di oscenità, osserva che «l’oscenità di Portnoy è intrinseca alla situazione, non al mio stile. Non mi interessa difendere le parolacce, ma solo il diritto di utilizzarle quando sono pertinenti». Esilaranti, a questo punto, le lettere che Roth immagina inviate a suoi famosi predecessori: «Caro Fëdor Dostoevskij, gli studenti della nostra scuola hanno l’impressione che lei sia stato ingiusto verso di noi. Le sembra che Raskolnikov sia un ritratto equilibrato?», «Caro Mark Twain, nessuno schiavo della nostra piantagione è mai fuggito. Ma cosa penserà il nostro padrone quando leggerà del negro Jim?», «Caro Vladimir Nabokov, le ragazze della nostra classe...». Sotto il tambureggiare della vis polemica e delle puntualizzazioni teoriche si sente pulsare la passione didattica dell’anziano professore (per un certo periodo Roth esercitò l’insegnamento universitario a Chicago e in seguito nello Iowa). E qualunque docente di lettere che abbia a cuore la propria materia non può non provare
Philip Roth è stato uno dei maggiori narratori americani. (tc.pbs.org )
una profonda empatia con la seguente affermazione: «Struttura, forma e simbolo in America sono il classico armamentario dei più sprovveduti insegnanti di letteratura delle superiori. Io proibisco ai miei allievi di usare quelle parole, sotto pena di espulsione. Ne consegue un delizioso miglioramento del loro inglese, e talvolta anche del loro pensiero». Affermazione che fa il paio con quest’altra: «Avendo insegnato per molti anni all’università, so che ci vuole un grande sforzo per far sì che gli studenti leggano con tutta la loro intelligenza la narrativa che hanno sotto gli occhi senza lasciarsi distrarre da banalità moralistiche, interpretazioni arzigogolate e congetture biografiche, né farsi contagiare dalla generalizzazione imperante». Sembra di sentire Domenico De Robertis, egli stesso raffinato commentatore, quando biasimava l’ipertrofica mole di commenti critici attorno ai classici definendola «una nube tossica». In un libro intitolato Perché scrivere? non potevano mancare le sue personali istruzioni per l’uso. Esse sono le più semplici tra le infinite che ci è toccato leggere negli ultimi anni e sono l’applicazione perfetta dell’adagio flaubertiano «vivre en bourgeois, penser en demi-dieu»: «Sto al tavolino dieci ore al giorno, tutti i giorni, per due o tre anni. Alla fine, forse, ne esce un romanzo». (Detto tra parentesi: oggi, per il solo fatto di aver pubblicato un’inezia nella più sgangherata vanity press, chiunque si sente autorizzato a ritenere che i propri tic siano meritevoli di rivelazione). C’è una domanda inespressa che aleggia come un convitato di pietra lungo tutto il libro e che viene posta da un intervistatore nelle ultime pagine: «Perché non ha vinto il Nobel?». La memorabile risposta dello scrittore, sfinito dal sentirsi ripetere la domanda, meriterebbe di essere posta in esergo a un manuale su come titolare i romanzi (e pure a un vademecum su come vincere l’ambitissimo premio): «Se Lamento di Portnoy si fosse intitolato L’orgasmo sotto il capitalismo rapace, allora forse mi sarei guadagnato il favore dell’Accademia svedese». Oltre al fatto, arcinoto, di aver innalzato il monologo erotico agli onori dell’alta letteratura (stiamo semplificando), esiste un secondo segreto all’origine del successo letterario di Philip Roth. Un segreto di disarmante sem-
plicità, che egli considera fondamentale per tutta la sua successiva carriera: il deprecato cazzeggio giovanile. «La parte migliore della mia adolescenza sono state le interminabili conversazioni, spesso condite da discorsi salaci sulle imprese sessuali che sognavamo di compiere e da ogni sorta di battute anarchiche, imitazioni, battibecchi, satire e smargiassate, che si svolgevano di solito tra quattro o cinque di noi in uno spazio grande quanto una cella, nel chiuso di un’auto parcheggiata. Tutto ciò è strettamente legato a quello che è poi diventato il mio lavoro». Un’idea pedagogicamente praticabile, considerato il prezzo della benzina. Si dice che la scrittura sia una metafora della cucina perché, analogamente al lavoro del cuoco, lo scrittore sbuccia, arrostisce, scongela, condisce, marina... e ciò che ne risulta è spesso un grumo indigesto. La tecnica compositiva di Roth è qualcosa di estremamente magmatico, ma si avvicina in qualche modo a una preparazione gastronomica durante la quale un cuoco trafelato corre incessantemente da un pentolone all’altro, con finale truculento: «Faccio incursioni fallimentari, scrivo a intermittenza stesure esitanti... un continuo andirivieni da un progetto in fieri all’altro per gestire la frustrazione. L’idea è mantenere in vita narrazioni che traggano la propria energia da fonti diverse, così che, quando le circostanze sono favorevoli al risveglio dell’una o dell’altra bestia dormiente, io abbia sottomano una carcassa da darle in pasto». Se è vero, come disse Graham Greene, che l’infanzia è la capitale di ogni scrittore, nel libro di Roth troviamo più di una conferma della centralità di questa stagione della vita. Per farlo, egli sovrappone la dimensione dell’infanzia alla tecnica della descrizione umana: «Quasi ogni mio romanzo prende forma a partire da progetti abbandonati a cui ho dedicato notevoli sforzi. Solo più tardi mi rendo conto di come ognuno di essi abbia fornito dei blocchi per la mia futura costruzione [...] In ogni blocco abbandonato ci sono delle cose che mi piacciono e che mi rincresce perdere, per esempio la vivida crudezza con cui vengono presentati i personaggi, che corrisponde al modo in cui secondo me si percepiscono le cose nell’infanzia». Tutto merito di quelle serate passate a chiacchierare nell’auto del padre.
Vivere lontano dalla patria
Migranti e migrazioni nel mondo classico Gli eroi archetipici della lontananza:
Odisseo vs. Enea – Prima parte Elio Marinoni Il tema della vita lontano dalla patria compare per la prima volta nella seconda opera, in ordine di tempo, della letteratura europea a noi pervenuta: l’Odissea di Omero. Il suo protagonista (Odisseo/Ulisse) si è allontanato dalla patria, al pari degli altri eroi greci dell’Iliade (l’altro poema omerico, presupposto dall’Odissea) e dei loro sottoposti, per partecipare a una guerra: la spedizione panellenica contro la città di Troia (situata nell’Asia Minore settentrionale) organizzata da Agamennone, re di Micene e di Argo, secondo il mito allo scopo di vendicare il fratello Menelao, a cui il principe troiano Paride aveva rapito la moglie Elena; secondo gli storici moderni, per assicurare alle città greche il controllo dello stretto dei Dardanelli, posizione strategica per gli scambi commerciali. Ai dieci anni della guerra (è il dato
tradizionale) se ne aggiungeranno altri dieci, richiesti dal rocambolesco viaggio di ritorno per mare da Troia ad Itaca, almeno in parte dilatato dallo stesso spirito avventuroso dell’eroe e dal suo desiderio di conoscenza. Ma alla fine sarà la nostalgia degli affetti familiari e della patria a prevalere su ogni altra pulsione («vedere il dì del ritorno» è un leit motiv ricorrente nell’Odissea), e ciò consentirà a Odisseo di recuperare quell’originaria terrestrità e quell’«anima contadina» che sono state giustamente evidenziate da Francesco Guccini nella prima strofa del suo Odysseus, dove il cantautore così fa parlare l’eroe: «Bisogna che lo affermi fortemente / che, certo, non appartenevo al mare / anche se dei d’Olimpo e umana gente / mi sospinsero un giorno a navigare». L’Odisseo omerico torna dunque a baciare la sua «petrosa Itaca» (Foscolo), diversamente dall’Ulisse dantesco
che varca le colonne d’Ercole e si inabissa. Se l’Odissea può essere considerata «l’epopea fondatrice della nostalgia» (M. Kundera, L’ignoranza, trad. it., Adelphi, Milano 2001, p. 11) e Odisseo/Ulisse l’archetipo dell’eroe nostalgico, Enea è l’archetipo dell’esule, del migrante costretto dagli eventi ad abbandonare la propria patria e ad andarne alla ricerca di una nuova. Anche in questo caso l’abbandono forzato della patria è causato da una guerra, e si tratta sempre della guerra di Troia. È notte, e la città è stata ormai data alla fiamme dai Greci. Enea vorrebbe trattenersi a tentare un’ultima, disperata difesa. Ma sono dapprima l’ombra del defunto Ettore, apparsogli in sogno, poi la stessa madre Venere ad esortarlo, con parole molto simili, a fuggire: il monito di Ettore «Oh, fuggi, figlio di una dea, e sottraiti a queste fiamme» (Virgilio, Eneide, II, 289) è
ripreso più avanti dalla dea: «Sottraiti, figlio, alla fuga e poni fine al travaglio» (Eneide, II, 619). Nel momento di abbandonare Didone per riprendere il viaggio, Enea ribadirà di essere sospinto verso l’Italia dalla volontà divina, giacché, se fosse dipeso da lui, avrebbe rifondato Troia nello stesso sito: «Se i fati mi permettessero di condurre la vita secondo i miei auspici e di ricomporre gli affanni a modo mio, la città di Troia in primo luogo e le care reliquie dei miei onorerei; […] e con la mia mano avrei rifondato per i vinti una nuova Pergamo». (Virgilio, Eneide, II, 340-344). Al di là dell’esperienza condivisa del viaggio avventuroso da Troia verso Occidente e del fatto che il viaggio di Enea sia stato costruito letterariamente da Virgilio sul modello dell’Odissea, Ulisse ed Enea sono dunque due figure speculari, la cui antinomia di fondo è stata felicemente sintetiz-
Mosaico romano: Ulisse ascolta il canto delle sirene. (Wikipedia)
zata da Carlo Ossola: «Ulisse è peregrino […], ma torna e tutto ritrova: la patria, la sposa, il figlio, la nutrice, il cane, il letto. Il viaggio ha confermato l’origine. Enea, al contrario, non è neppure uscito da Troia e già ha smarrito la sposa. Calipso provvede di conforti l’eroe che parte, mentre Didone maledice chi la tradisce e si uccide. Tutto, dalla parte di Enea, è perdita; parte, carico del padre, per non fare più ritorno, e la fine stessa del poema è morte» (L’Europa unita? Vedi alle voci Dante e Joice, in «Corriere della Sera», 8 gennaio 2000, p. 29).
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 luglio 2019 • N. 30
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Cultura e Spettacoli
Il successo di un triplo paradosso
In memoriam Ripercorriamo la singolare carriera di Andrea Camilleri, uno scrittore dalla personalità originale
che ha saputo suscitare grande affetto nei suoi lettori
Paolo Di Stefano Andrea Camilleri è stato un paradosso, per tante ragioni. La prima: lo scrittore si impose al grande pubblico settantenne, con i gialli che hanno al centro il commissario Montalbano (Il ladro di merendine in primis). Antonio Franchini, autore della Cronologia del Meridiano Mondadori, ricordava che nella primavera del 1997 Maurizio Costanzo promise di rimborsare la cifra del prezzo di copertina al lettore che se ne fosse dichiarato insoddisfatto. A partire dall’anno dopo, con Il cane di terracotta, tutti i libri di Camilleri senza eccezioni sarebbero entrati nella classifica dei top ten. Il primo paradosso è dunque che Camilleri prima di Montalbano non era nessuno, anzi veniva rifiutato dagli editori. Poi accadde che la casa palermitana Sellerio, la stessa di Leonardo Sciascia, che economicamente era sull’orlo del precipizio, sarebbe stata rilanciata proprio dal commissario di Vigata. Il secondo paradosso è linguistico: e cioè il fatto che quel successo travolgente (alla fine del 2016 Camilleri aveva oltre cento titoli tradotti in 120 paesi con circa 26 milioni di copie vendute) si realizza nonostante il linguaggio quasi impossibile: un siciliano reinventato. I romanzi storici come quelli polizieschi sono caratterizzati da uno slang che innesta su una base di italiano standard effetti fonetici ed elementi lessicali siculi o pseudo-siculi a volte stranianti persino per i siciliani. Ne viene fuori un ritmo sonoro unico. Terzo paradosso: l’opzione narrativa di Camilleri, spesso rimproveratagli, è quella di mettere in scena dei plot polizieschi siciliani lasciando sullo sfondo la criminalità organizzata, filo conduttore di tanto immaginario narrativo siculo (vedi Sciascia, che è indubbiamente un modello per lo scrittore agrigentino). Sono fenomeni che si realizzano in contrapposizione con la tradizione letteraria novecentesca dell’isola, dove non si poteva raccontare un omicidio che non fosse di origine mafiosa e dove la lingua doveva essere o quella trasparente e illuministica di Sciascia oppure quella filologica e barocca di Vincenzo Consolo. Sul piano teorico, anche a proposi-
to della cosiddetta sicilitudine Camilleri va controcorrente: d’accordo la specificità e l’identità dell’isola, ma senza esagerare, cioè evitando i soliti lamenti autoconsolatori. L’ironia, che a volte trascolora in commedia-farsa, vince nettamente sul tragico, l’intreccio e la leggerezza vincono sull’impegno, anche se Camilleri, specie il Camilleri amareggiato degli ultimi tempi, amava intervenire puntualmente con voce ferma a sferzare il suo paese. Nato nel 1925 a Porto Empedocle (Agrigento), Camilleri è stato un gran costruttore di personaggi e un grande narratore anche di se stesso. Figlio unico di Giuseppe Camilleri e di Carmelina Fragapane. Ricordando la sua «infanzia senza limiti», Andrea evocava la rovina delle miniere di zolfo che travolse la sua famiglia lasciandola in una «dignitosa miseria». A nove anni fu spedito nel collegio vescovile di Agrigento per avere, tra l’altro, falsificato i voti della pagella: lì fu autorizzato a leggere romanzi come Via col vento, La saga dei Forsythe e gli «Omnibus» Mondadori. La passione per la lettura gli fu trasmessa dalla nonna materna, ma anche il padre, appassionato soprattutto di romanzi gialli (ovviamente i Mondadori da edicola). Il giovane Andrea riuscì a farsi cacciare dal collegio lanciando contro il crocifisso una delle uova che la madre gli aveva mandato da casa. A dieci anni cominciò a scrivere poesie, dedicate alla mamma e al suo idolo Mussolini, e a sedici vinse i Ludi Juveniles con un tema sulla cultura fascista: al Teatro Comunale di Firenze, dove si tenne la presentazione, incassò un calcio nei testicoli dal ministro Pavolini per essersi dissociato dal saluto al duce. Durante lo sbarco degli alleati fu disertore della marina, quando si imbatté nel generale Patton svettante su un carrarmato e nel grande fotografo Robert Capa che pancia a terra sparava flash a raffica verso gli aerei in duello nei cieli di Agrigento. Iscritto a lettere a Palermo, fondò il partito comunista nel suo paese e comunista si sarebbe fieramente dichiarato per tutta la vita. A Taormina come osservatore Pci del congresso liberale, un altro incontro memorabile fu quello con Vitaliano Brancati, per cui Camilleri stravedeva.
Era nato a Porto Empedocle nel 1925; è morto a Roma il 17 luglio scorso. (Marka)
Un giorno del 1945, a Roma comperò in un’edicola l’ultimo numero di «Mercurio», la rivista diretta da Alba De Céspedes e in copertina ebbe la sorpresa di leggere il suo nome accanto a quelli di Silone, Alvaro, Moravia, Natalia Ginzburg. Qualche mese prima aveva spedito alla rivista una poesia, intitolata Solo per noi, che fu accolta e pubblicata senza preavviso. Dirà Camilleri che nessun libro, trionfo letterario, recensione, bestseller futuro gli avrebbe mai più regalato una simile emozione. Intanto, nel 1950, alloggiato in un convento durante uno spettacolo estivo, si giocò la possibilità di continuare a frequentare l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica poiché venne sorpreso da una suora a letto con la fidanzata e fu espulso. Nel 1957 sposò Rosetta Dello Siesto, conosciuta quattro anni prima durante le prove della sua prima regia teatrale. Lei dattilografa, lui teatrante, avevano non più di 40 mila lire di stipendio: avranno tre figlie e quattro nipoti. Prima respinto in quanto comunista, nel ’58 fu chiamato
per una sostituzione di maternità nel settore prosa della Rai: i sei mesi previsti diventarono trent’anni. Il lavoro agli sceneggiati televisivi (per Il tenente Sheridan di Ubaldo Lai e per la riduzione dei Maigret di Gino Cervi) fu la sua vera scuola di scrittura. I romanzi verranno, pare, per una promessa fatta al padre morente. Il primo libro firmato Andrea Camilleri è datato 1959: è una dotta Storia dei teatri stabili in Italia 1898-1918. Seguiranno almeno altri cento titoli, tra romanzi polizieschi, romanzi storici, racconti, romanzi documentari. Il primo fu stampato a pagamento nel 1978, si intitolava Il corso delle cose e passò del tutto inosservato. Nel 1980 da Garzanti uscì Un filo di fumo, dove per la prima volta compariva l’immaginaria cittadina siciliana di Vigata: anche in questo caso pochi se ne accorsero. Nessuno avrebbe mai immaginato il successo travolgente che sarebbe arrivato dal 1999 con il Montalbano televisivo impersonato da Luca Zingaretti, un detective che ama la cucina come tutti
gli italiani e come tutti gli italiani odia la burocrazia imposta dallo Stato: ma è anche un italiano onesto che cerca la giustizia. Con il trionfo di Montalbano nasce una nuova generazione di scrittori italiani consapevoli della nozione di intrattenimento e/o di impegno civile attraverso il giallo: Carofiglio, Lucarelli, De Cataldo, Faletti, Carlotto, De Giovanni… Tutti questi, nel bene e nel male, gli devono qualcosa. Il miglior Camilleri, sul piano dello stile e della invenzione narrativa, resta il cantastorie di romanzi storici, che partono spesso da avvenimenti reali scovati nei documenti soprattutto ottocenteschi: Il birraio di Preston, La concessione del telefono, Il re di Girgenti, ambientato in una Sicilia sei-settecentesca in bilico tra violenza cieca e grottesca lotta di potere. Camilleri ha saputo spaziare dalle sottigliezze riflessive agli slanci vili, dalle avventure picaresche fino ai toni satirici (sull’Italia fascista, per esempio, ne Il nipote del Negus) per narrare con ironia l’eterna disillusione sicula e in fondo italiana.
La migliore solitudine
Editoria Le pratiche di lettura dei grandi classici della letteratura italiana ed europea
nel «libro sui libri» di Lina Bolzoni Stefano Vassere «Portiamo i nostri contadini a esercitarsi sui libri invece che con la baionetta! Reclutiamo, istruiamo, intratteniamo garantendo loro una paga, sotto un alto comando qualificato, degli eserciti di pensatori, invece che degli eserciti di assassini». Lina Bolzoni ha insegnato letteratura italiana nella Scuola Normale Superiore di Pisa e nella New York University. Questo suo ultimo libro si intitola Una meravigliosa solitudine. L’arte di leggere nell’Europa moderna e ci racconta le esperienze di lettura di figure fondanti della letteratura italiana ed europea sulla soglia della modernità, con un’appendice dedicata a un prezioso scambio di punti di vista sul leggere e sui libri tra Marcel Proust e John Ruskin. È la velocità del cambiamento nell’ambito delle comunicazioni (ci si vergogna quasi nell’elencarne con banalità le tappe, dalla tavoletta, al ro-
tolo, al codice, ai caratteri mobili per tornare alla forma-tavoletta, detto così alla grossa) a invitare tutti al costume essenziale dei classici, richiamando ol-
Un particolare dalla copertina del volume.
tretutto l’immagine sognante e quasi rituale della lettura come dialogo con i morti, «una forma laica di resurrezione, o di rito negromantico»: quindi Petrarca e poi Boccaccio, Machiavelli, Montaigne, accanto a qualche tappa dedicata ai generi: i ritratti, la lettura come costruzione del sé. E, come detto, John Ruskin, che tratta i libri e la lettura come un’alternativa alle complicazioni della vita, soprattutto quelle sociali, i rapporti con gli amici e le persone «prominenti» (come si dice qui). I libri, dice Ruskin, rappresentano una vera e propria società virtuosa, un ente «dolce»; i libri si possono fare attendere e non si lamentano, sono tanti e ci parlano solo quando lo decidiamo noi. Di più: la società reale è addirittura una società cattiva e corrotta, dove i valori della verità e della giustizia sono messi seriamente in crisi; una società malata, che chiama i suoi cittadini a combattere. E di qui l’invito modernissimo a dotare il popolo non di armi e attitudine alla guerra ma di libri, di pen-
siero, di predisposizione alla ragione e alla riflessione. A queste belle immagini dedicherà molte e molte pagine Marcel Proust, che, alla morte di Ruskin è di nuovo sul tema; e ai libri-amici che tanto infondono saggezza è contrapposta l’immagine del miracolo della lettura dell’individuo, «una comunicazione nel cuore della solitudine». Uno stato dello spirito, la solitudine appunto, piena delle voci dei libri senza il disturbante suono delle parole che vengano dalla comunicazione con il prossimo. Nell’elenco (di solito sono i saggisti anglosassoni che fanno spesso questo esercizio) di cose che questo libro non è, in coda all’Introduzione, Lina Bolzoni ci dice che questo saggio non si occupa di storia sociale della lettura, né dei diversi tipi di lettura, né tratterà del collezionismo di libri o ancora delle ossessioni e delle bibliomanie. Dice poi, più in là, l’autrice che nella storia che ci racconterà mancano le donne; carenza non da poco, forse non perdonabile, che però non è così desolata e assoluta,
perché nel libro c’è il racconto della vicenda di uno sconcertante e francese Progetto di legge per vietare alle donne di imparare a leggere del 1801: «La Ragione vuole che i mariti siano gli unici libri delle loro mogli…»; «La Ragione vuole che alle donne che si ostinassero a scrivere libri non sia consentito avere figli…»; «La Ragione vuole che le donne si astengano dall’astronomia: contino le uova giù in cortile, non le stelle del firmamento!». E poi c’è spazio, qualche riga sotto, per le considerazioni sulla lettura (anche) femminile di Virginia Woolf con la bella immagine dei lettori con i libri sotto il braccio al cospetto dell’Onnipotente e San Pietro, che dice: «Questi non hanno bisogno di ricompensa. Qui non abbiamo niente per loro. Sono quelli che amavano leggere». Bibliografia
Lina Bolzoni, Una meravigliosa solitudine. L’arte di leggere nell’Europa moderna, Torino, Einaudi, 2019.
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