Azione 31 del 29 luglio 2019

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Cooperativa Migros Ticino

Società e Territorio Al caffè delle mamme si discute se ai ragazzi la noia delle giornate estive possa anche fare bene

Ambiente e Benessere Infospecies è il centro svizzero che si occupa di monitorare lo stato di salute della biodiversità

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXII 29 luglio 2019

Azione 31 Politica e Economia Democratici indignati per l’attacco razzista di Trump a quattro deputate di colore

Cultura e Spettacoli Continua la serie di articoli dedicata alla Land Art, corrente artistica eterogenea ed ecologista

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Ora il surriscaldamento Boris Johnson, è davvero globale con furore verso la Brexit 42,4 gradi centigradi a Parigi, 41,5 in Germania, oltre 37 nella città più calda in Svizzera (Sion): la seconda ondata di caldo in Europa non è da meno della prima. E le previsioni dei meteorologi indicano che vivremo estati roventi sempre più spesso, a causa del riscaldamento dell’atmosfera terrestre. I cambiamenti climatici sono una realtà, nelle più diverse sfaccettature (ondate di caldo, siccità, piogge torrenziali e tempeste più frequenti, stagioni che si allungano o quasi non si vedono). Tuttavia, non tutti concordano sul fatto che questi cambiamenti siano dovuti alle attività umane, al CO2 che immettiamo nell’atmosfera. E per sottolineare la loro tesi negazionista ricordano che ci sono già state in passato fasi temporali in cui la temperatura era salita o scesa, anche negli ultimi due millenni. Ora però questa tesi non regge più, smentita da due studi pubblicati giovedì scorso su «Nature» e «Nature Geoscience» dai ricercatori del Centro Oeschger per la ricerca sul clima all’Università di Berna. Dal punto di vista scientifico, questi studi vengono considerati i più accurati e precisi svolti finora a livello mondiale: quello sull’estensione geografica delle anomalie climatiche ha superato l’esame di sei diversi metodi statistici, per quello sulla «ricostruzione» delle temperature nel mondo sono stati utilizzati sette diversi metodi, indipendenti fra di loro; sono stati studiati coralli, cortecce di alberi, ghiacciai, sedimenti lacustri e marini in tutto il mondo per stimare le temperature dall’inizio dell’era cristiana (ricordiamo che le misurazioni climatiche sono cominciate solo nel 1865). E i risultati presentano delle novità che neppure i ricercatori si aspettavano. La più importante è che solo dalla seconda metà del Novecento (e ancora più dall’inizio di questo secolo) si può parlare di riscaldamento globale: la temperatura è davvero aumentata dappertutto, eccetto che in una parte del Polo sud, ossia sul 98 per cento del pianeta, innalzandola fino ad oggi di un grado centigrado globalmente. Quelle che sono oggi conosciute come piccola era glaciale (dal 1400 al 1850) e il periodo caldo del Medioevo (dal 7-800 fino al 1400) avevano invece carattere regionale e nelle aree interessate si sono verificate in tempi diversi. Non sono stati un evento globale con una causa globale. I ricercatori del Centro Oeschger hanno capito che ad influenzare in clima nei secoli passati non è stata l’attività del sole, ma piuttosto i vulcani: il pulviscolo sospeso nell’atmosfera riflette le particelle del sole e quindi riduce l’insolazione al suolo. In particolare, era già noto l’influsso che l’eruzione del 1815 del vulcano indonesiano Tambora aveva avuto sul clima in Europa e nel Nordamerica (quello successivo venne ricordato in Svizzera come l’anno senza estate, ciò che provocò la perdita di moltissimi raccolti e una letale carestia in tutto il paese), ma lo studio del Centro Oeschger dell’Uni di Berna rivela che altre quattro potenti eruzioni avvenute ai tropici fra il 1808 e il 1835 hanno fortemente influito sulla fase finale della piccola era glaciale. L’influsso è diretto ma anche indiretto: quando l’atmosfera si raffredda in seguito ad un potente evento vulcanico, pure gli oceani si raffreddano e in seguito impiegano più tempo a riequilibrare le variazioni di temperatura regionali. E giusto per sottolineare che le conseguenze di simili eventi non si circoscrivono ad un’estate rovente, val la pena ricordare che i cambiamenti nella temperatura degli oceani influirono sulla pressione atmosferica e sulla circolazione delle correnti d’aria, provocando in Africa e in India una siccità durata vent’anni e in Europa l’aumento delle superfici dei ghiacciai nella seconda metà dell’Ottocento. Le conseguenze dei mutamenti climatici e di importanti eventi singoli possono essere quindi regionalmente molto diverse. Ma per la prima volta nella Ogni giorno di festa storia (almeno dell’umanità) siamo e è un giorno per il grill: saremo confrontati con le imprevedi13 ricette per bili conseguenze di un riscaldamento dell’atmosfera terrestre che ora può festeggiare insieme davvero dirsi globale.

di Cristina Marconi

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Keystone

di Peter Schiesser


«Il tempo libero lo passo sul grill.» Regola per il grill di Quentin R.

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quattro Ricetta breve delle cipolle alla griglia: tagliare in chi di delle cipolle rosse. Spennellare dei cipollotti e gli spic Aggiucipolla rossa con olio d’oliva e grigliarli da tutti i lati. ia. grigl stare di sale e servire ad esempio con del pollo alla

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Società e Territorio Il videogioco lo crei tu Con Super Mario Maker 2 tutti gli appassionati potranno esprimere la propria creatività creando nuovi livelli di gioco

Gli assistenti alla memoria L’associazione ProMemoria propone un accompagnamento personalizzato a chi soffre di difficoltà mnemoniche o demenza senile pagina 10

La rotonda oltre al Festival A 20 anni dalla sua costruzione il grande spazio di Piazza Castello a Locarno resta per lo più inutilizzato. Una recente mozione chiede di creare un parco urbano pagina 13

pagina 7 Gli stati di noia attivano un insieme di circuiti celebrali utili per elaborare il sé. (Marka)

Elogio della noia

Il caffè delle mamme È giusto lasciare che i figli si annoino durante le vacanze? C’è chi ne è convinto

e non solo perché la noia sembra favorire la creatività Simona Ravizza Lasciamoli annoiare. L’elogio della noia a Il Caffè delle mamme arriva nel mezzo dell’estate con un dibattito acceso: l’agenda di appuntamenti di molti dei nostri figli 10-12enni è rimasta fitta, non più per lezioni di scherma, hip hop, nuoto e pallavolo, lezioni di pianoforte e prove di teatro, ma per campus linguistici a Berlino e Londra, ritiri sportivi o di ballo neanche dovessero partecipare alle Olimpiadi 2020 o esibirsi sulle punte alla Scala, e perfino per settimane allo Stelvio per mantenere l’allenamento sciistico da sfoggiare d’inverno. Chi sostiene l’importanza delle ore fatte di nulla, cioè la sottoscritta, è in netta minoranza. Ma vale la pena lo stesso tentare di argomentare l’utilità di giornate scandite dal nulla da riempire con la fantasia. La giornalista e scrittrice Francesca Barra, mamma di Renato (13 anni), Emma (6) e Greta (3), lancia la questione sui social: «Non c’è stato niente di più costruttivo per la mia immaginazione (forse non sarei mai diventata una scrittrice) del privilegio di essermi annoiata da bambina – scrive su Facebook e Instagram il 20 giugno –. Aver

trascorso momenti interminabili di silenzio e di vuoto da riempire mi ha fatto costruire personaggi immaginari, storie che svolazzavano sulla mia testa e che si sono posate su un foglio bianco, diventata adulta. Concedete ai vostri figli tempo di nulla, lasciate che inventino giochi con le nuvole, guardando fuori dalla finestra. Lasciate che canticchino sul divano, che abbiano caldo, che rincorrano le ore. Il giorno dopo sarà migliore. Prenderanno uno strumento, una penna, un mestolo». L’appello è di fare un investimento a lungo termine: regalare ai figli il lusso della noia. «La nostra generazione di mamme che lavorano vuole colmare i sensi di colpa riempiendo le giornate dei figli di cose stimolanti» dice Barra ad «Azione». «Io anche nei miei libri come L’estate più bella della nostra vita (Garzanti ed.) amo raccontare la bellezza del tempo dilatato e lento, scandito anche da silenzio e solitudine». In Ricordo di un’estate, film Oscar di Rob Reiner ispirato a un racconto di Stephen King, per dare un senso alle giornate nella cittadina di Castle Rock dell’Oregon i 12enni Gordon «Gordie» Lachance, Chris Chambers, Teddy Duchamp e Vern Tessio, si trovano

un’avventura: andare alla ricerca del cadavere di un ragazzino scomparso tre giorni prima e di cui hanno sentito parlare per caso. Così la stagione estiva segna simbolicamente anche il passaggio dall’età dell’innocenza alla consapevolezza. Ed è forse, allora, l’avventura della mente che da genitori dobbiamo stimolare perché i nostri figli prendano un foglio bianco e scrivano la vita con creatività e desiderio per scoprire ciò che gli piace senza eccessivi impulsi dall’esterno. La noia è costruttiva perché spinge a ingegnarsi. «Gli stati di noia attivano un insieme di circuiti celebrali definiti default mode network utili per elaborare il sé» spiega ad «Azione» la psicoterapeuta del Centro medico Santagostino di Milano Sara Di Croce. «In uno studio pubblicato nel 2014 dalla University of Central Lancashire (Does Being Bored Make Us More Creative?) un gruppo di persone sono state invitate a elencare tutti gli usi possibili di una tazza di plastica. È risultato che chi aveva svolto in precedenza un compito ripetitivo per un quarto d’ora aveva ideato un maggior numero di risposte e con maggiore creatività. Ripetendo l’esperimento con compiti ripetitivi differenziati, i ricer-

catori hanno dimostrato che non solo lo stato di noia facilita l’entusiasmo e l’attenzione verso gli stimoli che vengono a interromperlo, favorendo la creatività, ma anche che quanto più lo stato di noia è intenso, tanto più la creatività ne trarrà guadagno». Evviva la mente vagante, insomma, di cui è fautore il noto scrittore e psicologo statunitense Daniel Goleman: «L’attenzione concentrata, al pari di un muscolo sotto sforzo, si affatica. I migliori nel loro campo, che si tratti di sollevatori di pesi, pianisti o di un musher con la sua muta di cani, tendono a limitare il duro esercizio a circa quattro ore al giorno. Il riposo e il recupero delle energie fisiche e mentali hanno un ruolo fondamentale nel loro regime di allenamento: cercano di spingere se stessi e i loro corpi al limite, ma non al punto di perdere la concentrazione durante le sessioni di allenamento. La pratica ottimale è quella in cui riusciamo sempre a mantenere la concentrazione al massimo». Per lo scrittore Emanuele Trevi la noia è addirittura un valore assoluto: «I nostri genitori non ci amavano meno di quelli di oggi. Ma essendosi molto annoiati durante le loro infanzie, non

vedevano nulla di male nel fatto che condividessimo la stessa sorte. Le cose erano andate così, in fin dei conti, fin da quando al mondo c’erano stati dei bambini. Godevamo così di un accesso illimitato alle sterminate miniere della noia, sperimentate lungamente in una gamma praticamente infinita di variabili. La noia scolastica, la noia pomeridiana, la noia dei viaggi in macchina... E quella potentissima, quasi metafisica noia domenicale, che forse è l’incubatrice di tutti i destini individuali, di tutti i caratteri. Per natura, sono troppo incline alle sottili gioie della noia per non considerarla come un valore assoluto. Poco mi importa se il bambino che si è annoiato da grande riuscirà a scrivere un romanzo o a dirigere una sinfonia. Buon per lui: ma la noia è qualcosa che vale di per sé, non può assolutamente essere confinata a un ruolo ancillare, preparatorio. Dirò di più: è una forma d’arte degna di stare accanto alla musica o alla letteratura». E allora a Il Caffè delle mamme la domanda viene rilanciata: «Siamo proprio sicure che sia un bene continuare a iperstimolare i nostri figli?». Già riflettere sulla questione può essere un primo passo.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 29 luglio 2019 • N. 31

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Idee e acquisti per la settimana

Artigianato ticinese in mostra

Attualità L’ormai consolidato appuntamento annuale al Centro Migros S. Antonino dal 29 luglio al 10 agosto

Da alcuni anni è diventata una piacevole consuetudine di fine luglio/inizio agosto e sono sempre di più coloro che l’aspettano con curiosità. Stiamo parlando della rassegna dedicata all’artigianato locale, un evento promosso dall’Associazione Artigiani del Ticino (Ar-Ti) in collaborazione con Migros Ticino, che da oggi fino al prossimo sabato 10 agosto animerà la mall del Centro Migros S. Antonino. E lo farà in grande stile, senza voler scordare la grande novità di quest’anno: la possibilità di partecipare a corsi d’artigianato gratuiti. Sono ben 14 gli artigiani presenti con le loro creazioni fatte a mano

che, per tutta la durata dell’evento, si alterneranno nel mostrare ai visitatori come producono i loro originali e pregiati prodotti. Girovagando tra le caratteristiche bancarelle allestite appositamente per l’occasione, si potranno per esempio scoprire e ammirare attività quali la lavorazione del legno al tornio, l’antica arte del tombolo, le originali creazioni con foglie di mais, la sartoria artigianale, i saponi fatti a mano, la filatura tradizionale della lana, i lavori in tessuto, il telaio a mano, gli oggetti decorativi in fil di ferro, i prodotti in ceramica, l’intaglio del legno e la realizzazione di gioielli in alluminio. Come già accennato sopra, quest’anno sono in programma corsi gratuiti sotto la supervisione degli esperti artigiani. Chi fosse interessato a produrre con le

Bontà e salute

Novità Un formaggio al 100% a base di latte di capra, che regala

quel tocco in più ai freschi e leggeri menu di stagione Gli amanti del formaggio sanno che alla Migros la scelta di specialità casearie è ricca, variegata e in grado di soddisfare i desideri di ogni intenditore della buona tavola. Chi ha un debole per i formaggi erborinati, sarà felice di sapere che presso i supermercati con banco casaro è appena stata introdotta una nuova golosità italiana a base di solo latte di capra: il formaggio Capretta Blu. L’originalità di questo prodotto dal sapore estremamente equilibrato e delicato sta nelle sue interessanti caratteristiche salutistiche-nutrizionali, che annoverano un alto contenuto di proteine e calcio, come pure una maggiore sicurezza per quanto attiene il tasso di colesterolo e un’alta digeribilità. Preparato con latte intero caprino pastorizzato, presenta una pasta compatta e bianca con tipiche venature di muffe commestibili provenienti da ceppi di Penicillium. Lo sviluppo di tali muffe è principalmente dovuto all’aereazione della pasta e alla maturazione in cantine umide. Formaggio erborinato Capretta Blu 100 g Fr. 2.90 In vendita nelle filiali Migros con banco casaro

proprie mani alcuni originali oggetti potrà iscriversi direttamente sul posto. L’offerta è varia e coinvolgerà sia bambini che adulti nei più disparati settori: legno, feltro, vetro, foglie di mais, fil di ferro, unguenti/balsami e tombolo. Siccome i posti sono limitati, consigliamo di riservare quanto prima la propria partecipazione. L’Ar-ti promuove su tutto il suolo cantonale il settore dell’artigianato tramite rassegne come quella ospitata dal Centro Migros S.Antonino e partecipazioni ad eventi tradizionali come le più note sagre ticinesi. L’Associazione è aperta a tutti gli artigiani che producono nella Svizzera Italiana e che vogliono incrementare la propria autoimprenditorialità. Maggiori informazioni si possono trovare sul sito internet dell’associazione: www.ar-ti.ch.

Il pane dei pompieri Attualità Una specialità stagionale creata

in occasione del 150° anniversario della Federazione svizzera dei pompieri Il pane dei pompieri non è solo una prelibatezza da gustare quale accompagnamento a gustose pietanze alla griglia, magnifici taglieri di formaggi e affettati della nostra tradizione oppure

per la tavola di tutti i giorni, ma possiede anche una valenza sociale. Infatti, per ogni pane venduto, 20 centesimi vengono devoluti alla Federazione svizzera dei pompieri con lo scopo di sostenere l’attività dei giovani pompieri in Svizzera. Con questa iniziativa Migros vuole rendere omaggio ai 150 anni della Federazione, un’istituzione fondamentale che gode sempre di una grande reputazione nella nostra società. Il pane dei pompieri è un pane scuro prodotto dal panificio Jowa con l’impiego di farine di frumento, di grano duro e di malto d’orzo. Possiede una crosta croccante e una mollica soffice, leggermente umida, mentre il suo sapore risulta lievemente dolce, con note tostate e di lievito in evidenza. Infine, per la gioia dei bambini, sulla confezione del pane si trova un simpatico adesivo fluorescente da collezionare raffigurante diversi personaggi. Il prodotto sarà in vendita a partire da domani e fino a fine ottobre nelle maggiori filiali Migros. Pane dei pompieri 500 g Fr. 3.50


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Idee e acquisti per la settimana

Buon compleanno Svizzera! 1. Agosto I nostri suggerimenti per celebrare la festa della patria

Le uova colorate non sono solo una tradizione a Pasqua, ma anche in occasione della festa nazionale svizzera! Uova di galline svizzere allevate in libertà, cotte e dipinte con il simbolo della croce svizzera.

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Il cervelat è la salsiccia simbolo della Svizzera. Come vuole la tradizione, il 1° agosto è ovviamente un must delle grigliate. Gli ingredienti come la carne di maiale e la pancetta danno alla salsiccia il suo aroma inconfondibile.

Questo classico lampioncino rosso e bianco non può assolutamente mancare nella notte del 1° agosto per celebrare la nostra festa nazionale. La lanterna ha una circonferenza ca. 25 cm.

Lampioncino con croce svizzera Fr. 1.95

Oltre ai cervelat, i ticinesi sulla griglia mettono naturalmente anche dell’aromatica luganighetta nostrana. A base di carne di maiali allevati in Ticino, è prodotta dalla Salumi del Pin di Mendrisio, storica azienda specializzata nella produzione artigianale di insaccati di prima qualità.

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Il berretto del marchio svizzero heidi. com è il copricapo perfetto da indossare alla sera del 1° agosto per divertirsi con gli amici ed essere in tema con la festa nazionale. È disponibile solo presso la filiale Migros di S. Antonino.

Cappellino con croce Svizzera Fr. 16.–

Questo apparecchio grill a gas compatto e multifunzionale è una vera meraviglia. Può essere trasformato da grill a fornello in un batter d’occhio. Ideale per tempo libero, campeggio, trekking ed escursionismo.

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Società e Territorio

Quando il gioco lo facciamo noi

Videogiochi Super Mario Maker 2 permette di creare nuovi livelli di gioco e lascia libertà creativa

a tutti gli appassionati dell’idraulico italiano

Davide Canavesi Per tanti anni i fan di Super Mario hanno desiderato non solo salvare la Principessa Peach e raccogliere tutte le monetine d’oro, ma anche poter mettersi alla prova e realizzare i propri livelli di gioco. Nel 2015 Nintendo rilasciò Super Mario Maker, un software a metà tra gioco e creatore di livelli, proprio per permettere la libertà creativa tanto agognata dai fan dell’idraulico italiano. Un gioco che fu pubblicato sulla quasi defunta Wii U ma che comunque riuscì a vendere molte copie e, specialmente, ad essere molto amato dalla community dei videogiocatori. Non si contano più i livelli creati, condivisi e commentati su internet. Creazioni bizzarre ma incredibilmente originali con livelli che si giocavano da soli e sfide praticamente impossibili. Ora, a quattro anni di distanza, arriva Super Mario Maker 2, aggiornato per la console ibrida Switch. Super Mario Maker 2 è quello che in gergo viene definito un editor dei livelli: tramite una semplicissima interfaccia possiamo creare livelli di gioco. Una sorta di tavolozza bianca, pronta per essere colorata dalla fantasia e dall’inventiva del giocatore. Si parte con una esaustiva spiegazione guidata da parte di due buffi personaggi virtuali, una ragazza e un piccione goloso di edamame. Assieme ai due il giocatore impara a posizionare il terreno, le monete da raccogliere, i nemici e molti altri elementi. Poi non resta che sce-

gliere l’ambientazione tra Super Mario Bros, Super Mario Bros 3, Super Mario World, Super Mario Bros U e, a sorpresa, Super Mario 3D World e iniziare a creare. L’interazione con l’editor dei livelli si fa attraverso i controller della console oppure, cosa preferibile, usando le dita sul pannello touch della console. Una soluzione comoda che però non batte la precisione del pennino di Wii U. Il livello si crea per schermate, partendo dalla prima per poi proseguire secondo il nostro capriccio. È possibile inserire salite e discese, blocchi da scalare, monete, i classici tubi verdi, nemici e via dicendo. A differenza del primo Super Mario Maker, ora possiamo anche definire delle condizioni di vittoria, come ad esempio la necessità di aver eliminato un certo numero di nemici, raccogliere un determinato numero di monete oppure altre condizioni con sorprendente libertà. Possiamo definire zone primarie e secondarie del livello, ad esempio una nel verde e l’altra nel deserto. Si può scegliere il livello dell’acqua nelle sezioni in cui decidiamo di inserire un ostacolo liquido, addirittura possiamo creare dei livelli notturni o con la gravità lunare. Come il precedente gioco, Super Mario Maker 2 è un gioco che premia la creatività, sbloccando nuove possibilità e modalità che non pensavamo fossero disponibili. Molto interessante, in un’ottica di creazione di meccaniche di gioco, l’introduzione degli interruttori. Grazie a questi ultimi è possibile

Super Mario Maker 2 ha un potenziale infinito, basta un po’ di fantasia.

creare combinazioni di blocchi e ostacoli che vanno attivati dal giocatore in modo corretto, al fine di avanzare nel gioco. Quando poi saremo finalmente soddisfatti della nostra creatura potremo condividerla col mondo a patto di riuscire a terminare il livello almeno una volta ed essere abbonati al servizio Nintendo Switch Online. Un vero peccato che per questo gioco la condivisione dei livelli non sia più gratuita come in passato. Super Mario Maker 2 offre però anche tanto divertimento a chi vuole solamente giocare. È stata inserita una modalità storia per fare da collante ad una lunghissima serie di livelli. Il castello della Principessa Peach è stato ac-

cidentalmente distrutto e per ricostruirlo toccherà a Mario visitare i livelli, raccogliere quante più monete possibili e restaurare il castello. La storia ci porterà a scoprire tutte le ambientazioni disponibili nel gioco e farà di tutto per suggerirci idee su come sfruttare i vari componenti del gioco per produrre le nostre creazioni. Da sola questa modalità non può certo rivaleggiare con un gioco completo di Mario e compari, ma di sicuro sa offrire molto divertimento e anche un certo livello di sfida. Questo nuovo Super Mario Maker 2 ha un potenziale infinito, basta un po’ di fantasia e voglia di sperimentare per produrre piccoli capolavori. Il valore educativo di questo gioco è sicuramen-

te alto, per quanto riguarda l’apprendimento della creazione di livelli e, in ultima analisi, di videogiochi. Non basterà infatti mettere qualche moneta e funghetto in fila per ottenere un livello impegnativo e divertente. Bisogna capire cosa rende una sfida interessante, come mantenere l’interesse nel fruitore del gioco e specialmente come dosare difficoltà e ricompense. Una sorta di palestra in miniatura per tutti coloro che, giovani e meno giovani, desiderano un giorno poter fare dei videogiochi una carriera. Oppure, possiamo semplicemente divertirci per tantissime ore scaricando i livelli più folli creati dagli altri. Super Mario Maker 2 ha qualcosa per tutti. Annuncio pubblicitario

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Idee e acquisti per la settimana

Così griglia la Svizzera Quando grigliano, gli svizzeri sono nel loro elemento. Abbiamo fatto una ricerca su cosa, come e quando amiamo grigliare. L’offerta Migros soddisfa i gusti di ogni griglietariano e assicura un piacere culinario sempre diverso

L’82% della carne consumata è di origine indigena. Migros offre la più ampia scelta di carne di provenienza svizzera.

L’assortimento di pesce proviene al 100% da fonti sostenibili.

La top 3 tra i prodotti da grigliare: 1. salsicce, 2. bistecche, 3. spiedini

Ogni anno Migros lancia circa 15 nuovi prodotti da grigliare e altre specialità regionali.

Sono 469 i siti per grigliare registrati su grillstelle.ch. Il più alto si trova a 3064 metri sul livello del mare, nei pressi di Sass Queder, Diavolezza, Pontresina.

Nel 2018 in Svizzera sono stati venduti oltre 256’000 grill (incl. grill da raclette).

Gli svizzeri occidentali accendono il grill 37 giorni all’anno, i ticinesi 27, mentre gli svizzeri tedeschi ben 41 giorni.

Gli svizzeri tedeschi grigliano preferibilmente con il gas (49%). In Ticino (43%) e in Romandia (38%) si preferisce la carbonella.


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La top 3 tra le salsicce: cervelat, bratwurst e salsicce con pancetta e formaggio.

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Migros propone ben 45 varietà diverse di patatine chips, che rappresentano uno dei contorni delle grigliate preferito.

Ogni anno vengono mangiati 160 milioni di cervelat, ciò che corrisponde a 19 pezzi per persona. M-Classic Pommes Chips alla paprica 280 g Fr. 4.20

Heinz Curry Mango Sauce 220 ml Fr. 2.50

Spare Ribs Grill mi Svizzera, per 100 g Fr. 2.60

Appenzellerli Svizzera, 6 pz, 250 g Fr. 6.95

Mini spiedini di pollo erbe/gyros Grill mi Svizzera, per 100 g Fr. 4.40

Salmone selvatico Grill mi Pacifico Nord-Orientale per 100 g* Fr. 2.90 invece di 4.20 *Azione 30% dal 30.7 al 5.8

La popolazione che vive in campagna mangia più spesso cervelat (42,4 pezzi per economia domestica) rispetto a chi vive in città (35,1 pezzi).

Migros propone sui propri scaffali 47 salse per grill. La più gettonata è la salsa Heinz al curry e mango.

Il 75% degli uomini si occupa della pulizia del grill.

Il 46% delle donne svizzere si definiscono delle professioniste del grill. Solo l’8% ritiene di saper grigliare male.

Che si tratti di vegetariani, pescetariani, flexitariani o carnivori – i gliglietariani trovano consigli, ricette e il timer da grill su griglietariani.ch.


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Società e Territorio

Gesti che aiutano la memoria Socialità L’associazione ProMemoria propone un accompagnamento personalizzato a chi soffre di difficoltà

mnemoniche o demenza senile basato sul lavoro degli assistenti alla memoria

Stefania Hubmann Manlio? Mauro? Marzio? Maurizio? Come si chiama in realtà l’assistente alla memoria della giovane Camilla, la cui capacità di ricordare è compromessa a causa di un aneurisma? Nell’ultimo romanzo dello scrittore luganese Mattia Bertoldi il loro incontro e la storia che si sviluppa sono frutto di una raffinata inventiva, ma ispirati a una figura professionale reale e innovativa presente in Ticino. Dal 2015 l’associazione no profit ProMemoria applica un approccio personalizzato nel sostegno alle persone con problemi di memoria, in particolare quelle affette da demenza, così che possano continuare a vivere serene la quotidianità senza gravare eccessivamente sui familiari. Proprio come Manlio di Come tanti piccoli ricordi (edizioni tre60) diventano un punto di riferimento che infonde sicurezza e tranquillità, poco importa in fondo il loro nome. Ciò che conta, spiega ad «Azione» Silvia Hochstrasser, cofondatrice con la sorella Daniela Mondani dell’associazione ProMemoria, è la relazione che si instaura con il malato. «Capire i suoi bisogni condividendo la vita quotidiana al domicilio permette di assicurare un sostegno che rispetti la sua volontà e dignità. Si tratta di un approccio uno a uno nel quale l’assistente alla memoria deve essere in grado di cambiare continuamente strategia a dipendenza delle

reazioni della persona malata. Sgridare, colpevolizzare, testare la memoria con domande tipo “Cosa hai mangiato oggi?” non serve a nulla. Chi soffre di disturbi della memoria non si comporta in un certo modo apposta per indispettire gli altri». La difficoltà maggiore, prosegue la nostra interlocutrice, è talvolta il primo contatto. A volte è necessario trovare un espediente – dal caffè alla pedicure – per riuscire ad agganciare la persona che ha bisogno di aiuto. Considerati i dati statistici che prevedono nel nostro Cantone (come nel resto della Svizzera) entro il 2035 il raddoppio delle persone affette da demenza, che giungeranno circa a quota 15mila, il contributo degli assistenti alla memoria assume una notevole rilevanza. D’altronde, per affrontare quella che viene considerata una delle maggiori sfide al welfare delle società occidentali, sono state elaborate un’apposita strategia nazionale e di conseguenza un quadro d’orientamento cantonale. Quest’ultimo insiste, fra gli altri, sui punti cardini di ProMemoria: potenziamento del sostegno ai curanti informali (familiari in primis), mantenimento al domicilio il più a lungo possibile, aumento della capacità ricettiva dei centri terapeutici, migliore coordinamento delle figure e dei servizi coinvolti nella presa a carico. Come è giunta Silvia Hochstrasser a questa nuova professione? Attiva per diversi anni quale infermiera in cure

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L’associazione valorizza il rapporto uno a uno fra paziente e assistente alla memoria. (Associazione ProMemoria)

palliative, ha potuto constatare a più riprese le conseguenze delle malattie neurodegenerative sui pazienti e i rispettivi congiunti, questi ultimi duramente provati dall’assistenza prestata. Un Master a Milano sfociato in una tesi sul tema «Cure palliative e demenza» e un successivo stage in un centro per malati di Alzheimer a Monza le hanno

permesso di scoprire e approfondire l’approccio che in seguito ha iniziato a proporre nel Luganese affiancandolo a un’attività infermieristica indipendente. Con il tempo ha trasformato tutte le sue competenze professionali in un unico concetto di cura che ora comprende anche il servizio di assistenza sanitaria «Cure a 360 gradi». Quest’ultimo è stato fondato sempre con la sorella Daniela Mondani, responsabile della gestione amministrativa, e con la direttrice sanitaria Tatiana Moro. Le prestazioni sono riconosciute a livello assicurativo, mentre quelle di ProMemoria sono a carico dei richiedenti. Se a Silvia spetta il coordinamento dei due servizi, la vera forza dell’innovativo progetto sta nel team che lo compone, come spiegano le stesse promotrici. Sono infatti una decina gli assistenti alla memoria che, assieme alle tre responsabili, hanno aiutato finora 65 persone per oltre 15mila ore di assistenza. Attualmente i malati seguiti sono 17, mentre i dipendenti dal 2015 ad oggi sono raddoppiati. Numeri ed esigenze che lo scorso anno hanno fatto nascere l’idea di ampliare il progetto attraverso l’apertura di una Casa ProMemoria. Per una valutazione dell’iniziativa è stata interpellata la Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana (SUPSI). Lo scorso mese di giugno quattro studenti del corso Master of Science in Business Administration con indirizzo Innovation Management hanno presentato i risultati della loro ricerca, evidenziando il carattere innovativo del «servizio uno a uno» proposto dall’associazione. Le criticità emerse serviranno a ProMemoria per migliorare lo sviluppo delle sua attività, mentre i criteri stilati per il progetto di un luogo nel quale svolgere parte di esse saranno il punto di partenza nella ricerca della casa ProMemoria. L’esperienza di questi anni – spiegano Silvia Hochstrasser, Daniela Mondani e Tiziana Moro – ha evidenziato il piacere delle persone con difficoltà mnemoniche di continuare a mantenere abitudini e svaghi precedenti l’insorgere della malattia. Andare al bar o al ristorante, festeggiare le ricorrenze, compiere viaggi sono momenti ai quali non devono per forza rinunciare. Precisa Silvia Hochstrasser: «Un luogo di ritrovo – anche per i familiari che ci hanno reso partecipi di questa esigenza – ci permetterebbe di organizzare con maggiore frequenza e regolarità ciò che oggi proponiamo mettendo a disposizione le nostre case. L’obiettivo è un’accoglienza adeguata e personalizzata improntata alla massi-

ma flessibilità. Già oggi siamo reperibili 24 ore su 24 per fronteggiare eventuali emergenze». L’aiuto al domicilio è basato sulla collaborazione con i servizi e le associazioni presenti sul territorio per ottimizzare la rete di assistenza. In concreto sono molto utili supporti come lavagnette e foglietti adesivi, senza dimenticare i mezzi tecnologici, dal bracciale d’allarme al localizzatore, al telefono facilitato (uso di immagini). La differenza la fa però sempre l’approccio, la capacità di leggere la situazione personale della persona con problemi di memoria. È quanto emerge anche nel romanzo di Mattia Bertoldi, che ha volutamente affidato a Camilla, la giovane donna in difficoltà con i propri ricordi, un ruolo di rilievo. Spiega l’autore: «L’incontro con Silvia, la giornata trascorsa con alcuni pazienti dell’associazione ProMemoria, fra i quali una donna di mezza età, sono stati gli spunti per il romanzo, spunti approfonditi attraverso una ricerca sulla perdita di memoria in narrativa. Nell’elaborazione della storia ho appositamente inserito un paziente anziano di Manlio per non perdere la dimensione dell’attività quotidiana degli assistenti alla memoria e per esplorare la relazione padre-figlio». La consapevolezza della malattia o la sua totale assenza come pure la grande umanità dimostrata da assistenti alla memoria e pazienti hanno colpito il giovane autore che con il suo ultimo libro dà voce a una realtà verso la quale la nostra società deve ancora sviluppare un atteggiamento di accoglienza. Lo studio della SUPSI conferma che una «comunità amica delle persone affette da demenza», concetto già promosso in Italia e Inghilterra, non è ancora presente in Ticino. Anche nel resto della Svizzera sono in corso sperimentazioni che possono tradursi in realtà molto diverse fra loro, come confermano le ricerche svolte da Silvia Hochstrasser. Empatia, flessibilità, fantasia sono caratteristiche indispensabili per relazionarsi con coloro che hanno problemi di memoria accompagnandoli in un percorso lungo e doloroso compensato per gli assistenti da un insegnamento prezioso: l’importanza del vivere qui ed ora. L’attività dell’associazione ProMemoria è pionieristica in un ambito nel quale si cercano soluzioni che permettano di salvaguardare identità e qualità di vita di tutti gli interessati. Informazioni

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 29 luglio 2019 • N. 31

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Società e Territorio

Ripensare la rotonda

Locarno A 20 anni dalla sua costruzione lo spazio della rotonda di Piazza Castello resta per lo più inutilizzato.

Una recente mozione chiede di creare un parco urbano

Nicola Mazzi Ci sono 8300 metri quadrati (una superficie più grande di un campo di calcio) alle porte della Piazza Grande di Locarno che, per la maggior parte del tempo, sono inutilizzati. Sono quelli della rotonda di Piazza Castello. Metri quadrati che fanno regolarmente discutere i politici e i cittadini. In estrema sintesi: la rotonda è nata sulla carta alla fine degli anni Ottanta, è poi stata aperta al traffico nel 1999 ed è stata completata con una sistemazione interna «minimal» nel 2001.

Gli 8300 metri quadrati della rotonda si animano durante il Festival del film e occasionalmente per eventi temporanei Ma partiamo dall’inizio. In origine il Cantone diede mandato agli architetti Aurelio Galfetti, Marco Krähenbühl, in collaborazione con l’architetto Luigi Pellegrini, di trasformare questo spazio in una grande sala cinematografica, riparata dalle intemperie grazie a una struttura coperta capace di offrire spazio per uno schermo di formato uguale a quello di Piazza Grande e destinato a una platea a gradinata di almeno 9’000 posti. Purtroppo i mezzi finanziari a disposizione non permisero di concretizzare quella soluzione che sarebbe costata 8-10 milioni. L’idea fu perciò abbandonata. Dopo 20 anni dalla sua costruzione questo spazio resta, per la maggior parte del tempo, inutilizzato. L’unico vero momento in cui acquista valore è nel periodo estivo, in concomitanza appunto col Festival del film, quando diventa uno dei catalizzatori delle serate festivaliere. In questi anni è vero che qualche progetto è stato tentato. Per esempio la posa di un gioco-labirinto per bambini offerto dall’Associazione Scout Locarno; il Municipio ha acquistato una Pumptrack per mountainbike e ha cercato di promuovere la rotonda per eventi e manifestazioni (come il villaggio dei Campionati Europei di calcio del 2016 e i concerti promossi dalle associazioni LocAttiva, Rock Your Ground e Move Your Soul). Ma sono state manifestazioni estem-

Il Dipartimento del territorio gestisce la parte stradale e delega alla Città la gestione dello spazio urbano all’interno della rotonda. (Ti-Press)

poranee e che, in definitiva, non hanno risolto il problema. Per cercare di saperne di più e per fare il punto della situazione abbiamo sentito Loris Bianchi, responsabile dei Servizi generali al Dipartimento del territorio. «Quella che definiamo oggi rotonda è la parte interna dell’anello stradale di distribuzione del traffico, da e per la galleria Mappo-Morettina, ed è integrata nel progetto di sistemazione di Piazza Castello», precisa il funzionario cantonale. Un’opera che come aggiunge lo stesso Bianchi «è parte del Piano Viario del Locarnese la cui infrastruttura principale è la galleria di circonvallazione degli agglomerati di Minusio, Muralto e Locarno. Collega il tratto stradale situato nel Piano di Magadino, dalla rotonda dello Stradonino a Mappo, con la diramazione della Morettina che consente sia il proseguimento sulla strada principale A13 verso Ascona e Brissago oppure verso le Centovalli, sia la penetrazione verso il centro di Locarno». La galleria Mappo Morettina ha provocato un radicale cambiamento

della viabilità del Locarnese e l’accesso alla città «è stato spostato da est (Verbanella) a ovest Morettina. Ciò ha portato a una modifica dell’impostazione dei flussi di traffico verso la Città di Locarno, da Ovest invece che da Est, con la conseguente necessità di ristrutturare Piazza Castello che è così diventata il nuovo polo di distribuzione del traffico, nonché la piattaforma orientativa dello sviluppo urbano dei vari comparti circostanti. La sistemazione di Piazza Castello con l’esecuzione della rotonda di grandi dimensioni (dal diametro di 110 m) è stata ritenuta la soluzione più idonea per garantire un funzionamento attrattivo del traffico privato, per i mezzi pubblici e per smaltire un importante volume giornaliero di veicoli». Per Loris Bianchi la divisione dei compiti tra Cantone e Comune è sempre stata chiara. «Il Dipartimento del territorio ha assunto la gestione della parte stradale e ha delegato alla Città la gestione del nuovo spazio urbano, formato dall’interno dalla rotonda. La Città l’ha sinora destinato principalmente ai bisogni del Festival e ad al-

cune manifestazioni temporanee. Gli accordi sono stati formalizzati da una concessione del Cantone alla Città, che le consente e la impegna a gestire l’uso e la manutenzione della rotonda. Mentre la Città stipula, a sua volta, delle convezioni con partner terzi che la utilizzano per le manifestazioni». Sollecitato su una possibile vendita di questo spazio al Comune oppure a privati ci dice: «Un’eventuale decisione di vendita competerebbe al Gran Consiglio, in base a un messaggio del Consiglio di Stato che, evidentemente, dovrebbe illustrare le motivazioni, le intenzioni della Città e le relative condizioni. A titolo generale si conferma che la cessione diretta di beni demaniali cantonali a Enti locali per loro bisogni di interesse pubblico è prioritaria per rapporto a quella di altri eventuali interessati». In altre parole il Comune qualora volesse acquistare questo spazio, partirebbe in pole position. Difficile dire che cosa succederà: di certo c’è che, di recente, trenta consiglieri comunali di diversi schieramenti politici hanno sottoscritto una mozione nella quale si chiede di

abitare un fantasma (un omaggio al bel romanzo Il fantasma del villino, di Beatrice Solinas Donghi?), si accenna in controluce alla storia della famiglia ebrea che lo abitava, ma i ragazzini protagonisti non capiscono e non sanno. Nemmeno il maestro è in grado di dare tutte le risposte, perché in effetti fu solo dal 1958, anno in cui uscì da Einaudi Se questo è un uomo di Primo Levi, che cominciò ad emergere la tragedia dei lager. Il maestro Alberti, che con saggezza tiene il timone di questa quarta elementare maschile, è un personaggio che omaggia il vero maestro di Quarzo, che «si chiamava Alberto e ci leggeva le storie». E in effetti la lettura ad alta voce in classe di belle storie, prima fra tutte quella dei Ragazzi della via Paal, a cui la banda di Piero si ispira per le sue avventure, è un altro tema forte del romanzo, insieme a tante vicende di un passato (come il divertente capitolo sull’arrivo del telefono rigorosamente appeso al muro, e in duplex con la vicina) che non mancheranno di stupire i giovani lettori.

Roberto Innocenti, La mia nave, La Margherita. Per tutte le età Roberto Innocenti è un artista. Vero e troppo poco celebrato (nonostante abbia vinto, nel 2008, l’Andersen Award, ossia il Nobel dell’illustrazione per l’infanzia), forse per la sua personalità schiva (vive e lavora a Montespertoli, provincia di Firenze), forse per il fatto di essere un autodidatta, o forse perché esterno a gruppi e scuole di appartenenza. Se non lo conoscete, procuratevi un suo libro, editi per lo più da La Margherita, come questo La mia nave, che è uscito l’anno scorso, dopo anni di studi, ricerche, disegni. La mia nave racconta, con un testo scarno e con immagini sontuose, la storia di una nave, la Clementine. Mezzo secolo di storia, da quando fu costruita e varata, negli anni Trenta, a quando si inabissò; passando per il trasporto di merci attraverso gli oceani, poi per la seconda guerra mondiale, al servizio della marina militare statunitense, e poi di nuovo all’uso mercantile. Il possessivo «mia nave» rimanda alla prospettiva del suo capi-

trasformare questo spazio in un parco urbano. Il quale dovrebbe avere le seguenti caratteristiche: una parte di superficie verde; un maggior numero di alberi ad alto fusto per creare zone d’ombra e garantire frescura nel periodo estivo; nuovi elementi fissi o amovibili in grado di creare aggregazione intergenerazionale (un campetto sportivo urbano polifunzionale per giocare a calcio/unihockey/basket; una piccola tribuna, panchine, rampe da skate amovibili da unire alla Pumptrack, pista da bocce, tavoli da ping-pong, altalene e scivolo per i più piccoli, ecc.); una copertura parziale in caso di intemperie; murales colorati per decorare e ravvivare le pareti interne dei vasi di cemento che compongono la rotonda (ad esempio quale promozione turistica a tema «Città e regione di Locarno»). Il tutto senza contrastare le esigenze del festival. Un progetto che ora il Municipio dovrà valutare per poi dire la sua ed, eventualmente, presentare un messaggio per l’acquisto. Il Cantone è pronto a discuterne e i cittadini aspettano una soluzione.

Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Guido Quarzo, 1958. Le storie in tasca, San Paolo. Da 10 anni Un romanzo adatto a lettori del secondo ciclo della scuola elementare, in particolare a coloro che si apprestano a lasciarla, la scuola elementare, quando iniziano le vacanze estive «e dopo avrebbero iniziato la scuola media. E tutto sarebbe cambiato», come è scritto nel finale, con la prospettiva del bambino protagonista ormai diventato adulto. La casa editrice San Paolo, oltre a romanzi di successo per adolescenti, pubblica anche per le altre fasce d’età: sia albi per i più piccini, sia romanzi brevi e illustrati per ragazzini, affidati ad autori italiani di rilievo, come ad esempio Annalisa Strada (di cui avevamo già presentato qui La gara di torte), o come in questo caso Guido Quarzo. Quarzo è stato a lungo maestro elementare e sa di cosa parla, e soprattutto a chi parla. Qui, in 1958, parla ai bambini (e ai loro genitori) di com’era la scuola elementare (e anche la vita quotidiana) ai suoi tempi, raccontando del piccolo Piero che deve lasciare la sua scuola di paese

perché si è trasferito in città, dove i genitori «avevano trovato lavoro nella grande fabbrica di automobili». Ecco, in questo inizio di anno scolastico in una Torino laboriosa e in fermento degli anni Cinquanta/Sessanta, sembra di vedere in controluce quell’altro inizio di anno scolastico torinese, datato fine Ottocento, quello che ci raccontava De Amicis in Cuore. Solo che in Cuore si parlava di Garibaldi e dell’Unità d’Italia, mentre qui di un’attualità cupa che ci si era appena lasciata alle spalle, e che ancora non era emersa in tutto il suo orrore. Attraverso l’avventura in un villino abbandonato, nel quale sembrava

tano, che prima era solo un ragazzino che sognava il mare, e poi un giovane uomo che prende il timone, e infine un anziano che racconta: «abbiamo visto il mondo e siamo invecchiati insieme, Clementine e io». Una vita, sui «cristallini mari tropicali» e sui «gelidi mari artici», fino al momento più difficile, quando bisogna prendere «rotte diverse» e lasciarla andare. Ma quello dove Clementine ora riposa, è un gran bel posto, è il fondo del mare. Una metafora del viaggio della vita, un inno all’amicizia, attraverso tavole ricche di dettagli in cui il lettore potrà «navigare», trovando sempre nuovi spunti di meraviglia.



Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 29 luglio 2019 • N. 31

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Società e Territorio Rubriche

L’altropologo di Cesare Poppi L’ultimo tot di sua maestà Secondo la Tabella Imperiale Britannica dei pesi e delle misure, un tot equivale a 71 ml di materia liquida, quale che sia. Nelle pratiche della Royal Navy il tot per definizione era la quantità giornaliera di rum spettante ad un marinaio in servizio ed in salute. Veniva distribuita a mezzogiorno in punto al grido del nocchiero: «Spirits Up!» al quale la ciurma rispondeva «Stand Fast the Holy Ghost». Entrambe le espressioni sono leggermente equivoche per non dire blasfeme: giocano sull’ambiguità del termine «spirito/Ghost», laddove quest’ultimo sarebbe letteralmente lo Spirito Santo del quale però è difficile dire se si tratti dello spirito laico alcolico o della controparte sacra. Insomma fate voi: English humour al top. Lanciato l’allarme, ciascuna sezione della ciurma spediva un proprio apposito sottufficiale alla Tap Room – la cabina della mescita. Qui un ufficiale sovrintendeva alla distribuzione da una botte speciale – la Rum Tub – decorata con l’immancabile «The King – God save him» – altro intraducibile

gioco di parole laddove non è chiaro se il Re sia il Re o se sia invece il Rum. Ogni marinaio poteva farsi registrare come G, dove «G» stava per «grog», la variante di rum diluito con quattro parti di acqua distribuita due volte al giorno e introdotta dall’Ammiraglio Vernan nella seconda metà del XVII secolo per cercare di arginare la deriva alcolica della flotta. Vernan era solito indossare un mantello fatto con una fibra di lana piuttosto grezza detta «grosgrain» – a grana grossa – che gli aveva meritato il soprannome di Old Grog. I marinai appartenenti ai vari movimenti antialcolici potevano essere registrati come «T» – «temperance». Avevano in questo caso un piccolo incremento della paga giornaliera. Avranno a questo punto capito i perspicaci lettori dell’Altropologo come la questione del rum, grog e come lo si preferisca era questione seria: specifici regolamenti stabilivano che qualora non fosse disponibile il rum la razione giornaliera poteva essere sostituita da otto – dico otto – pinte di birra (al

volgo quattro litri), da una pinta di vino o, nei casi disperati, da qualsiasi maledetta variante che contenesse il sacro spirito. Ma attenzione: doveva essere roba buona, perché sennò... Uno jus consolidato voleva che la ciurma potesse testare l’effettivo contenuto di alcol dei beveroni versandone un tot – appunto – sulla polvere da sparo: se questa continuava ad esplodere allora il beverone era certificato idoneo, altrimenti erano guai. La cala della stiva dove era conservato il liquore era costantemente guardata da un Marine armato. La guardia veniva raddoppiata in occasione di tempeste o di scontri navali particolarmente intensi, onde prevenire che l’ordine di abbandonare la nave fosse invece interpretato con un generale assalto alle riserve di rum. E di folclore di questo andazzo se ne narrava in abbondanza nelle osterie degli angiporti. Come quella che vuole che il cadavere di Nelson fosse stato immerso in una botte di rum per conservarlo durante la lunga traversata da Trafalgar a Londra.

Giunta la flotta vittoriosa in porto, la botte fu aperta. Ad eccezione del suo inquilino piuttosto ben conservato si dovette constatare che era vuota. I marines preposti alla guardia dell’eccezionale grog furono giudicati in corte marziale in un processo che pare sia ancora secretato. Questa almeno la versione che circola fra i ranghi subalterni della Royal Navy, dove i meglio informati raccontano di come un geniale cambusiere riuscì a trivellare un foro ed infilare un tubicino di travaso del sacro liquore per la gioia della ciurma intera per sempre devota alla memoria dell’eroe di Trafalgar. Ma la versione «alta» della vicenda, raccontata alle cene degli ufficiali, sostiene che il nobile cadavere non sia stato lasciato in secca e si sia presentato ai funerali in ottime condizioni. Il liquore così maturato nella traversata del Golfo di Biscaglia sarebbe stato servito al termine della solenne cena «in memoriam» col brand divenuto leggendario di «Admiral’s Rum». Ma tranquilli che ce n’era per tutti: razioni extra

di rum venivano (e vengono ancor oggi) distribuite a tutto l’equipaggio per ordine esclusivo di un membro della casa reale: «splice the mainbrace» – allunga il pennone di maestra – operazione pressoché impossibile e comunque eccezionale – implica la distribuzione di una quantità extra di rum in occasione di ricorrenze particolari e di eventi importanti. Come sarebbe – ad esempio – la data del 31 luglio a partire dal 1970. Dopo lunghe consultazioni coi vertici militari, dibattiti in parlamento, dimostrazioni nelle strade e ammutinamenti striscianti, il Ministero della Difesa di Sua Maestà aboliva la sacra usanza dell’alcolico tot giornaliero. Ma niente panico: lo sloop bermudiano di 31 piedi «Ce’mare» salperà questa notte dal porto di Ravenna, destinazione Pola. Al comando il vostro Altropologo preferito, noto in tutte le bettole dell’Adriatico come Comandante Cassopipa. Prima di salpare tre hurrà della ciurma accoglieranno lo storico grido: «Spirits Up!». Salute e Buona Estate a tutti.

ci, di porsi degli obiettivi, di provocare intenzionalmente dei cambiamenti, di chiedersi se erano pronti ad affrontare nuove sfide. Ora, nella società liquida in cui viviamo, tutto si sta omologando: i sessi, le tradizioni, le culture, le età della vita. In un certo senso: siamo tutti adolescenti. Come loro ci sentiamo incollocabili: fragili e inquieti oscilliamo tra il desiderio di vivere con gli altri e di stare da soli. Lina ha avuto il coraggio di rivendicare la sua libertà, Gabriella la soffre come una condanna. Certo le situazioni sono molto diverse: una cosa è abbandonare, un’altra essere abbandonati. Svolgere un ruolo attivo ci conferma, subire un ruolo passivo ci disorienta. Chi critica Lina ha in mente la coppia coniugale tradizionale: perpetua e solidale, si sentiva in dovere di condividere tanto gli anni della giovinezza, quando predomina l’orgoglio della realizzazione (la professione, i figli, la casa, il benessere economico) quanto gli anni in cui prevale un senso di perdita (il nido vuoto, la salute preca-

ria, gli affetti che si diradano). Ma ora, da quando l’amore «dura finché dura», l’individuo si afferma anche contro gli altri perché considera un diritto la realizzazione di sé. Il narcisismo positivo sta liberando, soprattutto le donne, dalla plurisecolare posizione di dedizione, abnegazione, sottomissione, cancellazione dei propri desideri in funzione dei desideri dei familiari. È giusto collocare anche noi tra le persone da accudire, sostenere, incentivare, rendere felici. Ma non è facile sottrarsi a modi di vita che si sono susseguiti per innumerevoli generazioni, diritti e doveri così abituali da sembrare naturali. E tutto ciò che consideriamo «naturale» diventa necessario e obbligatorio anche quando è solo consuetudine. In quanto donne abbiamo conquistato, in pochi decenni, ampi margini di libertà ma la libertà fa paura. Come accade a Gabriella, la solitudine ci angoscia, per lo più gli uomini l’accettano mentre le donne cercano in ogni modo di scon-

figgerla. Ma, come sostiene la grande psicoanalista Françoise Dolto, esiste una «solitudine felice», quella che si anima delle presenze interne, di un dialogo interiore con le figure più rilevanti della nostra storia, sempre vicine anche quando sono lontane. Anch’io, dopo la morte di mio marito mi sono posta l’obiettivo di imparare a vivere da sola, che non vuol dire isolata, ma capace di trovare in se stessa il senso del tempo, il significato dello spazio, il piacere delle piccole cose, anche quando non sono condivise. Confesso che non ci sono riuscita ma mi sto impegnando in quello che considero il compito delle vacanze. In autunno mi darò i voti.

«cecando scherzando»: con la quale un amico siciliano denuncia le domande sciocche che continuano ad assillare i ciechi nella loro quotidianità. «Tranquilli», osserva Elio «niente di male e di offensivo, ma semplicemente fuori posto». Però vale la pena di riportarle. Infatti ci appartengono. Le abbiamo, tutti, ascoltate o pronunciate, con l’attenuante dell’inconsapevolezza. Adesso, in maniera sorridente, gli effetti collaterali della banalità. «Indovina chi sono?» O «Ti ricordi di me?»: è la domanda sciocca, più ricorrente, nell’esperienza quotidiana di Medici: Di solito, arriva da un conoscente, al quale risponde sempre negativamente: «Non sono forte in indovinelli, non ho mai vinto al gioco del rumore misterioso». Alla stessa stregua, «la pacca sulla spalla senza proferir parola» è un gesto che

testimonia familiarità, coperta da un silenzio imbarazzante. «Chi mi vuole? Non ho doti paranormali per saperlo». E la serie continua con un interrogativo che, più di altri, sembra infastidire il non vedente: quando seduto in treno o in una sala d’aspetto, luoghi che inducono alla conversazione, si sente chiedere: «Cieco dalla nascita o da adulto?» Qui, Elio avverte una sfumatura di compassione e un maldestro tentativo d’aiuto. Del tipo: «Non c’è una cura? Ho letto di una nuova sperimentazione…». Ciò che provoca una reazione irremissibile: «Ma legga bene, queste cure le fanno solo sui topi!» Ma, peggio ancora, c’è chi gli chiede «Come fai a mangiare?» Al che, divertito, risponde: «Fino a 50 anni fa, i ciechi morivano di fame perché non trovavano la bocca. Adesso, siamo fortunati:

abbiamo posate con appositi sensori». Da tutte queste esperienze, Elio Medici sembra ricavare una conclusione negativa: come se l’opera di sensibilizzazione, condotta in oltre mezzo secolo dall’Unitas, non sia servita a nulla. «Siamo sempre ai piedi della scala?» si domanda. Ora, lui stesso, attraverso la sua storia personale, fornisce la prova di un’emancipazione concreta che include l’attività professionale come informatico, il bisogno e il piacere di viaggiare, la capacità di scoprire attraverso sensazioni allargate: suoni, profumi, voci, atmosfere. Tutto ciò in quel buio in cui i ciechi riescono a orientarsi con disinvoltura e buon umore. Mentre, per i vedenti, rimane un tabù persino umiliante. Avete mai partecipato a una cena al buio dell’Unitas? È un’esperienza che lascia il segno.

La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi La terza età non è più la stagione della rinuncia Nei giorni scorsi ho ricevuto, quasi contemporaneamente, due lettere molto diverse tra di loro ma accomunate, come vedremo, da un atteggiamento di fondo. Cara Silvia, ho settantacinque anni e, dopo una vita trascorsa insieme, mi sono separata da mio marito, una brava persona, ma di cattivo carattere: pessimista, brontolone, sempre pronto a criticare, incapace di apprezzare, contrariamente a me, le piccole gioie della vita. Tutti mi hanno criticata, salvo mia figlia, che mi ha detto: «mamma, hai fatto benissimo, goditi finalmente la tua vita». Infatti me la sto godendo: ho ripreso a suonare il pianoforte, a leggere di notte, a cucinare quando voglio e per chi voglio. Ho fatto bene? / Lina Gentile dottoressa, a sessant’anni, dopo 20 di convivenza, sono stata abbandonata dal mio compagno, non per un’altra, ma per sentirsi

libero di vivere la sua vita, di viaggiare, di conoscere altre persone, di seguire i suoi interessi. Non mi è mai sembrato di impedirglielo ma si vede che mi ero sbagliata. Eravamo sempre insieme, condividendo tutto, e ora non riesco a vivere da sola. Non so come si fa. Ho chiesto a parenti, amici e conoscenti di starmi vicino, mi sono stordita con viaggi, mostre, spettacoli organizzati, ma non basta. La solitudine mi fa paura, mi sento esclusa, come nel gioco dei quattro cantoni, dallo spazio della vita. E non so come fare. / Gabriella Care amiche della Stanza del dialogo, le vostre lettere sembrano l’opposto ma in realtà rivelano un cambiamento radicale: la terza età non è più la stagione della rinuncia, della rassegnazione, di una tranquilla depressione. Sino a qualche generazione fa gli anziani accettavano con naturalezza di essere messi in disparte e, anche quando continuavano a vivere in famiglia, non si sognavano neppure di voler essere feli-

Informazioni

Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch

Mode e modi di Luciana Caglio Dai ciechi una lezione d’ironia «Buongiorno»: si apre con un saluto, ovviamente sonoro, l’editoriale dell’ultimo numero di «Arcobaleno», la rivista parlata di Unitas, l’Associazione ciechi e ipovedenti della Svizzera italiana. L’autore, Elio Medici, affida quindi il suo messaggio alla comunicazione orale, e così avvia un colloquio destinato a coinvolgere immediatamente l’ascoltatore. Rispetto alla pagina scritta o stampata che, spesso, arriva da un estraneo, magari mette in soggezione e può essere letta a posteriori, quella parlata reca l’impronta riconoscibile di una voce e crea, fra mittente e destinatario, un rapporto personale diretto. Contiene, insomma, i presupposti di un’amicizia che fa capo al comune denominatore di un handicap, con cui imparare a convivere, sviluppando la solidarietà indispensabile per con-

quistare autonomia sul piano sociale e professionale e, non da ultimo, su quello morale e psicologico. Tanto da consentire persino l’approccio scherzoso e ironico nei confronti della propria disabilità. Si deve addirittura parlare di autoironia, un atteggiamento culturale, che rappresenta un traguardo di un alto grado di emancipazione e libertà. Non si tratta, certo, di banalizzare una condizione di vita, ancora alle prese con barriere materiali e soprattutto con barriere mentali, pregiudizi e luoghi comuni: da demolire con l’arma dell’ironia e dell’autoironia. Proprio il citato editoriale dimostra come, oggi, sia possibile affrontare il tema dell’handicap da quest’insolito versante. Punto di partenza del messaggio, trasmesso da Medici, una pagina su Facebook, intitolata


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Ambiente e Benessere Modernità della Grecia Un reportage da Salonicco, crocevia di culture che cerca di ritrovarsi, tra passato e futuro

Un missile con le ruote Nel 2020 entrerà sul mercato la nuova Lotus Evjia, 2000 CV di potenza, completamente elettrica

Bacco nel Mediterraneo Gli antichi commercianti si sono avventurati attraverso il mare e hanno fatto conoscere i vini pagina 24

pagina 21

pagina 19

Un taglio per esperti La sella permette di creare piatti di prestigio ma dalla preparazione non sempre facile

pagina 25

Un necessario inventario ambientale Infospecies Delle 46mila specie viventi in

Svizzera molte sono minacciate: è importante dunque monitorarne lo stato di salute

Marco Martucci A un rapido sguardo superficiale potrebbe anche non sembrare, ma i numeri sono chiari: in Svizzera si conoscono quasi 46’000 specie di organismi viventi, senza contare gli unicellulari. Sono oltre 32’000 specie di animali, 5200 specie di piante, 8272 fra funghi e licheni e si stima ragionevolmente che almeno altre 20’000 specie, fra cui 9000 funghi e 8000 insetti non siano ancora state scoperte. Di circa 10’000 specie valutate, il 35% è considerato minacciato e figura nelle Liste Rosse. Questi elenchi sono solo in apparenza fini a se stessi. In realtà, la conoscenza delle specie è presupposto imprescindibile per valutare un ambiente e, alla fine, per conservare e proteggere la natura. In Svizzera, la coordinazione di ogni attività volta a conoscere le specie viventi nel nostro territorio, è assunta da InfoSpecies, il Centro svizzero d’informazione sulle specie. Come riassume efficacemente Stefan Eggenberg, membro di comitato di InfoSpecies, «la conoscenza delle specie e dei loro ambienti di vita non è solo un piacevole arricchimento personale ma fornisce le competenze per una protezione della natura a livello professionale». Per questo, InfoSpecies sostiene e coordina la formazione continua, offrendo corsi di base e di approfondimento, rivolti a specialisti ma anche a dilettanti appassionati, in tutta la Svizzera, Ticino compreso. Ecco qualche esempio, tratto a caso dall’offerta dei corsi per il 2019. Un’introduzione al mondo dei muschi, escursione e identificazione di piante acquatiche, piante esotiche invasive, ambienti naturali in Svizzera, corsi di base su libellule, anfibi, rettili e uccelli. Associazione mantello dei centri dei dati e delle informazioni e dei centri di coordinamento per la conservazione delle specie, InfoSpecies raccoglie, gestisce e mette a disposizione le osservazioni e i dati sulle specie selvatiche in Svizzera. Piattaforma di scambio e di coordinamento per la conservazione delle specie, InfoSpecies offre consulenze ed è il riferimento per le questioni legate alle sinergie di conservazione fra tutti i gruppi di organismi in natura.

Della vasta rete di InfoSpecies fanno parte diversi enti ed associazioni, specializzati nei diversi gruppi di organismi. InfoFlora è il centro nazionale dei dati e delle informazioni sulla flora svizzera. Fondazione privata di diritto pubblico con sede a Ginevra, annovera fra i suoi fondatori l’Accademia svizzera di scienze naturali e la Società botanica svizzera. È riconosciuta dall’Ufficio federale dell’ambiente ed è presente in Ticino presso il Museo cantonale di storia naturale. La raccolta delle osservazioni floristiche svizzere, la creazione e il mantenimento di una banca dati nazionale sono fra i compiti di InfoFlora che, due volte l’anno, pubblica FloraCH, la rivista sulla flora selvatica della Svizzera. SwissFungi è il centro nazionale dei dati e delle informazioni sui funghi della Svizzera. Obiettivo primario di SwissFungi è far conoscere al più vasto pubblico possibile tutto quanto si sa sulla distribuzione, sull’ecologia della flora micologica svizzera nonché sulle minacce che incombono sui nostri funghi. Un’apposita banca dati registra la distribuzione di tutte le specie di funghi documentate in Svizzera ed è la base per la loro protezione (Liste Rosse, specie prioritarie). L’atlante della distribuzione dei funghi mostra con una precisione di 5 x 5 km la diffusione di ogni specie di fungo e la lista dei substrati evidenzia infine su quali piante si trovano i funghi parassiti o decompositori. Fra le curiosità disponibili sul sito di SwissFungi troviamo anche gli ultimi dieci ritrovamenti in ordine di tempo, le specie minacciate rinvenute recentemente e quelle ritrovate per la prima volta durante l’anno in corso. Dei licheni, queste curiose creature formate dall’associazione di un fungo con un’alga, si occupa Swisslichens, che informa sulla loro distribuzione e sulla loro protezione. Nell’ultima Lista Rossa dei licheni pubblicata nel 2002 figuravano ben 295 specie, quasi il 40% di quelle oggetto d’indagine. I licheni, nonostante il loro apparire modesto, sono importanti e alcuni di loro si sono rivelati utili come bioindicatori della qualità dell’aria. Gli appassionati di muschi, piante di piccola statura ma che, con i loro cu-

Si calcola, tra l’altro, che siano ancora da scoprire almeno 8000 specie di insetti. (M. Martucci)

scinetti arrivano a coprire non indifferenti superfici, troveranno pane per i loro denti in Swissbryophytes, il Centro nazionale dei dati e delle informazioni sulle briofite, il termine scientifico che indica i muschi. Su mandato dell’Ufficio federale dell’ambiente UFAM, il team di Swissbryophytes sta lavorando a una nuova edizione della Lista rossa dei muschi svizzeri, prevista per il 2020 e che sostituirà l’attuale del 2004. Vastissimo è il campo d’attività di info fauna, dedicato agli animali, cui partecipano info fauna CSCF, Centro svizzero di cartografia della fauna e info fauna karch, acronimo tedesco per Koordinationsstelle für Amphibien und Reptilienschutz in der Schweiz, Centro di coordinamento per la protezione degli anfibi e dei rettili in Svizzera. Il campo d’indagine del CSCF si è molto allargato. Se all’inizio l’interesse verteva sulla distribuzione geografica

di alcune specie, oggi il numero di specie si è notevolmente ampliato e molto spazio è dedicato agli aspetti ecologici, di protezione, alla biodiversità e all’allestimento di Liste Rosse. Specializzato in rettili e anbifi e strettamente collegato con il CSCF è proprio il karch, fondato nel 1979 e dal 2010 fuso con il CSCF in un’unica fondazione. Insieme gestiscono e aggiornano, su mandato dell’Ufficio federale dell’ambiente UFAM, la banca dati faunistica nazionale. Il mondo degli uccelli è il centro d’interesse di ben due grandi strutture: la Stazione ornitologica svizzera e BirdLife Svizzera. La prima, con sede a Sempach, è una fondazione creata nel 1954 che ha fra i suoi scopi il controllo e la valutazione dello sviluppo del mondo degli uccelli in Svizzera, la ricerca scientifica sugli uccelli, i loro rapporti con l’ambiente, la nidificazione e

le migrazioni, la consulenza specialistica. Gli oltre 65’000 soci di BirdLife svizzera sono attivi nella protezione degli uccelli in tutto il Paese, a sud delle Alpi con Ficedula, l’Associazione per lo studio e la conservazione degli uccelli nella Svizzera italiana. Gli amici dei pipistrelli sono riuniti in due grandi centri di coordinazione, quello ovest per il Canton Berna e la Svizzera romanda e quello est per il resto del Paese con il Ticino. Attraverso InfoSpecies ci si può facilmente collegare con ogni centro, dalle piante ai funghi, dagli uccelli ai mammiferi. Le banche dati sono aperte a tutti e ogni interessato può partecipare attivamente, mettendo a disposizione le proprie osservazioni. Informazioni

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Ambiente e Benessere

La madre dei poveri

Salonicco La città greca è un crocevia

di uomini e di destini, ed è alla ricerca di un nuovo equilibrio per affrontare il futuro

Guido Bosticco Aristomenes ha i capelli lunghi, lo sguardo veloce, beve birra lentamente e spara parole a raffica. E tutte dicono una sola cosa: orgoglio greco! L’orgoglio di una cultura antichissima e raffinatissima, la consapevolezza di essere la matrice culturale di mezzo mondo e di tante lingue. Lui parla un italiano fluente, perché a Bologna aveva un ristorante greco, ospite fisso era Umberto Eco, ma poi è tornato qui a Salonicco per aprire un bar italiano. Si fa così, dice. Anche se l’economia non è delle migliori, l’orgoglio greco ha chiamato: si torna e si fa ripartire questo Paese. E mentre la notte scorre fra chiacchiere e birre, si fa l’alba fra le vie della città, che ospita la più grande università di tutta la Grecia. Per questo i pub sono strapieni di studenti; non vi dico poi le discoteche, i locali alternativi, le piazze e il lungomare. Città di giovani certo, ma anche un antichissimo porto negli anfratti di una costa lontana dalla Grecia turistica delle isole, delle casette bianche e delle taverne con ouzo e souvlaki. Salonicco è una città vera, vissuta, in salita e in discesa, stesa fra il mare e i colli; città di pescatori e operai, commercianti e armatori, industria e servizi. Stratificata, nelle architetture del ghetto ebraico, dal quale tutti fuggirono dopo il gigantesco incendio del 1917, e nei musei sulle tradizioni popolari, sullo sport, sulla lotta, sull’acqua perfino. Indecisa, fra gli ex depositi del porto trasformati in locali notturni per il tempo di un Martini o di un concerto jazz, e la monumentalità della Torre Bianca, che nel XV secolo fu il posto di guardia sul mare dei Giannizzeri, il corpo dei soldati scelti dei sultani ottomani formato da giovani cristiani. È un luogo speciale, Salonicco, se lo si guarda oltre questa sua aria confusa, fatta di grandi palazzi moderni, traffico, splendide chiese bizantine

Il mercato di Salonicco. (Vince Cammarata)

(questa era la co-capitale del regno, accanto a Costantinopoli) e il viavai di navi dal porto. Non c’è statua, porta monumentale o basilica che non abbia sullo sfondo un condominio di otto piani con i panni stesi. Ma nemmeno è possibile posare lo sguardo da qualsiasi parte e non vedere una traccia di antico, una pietra, un nome, un segno della storia. Qui passeggiò Aristotele, insegnando la filosofia ai suoi allievi, e qui predicò la buona novella San Paolo; da qui passa la via Egnatia (da Durazzo a Istanbul) che oggi è anche meta di un turismo lento, che sta riscoprendo i tempi dello sguardo e della riflessione nel conoscere i luoghi. Nei dintorni di Salonicco poi ci sono almeno due siti archeologici imperdibili: Pella, l’antica capitale del regno di Macedonia dove nacque Alessandro Magno, e Verghina, ancora più antica, con la straordinaria tomba di Filippo II, che fu scoperta negli anni 80 e solo oggi comincia a diventare meta di turismo straniero. E oltre i Romani, i Bizantini e gli Ottomani, che hanno lasciato le loro impronte fra queste vie, qui gli ebrei, i musulmani e i cristiani hanno condiviso la terra, le regole e i commerci, perché questa è una terra di incontri, di incroci, di scambi. Oggi più che mai. Il flusso di stranieri che bussa alle porte di Salonicco infatti non si è fermato, ridisegnandone il volto culturale ed estetico. Arrivarci dalla Svizzera senza prendere l’aereo significa solcare l’Adriatico, cercare un autobus che attraversi tutta la Macedonia greca, al confine con l’Albania e la Bulgaria, e poi arrivare in questo angolo riparato del Mar Egeo, che guarda ad Atene e a Smirne, e che è il porto di approdo naturale per chi fugge dall’altra sponda. È una storia vecchia e nuova. Qui dopo la Prima guerra mondiale giunsero migliaia di greci espulsi dalla Turchia nel 1922 in seguito alla guerra greco-turca. Per accogliere tutti Salonicco

La vita notturna è vivace. (Vince Cammarata)

Venditori ambulanti lungo la passeggiata cittadina. (Vince Cammarata)

La torre bianca è simbolo della città. (Vince Cammarata)

dovette creare nuovi quartieri e fu soprannominata «la capitale dei rifugiati» e «la madre dei poveri». Nel 2018 sono stati più di settemila i richiedenti asilo in città, in maggioranza afghani e iracheni, ma nel 2015 giunsero in Grecia ottocentocinquantamila persone in fuga dalla guerra siriana. E Salonicco era lì, era la porta. Il governo cittadino ha dovuto trovare una vocazione, appoggiandosi sulla sua storia e su una certa predisposizione degli abitanti, qualcosa come uno spirito condiviso o chissà che: fatto sta che oggi la città è un modello di gestione e coordinamento dei flussi migratori, che si traduce in capacità di accoglienza. Certo le difficoltà ci sono ma si cerca di superarle partendo dallo studio delle lingue: prima la propria poi il greco. Qui è facile capire come la lingua sia l’elemento di base della costruzione identitaria, sia quella di origine, che mi ricorda da dove vengo, sia quella di approdo, che mi dice dove sto andando. La lingua è lo strumento del viaggio, della conoscenza e dell’apertura, così come quello della tradizione e della conservazione del sapere; la lingua come avanguardia dei popoli e come cassaforte dei popoli. Forse è anche per questo che Aristomenes tiene così tanto alla sua lingua, alle parole del greco antico, che hanno forgiato quelle latine e quelle di molte lingue europee: forgiando le parole forgi i concetti, le idee. Eccolo l’orgoglio greco: essere consapevolmente alla base di un mondo più unito, ma in dialogo.

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Una verde, sempre più verde

Ambiente e Benessere

Motori La nuova Lotus Evija ha un motore completamente elettrico, da quasi 2000 CV

Mario Alberto Cucchi Era il 1952 e un giovane ingegnere inglese di ventiquattro anni fondava la Lotus. All’interno del mitico logo verde su sfondo giallo, oltre alla scritta Lotus ci sono le iniziali stilizzate del suo nome completo: Anthony Colin Bruce Chapman. Nel 1958 la Lotus debuttò in Formula Uno con il nome di Team Lotus. Uno delle scuderie più vincenti di sempre: 79 Gran Premi sul gradino più alto del podio e ben sette titoli mondiali. A Lotus si devono alcune tra le innovazioni più importanti nel mondo dei GP: dal telaio monoscocca, al motore con funzione portante, dai radiatori laterali alle sospensioni attive, sino allo sfruttamento del fenomeno noto come effetto suolo. Insomma, solo a pronunciare il nome Lotus si sente odore di pista, di pneumatici e di benzina. E oggi? I tempi sono cambiati. In questi giorni Lotus ha presentato a Londra una hypercar full-electric da quasi 2000 cavalli di potenza massima. Si chiama Evija ed è l’auto di serie più potente mai costruita dal produttore britannico, che nel maggio del 2007 è stato acquistato dalla cinese Jeely. Avete capito bene, l’ultima nata è un’automobile totalmente elettrica. Nonostante l’aumento di peso dovuto alle batterie, tiene fede alla tradizione Lotus di costruire auto leggere. Ecco allora che proprio per limitare il peso a 1680 chilogrammi, Evija è la prima Lotus a utilizzare un telaio monoscocca in fibra di carbonio. La potenza totale di 1973 cavalli viene fornita da quattro motori

Ha un motore strabiliante: da o a 100 km/h in 3’’; da 0 a 300 km/h in 9’’. (Lotus)

elettrici che consentono a Evija di passare da 0 a 100 chilometri orari in meno di tre secondi. La coppia massima di 1700 NewtonMetro abbinata alla velocità massima di oltre 340 orari la rende una vera e propria bomba a quattro ruote adatta più alla pista che alla strada, su cui comunque può circolare. Il pacco batterie da 70 kw/h e 2000 kW di potenza, sviluppato con Williams Advanced Engineering, consente a Evija un’autonomia di 400 chilometri calcolati secondo il

ciclo WLTP. Questa supercar è compatibile con la futura rete di caricabatterie da 800 kW. Secondo Lotus già oggi può essere ricaricata da zero al 100% in soli 18 minuti utilizzando i recenti punti di ricarica da 350 kW. L’aspetto aerodinamico di forme e proporzioni dell’hypercar britannica è stato studiato per favorire la stabilità ad alte velocità. Basti pensare che Evija ha solo 10,5 cm di spazio dal suolo. Lo spoiler posteriore può assumere diverse inclinazioni per controllare efficace-

mente la scorrevolezza dell’auto. Non passano inosservati il cofano anteriore pronunciato con aperture per aiutare il raffreddamento delle batterie, le superfici concave sulle fiancate e le generose feritoie sul posteriore, l’assenza sia delle maniglie sulle portiere che dei tradizionali specchietti esterni. «Evija riporterà il nostro marchio nei cuori e nelle menti degli appassionati di vetture sportive e sul palcoscenico mondiale dell’auto, aprendo la strada ad ulteriori modelli visionari»

ha dichiarato il Ceo di Lotus Phil Popham. Evija è stata progettata presso la sede storica di Lotus a Hethel, nel Regno Unito, e la produzione inizierà nel corso del 2020. Lotus realizzerà solo 130 esemplari, che saranno venduti a 1,7 milioni di sterline più tasse. Oltre due milioni di franchi svizzeri. Solo per ordinarla è necessario versare circa 330’000 franchi. Insomma l’odore di benzina appartiene al passato, ma con Evija anche Colin Chapman se ne farebbe una ragione. Annuncio pubblicitario

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Ambiente e Benessere

Giardini alla moda con le raffinate gaure

Mondoverde Sono originarie degli Stati Uniti ma attecchiscono benissimo anche in Europa,

con cespugli colorati dalla presenza elegante

Anita Negretti Gaura lindheimeri è un’erbacea perenne che negli ultimi anni è sempre più in auge, grazie alla leggerezza dei suoi fiori simili ad ali di farfalla. Robusta, facile da coltivare e di poche esigenze, necessita di un’esposizione al pieno sole o a mezz’ombra: si adatta a qualsiasi terreno ben drenato, resistendo a temperature invernali fino a –10, –15 °C. Originaria del Texas e della Lousiana, fiorisce ininterrottamente nei mesi più caldi, accontentandosi di irrigazioni contenute. Si presenta in primavera, al momento della messa a dimora, come una bassa erbacea con foglioline lanceolate ed è abbastanza anonima, finché da maggio in poi sviluppa degli steli arcuati che si allungano leggeri, producendo sempre nuovi fiori bianchi o rosa, a quattro petali, disposti su lunghe infiorescenze a spiga, che fioriscono fino ad ottobre-novembre. La si può coltivare anche in vaso, con un diametro di almeno 40-50 centimetri e vanno bagnate, sempre se coltivate in contenitore, appena il terriccio incomincia ad asciugare, ma senza inzupparle, visto che mal sopportano i ristagni idrici. In piena terra si innaffiano durante

le prime settimane, finché non attecchiscono e successivamente si accontenteranno dell’acqua piovana. In aprile vanno concimate con un prodotto a lento rilascio, mentre a fine luglio si somministrerà un concime povero di azoto, ma ricco di fosforo e potassio. Molte sono le varietà di Gaura lindheimeri che si distinguono tra loro per il colore o l’altezza, come la gigante «Passionate Blush», di 120-150 centimetri sia di altezza che di diametro della chioma, con fiori rosa chiaro e rosa scuro e foglie rossastre o la piccola «Gaudi Red», molto compatta, con un cespo alto 30 centimetri e fiori rosa scuro. «Short Form» ha fiori bianco purissimo ed è alta 50-70 centimetri, stessa altezza di «Siskiyou Pink» con fiori rosa intenso ed una macchia più scura all’interno dei petali. Se il primo anno saranno belle compatte e fiorite, dal secondo anno necessitano di una potatura di almeno un terzo della loro altezza da eseguirsi verso i primi di luglio, quando la fioritura incomincia a scarseggiare, dandogli un aspetto bombato al cespo, che nel giro di qualche settimana produrrà una nuova nuvola di fiori simili a farfalle. Le gaure hanno in apparenza un aspetto fragile e flessuoso, ma in realtà

I loro fiori somigliano a farfalle. (Wikimedia)

queste piccole piantine sono delle grandi colonizzatrici, infatti se piantumate in un’aiuola, molto facilmente ne troverete di nuove cresciute da seme che in breve tempo produrranno fiori. A me è capitato con «Summer

Emotions», dai petali bianco-rosati ed alta circa 60 centimetri, che dopo pochi mesi dal suo arrivo nel mio giardino, ha dato vita a 6-7 piantine nate da seme in completa autonomia. Riproverò anche con la nuova va-

rietà «Rosyjane», dai fiori bianchi screziati di rosa e vedrò se anche lei si autodisseminerà, ma in caso negativo mi basterà dividere il cespo a novembre e ripiantarlo in zone distanti tra loro, per avere nuove piante di gaura. Annuncio pubblicitario

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Ambiente e Benessere

Lungo le rotte del vino

Scelto per voi

Bacco Giramondo Un viaggio attraverso il Mediterraneo, seguendo le navi dei coraggiosi

mercanti che lo solcavano con il loro carico prezioso – Prima parte Davide Comoli Parlando di vino, dalle sue origini alla sua evoluzione, della sua conquista di territori, di popoli, non possiamo tralasciare di raccontare oltre che di mercanti, anche di trasporto, di commercio, di porti, ma soprattutto di navi e contenitori. Spesso quelle che abbiamo trovato frugando nelle nostre memorie e nelle nostre ricerche, sono cronache fantasiose o incomplete, che narrano di consumi specifici e trasporti via mare tra alcuni popoli antichi abitatori delle coste del Mediterraneo. Abbiamo quindi attinto a scritti che si rifanno ad alcuni autori greci e latini classici, tra cui Strabone, Erodoto, Varrone, Plinio e Columella, cercando di redigere una storia del vino e del suo commercio la più credibile possibile, ripercorrendo qualche mi-

gliaio di pagine di celebri opere, anche attuali. Sono pagine che indicano nel Mediterraneo la culla indiscutibile del commercio e dello scambio tra i popoli, spesso rivali o nemici, protagonisti in modo e tempi diversi della lunga storia del commercio vinicolo. Imbarchiamoci dunque su questa nave e con la fantasia salpiamo attraverso questo mare che ha avuto il merito di diffondere, anche con l’aiuto del vino, la cultura tra i popoli che abitavano le sue sponde. Il connubio vino-mare, lo si può desumere con evidenza, oltre che sulle storie di Delo e Rodi, come vedremo in seguito, per il fatto che nel porto di Ostia (Roma) è stato ritrovato un numero elevatissimo di anfore per il trasporto del vino importato dalle Gallie, e in altri periodi, dalla Betica (Spagna), che veniva immagazzinato o ricoverato

Bassorilievo antico con una nave che trasporta delle botti. (pinimg.com)

provvisoriamente nelle numerose dispense portuali. Parlando di «patrie» del vino, l’Egitto (contrariamente a quanto affermato da qualcuno), non è mai stato un Paese di grandi tradizioni vinicole. Poche vigne, rare le pratiche di vinificazione; sarà soltanto con l’avvento commerciale con altri Paesi del Mediterraneo, tra cui alcuni colonizzati o occupati per un certo periodo dagli eserciti egizi, che i sudditi dei faraoni apprenderanno nuove cognizioni sulla vitivinicoltura, scoprendo anche vini migliori dei vinelli prodotti lungo il Nilo. Bisognerebbe puntigliosamente descrivere quali orribili misture venivano introdotte nelle anfore ritrovate nei sepolcri della Valle dei Re, per assicurare al vino una innaturale longevità. Infatti, i ricchi sudditi dei faraoni, se intenditori di vino, cercarono d’importare vino dalla Siria, da Cipro, da Creta dalla Terra di Canaan e più tardi dalla Grecia. Il vino degli Egizi, non doveva quindi essere quel grande nettare descritto come presunto tale, tanto che i dominatori greci e romani, giunti in epoche posteriori, non amavano molto i «vinelli» prodotti in Egitto. Quando questi «imperialisti» si trovarono «esuli» in questa terra, si facevano inviare vino dalla Grecia dai porti dell’Egeo, ma soprattutto Falerno, Cecubo e Mamertino dalla Penisola italica. I primi cenni credibili di scambio commerciale nell’area mediterranea nei quali il vino gioca un ruolo determinante, si trovano in documentazioni inerenti all’isola di Creta. Nel 1956 fu infatti ritrovato al Cairo un documento risalente al Regno Medio egizio, nel quale viene evidenziato il fatto che molte navi egizie facevano spola con i porti di Keftiu (l’antico nome di Creta). Gli Egizi scambiavano i loro prodotti (gioielli, uova di struzzo e avorio) con legname e soprattutto con il vino, che se non prodotto tutto a Creta, veniva immagazzinato nelle capaci dispense portuali dell’isola, le quali servivano

pure come base per i traffici merci che transitavano per la direttrice commerciale che univa le sponde del Mediterraneo e la Siria con la Babilonia, passando per Mari. I vini importati venivano «rinfrescati» e resi più «potabili» dal ghiaccio che in grande quantità era conservato nel profondo delle grotte. Tutto questo è confermato dal gran numero di anfore vinarie ritrovate (naturalmente vuote) che risalgono al 1360 a.C. circa. Le «strade del vino» che a Oriente raggiungevano il cuore della Mesopotamia, oltre che terrestri, erano rappresentate dalle vie d’acqua, di mare e di fiume per determinati tratti, vie solcate dai primi vascelli mercantili e dalle barche a fondo piatto. Sul finire del II millennio, l’Egitto conobbe il periodo più buio della sua storia, a causa dei ripetuti attacchi da parte dei «Popoli del Mare» che spesso si univano ai Predoni di terra e agli invasori libici. Il vino importato che stava per diventare un bene disponibile ad ampi strati della popolazione e che proveniva dalle coste della Siria, del Libano e dai porti dell’Egeo, ma soprattutto da Creta, lentamente scomparve dalla dieta quotidiana. Per ritrovare il vino protagonista, bisognerà attendere alcuni secoli. Sarà intorno al 650 a.C., con l’avvento della XX Dinastia Saitica, grazie al faraone Psamtek I di Sais, che a tutti gli strati sociali della popolazione verrà offerta la possibilità di bere vino. Il vino entrerà a tal punto nella dieta quotidiana, che si arriverà addirittura a snobbare la bevanda sacra a Cerere (definita in modo approssimativo birra), che spesso era solo una misera tisana a base di cereali, ottenuta il più delle volte con acqua di dubbia e mediocre qualità. Ma per meglio comprendere il ruolo del commercio del vino nelle varie epoche e presso le varie civiltà, è necessario approfondire la funzione di questa bevanda nella quotidianità e nell’alimentazione. Vi invitiamo quindi a seguirci nel prosieguo di questa nostra storia.

Capovolto

Il Verdicchio di Jesi ha la sua zona d’eccellenza nella Vallesina, situata a nord-ovest di Jesi. Il «Capovolto» è prodotto con coltura biologica a Cupramontana, villaggio collinare degradante verso il mare Adriatico, da cui riceve le fresche brezze marine. Le coltivazioni di tipo biologica o biodinamica permettono di ottenere un vino dal colore paglierino intenso, con sfumature di oro verde. Al naso riusciamo a percepire le espressioni più fini e sensuali di questo vitigno, floreale con sentori di pesca e mandorla, mentre al palato la sensazione salina e fresca ne valorizza la persistenza gustativa. Questo è un vino da tutto pasto, ideale per questo periodo estivo con pietanze a base di verdure e uova. È perfetto su un menu marinaro e si sposa in modo particolare con brodetti e zuppe di pesce, con grigliate e fritture, da provare assolutamente con l’orata al cartoccio. Deve sempre essere servito fresco, ad una temperatura di 8-10° C. / DC Trovate questo vino nei negozi Vinarte al prezzo di Fr. 22.50. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 29 luglio 2019 • N. 31

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La sella, boccone regale

Ambiente e Benessere

Allan Bay Parliamo della sella, intesa come taglio di carne. È particolarmente pregiata, ma anche molto voluminosa, e se ne trovano di vari quadrupedi (ovini, vitello, capriolo, daino ecc.). È costituita dai due carré dei due quarti posteriori uniti dalla colonna vertebrale: dalla base della coda arriva quindi fino all’inizio delle costole. La sella di vitello ha un peso che supera normalmente i 10 kg, perciò questo taglio ricco di polpa viene utilizzato principalmente dai ristoranti; ogni sella è sufficiente per 10-14 persone. Solitamente i rognoni vengono tolti e le cavità rimaste riempite con una besciamella densa. La sella viene normalmente brasata o arrostita; il tempo di cottura è di 30’ per ogni kg di carne.

Generalmente viene proposta quella di vitello, ma sono apprezzate anche quelle di capriolo, daino, lepre e quelle di vari tipi di ovini È una pietanza tipica della cucina classica internazionale e viene preparata secondo varie ricette. La più nota è quella che prende il nome dal principe Orlov: tanto tempo fa vi diedi la ricetta, impensabile prepararla in casa. Si tratta sempre di preparazioni molto elaborate, sia per la ricchezza degli ingredienti sia per la difficoltà di disossare la sella per la preparazione. Per la cottura, spesso il taglio viene avvolto in lardo o cotenne al fine di mantenere la pelle morbida. Alcune ricette prevedono anche la farcitura, che può essere fatta per esempio con salsiccia e funghi o con rognone, lardo e mollica di pane. Non è soltanto la sella di vitello a essere pregiata: lo sono anche tutti i

tagli corrispondenti di altri animali. Sempre riservate ai grandi banchetti sono le selle di daino e cervo, mentre quelle di agnello, capretto, capriolo, coniglio e lepre possono essere utilizzate anche per un pranzo importante preparato in casa, essendo di dimensioni più contenute. Ecco una ricetta «umana», ovvero fattibile con un po’ di pazienza. Sella allo zafferano. Per 4-6 persone. Chiedete al macellaio di tagliare un trancio di lombata di vitello da latte con uno spessore pari a quello di 4-6 cotolette. Bardate la lombata disossata con circa 200 g di pancetta tagliata sottilissima e legate con spago da cucina. Con ossa, polpa di vitello e le verdure canoniche, fate un brodo di vitello; alla fine concentratelo fino ad averne circa mezzo litro. Poi fate una besciamella con 100 g di burro; alla fine emulsionatevi 60 g di grana grattugiato finissimo e 2 bustine di zafferano stemperate in poco latte caldo; regolate di sale, di pepe e di spezie a piacere. A parte mondate e spezzettate 4 porri. In una casseruola antiaderente rosolate la lombata bardata per 5’, girandola da tutte le parti ma senza aggiungere grassi, ce ne sono a sufficienza. Poi sfumate con 1 dl di vino bianco secco sobbollito per 3’, bagnate con il brodo concentrato bollente, unite i porri e portate la lombata a cottura a fuoco dolcissimo e coperto per 2 o più ore, bagnando con poca acqua bollente se asciugasse troppo. Alla fine levate la carne, eliminate la corda che la barda e gettate nel fondo gli avanzi di pancetta. Fate raffreddare del tutto la carne; nel frattempo, frullate il fondo, poi passatelo al passino a fori piccoli e regolatelo di sapore. Quando la carne è fredda, tagliatela a fette e componete la sella in una pirofila a gradinata, spalmando le fette di carne con due terzi della besciamella e distribuendo accanto alla carne verdure a piacere stufate. Nappate col fondo, coprite con il resto della besciamella, fate gratinare in forno a 200° per 10’ e servite.

Marka

Gastronomia È un taglio particolarmente pregiato che richiede preparazioni accurate

CSF (come si fa)

L’orata è un pesce di mare, così chiamato per la tinta dorata che colora parti della sua livrea: una fascia tra gli occhi e due macchie sopra le branchie, le striature che attraversano il dorso grigio-argentato. Vive di preferenza su fondali sabbiosi o scogliosi. Le sue carni sono molto pregiate e saporite, oltre

che altamente versatili: si possono cucinare infatti al forno, alla griglia, in umido e sono eccellenti anche crude. Vediamo come si fanno un paio di classicissime ricette con l’orata, ovviamente squamate ed eviscerate. Orata al cartoccio. Per 4 persone. In una casseruola fate aprire 500 g di vongole e 500 g di cozze ben pulite, sgusciatele e filtratene il fondo. Stendete un rettangolo di carta da forno, cospargetelo con poco sale, 2 cucchiai di trito di aglio e prezzemolo e parte dei molluschi. Adagiateci 1 orata pulita di circa 1,2 kg, salatene la superficie, irrorate con un filo di olio e cospargete con altrettanto trito di aglio e prezzemolo e i molluschi rimasti. Spruzzate il pesce con 1 cucchiaio del fondo filtrato delle conchiglie, chiudete al meglio il cartoccio e cuocete in forno a

160° per 35-40’. Servite l’orata portando in tavola il cartoccio ancora chiuso. Orata farcita. Per 4 persone. Tritate 500 g, peso netto, in tutto fra frutti di mare aperti a crudo, sogliole, calamaretti, code di gamberi e altro a piacere, tutti mondati. Amalgamate il trito con 100 g di mollica di pane bagnata nel latte e strizzata, 1 uovo, 1 cucchiaio di prezzemolo tritato, un filo di olio, regolate di sale e di pepe e fate riposare per 1 ora. Farcite con il composto la pancia di un’orata pulita di circa 1,2 kg, diliscata e privata della spina centrale. Stendete un rettangolo di carta da forno, cospargetelo con poco sale e 2 cucchiai di trito di aglio e prezzemolo, adagiatevi l’orata, chiudete al meglio il cartoccio e cuocete in forno a 160° per 35-40’. Servite portando in tavola il cartoccio ancora chiuso.

Ballando coi gusti Oggi, due semplici ma ghiotti crostini, mangiabili da mattina a sera. La qualità del pane, va da sé, è fondamentale.

Crostino con grana e pere

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Ingredienti per 4 persone: 4 fette di pane buono · 2 pere a piacere · aglio · formaggio grana o sbrinz o altro a piacer vostro · olio di oliva · sale e pepe.

Ingredienti per 4 persone: 4 fette di buon pane · brie g 200 · chutney a piacere ·

Sbucciate le pere, tagliatele a metà, eliminate il torsolo e riducete la polpa a pezzettini, mettendoli in acqua acidulata con limone. Tostate nel tostapane le fette di pane e insaporitele sfregandole con l’aglio, se volete, e pepandole. Coprite le fette di pane, ancora molto calde, con la polpa delle pere e il formaggio tagliato a fettine e completate con un filo di olio. Spolverizzate con poco sale. Passate il tutto in forno a 100° per pochi minuti e servite.

Tagliate il brie a fettine sottili. Abbrustolite il pane, strofinatelo con l’aglio e profumatelo con il pepe. Tostate nel tostapane le fette di pane e insaporitele sfregandole con l’aglio, se volete, e pepandole. Coprite le fette di pane, ancora molto calde, con il formaggio tagliato a fettine, completate con un filo di olio e aggiungete il chutney in piccole dosi. Spolverizzate con poco sale. Passate il tutto in forno a 100° per pochi minuti e servite.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 29 luglio 2019 • N. 31

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Ambiente e Benessere

Mente e corpo coordinati nella terza età

Medicina Il Politecnico di Zurigo apre la nuova strada dell’allenamento cognitivo-motorio: nasce l’exergame Davide Bogiani Una terza età da vivere a 360 gradi. Viaggi, cultura, interessi che spaziano dal giardinaggio al modellismo, dalla pesca al gioco delle carte e tanto altro ancora. Godersi la pensione al giorno d’oggi significa tutto questo. Ma non solo. Sempre più l’anziano desidera mantenersi in forma, allenando sia il corpo che la mente. Per capirne di più sull’allenamento cognitivo-motorio abbiamo incontrato Damiano Zemp, Specialista di Scienze Motorie per il Servizio di Geriatria dell’Ente Ospedaliero Cantonale e Dottorando presso il Politecnico Federale di Zurigo. Signor Zemp, che cosa si intende con il termine «allenamento cognitivo-motorio»?

Con questo termine si intende un insieme di attività che stimolano sia il fisico che la cognizione. Questo è possibile allenando separatamente i due aspetti – ad esempio facendo una passeggiata o andando al centro fitness la mattina e andando il pomeriggio a seguire una conferenza o a giocare a carte – oppure allenandoli contemporaneamente. In quest’ultimo caso si contraddistinguono due modalità, quella addizionale, dove i due aspetti non sono collegati (camminare e scrivere un SMS, pedalare su un cicloergometro e fare le parole incrociate) e quella interattiva, dove ad uno stimolo cognitivo viene richiesta una risposta motoria (ballare seguendo la musica, giocare a tennis). In questo ambito gli exergames stanno prendendo piede sempre più. L’exergame, che deriva da exercise = allenamento e videogame = videogioco, richiede una

risposta motoria con l’attivazione di grandi gruppi muscolari (arti superiori o inferiori o tronco) a uno stimolo cognitivo dato da uno schermo collegato a un computer.

non sostituisce l’allenamento motorio (la ginnastica di gruppo, la nuotata in piscina, la passeggiata quotidiana) o l’intervento terapeutico di uno specialista. L’utilizzo di exergame è complementare all’allenamento classico. Anche se col tempo si cerca di integrare esercizi di forza e cardiocircolatori negli exergames, difficilmente un singolo strumento potrà sostituire i macchinari specifici per questo tipo di allenamento e men che meno di una seduta terapeutica con una figura specialistica. Anzi, sono proprio questi ultimi che tramite la valutazione dello stato di salute del paziente possono scegliere le attività cognitive-motorie più adatte al loro cliente.

Perché è utile l’allenamento cognitivo e a chi si indirizza?

Il nostro gruppo di studio al Politecnico Federale di Zurigo si concentra sull’allenamento cognitivo-motorio interattivo per le persone anziane. Dagli anni 80, cioè da quando ci si è resi conto del continuo aumento del numero delle persone anziane e quindi all’aumento di problemi di salute legate all’invecchiamento, in ambito sanitario si è cominciato a sviluppare concetti di prevenzione della salute, in particolare per la prevenzione dalle cadute. Se inizialmente questi programmi si concentravano perlopiù sugli aspetti fisici (rafforzamento muscolare, esercizi di equilibrio e di coordinazione), in seguito ci si è resi conto che per il controllo motorio, gli aspetti cognitivi non sono da sottovalutare e si è incominciata a studiare l’associazione tra capacità cognitive e controllo motorio. Ci si è accorti per esempio che le persone che smettono di camminare per rispondere ad una domanda cadono più spesso, e che alcune persone fanno fatica a camminare in modo regolare in situazione di forte stimolazione sensoriale (per esempio su un marciapiede trafficato), pur non avendo problemi di equilibrio o di indebolimento muscolare. L’allenamento cognitivo-motorio ha dimostrato di essere molto efficace in ambito di prevenzione e di terapia e si rivolge quindi indiscriminatamente alla persona anziana in forma che intende far qualcosa per la sua salute,

Qual è il fondamento scientifico?

Videogiochi per fare esercizio fisico. (Dividat)

alla persona fragile che vuole cercare di migliorare il suo stato di benessere e alla persona che in seguito a un infortunio o ad una malattia deve seguire un percorso terapeutico per ritornare alla situazione antecedente l’evento avverso. L’allenamento cognitivo-motorio interattivo tramite exergames permette di allenare capacità che non vengono stimolate tramite esercizi di rafforzamento, di equilibrio e di coordinazione, e che anche un terapista con esperienza fatica a stimolare senza lo strumento adatto. Questo tipo di allenamento permette di migliorare l’attenzione divisa

(parlare e camminare contemporaneamente), l’attenzione selettiva (ignorare stimoli che non sono rilevanti per l’azione che sto facendo, quindi si impara a non lasciarsi distrarre), l’attenzione continua (riuscire a concentrarsi per lungo tempo), la pianificazione dei movimenti e delle azioni (pianificare come superare un ostacolo o eseguire dei movimenti di transizione come girarsi su se stessi). In che cosa si differenzia l’allenamento cognitivo – motorio dall’allenamento cosiddetto classico?

Mi preme puntualizzare che l’allenamento cognitivo-motorio interattivo

È la concomitanza dell’osservazione e della descrizione di tre diversi fenomeni che ha portato allo sviluppo dell’allenamento cognitivo-motorio. Una di queste è l’analisi della dinamica delle cadute nelle persone anziane, la quale ha mostrato che in un gran numero di casi, la caduta non era spiegabile con l’indebolimento muscolare, disturbi di equilibrio, dolori o cause ambientali (p.es. pavimento bagnato). In secondo luogo, si è scoperto che anche un semplice compito motorio come il cammino non sia automatizzato, ma che richiede delle risorse cognitive. Come ultimo si è notato che il ballo è particolarmente efficace per la prevenzione delle cadute, anche se non allena specificamente la forza muscolare. Mettendo insieme queste tre osservazioni, si è capito che per ridurre il rischio di caduta sia necessario allenare il sistema cognitivo-motorio come sistema unico e non come due entità separate.

Giochi

Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku

Cruciverba «Non credere mai a…» Termina la frase dello psichiatra e filosofo Carl Gustav Jung, risolvendo il cruciverba e leggendo le lettere evidenziate. (Frase: 5, 6, 3, 2, 8)

ORIZZONTALI 1. Elimina le distanze 3. La stella degli inglesi 7. Andato... per Cicerone 9. Avverbio di luogo 10. Carino in Inghilterra 12. Si alternano nello stile 13. Può causare dipendenza 15. Esprime stupore 16. Pianta d’appartamento 22. La mitica giovenca 24. Nome maschile 25. Mutano ceto in centro 26. Le iniziali del giornalista Mentana 28. Le iniziali dell’attrice Autieri 30. Giocano… senza ali 32. Forma di energia trasmissibile 35. Scritta sulla croce di Gesù 37. Accorto, avveduto 38. Direzione Investigativa Antimafia VERTICALI 1. La cantante Turner 2. Guadagni, profitti 4. Due lettere di Torquato 5. O, ovvero, latino 6. Sporge rispetto alla superficie 8. Il ragno ne ha otto 11. Due vocali 14. Le iniziali dell’attrice Chiatti 17. 15 orizzontale al contrario 18. Frutti col mallo 19. La domenica su Rai uno... 20. Avevacorpod’uccelloevoltodidonna 21. Con te 23. Uno strato del nucleo terrestre 27. Prefisso di molti cognomi scozzesi 29. Altare pagano 31. Congiunzione inglese 33. Si ripete in un nome di donna 34. Congiunzione francese 36. Riposa senza posa

Sudoku

Partecipazione online: inserire la

luzione, corredata da nome, cognome, indirizzo, email del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui

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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch

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I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.

soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-

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Scoprire i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.

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LA MATEMATICA DELL’AMORE – Se io ho un panino e tu non hai niente… Resto della frase: … ENTRAMBI ABBIAMO MEZZO PANINO.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 29 luglio 2019 • N. 31

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Politica e Economia Trump infiamma l’Asia Il Pakistan di Imran Khan potrebbe aiutare i negoziati di pace sull’Afghanistan?

Diario da Pechino In questa terza puntata della serie dedicata alla Cina, Federico Rampini spiega che Pechino sta sorpassando gli Stati Uniti anche nel settore delle intelligenze artificiali

Nuova presidente, nuovo corso? Cosa può o deve aspettarsi la Svizzera da Ursula von der Leyen a capo della commissione UE? pagina 33

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pagina 30 I grandi giornali americani definiscono Trump un capo di Stato intollerante. (AFP)

Un antiamericano alla Casa Bianca

Il razzismo di Trump A metà luglio il presidente ha invitato quattro deputate di pelle non bianca a tornarsene a casa

Christian Rocca Solo qualche anno fa, con Barack Obama alla Casa Bianca, si diceva che il latente razzismo di una parte della società americana era stato finalmente spazzato via grazie alla straordinaria storia personale del primo presidente nero degli Stati Uniti. Col passare del tempo possiamo dire che è successo esattamente l’opposto: le guerre culturali americane non sono finite, ma al contrario si sono intensificate. Oggi, il suo successore Donald Trump, eletto anche in reazione agli anni obamiani, fa ampio ed esplicito richiamo a temi e parole d’ordine contro gli stranieri, contro i neri e contro i diversi, a cominciare dal fortunato slogan elettorale «America First», prima l’America, che rimanda a quello delle campagne filofasciste degli anni Trenta e che, cambiando il Paese da favorire prima di ogni altro, adesso viene usato dagli estremisti di destra di tutto il mondo. A metà luglio, Trump ha invitato quattro deputate di pelle non bianca, molto critiche dell’operato della Casa Bianca, a «tornarsene a casa», cioè nei paesi di origine, nonostante tre su quattro delle congresswomen, Ale-

xandria Ocasio-Cortez di New York, Rashida Tlaib del Michigan e Ayanna Pressley del Massachusetts, non hanno alcun paese dove tornare, essendo nate e cresciute negli Stati Uniti, esattamente come Trump. La quarta deputata, Ilhan Omar del Minnesota, invece è emigrata negli Usa dalla Somalia, è diventata cittadina americana ed è titolare degli stessi identici diritti che può vantare Trump (o la madre di Trump o due delle tre mogli di Trump, nate in Europa ed emigrate a New York). La cosa che accomuna le quattro deputate prese di mira dal presidente è che sono di colore, oltre a non avere nomi non wasp (white, anglosaxon, protestant). In America si usa l’espressione dog-whistle politics, la politica del fischietto a ultrasuoni udibile solo dai cani, per descrivere i messaggi in codice storicamente lanciati da alcuni politici per richiamare i propri seguaci estremisti in modo da non essere accusati apertamente di razzismo. Trump è un maestro nell’usare queste tecniche, ma la grande differenza rispetto al passato è che ora non c’è più bisogno di nascondere la mano, anzi si può rivendicare il diritto al razzismo,

oltre che a raccontare bugie, si può liberamente alimentare il pregiudizio, abbassare l’asticella della decenza e lucrare sulla rabbia e sul risentimento dei sostenitori. I tre tweet di Trump contro la «squad» delle deputate, parlano da soli: «È interessante – ha scritto il presidente – vedere le deputate progressiste dei Democratici, provenienti originariamente da paesi i cui governi sono una completa e totale catastrofe, anzi i peggiori e i più corrotti del mondo, ammesso che siano dotati di uno Stato funzionante, spiegare in modo rumoroso e violento al popolo degli Stati Uniti, la nazione più grande e più potente della terra, come dovrebbe essere amministrato il nostro Paese. Perché non se ne tornano a casa ad aiutare i posti completamenti guasti e infestati dal crimine dai quali provengono?». Il «send them back» rivolto alle deputate americane è diventato uno slogan da urlare ai comizi, mentre Trump assiste beato al vociante orgoglio xenofobo dei suoi fanatici, esattamente come quando era lui stesso a sobillare il «lock her up», mettila in galera, berciato contro Hillary Clinton, ma stavolta con l’aggravante razzista.

Mentre i grandi giornali, l’ultimo il «Los Angeles Times», lo definiscono «l’intollerante in capo dell’America», Trump continua a non scomporsi e arriva a definire «grandi patrioti» i suoi tifosi che vorrebbero mandare non si sa dove le deputate americane, così come non si era fatto problemi a definire «brave persone» i neonazi che sfilarono a Charlottesville un anno e mezzo fa. Nonostante ciò, o forse proprio per questo, i sondaggi e le inchieste tra gli elettori del «New York Times» svelano che la popolarità di Trump cresce di giorno in giorno e così, in vista della campagna del prossimo anno, la macchina presidenziale amplifica le sue parole e investe denaro su Facebook proprio sui temi dell’immigrazione. Trump ha una lunga storia di comportamenti razzisti, alcuni dei quali sono stati denunciati pubblicamente dal suo ex avvocato Michael Cohen, a cominciare dalla sistematica esclusione degli afroamericani dalle case popolari gestite dal padre fino alla campagna per la pena di morte contro un gruppo di innocenti ragazzi neri secondo lui invece colpevoli di aver commesso uno stupro a Central Park.

Finora nessuno è riuscito a contenere Trump, né i Democratici né le inchieste federali, alcune ancora in corso, che avrebbero indebolito chiunque. Dei Repubblicani, scomparso il senatore John McCain, nemmeno a parlarne, anche se alcuni di loro, se non tutti quanti, farebbero bene a riascoltare l’ultimo discorso del presidente Ronald Reagan, pronunciato il 19 gennaio 1989, il giorno prima della fine del suo secondo mandato. Citando una lettera ricevuta qualche mese prima, Reagan disse «che si può andare a vivere in Francia, ma non si diventa francesi; si può andare a vivere in Germania, in Turchia o in Giappone, ma non si diventa tedeschi, turchi o giapponesi. Invece chiunque, da qualsiasi angolo della Terra, può venire a vivere in America e diventare americano: questa è una delle più importanti ragioni della grandezza dell’America. Il motivo per cui guidiamo il mondo – ha concluso Reagan – è perché, unici al mondo, prendiamo il nostro popolo, la nostra forza, da ogni paese e da ogni angolo della Terra». Da ricordare al primo presidente antiamericano degli Stati Uniti.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 29 luglio 2019 • N. 31

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Politica e Economia La regina Elisabetta affida il nuovo governo a Boris Johnson. (AFP)

Sull’Asia bombe diplomatiche Usa Usa-Pakistan La visita di Khan negli

Stati Uniti e le dichiarazioni del presidente americano su Afghanistan e Kashmir infiammano il subcontinente indiano

Cambio della Guardia Boris Johnson Il successore di Theresa May conferma l’obiettivo

di completare la Brexit per il 31 ottobre nel suo primo discorso da premier Tory di fronte alla Camera dei Comuni. Anche senza deal

Cristina Marconi Nel dichiarare guerra ai «profeti di sventura» che non credono che il «malfermo gigante» britannico possa rialzarsi, uscire dall’Unione europea e tornare a suscitare l’ammirazione del mondo intero, il neo-premier Boris Johnson ha voluto segnare un cambio di passo netto con gli anni letargici di Theresa May. E lo ha fatto con un discorso tagliente ma tipicamente privo di dettagli – «realizzeremo la nostra ripetuta promessa di uscire senza se e senza ma il 31 ottobre con un accordo nuovo, un accordo migliore» e, ovviamente, «senza controlli alla frontiera con l’Irlanda» – e con un rimpasto di governo che la stampa britannica, elettrizzata da quest’atmosfera da Trono di Spade, ha definito un «bagno di sangue». Ed è vero che con una quindicina di ministri accompagnati alla porta o esortati ad andarsene e l’arrivo di una squadra formata da tutti i pezzi da novanta dell’euroscetticismo degli ultimi anni, nello scenario attuale c’è una tragica penuria di elementi rassicuranti e il rischio di un no deal per rispettare la scadenza di Halloween appare sempre meno remoto. Ma è anche vero, e non può essere ignorato, che la strada tracciata dalla May non poteva essere percorsa ad oltranza e che uno sblocco era necessario. La scelta di Johnson equivale a calare l’asso, un asso molto britannico e incomprensibile al mondo esterno: il Regno Unito odia i burocrati e ha un disperato bisogno di tornare a credere nella propria eccezionalità e non è escluso che Johnson, che incarna in pieno questo spirito, possa riuscire a portare a casa il risultato che alla grigia May non è riuscito, in termini neppure troppo lontani. Il governo Johnson è vagamente distopico. Manca solo Nigel Farage (se fosse stato eletto probabilmente avrebbe coinvolto anche lui, chissà) dal novero degli eurofobi chiamati a formare l’esecutivo del biondissimo premier, ma questa scelta potrebbe essere letta come una maniera per neutralizzare il rischio di dover affrontare le loro critiche durante gli inevitabili compromessi che andranno fatti con Bruxelles nei prossimi mesi. Più che un incantatore di serpenti, Boris sta scommettendo di riuscire a essere un incantatore di vipere in quello che ha definito il governo più multietnico della storia del Paese. Ha nominato Sajid Javid, ex ministro dell’Interno ed ex banchiere di origine pakistana, suo cancelliere dello Scacchiere, il ruolo più importante nel nuovo esecutivo. Un remainer, come pure il chief whip Mark Spencer, poco noto ma universalmente amato.

Per il resto, Boris ha chiamato con sé Dominic Cummings, la mente della campagna del Leave, interpretato da Dominic Cumberbatch in un fortunato film che ripercorreva la strada verso la vittoria al referendum, come consigliere speciale: Cummings è una mente sottile e imprevedibile, odiato dagli euroscettici della vecchia guardia che non ha perso occasione di sbertucciare, e la sua nomina fa pensare che Boris non escluda di dover far fronte a elezioni o a un secondo referendum nel prossimo futuro. A lui si deve il riuscito slogan «Take back control», «riprendersi il controllo», con cui il fronte pro-Brexit è riuscito a convincere il 52% dell’elettorato nel 2016. Agli Esteri Johnson ha nominato Dominic Raab, un altro euroscettico convinto, ex ministro per la Brexit e anch’egli aspirante premier, mentre agli Interni ha messo Priti Patel, quarantasettenne thatcheriana di origine indiana, visceralmente avversa a Bruxelles. Andrea Leadsom è diventata ministro per le Imprese e l’incredibile Jacob Rees-Mogg, deputato eurofobo dall’aspetto vittoriano, ha preso il suo posto come Leader della Camera. E anche a Michael Gove, arcirivale, è stato dato un ruolo di coordinamento importante nel governo. Ma sono molti coloro che non hanno aspettato che fosse Boris Johnson a mandarli via e si sono dimessi come forma di protesta verso il possibilismo che il nuovo inquilino di Downing Street ha dimostrato nei confronti del no deal: Philip Hammond, cancelliere dello Scacchiere della May, ha sottolineato in una lettera di aver lasciato al nuovo governo «una vera scelta, una volta raggiunto l’accordo sulla Brexit»: tagliare le tasse, aumentare la spesa, ridurre il debito o aumentare gli investimenti, tutte cose impensabili negli anni dell’austerità e impraticabili qualora si dovessero affrontare le conseguenze di un’uscita dalla Ue con le regole del Wto. Il suo successore Javid dovrebbe puntare su politiche espansive per cercare di attutire lo shock della Brexit. Di qualunque Brexit si tratti. L’era Johnson ha qualcosa di inevitabile. Sono ormai decenni che la sua zazzera bionda incombe sul dibattito politico britannico: da giornalista, da deputato o da sindaco di Londra, Boris Alexander De Pfeffel Johnson, nato bene, anzi benissimo a New York nel 1964, ha sempre usato lo strumento dell’esagerazione per farsi notare, odiare e poi eventualmente perdonare grazie a quella gigioneria che ha fatto cadere tra le sue braccia molte donne e ora, volente o nolente, un intero Paese. Di alto lignaggio, con sangue turco e russo nelle vene, Boris è figlio di Eton

e di Oxford, di quel Bullingdon Club in cui lui, David Cameron e George Osborne distruggevano ristoranti, o almeno così narra la leggenda, con i loro smoking e i loro accenti aristocratici, indelebili anche nel latino parlato correntemente e nella cultura letteraria e soprattutto storica sfoggiata con disinvoltura. Come nella biografia che Johnson ha scritto di Winston Churchill nel 2015 con l’obiettivo, diciamo inconscio, di lasciare che fosse il lettore a trovare somiglianze tra lui e il grande statista, usando lo stesso stile arguto che si ritrova nei discorsi e che negli anni gli ha permesso di distogliere l’attenzione dai contenuti e di guadagnare cifre esorbitanti grazie alla sua penna. Perché è sui giornali che il fenomeno Boris è iniziato ed è un po’ anche grazie a lui se Bruxelles, nel cuore degli inglesi, è diventato quel mostro tentacolare e irragionevole da cui scappare urlando: quando era corrispondente per il «Telegraph», i suoi articoli strabilianti ci misero poco a oscurare quelli tecnici e accurati delle altre testate, lanciando una moda in cui i tabloids si sono buttati a piene mani. Eppure il suo ingombrante padre, politico, scrittore e ambientalista, autore di un’autobiografia intitolata semplicemente Stanley, presumo, era stato funzionario europeo e i fratelli, da Rachel, bravissima ex direttrice dello storico magazine «The Lady», a Jo, biondo come il nuovo premier ma secchione e snello, hanno opinioni ben più sfumate sull’Europa. Ma Boris, che anche gli amici accusano di opportunismo, ha deciso anni fa di sostenere l’opzione più nazionalpopolare, ed è un peccato, perché con la sua retorica ficcante e la sua capacità di produrre slogan a profusione sarebbe probabilmente riuscito da solo a spostare l’ago della bilancia a favore del Remain. Intanto ha raggiunto il sogno di una vita di arrivare a Downing Street e sarà anche il primo ad arrivarci da «fidanzato»: con lui si trasferirà, discretamente, anche la compagna trentunenne Carrie Symonds, così simile nel volto alla prima moglie Allegra e così diversa dall’attuale moglie non ancora divorziata, Marina, avvocato di grido e sorella di una portavoce della Commissione europea. La giovane comunicatrice ha fatto un buon lavoro con lui, pettinandolo e costringendolo a indossare completi meno brutti, ma resta valida la sua frase «Non hai cura di niente perché sei viziato», gli aveva detto, registrata dai solerti vicini di casa durante una lite. Lo pensano e lo sanno un po’ tutti da anni, ma chissà che questa sua fortuna sfacciata, da Gastone nella vita e nella politica, non sia proprio la ragione per cui il Paese lo vuole.

«In Afghanistan noi non stiamo combattendo una guerra, siamo diventati dei poliziotti. Se volessi davvero combattere una guerra in Afghanistan potrei vincere in una settimana. Ho un piano per l’Afghanistan che, se volessi vincere la guerra, cancellerebbe il Paese dalla faccia della terra. Sarebbe spazzato via letteralmente in dieci giorni, ma ucciderei dieci milioni di persone e io non voglio seguire questa strada». E ancora: «Il Pakistan può aiutarci a uscire da questo ginepraio». Così un Donald Trump in forma particolarmente buona (se si fosse trattato di un programma satirico) rispondeva a una domanda sul conflitto afghano. Al suo fianco Imran Khan (foto), il discusso premier pakistano che, bene istruito dall’esercito, ha abilmente lusingato il gigantesco ego del presidente americano facendogli probabilmente dire molto più di quello che avrebbe potuto o dovuto. La minaccia, nemmeno tanto velata, di usare una bomba atomica sull’Afghanistan ha fatto saltare dalla sedia il presidente Ghani e tutto il governo di Kabul: che il giorno dopo hanno chiesto spiegazioni ufficiali alla Casa Bianca. E non sono stati i soli. Perché subito dopo aver ventilato la distruzione di Kabul e dintorni, l’ineffabile Trump ha sganciato un’altra bomba diplomatica. Sollecitato da una domanda di un giornalista pakistano, e da Imran Khan che lo ha definito «l’uomo più potente del mondo», il solo in grado di risolvere un conflitto che gli garantirebbe «preghiere e benedizioni» di milioni di persone, il presidente americano è passato a esternare sulla cosiddetta «questione del Kashmir». Testualmente: «Kashmir è una parola bellissima. Dicono che sia un posto bellissimo ma adesso ci sono bombe dappertutto. È una problema che si trascina da moltissimi anni, ditemi se serve aiuto per risolverlo. Due settimane fa ero con il primo ministro Modi, e lui mi ha chiesto appunto di mediare sul problema del Kashmir». In India, ed era tarda sera, si è scatenato l’inferno. Per New Delhi, difatti, non esiste una «questione del Kashmir»: la regione è parte integrante dell’India, non è «contesa» tra due paesi ma soltanto vittima di un terrorismo che proviene da oltre confine. Per questi motivi l’India ha sempre rifiutato e continua a rifiutare qualunque tipo di mediazione internazionale. Affermare che Modi abbia domandato a Trump di mediare sulla questione, significa far detonare in India una vera e propria bomba. Il Ministero degli affari esteri ha emesso immediatamente un comunicato che smentisce Trump ed è andato a reiterare il con-

cetto in Parlamento, ma Modi si trova adesso nella difficile posizione di dover dare di persona del bugiardo al presidente degli Stati Uniti, considerato fino a cinque minuti prima un alleato. La chiave di tutto questo disastro diplomatico, realizzato rovesciando ancora una volta dichiarazioni e istruzioni dello staff presidenziale e della diplomazia, risiede proprio in questa idea: «Il Pakistan può aiutarci a uscire da questo ginepraio». Donald Trump deve portare a casa un risultato che gli spiani la strada per la rielezione: e l’Afghanistan sembra il meno improbabile. Si tratterebbe ovviamente non di una vittoria ma di una resa più o meno onorevole. A dettare le condizioni ai cosiddetti colloqui di pace tra Usa e talebani sono difatti questi ultimi, e non certo gli americani. E per ribadire il concetto i talebani, mentre si svolgono i colloqui, continuano a uccidere civili e militari. I talebani, e ormai lo sanno anche bambini e animali domestici, sono controllati dal Pakistan: che li vuole vedere reinsediati a Kabul a capo o parte di un governo che possa essere agevolmente manovrato dai militari pakistani e che, soprattutto, escluda completamente l’India dalla regione. A organizzare la visita di Imran Khan in America sono stati, si dice, il principe saudita Mohammad bin Salman e Jared Kushner, il genero di Trump. Imran Khan, manovrato abilmente dal generale Bajwa che lo ha accompagnato a Washington assieme ad altri membri dell’esercito, sa di avere il coltello dalla parte del manico nella questione afghana e lo usa. Per ridare lustro all’immagine di un Paese ormai diplomaticamente isolato da un paio d’anni, anzitutto. Poi, nonostante Imran Khan abbia dichiarato che desidera: «una relazione paritaria e di amicizia» con gli Stati Uniti perché: «odio mendicare», il Pakistan ha disperatamente bisogno di fondi. L’economia è allo sfascio, e Imran è in realtà andato nell’ultimo anno a chiedere prestiti alla Cina, all’Arabia Saudita e agli Emirati arabi. Ottenere di nuovo i fondi americani, tagliati da Trump due anni fa, sarebbe una boccata d’ossigeno. Alla giornata non è mancata anche la comica finale: Imran Khan, in un’intervista televisiva, ha difatti dichiarato che è stata l’Isi a rivelare alla Cia la residenza di Osama bin Laden. Cercando di negoziare il rilascio di Shakil Afridi, in carcere con l’accusa di aver fornito alla Cia le informazioni di cui sopra, in cambio di Aafia Siddiqi, arrestata dagli americani per terrorismo. Tanto per non smentire la propensione di Islamabad ad allevare e nutrire terroristi e jihadi da usare poi come arma di ricatto verso il resto del mondo.

AFP

Francesca Marino


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Politica e Economia

Una guerra più che una sfida

Diario da Pechino La supremazia strategica dell’intelligenza artificiale è il vero terreno di scontro fra Stati Uniti

e Cina, inteso da quest’ultima per dominare il mondo, non per inondarlo con i suoi prodotti – Terza parte

Nell’era dell A.I. i dati sono il nuovo petrolio e la Cina la nuova Opec. (Keystone)

Federico Rampini Ripartono i negoziati commerciali UsaCina dopo mesi di stallo, arretramenti, chiusure e minacce reciproche. Una cosa ormai è chiara: la vera posta in gioco non sono gli squilibri import-export, macroscopici ma tutto sommato aggiustabili. La «nuova guerra fredda» è ormai cominciata, e dovrà decretare un vincitore nella gara per la supremazia tecnologica. È una guerra dove le tecnologie per usi civili e militari si mescolano e si confondono, i confini tra il business e la difesa (o lo spionaggio) sono sempre più ambigui. È una guerra che imporrà sempre più spesso dolorose (e costose) scelte di campo agli europei, messi di fronte a degli ultimatum: poco spazio per le ambiguità o le «terze vie», bisognerà schierarsi o con Washington o con Pechino. La grande differenza rispetto alla prima guerra fredda infatti è questa: l’Urss fu una superpotenza bellica ed anche ideologica (quando il Vangelo comunista era all’apice della sua diffusione mondiale) ma rimase sempre un nano economico, poco integrata e poco influente negli scambi internazionali. La Cina ha un’economia equivalente a quella americana, ed è penetrata profondamente nei tessuti industriali e finanziari di tutti i paesi occidentali, oltre che in Asia, Africa, America latina. Questo configura uno scenario senza precedenti. Una delegazione dell’Amministrazione Trump è a Shanghai dal 30 luglio per un nuovo «round» di trattative. La guidano il ministro del Tesoro Steven Mnuchin e l’alto rappresentante per i negoziati commerciali, Robert Lighthizer. Sul versante cinese a guidare la delegazione governativa c’è un altro peso massimo, il vicepremier Liu He. Il dato più significativo è l’elenco dei temi che sono sul tavolo, così come viene presentato dalla Casa Bianca. Al primo posto c’è «intellectual property» cioè tutto ciò che riguarda la protezione del know how, segreti industriali, su cui l’America accusa la Cina di furti sistematici. Al secondo posto c’è il tema del «technology transfer»: questo include le contestate normative cinesi che obbligano molte multinazionali occidentali a

prendersi un partner locale rivelandogli ogni segreto tecnologico; ma anche la vendita di prodotti tecnologici (semiconduttori, micro-chip e memorie elettroniche) dall’America alla Cina che sono finite sotto embargo. La questione classica degli squilibri commerciali si affaccia solo al terzo posto nell’elenco dei temi.

Nel settore dell’intelligenza artificiale i cinesi stanno superando l’Occidente. Non solo a furia di copiare e nonostante la natura autoritaria del regime A dieci anni dal mio ritorno negli Stati Uniti, i rapporti di forze tra le due superpotenze sono cambiati enormemente rispetto al periodo 2004-2009 in cui vissi a Pechino. A quell’epoca era evidente chi fosse il numero uno e il numero due, chi era il maestro e chi l’allievo. Pur essendo tornato regolarmente in Cina, circa una volta ogni anno, non ho avvertito la velocità dell’aggancio o del sorpasso in settori-chiave come le tecnologie avanzate. Ma non sono l’unico. L’America intera, ed in particolare la Silicon Valley, si era distratta al volante e non ha visto il bolide che si avvicinava nello specchietto retrovisore. Ora tenta di correre ai ripari, ma potrebbe essere troppo tardi. Dai responsabili politici di Washington ai top manager dei giganti digitali della West Coast, tutti hanno peccato di «complacency»: un misto di auto-compiacimento e presunzione, convinzione della propria superiorità. Uno dei primi a lanciare l’allarme è stato, non a caso, un Chinese-American (cittadino Usa di origini etniche cinesi) che ha una vita divisa tra le due sponde dell’Oceano Pacifico. Kai-Fu Lee è originario di Taiwan – come tale non è sospetto di simpatie politiche verso il regime comunista di Pechino – ed è cresciuto negli Stati Uniti dove

ha fatto i suoi studi. Poi la sua carriera manageriale lo ha portato in Cina come capo della filiale locale di Google. Infine si è messo in proprio, fa venture capital, ha una sede a Pechino e finanzia delle start-up cinesi nel settore dell’intelligenza artificiale. A questo settore ha dedicato un libro: A.I. Superpowers: China, Silicon Valley and the New World Order. È un autorevole invito all’America a svegliarsi dal suo torpore. Kai-Fu Lee usa spesso il paragone con «lo shock di Sputnik»: cioè lo sgomento che colpì gli americani nel 1957 quando l’Unione sovietica li precedette nel primo passo verso la conquista dello spazio, mettendo in orbita il satellite Sputnik. Anche in quel caso la concorrenza tecnologica tra le superpotenze aveva evidenti ricadute militari. Lo shock-Sputnik fu una scossa salutare, John Kennedy vincendo l’elezione presidenziale nel 1960 lanciò la corsa alla luna e tanti altri programmi di ricerca scientifica con finanziamenti pubblici. Anche sul terreno militare l’America non si lasciò mai veramente sorpassare. Uno shock-Sputnik secondo KaiFu Lee lo ha subìto anzitutto la Cina: quando un’intelligenza artificiale made in Usa, il DeepMind AlphaGo di Google, fu capace di sconfiggere il campione mondiale del più antico «gioco strategico» cinese, quel Go che gli esperti considerano molto più complesso dei nostri scacchi. Quell’evento, che passò quasi inosservato in Occidente, sembra aver convinto la dirigenza cinese dell’importanza strategica dell’intelligenza artificiale. Oggi è l’America che deve subire un altro shock-Sputnik. Kai-Fu Lee avverte che nella tecnologia del futuro i cinesi stanno superando l’Occidente. E non solo a furia di copiare. Certamente il saccheggio sistematico di proprietà intellettuale ha consentito all’inizio di recuperare il ritardo, ma Kai-Fu Lee sottolinea l’importanza di altri fenomeni. La pirateria ha danneggiato anche tante imprese cinesi, vittime di una concorrenza locale spregiudicata. Questo ha generato un ambiente ultra-competitivo, stimolando una cultura imprenditoriale altrettanto diffusa di quella americana

e perfino più combattiva. Alla fine, se molti giganti digitali americani hanno dovuto ritirarsi dal mercato cinese lo si deve a un mix di fattori: dal protezionismo puro e semplice, fino alla sottovalutazione dei talenti locali. Nel caso di social media come Facebook c’è stata una censura; ma per Amazon si può dire che la sconfitta è venuta da concorrenti locali più bravi nel capire i bisogni dei consumatori cinesi. Altri tre fattori pesano nella gara per la supremazia sull’A.I. Vediamoli. Primo. È di moda la massima secondo cui «nell’èra dell’A.I. i dati sono il nuovo petrolio e la Cina è la nuova Opec». Questo si collega al Deep Learning: le macchine capaci di apprendere da sole sono la nuova generazione di intelligenza artificiale, quella che soppianta noi umani in molti campi di attività. Deep Learning – «apprendimento profondo» – per eccellere ha bisogno di digerire una massa sterminata di dati: Big Data. Un paese con 1,4 miliardi di abitanti ha un bacino di raccolta dati evidentemente superiore. Secondo. La natura autoritaria del regime può essere un vantaggio in quanto ignora restrizioni alla raccolta dati. Noi occidentali tentiamo – con successi alterni – di proteggere la nostra privacy. I cinesi sono abituati e rassegnati ad essere spiati dal loro governo. In molti casi il Grande Fratello cinese calpesta impunemente i diritti umani: vedi la mappatura biometrica e genetica di milioni di uiguri, i musulmani dello Xinjiang. Ma tutto ciò contribuisce ad alimentare l’A.I. in settori chiave come il riconoscimento facciale, il riconoscimento della voce, ecc. Terzo. Il sistema politico cinese è un misto di capitalismo e comunismo, con una forte impronta dirigista. Ai tempi di Kennedy anche l’America era dirigista e infatti i finanziamenti pubblici alla scienza e alla ricerca furono decisivi per la conquista dello spazio. L’America di oggi è molto diversa, è passata attraverso la rivoluzione neoliberista di Ronald Reagan, poi abbracciata anche da leader democratici come Bill Clinton e in parte Barack Obama. Le Amministrazioni Usa si sono convinte che la Silicon Valley è autosuffi-

ciente e garantisce da sola la leadership americana nelle tecnologie avanzate. Il laissez-faire americano contrasta con il robusto intervento del governo cinese. Il presidente Xi Jinping teorizza che lo Stato deve sostenere i «campioni nazionali» del digitale: i tre Bat (come «pipistrelli» in inglese), acronimo di Baidu Alibaba Tencent; più alcune eccellenze di nicchia come iFlyTek specializzata nella «voice intelligence». Pechino ormai rappresenta il 60% di tutti gli investimenti mondiali nell’A.I. Una sola municipalità cinese, per esempio la città di Tianjin, stanzia più sussidi pubblici alle aziende dell’intelligenza artificiale, di quanto faccia l’Amministrazione federale di Washington per tutti gli Stati Uniti. La città di Pechino ha stanziato 2 miliardi di dollari per un parco tecnologico riservato alle startup dell’A.I. Forte di questo massiccio aiuto statale la Cina ha già sorpassato Stati Uniti, Unione europea e Giappone, per il numero di ricerche scientifiche e brevetti nell’A.I. Tutto questo ci riporta alla posta in gioco nelle trattative tra i due governi. Un colpo di scena avvenuto nella scorsa primavera va analizzato: fu quando Xi Jinping si rimangiò all’improvviso la promessa di riformare le leggi cinesi sulla proprietà intellettuale. Quel voltafaccia spiazzò Trump che credeva di avere già la vittoria in tasca. Fu in seguito a quel ripensamento cinese che Trump lanciò la minaccia di nuovi dazi, che finirebbero col colpire la quasi totalità dei prodotti made in China. In un certo senso Xi ha gettato la maschera: ha finito per confermare i timori americani, sul fatto che per la Cina quel che conta non è inondare il mondo di prodotti, bensì dominarlo attraverso la supremazia tecnologica. Trump ha reagito mettendo sotto embargo Huawei, il colosso delle telecom cinesi che è all’avanguardia nella quinta generazione di telefonìa mobile, la porta d’accesso all’ «Internet delle cose». Xi Jinping a sua volta minaccia di privare l’industria americana delle «terre rare», indispensabili per molti prodotti tecnologici. Sono le prime mosse della nuova guerra fredda, il peggio forse deve ancora arrivare.


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PUNTI


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Politica e Economia

L’incognita von der Leyen

Rapporti CH-UE Come si muoverà la neo presidente della Commissione europea nei confronti della Svizzera?

Per le prime risposte bisognerà attendere la sua entrata in carica, il 1. novembre 2019 Marzio Rigonalli Negli ultimi tre mesi ci sono stati due importanti eventi che caratterizzeranno il divenire dell’Unione europea nei prossimi cinque anni: l’elezione dell’europarlamento nella seconda metà di maggio ed il cambio della guardia della Commissione europea il 16 luglio, con la nomina della tedesca Ursula von der Leyen alla presidenza, al posto di Jean-Claude Juncker. L’europarlamento è già attivo nella sua nuova composizione; Ursula von der Leyen ed i nuovi commissari entreranno in funzione il prossimo 1. novembre. Non essendo uno Stato membro dell’Unione europea, la Svizzera non ha avuto un ruolo attivo nei due eventi. Si ritrova, però, confrontata con possibili ripercussioni sulla sua posizione in Europa e sul negoziato che cerca di portare a buon fine con le autorità europee. L’attività del nuovo europarlamento avrà probabilmente conseguenze soltanto marginali per la Confederazione. Poche sono le sue decisioni che riguardano direttamente la Svizzera e, per di più, la sua composizione non rende facile l’adozione di provvedimenti. Negli ultimi cinque anni c’è stata una maggioranza formata dall’alleanza tra popolari e socialdemocratici; adesso, per formare la maggioranza, ci vuole almeno l’aggiunta di una terza forza politica, ossia i liberali di «Renew Europe» o i verdi. Più le forze politiche sono numerose e più è difficile raggiungere un’intesa, soprattutto quando i partiti sono molto divisi e quando importanti divisioni si osservano anche all’interno delle singole forze. Ursula von der Leyen non avrà un compito facile con questo parlamento, tenuto conto anche del fatto che soltanto 383 deputati l’hanno eletta, 9 più della maggioranza richiesta. Ben diverse, ovviamente, saranno le conseguenze che deriveranno dalla nuova presidenza della Commissione europea, ossia dall’organo comunitario che è chiamato a gestire concretamente i rapporti con la Svizzera. Ci saranno

novità, oppure si procederà nel solco tracciato da Jean-Claude Juncker? Sorgerà una maggiore comprensione nei confronti degli interessi, delle particolarità e dei desideri elvetici, oppure si continuerà a voler portare la Svizzera sempre più vicina a norme e situazioni valide per tutti gli Stati membri? Non è ancora possibile rispondere a queste domande. Avremo delle indicazioni sicure soltanto quando la Commissione sarà entrata in funzione ed avrà cominciato a svolgere il suo lavoro. Quello che possiamo tentare di fare sin d’ora è d’individuare possibili tendenze, guardando alla personalità ed al passato politico della nuova presidente. Ursula von der Leyen è tedesca e proviene dalla Bassa Sassonia, il Land con il capoluogo Hannover, situato nella parte nord-occidentale del paese, sul mare del Nord. Ha 60 anni ed è madre di 7 figli. Nacque a Bruxelles e visse nella capitale europea fino a 13 anni. Suo padre era un funzionario europeo, che più tardi si lanciò nella carriera politica e divenne presidente della Bassa Sassonia. Nella prima parte della sua vita è stata quindi a contatto con gli ambienti e le idee che ruotavano intorno alla costruzione europea e ne ricavò il desiderio e la convinzione di sostenere il progetto europeo. All’inizio della sua carriera politica rilasciò alcune dichiarazioni molto forti sull’Europa. Nel 2011, per esempio, si pronunciò a favore degli «Stati Uniti d’Europa», secondo il modello degli Stati federali come la Svizzera, la Germania e gli USA. La nuova responsabilità assunta dieci giorni or sono l’ha però indotta a mettere un po’ d’acqua nel suo vino. In un’intervista rilasciata ad alcuni grandi quotidiani europei ha dichiarato che il suo sogno è diventato più realista. Non ha più invocato il federalismo europeo ed ha sostenuto che l’Unione europea deve privilegiare l’unità nella diversità. Von der Leyen ha alle spalle una lunga carriera politica. È stata successivamente alla guida dei ministeri della famiglia, del lavoro e della difesa. È stata la prima donna tedesca a dirigere il ministero

Ursula von der Leyen, figlia di un funzionario europeo e prima donna a capo del ministero della difesa tedesco. (Keystone)

della difesa e adesso è la prima donna ad assumere la presidenza della Commissione europea. Molto vicina ad Angela Merkel, ha avuto una parabola politica che la portò addirittura vicino alla cancelleria federale, ma che negli ultimi anni perse parte del suo splendore e la espose più volte alle critiche dell’alleato di governo socialdemocratico. I due precedenti presidenti della Commissione europea, il portoghese José Manuel Barroso ed il lussemburghese Jean-Claude Juncker, iniziarono il loro mandato affermando che erano molto amici della Svizzera. I due provenivano da due piccoli paesi e Barroso aveva studiato all’università di Ginevra. Quale sarà l’atteggiamento di Ursula von der Leyen? Fin ora è nota un’unica sua dichiarazione sulla Svizzera. Quando era ministro della difesa si espresse positivamente sulla collaborazione della Confederazione nell’ambito del partenariato per la pace della NATO. Le sue origini tedesche, la sua provenienza da uno Stato federale, dovrebbero garantirle una buona conoscenza delle particolarità elvetiche e, di riflesso, una certa comprensione. Bisogna però tener con-

to del fatto che la sensibilità per le tematiche svizzere di un tedesco che vive nel nord del paese è molto inferiore a quella di un tedesco che risiede nella parte meridionale. Per di più, la dichiarata volontà della nuova presidente di favorire una maggiore integrazione dell’Europa, mal si concilia con la scelta di un paese di non aderire all’Unione europea. Vi sono dunque argomenti che spingono in una direzione ed altri nella direzione opposta. Avremo un quadro più concreto soltanto quando Ursula von der Leyen avrà avviato il suo mandato. La sola notizia che ha suscitato molte reazioni positive a Berna sono state le dimissioni di Martin Selmayr, il segretario generale della Commissione europea. Anch’egli tedesco, si è trovato di fronte alla regola non scritta che impedisce di avere ai vertici della Commissione due persone della stessa nazionalità. Selmayr è stato il braccio destro di Juncker e sembra che abbia svolto un ruolo determinante in molti dossier, in particolare nell’atteggiamento da assumere nei confronti della Svizzera. Ha mostrato poca comprensione per la posizione elvetica e sarebbe

stato l’ideatore dell’uso dell’equivalenza borsistica come mezzo di pressione sulla Confederazione. Gli attuali rapporti tra la Svizzera e l’Unione europea sono tesi. Le due parti sono su posizioni lontane. Bruxelles non accetta di rinegoziare il progetto di accordo istituzionale e ritiene che, dopo tanti anni di discussione, la Svizzera cerchi soltanto ed ancora di guadagnare tempo. Non farà nessuna concessione, che potrebbe venir rivendicata anche dalla Gran Bretagna dopo la Brexit, ed è pronta a mandare la via bilaterale su un binario morto. Berna è alla ricerca di un’intesa interna sui tre punti dell’accordo istituzionale che vorrebbe volentieri rinegoziare: la protezione dei salari, la direttiva comunitaria sulla cittadinanza e gli aiuti statali. Un’intesa tra le due parti prima dell’entrata in vigore della nuova Commissione appare impossibile. Tutto sembra essere rinviato a dopo il 1. novembre. Premesso, però, che la volontà di giungere ad un accordo torni in primo piano e che sia più forte della tentazione di lanciarsi in una spirale di misure e contromisure punitive.

Tassi di interesse: ribassi senza fine?

Politica monetaria L’abbondanza di denaro e la politica delle banche centrali provocano perfino interessi negativi.

Il denaro troppo facile potrebbe avere effetti pesanti sull’economia Ignazio Bonoli La tanto attesa – e da molti anche auspicata – svolta nell’evoluzione dei tassi di interesse tarda a manifestarsi. Anzi, invece di un aumento stiamo assistendo a ulteriori diminuzioni del costo del denaro e perfino a tassi di interesse negativi. L’abbondanza di denaro nell’economia e la politica delle banche centrali, che non hanno per nulla l’intenzione di restringerla, sta creando situazioni paradossali. Così si è perfino potuto assistere nei giorni scorsi a tassi di interesse sotto lo zero nella concessione di nuove ipoteche. Così la domanda – che era già

a livelli elevati – riceve nuovi impulsi e sta creando bolle immobiliari un po’ ovunque. Uno dei motivi principali di questa evoluzione va visto nel fatto che le alternative per investimenti sicuri sono poche e i rendimenti sono pure vicini a zero. Quindi anche ai grandi investitori istituzionali (in particolare le casse pensioni) si presentano scarse alternative per mettere a frutto i capitali di cui dispongono. Paradossalmente anche talune politiche delle autorità monetarie, come gli interessi negativi praticati dalla Banca Nazionale Svizzera per i depositi presso di lei, favoriscono questa evoluzione. Infatti, a chi dispone di molti

Anche la Banca centrale europea continua a perseguire una strategia dei tassi bassi. (Keystone)

capitali conviene concederli in prestito a debitori molto affidabili a interesse leggermente negativo, piuttosto che lasciarli in deposito presso la Banca Nazionale a un costo molto più elevato. Questa evoluzione si riflette ovviamente anche sul normale mercato ipotecario, che vede pure scendere rapidamente i tassi di interesse anche per impegni a media e lunga scadenza. Così i tassi per le varie scadenze si sono molto avvicinati e sono ormai o poco sotto o pochissimo sopra l’1%. Confrontando i prezzi di vari offerenti sul mercato si è potuto calcolare che per un credito ipotecario di un milione di franchi, della durata di 10 anni, un debitore può risparmiare fino a 52’000 franchi di interessi, rispetto alle condizioni applicate nove mesi fa. Allora la maggior parte degli esperti del settore prevedeva invece una tendenza all’aumento dei tassi di interesse. Oggi succede esattamente il contrario: non solo si constatano i livelli più bassi della storia, ma si prevede che questi livelli possano durare anche qualche tempo. Varie banche centrali prevedono, infatti, di ridurre nuovamente i loro tassi di riferimento. Anche la stessa Federal Reserve americana, in parte anche dietro le pressioni del presi-

dente Trump, ridurrà prossimamente i suoi tassi di interesse. La Banca Centrale Europea – che già persegue da tempo questa linea – potrebbe proseguirla o perfino intensificarla e altre banche nazionali dovranno seguire la tendenza. Con quali conseguenze, cominciano a chiedersi tanto i mercati, quanto i teorici dell’economia. Viene, infatti, messa in dubbio una base fisica dell’economia e cioè che il capitale ha un prezzo. Il rovesciamento di questo principio comincia a dare segni preoccupanti. Per esempio il settore crediti ipotecari di alcune banche annuncia di aver perso clienti che hanno trovato un prestito «gratis». La cosa avveniva già da qualche tempo per clienti molto solidi e per prestiti a breve scadenza. Ora però la pratica si sta generalizzando e le banche lo fanno anche per evitare il tasso dello 0,75% per i depositi presso la BNS. Uno studio recente della stessa BNS dice che oggi il 60% del denaro contante in Svizzera non viene utilizzato per i pagamenti. Si tratta di 45 miliardi di franchi che vengono tesorizzati, per evitare i costi dei conti bancari. Ma la situazione si ripercuote in modo drammatico sulle casse pensioni, che per garantirsi rendite sufficienti devono correre rischi maggiori sugli inve-

stimenti o aumentare l’immobiliare. Ma questo settore comincia a sentire il calo della domanda rispetto a un’offerta in crescita. Un riflesso importante va infine visto anche nel mercato obbligazionario. Il denaro abbondante induce molte imprese a indebitarsi. La quotazione di questi prestiti tende a scendere. Quelli di prima qualità sono limitati, mentre crescono quelli con la qualifica BBB. Una situazione che si riscontra anche a livello mondiale, con l’indebitamento netto delle imprese rispetto al loro «cash flow» che è ormai al più alto livello di tutti i tempi. Il mercato secondario è in allarme, perché anche imprese di prima qualità si sono indebitate e un crollo della borsa è possibile. Il giudizio diventa ancora più pessimistico se si considera che la facilità di indebitarsi induce molte imprese a lanciarsi sul mercato senza le necessarie premesse di riuscita. L’allargarsi di questo fenomeno potrebbe avere effetti pesanti sull’intera economia. Già ne risentono gli istituti di credito, che anche in assenza di inflazione non possono permettersi altre diminuzioni dei tassi di interesse, il che favorirebbe anche un ampliarsi degli effetti negativi della situazione eccezionale.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 29 luglio 2019 • N. 31

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Idee e acquisti per la settimana

Il meglio per la colazione Con il bel tempo la famiglia Brand di Waltalingen (ZH) sfrutta ogni occasione per fare colazione in giardino. «Siamo camperisti appassionati e ci piace molto stare all’aria aperta», ci racconta Judith Brand. Trascorrerà la festa nazionale in famiglia, con il marito Christoph e le due figlie, Leonie e Jana. Rinunciano ai fuochi d’artificio ma non al panino del 1° agosto della Migros. A colazione Leonie mangia volentieri i cereali, preferibilmente «nature», senza aggiungere nulla. È una bella fortuna che i Fit Flakes siano tra i prodotti Migros che da subito beneficiano di un ribasso permanente del prezzo.

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Riduzioni di prezzo permanenti I prodotti preferiti sono più convenienti Recentemente il prezzo di molti dei prodotti preferiti dai clienti Migros, vale a dire i prodotti più venduti, è diventato più conveniente. Tra questi anche diversi prodotti M-Classic come i Fit Flakes e il Choco Drink. Settimanalmente se ne aggiungono altri. L’aspetto più interessante: non si tratta semplicemente di promozioni, bensì di riduzioni di prezzo permanenti.

«Al tavolo del nostro brunch non possono mancare il panino del 1° agosto e i cereali». Judith Brand

Foto Roger Hofstetter, Styling Miriam Vieli-Goll

Facilmente riconoscibili Grazie al logo illustrato qui sotto, nei prossimi mesi sarà facile riconoscere a colpo d’occhio i sempre più numerosi prodotti preferiti che hanno beneficiato di una riduzione di prezzo permanente.

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Non vi sono alternative alla crescita Mathias Binswanger, che insegna alla SUP del Nord-Ovest di Olten, è uno tra i professori di economia più influenti del nostro paese. Nell’annuale classifica della «Neue Zürcher Zeitung» risulta, tra professori di nazionalità svizzera, al primo o al secondo posto. Il primo posto gli viene sempre insidiato dal prof. Reiner Eichenberger dell’università di Friburgo che rappresenta opinioni economiche completamente diverse. Ma torniamo al Nostro. Mathias Binswanger è un economista molto attento ai problemi ecologici. In questo non fa, in un certo senso, che riprendere la fiaccola da suo padre, Hans Christoph Binswanger, già professore all’università di S. Gallo, che fu uno dei primi professori di economia in Svizzera ad occuparsi di questi problemi. Di Mathias Binswanger è appena uscito

un volume, Der Wachstumszwang, su uno dei maggiori dilemmi che l’ecologia pone oggi all’economia: la crescita continua. La crescita esponenziale del prodotto interno lordo ha consentito, nel corso degli ultimi duecentocinquant’anni a quasi il 90% della popolazione mondiale, popolazione del Canton Ticino compresa, di sfuggire alla carestia e alla fame. Ma la crescita dell’economia minaccia oggi le riserve di risorse non riproducibili, produce enormi problemi di inquinamento, è all’origine di rischi di catastrofe di portata incalcolabile e contribuisce al riscaldamento dell’atmosfera. E allora? «Arrestate la crescita!» è la risposta che si sente sempre più di frequente. Ma la crescita economica può essere arrestata? No, risponde Mathias Binswanger nel volume appena citato. In un sistema

economico nel quale esiste la moneta come intermediario dello scambio, la crescita non può essere arrestata. La spiegazione teorica di questa impossibilità è contenuta nell’argomentazione presentata nella prima parte della nuova pubblicazione di Binswanger. Da apprezzare che l’autore espone le sue tesi, un po’ come facevano nell’Ottocento i classici dell’economia, valendosi di semplici esempi numerici, confinando nell’appendice il modello con formule algebriche. Ma se l’economia deve crescere e se la crescita crea enormi problemi ecologici come possiamo uscire dal dilemma? Binswanger risponde a questa domanda nella seconda parte. Dapprima raccomandando di applicare, in modo conseguente, le misure di politica ecologica. Il problema maggiore qui è che molti

Stati, come per fare un solo esempio la Svizzera, cercano di soddisfare i loro obiettivi di contenimento delle immissioni, spostando il problema all’estero, comperando per esempio certificati da paesi nei quali il livello di immissioni è ancora relativamente basso. In materia di politica ecologica bisogna quindi fare di più e non accontentarsi di mostrare i risultati raggiunti, specialmente quando gli stessi nascondono la realtà di un livello di inquinamento in aumento nel resto del mondo. Un’altra grossa difficoltà è costituita dall’esistenza dello Stato sociale. Lo Stato sociale persegue finalità meritevoli come la riduzione dei rischi legati alla malattia, all’invalidità, alla disoccupazione e al pensionamento e una certa misura di ridistribuzione del reddito. Ma la sicurezza del finanziamento

delle sue assicurazioni è legata in modo indissolubile alla crescita dell’economia. Mantenere le istituzioni dello Stato sociale contenendo la crescita dell’economia è un po’ come conseguire la quadratura del circolo. Nel libro di Mathias Binswanger vengono esposte molte altre incongruenze della politica ambientale che fanno della crescita economica un dilemma apparentemente senza via d’uscita. Nonostante tutte queste difficoltà Binswanger è, in conclusione, ottimista. Crede che una via d’uscita esista se si sostituisce l’obiettivo della crescita massima con quello di una crescita moderata, che consumi meno risorse , sia maggiormente rispettosa dell’ambiente e contenga il riscaldamento dell’atmosfera entro limiti ancora sopportabili. Mettiamoci dunque al lavoro!

logo con i grillini; ma un accordo prima delle urne – e solo per evitarle – provocherebbe un’immediata scissione nel partito democratico, Renzi e i renziani se ne andrebbero, e probabilmente i numeri per un nuovo governo verrebbero a mancare. Se questo è lo scenario, però, non ci si deve stupire che l’Italia resti l’anello debole del sistema finanziario ed economico europeo. L’Italia è un Paese attaccabile, proprio perché non è stabile. Non soltanto i Bund tedeschi, ma pure i buoni del tesoro francesi a cinque anni hanno un rendimento negativo: la Francia quindi non paga interessi per finanziare il debito pubblico, proprio perché è un Paese affidabile. C’è un presidente, ha una maggioranza, e se ne riparla a fine mandato. L’Italia combina in sé tutte le caratteristiche negative: alto debito pubblico, bassa crescita, forte instabilità. E qualsiasi leadership prima o poi si logora. Certo, altri Paesi sono in difficoltà. In Spagna si è votato a fine aprile, e ancora non c’è un governo nel pieno dei poteri. I populisti di Podemos recalcitrano, ma

è probabile che finiranno per trovare un accordo con i socialisti. Non a caso la Spagna sta sostituendo l’Italia in molti tavoli europei, perché è considerata un Paese meno imprevedibile. Lo scandalo delle conversazioni registrate tra l’ex portavoce di Salvini e i suoi interlocutori russi non ha scosso più di tanto l’opinione pubblica: troppo alte le quotazioni del leader leghista. E non è certo possibile andare a votare con il pretesto di uno scandalo. La rottura avverrà verosimilmente sulla questione fiscale. La Lega vuole la flat tax, l’aliquota unica uguale per tutti, ma non ci sono i soldi per finanziare questo provvedimento (peraltro incostituzionale: la Carta prevede la progressività delle imposte). Se, com’è probabile, l’Europa boccerà la manovra d’autunno, Salvini si ritroverà in mano un ottimo argomento per impostare la campagna elettorale. In difficoltà saranno anche i Cinque Stelle, la cui spinta propulsiva sembra esaurita. Ma sarebbe sbagliato darli per morti. L’Italia e l’Europa restano luoghi di ingiustizie. Molti elettori

sono indignati, e con ragione. La casta dei politici non ha rinunciato di fatto ai suoi privilegi; ma la colpa non è soltanto loro. Si pensi ai premi milionari versati a manager che hanno rovinato le loro aziende, pagando non il merito ma lo status, non il lavoro ma il privilegio, come nell’Antico Regime. Le ragioni che hanno indotto milioni di italiani a votare Cinque Stelle sono ancora lì, intatte. Ad esempio, rovesciare questo sistema assurdo per cui più lavoro si crea, più tasse si pagano, mentre più soldi si incassano e meno lavoro si crea, meno tasse si pagano. Farla finita con l’assurdità per cui i veri ricchi si rifugiano nei paradisi fiscali, mentre il ceto medio viene spremuto fino all’inverosimile. Rinnovare le classi dirigenti del Paese, mai tanto screditate. Insomma, sarebbe sbagliato considerare i Cinque Stelle finiti. I voti popolari che hanno perso alle Europee sono andati tutti alla Lega, non al Pd. Questo potrebbe facilitare eventuali accordi futuri con i democratici, che neppure gli ormai ex renziani Lotti e Guerini ora escludono.

effettuare, in particolare quelle federali che generalmente si concludono con un compromesso – suona a conferma della peculiarità del nostro Stato confederale. Nel nostro ordinamento democratico, permeato dall’importanza del federalismo, la parola «leadership» in campo politico gode di scarsissimo credito e genera un istinto contrastante in chi è chiamato a governare. Ne deriva che invece di affidare o delegare l’incombenza a un presidente o a un primo ministro, noi preferiamo risolvere i problemi assieme e così, anche nelle scelte «minori», siamo sempre portati a tener presente e rispettare le componenti sociali e morali della nazione, a garanzia di un patriottismo capace di evolvere lasciando che sia sempre l’appartenenza a prevalere sull’identità. Ritornando al 1. agosto sono convinto che il senso di moderazione e la cautela iniziali, come pure le decisioni «minimaliste» del governo federale (in netto contrasto con i forti richiami, in molti casi legati ad atti di guerra o

rivoluzionari che ancora oggi contrassegnano le analoghe feste nazionali di numerosi altri paesi) siano gli elementi che hanno consentito alla nostra festa nazionale di conservare quel senso contegnosamente misurato che oggi caratterizza anche un’atmosfera tutta particolare, sicuramente preferibile a quelle di altre feste nazionali. Esiste infatti anche una seconda e più contrastante differenza, spesso riscontrabile anche confrontando gli inni nazionali. Mentre il nostro inno patrio – fino a pochi decenni fa addirittura ancorato a una melodia plagiata (dal God save the Queen inglese) – è in sostanza un salmo pastorale denso di riferimenti religiosi e morali, in altre nazioni i festeggiamenti indetti per date o ricorrenze che riguardano vittorie belliche, liberazioni o dichiarazioni ed eventi storici che resistono da secoli propongono cadenze marziali nelle musiche e testi legati a un patriottismo che blandisce il nazionalismo. Una palese dimostrazione di questa differenza l’abbiamo avuta in Francia

con le celebrazioni del 14 luglio, cioè con la scenografica festa nazionale che commemora ancora la presa della Bastiglia, la caduta della monarchia e il culmine della rivoluzione francese. Mi limito a segnalare un particolare non minore, ma altamente significativo del 14 luglio di quest’anno: la festa nazionale è servita ed è stata «usata» per dare concretezza mediatica all’avvio di una nuova «grandeur» politica della Francia e per consolidare le ambizioni del suo attuale presidente. Lo confermano gli spettacolari rimandi alla «force de frappe» francese in campo militare e alla necessità di una «nuova» Nato (chi ha dubbi cerchi il Pdf «Document d’orientation de l’innovation de Défense (DOID) 2019». Aggiungete l’astuzia di Macron e le sue ambizioni per una futura «leadership» della politica europea e si approda a un 14 luglio architettato per esaltare l’identità piuttosto che l’appartenenza, vale a dire l’esatto contrario di quanto invece propongono la «bionda aurora» e il 1. agosto al popolo svizzero.

In&outlet di Aldo Cazzullo Il tempo dell’ascesa Ogni volta che qualcuno mi parla di politica, mi chiede come mai Matteo Salvini non voglia andare a votare. Ovviamente non lo so. Forse non lo sa neanche lui. La «finestra» per andare alle urne a settembre, prima dell’esame parlamentare della legge di bilancio, si è virtualmente chiusa. Chi sperava in elezioni anticipate dovrà ancora pazientare. Ma forse non per molto tempo. Questi mesi saranno ricordati come il tempo dell’ascesa di Salvini. L’impressione è che il leader della Lega

abbia raggiunto l’apice, e gli convenga monetizzare il consenso accumulato in questo periodo, affrontando le urne probabilmente all’inizio del 2020. Certo, i Cinque Stelle sono pronti a tutto pur di evitare il voto anticipato: un anno fa annunciavano di voler togliere ai Benetton le Autostrade, e ora gli hanno dato pure l’Alitalia. Ma difficilmente questa legislatura potrà proseguire se Salvini deciderà diversamente. L’elezione di Nicola Zingaretti alla segreteria del Pd presuppone il dia-

Il leader della Lega Matteo Salvini. (Keystone)

Zig-Zag di Ovidio Biffi Appartenenza e identità in festa Spesso quando si ricorda che la Svizzera ha oltre sette secoli di vita, si è portati a immaginare che anche la nostra festa nazionale abbia una storia antica. Invece è relativamente giovane, ha poco più di cento anni. Infatti nemmeno la fondazione del moderno Stato confederale a metà del XIX secolo era riuscita a suggerire di crearne una. L’idea ha preso corpo solo mezzo secolo più tardi, nel 1891, in occasione dell’anniversario del 600.mo della nascita della Confederazione. Ma furono necessari altri otto anni prima che nel luglio del 1899 il Consiglio federale approdasse alla scelta del 1. agosto come data per festeggiare il natale della patria, senza peraltro trasmettere entusiasmi: oltre a indicare la data, il decreto chiedeva a cantoni e comuni svizzeri di «far suonare le campane a festa per la durata di un quarto d’ora» e timorosamente ricordava che si lasciava libertà di organizzare altre forme di festeggiamenti. Il motivo di questo profilo basso? La lunga durata delle consultazioni era stata causata principalmente

dal fatto che i cantoni chiedevano una celebrazione quieta e riflessiva e il Consiglio federale era fortemente condizionato dalla volontà di non recare concorrenza al carosello di feste federali (di tiro, di canto, di ginnastica ecc.) organizzate nei grandi centri, oltre che dalla paura di interferire nella pletora di commemorazioni riguardanti l’entrata nella Confederazione dei singoli cantoni o le date di epiche battaglie (alcune sopravvivono ancora, come a Sempach o al Morgarten). Per questo forse l’accordo fu possibile solo sulla data fissa e sul suono delle campane, rispettando comunque la priorità principale: trasmettere al popolo, con la festa nazionale, l’immagine di una «Svizzera semplice e lavoratrice». Da questa storia è possibile dedurre almeno due sostanziali differenze della nostra festa del 1. agosto rispetto a molte feste nazionali di altri paesi. Una prima diversità – che oso definire psicologica, dal momento che più che un confronto con l’esterno riguarda le scelte che noi svizzeri siamo soliti


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 29 luglio 2019 • N. 31

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Cultura e Spettacoli Il diario di Pastoureau Un colore tira l’altro è l’ultimo libro dello scrittore, storico e antropologo francese

L’algoritmo in mostra Un’esposizione a Milano insegue le reciproche interazioni tra la tecnologia e l’opera di alcuni grandi artisti pagina 40

L’arte si muove verso il pubblico Continua la presentazione della «Land Art», una corrente creativa che utilizza gli spazi naturali per la sua espressione pagina 41

pagina 38

Un detective selvaggio nell’America di Trump

Letteratura Intervista con Jonathan Lethem,

autore di un noir in cui emerge un paese con traumi decennali, oggi preda del «Grande impostore»

Blanche Greco «Questo romanzo contiene riflessioni, sentimenti e pensieri importanti ed io volevo che venisse preso molto sul serio, ma allo stesso tempo che fosse per il lettore un’esperienza speciale: una lettura rapida, sorprendente e piena di delizioso divertimento» ci ha confidato con piglio allegro Jonathan Lethem che abbiamo incontrato a Firenze, a fine giugno, alla presentazione del suo ultimo libro Il Detective Selvaggio (titolo scippato a Roberto Bolaño perché è quello che meglio «traduce» l’originale: The Feral Detective) edito da La nave di Teseo, e ha continuato: «Avevo in testa questa storia da molto tempo, ben prima delle elezioni del 2016, ma poi Trump è stato eletto e questo evento ha sprofondato molte persone in una improvvisa e violenta confusione. Così mi sono sentito sollecitato a indagare su dei temi “classici” per noi americani come il confronto uomo/ donna; le migrazioni interne; la natura selvaggia e la civilizzazione, che però l’arrivo di Trump ha “illuminato” e fatto “lievitare” portandoli di colpo in primo piano». Il viso simpatico, la folta chioma di riccioli neri striati di grigio pettinati in grandi onde ordinate, il cinquantacinquenne scrittore americano dallo stile eclettico, autore di vari libri tra cui Brooklyn senza madre e La Fortezza della Solitudine che gli hanno dato il successo, stavolta si è divertito a raccontare, con il ruvido linguaggio hard boiled, una detective story ambientata nel 2017, che è ben più di un noir ironico e sopra le righe. La protagonista è Phoebe Siegler una giornalista trentenne che si è appena licenziata dal «New York Times», colpevole di mostrarsi troppo arrendevole con il neo-eletto Presidente Trump, e, ancora traumatizzata, ha lasciato Manhattan per la California alla ricerca della figlia scomparsa di un’amica. Unico indizio, la passione della giovane Arabella per Leonard Cohen, morto due giorni dopo l’elezione di Trump, e che aveva avuto

un guru buddista sul Mount Baldy, non lontano dal college della ragazza, zona di vecchi hippy e nuovi survivalists. Ma lugubri presagi, oltre al magone che si porta dentro, convincono Phoebe a rivolgersi a Charles Heist, il detective selvaggio, una sorta di Marlowe locale stile cow boy, in stivali e usurata giacca di pelle rossa che, nel cassetto della propria scrivania invece della pistola tiene un opossum da compagnia, reperto di un caso precedente. «Sono cresciuto leggendo i romanzi hard boiled, di Chandler, Hammett, e Ross Mc Donald che sono la culla della mia prosa» ci ha raccontato Jonathan Lethem. «Amo lo stile delle detective story, ma sono attratto soprattutto dagli archetipi, come la figura del detective, anche se stavolta lo volevo osservare dall’esterno. Perciò ho utilizzato uno degli inizi tipici di questi romanzi in cui c’è una donna che entra nell’ufficio del detective, ma dopo, invece di restare con lui e fargli raccontare i fatti, scelgo di seguire la donna e le sue elucubrazioni». Malgrado la barba lunga, le basette, il naso grosso, le labbra carnose e la fossetta sul mento che Phoebe definisce «un solco», il detective selvaggio resta affascinante, anche se un po’ patetico e fragile. Lui è così vero in quel mix di mistero, sesso e violenza della storia, che però ha un sottofondo esilarante con Phoebe «arrabbiata e affamata» nel corpo e nello spirito che parla molto, come uno scaricatore e arraffa a piene mani ciò che trova, spietata e selvaggia più di chiunque altro. La storia procede spedita con citazioni cinematografiche, letterarie e fumettistiche, tra montagne e lande deserte in mezzo a bande rivali di survivalists paranoici, facendo emergere con umorismo l’allegoria che vi si cela e fotografa l’America di oggi con tutti i suoi traumi. «La società americana è incapace di digerire ciò che la turba e diventa amnesica. Il significato della rivoluzione utopica del ’68; la creazione delle comuni; gli ideali della controcultura, sono tutti momenti di grande successo e di completo fallimento, come si può

È nato a Brooklyn nel 1964. (Wikipedia)

dire di molti dei grandi movimenti in America, come quello dei Diritti Civili». Jonathan Lethem si è messo a ridere e ha continuato: «Qualche volta penso a mia madre che era una hippie ed è morta nel 1978. Se oggi potessi avere cinque minuti per conversare con lei, le direi: “La buona notizia è che oggi i gay possono sposarsi, la marijuana è stata legalizzata ed abbiamo avuto un Presidente nero”. Sono sicuro che lei risponderebbe: “Allora le cose sono andate alla grande!” A quel punto io dovrei dirle: “Peccato che non sai la cattiva notizia!” Perché la contro-reazione a tutto questo è stata un vero incubo: prima con l’era Reagan e adesso l’era Trump. È quasi incredibile quanto la “risposta” ogni volta sia stata reazionaria, dirompente e fantasy. Sì perché quest’America che adesso si vorrebbe resuscitare, non è mai esistita. L’America, “grande”

storicamente non lo è mai stata, salvo forse che per qualche “uomo bianco”, ma queste fantasie da cow boy e il “mito della frontiera” sono molto potenti». In The Feral Detective i due protagonisti si spostano verso il «Confine Selvaggio», in una indagine più simile ad un pellegrinaggio, dove Heist, guidato da un «codice misterioso» entra in contatto anche con la più desolata geografia umana, mentre Phoebe lo tallona, lo provoca, lo spalleggia, fa sesso con lui, lo aggredisce. Lei newyorchese che «legge Elena Ferrante», dopo «l’evento che l’ha spezzata nel profondo», è alla disperata ricerca di una nuova mappa per andare avanti, di una nuova identità, come gli altri personaggi femminili del libro. «Nella “fantasia americana” c’è l’idea che l’identità sia qualcosa di solitario. Affermazioni come: devo scoprire chi sono; mi devo

reinventare; diventerò famoso; o andrò nella natura selvaggia e creerò qualcosa di unico, da noi non sono solo battute da film» ci ha spiegato Lethem. «Adesso non per buttarla sempre in politica, ma Trump è un fantastico esempio dell’idea di una disastrosa identità americana: “è il grande impostore”. Per noi lui è ridicolo, ma nella sua mente, la sua storia è veramente grandiosa». Ha concluso con un sorriso simile a una smorfia. È un libro molto serio Il Detective Selvaggio anche se è scritto come un divertissement, un noir che diventa un western e cela influenze letterarie diverse: da Herman Melville, a Tolkien, a J.G.Ballard. Arabella viene ritrovata, ma Lethem non ci ha risposto alla domanda se il «trauma Trump» corre il rischio di aggravarsi con le prossime elezioni.


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Cultura e Spettacoli

I colori che fanno letteratura

Editoria Tra i libri dell’estate, da segnalare il bel Un colore tira l’altro, diario cromatico di Michel Pastoureau,

che esce da Ponte alle Grazie Mariarosa Mancuso Gli scrittori di fiction, a conoscerli, non sono sempre come li immaginiamo. Vale sempre l’aneddoto – vero o d’invenzione, sono anni che ne cerchiamo invano l’origine – del lettore che scrisse al suo romanziere prediletto un biglietto così concepito: «Ho deciso di correre il rischio di conoscerla». Abbiamo una venerazione per i romanzi di Jonathan Franzen, Le correzioni in cima a tutto, ma l’idea di restare intrappolati in una delle sue spedizioni di birdwatching ci terrorizza. Le lasciamo ai suoi traduttori, che non possono sottrarsi se e quando capita l’occasione. Vale lo stesso per Haruki Murakami, c’è il rischio di trovarsi coinvolti in una conversazione sull’arte di correre. Andrebbe molto meglio – se fosse ancora viva – un incontro con Shirley Jackson, capace di immaginare quel meraviglioso racconto horror intitolato La lotteria. Ci parlerebbe delle furibonde lotte che hanno luogo nella sua cucina, tra strofinacci e posate di servizio. Della sua corrispondenza con i lettori, e del fatto che «Un giorno le maestre di tutto il mondo dovranno pagare per quel che fanno agli scrittori» (si riferiva alle venti o trenta lettere, spesso sgrammaticate, ricevute ogni anno dagli studenti che dovevano fare una tesina su di lei, e sceglievano la via più breve). In mancanza, Paranoia (Adelphi) è un libro che allieterà le vostre vacanze. Con i saggisti si corrono meno ri-

schi. Siamo sicuri che Adam Gopnik – abbiamo appena letto Io, lei, Manhattan, uscito da Guanda, altro libro da portarsi in vacanza – non parlerebbe mai di qualcosa che a noi non interessa. E se lo facesse, ne parlerebbe in modo da conquistarci all’istante: un dono che i migliori di noi hanno, non è quel che dicono, ma è come lo dicono. Leggere per credere la sua vita a Soho negli anni 80, quando Jeff Koons cominciava la sua carriera e Robert Hughes – quel Robert Hughes che abbiamo tanto ammirato per La cultura del piagnisteo – non capiva la novità.

Siamo altrettanto sicuri che Michel Pastoureau non potrebbe mai deluderci. Abbiamo letto con soddisfazione tutti i suoi libri sui colori – blu, nero, rosso, verde, che ci ha fatto capire perché i mostri sono spesso verdognoli – e anche il suo libro sul lupo. Escono da Ponte alle Grazie, come il recentissimo Un colore tira l’altro. Diario cromatico. Esattamente quel che dice il titolo: un diario, dove ogni pagina prende spunto da un colore, o da un insieme di colori. Tinte e sfumature osservate, raccontate (lo storico confessa di avere «informatori» che

Ha già scritto libri sul blu, il nero, il rosso e il verde. (la-croix.com )

appena notano qualcosa di interessante gliela segnalano), spiegate applicando con divertimento gli studi alla vita. Vale per tutti il combattimento con le lenzuola che Michel Pastoureau intraprende in un lussuoso albergo di Zurigo (si era a gennaio del 2014). Sembra tutto perfetto, arredamento sobrio e di ottimo gusto, grigio bianco e beige – niente di dorato e niente rosa, siamo europei mica americani. Ma sotto l’elegante copriletto ci sono lenzuola nere. Orrore e raccapriccio, non è un colore adatto al sonno. Va bene per vestirsi se

si è un po’ grassottelli, perfino per impacchettare regali, è anche l’occasione per annunciare che il prossimo libro sarà dedicato ai corvi. Ma infilarsi in pigiama tra lenzuola nere proprio no, Pastoureau teme gli incubi, e pensa che neppure il copriletto rigato – sia pure in colori tenui – riuscirà a tenerli lontani. Ha la tentazione di chiamare la reception, per chiedere una stanza con lenzuola blu o bianche, tinte pacifiche che conciliano il riposo. E in subordine, per farsi dire il nome del designer che ha avuto la sciagurata idea, in un albergo frequentato da persone non giovanissime, vicini a Prospero nella Tempesta di William Shakespeare «D’ora in poi, un pensiero su tre sarà dedicato alla morte». Non lo fa perché è timido. Protesta in altro modo: toglie dal letto lenzuola, federe, copripiumino, e le mette il mucchio in corridoio. Un po’ lontano dalla sua stanza (sinceramente annota: «la mia vigliaccheria è totale»). La disavventura – finirà per dormire sulla traversa del materasso, la testa su un cuscino sfoderato che «puzzava vagamente di cavolo rapa» – lo spinge a interrogarsi sui moderni colori della biancheria, che un tempo era solo bianca per ragioni igieniche e morali. Sono solo quattro pagine in un libro appassionante, che tra mille altri spunti celebra con l’entusiasmo di un bambino la bellezza e la simpatia dei veicoli gialli, il colore della Posta Svizzera. Il giallo dei gilet, acido e catarifrangente, rimanda invece all’invidia. Annuncio pubblicitario

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Una giornata in spiaggia

Sul monte più soleggiato della Svizzera

Un paradiso per lo sport e le escursioni

Con i suoi numerosi affluenti e ruscelli laterali, la Vallemaggia (TI) è il luogo ideale per una giornata in spiaggia davanti a un’acqua cristallina. Immersi in una natura spettacolare, con numerose cascate e diverse pareti su cui fare arrampicata, è possibile assistere a numerosi tuffi da grandi altezze.

Pura sensazione di vacanza in Ticino: il Monte Brè (TI) affascina per la vista panoramica mozzafiato e vanta inoltre numerosi sentieri molto vari per escursioni, un parco giochi dove è possibile fare anche grigliate e due ristoranti. Già la corsa in funicolare da Lugano è una bella avventura per grandi e piccini.

La montagna di Locarno, Cardada, è interamente incentrata sul benessere dei bambini: ad attendere i giovani ospiti ci sono diversi parchi giochi e divertenti sentieri per passeggiate, una caccia al tesoro e un percorso di orientamento.

EVENTO Fête des Vignerons Vevey Solo fino all’11.8.2019

EVENTO 1° agosto sul Rigi Rigi (LU) 1.8.2019

EVENTO La Festa nazionale Ascona 31.7.2019–1.8.2019

Cogli l’occasione per visitare questo festival, che si svolge solo ogni 25 anni. Direttamente sul lago Lemano, in un’arena appositamente allestita sulla Place du Marché, oltre 5000 attori mettono in scena la vita e il lavoro nei vigneti. Nel nucleo di Vevey si svolge contemporaneamente la festa popolare «Ville en Fête», che propone ulteriori rappresentazioni e cortei.

La miglior vista sui fuochi d’artificio ce l’hai dal Rigi. Allora infila gli scarponi e metti in borsa qualcosa da grigliare: sicuramente c’è ancora un posto libero attorno al falò del 1° agosto. Le carte giornaliere sono ottenibili con Cumulus Extra: converti un buono Cumulus da fr. 5.- e assicurati uno sconto di fr. 20.-.

I festeggiamenti iniziano il 31 luglio, nelle prime ore della sera, con musica e animazione. Non appena si fa buio sul Monte Verità cominciano gli spettacolari fuochi d’artificio: un evento magico!

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i r g e e p n ito r i a t i dr

Museo svizzero delle dogane sulle rive del Ceresio

«Una fantastica gita in battello con tante nuove informazioni sui vecchi tempi dei contrabbandieri. Già la sola traversata fino a Gandria vale una gita. Inoltre abbiamo imparato tante cose interessanti sul contrabbando e ci siamo stupiti non poco degli ingegnosi nascondigli che si possono scoprire ovunque.» Andrea, mamma di Gianna, 6 anni


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Cultura e Spettacoli

Algoritmi di argilla

Mostre Alle Gallerie d’Italia di Milano, un’esposizione propone un percorso fra arte e tecnica, con lo scopo

di illustrare quanto gli sviluppi tecnologici modifichino l’esperienza della realtà

Sebastiano Caroni Una mia conoscente che lavora nell’editoria e che abita a Milano, mi confida che per nulla al mondo si sposterebbe da quella città. Con convinzione afferma che, dopo Expo 2015, Milano è diventata ancora più dinamica di quanto non lo fosse in precedenza, più coinvolgente, più ricca di appuntamenti culturali stimolanti. Fa sicuramente piacere sapere che, non lontano dal nostro Ticino, ci sia un’offerta culturale così vivace, ricca, e allettante. Di fronte a un ventaglio di proposte così ampio, semmai, il problema diventa scegliere. A meno che, fra le molte esperienze che la città offre, non ci sia qualcosa di particolarmente suggestivo, qualcosa che catturi la nostra curiosità, che intercetti i nostri interessi e agevoli la nostra scelta. A radunare queste premesse ci ha pensato un’esposizione dall’intrigante titolo Dall’argilla all’algoritmo. Arte e tecnologia ospitata negli spazi delle Gallerie d’Italia, in Piazza della Scala 6 a Milano dallo scorso 31 maggio fino all’8 settembre 2019. Di fronte a un tale titolo, difficile non cedere alla curiosità pianificando una visita culturale nell’estate milanese. Qual è, dunque, l’intento di un’esposizione che riunisce realtà così diverse come l’argilla e l’algoritmo? Come ci informa il depliant della mostra, «dagli albori dell’umanità, gli avanzamenti tecnologici modificano l’esperienza della realtà, inducendo cambiamenti nelle relazioni sociali, nell’immaginario collettivo e individuale, trasforman-

Rielaborazione grafica Nexo da Giorgio de Chirico, Muse metafisiche. (Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli-Torino)

do le possibili forme di creatività artistica». Tali cambiamenti sono «di particolare pregnanza» in un momento storico in cui «l’innovazione digitale ci pone in costante relazione con inedite esperienze di robotizzazione e intelligenza artificiale». Lungo queste linee tematiche, l’esposizione «propone un percorso basato su dialoghi inediti e intenzionalmente non cronologico»: spaziando «da antichi vasi greci a opere di artisti contemporanei internazionali» l’intento è di approfondire «i modi in cui artisti di epoche diverse si sono relazionati con la tecnologia, il suo fascino, le sue utopie oppure i suoi demoni, anticipando o riflettendo radicali cambiamenti sociali e culturali». Il riferimento puntuale all’algorit-

mo (termine che risulta dalla combinazione fra il nome del matematico arabo al-Khuwārizmī, vissuto nel secolo IX, e il vocabolo greco arithmós, che significa numero) è forse l’aspetto più intrigante del percorso artistico proposto. Chi più chi meno, molti di noi hanno avuto a che fare con gli algoritmi durante le lezioni di matematica. Negli ultimi tempi, poi, il termine ha conosciuto una notevole diffusione grazie ai recenti sviluppi tecnologici che hanno investito le società occidentali. Al giorno d’oggi, l’algoritmo è sistematicamente associato a discipline quali il machine learning, lo studio dell’intelligenza artificiale e, in modo più generico, a quei procedimenti e strategie di marketing sfruttate da Google e altri per capire, assecondare e anticipare

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le scelte dei consumatori. Grazie agli algoritmi, dicono gli esperti, possiamo realizzare anche i sogni nel cassetto: dalla seduzione di Miss o Mister universo alla scrittura di un bestseller fino alla composizione di una sonata magistrale. Nulla ci è precluso, se crediamo alla magia dell’algoritmo. Al di là di questi riferimenti, magari un tantino esagerati, alla nuova mitologia dell’algoritmo, pensatori contemporanei come Yuval Noah Harari (autore di Sapiens e Homo Deus) fanno notare come siamo nel mezzo di una potenziale ridefinizione della nostra civiltà. Di fronte alla prospettiva di uno stravolgimento epocale, l’arte non sta certo a guardare: non si limita a registrare tendenze e fenomeni, ma solleva

importanti interrogativi e incoraggia riflessioni. Ci si attende quindi, dall’esposizione Dall’argilla all’algoritmo. Arte e tecnologia un invito all’approfondimento tematico, alla critica ponderata, e alla riflessione consapevole. Il dubbio è che, forse, nell’allestire l’esposizione (che pur si avvale di opere di artisti di grande valore, da Balla a Boccioni, da De Chirico a Fontana), si sia perso un po’ il filo del discorso: rinunciando ad approfondire, e a rendere manifesti, i nessi che possono intercorrere fra l’argilla e l’algoritmo, fra il lavoro dell’artista e l’impatto della tecnologia, fra l’immaginario dell’arte e quello della società. Ne risulta quindi un percorso poco delineato in cui i collegamenti fra i termini proposti (argilla, algoritmo, arte e tecnologia) non sono mai veramente esplicitati, tanto da lasciare deluso quel visitatore che si aspetta dalle opere in mostra che sappiano illustrare ed elucidare una serie di temi in modo convincente. Il dubbio, legittimo, è che l’esposizione non sia all’altezza del suo titolo: e che il nesso, semmai, vada fatto con quel colosso, di biblica memoria, che aveva i piedi di argilla. Dove e quando

Gallerie d’Italia, Piazza della Scala 6 Milano. Da ma a do dalle 9.30 alle 19.30. Gio dalle 9.30 alle 22.30. Chiuso il lunedì. Ultimo ingresso: un’ora prima della chiusura. Fino all’8 settembre 2019. Per info: www.gallerieditalia.com

E tutto il pubblico canta per Udo

Musical Non son mai stato a Nuova York

va in scena sul lago di Thun Marinella Polli

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da u 2 nità

Come da sedici anni a questa parte, giunge ogni estate attesissimo l’appuntamento con i Thunerseespiele, le produzioni musicali sul lungolago di Thun, la città principale dell’Oberland Bernese sullo sfondo di quell’eccezionale paesaggio montano costituito da Eiger, Mönch e Jungfrau, dal 2001 patrimonio dell’UNESCO. La rappresentazione di quest’anno, in programma ancora fino al 24 agosto, è Ich war noch niemals in New York («Non son mai stato a Nuova York»), un coinvolgente Jukebox-musical – ovviamente sul filo delle più celebri canzoni di Udo Jürgens – varato ad Amburgo nel 2007 e in seguito rappresentato nelle principali capitali europee ed asiatiche. Un Jukebox-musical è uno spettacolo musicale privo di colonna sonora originale scritta appositamente, ma che utilizza brani del repertorio di un

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È in programma fino al 24 agosto ai Thunerseespiele. (thunerseespiele.ch)

determinato periodo, genere o artista. E, da Vielen Dank für die Blumen a Alles im Griff auf dem sinkenden Schiff e a, ovviamente, Ich war noch niemals in New York ci sono tutti i grandi successi del cantautore austriaco. Una bella scorpacciata di Udo Jürgens, dunque, che, morto ottantenne nel 2014, nel canton Turgovia (era nato nel 1934 in Carinzia, ma viveva da anni nel canton Zurigo) aveva pubblicato in cinquanta album un totale di più di mille canzoni, e venduto oltre centocinque milioni di dischi non solamente nei paesi di lingua tedesca. Le sue canzoni parlano per lo più d’amore all’inizio della sua carriera. Ma in seguito il filone cambia, in quanto il cantautore passa a temi politici e sociali, o più scottanti e attuali come la droga, la corsa alle armi, i misfatti contro l’ambiente, spesso criticando ipocrisia e bigotteria, come in questo musical, e anche Chiesa e religione. Ich war noch niemals in New York narra la storia di tre coppie di età e orientamento diversi: la scelta fra amore e carriera, l’una, fra la casa per anziani e la realizzazione dei propri sogni, la coppia anziana, e fra partire o restare, la coppia gay sottoposta a mobbing da vicini bigotti. Tutte e tre le coppie arriveranno a capire il vero senso della vita durante una crociera a Nuova York. Sul podio a Thun, Iwan Wassilevski (la supervisione musicale è di Pepe Lienhard) è alla guida di musicisti precisi ed entusiasti: coro, Musical Singers, ballerini (coreografie di Kati Heidebrecht), i protagonisti Kerstin Ibald, Patrick Imhof, Sabine Martin, Hans B, Goetzfried, Jeremy Birchmeier (il ragazzo Florian).


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Cultura e Spettacoli

La dislocazione dell’arte

Il rap, musica del presente

e fra Stati Uniti ed Europa – Parte seconda

di Cesare Alemanni ci aiuta a capire un fenomeno culturale

Land Art Storia di un movimento eterogeneo, sospeso fra Minimalismo e Concettualismo

Emanuela Burgazzoli «L’opera è il luogo»: sono parole del britannico Andy Goldsworthy, uno degli esponenti europei della Land Art, movimento che ha avuto il suo baricentro negli Stati Uniti alla fine degli anni Sessanta. La sua ricerca si ispira alle opere dei padri fondatori della Land Art, come Smithson o Heizer, ma il suo gesto mantiene una certa delicatezza, percepibile anche nei suoi famosi archi in pietra e i suoi «buchi»; Goldsworthy crea opere fragili ed effimere, con i soli materiali naturali che trova sul posto, come le spirali di foglie di Autumn Horn o le piccole sculture di ghiaccio, realizzate nei boschi del Dumfriesshire, vere e proprie meditazioni sul tempo e sul mutamento. Una delle sue opere più importanti e monumentali si trova però a New York per il parco dello Storm King Art Center di Mountainville: un muro di pietre lungo 700 metri che si snoda disegnando

una linea che riconfigura lo spazio naturale. Siamo lontani quindi dai gesti radicali dell’«earth artist» della prima ora, l’americano Walter De Maria, che con una leggendaria installazione del 1968 a Monaco, aveva riempito la galleria Heiner Friedrich con 45 metri cubi di humus, rendendo così la terra una pura presenza fisica. De Maria, che ammira la bellezza delle catastrofi naturali, in una versione moderna del «sublime», è anche l’autore del famoso Lightning Field, un campo di fulmini costituito da 400 barre d’acciaio: un’installazione visitabile soltanto a condizione che il visitatore si fermi per un giorno. Torna quindi il tema della relazione intellettuale e fisica con le opere, dell’isolamento e del deserto, come nei Sun tunnels di Nancy Holt, grandi tubi di calcestruzzo disposti a X forati nella metà superiore per permettere alla luce solare o lunare di proiettare cerchi ed ellissi sulla metà

inferiore. Ben diversa l’esperienza di chi scende nei tunnel sotterranei creati da Alice Aycock, come in A simple network of underground tunnels (1975), sculture architettoniche in cui l’artista cercava di immergere l’osservatore in una situazione claustrofobica. Il rapporto fra paesaggio naturale e forme costruite ricorre anche nelle installazioni di Mary Miss che cela nella natura torri e strutture sotterranee. Di carattere performativo invece l’opera della cubana Ana Mendieta, che negli anni Settanta con la serie «Silueta» imprimeva letteralmente nella terra l’impronta del proprio corpo. Non si può però parlare di Land art senza citare la celebre coppia Christo-Jeanne Claude, che ha inaugurato una nuova forma di intervento con la pratica dell’involucro; dai primi piccoli «wrap» degli anni Sessanta fino ai progetti monumentali che prevedevano l’imballaggio di interi monumenti (dal Pont-Neuf parigino al Reichstag

L’installazione di Christo e Jeanne Claude Floating Piers, sul lago di Iseo, nel 2017. (Keystone)

a Berlino, alla Kunsthalle di Berna) o di veri e propri pezzi di paesaggio, come in Wrapped coast, opera che nel 1969 ha «ricoperto» un tratto di costa australiana. Nel 1972, dopo vari tentativi, la Valley Curtain, un gigantesco telo arancione, viene teso attraverso una gola nelle Montagne rocciose, costituendo una gigantesca interruzione nel paesaggio, cambiandone la percezione – anche se per pochi giorni – e facendo riflettere sul concetto di confine geopolitico. Criticati perché erano opere monumentali anche nel costo, ma autofinanziate dagli artisti con la vendita dei progetti, modelli e foto, gli interventi di Christo innescavano quasi sempre anche l’opposizione degli ambientalisti. Destino comune a molte opere che sembravano opporsi a una crescente consapevolezza ecologica e anche paradossale, se si pensa che molti dei «land artist» intendevano ripensare la relazione fra ambiente e uomo, proponendo progetti di integrazione tra società e arte; arte che, secondo le parole di Smithson, «deve agire all’interno dei processi produttivi e di recupero; perciò è necessaria un’educazione artistica basata sulle relazioni con luoghi specifici». E molte opere di ispirazione ecologista sono state realizzate da alcune «earth artist», più sensibili alle finalità sociali dell’arte, dalla «fattoria urbana» di Bonnie Sherk, all’ecosistema ricreato sul fondo dell’oceano da materiali di scarto del carbone da Betty Beaumont fino ai parchi di recupero ambientale di Patricia Johanson. Ma i progetti con maggiore impatto politico sono quelli di Agnes Denes che nel 1982 realizza un campo di grano sopra la discarica di Battery Park a Manhattan e progetta per la Finlandia il Tree Mountain, una montagna di diecimila abeti bianchi, presentata durante l’Earth Summit di Rio del 1992, che resta il più grande monumento sulla terra di portata internazionale, messo sotto tutela per quattro secoli.

Vivere lontano dalla patria Migranti e migrazioni nel mondo classico Quando sono

le Guerre civili e gli espropri a portare alla fuga – Seconda parte Elio Marinoni Enea che con i congiunti e con i suoi compagni (come abbiamo visto nella puntata precedente) abbandona la patria e dalla costa anatolica s’imbarca per raggiungere l’Italia costituisce, a dispetto della sua origine mitica e letteraria, un’immagine di prepotente attualità. Ma alcuni anni prima di comporre l’Eneide Virgilio aveva già messo in scena il dramma dell’abbandono forzato della propria terra nella sua opera prima, le Bucoliche. Esso vive nelle figure di due pastori, Melibeo e Meri. Come nel caso di Enea, anche per questi due pastori l’esilio è una conseguenza della guerra; ma se quella di Troia apparteneva a un passato mitico, i conflitti di cui sono vittime Melibeo e Meri sono, al di là della veste letteraria idillica e dell’ambientazione arcadica, le guerre civili contemporanee (le Bucoliche furono composte tra il 42 e il 39 a.C.) che da decenni imperversavano in Italia, con le conseguenti requisizioni di fondi da assegnare – non essendo ormai più sufficienti le terre del demanio – ai veterani congedati. Melibeo, che nell’incipit della prima Ecloga contrappone la propria

sorte a quella di Titiro, il quale ha potuto conservare le proprie terre, è il portavoce di un dramma corale, com’è sottolineato dalla doppia antitesi tu/ noi e dalla disposizione in chiasmo dei pronomi personali: «Titiro, tu, adagiato all’ombra d’un ampio faggio, / componi un canto silvestre su un’esile zampogna; / noi abbandoniamo i territori della patria e i dolci campi. / Noi fuggiamo dalla patria; tu, Titiro, placido nell’ombra, / insegni alle selve a riecheggiare la bella Amarillide» (Virgilio, Ecloga I, 1-5). Che il plurale noi non sia dovuto ad affettazione retorica è chiarito al di là di ogni dubbio da quanto lo stesso pastore afferma poco più avanti: «a tal punto in tutte le campagne c’è scompiglio» (Virgilio, Ecloga I, 11-12). A differenza di Enea, che gli ordini divini sospingono verso una meta determinata (l’Italia), Melibeo e gli altri espropriati si disperderanno in tutte le direzioni, in una diaspora che, per quanto poeticamente enfatizzata, non fatichiamo a paragonare agli eventi con cui da qualche tempo siamo quotidianamente confrontati: «Noi, via di qui, ce ne andremo alcuni tra gli Africani assetati, / altri raggiungeremo la Scizia e l’Oasse turbinoso d’argilla / e i Britan-

ni completamente separati da tutto il mondo» (Virgilio, Ecloga I, 64-66). Responsabile di questo rivolgimento, in seguito al quale soldati congedati, provenienti anche dalle province, subentreranno ai precedenti proprietari è lo stato endemico di conflittualità civile: «Un empio soldato avrà questi campi così ben coltivati, / un barbaro queste messi: ecco dove la guerra civile ha condotto / i miseri cittadini: per costoro noi abbiamo seminato i campi!» esclama amaramente Melibeo (Virgilio, Ecloga I, 70-73). Il tema è ripreso nell’Ecloga IX, dove il pastore Meri così si lamenta: «[…] siamo arrivati a vivere perché uno straniero / (non lo avevo mai temuto) divenuto padrone del nostro campicello / dicesse: “questo è mio”, andatevene, vecchi coloni!» (Virgilio, Ecloga IX, 2-4). Rispetto alla prima Ecloga, la IX adombra un momento successivo nella requisizione di terre destinate ai veterani della battaglia di Filippi (42 a.C.). Ora neppure la poesia, che in un primo tempo aveva salvato Titiro-Virgilio (Ecloga I), può evitare l’esproprio al poeta, che si cela qui sotto le spoglie del pastore Menalca. A Licida, che afferma «avevo sentito che il vostro Me-

Ritratto di Virgilio Marone, al Museo archeologico di Treviri. (Wikipedia)

nalca aveva salvato tutto con il canto» (Ecloga IX, 7-10), Meri risponde con lucido disinganno che «tra le armi di Marte» la poesia vale tanto quanto «le colombe al sopraggiungere dell’aquila» (Ecloga IX,11-13). Negli stessi anni in cui Virgilio componeva le Bucoliche, l’altro grandissimo poeta augusteo, Orazio, disgustato dalle guerre civili, che gli apparivano una tara genetica gravante su Roma fin dai tempi della sua sanguinosa fondazione (Epodo VII), giungeva a ipotizzare (Epodo XVII) l’abbandono in massa della patria per raggiungere «le terre felici», un utopico mondo di pace e di prosperità descritto con accenti simili a quelli della nuova età dell’oro profetizzata da Virgilio nell’Ecloga IV. Quante «isole dei beati» si sono succedute nel corso della storia! Per limitarci a quella più recente: dall’America per gli emigranti europei (italiani, svizzeri, polacchi, ecc.) tra l’Ottocento e il Novecento all’Europa per i flussi migratori di questi ultimi decenni.

Editoria Un libro

Tommaso Naccari L’estate sta entrando nel suo vivo e per i meno fortunati di voi che leggete, il periodo così definito «da ombrellone» è ancora un miraggio. Tra le varie attività, appunto, «da ombrellone», c’è da sempre quella della lettura. Non esiste quotidiano, settimanale, magazine online e chi più ne ha più ne metta che in questo periodo dell’anno non decida di stilare una propria classifica o una propria raccolta di «titoli da portarsi sotto l’ombrellone». Se quindi anche per voi la «Settimana enigmistica» è un passatempo fin troppo datato (o fin troppo facile) per costituire lo svago letterario della vostra vacanza, questo pezzo promette di essere la versione ridotta di uno di quegli articoli, con il consiglio di un unico titolo, recentissimo, che però se siete soliti leggere queste righe troverete senz’altro interessante. «Nato a New York negli anni Settanta, il rap è il genere più popolare dell’epoca contemporanea. La sua influenza oggi si avverte ovunque e ben oltre le classifiche dei singoli più venduti: nella cultura pop e negli stili di vita urban, nella moda, nel linguaggio, nella politica e nell’arte. Scavando nelle pieghe dei dischi più influenti e nelle biografie dei rapper più iconici – dai Public Enemy a Tupac, dagli Outkast a Kanye West, da Eminem a Kendrick Lamar – Rap racconta come una forma d’espressione nata per denunciare la marginalità a cui è condannata parte dell’America Nera sia diventata un fenomeno globale, uno dei segni distintivi del nostro presente. Cesare Alemanni ripercorre quarant’anni di musica e società, racconta gli Stati Uniti tra sogni e disillusioni, rifuggendo da semplificazioni e letture di comodo. Questo libro non offre solo un’accurata analisi musicale ma delinea anche una controstoria dell’America, dagli anni Settanta a oggi, in cui il rap è un filo rosso che tiene naturalmente insieme razzismo e rivolte, Malcolm X e Jay-Z, la trap e Black Lives Matter». Rap –Una storia, due Americhe, non è propriamente una lettura da ombrellone. Qui sopra ho copincollato la sinossi, per smorzare quello che potrebbe essere il mio tono troppo entusiasta. Rap è una lettura pregna di significato e sottotesti, è una lettura fondamentale. Mentre scrivo, Anno Domini 2019, il rap è il genere più battuto da ogni radio, playlist, compilation esistente sulla faccia della terra. Ci sono diversi studi che dimostrano come il rap sia il genere più influente di tutta la storia della cultura pop. Solitamente in Italia «pop» è una parolaccia, che va evitata come la peste, che appartiene al volgo, al popolo, non ai salotti «alti». Negli ultimi anni, case editrici come minimum fax, hanno provato ad abbattere questo pensiero profondamente ottuso ed errato e Rap ne è l’esempio perfetto. Dietro le canzoni di Kanye, le spacconate di 50 Cent, le proteste di Kendrick Lamar, i lamenti di Future, ci sono anni, forse sarebbe più giusto dire secoli, di storia. Con una divisione molto calzante e schematica, Rap riesce a restituire un quadro ben preciso di quello che ancora oggi (e per molto tempo) sarà il genere più importante dell’industria discografica. Se volete capire perché vostro figlio si metta solo adidas, il motivo per cui il vostro vicino di casa passa sempre nel viale con California Love a cannone, o perché Eminem non faccia un concerto senza che migliaia di adepti riempiano i posti, be’, Rap è il libro giusto per voi.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 29 luglio 2019 • N. 31

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Cultura e Spettacoli Rubriche

In fin della fiera di Bruno Gambarotta I Torinesi e la salute Approfittando della benevolenza dei lettori, proseguo nella mia antropologia del Torinese. Una folta tribù di miei concittadini è costituita da appassionati cultori di cose mediche. C’è l’Altruista che si preoccupa della tua salute e che, se ti sorprende mentre ti gratti un minuscolo foruncolo sul collo, ti mette in guardia, per il tuo bene: «Il mio collega Beccuti, poverino, ne aveva uno eguale e proprio nello stesso posto del tuo. Sempre stato bene, mai avuto niente, figuriamoci se stava a preoccuparsi per un semplice foruncolo. Finché un bel giorno si ferma a prestare soccorso a un poli traumatizzato, lo carica sulla sua auto e lo porta al pronto soccorso. Il medico di guardia gli fa: lasciamo perdere il suo amico, parliamo piuttosto del suo foruncolo, non mi piace per niente. Non l’hanno nemmeno lasciato andare a casa a prendersi il pigiama. Ricovero, analisi, gli hanno iniettato un marcatore radioattivo, solo che hanno sbagliato dose, disgrazia vuole che in

quel momento andasse in onda la finale di coppa con la Juventus e il medico è un tifoso sfegatato, non è mica un delitto tifare per una squadra, no? Con l’occhio allo schermo e la siringa in mano ha spinto un filino di troppo lo stantuffo e il mio collega è diventato un pila atomica che disturbava gli aerei in atterraggio. L’hanno dovuto ricoverare nella cassaforte della banca privata Burzio, l’unica schermata di piombo. I titolari, con la scusa che la loro cassaforte non è convenzionata, gli hanno fatto pagare i giorni di degenza con la tariffa intera. Ma il suo sacrificio non è stato inutile, adesso con la sua energia alimenta tutte le lampade votive del Cimitero Generale. Hanno calcolato che andrà avanti fino al 2070. Una seconda tribù di altruisti torinesi raduna quelli che ti danno consigli non richiesti sulle cure mediche. Hai appena informato i tuoi colleghi che ti assenterai per qualche giorno a causa di una banale appendicectomia. L’annuncio scatena una curiosità morbosa:

«Da chi ti fai operare?» «Mi mettono nel reparto del professor Scaccabarozzi». Facce sgomente e sinceramente preoccupate: «Cosa? Ti metti nelle mani di quel macellaio? Non hai letto le ultime statistiche sulla mortalità nel suo reparto? 97 morti su 100! E quei tre si sono salvati perché il professore doveva farsi togliere una multa e li ha fatti operare dagli assistenti. Non hai letto di quel paziente del tuo professore che è costretto a seguirlo tutte le volte che viaggia in autostrada perché gli ha dimenticato nella pancia il telepass?». Ti senti perduto ma l’amico ti viene in soccorso con un suggerimento prezioso: «Perché non ti fai operare a Lione?». Per i Torinesi Lione è il paradiso in terra della medicina. Chi c’è stato racconta la sua esperienza con occhi sognanti: «Prendi il treno alle 8 e mezza di mattina e alle 11 e mezza sei alla stazione di Lyon Perache. E già sul treno ti fanno tutte le analisi. Scendi dal treno e vai direttamente in sala operatoria. Il chirurgo, prima

di addormentarti, ti fa sfogliare un catalogo, per farti scegliere con quale tipo di punto vuoi farti ricucire. Io ho scelto il punto a giorno perché fa fine e non impegna. Le camere per la degenza sono arredate secondo i vari stili nazionali, io ho scelto il polinesiano, con l’infermiera che ti riceve infilandoti la collana di orchidee. Un piccolo complesso musicale formato da dipendenti dell’ospedale tutte le sere viene a suonarti la buonanotte. Il giorno stesso in cui ti operano ti danno il permesso di scendere al night. Si trova nello scantinato dell’ospedale, le infermiere e le dottoresse cantano, fanno la danza del ventre, le caposala accennano a uno spogliarello, il chirurgo che mi ha operato fa l’illusionista, il suo assistente le imitazioni. Unico neo, lo champagne ha ancora un leggero retrogusto di formaldeide. Spendi meno a Lione, tutto compreso, che a Torino per le mance agli infermieri». C’è poi il Torinese che ama raccontarti l’intervento minuto per minuto. Conserva in barattoli di

vetro i reperti che gli hanno estratto, l’appendice, le tonsille, i sassolini della cistifellea o del rene, il tratto di stomaco o d’intestino ulcerato. E te li mostra orgoglioso la prima volta che ti invita a cena, dopo l’intervento. Prima di mettersi a tavola: «Mi hanno infilato una sonda in un’arteria inguinale per arrivare al cuore e sul più bello è mancata la corrente. Be’, mi fanno, intanto che riparano il guasto noi andiamo a mensa, così riusciamo a mangiare ancora qualcosa di caldo. Solo che hanno lasciato l’apparecchio attaccato e quando è ritornata la corrente la sonda ha ripreso a viaggiare. Fortuna che ha trovato da sola la via giusta, altrimenti non sarei qui a raccontartela. Adesso ti operano in anestesia locale, così senti tutto quello che dicono i dottori. C’era uno che metteva piede per la prima volta in sala operatoria. I colleghi lo incoraggiavano, parlando di me gli dicevano: questo qui fallo tu, così ti fai la mano, tanto è andato. Invece eccomi qua. Quando c’è la salute...»

l’inglese Moon derivano dal nome di una divinità, Men. Poi arrivò Dante: nel secondo Canto del Paradiso ha un dubbio riguardo all’origine delle macchie lunari visibili dalla terra. Beatrice gli consegna una spiegazione metafisica: la maggiore o minore intensità degli astri o di parti di essi è legata al diverso grado di compenetrazione nei cieli delle virtù angeliche. Petrarca trasforma la luna in metafora dei suoi stati d’animo malinconici e notturni; mentre la luna più romantica è quella di cui scrisse Giacomo Leopardi, il cui pastore errante, nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, si chiede: «Che fai tu, Luna, in ciel? Dimmi che fai, silenziosa luna?» La luna è amica e consolatrice, nonostante l’angoscia generata dalla coscienza del reale contrapposto all’eterno. All’indomani dell’arrivo dei primi astronauti sulla luna, Giuseppe Ungaretti, per sottolineare l’importanza dell’evento (vedi anche l’articolo qui sotto), scrisse: «Questa è una notte

diversa da ogni altra notte del mondo. Ogni uomo ha desiderato da sempre conquistare la luna, oggi è stato raggiunto l’irraggiungibile, ma la fantasia non si fermerà» . Non credo però che si possa raggiungere la finezza di Leopardi: «O graziosa luna, io mi rammento / Che, or volge l’anno, sovra questo colle / Io venia pien d’angoscia a rimirarti: / E tu pendevi allor su quella selva / Siccome or fai, che tutta la rischiari. / Ma nebuloso e tremulo dal pianto / Che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci / Il tuo volto apparìa, che travagliosa / Era mia vita: ed è, né cangia stile / O mia diletta luna». Anche Baudelaire fa volare i nostri sogni: «Questa sera la luna sogna più? (…) Quando, / nel suo languore ozioso, / ella lascia cadere su questa / terra una lagrima furtiva, / un pio poeta, odiatore del sonno, / accoglie nel cavo della mano questa pallida lacrima / dai riflessi iridati come un frammento d’opale, / e la nasconde nel suo cuore agli sguardi del sole». Come D’Annun-

zio: «O falce di luna calante / che brilli su l’acque deserte, / o falce d’argento, qual mèsse di sogni / ondeggia al tuo mite chiarore qua giù». Giungendo ai nostri giorni, perché non ascoltare la voce forte e rauca di Alda Merini: «La luna geme sui fondali del mare, / o Dio morta paura / di queste siepi terrene, / o quanti sguardi attoniti / che salgono dal buio / a ghermirti nell’anima ferita». Il più sapiente però sembra il bambinesco e divertito Gianni Rodari: «Sulla luna, per piacere, / non mandate un generale: / ne farebbe una caserma / con la tromba e il caporale. / Non mandateci un banchiere / sul satellite d’argento, / o lo mette in cassaforte / per mostrarlo a pagamento. / Ha da essere un poeta / sulla Luna ad allunare». Dedico queste righe alla mia professoressa di greco del liceo, che si disperava perché tutta la classe non comprendeva le ipotetiche di non ricordo quale grado, e a me chiedeva di prendere sul serio il tema della luna.

«Eravamo felici senza saperlo». Indubbiamente il peggio sarebbe arrivato dopo, ma allora non potevamo saperlo: ci aspettavamo il meglio, in quel 1969 in cui Iva Zanicchi (4½) vinse il Festival di Sanremo con Zingara consigliando di affidarsi alla chiromanzia per avere un’idea del proprio futuro, che comunque si prospettava felice. «Sarebbe bellissimo partire dalla luna per trovare la terra», dice una giovane Monica Vitti nel documentario di Brogi Taviani, «sarebbe bellissimo arrivare qui e trovare un mondo bellissimo come quello in cui viviamo». Era bellissimo quel mondo, nonostante tutto: da oltre vent’anni era finita la guerra, si temeva la bomba ma intanto esplodeva il boom economico, i giovani liberavano la fantasia, i lavoratori rivendicavano i diritti e le donne si emancipavano. L’impresa dell’Apollo 11 faceva vibrare nell’aria una frenesia, un entusiasmo in vista di un avvenire radioso in cui avremmo colonizzato

il nostro satellite: ma nessuno poteva immaginare che dopo il 1972 l’essere umano non avrebbe più messo piede sul suolo lunare. Il grande scrittore visionario Arthur C. Clarke disse che non avrebbe mai creduto che, dopo l’allunaggio, ci saremmo fermati. Pare che ci stia pensando la Cina a riprendere i programmi di ri-conquista. «Buonasera, quelle che stiamo per vivere tutti insieme gli abitanti della terra sono forse le ore più importanti di questo secolo: l’uomo sta per violare il primo mistero dell’universo, sta per conquistare la Luna». Così Andrea Barbato quella domenica di luglio. Con un po’ di enfasi, per la verità, perché a ben guardare prima della fine del secolo (e del millennio) ne avremmo viste di belle (e di molto brutte). «Non sto a quell’altezza de di’ com’è fatta la luna, che c’è dentro alla luna… E che ne so! So solo che sta per aria…»: era, nel film di Brogi Taviani, la voce di una signora sulla settantina (romana a giudicare

dalla pronuncia) richiesta di un parere sulla imminente «conquista». Ammirevole realismo: non ne so niente, so solo che la luna sta lassù, appesa per aria… Forse il cauto buonsenso di quella anziana donna semplice e incolta (5++), una casalinga o un’ex operaia, aveva ragione: più dei commenti di tanti editorialisti dai grandi nomi che enfatizzarono quell’evento come l’inizio di una nuova era. Chissà quanti già pregustavano il privilegio e la gioia di andare a passare il week end sulla Luna, magari di acquistarvi la seconda casa, con giardino e piscinetta, che non ci si poteva permettere sulla Riviera ligure o in Versilia. Niente di tutto ciò si è verificato. Il mondo stava invece consumando le ultime briciole dell’ottimismo e delle speranze, ma non lo sapeva. Dallo sbarco (sulla Luna) siamo passati, cinquant’anni dopo, agli sbarchi dei poveri in altre terre (del nostro pianeta): sbarchi della speranza spesso tragica, quasi sempre delusa.

Postille filosofiche di Maria Bettetini Guarda che luna! (1) Ecco, siamo andati sulla luna, tutti i diversamente giovani ricordano dov’erano quel giorno a quell’ora. Siccome era di notte, noi bambini fummo ingannati, vedemmo il grande passo per l’umanità a metà mattina come fosse in diretta, richiamati a gran voce mentre coglievamo carote, asparagi e patate nell’orto del nonno. Questa è una cosa bella, qualcosa di finto in un mondo che sarebbe diventato sempre più perfetto e tecnologico. Un piccolo spazio alla fantasia (nonostante il grande passo etc.). Un uomo con una grande tuta da sci e scarpe che poi sarebbero divenute molto popolari, i «moon-boot», appunto. Dopo questo passo (grande per l’umanità e così via) saremo ancora capaci di poesia nell’osservare il pianeta che ci nasconde sempre una parte di sé, che brilla grazie al sole, che ha, può avere un simpatico volto come nel film del 1902, diretto da Georges Méliès? Il primo a cantare la luna, tra i testi che sono a noi arrivati, è Luciano

di Samosata (II secolo d.C.), nella Storia vera dove si dice che l’unica cosa vera è che nell’opera non ci sia nulla di vero. Luciano racconta un viaggio sulla luna: la narrazione potrebbe essere stata ispirata dal romanzo Le incredibili meraviglie al di là di Tule di Antonio Diogene, che Fozio sostiene fosse l’oggetto della parodia di Luciano. Quindi innanzitutto una sorta di scherzo. Nella letteratura italiana la parola Luna appare per la prima volta nel Cantico delle creature di San Francesco (1224): Laudato sì, mì signore per sora Luna e le stelle. Nel dizionario etimologico della lingua italiana, «luna» deriva dal latino, che avrebbe la sua origine nella radice indoeuropea «leuk» o «luc», che significa «splendere». Il termine latino, quindi, equivarrebbe a «la luminosa». Altri sostengono che il latino «Luna» sia la contrazione di «Lucina», appellativo dato alle dee lunari Diana e Giunone allorché venivano in aiuto delle partorienti. Anche il tedesco Mond e

Voti d’aria di Paolo Di Stefano Guarda che luna! (2) Diceva Giuseppe Ungaretti (5+) all’indomani dell’allunaggio: «Oggi è stato raggiunto l’irraggiungibile, ma la fantasia non si fermerà. La fantasia ha sempre preceduto la storia come una splendente avanguardia. Continuerà a precederla… Gli uomini continueranno a vedere la Luna così come appare dalla Terra (…). Ma per gli effetti ottici che ha sulla Terra, la Luna rimarrà sempre per i poeti, e penso anche per l’uomo qualunque, la stessa Luna». Non è escluso che il colpo di grazia alla Luna dei poeti sia venuto da questa commemorazione del cinquantenario: ripetitiva, anzi ossessiva (3) in tv, nei settimanali, nei mensili, nei quotidiani. Persino Giacomino Leopardi, cantore massimo del nostro satellite «grazioso», ne avrebbe abbastanza delle insistenti testimonianze e rievocazioni. Povero Tito Stagno, chissà quante volte avrà stramaledetto quella nottata di cui fu incolpevole cronista televisivo dell’allunaggio, conduttore

di una delle più celebri dirette in bianco e nero! Altra storia quella che ci ha raccontato il regista Franco Brogi Taviani sulla Rai la scorsa settimana in 1969. L’Italia vista dalla Luna (5½), un «film di montaggio», l’ha definito il critico Aldo Grasso, giustamente entusiasta (lui che per nostra fortuna non è facile agli entusiasmi): parlano da sole le immagini e le voci, senza commenti. Soltanto la morte di Camilleri è riuscita per un paio di giorni a portar via la scena alla Luna: «Di tra i monti in ciel lo spicchio / della bianca luna nacque; / si vedeva in un sull’acque / il suo argento tremolar». È Umberto Saba, che con Leopardi e pochissimi altri (Dante, Ariosto…), basta a farci amare la Luna senza bisogno delle rievocazioni e di Tito Stagno. Rievocate, rievocate, qualcosa resterà. Siamo ipertecnologici e ipernostalgici: com’è possibile? La chiave è nella frase che ama ripetere un mio zio quando ripensa agli anni della sua giovinezza:


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