Cooperativa Migros Ticino
Società e Territorio Intervista al professor Justin Smith sul suo ultimo libro dedicato all’irrazionalità
Ambiente e Benessere Alla riscoperta della Val Bavona, fra miti, leggende e storie curiose
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXII 5 agosto 2019
Azione 32 Politica e Economia Il ciclone Johnson fra Brexit e crisi del Regno Unito
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di Nicola Mazzi pagina 39
Stefano Spinelli
L’impronta di Lili Hinstin
Cultura e Spettacoli Bernhard Schlink incanta i propri lettori con una raccolta di deliziosi racconti
Resistere al dragone di Peter Schiesser Stanno a protestare ancora a migliaia, decine di migliaia, a volte centinaia di migliaia, ad Hong Kong, otto settimane dopo la manifestazione che portò in strada un milione di persone, un abitante su sette, per contestare un progetto di legge che li avrebbe messi alla mercé della giustizia cinese, quella di Pechino, che giustizia non è, poiché alle dipendenze del potere politico. E dalle proteste nascono scontri violenti con la polizia, «assedi» al Consiglio legislativo – il parlamento della città-stato – e alla sede di rappresentanza del governo di Pechino, che nessuno per ora riesce a calmare. La Chief executive Carrie Lam, longa manus del governo cinese, ha rinunciato da ormai quasi un mese a quel controverso progetto di legge, dichiarandolo «defunto», ma ai manifestanti questo non basta: vogliono che sia ritirato formalmente, che vengano aperte inchieste sulle violenze perpetrate dalla polizia su manifestanti e passanti, e soprattutto che Carrie Lam se ne vada. In Asia non c’è nulla di peggio che perdere la faccia, Carrie Lam non se ne andrà perché lo chiede la strada, casomai ci penserà Pechino a lasciarla cadere e a
mettere al suo posto un altro fedelissimo. Ma anche la Cina non sa come comportarsi in questo lembo di terra su cui gravano le umiliazioni del passato (Hong Kong fu il bottino della guerra dell’oppio che gli inglesi scatenarono contro l’impero cinese nel 1842, e questa sconfitta ne suggellò il declino): deve procedere con cautela poiché è il crocevia della maggior parte degli scambi finanziari fra la Cina di Xi Jinping e il resto del mondo, Occidente in primis (vi hanno sede 1300 società straniere, è la quarta piazza finanziaria mondiale, l’ottavo esportatore per importanza al mondo), da qui proviene la maggior parte degli investimenti in Cina. Ma 22 anni dopo aver ammainato la bandiera britannica, Hong Kong sfugge ancora al controllo di Pechino, e questo ad un reggente come Xi Jinping, che fa del controllo totale sulla popolazione la sua priorità, non può piacere. Secondo gli accordi firmati a suo tempo da Margaret Thatcher e Deng Xiao Ping, Hong Kong tornava sì alla Cina, però avrebbe goduto per 50 anni, quindi fino al 2047, di uno statuto speciale, avrebbe mantenuto le sue peculiarità: un potere giudiziario indipendente, una stampa libera, il suo modello finanziario-economico aperto, le libertà individuali. A dire il vero, l’influenza dei cinesi della terra-
ferma si sente da tempo: controllano il potere politico e lentamente aumentano il controllo sulla popolazione, sequestrano e poi processano in Cina ed incarcerano chi dà troppo fastidio, come successo a diversi editori di libri considerati troppo critici. Evidentemente, le autorità di Pechino hanno pensato che fosse giunto il momento di dare un’ulteriore stretta alle libertà di Hong Kong, che si fosse ormai estinta la vena di proteste sorte nel 2014 con il «Movimento degli ombrelli» contro un accresciuto influsso politico di Pechino, e hanno spinto Carrie Lam ad approfittare di un semplice fatto di cronaca nera (un fatto di sangue compiuto a Taiwan da un cittadino di Hong Kong) per varare una legge sull’estradizione dei cittadini di Hong Kong che avrebbe permesso a Pechino di farsi consegnare qualsiasi cittadino politicamente scomodo, sulla base di accuse anche fantasiose (che poi i tribunali cinesi avrebbero di certo avallato). Invece – sorpresa! – i cittadini di Hong Kong hanno reagito. Perché sanno che in ballo c’è la libertà, l’indipendenza. Forse pensano che alla fine sarà una lotta contro i mulini a vento (il 2047 si avvicina e Xi Jinping ha fretta), o forse sperano che fino ad allora anche la Cina assomiglierà un po’ di più alla Hong Kong di oggi o di ieri.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 5 agosto 2019 • N. 32
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Società e Territorio Test genetici «fai da te» Le analisi del DNA offerte da società online sono in aumento anche in Svizzera, qual è la loro attendibilità?
Passeggiare tra le leggende In Valle Verzasca abbiamo percorso il Sentiero delle Leggende tra natura, storia, cultura e tanti giochi
Gli internamenti amministrativi La Commissione peritale indipendente di esperti consegnerà a settembre l’ultimo dei 10 volumi dedicati al vergognoso capitolo della storia svizzera
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La minaccia della irrazionalità
Intervista Justin Smith, professore di Storia
e filosofia della scienza all’Università di Parigi VII Denis Diderot, nel suo ultimo libro ripercorre la storia del «lato oscuro della ragione»
La specie umana non è razionale e guidata dal buonsenso. Negli anni più recenti, in particolare, siamo sprofondati in una fase di «grande irrazionalità, fervore, prepotenza, destabilizzazione e paura». A ben guardare, comunque, tra corsi e ricorsi storici, l’umanità è da sempre preda di stupidità e oscurantismo. La storia che ci viene insegnata a scuola, con i Greci che hanno inventato la Ragione, passando per l’epoca dei Lumi che ha consacrato la razionalità a valore supremo, in un crescendo di progresso senza interruzioni, è parziale. Con Irrationality (Irrazionalità), Justin Smith, professore di Storia e filosofia della scienza all’Università di Parigi VII Denis Diderot, ripercorre «il lato oscuro della ragione», come recita il sottotitolo del suo libro (per ora disponibile in inglese per Princeton University Press, nei prossimi mesi in arrivo in italiano). «Azione» lo ha raggiunto al telefono. Professore Smith, perché ha deciso di scrivere un libro sull’irrazionalità?
Sono uno storico della filosofia e ho un grande interesse per la storia delle idee, per gli usi e gli abusi della logica. Nel mio percorso di studioso mi sono occupato di come, nel pensiero antico, la conoscenza della logica fornisse gli strumenti per avere ragione sugli altri con la sottile arte del sofismo e di quello che veniva definito “spacciare menzogne”. A questi miei interessi si è sommato ciò che è cominciato ad accadere nel 2015, quando i media americani e internazionali hanno iniziato a parlare dell’emergere del populismo globale, culminato con l’elezione, l’anno successivo, di Donald Trump. Questo mi ha portato a estendere i miei studi sui limiti della logica alla politica e alla cultura, applicando la storia delle idee ai tempi di oggi. Che cosa intende per irrazionalità?
Non è semplice inserire l’irrazionalità in una definizione univoca perché può assumere diversi significati in base ai contesti. Possiamo partire da una descrizione generale di razionalità, intesa come il dedurre la giusta conclusione da un determinato insieme di riferimento. Con l’irrazionalità le persone sembrano arrivare alla giusta deduzione, usando le informazioni a disposizione in un modo che a livello superficiale è corretto, ma in realtà tralasciano alcune informazioni fondamentali per il ragionamento. Vorrei sottolineare che l’irrazionalità non è sempre negativa e infatti lo spiego nel mio libro: ogni ambito della nostra vita, individuale e sociale, ha degli aspetti irrazionali che non dobbiamo certo eliminare. Pensiamo a quando dormiamo e sogniamo, ad esempio, oppure a quando siamo innamorati, ubriachi, in situazioni di euforia collettiva come allo stadio o a un concerto. Qual è il problema dell’essere irrazionali?
Se non fossimo irrazionali non avremmo la fantasia e tutto quello che ne deriva, dai romanzi, ai film a tutta la produzione culturale che conosciamo. Il problema vero è come riusciamo a incanalare l’irrazionalità nella realtà. Penso che avessero ragione T.W. Adorno e Max Horkheimer, filosofi del secolo scorso, quando sostenevano che l’Illuminismo aveva una tendenza innata a degenerare nel mito e che c’è una propensione della ragione verso l’irragionevolezza, esacerbata dagli sforzi eccessivamente ambiziosi per invertire il processo. Nell’epoca in cui viviamo l’irrazionalità individuale, il pensare in termini mitici al proprio posto nel mondo, come si fa quando si è bambini, è passata dal livello privato a quello pubblico e ne vediamo i risvolti ovunque, in particolare negli Stati Uniti.
Lei affronta le conseguenze dell’irrazionalità in politica, anche per quanto riguarda i social media.
Marka
Stefania Prandi
Abbiamo visto come nelle scorse elezioni americane Donald Trump sia riuscito a vincere anche grazie all’uso dei social media. Il fatto che Twitter e Facebook siano il principale campo di battaglia della politica di oggi è qualcosa di interessante e allo stesso tempo terrificante. Si tratta di una modalità completamente nuova perché le regole dei social media sono diverse da quelle usate dalla politica negli ultimi duecentocinquanta anni. Sono regole per nulla razionali: adesso per essere ascoltati bisogna dire le cose nel modo più emotivo ed estremo, più punti esclamativi si mettono nei tweet più è probabile diventare virali. I social media sono, in ultima analisi, impostati per massimizzare i conflitti e la dimensione spirituale dell’esistenza umana e, come ho cercato di dimo-
strare nel mio libro, hanno precipitato la politica mondiale nella decadenza totale. Per chi si occupa di filosofia come me, è sorprendente anche pensare alle visioni di Leibniz che nel 1600 immaginava un futuro nel quale ci sarebbero state delle macchine, delle protesi di intelligenza artificiale potremmo dire, che ci avrebbero aiutati a elaborare le nostre argomentazioni in un modo che ci avrebbe permesso di capire chi avesse ragione e chi torto. Questo sogno leibniziano è sembrato verosimile fino al 2014, con la Primavera araba, quando Twitter sembrava ancora un motore della democrazia. Poi però quelle spinte sono finite male e ora siamo davanti a un nuovo scenario: non resta che constatare che internet sta peggiorando i nostri problemi.
Perché è utile approcciarsi all’irrazionalità da una prospettiva filosofica?
Qualcuno mi ha criticato perché non propongo soluzioni concrete come fanno i libri di auto-aiuto, ma questo non può essere l’unico piano possibile di azione sulla realtà che abbiamo. Voglio dire, molti filosofi del passato hanno cercato di dirci come vivere meglio quando indagavano la natura dell’universo, le cause finali, le leggi della fisica, e così via. Attraverso la conoscenza della verità filosofica, quella che oggi chiamiamo la verità scientifica, si è meno tormentati dalle superstizioni e quindi si reagisce meglio alle delusioni. Questo è il tipo di auto-aiuto che io cerco di fornire, non regole su come essere felici, ma un invito a pensare più a fondo alle questioni sostanziali.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 5 agosto 2019 • N. 32
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Idee e acquisti per la settimana
Bontà e freschezza a tavola
Attualità Il büscion è il tradizionale formaggino fresco di capra che accontenta i gusti di tutti
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La mia treccia quotidiana
Attualità La Treccia Leventina è ora ottenibile tutti i giorni
nel tuo supermercato Migros
Un saporito formaggino büscion fresco è proprio quel ci vuole durante la bella stagione, non credete? La specialità è molto gettonata da grandi e piccoli commensali: da sola, condita a piacere con un filo di olio, sale e pepe; oppure, per variare il piacere, può essere anche ulteriormente raffinata con le erbette aromatiche più disparate. A produrre per Migros Ticino questa delizia della nostra tradizione è Enrico «Chico» Rezzonico, titolare dell’azienda agricola Fattoria del Faggio di Sonvico. «La nostra azienda è specializzata nell’allevamento di capre dal manto bianco Saanen: una razza originaria della Svizzera che figura tra le specie di capra da latte più grandi e più produttive», spiega Rezzonico. Con il buon latte delle 120 capre allevate nel rispetto delle loro esigenze, egli produce alcuni squisiti formaggi, tra cui appunto anche i tipici büscion, una specialità molto diffusa nella nostra regione: «Questi formaggini freschi 100% capra sono molto apprezzati soprattutto in estate,
quando si ha voglia di qualcosa di fresco, accompagnati da una ricca insalata e da salumi del nostro territorio». Per la loro produzione il casaro luganese utilizza latte intero di capra. Una volta sottoposto a termizzazione, al latte vengono aggiunti fermenti lattici e caglio. Dopo 24 ore di riposo – periodo che favorisce la lenta coagulazione lattica – la cagliata viene estratta dal siero e lasciata sgocciolare per un altro giorno intero. A questo punto, prima di essere trasformato nella classica forma cilindrica e confezionato, l’impasto subisce una leggera salatura. Ma come descriverebbe «Chico» Rezzonico i suoi büscion? «I formaggini si caratterizzano per il loro colore bianco avorio, la pasta cremosa e morbida, ben spalmabile, mentre il sapore caprino è particolarmente delicato, fragrante, con leggere note acidule e una punta di salato». A questo punto non vi resta che approfittare della nostra offerta speciale di questa settimana per farne una bella scorta casalinga.
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Flavia Leuenberger Ceppi
burro e marmellata oppure per preparare gustosissimi sandwich, tostata e spalmata di formaggio fresco, farcita con del salmone affumicato, prosciutto crudo, tartare di carne, verdure grigliate... non c’è praticamente limite alla fantasia in fatto di companatici ideali da accostare alla treccia ricca di burro. A proposito: per la gioia di tutti gli estimatori della Treccia Leventina, ora la specialità è sfornata per Migros Ticino ogni giorno della settimana, non più solo il venerdì e sabato. In questo modo è come se fosse sempre domenica.
La treccia è da sempre sinonimo di abilità artigianale. Non esiste infatti macchina che possa sostituire il bravo panettiere quando si tratta di intrecciare questa delizia della tradizione rossocrociata. Per ottenere una treccia perfetta, gioca un ruolo importante anche il perfetto equilibrio tra contenuto di burro e composizione degli altri ingredienti quali farina, latte e uova. Nel
caso della Treccia Leventina di Migros Ticino, accanto a cereali di qualità TerraSuisse e altri componenti indigeni, il contenuto di buon burro svizzero è di ben il 17 percento, addirittura oltre il doppio rispetto a una treccia convenzionale. Queste particolarità rendono questa treccia assolutamente irresistibile: grazie alla sua morbidezza è perfetta per la classica colazione treccia,
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Il pardo non è soltanto il simbolo per eccellenza del sempre attesissimo Locarno Film Festival – in programma dal 7 al 17 agosto nella città affacciata sul Verbano – ma caratterizza anche una specialità di Migros Ticino apprezzata dai consumatori della nostra regione: il pane del leopardo. Questo pane aromatico dalla crosta «maculata» come il manto dell’omonimo felino è preparato con farina di frumento IP-Suisse. Per ottenere il particolare effetto visivo, prima della cottura la superficie viene spennellata
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con una massa a base di farina di riso e acqua. Siccome il riso è esente da glutine, durante la cottura non si espande e provoca le tipiche screpolature sulla superficie. Ma se la crosta risulta super croccante, l’interno del pane è invece particolarmente morbido. Date le sue caratteristiche, il pane leopardo si addice ad accompagnare sia pietanze dolci che salate. Infine, per sottolineare l’affinità con il festival cinematografico locarnese, fino al 19 agosto vi proponiamo il pane leopardo ad un prezzo particolarmente vantaggioso.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 5 agosto 2019 • N. 32
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Società e Territorio
Esami genetici via Internet
DNA Le indagini genetiche «fai da te» sono in costante aumento in Svizzera. Le autorità mettono in guardia
su attendibilità e protezione della privacy Romina Borla C’è chi rintraccia un figlio o una sorella grazie ad un test genetico ordinato online. «Una mia amica ha scoperto che suo padre era un soldato americano, passato in Europa durante la guerra. Altri raccolgono informazioni meno eclatanti ma sempre interessanti. Io morivo dalla curiosità e mi sono buttato». A parlare delle nuove frontiere della genealogia è un volto noto del cantone, Sergio Savoia, e lo fa con entusiasmo. «Volevo conoscere le mie discendenze etniche e scovare parenti sconosciuti, con tutti i limiti dell’esercizio». Ha scelto Myheritage, una delle tante società presenti su un mercato in crescita in Svizzera (tra le più popolari anche 23andMe, Ancestry e Igenea), che possiede un database con milioni di profili genetici, alberi genealogici e documenti storici di vario genere. «È stato facile: ho ordinato online il kit base che costa un’ottantina di franchi (ma ci sono test da 1500 franchi, ndr.). È arrivato per posta. Ho usato il tampone per prelevare un campione di DNA all’interno della bocca, l’ho infilato in una fialetta e spedito ad un laboratorio texano». Dopo qualche settimana è arrivato il verdetto via Web. «Dall’analisi risulta che nei miei geni c’è molta Europa meridionale, oltre il 60%». Secondo Myheritage Savoia è soprattutto greco e sardo. Nel miscuglio che gli ha dato vita c’è però anche un po’ di DNA degli ebrei dell’Europa centro-orientale (aschenaziti) e un coté asiatico (16,5%). Che dire poi del 10,8% ebreo sefardita nordafricano e del 3,4% mediorientale? L’intervistato sottolinea come siano dati da interpretare: «Bisogna conoscere un minimo di genetica e di storia per capire. I miei genitori, ad esempio, provengono dal Sud Italia: nell’antichità i greci colonizzarono il Meridione mentre geni sardi erano presenti in tutta Europa già in epoca preistorica». Ma non è questo il punto. «L’aspetto in-
teressante di esami del genere è il loro essere un antidoto al razzismo», osserva Savoia. «Mostrano infatti come ogni persona sia il risultato di un miscuglio incredibile di popolazioni che si sono incontrate e separate nel corso della storia. Popoli che derivano da un unico gruppo di individui, mossosi dall’Africa nel mondo. Tutte quelle esistenze, i viaggi, gli incontri, gli scontri e le separazioni hanno lasciato tracce dentro di noi. È meraviglioso». Un altro dato messo in evidenza dal test è la corrispondenza genetica: il sistema trova cioè i profili che condividono parte di DNA con l’individuo analizzato. «Così mi sono assicurato che i miei genitori lo sono per davvero: li ho obbligati a fare il test (ride, ndr.). E ho rintracciato una cugina di terzo grado che non sapevo di avere. Ha 82 anni e vive nel New Jersey. Abbiamo iniziato un’emozionante conversazione online che mi ha riportato anche al paese di origine della mia famiglia, nel Sud Italia. Riscoprire legami che si erano persi nel tempo e nello spazio è stato un vero dono per entrambi». «Nel nostro codice genetico è inserita una serie di informazioni interessanti anche al di fuori dell’ambito medico», spiega il medico cantonale Giorgio Merlani. «Ad esempio nel DNA si trovano tracce delle origini della specie umana. Studiandole, si può tentare di ricostruire discendenze e tracciare le mappature delle migrazioni dei nostri antenati». Alcuni test genetici in commercio, continua, poggiano dunque su basi scientifiche ma sul mercato si trovano anche prodotti che suscitano perplessità. È d’accordo Giovan Maria Zanini, farmacista cantonale, che nel 2015 ha partecipato ad un’analisi del mercato commissionata dall’Ufficio federale della sanità pubblica (UFSP) nel contesto della revisione della Legge federale sugli esami genetici sull’essere umano (leggi sotto). «Esiste addirittura un test per selezionare il partner perché l’attra-
Il kit per il test del DNA arriva per posta. (Marka)
zione fisica e tutto quello che chiamiamo amore sarebbe solo una questione di geni. Altri esami genetici calcolano la probabilità di una gravidanza di successo e la predisposizione alla longevità. Per non parlare del “test del guerriero”, che si propone di individuare le persone più portate al comando, o il bizzarro esame sulla consistenza del cerume». «Non dimentichiamoci che anche test genetici a scopo medico, più scientifici, hanno una capacità predittiva relativa», sottolinea dal canto suo Merlani. «Sappiamo, ad esempio, che alterazioni di certi geni predispongono il soggetto ad alcune malattie o, al contrario, lo proteggono. Però ci muoviamo nel campo delle probabilità. Non si tratta di dati assoluti». L’essere
umano, dice l’esperto, non è il semplice risultato dei suoi geni. Durante la sua esistenza entrano in gioco variabili che lo condizionano e determinano quanto lunga sarà la sua vita, se avrà figli, ecc. (ambiente, alimentazione, movimento, uso di sostanze). «Il risultato? Persone geneticamente predisposte al cancro al seno potranno anche non svilupparlo, mentre donne che non mostrano la particolare mutazione del gene si ammaleranno». Un altro aspetto da considerare è la serietà del laboratorio e la qualità delle analisi. «Non sempre i prelievi vengono effettuati in maniera corretta», dice Merlani. «I campioni talvolta sono contaminati, vengono scambiati o analizzati in maniera poco seria». Infine le indagini genetiche «fai da te» suscitano legittimi interrogativi
La revisione della LEGU Intanto la Legge federale sugli esami genetici sull’essere umano (LEGU), in vigore dal 1. aprile 2007, ha mostrato tutti i suoi limiti. Ma qualcosa si muove. La norma – spiega il farmacista cantonale Giovan Maria Zanini – disciplina in particolare le condizioni di esecuzione dei test genetici in ambito medico e l’allestimento di profili del DNA volti a determinare la filiazione o l’identità di una persona. Però negli ultimi anni lo scenario è cambiato. Le procedure d’esame sono diventate sensibilmente più veloci, economiche ed affidabili. Inoltre, come abbiamo raccontato, oggi sono acquistabili soprattutto sul Web innumerevoli esami non contemplati dalla LEGU. Così è cominciata la discussione che ha portato alla revisione della legge, adottata all’unanimità dal Parlamento nel giugno 2018 (l’entrata in vigore
della stessa è prevista per il 2021, sono attualmente al vaglio le ordinanze). Chiediamo al nostro interlocutore cosa cambierà in futuro. «Il principio alla base della rinnovata norma – ci spiega Zanini – è che anche i dati genetici al di fuori dell’ambito medico possono contenere informazioni sensibili, che richiedono una protezione particolare per evitare gli abusi. Il disegno di legge fa dunque una distinzione tra due settori, a cui si applicano requisiti distinti. Gli esami genetici volti a determinare caratteristiche degne di particolare protezione potranno essere prescritti unicamente da professionisti della salute (il medico o il farmacista che garantiscono la loro consulenza prima, durante e dopo il test). Per ridurre al minimo gli abusi, ad esempio sui bambini, il prelievo di campioni dovrà avvenire in presenza di chi ha
prescritto l’esame. Come nell’ambito medico, i laboratori che eseguiranno questi tipi di analisi saranno soggetti ad autorizzazione». Soltanto gli esami per sondare proprietà relativamente innocue, come la consistenza del cerume o la struttura dei capelli, potranno essere offerti direttamente ai clienti, anche attraverso il Web. I laboratori che eseguiranno tali test non saranno soggetti ad autorizzazione. Non avendo nessun nesso con la salute, questi esami non potranno essere eseguiti su persone incapaci di discernimento. «Fornitori e privati che non rispetteranno le regole si renderanno punibili e potranno essere perseguite», evidenzia l’esperto. «Problematica la situazione di aziende estere operanti sul territorio della Confederazione che offrono una varietà di esami online, tra i quali figurano anche quelli per determina-
re la predisposizione a contrarre una malattia o per eseguire test di paternità segreti. In questo ambito non è possibile imporre delle disposizioni nazionali. L’unica via praticabile consiste nel perseguire in Svizzera le persone che commissionano esami genetici abusivi presso società estere, per esempio su terzi senza disporre del consenso previsto per legge o su bambini». Ad entrambi i settori (quindi test soggetti e non soggetti all’autorizzazione) – continua l’intervistato – si applica quanto segue: possono ricorrere ad offerte di questo tipo solo individui capaci di discernimento (adolescenti e adulti). Alla persona che si sottopone all’esame possono essere comunicate soltanto le informazioni essenziali, mirate allo scopo del test. Né il datore di lavoro né l’assicuratore malattia possono esigere e utilizzare dati genetici. / RB
in termini di protezione dei dati personali. In Svizzera – indica l’esperto – esistono norme restrittive sulla privacy ma molti diffondono con nonchalance i propri dati in Rete e inviano i loro codici genetici ad aziende senza sapere se queste conserveranno le informazioni e che uso ne faranno. Pensiamo a cosa potrebbe succedere se i dati finissero nelle mani sbagliate…». Nonostante tutto però, riprende Zanini, i test del DNA che non rientrano nell’ambito medico hanno successo. «Il numero di esami genetici venduti dai maggiori distributori svizzeri (Progenom, Soledor e Igenea) – affermava una ricerca commissionata dall’UFSP nel 2015 – è nettamente aumentato dalla loro immissione sul mercato (…). Il trend non sembra essere giunto al termine». Il canale di distribuzione principale di questo tipo di prodotti era e rimane Internet, specifica l’intervistato. Studi medici e farmacie li propongono di rado ai clienti, preferendo concentrarsi su esami dai risvolti medici (celiachia, intolleranza al lattosio) e sui test di paternità. «In questi contesti l’offerta di test, a mio giudizio insostenibili dal punto di vista scientifico ed etico, sembra limitata». Più intraprendenti su questo fronte i centri fitness e d’estetica. «Ce ne sono diversi in Ticino che propongono esami del DNA per definire qual è l’alimentazione o l’attività fisica più adatta (Soledor, Delphigene, G&Life, ecc.). Senza dimenticare i test che forniscono indicazioni sulla tendenza all’invecchiamento precoce, sulla predisposizione alla calvizie, ecc. I costi delle analisi in questione variano dai 200 ai 500 franchi». Il consiglio, in questi casi, è di non crearsi troppe aspettative sull’attendibilità dei risultati. Come detto, l’essere umano non è una mera somma dei suoi geni e le ditte in questione sono poco filantrope e tanto orientate ai guadagni. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 5 agosto 2019 • N. 32
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Società e Territorio
Lungo il Sentiero delle Leggende
Valle Verzasca Un circuito nella natura attorno a Gerra tra natura, storia e cultura, senza dimenticare i giochi
Elia Stampanoni La Valle Verzasca è una meta ambita sia dai turisti alla ricerca dell’acqua o del sole, sia dagli escursionisti che sulle montagne trovano sentieri da percorrere e panorami da ammirare. Il fondovalle, con i villaggi, il suo fiume, le sue pozze e i suoi ponti, è pure attraversato da un’interessante rete di vie pedestri o ciclabili. In questo contesto s’inserisce il Sentiero delle leggende di Gerra Verzasca, inaugurato nella primavera del 2019 e promosso in seno all’iniziativa «Paesaggio Verzasca: 1 comune, 1 progetto» dalla Fondazione Verzasca, l’agenzia di sviluppo territoriale che promuove e concretizza dal 2007 progetti di valenza regionale. Si tratta di un percorso circolare adatto a tutti e che si può effettuare in un paio d’ore (soste comprese) partendo dalla fermata «Al ponte» di Gerra Verzasca. A condurre i visitatori c’è una volpe, presente sia sui pannelli esplicativi collocati nelle otto tappe, sia sui cartelli indicatori. Oltre ad apprezzare semplicemente la natura, l’ambiente e il paesaggio, la passeggiata tocca dei punti d’interesse segnalati, aree di sosta attrezzate per un pic-nic, giochi all’aperto per grandi o bambini e scorci suggestivi. Inoltre, come suggerisce il nome del sentiero, le leggende sono il filo conduttore e accompagnano la gita tra prati, boschi e borghi dell’alta valle. Le storie narrano di animali parlanti, streghe, Crüsc o personaggi che hanno animato i boschi, i monti, i pascoli, gli alpeggi, i nuclei, il fiume o le caverne
della Valle Verzasca. Come leggiamo sul sito internet «le leggende sono l’espressione antica e profonda che dà nome ai timori, alle sfide e all’ingegnosità dell’essere umano di fronte alle difficoltà della vita e della natura». Una narrazione per ogni tappa è sempre scritta sui pannelli (in italiano e tedesco), mentre sia sulla pagina web del sentiero sia scansionando il «codice QR» riportato sui cartelli si possono ascoltare tutte le storie, qui anche in francese. A completare l’offerta ci sono inoltre delle sculture che ogni anno si rinnovano. Dopo le informazioni introduttive, il sentiero fa una sosta nei pressi della recuperata selva castanile in località Ciòss, «un bosco pieno di vita». Qui dal semplice osservare e capire quanto fosse importante una volta il bosco come fonte di alimenti, legname o foglie per strame, si passa al divertimento con «Boccia al Bosco» o «Bobosco», un gioco geniale dove si possono lasciar correre delle bocce di legno lungo dei percorsi creati con materiali tipici della foresta e sfruttando la morfologia del luogo, con il suo pendio ricco di sassi e massi. Sempre presso la selva castanile ci sono imponenti alberi monumentali e grandi rocce su cui una volta si coltivavano dei piccoli appezzamenti di terra, gli orti pensili. La sommità più o meno pianeggiante di alcuni massi, veniva infatti ricoperta con del terriccio e, con il sostegno di muretti in sasso, permetteva di coltivare patate, segale o alcuni ortaggi al riparo da capre e animali selvatici. La leggenda abbinata a questa sosta è quella dei Crüsc, dei folletti «brutti e cattivi» che vivevano nelle ca-
La frazione di Cà Nòv . (Elia Stampanoni)
verne sui monti di Mergoscia: di notte, si racconta, entravano nelle case degli abitanti e rubavano latte, formaggio e tutto quello che trovavano. Il sentiero prosegue verso sud, raggiungendo presto la frazione di Cà Nòv, costituita da un pittoresco agglomerato di edifici, la maggior parte risalente al Seicento, e descritto come «un ambiente vivo e rumoroso», dove una volta c’erano «galline, polli, conigli, gatti e cani che animavano il nucleo con i loro versi, mentre bambini e adulti erano impegnati nelle attività quotidiane o a volte in qualche antico gioco». Vagando tra mura e recinti rigorosamente in sasso si notano le caratteristiche scale ester-
ne, originariamente senza parapetto, che conducono ai locali superiori. Nel nucleo s’incontra una generosa fontana del 1895 per dissetarsi, mentre il forno del villaggio viene ancora utilizzato in eventi particolari. Le leggende abbinate parlano di un personaggio bizzarro chiamato l’uomo della selva e di un cacciatore di Sonogno che conosceva i suoi boschi alla perfezione… Il cammino continua accompagnato dai rumori della natura sul lato destro della Valle Verzasca, giungendo abbastanza velocemente alla postazione con i pozzi di macerazione della canapa, abbinati alla filastrocca «Sono andata a Gerra» e alla leggenda «L’oro in un laghetto
della Verzasca». Anche in Verzasca l’economia rurale era basata molto sull’autosussistenza, i cereali, le castagne, il latte o i tessuti venivano prodotti o realizzati in casa. La canapa, con le sue fibre robuste, rientra tra queste materie prime e serviva per fabbricare indumenti o tessili, in alternativa alla lana delle pecore. Lungo il sentiero si possono cercare e trovare alcuni dei pozzi, che erano distribuiti un po’ ovunque nei pressi di un riale, e dove le fibre venivano lasciate a macerare nell’acqua per una ventina di giorni. Il cammino attraversa in seguito il bosco di abeti piantato negli anni 196575 per proteggere la strada cantonale da valanghe o frane e dove si può seguire una leggenda di Lavertezzo e il suo alpe di Cornöv. Alla postazione seguente i visitatori sono quindi invitati ad ascoltare i rumori del bosco e la storia del «serpente verde», per arrivare in breve tempo al punto più basso del percorso. Da qui, dopo la visita alla Cappella di Predéll e la storia dell’oratorio della Fraccia, si risale lentamente attraversando prati e campi in direzione del punto di partenza. Sulla via del ritorno c’è ancora la possibilità di passare da Prato Maggiore, i cui terreni erano gestiti da almeno una ventina di famiglie che falciavano l’erba e coltivavano cereali, canapa o altri vegetali. Anche le ultime storie proposte, «L’anello stregato» e «A caccia di grilli», contribuiscono a trascorrere una bella giornata nell’ambiente naturale della Verzasca. Informazioni
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 5 agosto 2019 • N. 32
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Società e Territorio
Una pagina cupa della nostra storia
Internamenti amministrativi Il prossimo 2 settembre la Commissione peritale indipendente di esperti consegnerà
l’ultimo dei 10 volumi frutto delle sue ricerche: si stima che furono circa 60mila le persone vittime dei provvedimenti Roberto Porta Senza un processo, senza un avvocato che si occupasse della loro difesa e senza un verdetto emesso da un tribunale. Può essere riassunto così il vergognoso capitolo dei cosiddetti internamenti amministrativi. Privazioni della libertà che dall’inizio del secolo scorso e fino al 1981 sconvolsero nel nostro Paese il destino di circa 60mila persone, così almeno stima la Commissione peritale indipendente che dal 2014 ha lavorato per far luce su questa pagina della storia recente svizzera. La legge in materia era stata introdotta per «ripulire» la società, ed è proprio il caso di dire così, dalle persone che non rispettavano le norme sociali e morali di quel momento storico e per rieducarle attraverso il lavoro forzato.
«Si procedeva all’internamento senza nessun procedimento giudiziario e senza che queste persone avessero commesso un reato vero e proprio» «In generale gli internamenti amministrativi sono stati utilizzati per dare una risposta a problemi sociali e morali, come ad esempio la povertà, l’alcolismo, la prostituzione, la mendicità e il vagabondaggio – ricorda Vanessa Bignasca, storica e collaboratrice scientifica della Commissione di esperti – Si tratta di categorie sociali che erano già nel mirino di alcune leggi dell’Ottocento e che nel Novecento saranno poi oggetto di specifiche normative a livello federale e cantonale. Si procedeva all’internamento senza nessun procedimento giudiziario e senza che queste persone avessero commesso un reato vero e proprio». Nel marzo scorso la Commissione di storici ha pubblicato il suo primo volume, con i risultati delle proprie ricerche. Da allora ne sono stati pubblicati altri otto, che affrontano tematiche
Il dormitorio dell’Istituto femminile cattolico di Richterswil, 1944. (SozArch Ar SGG, Schweizerische Gemeinnützige Gesellschaft)
specifiche legate a questo fenomeno. «Una pagina cupa della storia svizzera», come ha fatto notare il presidente della Commissione, Markus Notter. Ma come avvenivano questi internamenti? E chi erano le persone, i profili che più di altri rischiavano di perdere la loro libertà? «Facciamo un esempio concreto – ci dice ancora Vanessa Bignasca – Prendiamo il caso di un uomo alcolizzato che fa schiamazzi sulla pubblica via, che magari commette violenze contro la moglie e i figli e che non può più garantire un apporto finanziario alla propria famiglia. Una persona di questo tipo rischiava di certo una misura coercitiva in un istituto. Con la legge sull’internamento era possibile farlo in modo rapido e senza le formalità di un processo giudiziario. Le autorità dichiaravano che l’intento di questi provvedimenti era rieducativo, affinché venissero rispettate le norme morali dell’epoca e per favorire un ritorno al lavoro della persona interessata».
Si trattava di un provvedimento amministrativo, deciso da un funzionario e con il nullaosta definitivo, in Ticino, del consigliere di Stato direttore dell’allora Dipartimento degli interni. «Occorreva anche stabilirne la durata, che poteva anche essere a tempo indeterminato. In Ticino solitamente si andava da un minimo di sei mesi ad un massimo di due anni, prorogabili». Una pratica che è durata per diversi decenni e che coinvolgeva in modo differenziato uomini, donne e giovani, destinati a istituti e lavori diversi tra loro a seconda appunto del sesso e dell’età. «Nel tempo le ragioni di un internamento sono cambiate – fa notare ancora la storica Vanessa Bignasca – Per gli uomini prevalevano motivi di questo tipo: il discostarsi dal modello sociale ideale, non riuscire a garantire il sostentamento della famiglia, il consumo di alcol, l’assenza di una dimora e di un lavoro fissi. Per le donne invece la causa principale era legata principal-
mente a una sessualità al di fuori della sfera matrimoniale, a gravidanze illegittime e al fatto di non essere considerata in grado di sapersi occupare della famiglia. In altri termini si sanzionava questo tipo di stili di vita». Dopo il 1981 le autorità impiegarono ancora parecchio tempo prima di finalmente affrontare questo capitolo della nostra storia e adottare delle misure per poter almeno in parte riparare il danno e le ingiustizie commesse. Solo nel 2010 la Consigliera federale Eveline Widmer-Schlumpf porse le scuse ufficiali della Confederazione, a cui fecero seguito nel 2013 quelle di Simonetta Sommaruga. Oltre ad avere creato la Commissione di esperti, il Consiglio federale ha anche istituito un fondo dotato di 300 milioni di franchi per risarcire le persone ancora in vita e vittime di queste pratiche. L’Ufficio federale di giustizia ha ricevuto globalmente 9018 richieste di indennizzo, che sono state quasi tutti accet-
tate. Ad ogni singola persona spetta un massimo di 25mila franchi. In meno di 90 casi questa richiesta è stata rifiutata. Pratiche e persone che hanno coinvolto il canton Ticino, come ci ricorda Cristiana Finzi, Delegata per l’aiuto alle vittime di reati. «Le richieste per il contributo di solidarietà pervenute dal Ticino sono state 188. Le vittime devono testimoniare che hanno subito un internamento e che la loro integrità fisica, psichica o sessuale come pure il loro sviluppo intellettivo sono stati lesi in modo grave», sottolinea la signora Finzi. «In Ticino erano davvero parecchi gli istituti utilizzati per questi internamenti – aggiunge la storica Vanessa Bignasca – Per gli adulti c’era ad esempio la casa per intemperanti La Valletta di Mendrisio, oltre ad altri reparti, anche per le donne, presso l’allora Ospedale neuro-psichiatrico. C’era poi l’Istituto Santa Maria di Pollegio, dove venivano destinati i ragazzi adolescenti. E in più le autorità disponevano di una vasta schiera di altri istituti, anche religiosi, per i ragazzi più piccoli in regime di collocamento extra-famigliare. A volte capitava che il padre o entrambi i genitori venissero internati e allora, non di rado, si prelevavano anche i bambini. Anche in questo caso senza l’intervento di un giudice. Molte persone furono internate più volte nel corso della loro vita. È molto difficile stabilire delle cifre esatte, possiamo dire, per farci un’idea, che verso la fine degli anni 50 del secolo scorso le persone internate in Ticino erano già state oltre un migliaio». Il prossimo 2 settembre vi sarà la consegna dell’ultimo dei 10 volumi frutto delle ricerche della Commissione indipendente di esperti. Si tratta di un riassunto di tutte le nuove pubblicazioni a cui sono state aggiunte diverse testimonianze scritte dalle persone internate. La Commissione presenterà pure una serie di proprie raccomandazioni all’indirizzo del Consiglio federale, anche per evitare il rischio di dimenticare e per poter mantenere questo tema al centro dei dibattiti. Essenziale in questo senso sarà la scuola e la sensibilizzazione delle nuove generazioni. Annuncio pubblicitario
Fare la cosa giusta
Quando la povertà mostra il suo volto Per saperne di più su Lilian: farelacosagiusta.caritas.ch
Lilian Ariokot (24 anni), contadina in Uganda, supera la fame
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Idee e acquisti per la settimana
Veloce, buono ed economico Durante la settimana Bastian Lustenberger di Stallikon (ZH) ama mangiare i tortelloni di carne. «È pratico avere degli alimenti che possono essere preparati in tutta velocità, soprattutto quando entrambi i genitori lavorano fuori casa», ci dice Lustenberger. Per lui e per la sua compagna Jasmin Bodmer è importante che ci sia anche qualcosa di fresco, per esempio un’insalata. I loro due figli, Laila (4) e Lio (5), partecipano con piacere alla preparazione dei pasti. I tortelloni li preferiscono con la salsa di pomodoro e per Lio è sempre prevista una porzione extra di formaggio grattugiato.
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Idee e acquisti per la settimana
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Società e Territorio Rubriche
Lo specchio dei tempi di Franco Zambelloni La fiaba e la vita Era abbastanza comune, fino a non molto tempo fa, che un genitore raccontasse o leggesse una fiaba al figlio che stava per addormentarsi: il bambino scivolava nel sonno circondato da fate, gnomi, lupi mannari sconfitti, gustava il trionfo del Bene sul Male. Sognava. Credo che oggi anche questo accompagnamento al sonno infantile non si usi più: mi sembra più probabile che i genitori dicano al figlio: «Adesso guardi i cartoni animati, poi vai a nanna.» Anche se le storie illustrate nei cartoni animati si ispirano alle fiabe di un tempo e spesso ne riprendono le trame, resto convinto che il racconto udito dalla voce del genitore avesse effetti più profondi. Il bambino che ascolta la fiaba ogni tanto interrompe, fa domande; gli si può spiegare che non sempre bisogna fidarsi delle apparenze, di chi non si conosce, che il lupo cattivo o la strega possono celarsi anche dietro
un sorriso benevolo; insomma, la fiaba costituisce un percorso educativo. Un’antica fiaba tradizionale degli Indiani d’America racconta di un indiano che, camminando nella foresta, trovò un uovo d’aquila. Pensando che fosse un uovo di gallina selvatica, lo depose in un nido di galline. Così l’uccellino venne al mondo e crebbe circondato da galline e, naturalmente, apprese da loro: zampettava, beccava, chiocciava come una gallina. Poi, un giorno di primavera, guardando in alto vide un uccello grandissimo che volteggiava nel cielo azzurro muovendo le ali con leggera eleganza. Stupito, ammirato, l’uccellino chiese alle galline che uccello fosse quello, così bello. Gli spiegarono che era un’aquila, e il piccolo cominciò a fantasticare: come sarebbe stato bello poter volare così in alto, con ali così grandi, con così tanta grazia! Ma per lui era solo un sogno: poiché pensava che mai avrebbe potuto
essere un’aquila, dimenticò presto quel sogno e visse tutta la vita convinto di essere una gallina selvatica. Come tutte le favole anche questa è istruttiva – ma lo è, in questo caso, non tanto per i bambini, quanto per gli adulti educatori. Sappiamo bene che l’ambiente educativo può essere determinante per la crescita dell’individuo e per la formazione della personalità; negli ultimi decenni ha ripreso vigore anche la tesi dei tratti innati, congeniti, del carattere, ma al momento attuale mi pare si sia raggiunto un ragionevole compromesso: parte del carattere è ereditario, parte acquisito nelle relazioni sociali. Ci sono bambini che nascono con tendenze più aggressive, altri tendenzialmente più miti, alcuni con maggiori e altri con minori predisposizioni all’empatia e all’altruismo; ma poi l’educazione può rafforzare o indebolire i tratti caratteristici. In ogni caso, più si avanza nella vita, più i tratti
del carattere si fissano e diventano stabili; e allora può avere un fondamento ragionevole la sentenza che Eraclito formulava nel VI secolo a.C.: «Il carattere di un uomo è il suo destino.» Ecco perché, quando ancora mi capita di sentire qualche sostenitore dell’educazione permissiva che ritiene che al ragazzino tutto debba essere concesso, penso che un simile «educatore» non voglia bene al bambino: ne sta tracciando il destino – un destino probabilmente infelice. Sono passati decenni da quando dilagava la moda della pedagogia permissiva o antiautoritaria, eppure ci sono ancora educatori che sostengono che il bambino deve «crescere libero», imparare da se stesso; non escluderei, però, che questo permissivismo sia sostenuto non tanto da una convinzione pedagogica, quanto, piuttosto, dall’intento di scaricarsi della faticosa responsabilità di educare. Così pensava, già decenni or sono, il
sociologo Franco Ferrarotti: «Il timore di apparire moralisti ha fatto pesare un’ipoteca paralizzante sui responsabili dei processi educativi, a cominciare dai genitori che hanno spesso scelto il silenzio per la paura di non essere sufficientemente ‘di mente aperta’ e che hanno, più o meno surrettiziamente, delegato la loro vocazione educativa ai mezzi di comunicazione di massa.» Magari, libero di fare tutto quel che vuole, il ragazzino che cresce da bulletto arrogante e prepotente può anche godere di un’infanzia piacevole; può sognarsi come un’aquila in un allevamento di galline. Ma quando la vita avrà fatto il suo corso il ragazzo dovrà smettere di vivere in sogno e dovrà calarsi nella realtà: e allora è probabile che si riconosca come un pulcino, debole e inetto. Forse, se da piccolo gli avessero raccontato qualche fiaba, quell’antica saggezza l’avrebbe aiutato a crescere.
incontro una ragazza con il suo husky espansivo di nome Pensacola. Ora il sentiero sale tra i Larix decidua che sembrano prevalere sui Pinus cembra, le due conifere che si spartiscono qui le foreste. La fatica libera endorfine, provocando una lieve beatitudine. Un lariceto puro mi riempe di venerazione. In alto, guardando giù a valle, spicca lo strambo Dent de Satarma. Dente di metabasalto dal microtoponimo demoniaco che dovrebbe però derivare dalle sette anime, in patois, di una leggenda. Un macaone si posa su un’imprecisata ombrellifera, supero un ruscello scalmanato, risalgo tra i larici ariosi. Nei prati ammiro l’umile e spavalda nigritella, orchidea montana di estrema bellezza e profumo di cioccolato e vaniglia. E così, dopo quasi due ore di passeggiata, alle dieci e un quarto ecco lì il lago Blu di Arolla (2090m) ai primi di agosto. Il blu è un blu turchese splendente. Dicono sia il risultato dell’azione congiunta di microalghe e argille glaciali. Impressiona ancora di più del colore, la sua
trasparenza, una limpidezza mai vista, vedi il fondale. Mi siedo all’ombra di un venerabile larice e faccio un caffè. Accendo un fuoco – con pezzettini di corteccia resinosa trovati per terra, licheni secchi, aghi – in un aggeggio di acciaio inox chiamato bush buddy, e metto su la moka. Alimento il fuoco con riccioli di legno ottenuti, con il coltellino, dal ramo da passeggio e in pochi minuti il caffè esce piano. Caffè cowboy: migliore che a casa. Due ragazzi entrano in acqua ma escono subito urlando, il terzo rinuncia. Metto dentro i piedi e pur essendo allenato dall’acqua dei pozzoni valmaggesi, il freddo è insostenibile ed esco. Devo però entrare, cerco di abituare i piedi, va meglio. Entro in acqua fino al collo, tre secondi, già un’impresa. È ghiacciata, subito su un sasso, al sole. Nel frattempo sono arrivati diversi camminatori e si godono il meritato pranzo al sacco. Torno sotto il larice dove mi aspettano il pane vallesano alla segale con noci, formaggio di Les Haudères – villaggio a quattro ore a piedi da qui,
frazione di Evolène come Arolla – e il saucisson de bœuf race d’Hérens. Antichissima razzasimbolo della valle, tutta nera, conosciuta per i combattimenti delle vacche regine e che sale tranquilla a pascolare fino a tremila metri. Non ne ho ancora vista una, solo sentito dalla finestra spalancata ieri sera, il loro scampanio soporifero. L’emerito limnologo Forel nato a Morges e morto a Morges, autore di una monografia monumentale sul Lemano, secondo i suoi esperimenti con il disco di Secchi, afferma che la limpidezza del lago blu di Arolla supera tutti i dati degli studi precedenti, effettuati da altri scienziati, a proposito dello straordinario lago Tahoe, al confine tra Nevada e California. «Fino a nuovo avviso è l’acqua la più trasparente che conosciamo» lessero nell’autunno del 1887 i lettori della «Gazette di Lausanne». Di acqua sotto i ponti ne è passata, ma quell’antica notizia, posso dirvi che è ancora miracolosamente attuale. Adesso è tempo di studiare la dolcezza delle albicocche del Vallese.
leggerle» e anche nel fare i compiti o gli esercizi soffre perché spesso è più lenta degli altri. In collaborazione con Made by Dyslexia, un’organizzazione benefica che si propone di sensibilizzare il grande pubblico nei confronti del fenomeno della dislessia, Microsoft ha sviluppato aggiornamenti ad-hoc per tutti i suoi prodotti destinati a studenti e docenti, per facilitarli nell’apprendimento, nella lettura e nella scrittura. Uno esempio è speech to text, una tecnologia che consente di digitare facilmente con la propria voce. Oppure Flipgrid uno strumento con il quale gli insegnanti possono creare comunità di apprendimento basate su diversi argomenti sulle quali gli studenti di tutte le età possono condividere le loro idee, storie, convinzioni, prospettive e background culturali attraverso brevi video registrati. Un esercizio non facile per chi è dislessico, per questo Microsoft ha inserito in Flipgrid uno strumento chiamato Immersive Reader
che aiuta gli studenti a migliorare la lettura e la scrittura. Perché vi racconto tutto questo? Per arricchire la riflessione della volta scorsa sulla curiosità dei lettori e il compito dei giornali di promuovere una cultura in grado di abbracciare esigenze, interessi e tematiche oggi sempre più cruciali per la nostra società e la nostra qualità di vita. Queste storie, insieme a tante altre, le ho trovate sul sito del «Guardian» in una speciale sezione chiamata The Guardian Labs che produce contenuti grazie al finanziamento di terze parti che permettono alla testata di esplorare e approfondire tematiche di interesse per i propri lettori. La presentazione dei contenuti dice chiaramente come il contenuto è stato commissionato e prodotto e chi lo ha finanziato. Tra le fondazioni che sostengono il «Guardian» in questo progetto ci sono The Bill & Melinda Gates Foundation, the Rockefeller Foundation e the Skoll Foundation. Il giornalismo oggi passa anche da qui.
A due passi di Oliver Scharpf Il lago Blu di Arolla Parto di buon’ora dal Grand Hôtel & Kurhaus di Arolla, dal 1896 nascosto in mezzo ai larici e al cospetto di una cembreta ultracentenaria a 2068 metri di altitudine. Dove la sera della vigilia di Natale del 1968 ha cantato e ballato Joséphine Baker, ospite lì con i suoi tredici figli adottivi. E la vista sulle montagne, tra le quali l’Aiguille de la Tsa e il Mont Collon con la sua coltre di neve eterna in bilico, dalle camere economiche sotto il tetto, è quasi da non crederci. Ma è camminare tra i cembri secolari e odorosi, sopra i quali fanno capolino le lingue di ghiacciaio illuminate dal primo sole, a essere forse esperienza fondativa. Non a caso questa località di cinquantacinque anime in cima alla Val d’Arolla, incontaminata diramazione destra alla fine della Val d’Hérens, trae il toponimo dai cembri. Arolles in francese. Saucisson, formaggio, pane, albicocche: all’épicerie trovo tutto in un attimo. Zaino in spalla e via, verso il lac Bleu. «La più rimarchevole delle curiosità della Val d’Hérens» secondo il botanico Ferdinand Otto Wolf
e il pastore protestante Alfred Cérésole, autori di Valais et Chamonix (1889), guida di settecentocinquantanove pagine dal Furka al Lemano. Oltre al blu particolare dal quale prende il nome questo laghetto alpino, la limpidezza, a quanto pare, è ineguagliabile. Studiata a fondo da François-Alphonse Forel (1841-1912) – il papà della limnologia incrociato di sfuggita per via del blu della grotta nel ghiacciaio del Rodano un mese fa – nell’agosto 1887. Centotrentadue anni dopo, alle otto e mezza di un bel mattino di agosto, uno scoiattolo si arrampica rapido su un larice. Tra i sassi, spunta il rosa shocking del Sempervivum arachnoideum che mi fa venire in mente i tailleur della regina Elisabetta. Elegante, estroso e al contempo introverso, sorprende sempre il giglio martagone. Dopo una mezzora buona di cammino spensierato in discesa nel bosco, risalgono a galla «senza un perché» come canta Nada, episodi di vita dimenticati da tempo. Camminare, lo sanno anche i sassi, rimette in ordine l’anima. In località Pramousse
La società connessa di Natascha Fioretti Il giornalismo oggi passa anche da qui Ed Rex (nella foto), un giovane inglese, ha fatto della sua passione per il viaggio ereditata dal padre il suo lavoro. Sordo dalla nascita, ha studiato biologia ambientale e scienza all’Università di Leeds e ha lavorato in questo settore per qualche anno prima di diventare un viandante con lo zaino in spalla e un blogger seguito da brand rinomati come KLM Royal Dutch Airlines, MyDestination and Hotel.info. Da subito durante i suoi viaggi solitari ha notato l’interesse di altri viaggia-
tori per la sua sordità e come questa lo influenzasse. Spesso è anche stato preso in giro. Nel tempo gli sono arrivate sempre più email e messaggi di persone nella sua stessa condizione. Da qui l’idea di raccontare la sua storia sul suo blog «The Deaf Traveller. Hear the World» (Il viaggiatore sordo. Ascolta il mondo) con lo scopo di infrangere gli stereotipi e di motivare le persone che vivono la sua stessa condizione perché con la forza di volontà nella vita si può fare tutto. Non solo, oggi per fortuna viene in soccorso anche la tecnologia. Ed Rex ha iniziato a viaggiare da quando, nel 2011, all’orecchio destro gli è stato inserito un impianto cocleare, un dispositivo impiantato chirurgicamente che converte il suono in impulsi elettrici in modo da simulare l’udito naturale. «Sono diventato una persona diversa, ad un tratto ero molto più sicuro di me stesso e non avevo più paura di girare il mondo in lungo e in largo». A venirgli in soccorso durante
i suoi viaggi c’è anche un altro tipo di tecnologia. Di recente Microsoft ha sviluppato un’applicazione chiamata The Hearing AI app che permette di tradurre in immagini i rumori e i suoni nell’ambiente. Un’applicazione ottima per Ed Rex che ama essere puntuale ma non riesce a sentire gli annunci in stazione. Grazie a questa app vede gli annunci sullo schermo del suo telefono e per qualsiasi ritardo o comunicazione importante, proprio come gli altri, può essere aggiornato in tempo reale. Altra funzione interessante di questa tecnologia è la trascrizione in tempo reale del parlato che dà indicazioni anche sul tono di voce utilizzato, uno strumento particolarmente importante per la qualità delle interazioni sociali. Rimanendo nell’ambito della tecnologia accessibile, voglio raccontarvi la storia della quattordicenne inglese EllaWarren Roberts che ama le materie scientifiche e soffre di dislessia. «Amo le parole composte ma faccio fatica a
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Ambiente e Benessere Nuovo clima, nuove scoperte Con il ritirarsi dei ghiacci la Svizzera diventa scenario di importanti scoperte paleontologiche
Alla scoperta della Bavona Romano Venziani racconta la Val Bavona tra paesaggio, storia e mito
L’importanza del restare Il termine «restanza», coniato dall’antropologo Vito Teti, mette in luce un nuovo modo di concepire l’idea di viaggio
pagina 18
pagina 19
pagina 17
La nuova stella del ciclismo Con la vittoria al Tour de France, il colombiano Egan Bernal entra nell’Olimpo del ciclismo a soli 22 anni
pagina 25
L’importanza della psicooncologia Salute Le dimensioni dell’ascolto
e del sostegno per affrontare un percorso oncologico Maria Grazia Buletti Chi deve affrontare una malattia oncologica entra in una varietà di vissuti emotivi e psicologici di cui oggi tiene specificatamente conto la psico-oncologia. Nata negli USA attorno al 1950, e progressivamente cresciuta in tutto il mondo, è una disciplina che si occupa in modo specifico delle conseguenze psicologiche causate da un tumore interdisciplinarmente alla presa in carico del paziente oncologico. Perché non va dimenticato che, come afferma il professor Luigi Grassi (già presidente della Società italiana di psico-oncologia e ordinario di Psichiatria all’Università di Ferrara): «Ammalarsi di cancro è un avvenimento traumatico che investe tutte le dimensioni della persona (sfera psicologica, valori individuali e spirituali, rapporti interpersonali e sociali) e non solo quella fisica. Comprendere a fondo quanto la persona vive e qual è l’impatto della malattia e delle terapie sull’esistenza diventa perciò fondamentale per offrire ai pazienti un’adeguata assistenza». Sappiamo che ansia, paura, preoccupazione, demoralizzazione e rabbia sono normali risposte alla malattia. Il professor Grassi sottolinea: «Quando queste diventano più intense, più continue e perseveranti, è importante chiedere aiuto psicologico specialistico senza vergogne di vulnerabilità o timore di essere anormali o malati di mente». L’incontro con la figura dello psico-oncologo e la richiesta di essere accompagnati attraverso un percorso terapeutico spesso complesso e faticoso può avvenire in diversi modi, come spiega la psicologa da noi interpellata Claudia Nesa: «I modi e i momenti possono essere svariati: le persone possono arrivare da noi perché è possibile che il loro medico curante colga le loro difficoltà: ad esempio, il paziente manifesta dubbi e perplessità, entra in una passività che non gli appartiene, esprime emozioni di delusione, rabbia o sconforto che vengono colti dai curanti. L’irritabilità e l’irascibilità che la persona può manifestare ai suoi famigliari portano talvolta questi ultimi, nel corso del lungo percorso terapeutico, a richiedere essi stessi il nostro sostegno». Aiuto che, invece, talvolta è il paziente stesso a desiderare a causa della nuova dimensione in cui la sua malattia lo catapulta: «Non si riconosce, ad esempio, nella propria
identità scalfita da una passività che ritiene non appartenergli, o riconosce reazioni verso l’esterno abitualmente non sue come, dicevamo, irritabilità e irascibilità verso chi gli sta attorno». L’esperienza del dolore è cosa del tutto individuale, così come il tipo di sostegno che il paziente oncologico, ed eventualmente i suoi famigliari, possono richiedere rivolgendosi alla figura dello psico-oncologo. A sua volta, egli potrà sostenerli in diversi modi. «Una nostra specificità attinente al percorso di cura sta nel dare un tempo a un ascolto, a un vissuto, perché questo tempo non sempre c’è», spiega Nesa ricordando che questa malattia e il suo percorso terapeutico «cambiano sostanzialmente la vita» per affrontare la quale: «Sono imposte tutta una serie di cose per cui le persone cercano di comprendere come farvi fronte: il contesto della cura dice come devi fare, ma tutti abbiamo un modo individuale a cui lo psico-oncologo deve poter dare spazio e ascolto, integrando la totalità della persona ammalata e del suo contesto». Una seconda specificità di questo sostegno sta nella fiducia che si instaura fra paziente e psico-oncologo: «In quel momento, egli si apre e racconta cose che non si sentirebbe di dire agli altri o in contesto diverso. Ad esempio: spesso si vuole proteggere i propri famigliari dalla sofferenza, e non si riesce perciò a raccontare certe cose a un marito, a una moglie. Può non essere sollecito e scontato che si riesca a parlare nell’immediato della morte o di altri aspetti delicati del percorso terapeutico con i propri famigliari. Anche la comunicazione con i figli può essere vissuta come gravosa e può necessitare di un accompagnamento». Il dolore può risultare gravoso e «indicibile», lasciarlo intravvedere può sembrare distruttivo, ma la psico-oncologa ricorda che si tratterebbe di lasciar intuire come esso possa essere trasformato, affrontato e non messo da parte: «Il dolore fisico e quello morale fanno molta paura, perciò si teme quello che una malattia così complessa potrebbe infliggere ai propri cari». Non essere in grado di immaginare come affrontare tutto questo spinge il paziente a non provarci nemmeno: «È nostro compito aiutare la persona ad aprire un immaginario su tutto ciò, su come si possa sopravvivere e su come si riesca a tornare a vivere». Allora, ecco che la valutazione della risposta emozionale delle per-
La psico-oncologa Claudia Nesa: «con noi il paziente si apre e racconta cose che non si sentirebbe di dire agli altri o in un contesto diverso». (Stefano Spinelli)
sone ammalate (ed eventualmente dei loro famigliari) è assunto dalla psicooncologia come un dovere della medicina poiché, come afferma il professor Grassi: «Il dolore psicologico, al pari del dolore fisico, è in tutto e per tutto un parametro vitale da monitorare regolarmente lungo il percorso di malattia e di follow-up». Nesa completa il quadro con l’importantissimo elemento del «senso» che è pure parte integrante di un percorso di malattia: «Noi diventiamo testimoni di come la persona tenti di collocare la sua malattia all’interno del suo percorso di vita; la condivisione della ricerca di un senso che il paziente prova a dare alla propria condizione è un grande privilegio che ci viene dato. Siamo presenti in queste storie di vita in cui si scrive la malattia che, a sua volta, mette in moto domande ancora più ampie («perché mi succede questo?») in relazione a domande più specifiche («come faccio ad attraversare questi 6 cicli di chemioterapia?»)».
Buddha ha detto che il cambiamento non è mai doloroso, solo la resistenza al cambiamento lo è, e con la diagnosi di guarigione c’è un «poi» che non va sottovalutato, in cui il paziente non va lasciato a se stesso perché ognuno può avere differenti reazioni: «Il tema comune è il parametro di confronto sul come è cambiata la sua identità tra prima e dopo la malattia. Allora egli cerca di ritrovarsi, di rientrare nel proprio ruolo precedente». Ma raramente le cose vanno così, perché il percorso di malattia ha modificato la persona stessa e il suo vivere: «Spesso ciò viene vissuto come una perdita, ma di perdita non sempre si tratta: la persona deve solo scoprire, verificare e accettare il nuovo essere se stesso nel presente». La psico-oncologia viene in aiuto pure qui, nell’ambito di un vero e proprio diritto a una cura globale in cui tutte le persone ammalate di tumore possono esprimere i propri bisogni psicologici ai propri curanti, garantendo così una
migliore qualità di vita e un’assistenza ottimale. Facile comprendere, dunque, che per capire il dolore, e farvi fronte, occorrono le parole.
Errata corrige Sull’edizione 30 di «Azione» l’estetista oncologica raffigurata era Simona Gentile, non Leila Fedulov (che vediamo qui in foto), come erroneamente indicato. Ce ne scusiamo con i lettori e con le interessate .
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 5 agosto 2019 • N. 32
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Ambiente e Benessere
Clamorose scoperte con il ritiro dei ghiacciai alpini Paleontologia Dinosauri sul Piz Ela (3290 metri) e fossili viventi sull’Adula (3380 metri)
Alessandro Focarile I dinosauri sono di moda da quando il film «Jurassic Park» di Spielberg ha avuto un grande successo di pubblico in tutto il Mondo contribuendo a fare conoscere questi esseri, viventi di un lontano passato. Nel corso dei decenni del Novecento, nei più famosi musei americani ed europei, era esposto un freddo assemblaggio di ossami. Ma, grazie alle attuali e rivoluzionarie tecniche, è stato possibile riprodurre le sembianze dell’intero animale in movimento, e non senza un briciolo di fantasia. Tecniche che hanno reso vivida l’immagine di queste creature e il mondo che le circondava. «I dinosauri ci sono familiari più di qualsiasi altra creatura del passato», scriveva il famoso paleontologo Björn Kurtén. Questi rettili, che tanto hanno colpito gli uomini, hanno costituito un vero successo evolutivo nella storia del popolamento animale della Terra. Nell’acqua, nel cielo e sulla terra ferma, ovunque hanno dominato durante 140 milioni di anni, colonizzando dall’Asia centrale all’Alaska, dalla Patagonia al Sud Africa, e attraverso la paleo-Europa di allora. Erano spesso grandi, maestosi e, ai nostri occhi, dalle sembianze terrificanti. Questi esseri dovrebbero essere considerati come degli esperti nell’arte della sopravvivenza durante un periodo non indifferente nella storia evolutiva del mondo animale sul nostro Pianeta. Indubbiamente sono esseri che suscitano interesse e inquietudine negli uomini, persino nei bambini, come è stato recentemente appurato. Secondo Luca Zulliger, paleontologo e direttore del Museo dei fossili di Meride, nel quale sono esposti fossili e modelli di animali più antichi dei dinosauri, la passione per gli animali preistorici è dovuta al fatto che sono grandi e imbattibili, e non esistono più. Da bambini si immagina questo mondo di centinaia di milioni di anni or sono,
Turkmenistan (Kugistan), Koytendag State Reservation. (A. Focarile)
Leptusa kappenbergeri. (D.Vallati)
Il Piz Ela 3390 metri (Grigioni). (Keystone)
scomparso per sempre; si può fantasticare senza limiti: «Quando vengono qui le scolaresche, vi sono giovani studenti che conoscono a memoria tutti i dinosauri con il loro nome scientifico. Sanno esattamente come erano fatti, di che cosa si nutrivano, dove vivevano. Li conoscono quasi meglio di me, che mi occupo degli organismi più antichi» (Stefania Prandi, «Azione», 14 maggio 2018). Uno dei dinosauri, che ha suscitato il più vivo interesse nel pubblico, è il Tyrannosaurus rex, animale che vagava nelle lagune del Nord America. Era lungo 13 metri, pesava 8 tonnellate, e ingurgitava 110 chili di cibo ogni giorno. Un temibile predatore dei pacifici dinosauri vegetariani, le cui carni dilaniava con i suoi denti lunghi 15 centimetri. E poi questi rettili dominatori del Mondo sono lentamente scomparsi nell’arco di qualche milione di anni per cause tuttora discusse dagli studiosi: per una stanchezza congenita dovuta alle loro dimensioni, per colpa delle strutture troppo complicate, oppure a causa di un gigantesco meteorite che sconvolse tutte le situazioni ambientali presenti durante lunghissimi periodi geologici sul Pianeta? Domande tuttora senza risposta. All’epoca dei dinosauri persisteva una grande uniformità ambientale su tutto il Globo. Faceva molto caldo ovunque, anche dove oggi sono presenti le calotte polari. Ma a quei tempi, la posizione geografica dei poli era differentemente localizzata. La vita si svolgeva in un’atmosfera satura di anidride carbonica (CO2) ben maggiore di quella attuale (Brusatte, 2018). C’era acqua dovunque: un’acqua caldiccia su superfici di immense dimensioni, di tipo lagunarepaludoso. Durante gli ultimi due secoli (18002000) sono stati scoperti i resti di migliaia di scheletri di dinosauri ovunque nel Mondo, appartenenti a oltre 800 specie finora descritte. Per contro, le testimonianze del girovagare di questi animali sono molto scarse : si hanno infatti poche impronte delle loro zampe, (la picnologia è la disciplina che studia e interpreta le impronte fossilizzate).
Grande sensazione, e grazie al regresso dei ghiacciai, ha suscitato la scoperta nella regione alpina di questi documenti preziosi, nel massiccio del Monte Bianco (Aiguilles-Rouges, 1968), nelle Alpi Vallesane, (VieuxEmosson a 2300 metri nel 1980) e, in epoca del tutto recente, in quelle Grigionesi (Piz Ela, 3290 metri, dal 1961 ad oggi), e nel cantone Glarona. Queste scoperte sono state possibili grazie al regresso dei ghiacciai sulle Alpi fino ad oltre 3000 metri di quota, a seguito del sollevamento alpino (orogénesi alpina). Secondo gli studiosi del clima, negli ultimi 6mila anni (e con la parentesi della piccola era glaciale, 1450-1860), mai i ghiacciai si sono ritirati nelle attuali posizioni, ricordando il sensazionale ritrovamento di Oetzi, l’uomo dei ghiacci in Tirolo.
Dopo milioni di anni stanno incredibilmente riemergendo dal suolo scheletri di dinosauri, impronte, e fossili viventi L’innalzamento alpino ha consentito quello concomitante dei sedimenti rocciosi contenenti le tracce (impronte) fino alle quote attuali, le più elevate finora conosciute in tutto il Mondo. Non si è trattato, dunque, di «dinosauri alpinisti». Sono testimonianze dell’antico Mare della Tetids e di una vittoriosa vita prolungatasi nel corso di lunghi periodi geologici. Il risultato del processo di consolidamento della fanghiglia e della sabbia, trasformate in arenaria e in roccia calcarea. Il risultato dello zampettare di branchi di dinosauri sulle rive di un mare immenso poco profondo, dove ora vi sono le montagne. Le impronte, spesso vistosamente ben conservate (foto), larghe fino a 20 centimetri, sono state lasciate da animali che si spostavano su un suolo umido, ma non troppo, permettendo al piede di imprimersi facilmente lasciando una traccia netta. Ma affinché la traccia rimanga ben visibile è fondamentale
che essa non venga obliterata dall’erosione del vento prima del suo consolidamento. In definitiva, la conservazione si è unicamente realizzata in virtù della concomitante presenza di vari fattori favorevoli. Innanzitutto, sulle rive stagnanti di un mare lagunare, paludoso, e in presenza di un favorevole clima caldo-umido di tipo equatoriale. Si è riferito qui di fossili «giganti», ma non meno interessanti sono quelli «minuscoli». Nel quadro dell’interessante e complesso mondo animale di minute dimensioni che popola l’alta montagna, spicca per la sua presenza un gruppo di piccoli Coleotteri (1-3 millimetri) viventi in permanenza in altitudine fino a 4000 metri (nelle Alpi) e fino a 5400 metri nel gruppo del Monte Everest, nell’Himalaya. Si tratta dei Coleotteri stafilinidi del genere Leptusa (disegno), peculiari per alcuni caratteri morfologici ancestrali: assenza delle ali (aspetto che, ovviamente, impedisce loro di volare), per gli occhi ridotti, e per le loro zampe accorciate denotanti lenti spostamenti nelle fessure del suolo. Questo insieme di caratteristiche non è un sintomo di senilità morfologica, bensì deve essere interpretato come il risultato di un aumento di vitalità, di efficienza e di un potenziale evolutivo in un ambiente ostile a causa delle situazioni micro-climatiche e ambientali, veri fattori-filtro che giocano a favore dell’organismo fisiologicamente meglio equipaggiato e adattato. Sulle Alpi, oltre una certa quota e fino a quasi 4000 metri (come sulla Meije, nel Delfinato francese) le Leptusa sono predominanti in una catena alimentare molto semplice. Pollini, spore, micro-alghe nutrono gli Insetti Collemboli. Organismi molto primitivi, scoperti su rocce vecchie oltre 400 milioni di anni in Scozia (epoca devoniana). Sono Insetti predati dalle Leptusa, come è stato scoperto grazie ad allevamenti sperimentali in laboratorio. Queste ultime, per contro, non sono ricercate dai loro possibili predatori appartenenti ai Miriapodi Chilopodi del genere Lithobius, assenti oltre i 2000 metri di altitudine, venendo così a mancare l’ultimo anello della catena alimentare.
Le Leptusa, veri «fossili viventi», hanno seguito attraverso milioni di anni e fino ai nostri giorni il sollevamento delle Alpi, dei Pirenei, del Caucaso e delle catene himalayane. Tutte montagne sulle quali sono stati scoperti questi straordinari Coleotteri fino a 5400 metri. Nella regione prettamente alpina sono conosciute e descritte oltre 100 specie, alcune delle quali popolano areali puntiformi di pochi chilometri quadrati, come la Leptusa fauciumredortae, che si trova nell’alta Valle Verzasca. Nella Svizzera cisalpina sono state raccolte Leptusa kappenbergeri sul Piz Bianc in Mesolcina a quasi 3000 metri, e Leptusa baldensis sui contrafforti dell’Adula a 3380 metri. Entrambe le specie, durante la «piccola era glaciale», sono state in grado di resistere sotto una spessa coltre di ghiaccio. E sono state scoperte da Giovanni Kappenberger, il ben noto glaciologo e alpinista. Il rinvenimento di tronchi rivelatori dell’esistenza di alberi a quote ben superiori rispetto a quelle attuali, la scoperta di impronte di dinosauri fino a oltre 3000 metri, il riapparire dei fiori al Colle del Teòdulo (Monte Rosa) a 3370 metri («Azione», 12 giugno 2017) e infine la persistenza delle Leptusa fino a 3380 metri sotto una coltre di ghiaccio durante oltre 400 anni (piccola era glaciale). Tutto questo è stato possibile in virtù della ritirata dei ghiacciai sotto i nostri occhi! Bibliografia
Pascal Acot, Storia del clima, Donzelli Editore (Roma), 2004, 249 pp. Steve Brusatte, Ascesa e caduta dei dinosauri, UTET (Torino), 2018 366 pp. Gérard de Beaumont, Des Dinosaures dans le Valais, Musèes de Genève (Genève), no. 202, 1980, pp.7-11. Björn Kurtén, L’età dei dinosauri, Il Saggiatore (Mondadori), Milano, 1968, 252 pp. Christian Meyer et al, Dinosaurierspuren aus der Trias der Bergüner Stöcke (Parc Ela, Kanton Graubunden, S-E Schweiz), Mitteilungen der Naturforschenden Gesellschaften beider Basel (Basel). 2013, 14: 135-144 pp.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 5 agosto 2019 • N. 32
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Ambiente e Benessere
La cüra di Gannariente Itinerari Questa e altre storie lungo il sentiero della transumanza della Val Bavona
Romano Venziani, testo e immagini Il sesto giorno, il buon Dio apportò gli ultimi ritocchi alla sua creazione. Roba da poco, tutto era così perfetto, solo una piccola rifinitura qua e là, forse, più che necessaria, utile per appagare quella sua innata attenzione un po’ maniacale per il dettaglio. Poi, prima di andarsene a riposare, si soffermò a contemplare l’opera compiuta. Un largo sorriso di soddisfazione ruppe la candida impassibilità del suo barbone e un profondo sospiro di sollievo si liberò dal petto del Creatore. «Ho proprio fatto un buon lavoro!» pensò, guardandosi le mani. Così facendo, si accorse che un po’ di materia primordiale gli era rimasta appiccicata alle dita. Si strofinò vigorosamente i palmi e quel nonnulla agli occhi di Dio si trasformò in una spaventosa pioggia di massi, che caddero con un boato su un minuscolo pianeta, più tardi chiamato Terra. I macigni si sparsero sulle montagne e nelle vallate, ammassandosi in particolare in una di queste, che da allora appare seminata di una miriade di blocchi di granito, tra cui serpeggia un limpido torrente: la valle Bavona. Questa la leggenda (o, almeno, una delle tante), che spiega l’origine della sua particolare morfologia e del suo (più o meno) immobile esercito di sassi. È curioso come, spesso, gli stessi miti e le stesse leggende si ritrovino nei luoghi più disparati e lontani del pianeta, come generati spontaneamente da un’arcana memoria collettiva, nutrita, forse, da un soffio divino. Sono incappato in una del tutto simile a quella della Bavona a Capo Verde, mentre rincorrevo megattere su un vecchio schooner olandese con la biologa Beatrice Jann. In quel caso, il buon Dio buttò in mare l’eccesso di materia primordiale, dando origine alle dieci isole dell’arcipelago, che sbucano dall’Atlantico come immensi dorsi di balene. Ma torniamo alla Bavona. Mi chiedo se valga ancora la pena parlarne, dopo che su questa valle è stato detto e scritto di tutto e di più. Credo di sì. Prima di tutto perché sono particolarmente affascinato da questo lembo di terra (e di sassi) che si distende da Bignasco su fino a Robiei, al Basodino e al Cristallina, poi perché, il paradigma del nostro passato lì è rimasto come cristallizato ed è sempre un bene andarlo a rileggere «per capirlo finalmente e confrontarlo con un presente ricco di contraddizioni, di incognite e di paure», come ha scritto Renato Martinoni, oppure ancora, come ha osservato l’acuto Piero Bianconi, «parlarne è come imbalsamare d’inchiostro una affettuosa memoria». E ci sarà sempre qualcuno che vorrà condividerla. Il miglior modo per scoprire l’anima di un luogo è il ritmo lento del percorrerlo a piedi. Ed è ciò che voglio fare, in questa giornata d’inizio giugno. Qualcuno direbbe che è un sole malato, quello che infiamma l’aria immobile. Anche i rintocchi delle campane di Cavergno paiono soffocati dalla calura, nonostante lo sgolarsi del campanile per chiamare i fedeli alla messa. Intravvedo il paese di là dal fiume, dopo aver lasciato Bignasco sull’asfalto sudato di una stradina di campagna. I primi passi, in simili situazioni, sono sempre i più pesanti, ma, ben presto,
Azione
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
Su www.azione.ch le fotografie e l’itinerario a cura di Romano Venziani.
la carrozzabile si fa sentiero tuffandosi nell’ombra del bosco e il camminare diventa piacere. È un tripudio di colori e di profumi, che mandano in fibrillazione nuvole di insetti e ti immagini che lì attorno sia tutto un succhiare di nettare, un correre di fiore in fiore. In una radura del bosco, lo sbuffare di un affumicatore, maneggiato attorno alle arnie da una sorta di candido burqa, cerca di tranquillizzare sciami di api agitate da uno smisurato appetito. Scambio due parole con l’uomo del burqa , che si rivela essere Germano, apicoltore in valle, e, per contrasto con la natura del luogo, il discorso finisce sull’edilizia speculativa e selvaggia, che sta inghiottendo ogni metro quadrato di Ticino. Finiranno per andare a bottinare sul cemento, le api, mi scappa, pensando con tristezza al rischio che gli industriosi imenotteri, dichiarati gli esseri più importanti del pianeta, facciano una brutta fine. E noi con loro.
Dal 1967 gli abitanti della valle e una ditta di Claro si contendono il Balòn di Frènc, messo all’asta, ma inutilmente Poco più su, incrocio alcuni climbers, intenti a smontare un improvvisato accampamento prima di ritornarsene oltre San Gottardo. I saluti si perdono nel rumore dell’acqua della presa dell’Ofima. Ancora pochi passi ed ecco Mondada, una delle dodici terre della Val Bavona, una scacchiera di minuscoli prati, ombreggiati da vecchi castagni e disseminati di enormi massi, che gli abitanti hanno addomesticato e sfruttato per addossarvi case, coprire stalle, sostenere fazzoletti di orti, in un Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni
grandioso esempio di spirito d’adattamento, che non ha eguali in tutto l’arco alpino. In Val Bavona, «le frane diventano paesi», scrive Paolo Rumiz, osservando ammirato questa «meraviglia rupestre come Matera, ma trasferita sulle Alpi». Nella Matera alpina, i sassi possono essere anche indelebili pagine di memoria, che urlano al mondo i drammi e le sciagure della gente, la quale, secolo dopo secolo, qui ha sgranato un’esistenza al limite, descritta con lucido realismo nei suoi romanzi dal cantore della valle, il maestro Plinio Martini, di cui si ricordano in questi mesi i quarant’anni della scomparsa. Su un masso, di fianco alla strada, poco dopo un’altra delle terre della Bavona, Fontana, una scritta rivela l’origine più prosaica di quel granitico esercito assopito: questo mondo di pietra è la conseguenza, non della leggendaria materia primordiale scrostata dalle mani del Creatore, ma di immani frane precipitate dalle vertiginose pareti rocciose che delimitano la valle. «GIESU MARIA + 1594+ QUI FU BELA CAMPAGNIA» recita l’iscrizione, dolente epitaffio, che ricorda come lì, tra Fontana e Sabbione, un tempo c’era una distesa di prati e di campi, sepolti, più di quattro secoli fa, da una spaventosa frana. Uno dei tanti cataclismi che hanno trasformato la Valle Bavona in quello che è. Il sentiero, dopo aver passato Sabbione, Preda e Ritorto, si avvicina al nucleo di Foroglio, che appare annebbiato dagli sbuffi della Froda, l’alta cascata che si stacca dal gradino della Val Calnegia e precipita su un groviglio di rocce dove s’infrange con un tuono continuo, disperdendo bianche nuvole d’acqua. Oggi, il grotto di là dal ponte è strapieno. Forse pochi, tra i clienti, sanno che più su, lungo il sentiero che
porta a Roseto, c’è un’altra frase lapidaria incisa nella roccia: «IHS ANO 1812 A DI 25 MAGIO GIACOMO ZANZANIN STATO OFESO DI QUESTO SASO E DOPO 35 ORE PASO DA QUESTA VITA ALTRA. R.» Giacomo Zan Zanini, operaio cavergnese, occupato a sgomberare il materiale franato sul sentiero, viene schiacciato da un masso e muore dopo trentacinque ore di atroce agonia. Lì accanto, anche una cappella ricorda la tragica fine di quel poveraccio e «le tante croci di cui è cosparsa la storia della Bavona e la sua gente». Il dipinto, del 2015, è opera di Romano Dadò, che ha affrescato alcune delle numerose edicole e i vari oratori che punteggiano la valle. Sembra paradossale, ma in questo mondo di pietra, anche i sassi possono avere un loro prezzo e…una loro storia. «Nessuno offre cinquemila franchi? – annuncia il battitore a uno sparuto uditorio dall’aria assente – Nessuno?… A cinquemila franchi… e tre, visto che nessuno offre la cifra base, dichiaro l’asta conclusa.» Oggetto della vendita, il Balòn di Frènc, un impressionante macigno squadrato, che non può sfuggire alla vista di chi percorre la strada tra Fontanellata e Faedo. Lo ritrovo, dopo aver dovuto abbandonare il sentiero interrotto da una frana caduta di recente. Alto come un palazzo di cinque piani, quasi ottomila metri cubi di buona roccia, il Balòn di Frènc, nel 1967, viene venduto per duemila franchi dalla famiglia Balli a un cavista di Claro, ma, trattandosi per legge di un bene inalienabile, lo Stato si oppone. Inizia così la sua lunga storia, che vede dapprima il Tribunale delle espropriazioni decretare un indennizzo al cavista di millecinquecento franchi per mancato sfruttamento. Dopo un ulte-
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riore ricorso, il Tribunale amministrativo intima al Cantone il versamento di una cifra spropositata, tanto che le autorità decidono di levare il vincolo protettivo. Il macigno verrà messo inutilmente all’asta e la sua storia andrà avanti per lunghi anni ancora prima di finire in una bolla di sapone. «Il sasso è sempre qui ed è una bellezza per la Bavona» – mi aveva detto la signora dall’aria sorniona incontrata tanti anni fa, aggiungendo: «Sarebbe della ditta di Claro che l’ha comperato, ma è sul nostro terreno e noi riteniamo che quello che poggia sul nostro terreno è cosa nostra» aveva concluso accennando un sorriso. «Non è vero che la Bavona sia una regione tetra, è piena di sole e di colori. Dipende dagli occhi con cui la si vuol vedere». E lui, Aldo Cattaneo l’aveva vista con gli occhi di chi vuol capire. Farmacista luganese con la passione per la montagna, Cattaneo era innamorato di questo «paesaggio aspro, dominato dalla pietra» e ha scandagliato la valle per anni, studiandola e fotografandola, fino alla sua morte nel 1991. «Abbiamo scoperto la valle Bavona grazie agli articoli che Plinio Martini pubblicava sull’Almanacco valmaggese» mi aveva raccontato Nora, sua moglie, in una giornata grigia di fine millennio. Per capire, per toccare con mano la spietata realtà descritta da Martini, Aldo aveva percorso, passo dopo passo, l’infinita rete di inverosimili sentieri e scalinate scavate nella roccia ,che portano agli alpi della fame e intervistato gli ultimi alpigiani. Voleva farne un libro, che uscirà postumo grazie a Nora, che aggiungerà i tasselli mancanti scarpinando tutta sola su quelle montagne. Una donna minuta, dall’aspetto curato, Nora mi aveva fatto conoscere la sua, o meglio, la «loro» frana di Gannariente, quell’impressionante congerie di macigni rotolati a valle tra Sonlerto e l’ultimo nucleo della Bavona, San Carlo. Me ne aveva parlato con un groppo alla gola, accanto a un fuocherello acceso sotto un masso. «Questo era il nostro campo base, stavamo qui a mangiare. Pioveva, nevicava, eravamo sempre al riparo. Poi abbiamo costruito una casupola di legno contro un sasso, laggiù, dove c’è quel pianoro ricoperto di sabbia portata dal fiume. Lì stavamo anche a dormire. La frana ci ha sempre affascinati». Forse lo spaventoso scoscendimento è proprio quello che ha cancellato «la bela campagnia», a cui accenna la scritta di Fontana, oppure un altro più o meno coevo, visto che l’oratorio di Gannariente, costruito sopra la frana, quasi a volerla esorcizzare, porta la data del 1595. Pare ci fosse anche qui, un villaggio, un tempo. La leggenda vuole che sia stato distrutto quando i suoi abitanti uccisero la cüra, sorta di animale mitologico dalle fattezze indefinibili, il quale, ogni giorno, si mangiava il pranzo che una famiglia di contadini, prima di andarsene a lavorare nei campi, preparava per la figlioletta. Scoperto l’abusivo commensale, responsabile del digiuno e della magrezza della bambina, lo avevano così ammazzato. Il giorno seguente, una gigantesca frana seppelliva il paese. La cüra altro non era che il suo lare protettore. Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–
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Claudio Visentin Incontro Francesca tra i boschi del Casentino. È una ragazza sorridente sulla trentina, ha studiato a Siena, lavorato ad Arezzo, ma poi ha scelto di restare nel suo piccolo paese, Pratovecchio Stia, ogni anno meno popolato. Lavora in comune e ha sposato il conducente del treno locale che ogni mattina porta i pendolari in città. Sembra convinta della sua scelta. L’Arno bambino scorre accanto a noi con un piacevole gorgoglio. Claudio e Carla, i padroni del vecchio mulino (il primo lungo il corso del fiume: www.molindibucchio.it), qualche anno fa hanno rifiutato un assegno in bianco perché la meravigliosa costruzione non fosse trasformata nella seconda casa di qualche ricco notaio, chiusa per la maggior parte dell’anno. Ora invece è un piacevole luogo di sosta e un ecomuseo per le scuole della zona. Anche Marta ha scelto di restare: alleva asini e bambine, tiene puliti i sentieri per i camminatori, qualche volta si arrabbia quando misura la distanza tra la realtà e i suoi desideri, ma poi le passa (www.gliamicidellasino.it). Ascoltando queste esperienze in un tranquillo giorno di luglio ho pensato che i poeti hanno sempre celebrato chi sceglie di lasciare tutto e partire. «Ma può dirsi un viaggiatore / solo chi parte per partire: lieve / ha il cuore a somiglianza del pallone, / non si allontana mai dal suo destino, / senza sapere perché dice: partiamo!» (Charles Baudelaire, Il viaggio). Restare è stato spesso considerato la negazione del viaggiare, poca disponibilità a mettersi in discussione, scarsa inclinazione al disordine, alla scoperta, all’incontro. Chi sceglieva di restare era considerato un fallito, un perdente. Ma oggi, quando la maggior parte della popolazione mondiale ha lasciato i paesi e la campagna per la città (si registrano tuttora duecentomila partenze al giorno), il vero coraggio non è forse quello di chi resta? L’antropologo Vito Teti nel suo libro Pietre di pane. Un’antropologia del restare (Quodlibet) ha coniato il termine restanza, modellandolo su parole come erranza o lontananza. «Restanza
«C’è un qualcosa di speciale nel ritiro dei bagagli. L’attesa della valigia. … Mi piace perché aspettiamo con degli sconosciuti, anche se per breve tempo; tutti volti visti poco prima in aereo, volti che non rivedremo mai più. Per trovare il nastro spesso non mi baso sulle indicazioni dei monitor, ma mi guardo intorno, in cerca dei compagni di volo. Dove si saranno radunati? Ah, eccoli lì, in attesa che il nastro inizi a muoversi e che escano le valigie, tutti con quell’aria impacciata di chi non sa bene cosa fare… Questo libro parla di cosa portiamo con noi quando viaggiamo. Parla dei bagagli e del loro contenuto. La storia dei bagagli è anche la storia dei viaggi: come, dove e perché abbiamo viaggiato, cosa abbiamo messo in valigia…».
Pentedattilo, provincia di Reggio Calabria: restare anche dove resta ben poco, come presidio attivo del territorio. (Keystone)
denota non un pigro e inconsapevole stare fermi, un attendere muti e rassegnati. Indica, al contrario, un movimento, una tensione, un’attenzione. Richiede pienezza di essere, persuasione, scelta, passione … Significa raccogliere i cocci, ricomporli, ricostruire con materiali antichi, tornare sui propri passi per ritrovare la strada, vedere quanto è ancora vivo quello che abbiamo creduto morto e quanto sia essenziale quello che è stato scartato dalla modernità. Volontà di guardare dentro e fuori di sé, per scorgere le bellezze, ma anche le ombre, il buio, le devastazioni, le rovine e le macerie. Non sono concessi autocompiacimento, autoesaltazione ma neppure afflizione». Dunque restanza come scelta di vita consapevole, presidio attivo del territorio, cura dei beni comuni; e niente nostalgia fine a se stessa, celebrazione di un passato idealizzato e forse mai esistito (il «buon tempo andato», il paese-presepe). I pensionati di ritorno non bastano. Dopo un de-
cennio di crisi e disillusione occorre ripartire da forme economiche nuove: albergo diffuso, agricoltura biologica, cibi e vini a denominazione d’origine controllata, lavoro remoto, nuove tecnologie… L’idea di restanza ha preso forma nei piccoli comuni dell’Italia meridionale, per esempio l’Irpinia del paesologo Franco Arminio. Vito Teti invece pensa soprattutto alla sua Calabria, da dove tutti i giovani sono partiti e per le strade s’incontra solo gente matura. Qui da qualche anno il piccolo borgo di Paludi (Cosenza) – il comune italiano che ha perso più residenti nel confronto tra i censimenti del 2001 e 2011 – a inizio agosto propone un originale festival delle Spartenze (http://festivaldellespartenze.it). Paludi è povero ma bello e il festival cerca di trasformare la sua debolezza in un punto di forza, richiamando cittadini, emigranti e visitatori. È evidente che la restanza è nata in un contesto molto specifico e non può essere applicata tale e quale su diversa
scala. E tuttavia il suo messaggio sembra avere una portata e un significato più larghi, potenzialmente universali. Per cominciare sono sicuro che in molte valli del nostro Paese l’idea di restanza troverebbe un’eco favorevole. E se saltiamo dall’infinitamente piccolo al gigantesco, da un paese a un continente, siamo sicuri che la migrazione sia l’unico destino possibile per l’Africa? Secondo le stime delle Nazioni Unite, la popolazione africana raggiungerà i 2,5 miliardi di individui nel 2050. In quell’anno la sola Nigeria avrà lo stesso numero di abitanti dell’intera Unione europea. Partiranno tutti? L’avventura del restare – la fatica, l’asprezza, la bellezza, l’etica della restanza – è la faccia in ombra della luna, la dimensione meno conosciuta (ma non meno importante) del viaggio contemporaneo. Saldare in un unico racconto la storia di chi è partito, di chi è rimasto e di chi è tornato dà una profondità nuova alla nostra esperienza di «Viaggiatori d’occidente».
I primi turisti ottocenteschi, in ferrovia o sui piroscafi, portavano con sé un gran numero di borse, bauli, cappelliere, ben sapendo che trasportarli sarebbe stato compito dei facchini. Dopo la Seconda guerra mondiale il bagaglio diventa più informale: borsoni, tracolle, zaini. Ma presto saranno i viaggi aerei a dettare le nuove regole. Cambiano i materiali: vimini, cuoio e pelle lasciano il posto a nylon, alluminio e poliestere. Intorno alla Prima guerra mondiale un produttore di valigie di Denver battezza una delle sue creazioni con il nome di Sansone; nel 1966 l’azienda intera si chiamerà Samsonite. Nel 1972 nasce il trolley e nel 1987 un pilota di Northwest Airlines, Roberth Plath, cambia l’orientamento della valigia da verticale a orizzontale, aggiungendo una maniglia estensibile: è il primo bagaglio che può essere portato in cabina. Oggi per le principali compagnie aeree ciascun passeggero significa ottantasette chili di bagaglio: bagaglio imbarcato, bagaglio a mano e lo stesso viaggiatore. Siamo diventati la nostra valigia? / CV Bibliografia
Susan Harlan, Fare i bagagli. Un viaggio pratico e filosofico, il Saggiatore, 2019. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 5 agosto 2019 • N. 32
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Idee e acquisti per la settimana
Immancabili con le grigliate Cosa prendono con sé i griglietariani quando organizzano una gita all’aria aperta? Qualche delizia vegetariana arricchisce qualsiasi picnic. Ecco tre consigli per dei contorni senza carne, da preparare semplicemente in anticipo a casa
Insalata di riso con mirtilli Date una botta di vita alla vostra insalata di riso con le bacche. Piselli, cavolo rosso, pistacchi, aneto, spinaci e per finire… una manciata di mirtilli! Ingredienti per 4 persone 200 g di miscela di riso selvatico; sale; 200 g di piselli surgelati; 1 mazzetto d’aneto; 80 g di pistacchi sgusciati; 200 g di cavolo rosso; 100 g di mirtilli; 100 g di spinaci per insalata; 6 cucchiai di Condimento bianco; 8 cucchiai d’olio d’oliva; pepe
Pane attorcigliato alle erbe
Pane attorcigliato alle erbe, un’idea croccante da cuocere sul fuoco! Arrotolare la pasta a spirale attorno a un bastoncino di legno e cuocerlo sulla brace. Ingredienti per 4 persone 400 g di farina semibianca 2 cucchiaini di lievito in polvere 1 bustina di lievito secco 2 cucchiaini di sale 2,5 dl d’acqua 4 rametti d’erbe, ad es. timo o rosmarino Utensili da cucina 4 bastoni di legno, ad es. di nocciolo
Preparazione Lessate il riso al dente in abbondante acqua salata. Scolatelo e fatelo sgocciolare bene. Sbollentate i piselli nell'acqua salata in ebollizione per ca. 2 minuti, poi passateli sotto l'acqua fredda e fateli sgocciolare bene. Tritate grossolanamente l'aneto e i pistacchi. Affettate il cavolo rosso a fettine sottili con la mandolina. Mescolate l'aceto con l'olio e condite con sale e pepe. Disponete tutti gli ingredienti, mirtilli e spinaci compresi, a strati nei vasetti. Irrorate con il condimento e servite. Tempo di preparazione ca. 30 min Consiglio Portare il dressing separatamente e condire l'insalata poco prima del pasto.
Preparazione Preparativi a casa: mescolate la farina, il lievito in polvere,il lievito secco e il sale in una scodella. Formate una conca. Versatevi l’acqua. Impastate il tutto fino a ottenere una pasta liscia e omogenea. Lavate le erbe. Staccate gli aghi o le foglioline dai rametti e incorporateli all’impasto. Trasferite la pasta in un sacchetto salvafreschezza abbastanza capiente.Durante il trasporto, la pasta lievita. Attorno al fuoco: dividete la pasta in 4 porzioni e formate dei filoni lunghi ca. 30 cm. Attorcigliate i filoni a spirale attorno ai bastoni e premete leggermente la pasta. Cuocete il pane attorcigliato sulla brace per ca. 10 minuti, evitando il contatto diretto con il fuoco. Tempo di preparazione Preparazione ca. 20 min + lievitazione ca. 30 min + cottura alla griglia ca. 10 min
Cornatur spiedini grill* 150 g Fr. 4.90
Cornatur Viva Burger Funghi* 150 g Fr. 4.40
Cornatur Grill Ribs* 200 g Fr. 4.90 *Nelle maggiori filiali
Grill mi Cheese Indian Curry Steak 2 x 110 g Fr. 5.80
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Consiglio Dei deliziosi spiedini si preparano con delle patate cotte precedentemente a casa e altri ingredienti a piacere. Una volta sul posto, non resta altro che grigliarli.
Spiedini di patate e carciofi
Deliziosi spiedini vegetariani pronti in un baleno. Adatti anche come contorno.
Ingredienti per 4 persone 8 patate piccole resistenti alla cottura di ca. 50 g ciascuna; sale; 8 cuori di carciofo sott’olio; 16 pomodori cherry secchi sott’olio; pepe macinato di fresco Preparazione Lessate le patate con la buccia in abbondante acqua salata mantenendole al dente, lasciatele raffreddare. Sgocciolate dall’olio i carciofi e i pomodori. Dimezzate i cuori di carciofo. Tagliate le patate in 3 fette spesse ca. 2 cm. Infilatele sugli spiedini alternandole ai carciofi e ai pomodori. Condite con sale e pepe. Grigliate gli spiedini di patate e carciofi da ogni lato a fuoco medio diretto per ca. 12 minuti.
Consiglio Portare con sé della focaccia o del pane pita. Dopo averlo passato brevemente sul grill, farcirlo con della creme fraîche e delle pietanze appena grigliate. In questo modo non servono nemmeno dei piatti monouso.
Tempo di preparazione Preparazione ca. 10 min + cottura alla griglia ca. 12 min
Namaste India Paneer formaggio a pasta molle 200 g Fr. 3.60
Beyond Burger surgelato, 2 x 113.5 g Fr. 7.95
Alnatura Tofu affumicato 200 g Fr. 2.15
Alnatura bratwurst vegani 250 g Fr. 4.10
Che si tratti di vegetariani, pescetariani, flexitariani o carnivori – i gliglietariani trovano consigli, ricette e il timer da grill su griglietariani.ch.
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Idee e acquisti per la settimana
Lunga vita alle decorazioni Pulizia efficace e protezione extra per le decorazioni delicate su piatti e tazze: il brillantante Handymatic Supreme Ultra Shine & Protect garantisce una maggiore durata alle vostre stoviglie preferite. Ai bicchieri conferisce una bella lucentezza: grazie all’effetto asciugatura rapida non resta alcuna traccia d’acqua. L’azione neutralizzante dell’estratto di limone protegge piatti e lavastoviglie dai cattivi odori.
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Ambiente e Benessere
Insalata di fragole e mozzarella
Migusto La ricetta della settimana
Antipasto Ingredienti per persona: 1 mela, ad es. Granny Smith · 4 cucchiai di olio, ad es. olio di cartamo · 4 cucchiai di aceto, ad es. aceto di mele al miele · 2 cucchiai di succo denso di mele o miele liquido · sale · pepe · 12 fragole · 4 mozzarelle di bufala da 125 g · 4 rametti di basilico · 80 g di rucola · miscela di pepe e fiori per decorare.
migusto.migros.ch/it/ricette Per diventare membro di Migusto non ci sono tasse d’iscrizione. Chiunque può farne parte, a condizione che un membro della sua famiglia possieda una Carta Cumulus.
La caprese in versione dolce: le nuove partner della mozzarella sono le fragole. Un po’ di rucola, basilico e succo di mela e l’estate è pronta per essere servita. 1. Dimezzare le mele mantenendo la buccia ed eliminare il torsolo. Tagliare quindi la polpa a dadini e rosolarla in un po’ d’olio. Unire l’aceto e il miele. Insaporire la salsa con sale e pepe. Lasciar raffreddare e unire l’olio restante. 2. Affettare le fragole. Incidere orizzontalmente le mozzarelle e farcirle con le fettine di fragola, le foglioline di basilico e qualche foglia di rucola, quindi impiattare sulla rucola rimasta. Bagnare con la salsa e decorare con la miscela di pepe e fiori. Preparazione: circa 20 minuti.
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Ambiente e Benessere
Generazione di fenomeni
Sport A braccia alzate sugli Champs-Élysées. A soli 22 anni il colombiano Egan Bernal è il primo latinoamericano
ad addomesticare la Grande Boucle. Un fenomeno. Ma non è il solo
Giancarlo Dionisio Immagino che alla fine del Tour de France, Chris Froome avesse un cuore diviso in due. Una metà avrà gioito per la vittoria di Egan Bernal. Il suo giovane compagno di squadra ha la gentilezza, l’arguzia e la disponibilità che ricordano proprio il Froome prima maniera. L’altra metà avrà distillato gocce di sangue amaro. Questo Tour de France era proprio nel mirino dell’asso britannico, per salire a quota 5 ed eguagliare il record di trionfi di Jacques Anquetil, Eddy Merckx, Bernard Hinault e Miguel Indurain. Qualcuno obietterà: che porti pazienza, avrà altre opportunità per penetrare ancora più profondamente nella leggenda! Sì. Anzi, nì! Perché Froome l’anno prossimo avrà 35 anni. Ed altri recenti vincitori non saranno distanti. Vincenzo Nibali il prossimo anno ne compirà 36, Geraint Thomas 34. Gli over 30 dovranno far fronte ad una generazione di fenomeni. Dalla sovrapposizione di Merckx, Gimondi, Thevenet, Ocana, De Vlaeminck e altri, non si era più visto un proliferare di talenti come oggi. Egan Bernal è un mostro di efficacia. Pur essendo solo da 2 anni nel grande circuito del World Tour, ha palesato una sagacia tattica al di sopra della norma. Il colombiano è nato e cresciuto a quasi 3000 metri di altitudine, a Zipaquirà, la cittadina in cui Gabriel Garcia Marquez ha frequentato il liceo. Egan, in età da liceo, è emigrato. È venuto in Italia, alla corte di Gianni Savio. Si è sistemato a Cuorgnè, nel Canavese, dove ha imparato l’italiano e si è fatto
un sacco di amici. Con Savio ha imparato a leggere la corsa. Lo scorso anno, al suo primo Tour de France, è giunto 15, sfacchinando per i suoi capitani Froome e Thomas. Quest’anno è andato subito a segno dominando la Parigi-Nizza. Poi una caduta in maggio gli ha impedito di partecipare, da leader, al Giro d’Italia. Una manna. Un breve riposo, poi via, in altura a fare il pieno di globuli rossi. È arrivata la vittoria tutto sommato facile al Tour de Suisse. Il resto è storia recente. Con 2 scatti ha blindato la Grande Boucle. Signori, ha solo 22 anni. Nessuno nel ciclismo moderno ha fatto meglio di lui. Gimondi nel ’65 ne aveva 23; Merckx nel ’69 spegneva 24 candeline e Contador nel 2007 compiva 25 anni. Ci sono le premesse perché il suo regno duri a lungo. Attenzione però ai colpi di coda degli «anziani». Attenzione soprattutto a coloro che, per ragioni diverse, hanno disertato la Grande Boucle di quest’anno: Tom Dumoulin, Primosz Roglic, Richard Carapaz, Miguel Angel Lopez. Per non dimenticare la sete di vendetta dei francesi Pinot, Alaphilippe, Bardet, che in 2 giorni sono passati dalla possibile realizzazione di un sogno , alla frustrazione più profonda. A prescindere da chi vincerà la prossima edizione del Tour de France, posso sostenere a viva voce che si sta affermando una nuova generazione di campioni. Anzi si sta affermando un nuovo ciclismo, con nuove frontiere e nuovi contorni agonistici. In primo luogo perché, se lo scorso anno i 3 Grandi Giri furono appannaggio dei britannici (Froome, Thomas, Simon Yates), quest’anno il baricentro si è spostato sulle Ande, gra-
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zie all’ecuadoriano Richard Carapaz, vincitore del Giro d’Italia, e ad Egan Bernal, trionfatore a Parigi. Alla Vuelta di Spagna scommetterei su un duello Carapaz-Lopez, tanto per completare il trasloco. La seconda nuova frontiera sta nel percorso formativo di molti di questi giovani fenomeni. Bernal viene dalla MTB, come Peter Sagan, che per la settima volta (record assoluto) ha
indossato la maglia verde della classifica a punti. Julian Alaphilippe, eroico protagonista di 3/4 di Tour, il corridore che ha acceso i cuori dei francesi ed ha affascinato il mondo per il suo ciclismo spregiudicato, viene dal ciclocross. E dal fuoristrada provengono anche i suoi maggiori futuri rivali nelle classiche primaverili: Mathieu Van der Poel, figlio di Adri, campione degli anni ’80-
Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku
Cruciverba Nelle gare di Formula 1 le vetture e i piloti si… Trova il resto della frase a cruciverba ultimato leggendo nelle caselle evidenziate. (Frase: 6, 5, 1, 4, 2, 4)
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Egan Bernal, il più giovane vincitore del Tour de France. (Keystone)
’90, nipotino di Raymond Poulidor, l’eterno secondo amatissimo dai francesi; e Wout Van Aert. Quest’ultimo, 3 volte campione mondiale di ciclocross (contro le 2 di Mathieu) ha un potenziale pazzesco: regge il ritmo sui massacranti muri fiamminghi, tiene alla distanza, ed è pure molto veloce. Lo ha dimostrato al Tour imponendosi in una volata di gruppo, prima di fare le valigie a causa di un brutto incidente durante la cronometro di Pau. Dal canto suo Van der Poel è un satanasso capace di spezzare tutti gli schemi tattici. Quindi, piace. Il modo inimmaginabile in cui ha vinto in aprile l’Amstel Gond Race, lo proietta di diritto nella cerchia ristretta dei grandi cacciatori di classiche. Di fenomeni ce ne sono altri in rampa di lancio. Mi piacerebbe inserire nella lista anche uno Svizzero. Lo faccio, sottovoce. Marc Hirschi, 21 anni il prossimo 24 agosto, campione del Mondo U23 lo scorso anno ad Innsbruck , non ha nulla in meno rispetto a chi ho citato. Anzi, il ragazzo proveniente dalla pista, cresciuto a Ittigen, il villaggio di Fabian Cancellara, dà persino l’impressione di essere superiore a loro quanto a recupero degli sforzi tra una tappa e l’altra. Tuttavia Marc è svizzero. E come tale soggiace a caratteristiche che sono quasi impresse nel nostro DNA collettivo: prudenza e progressione lenta e costante. Ovvero non bruciare le tappe, per non bruciare il motore. Perciò nei duelli che questa generazione di fenomeni ci regalerà, ci sarà anche lui. Ma non subito. Speriamo fra 2 o 3 anni. Non c’è forse un Campionato Mondiale sulle strade svizzere anche nel 2024?
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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch
I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.
ORIZZONTALI 1. In Spagna prima dell’euro 6. Postille 9. Eccesso nei prefissi 10. Avverbio di tempo 12. Le iniziali dell’attore Murphy 13. È molto espansivo 14. Erano sacre alle Vestali 15. Poesie classiche 16. Piccolo gruppo 18. Toro sacro agli egizi 19. In coppia col bottone 20. Primo satellite metereologico in orbita 21. La Venier 22. Piccolo rettile 23. L’autore di «Striscia la notizia» (iniz.) 24. Soldati senza soldi! 25. Non stanno né in cielo né in terra 27. Il famoso Galilei VERTICALI 1. Poltrona... a due gambe 2. Ventre prominente 3. Antico nome del compasso 4. Il... trasteverino 5. Aspro, acido 6. Ci... seguono in cucina 7.2Noia, fastidio 1 3 4 5 6 8. Corso d’acqua che esce da un lago 7 8 9 11. Sono uguali nell’insieme fattoria 10 14. Il cortile 11 della12 15. Lavoro in 14poesia 13 17. Le iniziali della conduttrice 15 16 17 18 19 20 Lanfranchi 21 18. Uccelli 22 23 d’acqua 24 25 20. Il ritorno del pendolo 26 27 28 29 30 31 21. Mezzo 32 33 34 35 36 22. Trovata comica 37 23. Anagramma di Eva 38 26. Le iniziali di Lincoln Partecipazione online: inserire la
soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-
Sudoku Soluzione:
Scoprire i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.
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luzione, corredata da nome, cognome, indirizzo, email del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 5 agosto 2019 • N. 32
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Politica e Economia Fase politica delicata Dopo il recente fallimento di Sànchez, c’è tempo fino al 23 settembre per trovare un accordo, altrimenti gli spagnoli torneranno alle urne
Fotoreportage Luigi Baldelli si è recato a Genova sui luoghi del ponte Morandi a un anno dal crollo per raccontare anche con la sua macchina fotografica quello che ha visto pagina 28
Diario da Pechino Ultima parte della serie di Federico Rampini sui cambiamenti che stanno avvenendo in Cina e la rivalità con gli Usa: una guerra fredda che sta uccidendo la globalizzazione
Sentenza preoccupante Luce verde del Tribunale federale alla consegna alla Francia dei dati di 40mila clienti francesi di UBS
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AFP
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Quando il Regno Disunito?
L’era Johnson Il vero dilemma che il nuovo premier conservatore è chiamato ad affrontare non riguarda solo
né tanto la Brexit, quanto l’unità del Paese. Al di là della pur centrale questione irlandese Lucio Caracciolo Boris Johnson (nella foto) non ci annoierà. Il nuovo premier britannico non è solo istrionico e imprevedibile, perenne recitatore di sé stesso. L’ironia della storia vuole che una personalità tanto peculiare assuma la massima responsabilità politica del Regno Unito nel momento in cui la monarchia britannica attraversa la sua crisi più seria dalla seconda guerra mondiale. Una delle differenze non secondarie fra allora ed ora sta anche nella diversità dei leader: non che Winston Churchill – fra l’altro, l’idolo del suo attuale successore, che gli ha dedicato una spumeggiante biografia – fosse personalità banale, ma a confronto di Boris Johnson potrebbe classificarsi flemmatico. In ogni caso l’incrocio fra il carattere di Boris e i nodi che sarà chiamato a sciogliere o a tagliare nei prossimi tre mesi promette scintille. Tutti siamo concentrati sulla scadenza del 31 ottobre, quando in teoria scade il termine ultimo per trovare un
accordo fra Unione Europea e Regno Unito tale da permettere una fuoriuscita concordata di quest’ultimo dalla prima. Johnson ha detto e ripetuto che è pronto a sancire la secessione dall’Ue senza intesa. Il no deal non è tabù. Sembra anzi che il premier lo desideri, magari per fare della Brexit secco il perno di elezioni da svolgere in ottobre per rinsanguare la sua maggioranza parlamentare, organizzata intorno all’esecuzione della volontà popolare così come fissata tre anni fa dal referendum voluto da David Cameron. La questione centrale, a lungo sottovalutata, è quella irlandese. Londra non vuole che dopo la Brexit si stabilisca un regime frontaliero che separi il suo status da quello di Belfast, quale scaturirebbe dalla volontà comunitaria di mantenere, in una forma o nell’altra, l’apertura del confine fra Irlanda del Nord e Repubblica d’Irlanda al traffico di persone e merci. In caso di ritorno al controllo «duro» della frontiera fra l’Irlanda britannica e quella indipendente, derivante dall’uscita della pri-
ma dall’Ue e dalla permanenza della seconda nello spazio comunitario, si riaprirebbe la stagione della violenza nell’Irlanda del Nord fra protestanti e cattolici, unionisti britannici e indipendentisti irlandesi. Nell’attesa, cresce il movimento che punta alla riunificazione dell’isola sotto Dublino, cui comincia ad inclinare anche parte dei protestanti. Nella frenetica e confusa bagarre sulla Brexit si era persa inizialmente di vista la dimensione geopolitica del problema. Molti, a Bruxelles e nelle principali capitali europee, non coglievano il fatto elementare – forse troppo elementare – che il Regno Unito non ha solo confini marittimi, ma anche uno terrestre, nel cuore dell’Irlanda. E che dividere quell’isola in due tronconi, uno dentro (la Repubblica) l’altro fuori (l’Irlanda del Nord, che con Scozia, Galles e Inghilterra configura il territorio matrice della monarchia britannica) è ardua chirurgia di prima classe. Quasi impossibile anche per un politico spericolato come Johnson.
Il vero dilemma che il nuovo premier conservatore è chiamato ad affrontare non riguarda quindi solo né tanto la Brexit, quanto l’unità del Regno Unito. Al di là della questione irlandese, consideriamo i seguenti fatti. Primo: la divisione fra Remain e Leave non spiega tutto. Non c’è netta bipartizione fra chi non vuole la secessione dall’Unione Europea e chi intende mantenere unito il Regno Unito. Il Remain londinese o generalmente inglese non è il Remain scozzese (per certi versi perfino gallese, dove emerge una finora sotterranea vena separatista). I primi vogliono restare sotto la Corona britannica e allo stesso tempo nell’Unione Europea. I secondi sono pronti a un secondo referendum sull’indipendenza entro il 2021, se Brexit sarà. E a quel punto il fantasma della Scozia indipendente potrebbe farsi realtà. Secondo: sta sorgendo un indipendentismo inglese, trasversale al Remain e al Leave, che minaccia di rivendicare le autonomie di cui fruisco-
no in diversi gradi e modi Edimburgo, Cardiff e Belfast – frutto della devoluzione avviata da Tony Blair alla fine degli anni Novanta – spingendosi fino a considerare la nascita di un’Inghilterra indipendente, emancipata dalla sua frangia celtica. Terzo: Londra non è solo la capitale del Regno Unito. Sempre più si sente e si muove come entità a sé, città Stato multiculturale e liberale, contrapposta al conservatorismo sui generis di Johnson. Da molti paragonato a Donald Trump. Insomma, Johnson è di fatto oggi primo ministro più o meno fino ai dintorni del Vallo di Adriano. È il capo dell’Inghilterra, molto meno del Regno Unito. Johnson divide l’Irlanda britannica e la stessa capitale, cuore economico, finanziario e culturale del paese. Nelle sue velleità di ritorno alle glorie imperiali, forse Johnson passerà alla storia come colui che ha finito per uccidere ciò che resta dell’impero. Facendone saltare il nucleo britannico. A quando il Regno Disunito?
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Politica e Economia
Un suicidio annunciato
Spagna La bocciatura parlamentare del socialista Pedro Sánchez come candidato alla presidenza del governo
è un perfetto esempio di «autolesionismo di sinistra»
Gabriele Lurati Delusione, disincanto e rabbia. Questi tre sentimenti riassumono l’attuale stato d’animo dell’elettorato progressista spagnolo dopo la mancata investitura di Pedro Sánchez come primo ministro. Nonostante svariati appelli e manifesti firmati da intellettuali e artisti, il Partito socialista di Sánchez e il movimento della sinistra massimalista di Unidas Podemos di Pablo Iglesias non sono riusciti a trovare un accordo. Il partito di Iglesias, astenendosi nel voto parlamentare necessario alla nascita del governo Sánchez, ha messo fine ai sogni di vedere una sinistra finalmente unita al governo. Si trattava di un’occasione storica, quella di avere il primo esecutivo formato da una coalizione progressista nella Spagna democratica. Tuttavia nei tre mesi dalla vittoria socialista del 28 aprile i due schieramenti hanno passato buona parte del tempo a fare annunci sui mezzi di informazione ma mai a sedersi assieme per accordarsi su un vero programma di governo. A furia di rimandare, i nodi tra i due partiti sono però venuti al pettine nel momento della verità, nei giorni dell’investitura di Sánchez. I problemi e gli screzi tra le due formazioni hanno la loro origine lontano nel tempo, trattandosi di due partiti politici con alle spalle culture e storie politiche diverse e che portano con sé una diffidenza reciproca di lunga data. Il Partito socialista obrero español (Psoe) è un partito di centro-sinistra che ha 140 anni di storia, esperienza di governo e di gestione della macchina dello Stato. Unidas Podemos invece è un movimento giovane che include molte anime, tra cui gli eredi del Partito comunista spagnolo (Izquierda Unida), i movimenti anti-establishment nati con la crisi economica (Podemos) e anche una piccola fazione di anticapitalisti. Nei decenni passati il Psoe ha sempre trattato gli allora comunisti con superiorità, dando per scontato che un appoggio parlamentare fosse sempre un atto dovuto per formare un
Pedro Sànchez forse non credeva fino in fondo a un accordo con Unidas Podemos. (AFP)
governo progressista e Izquierda Unida gliel’ha sempre concesso, senza chiedere nulla in cambio. Con l’irruzione di Podemos come attore protagonista dello scacchiere politico spagnolo nel 2015, i rapporti di forza tra i due partiti sono cambiati radicalmente. Il problema è che il Partito socialista non ha mai voluto prendere atto di questa mutata situazione e che non dispone di una maggioranza parlamentare per poter governare da solo (il Psoe ha 123 deputati alle Cortes su un totale di 350) come ha sempre fatto in passato. Inoltre lo scontro di personalità tra i leader dei due partiti, Iglesias e Sánchez, non ha fatto che aggravare la situazione. La strategia adottata nelle negoziazioni tra Psoe e Unidas Podemos è stata un autentico disastro. A differenza di altri Paesi, dove prima si inizia a negoziare un programma sulla base dei contenuti, e poi solo successivamente ci si mette d’accordo sulla struttura dell’esecutivo e sui nomi dei ministri, in Spagna è avvenuto l’esatto contrario. Mentre in Germania l’ultimo gover-
no di coalizione è stato costruito dopo 80 giorni di lavoro metodico tra Cdu e Spd, in Spagna si è pensato che fosse sufficiente mettere le basi per un esecutivo formato da questi due partiti solo nei giorni precedenti il voto in Parlamento. Una vera e seria negoziazione tra Psoe e Unidas Podemos quindi non c’è stata. Un po’ per il tatticismo di Sánchez che ha lasciato passare tre mesi senza prendere l’iniziativa ma forse soprattutto perché in Spagna c’è un «deficit politico nella cultura delle alleanze rispetto ad altri Paesi europei», come sottolineano i politologi. L’arroganza (del Psoe) e l’intransigenza (di Podemos) sono stati ostacoli insormontabili nella formazione di un governo di coalizione. In questi casi deve esserci la capacità di costruire dei ponti, cosa che non è avvenuta in Spagna a differenza di quanto succede in altre nazioni anche tra partiti politici molto più distanti ideologicamente (vedasi il caso della Grosse Koalition in Germania o persino dell’Italia, dove partiti con idee politiche contrapposte hanno sottoscritto
un contratto di governo). In Spagna, pur essendoci una distanza ideologica minore tra Psoe e Podemos, non si è riusciti a trovare un’intesa. Inoltre i litigi tra possibili alleati di governo hanno fatto arrabbiare i votanti di sinistra che non capiscono come i loro rappresentanti non riescano a mettersi d’accordo. C’è anche chi sostiene che Sánchez forse non credeva fino in fondo all’accordo con Unidas Podemos, visto che nel suo discorso in Parlamento ha esordito cercando dapprima l’astensione dei conservatori del Partito popolare e dei liberali di Ciudadanos. Ma quello che ha più colpito gli analisti è stato il fatto che Sánchez non abbia nemmeno menzionato il tema catalano, come se non esistesse il problema mentre è proprio la crisi istituzionale aperta con la Catalogna che l’ha messo in difficoltà in primavera, quando il suo governo era caduto per mano degli indipendentisti che gli avevano fatto mancare l’appoggio parlamentare sulla legge finanziaria. I nazionalisti baschi e gli indipendentisti catalani (il partito della Sinistra
repubblicana, in particolare) hanno fatto tutto il possibile, agendo quasi da mediatori tra Psoe e Unidas Podemos, affinché nascesse il governo Sánchez. Per buona parte degli indipendentisti si sarebbe trattato del «male minore», dato che un governo progressista sarebbe stato un po’ più conciliante con Barcellona (rispetto a un governo delle destre che fa dell’anticatalanismo il suo punto cardine) e fra breve tempo comincia una stagione politicamente difficile per i secessionisti. Per l’autunno è infatti prevista la sentenza sui leader indipendentisti catalani tuttora in carcere e vi sarà un probabile anticipo elettorale in Catalogna, dove il governo regionale naviga a vista tra mille difficoltà. Sánchez ha ancora tempo fino al 23 settembre per formare un governo, altrimenti si andrà al voto il 10 novembre; in tal caso si tratterebbe della quarta elezione generale in soli cinque anni. Il premier in funzione dovrebbe aver capito, dopo questa bocciatura, che in Spagna è finito il tempo per governi monocolore che nascono senza serie negoziazioni. Quindi, o Sánchez trova una soluzione alternativa con Unidas Podemos (come ad esempio concordare uno stabile appoggio esterno parlamentare come avviene in Portogallo, dove i socialisti stanno governando in minoranza da più di tre anni), o ben difficilmente in autunno rivincerà le elezioni. In caso di una nuova tornata elettorale, Sánchez non godrebbe più della vincente mobilitazione dell’elettorato di sinistra, spinto nell’aprile scorso anche dal desiderio di frenare l’avanzata dell’estrema destra di Vox. I disillusi di sinistra a novembre rimarrebbero in casa e si assisterebbe a una più che probabile vittoria della cosiddetta «Destra tripartita» (Partito popolare, Ciudadanos e Vox che attualmente già governano assieme in varie regioni del Paese). Un ritorno al voto sarebbe quindi controproducente per il Psoe ma soprattutto per Podemos. Sarà un agosto di lavoro dunque sia per Sánchez che per Iglesias, per trovare un’uscita dal vicolo cieco in cui si sono infilati.
Ponte Morandi, un anno fa il crollo
Reportage Il 14 agosto del 2018 43 persone hanno perso la vita a causa del crollo della struttura
che sarà sostituita da una nuova su idea dell’architetto Renzo Piano Luigi Baldelli «Papà, è crollato il ponte». «Non dire stupidaggini Daniele, scherzi sempre». La ricorda così, Anacleto 68 anni, quella mattina di Genova del 14 agosto 2018. Lo incontro davanti al portone del palazzo dove abita, a via del Campasso. La strada poco più avanti
è sbarrata da lamiere e cemento. Il suo è l’ultimo palazzo prima dell’inizio della zona rossa, la parte inaccessibile, la zona del ponte caduto che passava sopra ai palazzi e al torrente Polcevera ed univa Sampierdarena a Cornigliano, dove alcune case sono state già abbattute e presto anche quelle disabitate e ancora in piedi seguiranno la stessa
L’intera galleria fotografica è sull’edizione online di questa settimana. (foto Baldelli)
sorte. Anacleto fa il cuoco ed è arrivato da piccolo a Genova nel ’67, proprio quando stavano inaugurando il viadotto. «Per noi era un punto di riferimento, la sera con mia moglie ci si affacciava al balcone a guardare le luci delle auto che passavano. Può sembrare una cosa strana per chi non è di qui, assurda forse anche. Non era certo la visione più bella del mondo, ma era il nostro ponte. Io ci passavo mille volte all’anno. E adesso è strano non vederlo più». Il Ponte Morandi, che prende il nome dal suo architetto, è crollato seppellendo 43 persone che sono ricordate con mazzi di fiori sul ponte pedonale delle Ratelle. Quella mattina del 14 agosto di un anno fa si stava abbattendo un forte temporale. Così forte che il rumore dei tuoni aveva attutito e sopraffatto quello del crollo. Ma quel rumore, insieme al dolore della tragedia, in qualche modo, risuona ancora nell’aria a Genova. Poco dopo quella triste data sono iniziati i lavori di ricostruzione. Prima hanno iniziato a demolire quello che era rimasto in piedi: i moncherini del ponte, le case sotto e accanto a dove era stato costruito. Ma demolire è molto
più difficile che costruire. E dopo aver ripulito dalle macerie, aver permesso ai residenti di portare via le loro cose dalle case in cui non potevano più stare, sigillato i palazzi, chiuso le strade, smontato alcuni pezzi del ponte, a inizio giugno di quest’anno è iniziata la demolizione dei palazzi. Il giorno 28 alle 9,38 c’è stata l’esplosione che ha fatto crollare definitivamente quello che era rimasto del viadotto. Solo una parte di una pila oggi è ancora in piedi, sul lato di Cornigliano. Nel Ponte Morandi, nelle sue macerie, c’è amianto, la polvere tossica, e la preoccupazione dei cittadini per la propria salute è forte. Via Porro è lì, dietro l’angolo. Se ne possono percorrere solo un centinaio di metri e poi blocchi di cemento e transenne bloccano la strada. È l’inizio della zona rossa e un alto telone verde preclude la vista su quello che succede dall’altra parte. Si può intuire, dal rumore delle ruspe e dei martelli pneumatici: le ultime case stanno per essere abbattute. Poco lontano, un tendone bianco è la sede del comitato degli inquilini e degli sfollati coinvolti dal crollo. Si riuniscono qui per decidere che cosa fare, condividere informazioni,
esperienze, chiedere aiuto. In fondo, su un telo bianco appare il numero 43, che ricorda il numero delle vittime. Il Ponte Morandi inaugurato nel 1967, in pieno boom economico, è stato uno dei simboli non solo per i genovesi, ma per tutto il Paese. E rappresenta, forse, la metafora della vita italiana e di un Paese che non identifica i responsabili della tragedia. Il suo crollo ha messo a nudo negligenze e menefreghismo. Lungo una salita in cerca di un punto «panoramico» interessante, mi imbatto in Ferdinando, calabrese, capelli bianchi arruffati e mani da operaio. Mi conduce in un luogo dove riesco a vedere le macerie del ponte: pezzi di ferro, cemento, calcinacci, un pezzo di asfalto che una volta era l’autostrada. Camion e operai in continuo movimento. Se allungavi la mano, mi spiega, da qui ti sembrava quasi di toccare il ponte. Per 19 anni ho visto le auto sfrecciare, ho sentito il rombo dei loro motori. Sto per congedarmi da lui quando, con voce profonda e ferma, mi dice: «Sai quale è il ricordo che conserverò per sempre di quel giorno? Il silenzio che è seguito a quel devastante rumoroso crollo».
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Politica e Economia
In marcia verso l’autonomia
Diario da Pechino È una gara contro il tempo quella che si disputa fra un’America che spera di arrestare l’avanzata
prima che sia troppo tardi e la potenza rivale che non ha intenzione di fermarsi– Quarta e ultima parte
Federico Rampini La Seconda guerra mondiale divenne davvero un conflitto planetario quando il Giappone attaccò gli Stati Uniti a Pearl Harbor, il 7 dicembre 1941, dando al presidente americano Franklin Delano Roosevelt la spinta finale per l’intervento militare diretto. Nella narrazione giapponese quell’attacco a tradimento, senza una formale dichiarazione di guerra, era stato reso inevitabile perché l’America stava mettendo in difficoltà l’economia del Sol Levante con un embargo: non tanto di materie prime (benché Tokyo fosse dipendente dal petrolio americano) bensì di macchinari, aeroplani, prodotti tecnologicamente sofisticati. Quasi ottant’anni dopo Pearl Harbor, ci stiamo forse avvicinando ad uno scenario simile, dopo l’embargo decretato da Donald Trump sulle vendite di semiconduttori made in Usa alla Cina? I negoziati commerciali tra le due superpotenze sono ripresi il 30 luglio a Shanghai ma senza progressi significativi. La delegazione americana e quella cinese hanno chiuso l’incontro con dei comunicati vagamente positivi, generiche dichiarazioni di ottimismo, e si sono date appuntamento per l’incontro successivo a Washington a settembre. Contemporaneamente Trump gelava l’atmosfera dichiarando poco probabile un accordo prima delle elezioni del 2020. Il presidente in questo caso è realista. Come si è visto al secondo duello televisivo tra i candidati democratici alla nomination, ormai l’opposizione fa a gara nello scavalcare Trump sul protezionismo contro la Cina; non gli darà tregua se dovesse accettare un accordo al ribasso. Ma soprattutto, è sul terreno delle tecnologie avanzate che Stati Uniti e Cina sembrano avviati verso «la trappola di Tucidide», l’inesorabile resa dei conti tra una potenza egemone in declino, ed una potenza in ascesa che aspira alla leadership. Il caso dei semiconduttori s’intreccia e in parte coincide con il caso Huawei. In questi giorni l’Amministrazione Trump, precisamente il suo Commerce Department, dovrebbe rivelare quali aziende americane e per quanto tempo saranno «graziate» con un permesso speciale, per poter continuare a vendere componentistica alla Cina, in particolare al suo campione nazionale delle telecom, cioè appunto Huawei. Questo colosso, nato da una costola dell’Esercito Popolare di Liberazione, è stato accusato da Washington di ogni nefandezza: furti di segreti industriali americani, spionaggio strategico al servizio di Pechino; ed anche violazione di sanzioni contro l’Iran (per quest’ultima accusa è tuttora agli arresti domiciliari in Canada e in attesa di estradizione verso gli Stati Uniti la direttrice finanziaria di Huawei, Meng Wanzhou, che è anche la figlia del fondatore). L’embargo entrò in vigore nel maggio 2019. Costrinse Google, Qualcomm, Broadcom e altre aziende a congelare le proprie forniture a Huawei. Nel caso di Google, ad esempio, è stata decisa la cessazione
L’embargo contro Huawei ha aperto uno scenario nuovo, quello della glaciazione della globalizzazione. (Keystone)
delle vendite di certi software Android che vengono installati sugli smartphone Huawei. Qualcomm invece è uno dei maggiori fornitori di microchip, memorie intelligenti che sono l’anima e il cervello dei telefonini. L’embargo ha colpito anche le vendite di altre aziende americane come Microsoft e Dell. Si allarga a imprese non americane, come la Samsung sudcoreana e la Panasonic giapponese. Basta che queste multinazionali incorporino il 25% di componenti made in Usa nei loro prodotti, per essere automaticamente soggette al provvedimento dell’Amministrazione Trump. Silicon Valley e dintorni hanno protestato contro questo embargo che danneggia anche l’America. In media le aziende Usa esportano in Cina semiconduttori per un valore di 30 miliardi di dollari all’anno. Queste stesse aziende oggi sono soggette a contro-rappresaglie e ritorsioni da parte del governo di Pechino che ha iniziato a stilare un suo elenco di reprobi, aziende «inaffidabili», che saranno messe al bando per aver obbedito alle direttive di Trump. Ora le pressioni della lobby americana dei semiconduttori possono strappare una tregua. Sapremo molto presto quali aziende vengono esentate dall’embargo, per quali prodotti, per quanto tempo. Ma questo embargo ha comunque aperto uno scenario nuovo. Tutti devono rivedere le proprie previsioni a medio-lungo termine. Siamo agli albori di una nuova guerra fredda (ammesso che non degeneri in guerra calda, conflitto militare vero e
proprio); probabilmente si apre un’èra glaciale della globalizzazione. Verranno smontati molti dei meccanismi che avevano reso il mondo più omogeneo, integrato, complementare fino alla simbiosi. Tutto questo non nasce dalla smanìa protezionista di Trump. La «trappola» è un meccanismo che viene da lontano, verso cui convergono cambiamenti iniziati molto prima che Trump diventasse presidente.
Il punto debole della Cina è la sua dipendenza dai semiconduttori made in Usa, sulla cui vendita Trump ha decretato l’embargo Per un paio di decenni la Cina era stata libera di costruirsi un Internet separato, dietro quella nuova muraglia cinese che è la censura. Il numero di cinesi online supera la somma di americani ed europei. La Cina ci ha raggiunti e sorpassati in molte tecnologie digitali, ma si mescola relativamente poco con noi. Non usa gli stessi social media, visto che Facebook e Twitter sono vietati. Non usa le stesse messaggerie: Weixin sostituisce Whatsapp (vietato pure quello). I pochi coraggiosi che vogliono sfidare la censura cinese l’aggirano con i Vpn – Virtual Private Network – ma lo fanno a proprio rischio e pericolo. La stragrande maggioranza dei cinesi è a suo
agio in quell’Internet separato, dietro le recinzioni costruite dal suo governo. Oltre alla censura e al protezionismo che discrimina contro gli stranieri, c’è stato anche un boom d’imprenditorialità digitale, per cui alcune imprese hanno soppiantato la concorrenza americana trovando soluzioni più adatte ai gusti dei consumatori cinesi. Ma all’origine c’è stato comunque un robusto dirigismo pubblico che ha voluto favorire l’emergere di «campioni nazionali» cinesi. In ritardo, l’America reagisce alzando a sua volta una muraglia. L’embargo – anche se avrà eccezioni e tregue – è la risposta di Washington a quella separatezza che Pechino ha pianificato molto in anticipo. La punizione americana individua una minaccia strategica prevalente; e un tallone d’Achille dell’industria cinese. La minaccia strategica più immediata – caso Huawei – è che la Cina conquisti la supremazia mondiale nella telefonia di quinta generazione, 5G, una tecnologia che potrebbe condurci verso una nuova dimensione del digitale (l’Internet delle cose, nuove frontiere per la robotica, l’automazione, l’intelligenza artificiale) con ricadute civili ed anche militari. Il punto debole della Cina è appunto la sua dipendenza dai semiconduttori made in Usa. Come alla vigilia di Pearl Harbor, gli americani tentano di bloccare l’ascesa del rivale privandolo di risorse essenziali. Ma questo apre nuove domande. Com’è stato possibile che la Cina sia arrivata prima al tra-
guardo del 5G, precedendo l’America? Quanto può essere efficace l’embargo sui semiconduttori made in Usa? Quali sono gli scenari che si aprono adesso? La prima domanda, sul sorpasso cinese, non ha risposte univoche. Scelgo quella che mi pare più documentata e convincente, riassunta in un’analisi di Charles Duan, «Why China is Winning the 5G War», apparsa sulla rivista «The National Interest» il 5 febbraio 2019. Da una parte c’è una patologia americana che conosco bene, per averla analizzata anni fa nel mio libro Rete Padrona: la degenerazione nella guerra dei brevetti. La Silicon Valley, scrissi già anni fa, è diventata la Valle degli Avvocati: i Padroni della Rete si combattono sempre meno sul terreno dell’innovazione, sempre più nei tribunali. O prima ancora di arrivare ai tribunali, nell’accumulazione di arsenali di brevetti che servono soprattutto a dissuadere i nuovi ingressi: barriere giuridiche erette attorno all’oligopolio, che cristallizzano i rapporti di forze. Nell’analisi di Duan sul banco degli imputati per il ritardo nel 5G c’è Qualcomm, la società di San Diego (non proprio Silicon Valley bensì California meridionale) che è stata all’avanguardia nell’innovazione per le telecom, ma oggi è soprattutto all’avanguardia «nelle strategie legali più contorte». Insomma l’America ha perso tempo ed ha accumulato ritardi nel 5G perché il ritmo dell’innovazione è stato rallentato dall’assenza di una vera competizione. Nello stesso tempo, gli investimenti cinesi nel 5G hanno già superato quelli americani per 24 miliardi di dollari. E Pechino pianifica 511 miliardi di dollari di investimenti nel 5G nell’arco del prossimo decennio. Da una parte abbiamo un modello americano a base di laissez-faire, che però non è più fondato su una vera libertà di mercato visto che i nuovi monopolisti riescono a soffocare la concorrenza. Dall’altro c’è un modello cinese che riesce a combinare una forte presenza pubblica, un dirigismo governativo con importanti risorse, e una vera fioritura imprenditoriale. Questo in parte rievoca un altro capitolo delle sfide passate tra Stati Uniti e Giappone. Negli anni Ottanta sembrò che il Sol Levante fosse in grado di sorpassare l’America in molti settori, grazie ad un’originale combinazione fra statalismo, pianificazione pubblica, e capitalismo privato. Poi Ronald Reagan riuscì a fermare l’invasione nipponica con il suo protezionismo. Trump spera di fare la stessa cosa con la Cina. I dirigenti cinesi sembrano convinti di essere qualcosa di molto diverso dal Giappone degli anni Ottanta. Di certo la prima lezione che vogliono trarre dallo scontro attuale è questa: accelerare la marcia verso l’autosufficienza. Lo ha detto a chiare lettere il fondatore e chief executive di Huawei, Ren Zhengfei. La sua azienda vuole bruciare le tappe per diventare autonoma nella produzione di semiconduttori. È una gara contro il tempo, fra un’America che spera di arrestare l’avanzata cinese «prima che sia troppo tardi», e la potenza rivale che non ha l’intenzione di fermarsi qui. Annuncio pubblicitario
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Politica e Economia
UBS, una sentenza che preoccupa
Evasione fiscale Il Tribunale federale ha autorizzato la consegna alla Francia dei dati di oltre 40’000 clienti francesi
dell’UBS creando preoccupazioni sul piano bancario e politico
Ignazio Bonoli Un articolo della «NZZ am Sonntag» ha riportato all’attenzione pubblica la sentenza del Tribunale federale che obbliga l’UBS a fornire al fisco francese i dati di oltre 40’000 clienti della banca, considerati in Francia possibili evasori fiscali. Vista l’importanza del tema e l’interesse delle parti, la seduta del TF è stata pubblica. Si sono così venute a sapere le difficoltà del Tribunale di trovare nel suo interno un accordo su un tema che determinerà l’atteggiamento delle autorità svizzere nell’applicazione delle regole internazionali sullo scambio automatico di informazioni fiscali e nell’interpretazione degli accordi sulla doppia imposizione, conclusi dalla Svizzera con molti paesi. Per il momento il Tribunale federale ha considerato che la documentazione della Francia, sulla quale si basa la domanda di assistenza amministrativa, sia sufficiente a dimostrare che contenga nomi di evasori fiscali e non sia frutto di azioni illegali. Anche le assicurazioni che questi dati non verranno utilizzati nel processo penale contro l’UBS in Francia sono considerate attendibili da una maggioranza dei giudici federali. Così facendo, il TF ha contestato i dubbi sorti in precedenza circa il carattere di «fishing expedition» della richiesta francese. Dal canto suo, l’UBS ha fatto sapere di attendere le motivazioni scritte della sentenza, prima di pronunciarsi,
Non tutti sono convinti come il Tribunale Federale che i dati consegnati al fisco francese non verranno usati nel processo penale in Francia contro UBS. (Keystone)
ma anche di aspettarsi che l’Amministrazione federale delle contribuzioni (AFC) si attenga strettamente al principio di «specialità», prima di comunicare i dati. Il ministro delle finanze Ueli Maurer ha fatto comunque notare che la Svizzera si attiene agli standard internazionali anche in questo annoso caso di assistenza giudiziaria e che anche in futuro esaminerà attentamente che le premesse per la trasmissione di dati siano pienamente rispettate. Nonostante tutte le rassicurazioni sussistono parecchi dubbi sulle carat-
teristiche della richiesta francese di assistenza. Intanto i dati delle autorità parigine provengono da liste in mano al fisco germanico, sottratte illegalmente all’UBS nel 2012 e 2013. Le autorità francesi giustificano l’azione, poiché si tratta di nomi di soggetti fiscali francesi che si sarebbero sottratti al pagamento delle imposte, per gli anni dal 2010 al 2015. Nel 2018, l’AFC faceva sapere all’UBS che avrebbe aderito alla richiesta francese di assistenza. Contro la decisione, l’UBS si è rivolta al Tribunale amministrativo federale che le ha
dato ragione, giudicando le richieste francesi troppo generiche e non tali da dimostrare che le persone interessate abbiano tutte realmente evaso il fisco. Il Tribunale federale non è però stato della stessa opinione, considerando invece la richiesta come una «domanda di gruppo», da trattare come tale e con i criteri corrispondenti. Le divergenze sono nate appunto sulla valutazione di questi criteri. In seduta pubblica, un giudice ha seguito le indicazioni dell’istanza precedente, che diceva potersi trattare in sostanza di una grande operazione di «fishing», la più grande di tutta la storia. Il presidente del Tribunale ha riassunto la situazione dicendo che così facendo si afferma che il solo fatto di avere un conto presso una banca, coinvolta in una procedura giudiziaria, sia sufficiente per concedere l’assistenza amministrativa. Gli altri tre giudici hanno però ritenuto che la Francia abbia sufficientemente documentato il sospetto che nelle liste a sua disposizione vi siano evasori fiscali. Circa l’altro punto controverso, cioè la probabile utilizzazione dei dati nel processo in Francia contro l’UBS, il TF ha giudicato che, sulla base del trattato sulla doppia imposizione con la Francia, questo non è possibile. Cosa alquanto dubbia se è vero, secondo uno dei giudici federali, che nel processo di prima istanza contro l’UBS a Parigi, è stato detto esplicitamente che questi dati verranno usati anche nel processo penale.
Le difficoltà e le divergenze del Tribunale federale lasciano capire quanto delicata sia la questione. Per questo – nonostante che di regola le sentenze del TF non vengano discusse – si può capire l’allarme sorto in Svizzera non solo negli ambienti bancari, ma anche in quelli politici. Se ogni volta di fronte a casi analoghi vengono usati gli stessi criteri, quel poco che rimane in Svizzera della protezione della sfera privata andrà totalmente scomparendo. Ancora una volta non si può far a meno di pensare che nei trattati internazionali la Svizzera pratica uno scrupoloso rispetto delle regole, ma non può mai essere sicura che la controparte faccia altrettanto. Tuttavia, dopo gli accordi internazionali sugli standard OCSE e i vari trattati bilaterali sulla doppia imposizione, lo spazio di manovra per la Svizzera è molto ridotto. Anzi, una sentenza come quella nel caso UBS potrebbe aprire la porta a tutta una serie di richieste di altri paesi, in particolare per quanto avvenuto prima della firma dei trattati citati. Eppure le banche svizzere hanno fatto molto per risolvere le questioni del passato, spesso in accordo con le autorità dei paesi interessati e dopo la firma dei trattati sullo scambio automatico di informazioni, la Svizzera fornisce regolarmente dati ad altri paesi, nel rispetto delle regole stabilite. Da qui l’accorato appello di uno dei giudici del TF a rivedere le leggi e le prassi che si applicano a questo delicato contesto. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 5 agosto 2019 • N. 32
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Politica e Economia
Previsioni sui tassi: è possibile un nuovo calo? La consulenza della Banca Migros
2.6 %
Tassi medi in Svizzera per ipoteche con diverse durate 2.4 %
Ipoteca fissa, durata 7-10 anni
Ipoteca fissa, durata 5-7 anni
2.2 %
Ipoteca fissa, durata 3-5 anni
Ipoteca Libor 6M, durata 3 anni
2%
1.8 %
1.6 %
1.4 %
1.2 %
1%
importazioni. Negli ultimi anni, le spinte all’apprezzamento sono state determinate da crisi finanziarie e dal cambio di rotta da parte della Banca centrale europea (introduzione di tassi d’interesse negativi e acquisti di titoli di Stato).
Nel primo semestre i tassi ipotecari sono nuovamente diminuiti in Svizzera (v. grafico). Se si considerano gli indicatori relativi alle aspettative delle banche in materia di tassi d’interesse (ad esempio i tassi swap), il potenziale
Fonte: BNS
Irina Martín è economista presso la Banca Migros
Come previsto, nella sua valutazione della politica monetaria del 13 giugno scorso la Banca nazionale svizzera (BNS) ha deciso di lasciare il tasso di riferimento invariato al –0,75%. Tuttavia, la debolezza globale della crescita e l’intenzione delle banche centrali USA ed europea di procedere a un allentamento monetario inducono sempre più a chiedersi se in Svizzera nel prossimo futuro ci siano da aspettarsi tassi di riferimento ancora più bassi. In seguito al rallentamento congiunturale a livello globale e all’orientamento espansivo adottato dalle grandi banche centrali, non si può più escludere una riduzione del tasso di riferimento da parte della BNS. Il mandato costituzionale e legale prevede che la BNS garantisca la stabilità dei prezzi tenendo conto dell’andamento congiunturale. Partendo da questo presupposto, al momento non è necessario alcun intervento: l’inflazione è positiva e l’economia continua a crescere, anche se appare meno dinamica rispetto all’anno scorso. Riteniamo pertanto poco probabile che la BNS riduca il tasso di riferimento nel prossimo futuro. Non si può tuttavia escludere del tutto una riduzione del tasso di riferimento. Se il franco dovesse subire un netto rialzo, questo sviluppo potrebbe rapidamente rafforzare la pressione deflazionistica poiché renderebbe più economiche le
15.05.2012 15.07.2012 15.09.2012 15.11.2012 15.01.2013 15.03.2013 15.05.2013 15.07.2013 15.09.2013 15.11.2013 15.01.2014 15.03.2014 15.05.2014 15.07.2014 15.09.2014 15.11.2014 15.01.2015 15.03.2015 15.05.2015 15.07.2015 15.09.2015 15.11.2015 15.01.2016 15.03.2016 15.05.2016 15.07.2016 15.09.2016 15.11.2016 15.01.2017 15.03.2017 15.05.2017 15.07.2017 15.09.2017 15.11.2017 15.01.2018 15.03.2018 15.05.2018 15.07.2018 15.09.2018 15.11.2018 15.01.2019 15.03.2019
Irina Martín
di ribasso non appare ancora esaurito. Per i proprietari di un’abitazione e per chi desidera acquistare un immobile, è ancora un buon momento per assicurarsi un finanziamento a condizioni vantaggiose. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 5 agosto 2019 • N. 32
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Idee e acquisti per la settimana
Dal forno per la stagione estiva
Quello piatto è tra i pani tradizionali più comuni e apprezzati nel mondo intero. Il pane del mese delle panetterie della casa Migros è una schiacciata mediterranea ricca di aromi che si presta a numerosi abbinamenti Testo: Claudia Schmidt; Foto: Veronika Studer, Gaëtan Bally
Foto e styling: Veronica Studer (Food); Gaëtan Bally
Pita, pide, schiacciata: questi soffici pani piatti di pasta lievitata sono profondamente radicati nella cucina mediterranea. La nuova schiacciata del mese è un delicato accompagnamento per insalate e salsine piccanti e può essere utilizzata per preparare panini, anche
con ingredienti cotti alla griglia. Per produrre la schiacciata si utilizza farina di frumento TerraSuisse, la forma le viene data manualmente e viene infine cosparsa di semi di sesamo e origano. In tal modo ci si può godere l’estate mediterranea anche a casa.
Schiacciata TerraSuisse 400 g Fr. 3.50 Nelle filiali con panetteria della casa
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 5 agosto 2019 • N. 32
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Serie Fresco & fatto a mano nelle panetterie della casa
Zoe Matter (20) nella panetteria della casa di Olten. Assieme a circa 900 professionisti che lavorano nelle 130 panetterie della casa, assicura che il pane sia sempre disponibile appena cotto fino all’orario di chiusura.
«È adatto per questa stagione» Per quale motivo è diventata panettiere-pasticciere?
Mi piace lavorare con le mani. E dare forma agli impasti mi diverte.
Quale il vantaggio di lavorare in una panetteria della casa?
La gente vede come viene lavorato il pane. Possiamo preparare pane fresco sull’arco dell’intera giornata e reagire con tempestività se un dato giorno una varietà viene venduta particolarmente in fretta. È anche piacevole quando qualcuno si ferma per osservare come lavoriamo, per esempio un nonno in compagnia di suo nipote.
la chiamiamo «rosa» – bisogna prestare attenzione affinché venga bene. E quale il pane che mangia più volentieri?
La domenica la treccia. La preferisco abbinata al salato, con burro e carne secca. Prepara la treccia anche a casa?
No, la treccia della panetteria della casa è così buona che non ho la necessità di prepararla io a casa. La nuova schiacciata è il «pane del mese». Cosa la caratterizza?
… perché è così versatile. Si può mangiare in ogni momento, mattino, mezzogiorno e sera.
È un pane adatto per questa stagione. La schiacciata è particolarmente indicata come accompagnamento alle grigliate. O da portare durante le escursioni. È versatile, è facile da tagliare e la si può farcire o usare per preparare dei panini.
Quale il pane che preferisce preparare nella panetteria della casa?
Quali sono le varietà di pane preferite nella panetteria della casa di Olten?
Il pane è irrinunciabile perché…
La corona croccante. È perfetta durante la stagione del grill. E anche se dall’aspetto appare così semplice, per avere una bella crosta – quella con questa forma noi
Da noi la treccia è senza dubbio la numero uno, i nostri clienti la adorano. Ma sono molto apprezzati anche il pane delle alpi e il pane ticinese.
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Quattro anni di legge Weber La legge federale che intende limitare la costruzione di case a appartamenti di vacanza ha un po’ più di quattro anni (essendo stata approvata il 20 marzo 2015), ma continua a suscitare un dibattito tra esperti intorno alle sue clausole, al modo nel quale dovrebbe venir applicata, e alle sue conseguenze economiche. Il dato che tutti conoscono è che la legge impedisce di costruire nuove residenze secondarie in comuni nei quali la quota delle abitazioni di vacanza supera già il 20% di quelle esistenti. Si tratta praticamente di tutti i comuni della regione alpina con qualche piccola eccezione. Stando all’apposito studio fatto allestire dal Cantone nel 2017, in Ticino tutti i comuni di montagna registrano una quota di residenze secondarie al di sopra del 20%, con picchi sopra al 50% nei distretti
di Leventina, Blenio e Vallemaggia. Sempre stando alle informazioni fornite da questo rapporto la quota del 20% di residenze secondarie è però superata anche da comuni delle aree urbane situate attorno ai laghi. Così nel Locarnese, mentre la città possiede una quota di residenze secondarie che oscilla attorno al 16%, i comuni di Ascona, Brissago, Brione, Minusio, Muralto, Orselina e Ronco sopra Ascona hanno tutti quote superiori al 20%. Nel Luganese si riproduce la medesima situazione con i Comuni di Bissone, Collina d’Oro, Melide, Morcote e Vico Morcote, Brusino Arsizio, Caslano, Magliaso, Maroggia e Ponte Tresa, mentre Lugano e Paradiso possiedono quote inferiori a quella fissata dalla legge. I problemi sollevati dalle residenze secondarie non sono uguali in tutti i
comuni. In quelli delle regioni di montagna si pone, e questa sembra essere stata la maggiore preoccupazione dei promotori della stessa, il problema del conflitto tra nuove costruzioni e protezione della natura e del paesaggio. Nel caso del Ticino, però, le residenze secondarie di montagna sono molte volte costituite non da nuove costruzioni, ma da vecchie costruzioni nei nuclei o nei maggenghi che vengono recuperate e riattate a questo scopo. Mentre non si può negare che esistano casi particolari di conflitto tra le residenze secondarie e la protezione della natura e del paesaggio, in generale si può affermare che nei comuni delle montagne ticinesi la residenza secondaria ha molte volte contribuito a salvaguardare un patrimonio edificato vecchio di qualche secolo che,
altrimenti, sarebbe stato abbandonato all’incuria del tempo. Diverso il caso nei comuni delle regioni lacuali nei quali la residenza secondaria quasi sempre è in conflitto con la residenza primaria. Qui le case e gli appartamenti di vacanza sottraggono superficie abitabile alle residenze primarie e, di conseguenza, fanno lievitare prezzi e affitti per le persone che risiedono permanentemente in questi comuni. Sulle conseguenze dell’applicazione della nuova legge non esistono ancora studi dettagliati. Si sa che dal 2013 all’entrata in vigore della legge (1.1.2016) il numero dei permessi di costruzione di residenze secondarie è aumentato. Evidentemente i promotori cercavano di evitare i rigori del nuovo strumento legale. In molte destinazioni si è così costruito molto più di quanto la
domanda richiedeva. Di conseguenza, ancora oggi, esiste un eccesso di offerta. Lo sviluppo delle vendite viene bloccato dalle aspettative di guadagno dei proprietari. È chiaro che, a medio termine, dovrà manifestarsi un calo significativo dei prezzi. Tuttavia quello delle residenze secondarie è un mercato nel quale una buona parte dell’offerta è nelle mani di persone che possono attendere. Tanto più che, da un paio d’anni, con la possibilità di ricorrere al portale Airbnb i proprietari possono ottenere un guadagno non indifferente, affittando la loro proprietà ai turisti, senza incorrere (almeno per il momento) in alcun inghippo giuridico. A perderci, in questi frangenti, sono quindi oltre agli inquilini anche gli albergatori della destinazione turistica in questione.
ma il rapporto di fiducia si era interrotto e si sa che recuperare, in questi casi e con questo presidente, è impossibile: così Coats ha presentato le dimissioni, a partire dal 15 agosto. Trump ha già scelto il sostituto: è il deputato del Texas John Ratcliffe, che deve passare le audizioni al Senato – che al momento sembrano molto incerte per lui – ma che ha già avuto modo di fare una propria personalissima audizione per Trump durante la testimonianza di Robert Mueller, il superprocuratore del Russiagate. Lo scambio tra i due è finito con Ratcliffe che diceva: «Concordo con il presidente della Commissione che dice che Donald Trump non è al di sopra della legge. Non lo è. Ma certamente non è nemmeno al di sotto della legge, che è invece il posto in cui lo colloca il volume due di questo report», cioè del report di oltre 400 pagine presentato da Mueller nei mesi scorsi. Ratcliffe sposa anche la versione di Trump sulle relazioni tra America e Russia: è stata Hillary Clinton a colludere con le spie russe. La dichiarazione di lealtà è arrivata dritta alle orecchie di Trump – amplificata dalla consueta solerzia di Fox News – che aveva già detto ai suoi, nei giorni precedenti la deposizione, di
volere Ratcliffe a capo della Intelligence. I beninformati dicono che in realtà l’ambizione del conservatore texano 56 anni era la nomina a ministro per la Giustizia, vista la sua esperienza come procuratore nel suo Stato che si vantava di aver arrestato «300 alieni illegali» in un solo giorno. Ma non si può dire che sia dispiaciuto del nuovo incarico, tutt’altro, anche perché ha buoni rapporti con il nuovo direttore dell’Fbi che conosceva già dai tempi di Bush e soprattutto alla Giustizia c’è un ministro, William Barr, che agli occhi di Trump assolve lo stesso obiettivo: politicizzare quelle zone dell’Amministrazione considerate più ostili. Trump premia la fedeltà e governa in questo modo i conflitti attuali e potenziali. Il suo scontro con la comunità dell’intelligence ha scandito la sua presidenza, più volte il presidente ha accusato l’Fbi e la Cia di aver alimentato complotti contro di lui – è la celebre retorica del «deep state» tornata tanto di moda. Il rapporto resta complicato e pieno di sospetti: Trump continua a credere più al suo istinto e a quel che gli dicono i leader internazionali con cui ha più sintonia che ai report dell’intelligence. Quando la Cia ha stabilito che il prin-
cipe saudita Mohammed bin Salman ha pianificato l’uccisione del giornalista Jamal Khashoggi nel consolato saudita a Istanbul, Trump ha definito il rapporto «feelings», sensazioni, gettando via il lavoro di mesi e le prove raccolte. L’intelligence – ha scritto un esperto di sicurezza sul «Washington Post »– «è tutta una questione di fatti. In un mondo ideale, i politici ricevono documenti neutrali sui più importanti dossier internazionali e prendono le loro decisioni tenendo bene a mente le informazioni ricevute. La politicizzazione dell’intelligence inverte questo processo: non sono più le informazioni a guidare le politiche, ma sono le politiche a guidare le informazioni o la loro raccolta». Tale inversione fa parte della strategia di Trump: se Ratcliffe ha intenzione di seguire il presidente indipendentemente dai fatti, è evidentemente più facile per Trump far passare le proprie idee, dalla Corea del nord all’Iran passando per la Russia. Intanto non c’è alcuna prova che Pyongyang stia ridimensionando le sue aspirazioni nucleari; lo Stretto di Hormuz è già terreno di battaglia con Teheran (per non parlare dell’Iraq); e la Russia si sta preparando alla prossima tornata elettorale americana.
L’ultimo fronte riguarda la geografia insegnata nei licei. L’Associazione Gea, che riunisce i cultori della materia, è intervenuta pubblicamente per denunciare l’intenzione di ridurre la dotazione oraria di questa disciplina alle Superiori: «è l’unica materia in assoluto – osservano nella lettera inviata al Decs – a subire un taglio significativo: non sarà più insegnata nel secondo anno con tutto ciò che comporta (soppressione di contenuti, costruzione di un discorso meno completo, carenza di nozioni di base in particolare sui problemi ambientali…»). Non è questione di primati: sostenere, per esempio, che lo spazio sia più importante del tempo. Si tratta di riconoscere che geografia e storia contribuiscono entrambe, ciascuna coi propri metodi, a leggere e decifrare l’ambiente che le comunità umane hanno modellato nei secoli. Non per nulla uno studioso come Fernand Braudel parla-
va di «geostoria», esortando i colleghi a non trascurarla: «Riconosciamolo: la geografia investe con una luce rivelatrice i fili innumerevoli che si intrecciano nella complicatissima trama della vita umana. In qualsiasi ricerca sul passato, in qualsiasi problema di attualità, ritroveremo sempre, costante, ma anche luminosa agli occhi di un osservatore veramente interessato, la zona che abbiamo designato col brutto nome di geostoria». Ormai le emergenze sono sotto gli occhi di tutti, e per fortuna i giovani hanno iniziato a mobilitarsi, scrollandosi di dosso l’accidia degli adulti. Il ritiro dei ghiacciai, l’assedio della plastica, l’ozono oltre i limiti, l’incremento delle polveri fini, insomma la sensazione che l’ecosistema in cui viviamo somigli viepiù ad una morta gora, obbliga gli educatori a rivolgersi alle scienze umane, articolate in storia, demografia, economia, sociologia, ecologia. A
questo plesso di discipline, la geografia contribuisce con gli strumenti che le sono propri e che hanno nello studio del territorio, della sua evoluzione e trasformazione, il terreno privilegiato d’intervento. Si ridia dunque fiducia e ore d’insegnamento ai geografi, portatori di un sapere che può contare sull’apporto di urbanisti, architetti, paesaggisti e pianificatori. Ovvero di uno sguardo multiforme che abbraccia le basi materiali dell’esistenza (dato fisico) in costante dialogo con l’indefessa opera dell’uomo (dato antropico). Solo così potrà farsi largo una consapevolezza ambientale non effimera, in cui l’emozione contingente per i guasti provocati da uno sfruttamento scriteriato delle risorse ritrova la sua ragion d’essere in una solida conoscenza scientifica degli agenti patogeni che noi stessi alimentiamo attraverso le nostre scelte e i nostri comportamenti.
Affari Esteri di Paola Peduzzi La strategia di Trump La voce a Washington girava da tempo: Dan Coats, direttore dell’Intelligence nazionale americana, sta per andarsene, o per essere cacciato. Il metodo di Donald Trump ormai lo conosciamo, chi non è d’accordo con lui viene piano piano allontanato, spesso dileggiato, comunque messo nelle condizioni di non contare, e infine di cedere il posto. Coats ha 76 anni, ha rappresentato il suo Stato, l’Indiana, sia alla Camera sia al Senato, è stato ambasciatore in Germania di Bush jr e si è pubblicamente scontrato con il presidente su questioni
cruciali, che vanno dalle interferenze russe nella campagna elettorale del 2016 alle ambizioni nucleari della Corea del nord. Quando qualche tempo fa Trump twittò sui capi dell’intelligence «passivi e ingenui» chiedendo di «rimandarli a scuola», ce l’aveva proprio con Coats, che soprattutto sul tema russo – che ha avvelenato finora l’intera presidenza – aveva difeso la versione dei servizi segreti: l’ingerenza c’è stata, eccome. Dopo lo scontro, Trump aveva rinnovato la sua fiducia nei confronti di Coats, gli aveva chiesto di non rinunciare all’incarico,
John Ratcliffe, repubblicano del Texas, è il nuovo capo dell’intelligence nazionale. (AFP)
Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti L’ora di geografia Le scuole sono ancora chiuse, ma le discussioni intorno alla loro missione proseguono. Continuano sotto traccia, in sedi poco visibili, sulle pagine di riviste come «Verifiche» (Per una scuola capace di interrogarsi sul proprio futuro) o «Dialoghi» (integrazione della facoltà di teologia nell’Usi). Specchio e cassa di risonanza della società, l’istituzione scolastica si ritrova in prima fila ad affrontare l’onda d’urto proveniente da varie sponde, in primo luogo da quella imprenditoriale, un mondo in piena fibrillazione trainato dalla locomotiva tecnologica. L’inquietudine monta ovunque: nelle famiglie, che spesso abdicano al loro compito perché disunite o disorientate; tra i pedagogisti, alle prese con modelli macchinosi di ardua applicazione; ai piani alti delle autorità politiche, chiamate a indicare la direzione di marcia. E poi ci sono loro, i veri protagonisti, i docenti e gli alunni, gli uni di fronte agli altri, dentro un uni-
verso che si vorrebbe al riparo dalle esigenze utilitaristiche, uno spazio ancora (relativamente) autonomo, svincolato dalle sollecitazioni del momento. Assecondare o no le domande che le famiglie e l’economia pongono alla scuola? È sensato calibrare l’istituzione sui bisogni pratici, fondati sull’istruzione più che sull’educazione? A questi interrogativi le autorità preposte rispondono con continue revisioni della griglia oraria, sia delle Medie che delle Superiori: aggiustamenti e ritocchi che spesso non convincono e che attizzano nuovi conflitti tra i responsabili delle discipline interessate. C’è chi vuole più tedesco, chi più inglese e naturalmente più informatica. E poi più civica come materia a sé stante (così ha voluto il popolo). E pazienza se l’italiano perde qualche ora, come tutte le materie umanistiche, considerate (ma questo è un trend generale) non più centrali nella formazione del discente.
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Cultura e Spettacoli Dimenticati a Pietrapaola Daniel Kemeny racconta la genesi di Futuro semplice, docufilm sul comune cosentino
La Pinacoteca Züst e Basilico Il Museo di Rancate ricorda la figura particolare dell’artista del Mendrisiotto Carlo Basilico (1895-1966) pagina 38
Il Pardo pronto al salto A pochi giorni, anzi, a poche ore dall’inizio della kermesse cinematografica più attesa dell’anno, qualche spunto e qualche idea pagina 39
pagina 37
Traditi dall’affetto
Letteratura Nei sette racconti di Bugie
d’estate l’autore tedesco Bernhard Schlink si china sulle nostre debolezze
Luigi Forte C’è forse una stagione che ispira leggerezza, stimola amicizie, proietta nel gioco malizioso dell’amore. Ne sa qualcosa il flautista Richard che in una vacanza al Capo conosce una giovane ereditiera, Susan, con un matrimonio fallito alle spalle e una gran voglia di riprendersi la vita. «Quanto ti ho aspettato», gli dice, con una frase un po’ enfatica. Del resto nel racconto Fine stagione, uno dei sette che compongono il libro del tedesco Bernhard Schlink, Bugie d’estate, pubblicato da Neri Pozza nella versione di Susanne Kolb, l’atmosfera è carica di aspettative, emotivamente surriscaldata. Sono giorni di vacanza e di mare, giorni in cui l’esistenza dei due protagonisti condensa nella gioia dell’attimo la speranza del comune futuro. Una coppia che inventa per sé l’amore e i baci. Susan capace di scoprire in lui ciò che lui stesso non sa vedere; Richard, a sua volta, consapevole di aver ormai dimenticato come si fa a stare da soli. Poi un breve congedo per ritrovarsi al più presto. Lei in procinto di trasferirsi da Los Angeles a New York, dove lui ritorna, incerto se trasferire «la sua vecchia vita dentro quella con Susan». La felicità a portata di mano scivola così nell’inquietudine e nel dubbio: un’ illusione costellata di immagini sempre più sfocate. Il giurista-scrittore Bernhard Schlink, per anni magistrato e docente di filosofia del diritto, abbandona i suoi temi tradizionali mettendo in scena personaggi intrappolati nelle proprie contraddizioni, incapaci di affrontare gli interrogativi dell’esistenza, pronti a nascondersi dietro silenzi e menzogne. L’autore del bestseller internazionale Il lettore, riproposto di recente da Neri Pozza, non rispolvera qui il tragico passato tedesco, ma offre piuttosto un’intensa riflessione sulla debolezza della natura umana. Un’analisi che coinvolge la classe medioalta e intellettuale quasi fosse il parametro dell’intera società, dando alla fine l’impressione di una certa innaturale claustrofobia. Ci sono giornalisti e scrittori, diplomatici fasulli, ereditiere come Susan, musicisti e buone borghesi con famiglie ben inserite in settori importanti della vita sociale. Apparentemente un mondo perfetto, in realtà la scena di un inganno collettivo i cui attori sono per lo più figure maschili trincerate dietro il silenzio o la menzogna. Come l’autore di teatro nel racconto La notte a Baden-
Baden che porta con sé alla prima della sua pièce l’amica Therese. Poi trascorrono la notte in uno splendido hotel. Nulla di male se lui non avesse da anni un legame con Anne a cui ha taciuto ogni cosa. Non basta il fatto che nella lussuosa suite i due non abbiano avuto rapporti, resta un disagio profondo che sfocia nel ridicolo tentativo di trovare giustificazioni quando la sua compagna, che a Oxford tiene un corso sui diritti delle donne, scopre l’inganno. «Posso rimanere al tuo fianco solo nella verità», gli dice con fermezza. Parole aperte sul tema di fondo: conquistare la propria libertà senza tradire se stessi e gli altri. Bisogna essere liberi, ricorda Schlink, per poter vivere con la verità. Poco per volta ci riuscirà forse anche il drammaturgo che inscena la vita degli altri, ma non onestamente la propria. Un compito arduo anche per Werner Menzel, individuo petulante e ambiguo, un tempo al ministero dell’Economia, che, nel racconto Lo sconosciuto nella notte, infligge al proprio compagno di viaggio, il fisico Jakob Saltin, sul volo New York-Francoforte la storia della sua improbabile esistenza. Ironia della sorte: è lui stesso a chiedersi che cosa sia la verità «che si aggira solo nelle teste delle persone e non viene accertata a dovere». Forse solo menzogna o inganno con cui egli imbastisce il suo stesso racconto: la sua compagna Ava, rapita dall’attaché diplomatico dell’ambasciata del Kuwait, poi fuggita e da lui uccisa durante un diverbio, i milioni misteriosamente accreditati sul suo conto e da lui investiti con profitto. Un istrionismo e una fantasia che ricordano il Felix Krull di Thomas Mann. Ma la vita stavolta non fa sconti: Menzel finisce in carcere per omicidio e riaffiora dopo alcuni anni a casa del fisico per chiedere denaro e salire sul primo volo per l’America. Resta lo stupore di Saltin che si è lasciato manipolare in modo indegno. Dov’è finito il suo realismo di cui andava fiero, si chiede imbarazzato. E non c’è risposta a un tale disagio come non c’è di fronte alla chiusura paranoica del marito della scrittrice Kate nel racconto La casa nel bosco. È un giovane autore tedesco senza successo. Mentre la moglie sta finendo il suo ultimo romanzo sul futuro di una coppia in crisi e vince il National Book Award, lui bada alla figlioletta Rita e sogna di trasformare la casa appena acquistata in mezzo alla natura, a cinque ore di macchina da New York, nel tempio della loro felicità. Nulla deve disturbare il loro buen
Un dettaglio della copertina del libro di Schlink.
retiro: ecco perché egli interrompe di nascosto la linea telefonica, crea ostacoli sulla stradina che li unisce al villaggio più vicino e le nasconde la notizia del premio letterario. L’idillio si trasforma nella sua mente in una folle segregazione. Vani sono i tentativi di dissuadere la moglie, che ha terminato il romanzo, ad andare in paese con la figlia. Finiranno ambedue in ospedale dopo aver sbattuto con l’auto contro lo sbarramento creato dal marito che non voleva perdere quel mondo che «gli era parso fosse suo da sempre e per sempre». L’illusione soccombe alla lezione inesorabile della realtà, ma quell’uomo si adagia nel proprio delirio e sogna un futuro in quel bosco di fantasmi. Mentre il protagonista dell’Ultima estate, un ex professore universitario, raccoglie intorno a sé e all’amata moglie nella casa sul lago la famiglia intera, figli e nipoti, per ritrovare in una manciata di giorni tutti gli ingredienti della felicità. Di fatto è un segreto ad-
dio, perché sa di essere malato grave e ha deciso di suicidarsi. L’affettuosa messinscena è offuscata dalla consapevolezza di una menzogna che, scoperta dalla moglie, mette in crisi tutti i rapporti. Lei è la prima ad andarsene, decisa a non assistere come una comparsa al suo tragico commiato. E poi fanno i bagagli anche figli e nipoti. E dire che si era sentito così bene con loro, ma «la felicità non era voluta restare accanto a lui». Così come non è rimasta con l’anziana signora di buona famiglia ne Il viaggio verso sud che paura e indecisione allontanarono da un tenero amore giovanile inducendola a rientrare nella sicurezza del suo mondo borghese che non le garantì alcuna felicità. C’è in questo racconto tutta la tenerezza fra una nonna e la propria nipote così come in Bach sull’isola di Rügen il difficile rapporto fra padre e figlio si addolcisce fra le note della musica bachiana. L’uno avvocato, l’altro giornalista, e tra di loro un muro d’incomprensio-
ne. «C’era il niente fra lui e il padre, il niente», vien detto; ma lentamente si apre un dialogo sul passato durante il loro soggiorno musicale e le lacrime del padre mentre ascolta i mottetti di Bach serviranno forse a sciogliere quel silenzio che lo ammutolisce e lo allontana dai propri familiari. Bernhard Schlink scrive qui pagine coinvolgenti e intense su illusioni e speranze infrante, silenzi e bugie. Mette in scena una società che cerca disperatamente affetto e vicinanza, ma poi tradisce se stessa fra mille inganni. E rivisita con commozione il mondo a cui anche lui appartiene, ma con una distanza che mira alla verità, per quanto amara possa essere. Senza tradimenti né ipocrisie. Bibliografia
Bernhard Schlink, Bugie d’estate, traduzione di Susanne Kolb, Neri Pozza, p. 286, € 17,00.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 5 agosto 2019 • N. 32
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Cultura e Spettacoli
Ritorno alla tranquillitudine
Incontri A colloquio con Daniel Kemeny, che ha realizzato un docu-film su Pietrapaola,
cittadina del Cosentino in cui ha origine la sua famiglia
quello che Propp definisce il ruolo dell’aiutante, sono degli anziani e nel film colpisce la profondità e la confidenza delle tue amicizie con persone che hanno più del doppio dei tuoi anni. Che cosa ha permesso la condivisione di questo linguaggio comune?
Laura Marzi Daniel Kemeny è un artista svizzero, classe 1981. Con le sue sculture ha esposto in musei e istituzioni culturali di tutto il mondo. Il suo ultimo progetto nasce dal desiderio o dal bisogno di tornare al punto di partenza, nel paese dell’entroterra calabrese dove è nato e ha vissuto fino all’età di dodici anni, figlio di due genitori che all’epoca cercavano un rifugio dalla modernità. Per la realizzazione del suo docu-film Futuro Semplice, prodotto da Cinedokke e da RSI, ha deciso di rientrare a Pietrapaola, provincia di Cosenza, dove la comunità si è ridotta a 120 abitanti. Lo abbiamo incontrato per ascoltare la sua storia, l’avventura di chi ritorna in un luogo che gli altri hanno lasciato, sulla scena dell’abbandono. Da dove nasce l’idea di un documentario su Pietrapaola?
Non è proprio un’idea, ma un’esigenza: raccontare il mio luogo d’origine. Nel 2012 ho avuto la consapevolezza che non potevo più delegare questa necessità di testimoniare ciò che era stato e che si stava perdendo.
Il documentario nasce da un’istanza autobiografica. Perché hai scelto il mezzo filmico per affrontare l’eterna questione della ricerca delle origini?
Forse per la voglia di cristallizzare la vita stessa, per fermare il tempo, ma anche per raccontare una storia. È stata una scelta spontanea e poi si tratta di un linguaggio che prevede immagini in movimento, quindi restituisce la vita in qualche modo, permette che diversi sensi si mescolino. È un mezzo direi quasi naturale: il cinema è più vicino alla vita.
Quali sono le cause della tua emigrazione «al contrario», da Nord a Sud?
L’immigrazione al contrario è stata quella dei miei genitori, che sono andati a vivere dove tutti stavano andando via. La mia non è una emigrazione, ma una forma di dedizione a un luogo che tutti avevano abbandonato. Il mio lavoro nasce e vive di questo vuoto lasciato dagli altri, in
Un fotogramma del film Futuro semplice. (www.cinedokke.ch)
questa comunità disgregata in cui la presenza dell’uomo è più blanda e la natura prende il sopravvento. All’inizio del film il personaggio di Daniel, cioè io, soffre perché non trova ciò che ricordava di aver lasciato. Alla fine accetto ciò che c’è: quegli elementi che rendono la vita in sintonia col contesto secondo un criterio magico e religioso di giustezza.
L’abbandono di alcuni paesi dell’entroterra nel sud Italia è un fenomeno purtroppo abbastanza diffuso. Credi che la situazione di Pietrapaola e quella calabrese abbiano aspetti specifici?
Credo che i piccoli paesi siano un po’ abbandonati dappertutto nel mondo, non solo nel sud Italia. Tutti i territori sconnessi, difficili, lontani dalle vie di comunicazione sono coinvolti. In Calabria stessa ci sono molte realtà diverse: la zona in cui si trova Pietrapaola è quella dell’alto Ionio calabrese, che soffre un isolamento particolare, per una mancanza di infrastrutture e di sviluppo economico. Negli anni 80 la popolazione ha voluto abbandonare i paesi dell’entroterra,
perché erano troppi difficili, così nascono le «marine», costruite sulla costa: la voglia di modernità, la necessità collettiva di allontanarsi dalla tradizione latifondista che è stata fonte di tanta sofferenza ha portato la gente ad andare a vivere al mare, dove è tutto piatto, dove si può guardare lontano e non ci sono salite per tornare a casa e si può vivere in un appartamento, senza che il vicino di casa senta tutto quello che dici. Qui, lungo la mitica statale 106, sono state costruite case da cui gli anziani guardano le macchine passare, e sono tante. Eravamo abituati a vedere i vecchietti seduti davanti casa a osservare le persone, adesso guardano la statale, seguono con gli occhi il suo ritmo incalzante.
La comunità, che insieme a te è protagonista del film, come ha reagito al progetto del documentario?
Io sono nato a Pietrapaola e qui conoscono i miei genitori, quindi sono stato destinatario di una grande generosità, di tempo e pazienza. C’è stata una dedizione che definirei magica, perché non solo io ho creduto nel film, ci abbiamo creduto tutti.
Ci sono state diverse fasi e diverse reazioni: persone che non hanno mai voluto essere filmate, altre che si sono arrabbiate perché non erano nel film. La maggior parte degli abitanti di Pietrapaola ha mostrato interesse e io ho capito che per loro era come un faro di attenzione: quando arrivava la cinepresa era una cosa importante e dovevamo dirci cose importanti.
Nel silenzio della solitudine, a Pietrapaola svolge un ruolo centrale la musica. Ce ne parli?
Si tratta di un silenzio che permette di porre attenzione a ogni singolo elemento, di sentire il suono di una forchetta posata su un piatto, in una casa a 50 metri di distanza. Il ruolo della musica era molto forte in passato, era la più frequente forma di intrattenimento, di espressione. È intergenerazionale, si tramanda. Volevo mostrare quanto fosse necessaria: la musica mi si è rivelata come un’ancora di salvezza, in un contesto in cui ci si misura con l’assenza di altre espressioni artistiche. Nella storia che racconti ad aiutare Daniel nella sua ricerca, a svolgere
Quando ho iniziato il film nel 2012, nel tragitto di 250 metri da casa di mio padre alla piazza dove parcheggio la mia macchina c’erano ancora 4 case abitate, che adesso sono vuote. Beh, mi capitava spesso di metterci mezz’ora per percorrerlo, perché ognuno richiedeva attenzione, con domande su di me e sulla mia famiglia e io dedicavo il mio tempo a queste persone, che poi ricambiavano a modo loro. Fare parte di una comunità come questa presuppone questo interesse, questo amore. Il ruolo dell’anziano come detentore di memoria è stato poi fondamentale per me, era la chiave per indagare il passato perduto che cercavo. Io non ho fatto altro che relazionarmi con chi stava intorno a me – qui ci sono molti anziani! Senza preconcetti, mi sono avvicinato al loro mondo, con cura.
Vedendo il documentario risulta evidente che la comunità che resiste a Pietrapaola ha un approccio all’esistenza che potrebbe essere definito, prendendo in prestito l’espressione di uno dei protagonisti Nicola: tranquillitudine. Ce ne parli?
Nicola dice: «la musica è una gioia, una bellezza, non saprei come dire, è una tranquillitudine». Per lui la tranquillitudine è appagamento. Non so quanto questa condizione sia quella della gente del paese, che più che resistere, esiste, senza eroismi, con normalità. Alla base del documentario c’è in effetti l’idea fondante che la normalità è speciale. Comunque c’è una scena che rappresenta il perdurare di questa tranquillitudine, in cui due protagonisti del documentario fanno il karaoke, senza pubblico, per loro stessi. Ho ripreso infatti un’abitudine che hanno davvero: la tranquillitudine del cantare per il cantare, che assomiglia a fare l’orto, al contatto con la natura, alla gioia senza pari di potersi dare tempo.
Costretti a partire
Migranti e popolazioni nel mondo classico In una lettera alla
madre, Seneca analizza le ragioni che portano a migrare – Terza parte Elio Marinoni Le migrazioni causate, nel mondo classico, da guerre internazionali o da conflitti intestini, di cui ci siamo occupati nelle prime due puntate, sono quelle che presentano le maggiori analogie con i flussi migratori dall’Africa e dal vicino Oriente verso l’Europa che contrassegnano in modo sempre più drammatico i nostri tempi. Già nella letteratura classica vengono tuttavia individuate altre cause dei fenomeni migratori, come la pressione demografica, le catastrofi naturali, la povertà. Un tipico caso di migrazione di massa causata dalla sovrappopolazione è il tentativo posto in atto dagli Elvezi nel 58 a.C. di trasferirsi a Occidente del Rodano, al quale si oppose Cesare – anche attraverso la costruzione di una muraglia di 19 miglia dal lago Lemano al monte Giura (Cesare, La guerra gallica, I, 8, 1): corsi e ricorsi della storia! – per tutelare gli interessi della provincia romana della Gallia Narbonese e di alcune popolazioni galliche ancora formalmente indipendenti ma alleate di Roma: si tratta del cosiddetto bellum Helveticum («guerra
contro gli Elvezi»), la «madre» di tutte le campagne galliche, descritta nel I libro del De bello Gallico (2-29). Dopo aver osservato che «in ogni direzione gli Elvezi sono rinserrati dalla configurazione del territorio» (La guerra gallica, I, 2, 3), l’Autore ci informa che essi «ritenevano che i territori in loro possesso, che si estendevano per 240 miglia in lunghezza, per 180 in larghezza, fossero angusti in rapporto alla densità della popolazione, come pure alla fama del loro valore militare» (La guerra gallica, I, 2, 3). La più ampia disamina delle cause dei movimenti migratori e delle loro modalità di svolgimento si deve però a Seneca. In una sorta di lunga lettera indirizzata alla madre per consolarla dell’esilio in Corsica inflittogli dall’imperatore Claudio, il filosofo stoico, dopo aver argomentato sull’affinità tra esilio e migrazioni, che egli definisce «esili di massa» (Alla madre Elvia, della consolazione, 7, 6), oltre ai conflitti internazionali e intestini e alla sovrappopolazione individua altre cause delle migrazioni nelle catastrofi naturali, nell’insalubrità o nell’improduttività del territorio, nel miraggio di una terra più ricca.
Dopo avere analizzato (capp. 6-7) la storia demografica del Mediterraneo, e in particolare della Corsica e della città di Roma, che non solo è abitata da una grande pluralità di etnie, ma – come dirà più avanti (Alla madre Elvia, 7, 7) – «vede il proprio fondatore in un esule» (si tratta ovviamente di Enea), l’Autore così prosegue: «Per luoghi impraticabili ed ignoti si è riversata l’umana mobilità. Si trascinarono appresso i figli e le mogli e i genitori appesantiti dalla vecchiaia; alcuni, sballottati da una lunga peregrinazione, non scelsero un luogo a ragion veduta, ma occuparono per stanchezza il più vicino; altri si conquistarono con le armi il diritto di risiedere in una terra straniera; certe genti, mentre si dirigevano verso l’ignoto, le inghiottì il mare; altre si stabilirono là, dove la mancanza di ogni mezzo le piantò in asso. Né tutti ebbero il medesimo motivo per abbandonare la patria e cercarne un’altra: alcuni, sfuggiti alle armi nemiche e spogliati del proprio, furono gettati sull’altrui dalla distruzione delle loro città; altri furono sloggiati da un conflitto intestino; altri si videro costretti
Gli Elvezi emigrano in Gallia alla ricerca di terre libere; calcografia di Matthäus Merian, 1630. (Keystone)
a emigrare dall’eccessiva densità della popolazione, allo scopo di alleggerirne gli effettivi; altri furono espulsi da una pestilenza o dai frequenti terremoti o da qualche altra intollerabile magagna di una terra infelice; certuni si lasciarono sedurre dalla rinomanza di una contrada fertile e fin troppo magnificata» (Alla madre Elvia, 7, 2-5). È appena il caso di sottolineare la straordinaria modernità e attualità di questa fenomenologia della migrazione. Ma per Seneca i movimenti migratori si inquadrano nel più ampio fenomeno dei processi di formazione e di trasformazione degli Stati, caratterizzati da un incessante mutamento: «Diversi motivi hanno attirato cia-
scuno fuori dalla patria, ma questo in ogni caso è chiaro: nulla è rimasto nello stesso luogo in cui è nato. Incessante è il peregrinare del genere umano; ogni giorno qualcosa cambia in un mondo così grande: si gettano le fondamenta di nuove città, sorgono nuove denominazioni di popoli, quando i precedenti si estinguono o si trasformano nell’appendice di uno più forte» (Alla madre Elvia, 7, 6). Seneca perviene così al superamento del concetto di autoctonia, così radicato nel pensiero greco (e in particolare ateniese) arcaico e classico: «A fatica troverai una terra che sia ancora abitata dagli indigeni: tutto è il prodotto di mescolanze e incroci» (Alla madre Elvia, 7, 10).
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Cultura e Spettacoli
Dipingere con gli occhi
Senza di lei non usciamo
Mostre La Pinacoteca Züst di Rancate propone un ricco omaggio alla memoria dell’artista
Cosa mi metto?
Elena Robert
Maria Bettetini
Svela molto della personalità dell’autore, del suo approccio alla pittura e della sua evoluzione creativa negli anni, l’ampia selezione di opere di Carlo Basilico presentata alla Pinacoteca Züst di Rancate. Un omaggio alla memoria dell’artista chiassese voluta dal nipote Rudy, custode devoto della quasi totalità della produzione pittorica del nonno. Nel 1998 l’estro e la poliedrica attività di Carlo Basilico (Rancate 1895 – Mendrisio 1966) come pittore, decoratore, designer e progettista furono indagati e documentati da una approfondita ricerca sfociata nella prima monografia e mostra antologica, promosse dal Comune di Chiasso e curate da Nicoletta Ossanna Cavadini, storica dell’architettura e dell’arte, direttrice del m.a.x. museo. A vent’anni di distanza, l’incontro di Rudy con lo scrittore e poeta Alberto Nessi, ispiratosi in suoi testi alla figura di Carlo Basilico, ha portato al progetto di una seconda monografia ed esposizione, dedicate stavolta solo alla pittura e curate dallo storico dell’arte Claudio Guarda. Un approccio e un’analisi diversi, che oggi completano e arricchiscono le conoscenze sul vissuto dell’artista, le aspirazioni, le modalità espressive della produzione pittorica cui il chiassese si dedicava nel suo tempo libero, essendo altrimenti impegnato nella sua impresa di pittura, decorazione e ornamentazione. Come annota Alberto Nessi, l’insegna dell’atelier, all’imbocco di via Cantoni, in piastrelle di ceramica bianca e grigia, richiama l’operosità della bottega artigianale ma anche il «sogno della grande arte», coltivato in privato con grande sensibilità e risultati più che incoraggianti, ma rimasto nel cassetto, nonostante la visibilità ottenuta in esposizioni in Svizzera e in Ticino. «Per forza di cose – scrive il nipote Rudy – mio nonno non si considerava un pittore professionista (…). Un giorno mi disse che se fosse vissuto a Parigi senza la responsabilità di dover pensare alla famiglia e alla ditta, avrebbe potuto dedicarsi esclusivamente alla pittura e sarebbe artisticamente evoluto in modo diverso». Fatto sta che la passione del dipingere lo prendeva molto, anche quando non aveva in mano colori e pennello. Una volta, interpellato dai familiari mentre era assorto nei suoi pensieri,
Imprescindibile: la borsa, o borsetta, o clutch, cestino, tracolla, zainetto. Questo oggetto del desiderio ha alcune caratteristiche, anche queste imprescindibili. La borsa è un buco nero, anche se piccola divora ciò che contiene. Essa ha una volontà propria, si accanisce non contro un inutile pieghevole o un fazzoletto con cui si è tolto il rimmel (una donna ha sempre un motivo per commuoversi, si sopporti l’eufemismo). L’accanimento è, in ordine, contro le chiavi della macchina, quando un maleducato chiede di toglierla dalla doppia fila, ma allora a cosa servono le quattro lampadine che richiamano il Natale? Seguono il portafoglio, non l’hanno preso i ladri, se l’è divorato la borsa. Ma guardiamo invece al lato positivo. Non possono capire, i maschi, l’effetto dell’acquisto di una borsa, somiglia ad altre cento che hai pressato nell’armadio, ma la serotonina si impenna, il mondo sbiadisce, siete solo voi due, o la borsa o la vita. È stato sempre così? Abbiano delle prove. Il museo Hendrikye, che si trova a Amsterdam, è suddiviso per epoche storiche, dal tardo Medioevo fino al giorno d’oggi. La collezione mostra borse di innumerevoli forme, funzioni, materiali e decorazioni: è formata da più di quattromila borse, borse a tracolla, sacche, valigie e accessori. Non andate, suscita emozioni e desideri che potrebbero trasformarsi in gravi malattie: shopping compulsivo, depressione per la perdita di un’occasione che mai si ripeterà, rancore del partner che stupidamente ricorda le borse stipate nell’armadio. Però però. Abbiamo un modello. La regina Elisabetta ha una borsetta sempre nera, che porta con sé anche in casa, un’arma di difesa (vabbè ne ha duecento, ma tutte simili o uguali). Hanno scritto libri sul contenuto, notiamo innanzitutto la comodità di una borsa che non va scelta, uno dei drammi dell’essere donna. Che cosa contiene quell’accessorio di cui potrebbe fare a meno con un gesto? Ogni donna ha i suoi segreti, più o meno di stato, che custodisce gelosamente. Sul contenuto si è a lungo fantasticato, come nel caso di Mary Poppins (gioielli? codici nucleari?). Elisabetta II
chiassese Carlo Basilico
Carlo Basilico, Campagna a Morbio Inferiore, 1939.
presente il nipote, sorprendendo tutti rispose: «Dipingo con gli occhi». Con il suo talento e la sua modalità nel dedicarsi a quest’arte, non ci metteva molto a passare dall’osservazione all’interpretazione su tela delle emozioni che provava in quel momento. Colori allo stato puro non miscelati sulla tavolozza e scelti senza esitazione, per esprimere luci e ombre, un approccio non descrittivo, segni rapidi e decisi, riusciva a rendere vive e autentiche, con freschezza e immediatezza, istantanee di serenità e armonia, a volte di disagio, disperazione: ritratti di familiari, angoli di casa e paesaggi del Mendrisiotto. Ci sono anche numerosi autoritratti, quanto mai rivelatori dei suoi stati d’animo. Riprendeva soggetti e tematiche molte volte e con altre tecniche per sondare la sua capacità di tradurre sulla tela e sulla carta emozioni sempre diverse, mai dimenticando il disegno, fil rouge dell’intero suo percorso artistico. L’interesse della lettura critica di Claudio Guarda sta nell’aver cercato, all’interno della produzione pittorica di Basilico, focalizzata sull’intimità degli affetti familiari, la quotidianità e l’amore per la sua terra, un percorso li-
neare e coerente che si esprime «come le pagine di un diario». L’artista cerca sé stesso, mentre l’ornatista fa quello che gli chiede il committente: due approcci distinti, evidenzia Claudio Guarda, riconoscibili in Basilico dai suoi esordi, anche se non tarderà a manifestarsi in lui l’estro del colorista, cui rimarrà poi sostanzialmente fedele. Considerando i lavori di Carlo Basilico eseguiti su commissione, che non rientrano nel tema della mostra, va ricordato l’unicum, dall’importante valore documentario e didattico, rappresentato dalle splendide opere realizzate per il refettorio dell’ex fabbrica di tabacco Polus SA a Balerna all’inizio degli anni Quaranta: i dodici graffiti color sanguigna raffiguranti i luoghi di provenienza delle sigaraie, le due imponenti tempere su tavola con scene della Lavorazione della pianta del tabacco e della Lavorazione dei sigari, i nove pannelli mobili dedicati a La coltivazione del tabacco. Composizioni, atmosfere e colori a sé stanti nella produzione pittorica di Basilico e con una loro ragion d’essere, evidenzia Alberto Nessi, da interpretare nel contesto della «difesa spirituale» in Svizzera,
del dibattito sulla salvaguardia delle identità regionali e per dare visibilità al successo di un Ticino industriale che cresce. Altri lavori hanno reso noto Carlo Basilico, tra i quali decorazioni di edifici a Chiasso come la Torretta di Casa Pedroli e il Cinema Teatro o ancora per l’Albergo Bellavista sul Monte Generoso (salvate e riportate nel Fiore di pietra di Mario Botta). Ha progettato e ristrutturato edifici per l’industriale Luigi Giussani, tra cui la facciata della Monteforno e della Centrale elettrica di Lostallo, e ha disegnato mobili e arredi, anche per casa sua. Dove e quando
Carlo Basilico 1895-1966. La pittura, mostra e monografia a cura di Claudio Guarda, con la partecipazione di Alberto Nessi, Pinacoteca cantonale Giovanni Züst, Rancate, SilvanaEditoriale, Cinisello Balsamo, 2019. L’esposizione è visitabile fino al 25 agosto 2019. Orari 14.00-18.00, festivi compresi, lunedì chiuso. Filmato La pittura di Carlo Basilico di Markus Otz su youtube.com e vimeo.com decs-pinacoteca.zuest@ti.ch
Spezziamo una lancia a favore della borsetta
Ma noi svizzeri chi siamo davvero?
Fotografia Nel recente libro di Didier Ruef, la nostra nazione in una serie di scatti
che ne mettono in luce aspetti inattesi e curiosi
Giovanni Medolago È nato nel 1961 a Ginevra, dove è cresciuto e dove si è poi laureato in economia politica. Poco più che ventenne, se ne va a New York per studiare ancora, stavolta fotogiornalismo. Tornato in patria – a Zurigo e più in generale in quella Svizzera tedesca che non conosceva affatto – i suoi interessi principali (l’economia, la società e la fotografia) lo portano a lavorare per importanti ONG. Viaggia volentieri negli angoli più discosti del pianeta, manifestando una discreta predilezione per l’Africa. Le sue foto sono state pubblicate da numerose testate importanti, e tra queste pure il giornale che state sfogliando. Nel frattempo si stabilisce a Lugano, dove vive ormai da due decenni. Tagliato il traguardo dei trent’anni d’attività, Didier Ruef veste ancora i panni del figliol prodigo e con la sua
ultima, poderosa pubblicazione, Homo Helveticus, ci scarrozza stavolta spazio temporalmente nei mille e più angoli della Svizzera. Ruef è una guida attenta soprattutto a cogliere l’attimo, capace altresì d’un’ironia che talvolta sconfi-
Una Svizzera diversa, quella immortalata da Didier Ruef.
na nel sarcasmo. Il ritratto del nostro Paese che realizza con 170 immagini – tutte rigorosamente in bianco e nero e presentate nel libro senza tener in alcun modo l’ordine cronologico – sottende un fil rouge ben preciso: i sempiterni interrogativi «esiste la svizzeritudine? e se sì, che cos’è? quale alchimia ci permette da secoli di mantenere pacificamente unite tre etnie, quattro lingue, una miriade di dialetti e un bel ventaglio di religioni?» Pur servendosi di un linguaggio universale quale la fotografia, Didier Ruef non ha naturalmente risposte nette e precise. Osserva però acutamente come la Svizzera sia cambiata nel solco delle tradizioni. La passione per le armi emerge in molte immagini e si tramanda addirittura nei secoli: ecco uno stendardo che ricorda come il Feldschützen si svolga sin dal 1672 al Morgarten e poi via via i gruppi folcloristici che rievoca-
no idealmente le gesta dei mercenari, dei granatieri ginevrini e dei volontari luganesi, sino al ragazzino che imbraccia felice un Fass del nostro esercito. Sulle tracce dell’ipotetico Homo Helveticus, Ruef ha poi naturalmente modo di scovare curiose realtà: la casetta con tanto di giardino ben tenuto che a Zurigo sembra irridere alla ferrovia che le passa accanto e anche al vortice di svincoli stradali che la sovrastano. E gli altrettanto sempiterni clichés (il Cervino, il coltellino CH, le mucche, la fondue…) che il nostro Paese può per così dire vantare? Ruef non se n’è dimenticato: semplicemente ci invita a considerarli sorridendo. Bibliografia
Didier Ruef, Homo Helveticus, Till Schaap Edition, Berna, 2018. tillschaapedition.ch
Una Launer per la regina. (Wikipedia)
mette in borsa due paia di occhiali, una stilografica, qualche mentina e il rossetto, foto di famiglia, un temperino, parole crociate per ingannare il tempo e crocchette per i cagnolini. Si tratta insomma della sporta di una nonna. Eppure a renderla unica è l’uso che ne fa la regina: quella borsa lancia messaggi in codice, a seconda della posizione comunica allo staff reale stati d’animo e desideri da esaudire. Se per esempio la borsa di turno viene appoggiata sulla tavola durante una cena significa che la regina desidera alzarsi entro cinque minuti. Se la posa a terra si sta annoiando. Quando la sposta da un braccio all’altro mentre parla con qualcuno non vede l’ora di andarsene. A noi nessuno chiederà segnali, ma comprare una borsa colorata rimane una adorabile panacea.
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Cultura e Spettacoli Piazza Grande è pronta. (@Locarno Festival, Gabriele Putzu)
Un furgoncino per due
Opera Al Festival di Bayreuth una nuova
produzione di Tannhäuser
Sabrina Faller
Incontro tra popoli
Festival di Locarno Qualche spunto a poche ore dall’inaugurazione
della maggiore kermesse cinematografica del Paese
Nicola Mazzi Film, conferenze, incontri, proiezioni speciali, ma anche momenti di relax davanti a una bibita fresca o ascoltando un concerto. Tutto questo, e altro ancora, contraddistingue il Festival del film di Locarno. Il momento cinematografico, ma non solo, più importante della Svizzera, che si tiene dal 7 al 17 agosto a Locarno. Quest’anno soffiamo su 72 candeline (le stesse di Cannes) ed è la prima edizione per la nuova direttrice Lili Hinstin. Parigina, arrivata sul Verbano dall’esperienza di direttrice all’Entrevues Belfort International Festival per portare una ventata d’aria nuova dopo la gestione di Carlo Chatrian.
Alcuni dei film in programma a Locarno provengono direttamente da Cannes Un’edizione che si preannuncia molto interessante. Sia per i cinefili sia per il grande pubblico. E a mettere insieme i gusti di questi due «popoli» ci sono proiezioni immancabili. A cominciare dall’evento che sicuramente attirerà un grande numero di persone in Piazza Grande: il nuovo film di Quentin Tarantino: Once Upon a Time… in Hollywood. Già passato a Cannes, non ancora arrivato nei nostri cinema, sarà proiettato sabato 10 agosto alle ore 21.30 sul maxischermo. L’attesa per quest’opera – che vede insieme, per la prima volta, Brad Pitt, Al Pacino, Leonardo DiCaprio, e Margot Robbie – è davvero molta. Così come lo stesso giorno, ma la mattina dalle ore 10.30 allo Spazio cinema (vicino al Fevi), si terrà la conferenza di una stella hollywoodiana di prim’ordine: Hilary Swank. L’attrice – duplice premio Oscar per Boys Don’t Cry e Million Dollar Baby – sarà intervistata da Mike Goodridge in un momento di sicuro interesse. La stessa attrice riceverà il Leopard Club Award venerdì sera in Piazza Grande, prima
della proiezione di 7500, un film drammatico tedesco su un dirottamento aereo. Tra i personaggi hollywoodiani attesi, anche quel John Waters – già membro di giuria nel 1994 a Locarno – che riceverà il Pardo alla carriera venerdì 16. Chi vorrà vedere da vicino uno dei registi indipendenti più acclamati (autore di Cry Baby e Hairspray) potrà farlo sabato 17 agosto, alle 13.30, sempre allo Spazio Cinema. Ma da Cannes non è arrivato solo il film di Tarantino. Altre produzioni di spessore presentate sulla Costa Azzurra arricchiscono il programma locarnese. A cominciare dal vincitore della Palma d’oro: il bellissimo coreano Parasite che sarà proiettato a La Sala domenica 11 agosto alle ore 19. Sempre in relazione a questa pellicola sarà molto interessante assistere a un’altra conversazione martedì 13 agosto con Song Kang-ho (il quale la sera di lunedì 12 riceverà l’Excellence Award) e Bong Joon-ho (rispettivamente attore e regista), moderati dall’ex direttore del festival Olivier Père. Dalla Croisette sono giunte, inoltre, altre due pellicole che risveglieranno l’interesse di un vasto pubblico. La prima incuriosirà sicuramente gli appassionati del pallone e sarà proiettata in Piazza Grande giovedì 15 agosto: è infatti il documentario intitolato Diego Maradona, di Asif Kapadia, sul periodo napoletano del pibe de oro. Sette anni di trionfi ed eccessi di uno dei più grandi calciatori di tutti i tempi. La seconda è pensata anche per i più piccoli ed è un film d’animazione italiano: La famosa invasione degli orsi in Sicilia di Lorenzo Mattotti, che sarà presentato prima dell’inizio della rassegna (la sera del 4 agosto). Un’edizione che si prospetta anche molto svizzera. Diverse le personalità del cinema nazionale presenti, ma c’è un figura assente che farà sentire la propria, imponente, presenza: Freddy Buache, fondatore della Cineteca svizzera e già direttore della rassegna tra il 1967 al 1970. Per lui ci sarà un ricordo durante ognuna delle trecento e oltre proiezioni e in particolare durante la Lettre à Freddy Buache, cortometraggio di Jean-Luc Godard, presentato in Piazza Grande la
notte dell’apertura, il 7 agosto. Restando sempre tra le personalità che hanno fatto grande il cinema nazionale è doveroso segnalare il premio alla carriera a Fredi M. Murer, l’ultimo vincitore elvetico del Pardo d’oro con Höhenfeuer, nel 1985. Venerdì 16, alle ore 13.30, il regista svizzero terrà una conversazione allo Spazio cinema. Mentre la sera precedente sarà omaggiato del Pardo. Un altro importante omaggio di Locarno è quello postumo a Bruno Ganz, per cui sarà presente Petros Markaris, sceneggiatore del film Mia aioniótita kai mia mera (Eternity and A Day, 1998) che si confronterà anche con il pubblico mercoledì 14 alle ore 13.30, allo Spazio Cinema. E un riconoscimento andrà al nostro Cantone con il nuovo Premio Cinema Ticino che sarà conferito al regista Fulvio Bernasconi del quale verrà presentato il film Fuori dalle corde (giovedì 15, ore 16, al Teatro Kursaal). Tra le produzioni nostrane attese c’è il nuovo film di Klaudia Reynicke: Love Me Tender (venerdì 9 alle ore 11 al Palacinema), in corsa nella sezione Cineasti del presente, che speriamo sia più convincente del precedente Il Nido. Così come attendiamo con curiosità il corto del giovane ticinese Enea Zucchetti (L’azzurro del cielo, martedì 13 dalle ore 14, a La Sala), dopo l’incomprensibile e ripetuta presenza di Tommaso Donati nelle scorse edizioni. Ci sarà anche l’occasione per poter vedere Cronofobia di Francesco Rizzi (al Fevi l’8 agosto alle ore 11). Per chi ai film preferisce bere un buon drink, assaporare un cibo etnico o ascoltare una band dal vivo anche quest’anno non mancheranno le occasioni per ritrovarsi alla Rotonda, oppure al Locarno Garden che si sposta al Castello Visconteo, illuminato di luce nuova, pensata e curata dall’artista losannese Maya Rochat. Ma anche altri locali storici animeranno le serate locarnesi come il Paravento e i vari bar sparsi per la città. Insomma, un’edizione che si preannuncia molto stuzzicante. E non abbiamo neppure accennato al concorso principale, che vede 17 film in programma tra registi acclamati dai cinefili ed esordienti promettenti.
Per la nona volta dalla sua nascita nel 1876 il Festival di Bayreuth allestisce una produzione di Tannhäuser, opera dell’ancor giovane Wagner, andata in scena a Dresda nel 1845. Gli anni di Dresda, gli anni del sogno rivoluzionario, della frequentazione con Bakunin meravigliosamente ritratto nell’Autobiografia del compositore, gli anni che culminarono nella sommossa e nella fuga, nella scelta obbligata del lungo esilio in Svizzera, sono anni che ribollono nel Tannhäuser di Tobias Kratzer, regista tedesco non ancora quarantenne, già premiato per produzioni precedenti, esponente della nuova generazione del «regie-theater» tanto osteggiato nell’Europa mediterranea, eppure necessario al teatro d’opera come l’ossigeno per respirare. Che fa Tobias Kratzer con Tannhäuser, che peraltro ben conosce, avendolo già allestito al Teatro di Brema? Prende questa vicenda medievale che ha al centro il contrasto tra amore carnale e amore spirituale, fulcro della disfida tra poeti cantori e fulcro dell’esistenza del protagonista incapace di decidersi fra le due donne che questi due tipi diversi d’amore incarnano, Venere ed Elisabeth, e cerca una chiave per trasferirla nella contemporaneità. Mette in secondo piano il contrasto fra sesso e spiritualità e si concentra sugli stili di vita incarnati dalle due donne. Il suo Tannhäuser è un uomo che ha lasciato la società borghese (impersonata da Elisabeth) per scegliere di vivere una vita alternativa con Venere e il suo minicirco ambulante, composto di un nano col tamburo di latta (quello di Günter Grass, appunto) e di un transgender nero in paillettes, che risponde al nome di Gateau Chocolat. Eccoli in viaggio su un furgoncino per le strade del mondo, vivono di espedienti, rubacchiando e sniffando coca, ma quando Venere a un distributore di benzina uccide un poliziotto, Tannhäuser ci ripensa e decide di tornare al suo vecchio mondo. Si risveglia davanti al Festspielhaus di Bayreuth dove incontra gli amici di un tempo, Wolfram, Walter, Biterolf e il langravio zio di Elisabeth, che lo invitano alla gara poetica, rivelandogli che Elisabeth non lo ha mai dimenticato. Così il cantore pentito partecipa alla gara inscenata con tutti i crismi della tradizione sul palcoscenico del Festspielhaus, e succede quel che deve succedere: Wolfram canta l’amore puro, lui quello carnale. Nel frattempo Venere e il suo minicirco riescono a entrare in teatro, lei ad intrufolarsi tra le fanciulle del coro.
Katharina Wagner (sì proprio lei, ma in video) accortasi della presenza degli intrusi, chiama la polizia che fa irruzione nel teatro e arresta il poeta cantore. A tutto questo assistiamo stupiti e divertiti grazie anche al notevole uso dei video di Manuel Braun, nel solco indicato dal magistero di Frank Castorf, regista del più recente Ring. Nel terzo atto siamo in una discarica, il furgoncino è mezzo sfasciato, il transgender nero ha fatto fortuna nel mondo della pubblicità, Venere non si sa dove sia, il nano è rimasto a guardia del furgoncino e delle gioie di un tempo, Elisabeth cerca il suo Tannhäuser tra i pellegrini di ritorno da Roma, Wolfram la segue fedelissimo e, indossati i panni del Tannhäuser circense, si prende quella verginità che lei ha inutilmente conservato per l’amato, ma i due non sanno trovare un modo per relazionarsi davvero e la stella della sera brilla malinconica per Wolfram, mentre Elisabeth, che già in passato aveva tentato il suicidio, si taglia le vene e questa volta per davvero. Tannhäuser torna giusto in tempo per abbracciarla e morire. Finale nell’aldilà: alla guida del furgoncino liberi e felici ci sono Elisabeth e Tannhäuser «on the road» sulle vie dell’eternità. Un allestimento, quello di Tobias Kratzer, che si avvale delle scene e costumi di Rainer Sellmaier e che, riallacciandosi alle produzioni precedenti, vuole proporre una vicenda credibile per noi gente del XXI secolo, una vicenda che nasce commedia – con momenti di genuino divertimento – e culmina in tragedia, laddove la morte spazza via ogni riflessione sul senso dell’arte. E come non pensare, vedendo quel furgoncino a spasso per il mondo, alla vicenda di Marina Abramovic con Ulay negli anni Sessanta, alla ricerca di un nuovo modo di fare arte? Wagner stesso non stava forse cercando il suo personale modo di fare arte nei tumultuosi anni Quaranta del XIX secolo? Tobias Kratzer ci restituisce un Tannhäuser contemporaneo, in grado di divertire e commuovere al tempo stesso. E il pubblico glielo riconosce con applausi prolungati e scroscianti. La direzione musicale di Valery Gergiev, dopo una «prima» contrastata, ha convinto interamente, grazie anche alla sempre rinnovata magia dell’Orchestra e del magnifico Coro di Bayreuth. Applausi per gli interpreti, Lise Davidsen e Stephen Gould, già in coppia all’Opernhaus di Zurigo nei ruoli di Elisabeth e Tannhäuser, per la simpatica Venere di Elena Zhidkova e per lo squisito Wolfram di Markus Eiche. Una produzione da non perdere.
Manni Laudenbach (Oskar) e Lise Davidsen (Elisabeth) in Tannhäuser und der Sängerkrieg auf Wartburg. (@Bayreuther Festspiele /Enrico Nawrath)
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