Azione 33 del 12 agosto 2019

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«Quali animali vivono su più continenti?»

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« Riesci a trovare tutti gli animali sulla cartina? »

OCEANO ATLANTICO

AFRICA

AMERICA DEL SUD OCEANO INDIANO

OCEANO PACIFICO

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AUSTRALIA

OCEANO ANTARTICO

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America del Nord

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ORSO POLARE

America del Sud

ORSO BRUNO

BISONTE AMERICANO

LAMA

ALPACA

Antartide e oceani

GIAGUARO

PECARI

BRADIPO

PETRELLO ANTARTICO

PETRELLO DELLE NEVI

PINGUINO IMPERATORE

Africa

PINGUINO DI ADELIA

PINGUINO PAPUA

STERNA ARTICA

PINGUINO DAL CIUFFO DORATO

STERCORARIO

TARTARUGA MARINA

DELFINO

BALENOTTERA COMUNE

ORCA

CAMMELLO

Europa

GIRAFFA

LEONE

ELEFANTE AFRICANO

RINOCERONTE

Asia

CINGHIALE

BISONTE EUROPEO

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RENNA

ELEFANTE ASIATICO

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FENICOTTERO

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DELFINO DELL’AMAZZONIA

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NANDÙ

PIRANHA

VISCACCIA

TUCANO

TAMBAQUI

BALENOTTERA AZZURRA

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PESCE DI BARRIERA CORALLINA

MEDUSA

MEGATTERA

BALENA FRANCA AUSTRALE

CALAMARO

PESCE VOLANTE

PESCE SPADA

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NARVALO

SQUALO BIANCO

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BALENA DELLA GROENLANDIA

SQUALO GATTO

FOCA LEOPARDO

SQUALO BALENA

FOCA MANGIAGRANCHI

SQUALO MARTELLO

NOTOTHENIA ROSSII

ELEFANTE MARINO DEL SUD

LAGENORINCO DALLA CROCE

MORO OCEANICO

FOCA COMUNE

CAPODOGLIO

BARRACUDA

MERLUZZO

TRICHECO

OTARIA ORSINA

BALENOTTERA BOREALE

DIAVOLO DI MARE

LEONE MARINO

POLPO

FOCA DALLA SELLA

IPPOPOTAMO

GNU

GORILLA

GAZZELLA

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MARABÙ AFRICANO

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VOLPE

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animali agli habitat e alle regioni è fortemente semplificata.

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Cooperativa Migros Ticino

Società e Territorio L’Alpe Stgegia, un lembo di terra di Dongio nella Surselva

Ambiente e Benessere Le ultime ricerche del neurologo portoghese Antonio Damasio hanno tracciato una linea di continuità dai batteri alla cosiddetta «mente culturale»

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXII 12 agosto 2019

Azione 33 Politica e Economia Narendra Modi pone fine a 70 anni di autonomia del Kashmir

Cultura e Spettacoli La Fondazione Prada di Venezia ricorda la poliedrica figura dell’artista Jannis Kounellis

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Simona Dalla Valle

La protesta è un graffito sul muro

di Simona Dalla Valle pagina 13

La trappola del «denaro facile» di Peter Schiesser Qualcosa sta scricchiolando nell’economia mondiale, e nonostante siano tuttora narcotizzati da quella potente droga chiamata «denaro facile» cominciano ad accorgersene anche i mercati azionari: lunedì 5 agosto le borse hanno subito un tonfo, quella americana poco meno del 3 per cento. Il segnale negativo è stato la leggera svalutazione della valuta cinese, il renminbi, sceso sotto la soglia «psicologica» di 7 per 1 dollaro (vedi F. Rampini a pagina 20). Nulla di eclatante, poiché in realtà la valuta cinese, tenuto conto dell’inflazione e del potere d’acquisto, era sopravvalutata e negli ultimi anni ha già perso valore in seguito al conflitto commerciale con gli Stati Uniti. La mossa della banca centrale cinese, che ha ridotto i suoi interventi per sostenere il renminbi, indica però che la guerra commerciale in atto fra la superpotenza in carica e quella in ascesa ha raggiunto un livello tale da non essere facilmente risolvibile e rappresenta quindi una minaccia per l’economia dell’Occidente e dell’Asia. Washington ha accusato Pechino di manipolazione valutaria minacciando ritorsioni, anche se in questo la Cina non è certamente sola, molte banche

centrali (compresa quella svizzera) cercano di influenzare il cambio. Il vero problema per l’Occidente è che il conflitto fra Stati Uniti e Cina si innesta su un indebolimento dell’economia e delle leggi di mercato. Da un lato abbiamo le politiche protezionistiche degli Stati Uniti, figlie dell’«America first», dall’altra c’è la politica del «denaro facile» che sta artificialmente gonfiando la finanza mondiale ma solo marginalmente favorendo l’economia reale, ossia la produzione e l’innovazione. All’indomani della crisi mondiale del 2008 scatenata dalla bolla dei subprime americani (antesignano fu il tonfo di Wall Street il 9 agosto 2007, anche allora di poco meno del 3 per cento), fu fondamentale una politica dei tassi d’interesse bassi per evitare un crollo maggiore e prolungato del settore produttivo. Ma da allora i tassi sono rimasti bassi, la Banca Centrale Europea persegue tuttora una politica del «denaro facile», ci troviamo per la prima volta confrontati con l’assurdità di tassi negativi (ossia di dover pagare un interesse alla banca se vi deponiamo dei capitali importanti). Il denaro in quanto tale ha perso valore, eppure non si riesce a generare neppure un’inflazione moderata e considerata sana del 2 per cento. Anche il recente taglio dei tassi da parte della FED americana, il

primo dalla crisi del 2008, non cambierà molto: non vi sarà crescita economica superiore a quel mediocre 2 per cento, non vi sarà inflazione, anzi lo spettro che continua ad aggirarsi è la deflazione – quell’anemia economica, con prezzi in calo, che ha accompagnato il Giappone per 20 anni. E proprio l’esempio del Giappone insegna che non è sufficiente iniettare denaro nell’economia quando i consumatori sono già molto indebitati, non c’è fiducia in una ripresa, le imprese non investono. I capitali vanno dove li porta una logica di guadagno: se le imprese non investono, quel denaro finisce nei mercati azionari. Ed è quanto sta succedendo oggi. I livelli raggiunti nelle scorse settimane dalle borse occidentali non sono più in relazione con la prestazione dell’economia produttiva, è quindi facile che si creino delle bolle azionarie speculative. Se consideriamo poi le nubi geopolitiche che si ammassano all’orizzonte (guerra commerciale Usa-Cina, Brexit, conflitto con l’Iran nel Golfo Persico) dobbiamo constatare che le pressioni sul commercio internazionale sono molto forti. Ma oggi, di fronte ad una crisi finanziaria e poi economica, ci verrebbe a mancare l’arma monetaria, poiché i tassi sono già sotto i livelli di guardia.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 12 agosto 2019 • N. 33

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Società e Territorio Swissminiatur, sguardo al futuro Festeggiati i 60 anni con il passaggio della gestione da padre a figlio, la famiglia Vuigner ha nuovi progetti per il parco a tema di Melide pagina 6

Felici per forza Un saggio di Edgar Cabanas e Eva Illouz analizza che cosa sta alla radice dell’esaltazione della felicità nell’era attuale pagina 10

l’Alpe Stgegia con vista sulla diga di Santa Maria. Su www. azione.ch una galleria di immagini sulla vita quotidiana della famiglia Taddei. (Stefano Spinelli)

Una famiglia in transumanza

Alpe Stgegia Genitori, tre figli, un aiutante salgono in quota con gli animali per tutta l’estate. L’antica storia

della pastorizia diventa oggi più benefica che mai, almeno per chi ama la pace, il silenzio e una vita sana

Sara Rossi Guidicelli Fabio Taddei aveva 23 anni quando ha caricato l’Alpe Stgegia per la prima volta. Già da tempo aveva deciso che voleva fare il contadino e la sua futura moglie, Jacqueline detta Jacky, era entusiasta. Il nonno di Fabio aveva qualche capra e i giovani Fabio e Jacky hanno iniziato così, con quelle, nella loro azienda a Ponto Valentino; poi ne hanno comprate altre, alcuni maiali, galline, conigli, cavalli. Per acquistare la stalla, i macchinari e tutto ciò che occorre ci vuole investimento, convinzione, lavoro. Per loro non serviva spirito di sacrificio: avevano la forza di chi sa ciò che vuole. Quando hanno sentito che il Patriziato di Dongio aspettava qualcuno che affittasse l’Alpe Stgegia (a mezz’ora da Ponto Valentino, subito dopo il Passo del Lucomagno) per ristrutturarla, si sono fatti avanti insieme a due altri agricoltori, Renza e Elmo Frusetta. E qui è necessaria una curiosa parentesi storica, perché quel pascolo non è in Ticino, bensì nei Grigioni, anche se appartiene al Patriziato di Dongio. Nel 1755, il Convento di Disentis aveva venduto l’Alpe Stgegia all’allora

Comune di Dongio, che aveva pochi pascoli a sua disposizione. Il contratto era «per sempre» e prevedeva in cambio la somma di «fiorini trecento di Reno al valore di Disentis». Ogni anno, a San Bartolomeo, il Comune di Dongio avrebbe anche dovuto pagare un «fitto perpetuo» altrimenti il Monastero si riservava il diritto di «manomettere e aggredire il bestiame del suddetto Comune o di coloro che caricavano l’alpe». Nell’antico documento si indicano anche le responsabilità: il compratore doveva occuparsi della manutenzione della strada che scende dal Passo del Lucomagno nei pressi della sua parcella e di tenerne aperto il transito in tempo di neve; se però per disgrazia «vi accadesse uno scomponimento notale precedente di grand’acqua e rottura di montagna», in tal caso allora sarebbe compito del Monastero di Disentis riparare i danni. Nel 2002, dunque, dopo i lavori di restauro delle cascine, mi raccontano i Taddei che sono saliti portandosi la loro primogenita, Melanie, che aveva tre mesi, gli animali e gli strumenti di lavoro. «I nostri tre figli hanno imparato a mungere le capre, a chiamarle, ad aiu-

tarci in tutte le incombenze quotidiane. Quando erano bebè li mettevamo vicino alla caldaia, poi da più grandi giravano senza pericolo e partecipavano a ogni attività della vita sull’Alpe; sono proprio cresciuti qui». Quando sono a Stgegia, gestiscono una decina di mucche e 240 capre, e Jacqueline fa la casara, la mamma e la casalinga, mentre degli animali si occupa il marito. Con il latte dei loro animali, Jacky prepara formaggelle di mucca, capra e miste, fa i büscion, gli yogurt, la ricotta, la robiola e anche un po’ di formaggio da stagionare. Le pareti dei suoi caseifici, quello in valle e quello in montagna, sono tappezzati di certificati che premiano i suoi prodotti. A raccontare con fierezza del lavoro dell’Alpe ci sono anche Melanie (che ha già compiuto i 18 anni e lavora), Eveline (14) e Kevin (12). Melanie sta facendo un apprendistato di vendita, ma appena può sale all’Alpe: «C’è così tanta pace qui», spiega. «Quando finisco di lavorare non vedo l’ora di raggiungere la mia famiglia, allora mi faccio portare su dal nonno. Vorrei fare esperienza ancora un paio di anni in negozio e poi dedicarmi all’azienda dei miei genitori».

Anche Eveline sa già che vuole lavorare con gli animali anche da grande. Kevin non pensa al futuro: al momento dell’intervista infatti stava costruendo una base di legno per fare il bancone del brunch per il primo d’agosto, insieme a suo papà e l’aiutante Carlo. Ogni anno accolgono circa trecento persone con polenta, patate, tutti i prodotti dell’Alpe e tanta musica dal vivo. «In piano è più faticoso perché bisogna fare anche il fieno», mi spiegano Fabio e Jacky. «Qui è tutto più vicino e spazioso; abbiamo due caldaie così si può casare di più. Eppure, benché il lavoro non sia di meno all’Alpe rispetto a quando si è a casa, sembra più facile perché è meno dispersivo. La sveglia è sempre alle cinque, gli animali da mungere e a cui dare da mangiare sono gli stessi. Qui oltretutto a volte le capre si inerpicano lontano e bisogna andare a prenderle... però è il nostro momento preferito dell’anno. I figli non vanno a scuola e quindi c’è un pensiero in meno. Sanno sempre cosa fare, perciò stanno meglio, non ciondolano. Un po’ ci aiutano, un po’ vanno al fiume, un po’ si divertono qui intorno, in modo sano».

Il paesaggio dell’Alpe Stgegia è particolare: non è soltanto il solito pascolo bucolico, come un palcoscenico verde in mezzo a un’arena di montagne. C’è qualcosa in più, qualcosa che bisogna imparare ad apprezzare: proprio lì, a duecento metri dalle cascine affittate dai Taddei, c’è l’imponente diga ad arco di Santa Maria, alta 117 metri e lunga 560 metri, costruita nel 1968 per creare un lago artificiale sfruttato da un’azienda elettrica. L’Alpe di Fabio e Jacky è ciò che resta del territorio acquistato nel 1755 da Dongio: il resto sta sotto al lago, dietro allo sbarramento. «La gente ci chiede: ma non vi sentite isolati lassù per tre mesi? Non sanno che vediamo molte più persone qui che a casa nostra: chi passa si ferma a chiacchierare, mangia uno yogurt, organizza una merenda. L’aria è fina, il paesaggio ci dà una pace che da fuori entra dentro e ci sentiamo rilassati, anche se trottiamo tutto il tempo e la sera alle nove e mezza crolliamo dal sonno. È un mestiere che non dà vacanze, ma dà la soddisfazione della libertà e del formaggio buono. E qui all’Alpe, il formaggio viene migliore, perciò noi, quassù, ci sentiamo ancora di più al nostro posto».


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 12 agosto 2019 • N. 33

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Società e Territorio

Tra innovazione e tradizione

Swissminiatur A 60 anni dall’apertura l’azienda a conduzione familiare guarda al futuro grazie all’introduzione

di nuove tecnologie e a nuovi progetti Stefania Hubmann Il termine multiculturale, al quale oggi si rivolge tanta attenzione, trova in Swissminiatur, il parco a tema di Melide che lo scorso giugno ha festeggiato 60 anni di apertura, una realtà cresciuta con questo spirito a tutti i livelli. Non sono infatti solo le miniature di edifici, monumenti, mezzi di trasporto e tradizioni dei diversi cantoni svizzeri a rappresentare questo concetto, ma anche la gestione dell’azienda e i suoi visitatori. Dal resto della Svizzera e dall’Italia questi ultimi sono sempre giunti numerosi; fra castelli e case storiche abbiamo però incontrato anche diverse famiglie indiane e non poche persone di origine asiatica. Multiculturale è pure il team dell’azienda a cominciare dalla famiglia Vuigner, giunta con la terza generazione alla guida del parco. In occasione del traguardo Dominique Vuigner ha ceduto la direzione al figlio Joël; insieme ci hanno permesso di cogliere questo spirito.

La promozione di Swissminiatur avviene sempre di più grazie ai social media e alle relazioni con i Paesi emergenti La costruzione del primo parco a tema della Svizzera avvenne per iniziativa di Pierre Vuigner, di origine vallesana. «Mio padre aveva valutato anche un terreno vicino al Museo dei trasporti di Lucerna – racconta il figlio Dominique – ma giunto a Melide rimase affascianto dal panorama che si gode da questa posizione». Posizione rivelatasi strategica anche dal punto di vista dei trasporti e che negli anni ha contribuito al successo di Swissminiatur. Dai primi dodici modelli si è passati agli attuali 128. «Sono cresciuto a pane e Swissminiatur – prosegue gioviale Dominique – entrando gradualmente nella gestione dell’azienda e diventandone responsabile nel 1976. Erano anni di forte sviluppo, persino con picchi di 400mila visitatori a stagione (da aprile a ottobre). Oggi ruotano attorno ai 140mila, ma siamo un po’ come la borsa di Wall Street, con cali e riprese a volte marcati».

Dominique Vuigner e suo figlio Jöel. (Stefano Spinelli)

Il parco d’altronde è ora chiamato a difendere la sua offerta fra numerose altre possibilità di svago. Per questo la promozione, benché sempre intensa con Svizzera Turismo, il rispettivo ente cantonale e quelli locali, passa ora sempre più dai viaggi nei Paesi dei mercati emergenti e dai social media. Alle visite regolari in India, Cina, Corea, Taiwan, Indonesia ed Emirati Arabi Uniti si dedica il giovane Joël, per il quale «un fattore essenziale resta in ogni caso l’accoglienza riservata ai clienti e alla quale contribuisce tutto il personale». Come Joël, nato in India e adottato dalla famiglia Vuigner, molti dei circa trenta collaboratori hanno origini lontane dalla Svizzera e aiutano volentieri i loro connazionali. Joël

torna con particolare piacere in India, ma sottolinea che ovunque «tessere legami personali con giovani promotori turistici favorisce lo sviluppo del business. Essere sul posto mi permette inoltre di prendere decisioni rapide». Per Joël la scelta di proseguire con l’attività di famiglia non è stata obbligata, bensì naturale. «Pure io sono cresciuto fra i modellini, sviluppando un forte legame con mio nonno Pierre. Da ragazzo guidavo il trenino che corre lungo il perimetro del parco e lavoravo in cucina. Ho quindi fatto la classica gavetta, partendo poi all’estero per studiare le lingue». Oggi Joël è a capo della struttura dove il padre segue però ancora l’attività quotidiana, dispensando preziosi consigli. «Swissminiatur è stata per me una scuola di vita – precisa Dominique Vuigner – ed è sempre interessante discutere con persone provenienti da ogni parte del mondo». L’aspetto umano si rivela centrale a fronte di un business che risponde a nuove dinamiche (il brand con la storica mascotte è stato appena aggiornato) e dove la tecnologia è entrata sia a livello di marketing, sia nella manutenzione dei modelli. Modelli che continuano ad esercitare grande fascino, soprattutto quando è possibile scoprire come vengono costruiti e restaurati. Le visite dietro le quinte di Swissminiatur sono infatti una novità di successo del 2019, così come il modello

del treno Voralpen-Express. Spiegano i due intervistati: «Abbiamo introdotto le visite guidate nei laboratori e nell’officina dei treni durante le celebrazioni del 60. e proseguiremo fino a fine stagione. Le strutture di base delle miniature sono realizzate in pvc in Francia. Arrivano a Melide allo stato grezzo e qui sono lavorate e decorate per giungere alla riproduzione fedele in scala 1:25. Ogni stagione una ventina è oggetto di manutenzione a causa dell’usura determinata dagli agenti atmosferici e, per i treni, dai chilometri percorsi». Da quest’anno Swissminiatur è pure azienda formatrice in campo artistico. Nella piccola équipe del laboratorio sono stati inseriti due apprendisti disegnatori 3D. La sostituzione delle 300 finestre di palazzo federale è stata effettuata in questo modo. Tradizione del lavoro artigianale e nuove tecnologie si mescolano per offrire una visione miniaturizzata del patrimonio architettonico, culturale e naturale del nostro Paese. Le mitiche cime innevate svettano sull’insieme dei modelli disseminati su una superficie di 14mila metri quadrati arricchita da 1500 piante e 15mila fiori. Meta privilegiata delle famiglie, Swissminiatur soddisfa molteplici interessi, fra cui quello storico. Il sito internet e una app che accompagna il visitatore costituiscono ricche fonti informative. A Melide è anche possibile vedere edifici

oggi scomparsi come la locanda turgoviese «Lion d’Or», risalente al 1711 e distrutta da un incendio, o lasciarsi ispirare per organizzare una visita al monumento originale. Lo stesso Dominique Vuigner ha proposto in passato regolari trasferte ai suoi impiegati, in modo da vedere dal vivo quanto riprodotto nel parco. Lo spirito di gruppo del team è in fase di ricostituzione a seguito del cambio generazionale, ma a chi lascia il timone le idee non mancano nemmeno per il futuro del parco. Se personalmente Dominique Vuigner si vede piuttosto a lungo termine nelle terre francesi d’oltremare, riguardo all’azienda di famiglia, il cui accordo con il Comune di Melide scadrà nel 2042 e che soffre della carenza di parcheggi, individua un possibile potenziale di crescita in un parco chiuso. Diminuirebbero drasticamente i costi di manutenzione, la bellezza del paesaggio circostante sarebbe compensata dalle moderne modalità di fruizione interattive, il Ticino beneficerebbe di un contributo al ritorno del turismo invernale. Prospettive che proiettano Swissminiatur, alla quale la popolazione svizzera testimonia sempre grande affetto, verso un futuro fatto di tradizione e innovazione. Informazioni.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 12 agosto 2019 • N. 33

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Idee e acquisti per la settimana

Bolidi di Formula 1 in mostra

Evento Il Centro Migros S. Antonino ospita fino al 17 agosto un’esposizione di storiche vetture di Formula 1

Gli appassionati delle gare di Formula 1 sono avvisati: questa settimana presso la Mall del Centro Migros S. Antonino saranno esposte alcune vetture che hanno fatto la storia del campionato automobilistico più importante al mondo. Un appuntamento imperdibile, dove si potranno ammirare e toccare con mano monoposto quali la BMW Sauber della stagione 2008, al cui volante i due piloti Robert Kubica e Nick Heidfeld raggiunsero ben 11 piazzamenti sul podio. Ricordiamo che quell’anno per la scuderia svizzera fu il momento culminante della sua storia, dal momento che presso la sede di Hinwil erano attivi ben 400 collaboratori. La mostra presenta anche la Lotus 22 con motore Ford, guidata nel campionato del 1962 dallo svizzero Jo Siffert, considerato uno dei più talentuosi piloti dell’epoca. Altra mitica vettura presente è la Lotus 98T con motore Renault V6 Turbo da 800 CV dell’indimenticabile corridore brasiliano Ayrton Senna. Con questo bolide, durante la stagione 1986, quello che è ritenuto il più grande pilota di sempre raggiunse addirittura 8 pole position. L’esposizione ospita ancora la March 701 del 1970, una vettura con motore Ford V8 che fu tra l’altro anch’essa guidata dal pilota svizzero Jo Siffert. Infine, non lasciatevi sfuggire l’occasione di ammirare la più recente auto da corsa di Formula 1, la Red Bull RB7 con motore Renault RS27 guidata da Sebastian Vettel. Con essa il pilota tedesco nel 2011 dominò la stagione agonistica, vincendo il secondo Campionato del Mondo consecutivo a soli 24 anni. A proposito: segnaliamo che i visitatori che vorranno provare l’ebbrezza di guidare una vera auto di Formula 1, potranno lanciarsi su un fantastico circuito virtuale grazie alla presenza di uno speciale simulatore di guida.

Salmone sì, ma solo se sostenibile

Sapori d’Oriente

Attualità Fino a fine mese la nostra proposta

Novità I reparti pesce fresco di Migros Ticino hanno introdotto

della cucina giapponese

il salmone norvegese d’allevamento certificato ASC Azione 30%

sul filetto di salmone fresco norvegese ASC confezione 400 g Fr. 13.40 invece di 19.20 dal 13 al 19.8

Il salmone, si sa, è uno dei pesci più gettonati dai consumatori, i quali lo scelgono per la sua straordinaria versatilità gastronomica, la facilità di preparazione, il sapore delicato e la carne bella compatta. In estate poi, un aro-

matico e tenerissimo filetto di salmone appena grigliato fa un gran figurone su qualsiasi tavola. Al momento dell’acquisto, è tuttavia importante prestare attenzione non solo alla qualità del prodotto, ma an-

che al fatto che il pesce provenga da fonti responsabili che preservino le risorse ittiche e rispettino determinati criteri ecologici e sociali. Come lo è di fatto il salmone allevato in Norvegia certificato dall’organizzazione internazionale indipendente ASC (Aquaculture Stewardship Council), ottenibile ora presso i reparti pesce di Migros Ticino. Gli elevati standard del marchio richiedono che le aziende tengano in considerazione diversi aspetti. Eccone alcuni: l’alimentazione dei pesci deve provenire da fonti sostenibili, l’allevamento non deve danneggiare la biodiversità regionale, la qualità dell’acqua deve offrire buone condizioni di vita ai pesci, un piano di gestione sanitario degli animali, l’obbligo di applicare condizioni di lavoro eque, salute e sicurezza sul posto di lavoro. Il rispetto delle norme è controllato da società indipendenti. Infine, è importante sapere che l’assortimento di pesce e frutti di mare venduto da Migros proviene al 100% da fonti sostenibili, un criterio garantito dai marchi di certificazione MSC, Migros Bio e ASC.

Sushi Hazuki 290 g Fr. 15.90

Se siete fanatici della specialità di pesce crudo, anche questo mese nei maggiori supermercati di Migros Ticino avrete modo di provare una nuova bontà mensile di sushi, l’Hazuki. Questa colorata combinazione è composta da diversi bocconcini a base di riso, verdure miste e pesce quali tonno, tilapia e salmone affumicato, con l’aggiunta dei tradizionali accompagnamenti quali wasabi, salsa di soia e zenzero. Le materie prime sono selezionate e lavorate con cura e attenzio-

ne quotidianamente affinché possiate godere di un prodotto sempre fresco e saporito. Tutta la gamma di sushi offerta nei nostri negozi è preparata dalla Sushi Mania SA di Vuadens. Da una ventina d’anni questa azienda friborghese è specializzata nella cucina giapponese e asiatica: i suoi 120 collaboratori producono ogni giorno oltre 40’000 bocconcini di sushi. Accanto alle specialità più classiche, qui vengono regolarmente sviluppate anche nuove invitanti creazioni.


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Idee e acquisti per la settimana

Il fantastico mondo degli animali

È iniziata l’Animal Planet Mania! 156 figurine di animali, un album e 40’000 biglietti famiglia per zoo e parchi faunistici: raccoglile insieme a noi e scopri lo straordinario mondo degli animali due adulti e due bambini potranno entrare gratuitamente in 21 zoo e parchi faunistici della Svizzera. Vedi lista di quest’ultimi qui accanto.

La Mania

Dal 13 agosto al 30 settembre, nei supermercati Migros e su LeShop, per ogni acquisto da 20 franchi si riceve una bustina di figurine*. Al suo interno si trovano o quattro adesivi di animali o tre adesivi di animali e un Golden Sticker.

21 zoo e parchi da scoprire

Con i Golden Tickets due adulti e due bambini entrano gratis in questi zoo

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Le figurine

L’album

Con l’album di figurine i bambini possono scoprire animali di tutto il mondo, conoscere il loro habitat naturale e sapere quali sono minacciati. In 64 pagine Mia e Leon ti accompagneranno in questo viaggio attraverso tutti i continenti del mondo. L’album costa 5 franchi. I membri di Famigros ricevono l’album gratis alle casse, presentando il buono che ricevono tramite la newsletter.

Sono 156 le figurine da raccogliere e incollare. 20 animali possono essere scoperti ancora meglio attraverso la Migros Play App, grazie ad animazioni 3D e video, e si potranno conoscere più da vicino Mia e Leon.

Disegni da colorare

Il 17 agosto alle casse Migros si ricevono i disegni da colorare Animal Planet Mania. Per la prima volta queste opere colorate potranno essere animate in 3D tramite la Migros Play App. Colorare non è mai stato così divertente! Maggiori informazioni:

animalplanetmania.ch

I Golden Sticker

In 40’000 bustine si nascondono, oltre agli adesivi di animali, anche dei Golden Sticker. Con questi biglietti dorati

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*Massimo 15 bustine per acquisto, fino ad esaurimento scorte. Acquisto di buoni e carte regalo esclusi.

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1 Parco degli orsi di Arosa GR 2 Zoo Plättli a Frauenfeld TG 3 Museo all’aperto del Ballenberg BE 4 La piccola fattoria di John BE 5 Juraparc a Le Pont-Vallorbe VD 6 Zoo alpino a Marécottes VS 7 Falconeria a Locarno TI 8 Zoo al Maglio di Magliaso TI 9 Zoo Hasel a Remigen AG 10 Stazione ornitologica

di Sempach LU 11 Tropiquarium di Servion VD

12 Zoo dei serpenti a Wallenwil TG 13 Sikypark a Crémines BE 14 Zoo di Basilea 15 Parco zoologico di Dählhölzli BE 16 Parco naturale e faunistico

di Goldau SZ

17 Papiliorama di Kerzers FR 18 Zoo di La Garenne VD 19 Zoo per bambini Knie

a Rapperswill SG

20 Zoo di Zurigo 21 Zoo Walter a Gossau SG

I Nostrani del Ticino sono la riscoperta dei sapori locali e provengono esclusivamente da aziende ticinesi che ne garantiscono la qualità, la freschezza e la genuinità. Oltre 300 tipicità della nostra regione che rappresentano il nostro impegno concreto nel sostenere agricoltori, allevatori e produttori alimentari ticinesi.


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Società e Territorio

La dittatura felice

Psicologia positiva L’esaltazione della felicità nasconde, secondo alcuni, numerosi pericoli

Natascha Fioretti Finito il saggio firmato da Edgar Cabanas e Eva Illouz mi è passata la voglia di essere felice. E sì che sono tra quelle che la parola felicità la usano e la pensano spesso e volentieri intendendola un po’ alla Luciano De Crescenzo come una cosa piccola e vicina più di quanto immaginiamo, se solo, a volte, fossimo capaci di vederla. In verità, grazie al saggio Happycracy. Come la scienza della felicità controlla le nostre vite ho scoperto che dietro a questa parola oggi si nasconde un mondo, un’ideologia, una pseudoscienza, uno stile di vita, un business, un modo di pensare e di omologare le nostre esistenze molto insidioso e di cui può essere utile prendere bene le misure. Secondo il professore associato all’Università Camilo José Cela di Madrid e ricercatore presso il Centro per la storia delle emozioni del Max Planck Institut di Berlino e la professoressa di sociologia all’università ebraica di Gerusalemme considerata dal settimanale tedesco «Die Zeit» tra le dodici intellettuali più importanti che influenzeranno il futuro, viviamo in una dittatura della felicità in cui non sono ammesse voci fuori dal coro. Siamo noi gli artefici del nostro destino, dei nostri pensieri positivi e da essi dipendono il nostro successo personale, lavorativo e il mondo che ci circonda abitato da cittadini e lavoratori felici. Detto così non sembra poi così male, ma vi conduco all’essenza del problema sollevato dai due autori citando il pensiero della scrittrice americana Barbara Ehrenreich. Malata di cancro al seno, femminista convinta, si è messa alla ricerca di gruppi e reti femminili che discutessero e condividessero la sua stessa esperienza. Confrontandosi sulla questione si è però resa conto che intorno alla cultura del cancro al seno impera un pensiero dominante: il tumore non va visto come una cosa brutta che ti capita ma come un’opportunità, una condizione che può essere ribaltata se affrontata con il giusto atteggiamento e cioè pensando positivo, credendo che l’esperienza della malattia renda le persone migliori e permetta loro di crescere, anche spiritualmente. E chi, in generale, non approfitta delle avversità, trasformandole in occasioni di crescita personale, è sospettato di meritarsele, quali che siano le sue circostanze esistenziali. In modo ironico Barbara Ehrenreich dice «alla fine mi sono convinta di avere due malattie: il cancro al seno e un atteggiamento negativo». Correva l’anno 1998 quando Mar-

La ricerca spasmodica della felicità porta a nascondere le emozioni negative che sono in noi, ma non a superarle.

tin Seligman ebbe l’intuizione di fondare una nuova scienza della felicità per indagare tutto ciò che rende la vita degna di essere vissuta e permettere di scoprire le chiavi del funzionamento ottimale dell’essere umano. L’anno dopo diventò presidente dell’American Psychological Association (APA), la più grande associazione di categoria degli psicologi americani con oltre 117’500 membri e questo, unito al generoso sostegno finanziario che la sua intuizione incassò dal governo degli Stati Uniti ma non solo (nel 2002 poteva contare su 37 milioni di dollari di fondi raccolti) permise una diffusione così rapida e capillare che in poco tempo la felicità non solo si trovò in cima all’elenco delle priorità della ricerca accademica ma anche molto in alto tra gli obiettivi sociali, politici ed economici di diversi

Paesi come Stati Uniti, Francia e Inghilterra. Nel 2012 l’ONU, in collaborazione con l’agenzia di sondaggi Gallup, ha dato vita al World Happiness Report, una graduatoria mondiale che definisce il grado di felicità di ogni paese sondando la felicità dei cittadini. Felicità derivante dalla somma di fattori quali nuove tecnologie, normative sociali, politiche di governo virtuose che promuovono il cambiamento. Nello stesso anno è stata istituita la giornata internazionale della felicità che promuove la felicità e il benessere come obiettivi universali e aspirazioni della vita degli esseri umani e ribadisce l’importanza di riconoscerli nelle politiche pubbliche. Tra i meriti della psicologia positiva vi è senz’altro la capacità di stringere alleanze eccellenti. Il World Happiness

Report viene stilato ogni anno da Richard Layard, membro della Camera dei Lord, già consulente del governo Blair, direttore del Centre for Economic Performance presso la London School of Economics e fondatore e direttore del Wellbeing Programme. Soprannominato, infine, zar della felicità, è da sempre un fautore della collaborazione tra economisti e psicologi. Non a caso nel 2008, dopo il tracollo dell’economia mondiale, molti governi valutarono l’ipotesi di usare gli indicatori della felicità per tastare il polso della popolazione, a fronte del rapido declino delle misurazioni obiettive del tenore di vita e dell’eguaglianza. Le principali istituzioni internazionali iniziarono a raccomandare la felicità come indice di misurazione del progresso nazionale, sociale e politico.

Via di questo passo la psicologia positiva si è legata al neoliberismo sposandone in particolare la filosofia sociale di stampo individualista focalizzata soprattutto sul sé, e il cui postulato antropologico è riassumibile in una frase di Nicole Aschoff: «Siamo tutti attori indipendenti e autonomi che, incontrandosi sul mercato, costruiscono il proprio destino e, così facendo, anche la società». In un contesto economico di difficoltà e recessione, in un mercato lavorativo globale stressato, altamente competitivo e sempre più precario, alle persone viene recapitato questo messaggio: trovate la forza di volontà dentro voi stessi. Meglio ancora se chiedete aiuto a uno dei tanti guru del benessere dedito ad orientare l’attenzione del singolo verso la vita interiore e rafforzare la sua capacità di agire in un mondo frenetico e caotico. Ma, allo stesso tempo, svuota il sé di qualsiasi componente comunitaria, rimpiazzandola con preoccupazioni di tipo narcisistico e limitando la possibilità di costruire un vero cambiamento sociale e politico a livello collettivo. Come dice Marino Pérez, specialista di psicologia clinica, «la società del benessere provoca disagio e sottopone le persone a una sorta di circuito in cui come il criceto sulla ruota pedalano continuamente per raggiungere più o meno lo stesso obiettivo». Per Cabanas e Illouz la psicologia positiva è uno strumento potentissimo in mano alle organizzazioni e alle istituzioni, che sotto l’ègida della felicità mirano a costruire lavoratori, soldati e cittadini più obbedienti. E criticano la psicologia positiva definendola una pseudoscienza, piena di assunti e deduzioni fallaci, che pecca di possedere la verità assoluta. Infine, sottolineano, c’è un grande assente nella dittatura della felicità: il valore delle emozioni negative. Non dimentichiamoci che le agitazioni popolari e la volontà di mutamento sociale nascono dalla collera e dal risentimento dei singoli. Nascondere questi sentimenti sotto il tappeto del pensiero positivo, far credere alle persone che qualsiasi sia la loro condizione sociale, il loro reddito e la loro storia personale bastano i pensieri positivi a determinare la realtà intorno, significa stigmatizzare la struttura emotiva del malessere sociale trasformandola in qualcosa di biasimabile. E, allora, ci dicono i due autori, non la felicità ma la conoscenza e la giustizia saranno sempre lo scopo morale e rivoluzionario della nostra vita.

Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Rolli, Kabungo. La mia amica preistorica, Il Castoro. Da 8 anni. Ogni storia ti invita a quello che tecnicamente si chiama «patto narrativo», in cui dall’incipit al finale tu «crederai» a ciò che ti viene raccontato. Se l’incipit è c’era una volta, accetterai di credere ad esempio, per la durata di quella storia, che esistano mondi dove i topini diventano cavalli e le zucche diventano carrozze. Qui l’incipit è «La mia amica Kabungo vive in una caverna che si affaccia su Main Street. Proprio accanto all’ufficio postale» e il lettore (i bambini lo sanno fare benissimo!) non si dovrà fare troppe domande, ma semplicemente accogliere questo «inaspettato» inizio (??) – che tranquillamente inserisce una bimba cavernicola in un contesto contemporaneo cittadino – e godersi la storia. Una storia che viene narrata da Beverly, una bambina «normale» che senza scomporsi più di tanto vive

la sua amicizia con Kabungo, la piccola cavernicola. La situazione può ricordare un po’ quella dell’orso Paddington a Victoria Station, o anche quella di Tommy e Annika, ragazzini in cui ogni lettore si può identificare, che vivono la loro amicizia con Pippi Calzelunghe. Solo che Villa Villacolle non è una caverna, e Pippi – seppure su un registro più schietto e disinvolto – parla come i suoi amici. Invece il linguaggio

di Kabungo è totalmente immaginifico (grande lavoro per Mara Pace, traduttrice dall’inglese), sia sul piano fonico, con le parole storpiate un po’ come farebbe un bimbo piccolo (Belli per Beverly, tigga per tigre); sia sul piano simbolico, con associazioni metaforiche molto libere (l’oceano di Jo è il bicchiere in cui zio George mette la dentiera; fiutare significa «seguire»). Espediente certo non di scorrevolissima lettura per un bambino alle prime armi, ma più efficace se mediato da una lettura ad alta voce che dia le giuste intonazioni facilitandone la comprensione. Oltre alle due bambine, eccentrici personaggi adulti fanno il loro ingresso nel libro (la vecchina novantenne esperta di zucche di Hallowen, l’uomo della spazzatura, il signore del bosco con cui Kabungo parla in olandese e che chiama nonno...). Ogni capitolo è un’avventura a sé, in cui Beverly magari resta spiazzata dal comportamento non proprio ordina-

rio di Kabungo, ma comunque lo accetta e lo valorizza, perché ne riconosce le buone intenzioni (anche quando, ad esempio, Kabungo le organizza un compleanno in discarica!) e perché così fanno i veri amici. Chiara Vignocchi e Silvia Borando, Ho visto una talpa, Minibombo. Da 4 anni. Ho visto una talpa. Ma com’era questa

talpa? Beh, se a vederla è stato l’elefante, la talpa era piccolissima. Se però a vederla è stata una formica, la talpa era molto grande. Ed era veloce, se chi l’ha vista era una lumaca, mentre era molto lenta se chi ne parla è un ghepardo... Ma quante talpe diverse ci sono in giro? O è solo una questione di punti di vista? Con il consueto intelligente brio, le autrici di Minibombo non si limitano a offrirci un messaggio, per quanto importante, sui punti di vista e sull’alterità, ma si divertono a inserirvi molto di più, con leggerezza e giocosità. Ulteriori sorprese attendono il lettore e quando la tanto avvistata talpa arriverà, il finale sarà tutto da ridere! Un libro su cui continuare a giocare, anche dopo l’ultima pagina: cosa direbbe della talpa la giraffa, così alta? E la pulce, così minuscola? E tu, quando hai visto una cosa da una prospettiva particolare? Non perdetevi i giochi proposti sul sito minibombo.it! E buon divertimento!


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 12 agosto 2019 • N. 33

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Società e Territorio Rubriche

L’altropologo di Cesare Poppi Macis, meraviglia delle Molucche Orsono all’incirca due settimane, il vostro audace Altropologo si trovava ad esplorare la plaga remota ed ostile, nota per le estese paludi da dove esalano miasmi mefitici che alimentano feroci zanzare e torme di nutrie – un vero e proprio Pantanal, che si estende a perdita d’occhio (poiché d’inverno c’è una nebbia che non si vede oltre la punta del naso) a Nord di Ravenna verso le misteriose foci del Po. Si era deciso di far tappa, esausti per la calura e l’incombente minaccia dei nativi che scorrazzano su e giù per la Strada Statale Romea a cavallo di autotreni fuori ordinanza sparando a tutto volume bordate di «Romagna mia» addosso a chiunque si avventuri nel loro territorio. Il luogo scelto per la sosta era un avamposto dell’antica e ormai dimenticata civiltà bizantina nella forma di un minisupermarket situato a lato della ferrovia e sotto un viadotto noto nella zona per essere cresciuto chissà come nel posto più disgraziato del circondario – ma anche per servire a coloro che

azzardano da quelle parti certe tagliatelle, cappelletti, strozzapreti e anguille marinate ormai entrati nella leggenda. Sul punto di attaccare un’aspra montagna di cappelletti al formaggio di fossa di Sogliano (che raccomando) il figlio della Signora Laura – che è l’arzdora («reggitrice», titolo che in Romagna spetta alla Donna che Comanda e zitto il resto del mondo) – arriva al tavolo con un cartone da almeno mezzo metro cubo, lo sbatte senza troppe cerimonie sul medesimo e comincia a ravanarci dentro. Noi tutti presto si era a scrutarne le profondità: sul fondo una certa materia giallastra e fragrante difficile da descrivere e certo mai vista dagli occhi di un Occidentale. «Macis: ecco, quello che i signori stanno vedendo è il Macis, la meraviglia delle Isole Molucche». Così il nostro mentore, col fare di chi dispensa sapere agli ignoranti ed il viatico ai moribondi. Poi, prima che si potesse fermarlo, afferra un tot della suddetta materia e comincia a grattarne quantità industriali sui nostri

cappelletti. A condire l’operazione la narrazione dei suoi perigliosi viaggi annuali alle Molucche per rifornirsi del prezioso, incomparabile Macis che un giorno, risolti certi problemi d’importazione e licenze alimentari, lo avrebbe a suo dire fatto ricco. Le Molucche, arcipelago indonesiano ad ovest della Nuova Guinea, erano note un tempo come Isole delle Spezie. Da qui – si diceva fra il sapere certo e la leggenda – provenivano quelle spezie che facevano ricco il commercio musulmano e costituivano la fortuna della Repubblica Veneta che le distribuiva in tutta Europa. Preziosa fra le perle era la noce moscata, seme dell’albero Myristica Fragrans, sempreverde che può raggiungere i venti metri d’altezza. Il Macis costituisce l’endocarpo, ovvero la polpa del frutto che avvolge il seme: della noce matura ha tutta la fragranza ed il sapore ma in forma più delicata. È largamente usato nella cucina indiana, anche se ha avuto meno fortuna in quella europea. Nel XVI secolo il

commercio via mare con le Molucche attraverso la rotta orientale che circumnavigava l’Africa era dominato dai portoghesi. Fra questi spiccava per intraprendenza e coraggio Ferdinando Magellano, figlio della piccola nobiltà che fin da giovane aveva partecipato a spedizioni militari e diplomatiche verso l’India e le stesse Molucche. Nel 1513 Magellano era caduto in disgrazia presso il re portoghese Manuel I. Questi gli aveva ripetutamente negato la concessione di navi per esplorare la possibilità di raggiungere le Molucche da est salpando verso Occidente, ovvero circumnavigando stavolta non l’Africa ma l’America Meridionale, la geografia della quale cominciava allora a delinearsi alla navigazione. Ferito nell’orgoglio, Magellano si buttò allora con la concorrenza e propose l’impresa a Carlo I di Spagna, nemico storico dei portoghesi. Il 10 Agosto 1519 una flotta di cinque navi cariche di rifornimenti per due anni di viaggio salpò dal porto di Siviglia. Dei 270 uomini di equipag-

gio solo quaranta erano portoghesi. Dopo una traversata atlantica durante la quale tre dei capitani spagnoli si ammutinarono e finirono chi ucciso in combattimento e chi giustiziato, la flotta raggiunse il Pacifico attraverso lo Stretto di Magellano. Magellano stesso non avrebbe mai visto il gran finale di quella che fu la prima circumnavigazione del globo. Il 27 Aprile 1521, determinato a convertire al cristianesimo i nativi dell’isola di Mactan, nelle Filippine, ingaggiò battaglia con forze esigue ed ebbe la peggio. Antonio Pigafetta fu testimone oculare dell’evento: dato l’ordine ai superstiti di ritirarsi a bordo delle navi, Magellano restò solo a coprirne la fuga e fu massacrato a colpi di machete: «…lo colpirono più volte, fino ad uccidere il nostro specchio, la nostra luce, il nostro conforto – la nostra vera guida». Così Pigafetta che completò la circumnavigazione alle Molucche sull’unica nave superstite dell’intera flotta. Il nome del legno? Victoria.

che, come reazione spontanea, vengono scaricate proiettandole sui compagni. Tutti soffrono per veri o presunti inestetismi e i più aggressivi trovano sollievo quando, di fronte all’umiliazione dell’altro, possono affermare: il problema è suo, non mio. Purtroppo questo meccanismo di difesa, suscitando il consenso della classe o del gruppo, provoca collaborazione e omertà. Col risultato che la vittima, rimasta isolata, colpevolizza se stessa e, invece di denunciare la persecuzione, se ne fa carico. Come vedete, il fisico di Patrizia è solo un pretesto per scaricare tensioni che, a quell’età, è difficile riconoscere, condividere ed elaborare senza l’aiuto degli educatori. Viviamo in una società, dominata dall’apparenza, che ha sostituito le colpe morali con quelle estetiche, dove il dovere di essere belli (conformi ai modelli pubblicitari) ha preso il posto del dovere di essere buoni (senza peccati). Ma i canoni proposti, anzi imposti, sono mutevoli. Negli anni Cinquanta un seno prosperoso era considerato il

massimo della bellezza, come testimoniano i film dell’epoca e attrici quali Gina Lollobrigida e Sofia Loren. Ora, secondo i nuovi modelli, può diventare un’imputazione che gli adolescenti soffrono in modo particolare. Ma si tratta, credetemi, di una situazione temporanea, un passaggio di età. Tra non molto, con la valorizzazione della sessualità, le fattezze di Patrizia si dimostreranno un vantaggio nel gioco della seduzione. Resta comunque il problema di come aiutare qui e ora un’adolescente in crisi a uscire dal tunnel in cui si trova. Credo che, in questo momento, esaudire la richiesta di un consulto medico possa giovarle perché si sentirà compresa e accettata da voi mentre la voce competente e autorevole del chirurgo potrà rassicurarla sulla sua normalità. In tanti anni di consigli ai genitori, non ho mai incontrato un medico disposto a modificare, per motivi estetici, il corpo di una sedicenne. Anche quando esiste un problema obiettivo, l’intervento viene rinviato a più tardi, alla conclusione dello sviluppo.

Scegliete quindi una struttura sanitaria seria e un professionista riconosciuto, magari esponendogli il caso in un colloquio preliminare. Infine un suggerimento un po’ frivolo: una biancheria intima adeguata e abiti ben tagliati possono valorizzare la conformazione di Patrizia. Se la ragazzina riuscirà a modificare positivamente lo sguardo su se stessa, potrà cambiare anche quello degli altri sino a sentirsi orgogliosa per le sue fattezze, per come sono e per come saranno. Spero di avervi persuaso che il problema è più psichico che fisico e che aiuterete Patrizia, non esaudendo la richiesta d’intervento chirurgico, ma sostenendola nell’affermazione della sua identità.

su questo settimanale. Ora, proprio la correlazione fra i comportamenti quotidiani e rialzo delle temperature, con conseguenze catastrofiche, rimane al centro delle ricerche di scienziati, condotte al riparo da ogni clamore pubblicitario. I media italiani hanno dato scarso risalto alla recente iniziativa, sottoscritta da Franco Prodi, Antonino Zichichi, Giuliano Panza e altri illustri esponenti della cultura scientifica, secondo i quali «l’origine antropica del riscaldamento globale è una congettura non dimostrata» per cui «le previsioni catastrofiche non sono realistiche». Si tratta, del resto, di anziani professori che conducono una battaglia fra cattedratici, lontani da un’opinione pubblica che subisce, invece, gli influssi di predicatori ben più seducenti. L’ecologia può, infatti, contare su giovani e giovanilisti, decisi a cambiare un mondo in crisi di ideali, inventandone

uno sostitutivo, affidato a una sedicenne. Simbolicamente, Greta Thunberg contrappone all’affarismo tecnologico industriale, l’innocenza di una ragazzina che ha percepito il richiamo di una missione culturale e morale: necessaria tanto da conferirle carisma e potere profetico. «La sua profezia si è realizzata»: titolavano i giornali, per giustificare questa caldissima estate. Sono termini che spostano il discorso sul piano della fantascienza e della superstizione. La piccola svedese non si limita a mobilitare, il venerdì, gli scolari di mezzo mondo, per difendere l’aria pulita, e sin qui potrebbe essere un merito. Ma, grazie a doti divinatorie, può prevedere disastri apocalittici e dominarli, seguendo il suo esempio. La ricetta è semplice, ispirata ai no: all’aereo, all’auto, alla carne, allo svago e no alla scuola, dato che, per dedicarsi a un impegno superiore, ha abbandonato gli studi.

Ora quest’immagine di purezza si sta incrinando sotto l’urto delle contraddizioni. Se, all’incontro di Losanna «Smile for the future», Greta dichiara «Detesto le luci della ribalta», in pratica si smentisce clamorosamente. Si recherà in USA, a bordo di un catamarano pilotato da Pierre Casiraghi, rampollo della dinastia di Monaco, principato che non è certo un esempio di moralità e di ecologismo. Però, assicura all’impresa un bel risalto pubblicitario. Le teste coronate, o quasi, sembrano sensibili all’effetto Greta. Ecco che Harry e Meghan annunciano: «Avremo solo due figli, per non inquinare il pianeta». Imitati da un gruppo di giovani donne, decise a non procreare, per garantire la sopravvivenza di un mondo non infestato dal genere umano. A questo punto, amici, colleghi, conoscenti potranno forse concedermi la libertà del dubbio.

La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi L’affermazione dell’identità Gentile Professoressa, sono il papà un po’ attempato di Patrizia, una deliziosa sedicenne, nata dopo una lunga attesa, quando ormai non ci speravamo più. Forse perché è rimasta unica, noi genitori l’amiamo come più non si potrebbe. È la figlia ideale e, da quando è al mondo, ci ha dato solo soddisfazioni: è bella, sana, gentile, affettuosa e positiva. Mai un capriccio, mai una richiesta insistente, sempre «per favore» e «grazie». Capirà perché dall’autunno scorso siamo preoccupati vedendola triste, solitaria, taciturna, uno stato d’animo che solo le vacanze hanno parzialmente migliorato. Anche la scuola non è andata bene come gli altri anni: è stata promossa, è vero, ma con voti piuttosto scadenti. Pensavamo fosse la solita crisi dell’adolescenza ma qualche giorno fa abbiamo incontrato la mamma di un suo compagno di scuola che ci ha aperto gli occhi. Pare che Patrizia sia stata vittima di un pesante mobbing, in classe e fuori, da parte dei maschi ma soprattutto delle femmine. Perché? perché, pur essendo tutt’altro che grassa, ha un seno molto sviluppato.

Soprannominata la «tettona», durante le ore di palestra viene accompagnata da un coro di «plop, plop». Ne abbiamo parlato con lei e finalmente ci ha rivelato di essere stressata e di non poterne più di quell’assurdo tormento. Ma quello che più ci preoccupa è che, dopo essere scoppiata a piangere, ci ha chiesto, anzi supplicato, di portarla da un chirurgo estetico perché le riduca il seno. Vedendola così decisa e così disperata non sappiamo cosa fare. Non ha mai preteso niente e non ci sembra giusto, la prima volta che domanda qualcosa, risponderle no. Ci aiuti, la prego. / Genitori in ansia Cari genitori, quando un figlio ha sedici anni, l’ansia è di casa. Per l’adolescente il corpo è uno sconosciuto, la vita un’incognita, i rapporti con i coetanei un problema. Le emozioni vengono ingigantite dall’immaturità del cervello dove a un’area cognitiva molto sviluppata corrisponde un’area emotiva piuttosto infantile. Questo divario esaspera le frustrazioni

Informazioni

Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch

Mode e modi di Luciana Caglio In esilio a casa propria Quando tutti, o quasi, la pensano in un certo modo, scegliere diversamente espone a un doppio rischio: apparire supponente e sentirsi estraneo, chiuso in un esilio volontario. Sta succedendo ai pochi che osano concedersi qualche dubbio nei confronti dell’ambientalismo, nuovo credo. Una corrente scientifica, che denunciava i danni dell’inquinamento e indicava rimedi concreti, strada facendo ha assunto i connotati di crociata salvifica, di religione, appunto. Mentre le religioni tradizionali sono messe in discussione, l’ecologia invece vanta una dottrina incontrastabile. E convincente, a giudicare i risultati. Negli ultimi decenni è riuscita a conquistare un consenso quasi totale, soprattutto fra la gente che conta. Sono del novero gli intellettuali, scrittori, filosofi, antropologi, geografi, come pure i responsabili dell’informazione, giornalisti, conduttori televisivi, e, non ultimi, i protago-

nisti dello spettacolo e dello sport, tutti convertiti a una causa che tira. L’onda verde ha investito anche la politica, creando nuovi partiti e costringendo quelli tradizionali a correre ai ripari, dotandosi di sezioni ad hoc. A contrastare una corrente popolare e istituzionale, che non conosce confini, sono rimasti in pochi. E neppure i pochi ma buoni, come si diceva una volta, anzi. L’esponente politico, che più li rappresenta, è l’attuale inquilino della Casa Bianca, personaggio con cui è difficile simpatizzare. In verità Trump non è solo. Già nel 2001, Bjorn Lomborg, specialista in statistica danese, nel saggio The Skeptical Environmentalist (Cambridge University Press) metteva in guardia dalle manipolazioni di dati destinati a dimostrare il diretto influsso umano sul clima e addirittura sulle sorti del pianeta. Fu, allora, una voce male accolta. Nel mio piccolo, non riuscii a recensirlo neppure


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Ambiente e Benessere Street art in Palestina A Betlemme, il lato palestinese del noto muro di separazione è tela di dipinti e scritti turistici

L’America nel piatto Molte influenze gastronomiche hanno modellato la cucina degli Stati Uniti e ancora la modificano

La forza della rosa canina Tra le rose, ad avere qualità fitoterapiche e dunque curative più forti sono quelle spontanee

Non solo per compagnia Può sorprendere il beneficio ambientale che si trae dal passaggio dei cavalli

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Le menti e il brodo primordiale

Neurologia Le prime cellule erano regolate

dall’omeostasi come lo sono i sentimenti che ci fanno umani

Lorenzo De Carli Neurologo, psicologo e saggista, nel corso degli ultimi due decenni, facendo ricorso in particolare alle tecnologie di neuroimaging, Antonio Damasio è giunto a scoperte che hanno rivelato l’importanza delle emozioni nei processi decisionali. Se l’attività di Damasio è nota ben oltre alla schiera degli specialisti è perché il neuroscienziato portoghese ha riflettuto sulle conseguenze delle sue scoperte, costruendo un modello originale di come funziona la nostra mente. Per esempio, è diffusa (oltreché essere tema storico della filosofia) la convinzione che corpo e mente siano a tal segno separati, che il ragionamento e il giudizio morale non abbiano relazione con la fisicità materiale del corpo, e che – come diceva Cartesio – da una parte c’è il corpo e dall’altra la mente. Pubblicando nel 1994 il suo saggio intitolato L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano, Damasio aveva fatto irrompere le emozioni e i sentimenti nell’ambito di quelle discipline – in particolare le scienze cognitive – che studiano i nostri processi decisionali, «ripulendoli» da ogni contagio del corpo e dei suoi «umori». Tutt’al contrario, già allora, Damasio sosteneva, attirando l’attenzione sui risultati delle sue ricerche neurologiche, che non prendiamo mai decisioni senza «sentire» il nostro corpo: «La mia idea è che i marcatori somatici assistano il processo di cernita (…) anzi, essi riducono il bisogno di cernita perché forniscono una rilevazione automatica dei componenti dello scenario che è più probabile siano rilevanti. Dovrebbe risultare così evidente l’associazione tra processi cosiddetti cognitivi e processi chiamati emotivi». I saggi pubblicati successivamente hanno concorso a mettere in crisi non solo l’idea che mente e corpo siano due entità distinte, ma anche la persuasione che si possa considerare il cervello in maniera distinta dal corpo, presupposto che sta alla base anche di quelle

ricerche nell’ambito dell’intelligenza artificiale che ritengono possibile ridurre le decisioni che prendiamo a processi descrivibili con algoritmi. La riflessione condotta nelle pagine di Lo strano ordine delle cose – il cui sottotitolo è La vita, i sentimenti e la creazione della cultura – si sviluppa lungo due direttrici divergenti: l’esame delle dinamiche interattive dei batteri e degli organismi più semplici e lo studio delle organizzazioni culturali. Sembrerebbero due ambiti di riflessione irriducibili, posti a distanze tanto estreme, da indurre a pensare che chi volesse accostarli, starebbe facendo un esercizio sterile. Sennonché, Damasio ritiene che le sue scoperte in merito alle emozioni e ai sentimenti permettono di rilevare in processi vitali molto semplici e molto primitivi la presenza di attività chimico-elettriche precorritrici delle funzioni regolatrici svolte dai sentimenti, e che gli uni e gli altri sono guidati dalla «mano invisibile» dell’omeostasi. Il concetto di «omeostasi» che ha in mente Damasio non indica qualcosa di statico bensì di dinamico: si tratta di «una stabilità favorevole alla crescita», egli dice. Nella sua prospettiva «l’omeostasi è il potente imperativo, inconsapevole e inespresso, il cui assolvimento implica per ogni organismo vivente, piccolo o grande che sia, il semplice perdurare e prevalere». La relazione tra omeostasi e sentimenti ipotizzata da Damasio è data dal fatto che «i sentimenti sono i rappresentanti mentali dell’omeostasi». Siccome i batteri, governati anch’essi dall’imperativo omeostatico, comunicano e «sentono» l’ambiente per mezzo di reti chimiche ed elettriche, e siccome i sistemi nervosi «sentono» il loro mondo interno e quello esterno per mezzo di reti di neuroni, senza rinunciare alle modalità comunicative dei batteri, per Damasio c’è continuità tra le forme di vita più semplici e quelle più complesse grazie alla funzione svolta dall’omeostasi. Nella descrizione fornita da Anto-

I sedici volti che esprimono la passione umana secondo il pittore della fisiognomica, Charles Le Brun.

nio Damasio, i sistemi nervosi degli organismi complessi hanno il compito di «mappare» il mondo esterno per mezzo di tutti i nostri sensi (il «portale sensoriale»), e il mondo interno attraverso segnali nervosi veri e propri, oppure attraverso segnali chimici. Le «immagini» (non necessariamente fotografiche) del mondo esterno e del mondo interno, che i sistemi nervosi creano, sono dotate di «valenza», qualità che i sentimenti usano per orientare l’azione in modo che soddisfi le prerogative dell’omeostasi. Essendo la relazione corpo-cervello al centro del programma di ricerca di Damasio, il neurologo ha posto particolare attenzione al modo in cui tutto il nostro organismo – e quindi non solo il sistema nervoso centrale – concorre alla creazione di sentimenti che orientano la nostra azione. Basterebbe pensare al ruolo trascurato dell’intestino. L’intestino ha un suo

peculiare sistema nervoso chiamato «sistema nervoso enterico». Dal punto di vista evolutivo, questo sistema nervoso ha preceduto quello centrale, e i due comunicano attraverso il nervo vago. La nostra esistenza quotidiana è caratterizzata da un flusso ininterrotto di sentimenti omeostatici prodotti dal mondo interno antico dei visceri, dal mondo interno recente fatto dalla nostra struttura muscoloschelettrica, e dal mondo esterno mediato da quel portale sensoriale che ci fornisce una percezione di quanto sta attorno a noi ricca di sensazioni molteplici. Sebbene quanto descritto potrebbe adattarsi anche ad altri generi animali, alcuni dei quali anch’essi dotati di una mente, Antonio Damasio sostiene che siamo gli unici ad aver evoluto una «mente culturale». Anch’essa è stata guidata dagli imperativi dell’omeostasi, la quale, tuttavia aveva già favorito l’emergere di strate-

gie cooperative in molti animali sociali. «È sui sentimenti – dice Damasio – che poggia la maggior parte di ciò che costituisce la moralità e la giustizia, che è il fondamento stesso della dignità umana»; tuttavia è solo il nostro genere che ha evoluto la capacità di creare più versatili e condivisibili mappe interiori, le quali, dapprima sono state condivise dai nostri predecessori in forma orale, e successivamente hanno trovato nei supporti esterni potenti strumenti di memorizzazione. Gli esseri umani sono l’unica specie, secondo Damasio, ad aver usato la mente culturale, assecondando un principio omeostatico iscritto nei loro stessi corpi, tuttavia è lo stesso neurologo portoghese a rendersi conto che, talvolta, non sappiamo valutare adeguatamente i nostri sentimenti perché facciamo fatica a scegliere tra una soddisfazione immediata e un equilibrio futuro.


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Betlemme tra muro, street art e turismo religioso

Reportage La barriera di separazione tra i territori israeliani e palestinesi diventa meta «turistartistica»

trasformandosi in una tela per artisti di strada locali e internazionali, a pochi chilometri dai bus di pellegrini

Simona Dalla Valle, testo e foto Sono le sette del mattino, abitate a Caslano e dovete recarvi al vostro luogo di lavoro nel centro di Lugano: ignorando il traffico, la distanza è di circa dieci chilometri. Immaginate ora che esista un posto di blocco ad Agno che vi costringa a fare un giro largo, passando da Ponte Tresa e attraversando tutti i paesi del versante meridionale del lago per rientrare in città. Più o meno è ciò che accade ogni giorno a migliaia di palestinesi per spostarsi tra Gerusalemme e Betlemme, due delle mete principali del turismo religioso in Israele. Il documento di identità che si possiede decreta come si svolgerà questo breve tratto di strada, se nel comfort di un bus climatizzato o stipati su uno stretto bus affollato. Il primo caso riguarda migliaia di pellegrini che ogni giorno visitano i luoghi più famosi della Terra Santa, come la Basilica dell’Annunciazione a Nazareth, la Basilica del Santo Sepolcro di Gerusalemme e la Chiesa della Natività di Betlemme: quest’ultima ospita la grotta nella quale, secondo l’antica tradizione, nacque Gesù.

Banksy non è il solo ad avere dipinto come forma di protesta il muro costruito nella Seconda Intifada I cittadini palestinesi, invece, hanno bisogno di permessi di transito per spostarsi tra Israele e Palestina, e dunque devono compiere un’enorme deviazione per aggirare il muro che lo Stato di Israele ha costruito in Cisgiordania; per loro è obbligatoria una corsa di 45 minuti tra sobborghi e strade secondarie a bordo dell’autobus urbano, prima di essere scaricati al Checkpoint 300 sulla Hebron Road. Il muro fu costruito nel 2002, du-

Uno scorcio della barriera tra i territori israeliani e palestinesi, a pochi passi dall’hotel di Banksy. Su www. azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica.

rante la Seconda Intifada, iniziata nel settembre 2000. Secondo il governo israeliano la sua costruzione costituiva una misura di sicurezza necessaria per bloccare le tensioni all’interno di Israele, mentre i palestinesi lo definiscono muro di segregazione o dell’apartheid. Otto metri di altezza a immaginarli non sembrano molti, finché non ci si trova di fronte a una colata di cemento così alta e imponente da dare un senso di vertigine. Nel corso degli anni, a Betlemme, il lato palestinese della barriera è stato utilizzato come tela per molti dipinti e scritti, tanto che è stato descritto come il più grande graffito di protesta del mondo. E la città stessa, da meta di

Graffiti nel campo profughi di Aida.

pellegrinaggio religioso, è diventata anche un polo di artisti di strada locali e internazionali. Quello del britannico Banksy è il caso più famoso: il graffiti artist ha lavorato a Betlemme in maniera saltuaria fin dai tempi della sua prima visita nel 2003, e nel 2005 dipinse nove immagini sul lato palestinese della barriera, descritta come «meta di villeggiatura per eccellenza per i writer». A dicembre del 2007 tornò con nuove immagini per la mostra «Santa’s Ghetto in Bethlehem», organizzata con l’obiettivo di attirare l’attenzione sulla povertà in Cisgiordania e promuovere il turismo della regione. Ma Banksy non è il solo ad avere utilizzato la barriera come forma di protesta. L’artista americano Ron English ha incollato sulla parete ritratti di Topolino vestito da palestinese con lo slogan You are not in Disneyland anymore. In un’espressione di frustrazione, l’artista palestinese Trash ha disegnato sul muro la parte inferiore di una gamba che sembra averlo attraversato a calci. Nel 2007, con il progetto «Face2Face», gli artisti francesi JR e Marco hanno organizzato quella che fu considerata la più grande mostra fotografica illegale mai realizzata. In formati monumentali, sulla parete sono stati incollati ritratti di israeliani e palestinesi di professioni e sfondi simili, uno accanto all’altro. L’idea era quella di evidenziare le somiglianze piuttosto che le differenze tra i popoli. Il progetto si estendeva per otto città su entrambi i lati del muro, come Betlemme, Gerico, Ramallah e Gerusalemme. Il progetto fu successivamente ospitato da numerose mostre in tutto il mondo, tra cui la Biennale di Venezia e il Museo Rath a Ginevra. Nel marzo 2017, Banksy ha inaugurato il Walled-Off Hotel, il cui nome gioca sull’assonanza con il nome della

Il graffito di Banksy ritrae un soldato israeliano che chiede i documenti a un asino.

famosa catena alberghiera Waldorf. La struttura – secondo lo stesso Banksy – offre ai clienti «la peggiore vista al mondo»: è infatti costruita a quattro metri dal muro di separazione. All’interno ospita un’esposizione di opere di artisti palestinesi e un museo permanente sul conflitto israelo-palestinese, che include il documentario 5 Broken Cameras (2011). Il film documenta la storia di Emad Burnat, un agricoltore del villaggio palestinese di Bil’in, che aveva acquistato una videocamera per filmare l’infanzia del figlio, ma ha finito per documentare il movimento di resistenza al muro di separazione israeliano eretto nel villaggio. Nel corso delle riprese, le videocamere vengono sequestrate o distrutte, e la storia dei dispositivi è parallela alla storia delle proteste non violente degli abitanti del paese. Emblematico è anche il caso del murales dell’italiano Jorit Agoch con il ritratto di Ahed Tamimi, l’attivista palestinese incarcerata per otto mesi per aver schiaffeggiato e preso a calci un soldato israeliano nel giardino della sua abitazione. Situata a pochi passi da una

torre di controllo, l’opera fu bloccata dalle forze dell’ordine israeliane con l’arresto e la deportazione dell’artista nel luglio 2018. Molte opere d’arte sono state prese di mira e cancellate dal muro. Alcuni graffiti sono stati rimossi dagli israeliani per censura, molti altri dai palestinesi stessi; il pensiero prevalente era il timore che abbellire il muro attribuisse allo stesso connotazioni positive, rendendolo dunque meno «sbagliato». Issa, l’artista palestinese autore del graffito Make Hummus, Not Walls, ha iniziato a opporsi all’hotel di Banksy e a quella che lui ha definito una feticizzazione del conflitto e una normalizzazione dell’occupazione. Se è vero che molti degli ospiti del Walled-Off Hotel sono semplici fan di Banksy che conoscono poco o nulla della situazione israelo-palestinese, è altrettanto vero che l’albergo funge da cassa di risonanza per la realtà palestinese e contribuisce all’economia locale generando introiti. I tour organizzati dall’hotel, che includono una visita al vicino campo profughi di Aida, ne sono un esempio.


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Ambiente e Benessere

La Champagne vitivinicola

Scelto per voi

Bacco giramondo Ritenuta regione ambasciatrice del gusto francese nel mondo, questa

provincia vanta vini molto delicati e ricchi di profumi Davide Comoli Con i suoi vini, la provincia della Champagne è orgogliosa di essere considerata l’ambasciatrice del gusto francese nel mondo, grazie ai suoi vini che – con la loro delicatezza, la ricchezza di profumi e le migliaia di bollicine molto fini – sono sinonimo di piacere. Reims e Epernay si disputano il titolo di capitale vitivinicola della Champagne, la quale però si estende nei dipartimenti della Marna, parte dell’Aube e dell’Aisne, in qualche comune della Alta Marna e di Senna e Marna (Seineet-Marne). La presenza della vite nella Champagne rimonta addirittura al Terziario, come testimoniano le foglie di vite fossilizzate ritrovate nella zona di Sézanne. Le prime notizie certe di viticoltura in questa regione si hanno però tra il II e il IV sec. d.C., grazie all’estensione dei vigneti impiantati a sud dai Romani. A quell’epoca l’odierna Reims era chiamata Durocortorum, ed era la capitale della Gallia Belga (molti monu-

menti ricordano ancora quel periodo). La storia di questa regione è ricca di avvenimenti che meriterebbero di essere citati, ma lo spazio è tiranno, chiediamo quindi scusa se salteremo a piè pari qualche secolo. Delimitata da una legge nel 1927, l’area di produzione copre circa 34mila ettari. Situata a circa 150 km a est di Parigi, la Champagne ha 319 comuni nei cinque dipartimenti sopra citati. I vigneti sono ripartiti in quattro grandi regioni: la Montagne de Reims, la Vallée de la Marne, la Côte des Blancs, la Côte de Sézanne e l’Aube, divisi in circa 281mila parcelle. Diciassette villaggi beneficiano della denominazione: grand cru, e quarantaquattro villaggi quella di premier cru. Il vigneto della Champagne è situato ai limiti settentrionali della coltura della vite, tra il 48° e 49.5° latitudine nord. Impiantati dai 90 ai 300 metri d’altitudine, i vigneti godono di una doppia influenza climatica. L’influenza continentale è anche responsabile di

gelate, alle volte distruttrici in inverno, ma anche di un favorevole soleggiamento in estate. L’influenza oceanica è contrassegnata invece da temperature basse con un minimo scarto tra le stagioni e porta piogge in quantità regolari, con contrasti termici di poco conto. La composizione del suolo è in maggioranza calcarea, così pure i sedimenti che affiorano (craies). Questo tipo di suolo favorisce il drenaggio del terreno e dona una mineralità molto particolare a certi vini della Champagne. Le craies sono composte da granuli di calcite sopra degli scheletri di micro-organismi marini (coccolites) e caratterizzato dalla presenza di fossili di belemniti. La sua forte porosità è in effetti una vera riserva d’acqua (300400 litri al m3), che assicura ai ceppi di vite una costante idratazione anche nelle estati più secche. La natura del terreno ha portato alla scelta dei vitigni che meglio s’adattano. La legge del 22 luglio 1927 determinò poi quelli autorizzati: Pinot Nero, Pinot Meunier e Chardonnay sono oggi in netta maggioranza. L’Arbanne, le Petite Meslier, con il Pinot Bianco e il Pinot Grigio, sono ugualmente autorizzati, ma rappresentano meno dello 0,3 per cento del vigneto. Il Pinot Nero è usato per dare corpo e longevità; il Pinot Meunier fornisce aromi e vini fruttati; e in quanto allo Chardonnay, è il vitigno che dona eleganza a questo vino d’assemblaggio che è lo Champagne. Ogni anno lo chef de cave, deve elaborare una cuvée di prestigio. È poco probabile che il vino di Champagne abbia avuto un vero inventore, ma questo non ha impedito ai cugini d’Oltralpe, grazie a scrittori vari, di attribuire la paternità a dom Pierre Pérignon, monaco benedettino alla fine del XVII secolo. Ma del modo in cui lo Champagne ha raggiunto nel mondo il grado di primo vino, simbolo di festa, ne riparleremo in altra data, così pure di come avviene la sua particolare vinificazione. Seguiteci invece per una passeg-

Vigneti della Champagne, Marna, France, presso Moulin de Verzenay. (Pline)

giata tra i vitigni di questa incantevole regione francese. La Montagne de Reims è un altopiano ricco di foreste a sud di Reims, tra i fiumi di Marna e Vesle. Il suo sottosuolo è di gesso, coperto da affioramenti di lignite e argilla, ed è proprio ciò che lo rende un terreno ideale per il Pinot Nero, che qui riesce ad esprimere un grande potenziale in acidità e note minerali, ma quello che più ci colpisce sono gli incredibili profumi di ribes bianco e di prugna mirabelle Da non perdere se si passa da Bouzy, è anche l’eccellente rosso fermo, sempre prodotto con il Pinot Nero. Château-Thierrry, la Vallée de la Marne, da Epernay, è dominata da terreni argillosi e si estende lungo le due rive della Marna. Questa zona è conosciuta oltre che per il Pinot Nero, per il Pinot Meunier, che dona vini freschi e fruttati, che ricordano la mela, la pera e alle volte i pinoli. La Côte des Blancs e la Côte de Sézanne hanno invece terreni ricchi di gesso puro, con affioramenti di una particolare argilla chiamata «sparnaciana», da cui prendono il nome gli abitanti di Epernay (Sparanciani). Questo terreno è l’ideale per lo Chardonnay che qui raggiunge un incredibile raffinatezza. Ricco di eleganti profumi agrumati e floreali, con notevole freschezza e mineralità, lo Chardonnay di queste zone ingentilisce l’irruente acidità del Pinot Nero, ma vinificato da solo, produce eccelsi Blanc de Blancs, che quando sono un po’ evoluti evocano profumi di nocciola, burro fuso, pan brioche e confettura d’agrumi. Infine, il vigneto dell’Aube, il più meridionale della Champagne. Si estende per più di 100 km verso sud, lambendo la regione dello Chablis. Anche il suo terreno è ricco d’argilla e di kimmeridgiano, tanto da ricordare quello della zona borgognotta. Il Pinot Nero, qui, dà vini eleganti e meno freschi, con note vegetali e di bacche selvatiche; grazie al suo clima più continentale le uve maturano prima.

Chianti «Castello di Albola»

«Aestus», estate è tempo di vacanze, si ha voglia di sostare, riposare per un po’ di tempo. Il sole infuoca la terra e il Ferragosto è un giorno destinato alle scampagnate e ai pic-nic. Anche un semplice fresco pergolato può essere il luogo ideale per le nostre grigliate estive. Lo stesso Pellegrino Artusi consigliava per questo giorno, cibi semplici, facili da trasportare e un vino non impegnativo, ma che possa con le sue caratteristiche organolettiche trovare giusta concordanza alle sensazioni gustative (grassezza e leggera sensazione amarognola) delle luganighe, costine, braciole, eccetera, cotte sulla vostra griglia. Il Chianti classico, «Castello di Albola» a Radda in Chianti, prodotto con uve Sangiovese al cento per cento, può sicuramente essere il compagno ideale per le vostre tavolate. È questo un vino che parla della terra toscana, pulito ed ermetico, dai tannini che vi sorprendono subito per la loro morbidezza, possente in bocca e grazie alla sua sapidità mantiene una struttura molto ricca. De servire in estate un po’ più fresco (15°-16°), aprendo la bottiglia un momento prima del servizio, ottimo pure sui grandi arrosti e formaggi d’alpe stagionati. / DC Trovate questo vino nei negozi Vinarte al prezzo di Fr. 17.90. Annuncio pubblicitario

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Ambiente e Benessere

Mescolìo di tradizioni culinarie Gastronomia La cucina nordamericana è il risultato della fusione di ingredienti e di tecniche di cottura provenienti

La gastronomia degli Stati Uniti si è forgiata nel giro di pochi secoli mescolando le influenze delle diverse ondate migratorie agli ingredienti locali. I coloni sbarcati nel nuovo mondo portarono come bagaglio le loro tradizioni gastronomiche, che utilizzarono per cucinare tutto quanto i nativi fecero loro conoscere: in particolare mais, fagioli, zucche, tacchini, sciroppo d’acero.

Fondamentale l’apporto degli schiavi provenienti dall’Africa, che influenzò soprattutto la cucina del Sud Con il passare del tempo, i nuovi arrivati avviarono coltivazioni tipiche della loro patria, importando in terra americana cavoli, mele, pere e via elencando. Introdussero inoltre i metodi di lavorazione in cui erano esperti: i tedeschi, per esempio, diffusero la produzione della birra e del formaggio. Fra il XVIII e il XIX secolo si mescolarono così tradizioni e abitudini diverse per iniziativa di immigrati provenienti da tutta Europa e dall’Asia (inglesi, olandesi, francesi, spagnoli, scandinavi, irlandesi, polacchi, russi, ebrei, tedeschi, italiani, siriani, cinesi e tantissimi altri). Fondamentale fu poi l’apporto degli schiavi provenienti dall’Africa, la cui influenza si esercitò soprattutto sulla cucina del Sud degli Stati Uniti: si deve loro per esempio l’introduzione del peperoncino, dell’olio di sesamo e dell’okra (o gombo), ortaggio con cui si prepara uno stufato tipico della Louisiana. È nata così una cucina abbastanza variegata, favorita anche dalla grande diversità dei climi e delle coltivazioni. Esistono tuttavia ricette comuni a tutto il paese. La prima colazione, per esem-

pio, prevede molte preparazioni simili, a cominciare dai celebri pancakes serviti con sciroppo di acero. Non meno gradite le uova, lessate, cotte al tegamino (sunny side up) o rivoltate in padella (upside down), spesso servite con patate saltate (hasbrowns), bacon, salsiccia o prosciutto e nel Sud con l’hominy (o grits), chicchi di mais privati del loro rivestimento esterno e bolliti fino ad assumere la consistenza di una pappa. Ampio lo spazio riservato ai fiocchi di cereali in genere, e di mais in particolare (cornflakes); molto diffusi, soprattutto sulla costa atlantica, anche i muffins, i doughnuts (o donuts, ciambelle dolci fritte) e i bagels, ciambelle tipiche della tradizione ebraica, comunissime a New York: preparati con pasta lievitata e salata. Spesso cosparsi di cannella, semi di papavero, sesamo, uvetta e spezie varie, i bagels possono essere farciti con salmone affumicato o formaggio fresco e sono uno spuntino gradito anche per il pranzo. Aprono il pasto insalate miste, vero e proprio vanto americano: celebri in tutto il mondo la Waldorf (sedano e mele) e la Caesar (lattuga, crostini e parmigiano); simili per impostazione la Chicken (pollo lessato e cipollotti) e la Coleslaw (cavolo cappuccio e carote), entrambe preparate con sedano, panna e senape. Originaria delle Hawaii, la lomi, una gustosa insalata di salmone, lessato e raffreddato, servito con pomodori e cipollotti. Ricco poi l’assortimento delle buffet salad: germogli di soia, mais, erba cipollina, carote, pomodori, cipollotti e belga, ma anche pancetta e formaggi. Tutte le insalate sono condite con salse apposite, dette dressing. Tra queste: french (una vinaigrette); blue cheese (con l’omonimo formaggio); thousand island, condimento originario della Louisiana preparato con peperoncino, prezzemolo, maionese e due tipiche salse americane, il ketchup e il tabasco.

CSF (come si fa)

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Allan Bay

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da tante ondate migratorie e quindi da molte diverse culture– Prima parte

Idaho potato è il termine con cui si designano le patate coltivate nello Stato americano dell’Idaho. Il principale centro delle coltivazioni è la cittadina di Blackfoot, soprannominata Potato Capital of the World (capitale mondiale delle patate). Sede della più grande produzione industriale di patate, e vengono da lì le prime liofilizzate e le prime fritte surgelate. Grazie alle condizioni ambientali favorevoli, nell’I-

daho si coltivano oltre trenta varietà di patate – protette dalla denominazione d’origine Grown in Idaho – la più famosa delle quali è la Russet Burbank o Idaho Russet. È una patata a pasta bianca, morbida e consistente, ad alto contenuto di amido, saporita e versatile negli usi. Vediamo come si fanno – se non trovate quelle dell’Idaho, vanno bene quelle nostrane a pasta bianca. Patate alla maionese. Ingredienti per 4 persone. Lessate 800 g di patate. In un’insalatiera mescolate 2 cipollotti affettati, 2 gambi di sedano tagliati fine e 200 g di maionese. Sbucciate le patate, tagliatele a cubetti, mescolatele con gli altri ingredienti e regolate di sale e di pepe. Patate alla panna. Per 4 persone. Pelate 800 g di patate a crudo e tagliatele

a fette alte mezzo centimetro. Saltate le fette per pochi minuti nel burro. Deponetele in una pirofila e copritele con abbondante panna, salando e profumando con noce moscata o pepe. Cuocete in forno a 180°, coperte per 15’ e scoperte per 5’. Pasticcio di carne e patate – di origine scandinava. Per 4 persone. Lessate 600 g di patate, pelatele, tagliatele a dadini. Tagliate 300 g di carne lessa o arrosto a fettine e rosolatele per pochi minuti in burro. Togliete la carne e tenetela in caldo. Nel condimento rimasto in casseruola fate appassire 2 cipolle affettate per 5’, quindi rimettete la carne e, per ultimo, le patate. Mescolate per 1’, regolate di sale e di pepe e fate insaporire per pochi minuti. Servite in piatti individuali, coprendo ciascuno con 1 uovo al burro.

Ballando coi gusti È estate, stagione di spaghetti non troppo bollenti serviti con pesci o crostacei o frutti di mare. Ecco due proposte.

Spaghetti con vongole e scampi

Spaghetti con tonno e funghi

Ingredienti per 4 persone: 320 g di spaghetti · 1,2 kg di vongole · 12 code di

Ingredienti per 4 persone: 320 g di spaghetti · 1 trancio di tonno da 150 g · 150 g di funghi mondati a piacere · 100 g di polpa pronta di pomodoro · 1 spicchio di aglio · prezzemolo · olio di oliva · sale e peperoncino

scampi · peperoncino piccante · vino bianco · olio d’oliva · sale

Preparazione: Sciacquate le vongole sotto l’acqua corrente, lasciatele a bagno in acqua salata per circa un’ora, sgocciolatele, trasferitele in una casseruola con poco vino e fatele aprire su fuoco vivace. Scartate le vongole rimaste chiuse, estraete i molluschi dai gusci, filtrate il fondo e riducetelo a 1 bicchierino. Tenetelo in caldo. Saltate nella casseruola le code con poco olio per 1 minuto. Levatele e tenetele in caldo. Portate a bollore abbondante acqua salata, lessatevi gli spaghetti e scolateli al dente. Calateli nella casseruola, unite il bicchierino di fondo, le vongole, gli scampi e peperoncino a piacere e fate saltare per 1 minuto abbondante. Regolate eventualmente di sale e servite.

Preparazione: In una capiente casseruola, fate rosolare i funghi tagliati a pia-

cere con un filo di olio e uno spicchio di aglio schiacciato. Quando avranno buttato fuori tutta la loro acqua, unite la polpa pronta e fate cuocere per circa 4 minuti. Aggiungete il tonno tagliato a fettine e cuocete ancora per 1 minuto. Regolate di sale e di peperoncino. Intanto portate a bollore abbondante acqua salata, cuocetevi gli spaghetti e scolateli al dente. Calateli nella padella e fateli saltare per 1 minuto, unendo un poco di acqua di cottura e poco prezzemolo tritato.


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Ambiente e Benessere

La rosa canina curante Fitoterapia La piccola rosa selvatica ricchissima di vitamina C

Malattie ai reni

La nutrizionista È possibile prevenire

un’insufficienza renale? Può essere geneticamente ereditata?

Eliana Bernasoni

Laura Botticelli

«E chi è perennemente adirato prenda la rosa e un po’ meno di salvia e le riduca in polvere, e nel momento in cui lo assale l’ira le avvicini al naso, infatti la rosa consola, la salvia rallegra». Nel Medioevo parlava così della rosa, Ildegarda di Bingen, che proseguiva: «tutti i farmaci ai quali la rosa viene aggiunta, per quanto poca, sono tanto migliori, per l’aggiunta cioè delle sue forze buone». Della rosa si utilizzano le foglie, i petali, i frutti e i semi. Anticamente, grazie alla ricchezza dei suoi diversificati componenti, era usata per un’ampia gamma di patologie: mal di testa, ansia, problemi epatici e mestruali, affezioni cutanee, perfino contro la peste. Nella medicina dei conventi era ritenuta un farmaco miracoloso per ridare tono al sistema nervoso e proteggere dalle infezioni, (come spesso succede studi recenti hanno dimostrato l’effettiva proprietà della rosa di stimolare il sistema immunitario, mentre secondo altre ricerche le ciotole contenenti petali di rose non possono essere attaccate dai batteri). Erodoto narra che coltivavano rose i persiani e i babilonesi; dai roseti degli imperatori Moghul del Kashmir ai giardini famosi di Rodi e di Lesbo, la rosa è sempre presente. Fu la grande poetessa Saffo a definirla regina dei fiori. Cantata dai poeti di molti popoli, ritratta mille volte dagli artisti per l’elaborata forma del fiore perfetto dai petali violentemente colorati o sfumati, con le sue spine, il suo profumo e il suo eterno fascino, il nome della rosa ha attraversato i secoli. Servirebbero molti libri per descriverne l’uso simbolico, basti sapere che gli alchimisti spesso intitolavano i loro trattati Il roseto dei filosofi e che l’ordine dei Rosa Croce poneva nel loro emblema una croce al centro di una rosa. Esistono almeno 150 specie di rose, antiche e recenti ma soprattutto spontanee, un vastissimo gruppo che i botanici cercano di inquadrare in una classificazione organica. Ancora oggi la coltivazione della rosa è praticata in tutti i continenti su larga scala, non solo a scopo ornamentale ma per ricavarne il prezioso olio essenziale. Sono però le specie spontanee a essere fortemente

Buongiorno Laura. Mio padre è in dialisi da tre anni. Mi chiedo da tempo se – magari per una questione genetica sono predisposta – potrei fare in modo di adottare una dieta che possa prevenire questa insufficienza renale, visto che poi – una volta che i reni sono compromessi – la dieta è importantissima. Allo stesso tempo mi chiedo: ma se cominciassi già subito a mangiare come mangiava mio padre l’anno prima di finire in dialisi, non mi verrebbe a mancare qualche sostanza importante? Spero di essermi spiegata. E grazie. Silvia P.

pixnio.com

si prende cura delle nostre articolazioni

ricche di qualità curative. La più efficace si chiama Rosa Canina, detta anche rosa di siepe, o rosa selvatica. È una specie selvatica, con un arbusto a foglie caduche, lunghi rami arcuati, spine acute e robuste, fiori bianco perlati-rosacei. È una sorpresa verso l’autunno, incontrare i frutti nel bosco, nascosti fra gli arbusti e altri alberi. Sono caratteristiche bacche di un rosso acceso avvolte in sepali pelosi (elementi del calice) e ricche di semi, detti «Cinorrodi» (in greco cinorrodo significa «rosa dei cani»), si raccolgono in agosto-settembre e si essiccano al sole. Cento grammi di Cinorrodi contengono la stessa quantità di vitamina C di un chilo di agrumi, 50 volte più del limone e hanno proprietà rinfrescanti, antiinfiammatorie dell’apparato genito-urinario, diuretiche, astringenti e vitaminizzanti. Inoltre facilitano l’assorbimento del Calcio e del Ferro, possono aumentare l’attività del sistema immunitario e agire in varie funzioni biochimiche dell’organismo, come la sintesi del collagene. L’estratto di rosa Canina, oltre alla vitamina C, contiene carotenoidi, flavonoidi e antociani, che agiscono sinergicamente con una grande efficacia antiossidante e protettiva delle articolazioni. Studi recenti hanno dimostrato un particolare effetto su pazienti affetti da osteoartrite, con una netta riduzione del dolore, dell’infiammazione e della rigidità articolare. Il macerato glicerico di rosa canina si ottiene dalla macerazione dei giovani getti raccolti in

primavera; ha proprietà antianemiche e antiallergiche, è utile nelle cefalee vasomotorie (leggeri mali di testa) per artrosi, reumatismi infiammatori, fragilità capillare, ed è importante anche per i bambini che presentano problemi di crescita legati a infiammazioni ripetute. L’uso dei preparati di rosa canina non comporta rischi né interazioni con altre piante e farmaci. L’olio essenziale di alcune specie di rosa si ottiene dalla distillazione in corrente di vapore o acqua dei petali freschi. L’acqua di rose è un prodotto secondario di questo processo. Si dice che fu il famoso medico persiano Avicenna, vissuto nel X secolo, a ideare la prima acqua di rose, rinfrescante, profumata e leggera, largamente usata in cosmetica. Contro gli spasmi addominali si beveva il decotto dei frutti di rosa canina, ma anche le marmellate, dal piacevole sapore asprigno, erano molto apprezzate in dosi elevate come rinfrescanti e lassative. Riportiamo la vecchia ricetta di una preziosa marmellata che si assumeva a cucchiai, come leggero rilassante e per conciliare il sonno: macerare per 10 giorni nel vino bianco, 500 g di frutti ben maturi di rosa canina; spremerli e ridurli in poltiglia, aggiungere zucchero o miele in pari peso, cuocere fino al raggiungimento della consistenza voluta.

Gentile Silvia, è vero, esistono famiglie più colpite da malattie renali di altre, ma ancora non si sa con certezza scientifica se ci siano dei fattori ereditari coinvolti; per scoprirlo, attualmente, sono in atto degli studi medici alla ricerca di possibili geni che possano predire se si è portatori di una malattia renale oppure no. Sapere quali persone portano questi geni potrebbe quindi permettere ai medici di individuare quei soggetti più a rischio prima dello sviluppo della malattia e in quel caso, effettivamente li si potrebbe aiutare con dei trattamenti precoci e visite mediche più frequenti. Quello che può fare al momento comunque non è mangiare come ha dovuto fare suo padre che aveva già

l’insufficienza renale, ma conoscere la causa che ha portato suo padre ad ammalarsi. Mi spiego meglio: i principali fattori di rischio che portano a un’insufficienza renale, oltre a una storia familiare di insufficienza renale, normalmente includono il diabete, l’ipertensione e l’età superiore o uguale ai 60 anni. Si è sottoposta recentemente a degli esami del sangue? Sa se ha una di queste malattie o è a rischio (ha valori del sangue al limite)? È molto importante esserne a conoscenza perché in questi casi, se non è ben curata la malattia, aumenta il rischio che anche lei si ammali. Prenoti una visita di controllo dal suo medico di famiglia e, se dovesse risultare una di queste problematiche, adegui l’alimentazione e lo stile di vita per evitare che queste malattie danneggino pure i reni. In generale le raccomandazioni dicono di smettere di fumare, perdere peso se si è sovrappeso od obesi, seguire una dieta sana, limitare il consumo di alcool, diminuire il consumo di sale, fare esercizio fisico e restare idratati. Spero di esserle stata di aiuto. Informazioni

Avete domande su alimentazione e nutrizione? Laura Botticelli, dietista ASDD, vi risponderà. Scrivete a lanutrizionista@azione.ch Le precedenti puntate si trovano sul sito: www.azione.ch

Bigliografia

Gabriele Peroni, Trattato di Fitoterapia Driope, Nuova Ipsa editrice. Annuncio pubblicitario

Fare la cosa giusta

Quando la povertà mostra il suo volto Per saperne di più su Lilian: farelacosagiusta.caritas.ch

Lilian Ariokot (24 anni), contadina in Uganda, supera la fame


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 12 agosto 2019 • N. 33

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Ambiente e Benessere

Il cavallo e il territorio

Mondoanimale Da secoli parte integrante del nostro ambiente, ha un impatto benefico anche sulla natura

Maria Grazia Buletti, testo e foto In Svizzera sono censiti circa 125mila capi di genere equino e secondo l’ultimo rapporto di Agroscope disponibile (2016) solo il 22 per cento della popolazione equina è iscritta attivamente alla Federazione svizzera degli sport equestri (Fsse) per le attività sportive come ad esempio il salto a ostacoli e il dressage. «Pertanto, il 78 per cento è rappresentato da esemplari dedicati all’allevamento, allo svago e al tempo libero», la presidente della Commissione cavallo e ambiente della Federazione ticinese sport equestri, Ester Camponovo, tira le somme che confermano l’importanza dei cavalli che si muovono sul territorio svizzero e nel nostro Cantone. Un territorio, sottolinea, prezioso e sempre più esiguo che va valorizzato e tutelato: «Il Ticino, pur non disponendo di spazi particolarmente aperti, annovera anch’esso molteplici appassionati che praticano l’equitazione: uno sport molto attrattivo e salutare (non solo per il cavaliere ma pure per l’animale proverbialmente bisognoso di movimento all’aria aperta a beneficio del suo equilibrio psicofisico), che coniuga l’attività fisica all’aperto con l’amore verso la natura e gli animali». A conferma del delicato tema legato al territorio e a quanto sia di vitale importanza preservarlo al meglio, Camponovo conferma che «purtroppo, con l’avvento dell’urbanizzazione, la pratica di questa attività ha visto aumentare gli ostacoli creati dall’uomo (a partire dall’aumento del traffico e dell’asfalto fino ai divieti di passaggio) che sono andati ad aggiungersi a quelli naturali già dettati dalla particolare

conformazione del nostro cantone, come corsi d’acqua e parecchi fondovalle piuttosto stretti». È perciò compito della Commissione da lei presieduta in seno alla Ftse, di promuovere la convivenza del cavallo sul territorio. Operazione che passa «da un’ampia azione di sensibilizzazione della popolazione nei confronti della presenza stessa del cavallo nelle nostre campagne, sulle strade e anche nelle zone abitate, senza dimenticare il valore aggiunto che gli equini apportano al territorio facendone comunque storicamente parte integrante». L’importanza per gli equini di restare integrati nel nostro ambiente rurale si confronta però talvolta con qualche pertinente dubbio circa l’impatto di questi animali sull’ecosistema che va anch’esso preservato. «L’equitazione di campagna su sentieri e stradine sterrate, a patto che non sia troppo intensiva, non nuoce al territorio e all’ecosistema al quale, anzi, può apportare alcuni interessanti benefici», spiega il biologo Tiziano Maddalena, da noi interpellato a proposito delle conseguenze del passaggio di cavalli sui sentieri sterrati, sottolineando che questo tipo di animale è sempre appartenuto all’ambiente rurale. Ester Camponovo, d’altronde, difende proprio la legittimità dei cavalli di poter continuare a farne parte, portando il discorso sulla «fitta rete di sentieri»: «Il Ticino, con il suo meraviglioso paesaggio, offre splendide escursioni, e cosa c’è di più bello che scoprire la natura in sella a un cavallo?». È certa che l’equitazione di campagna sia sicuramente «uno dei modi migliori per vivere, amare e conoscere la natura, con

Giochi Cruciverba

Trova una nota frase di Gandhi risolvendo il cruciverba e leggendo le lettere evidenziate. (Frase: 3, 2, 11, 3, 4, 6, 3, 5)

rispetto e in armonia con i nostri compagni d’avventura». Il rispetto per l’ambiente è saliente, visto che si tratta di un territorio in grande evoluzione, e l’armonia è necessaria per l’uso condiviso che se ne fa nel tempo libero: «Pensiamo alle persone che passeggiano, ai proprietari di cani, ai ciclisti, quindi pure ai cavalli con amazzoni e cavalieri del tempo libero». Ritorna il tema dell’equitazione di campagna e dell’impatto sul terreno con la domanda inerente l’innocuità o no del passaggio a cavallo sui sentieri ticinesi.

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VERTICALI 1. Un anagramma di seri 2. Le separa la «L» 3. Abitano a Praga 4. Canti sacri 5. Prima moglie di Giacobbe 6. Satellite di Giove 7. Figura geometrica 8. Uomo senza cuore! 9. Pesce d’acqua dolce 11. Un Pietro cardinale e umanista I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.

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italiano 13. Amano incondizionatamente 14. Cupi, minacciosi 16. Un tipo di prosciutto 17. Il ... capitale egiziana 19. Uno spuntino inglese 21. Lo è l’ostro 22. Un albero 23. La modella Shayk 25. L’attore Rickman 26. Dio greco del Sole 29. Tre in amore 30. Kilt senza articolo... 31. Pollaio senza polli 32. Le iniziali dell’attore Dalton Partecipazione online: inserire la

soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-

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Sudoku Soluzione:

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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch

A questo proposito, il biologo Maddalena contestualizza la risposta: «Questione di numero e proporzioni. La conformazione del nostro territorio deve fare i conti con un fondovalle ristretto e l’urbanizzazione incipiente; ciò fa sì che gli spazi di svago siano esigui e preziosi. E dobbiamo ammettere che in generale la presenza del cavallo in Ticino non è troppo massiccia, quindi è solitamente integrabile con tutte le altre attività all’aperto». E scopriamo che l’equitazione in campagna può comportare anche qualche sor-

Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku

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ORIZZONTALI 1. Isola del Mediterraneo 7. Il Laurenti della tv 10. Canto nuziale di antichi greci e romani 11. La vita nei prefissi 12. Dispari nella cinta 13. Uomini inglesi 14. É finito in fondo 15. Danno ripetizioni a voce... 17. L’attrice Diaz 18. Prefisso replicativo 19. Ballo brasiliano 20. Ha una sua corte 21. Vuoto... per due quinti 22. Sede di affetti e sentimenti 23. Quarto 24. Un compito per genitori 25. Se le dà il borioso 27. Nessuno in coda 28. Si sente nella gola... 29. Le batte anche l’oca 30. Isola della Croazia

prendente beneficio: «Ad esempio, sul Piano di Magadino il terreno ha natura sabbiosa; biologicamente, soprattutto in un terreno del genere, il passaggio del cavallo permette di incrementare zone sterrate, sabbiose e aperte nella vegetazione, atte a creare un mosaico d’ambiente molto interessante sia per gli insetti che per i loro predatori». In particolare si parla «di quegli insetti la cui vita è legata ai banchi di sabbia e agli uccelli che se ne nutrono come l’upupa o il codirosso». E, in modo più prevedibile, pure lo sterco lasciato sul terreno è un altro elemento a favore del passaggio equino. Meno prevedibile invece il motivo: «Alcuni insetti (come gli Scarabei stercorari) vi depongono le uova le cui larve si sviluppano al suo interno. Questi insetti rappresentano anche un pasto apprezzato per alcune specie di pipistrelli che godranno dunque di buon approvvigionamento. Inoltre, al contrario di altro bestiame agricolo, i cavalli sono meno frequentemente trattati con gli antibiotici e vermifughi, e il loro sterco è dunque più favorevole allo sviluppo di queste uova delle larve che si bloccherebbe se deposte in quello contaminato dagli antibiotici». Certo è che l’educazione di amazzoni e cavalieri è essenziale e la Federazione è sempre molto attenta ai suoi affiliati, invitandoli costantemente a rispettare le regole che impongono di non permettere al cavallo di sconfinare nei campi agricoli o dove il passaggio non è permesso. Quindi, conclude Maddalena: «Possiamo tranquillamente considerare il cavallo come parte del nostro ecosistema rurale come ogni altro elemento che non arreca danno».

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Soluzione della settimana precedente

FORMULA 1 – Nelle gare di Formula 1 le vetture e i piloti si … Resto della frase: … PESANO PRIMA E DOPO LA GARA

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luzione, corredata da nome, cognome, indirizzo, email del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 12 agosto 2019 • N. 33

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Politica e Economia Escalation economica Fra Stati Uniti e Cina dichiarata ufficialmente la guerra delle valute che va ad affiancarsi a quella dei dazi

Ancora stragi negli Stati Uniti L’accesso alle armi facilita gesti estremi, ma non è il prodotto di una cultura machista o malata. Semmai è collegato al principio delle libertà e della difesa personale garantite dalla Costituzione

Diario dal Cono Sur: 1.parte Il grande romanzo dell’Argentina in vista delle presidenziali di ottobre

Nubi sul mondo del lavoro In Svizzera le nuove tecnologie cancellano impieghi soprattutto fra il personale mediamente qualificato in fabbriche e uffici

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L’India toglie l’autonomia al Kashmir

Decisione storica Lo Stato del J&K come regione speciale (e contesa) non esiste più. È stato diviso in due Union

Territory parte integrante dell’India. Una mossa per sconfiggere i gruppi separatisti finanziati dal Pakistan Francesca Marino Lunedì 5 agosto l’India si è svegliata con uno Stato in meno, il Jammu e Kashmir (nome formale del Kashmir), e due territori dell’Unione in più: il Kashmir e il Ladakh. Con uno storico colpo di mano, Narendra Modi e il suo governo hanno posto fine a settanta anni di autonomia della regione al centro di una annosa e sanguinosa disputa con il Pakistan per integrarla definitivamente all’India. Non abolendo, come sommariamente è stato riportato, l’articolo 370 della Costituzione che garantiva speciali prerogative al J&K, ma usando proprio i poteri attribuiti dall’articolo 370 all’Assemblea del Kashmir per cambiare lo status della regione. Da qualche mese, difatti, a causa della litigiosità delle storiche famiglie politiche di Srinagar e dintorni, la regione era senza Assemblea e sotto il cosiddetto «president rule», il governo del Presidente: a cui, in questo caso, spettano tutti i poteri prerogativa dell’Assemblea, incluso quello di cambiare status alla regione. Con il nuovo assetto decade automaticamente quindi l’articolo 370 e decade anche un altro famigerato articolo: il 35A, che discriminava pesantemente donne e minoranze. Secondo l’articolo

35A le donne del Kashmir perdevano ogni diritto di proprietà sposando un non kashmiro, i cittadini indiani non residenti non potevano acquisire proprietà in J&K o possedere attività commerciali, i dalit erano pesantemente discriminati. La decisione, presa dopo aver inviato in Kashmir 35’000 truppe addizionali più copertura aerea per le suddette e aver imposto il coprifuoco e tagliato tutte le linee telefoniche, ha scatenato l’inferno sia in India che oltre confine. La cosiddetta «questione del Kashmir» nasce all’indomani della divisione tra India e Pakistan, quando agli Stati autonomi governati da un sovrano era stata data la scelta tra le due nazioni nascenti. Il maharaja Hari Singh, di religione induista che governava uno Stato a maggioranza musulmana, aveva deciso per l’annessione all’India temendo di essere invaso dal Pakistan che aveva già cominciato a infiltrare truppe ai confini. Il Pakistan invadeva il Kashmir conquistandone una buona porzione. Ai tempi il Kashmir comprendeva una vasta porzione di territorio divisa oggi in varie regioni: da parte pakistana, l’attuale Kashmir, il Gilgit Baltisan e l’Aksai Chin. Da parte indiana, l’attuale J&K e il Ladakh.

Al tempo, quando è stata decisa la cosiddetta Linea provvisoria di confine che ancora divide il Kashmir indiano da quello pakistano, l’Onu aveva emesso una risoluzione chiedendo che ai kashmiri fosse data la possibilità di decidere del loro destino. La risoluzione non è mai stata messa in atto perché il Pakistan, dopo aver venduto alla Cina un pezzo di Kashmir e dopo aver creato il Gilgit-Baltisan, si rifiutava di ritirarsi dai territori occupati. Nelle intenzioni di Islamabad, la regione contesa è soltanto quella appartenente, in base al diritto internazionale, all’India. E sul Kashmir il Pakistan, praticamente da sempre, basa gran parte della sua politica estera. Non solo: il Kashmir, e il nemico indiano alle porte, è la ragione di essere dell’esercito pakistano e del suo governare di fatto il Paese. E la narrativa pakistana sul Kashmir, grazie all’incessante attività di relazioni pubbliche dell’esercito, è quella dominante. Così, si percepisce, erroneamente, la regione come un paradiso perduto di abitanti di religione musulmana. Errore: il Ladakh, che da anni chiedeva di essere separato dal J&K, è di religione prevalentemente buddista, e diventa oggi l’unico Territorio dell’Unione a maggioranza buddista. Jammu, parte del J&K,

era di religione induista: era, prima che i cosiddetti kashmiri pandits subissero negli anni Ottanta una atroce pulizia etnica da parte dei loro vicini di casa e fossero costretti a emigrare. Nelle intenzioni di Modi e dei suoi, integrare pienamente il Kashmir dentro l’India è l’ultima carta, e forse quella definitiva, per sconfiggere la militanza armata all’interno della regione. Disastrosi errori politici da parte indiana, e infiltrazioni di jihadi pakistani all’interno della regione, hanno difatti, sempre negli anni Ottanta, trasformato Srinagar e dintorni in una fabbrica di jihadi: negli ultimi mesi, ai militanti di parte pakistana che combattevano per annettere al Pakistan il Kashmir indiano, si sono aggiunti jihadi legati all’Isis che dichiaravano di infischiarsene della lotta per il Kashmir e di essere interessati soltanto a stabilire un califfato islamico. Le lotte tra jihadi si erano aggiunte a quelle tra militanti ed esercito indiano, rendendo la regione un inferno. Certo, non appena le truppe speciali saranno ritirate e il coprifuoco abolito, ci saranno nuovi attacchi: al Kashmir, ma anche al resto dell’India. Imran Khan, per conto dell’esercito, sta già minacciando l’India in questo senso: ammettendo, una volta di più, che a

controllare i jihadi è Islamabad. Il fatto è che il Pakistan è stato politicamente messo all’angolo: non c’è nulla che possa fare, tranne che affrontare la quinta guerra per la regione. Ma le casse sono vuote, non c’è supporto politico a livello internazionale, e Islamabad è sotto la spada di Damocle della FATF che vuole vedere azioni concrete contro i jihadi prima di togliere il Pakistan dalla sua grey list. Oltretutto, Islamabad teme rivolte anche in Gilgit Baltisan e nella sua porzione di Kashmir, regioni governate con pugno di ferro e legge marziale da anni. L’Onu, che non apre bocca per condannare il genocidio in atto in Balochistan o la condizione dei Pashtun, si è dichiarata «preoccupata per la situazione dei diritti umani in Kashmir». Ma la comunità internazionale ha già reagito politicamente e diplomaticamente all’azione di Modi: Usa e Emirati Arabi, oltre agli Stati vicini, hanno già dichiarato che si tratta di una «questione interna» all’India. E che quindi l’India può fare ciò che vuole, incluso smembrare, come d’altra parte ha già fatto il Pakistan anni fa, il Kashmir. A fare le spese di tutto sono, come al solito, i kashmiri. Che sperano soltanto di essere finalmente liberi, sia dall’esercito che dai jihadi.


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Politica e Economia

Scenario sempre più buio

Usa-Cina Fra i due Paesi dichiarata ufficialmente la guerra delle monete che va ad affiancarsi a quella dei dazi.

Mentre la Cina si prende una rivincita (temporanea) esportando i suoi prodotti in Europa e nel Sud-est asiatico Federico Rampini A sorpresa, le esportazioni cinesi sono in aumento. Non quelle verso gli Stati Uniti, penalizzate dai dazi. Ma per il made in China non esiste solo il mercato americano. È in Europa e nel Sudest asiatico – i due maggiori sbocchi per l’industria cinese – che Pechino si è procurato una rivincita, almeno temporanea. Le vendite verso questi due mercati sono cresciute rispettivamente del 15,6% (Sud-est asiatico) e del 6,5% (Unione europea) nel luglio 2019 rispetto a 12 mesi prima. Questo dato sembra confortare la scelta di Xi Jinping di irrigidire la sua posizione negoziale con Donald Trump, rimangiandosi alcune concessioni. Molti osservatori si sono convinti che Xi ha deciso di aspettare l’elezione del novembre 2020, in sostanza puntando sulla sconfitta di Trump. (Oppure, in subordine, sullo scenario in cui una volta rieletto Trump non avrebbe più bisogno di ottenere troppo dalla Cina). La guerra dei dazi intanto si arricchisce di un nuovo capitolo. Tra Washington e Pechino sono cominciate le prove generali di una guerra parallela, quella delle valute. Tutto è cominciato lunedì scorso con la mossa della banca centrale cinese che ha fatto scivolare per la prima volta la parità dollarorenminbi sotto la quota simbolica 7 a 1, che non era stata varcata da anni.

Un dettaglio del ritratto di Mao su una banconota da 100 renminbi. (Keystone)

L’indebolimento della moneta cinese (il renminbi è detto anche yuan) è una mossa con cui Xi Jinping può tentare di compensare l’effetto dei nuovi dazi Usa annunciati per il primo settembre: i dazi americani automaticamente rincarano il made in China, la svalutazione competitiva ha l’effetto opposto. Nella tarda serata di lunedì è arrivata la reazione di Washington: per la prima volta dal 1994 e quindi per la prima

volta da quando la Cina si è integrata nell’economia globale, il Tesoro Usa la denuncia ufficialmente come una nazione che «manipola la valuta», aprendo la strada in teoria a nuove misure sanzionatorie. È la dichiarazione formale di una guerra delle monete che può prolungare e amplificare quella dei dazi. Non una deflagrazione immediata, però. Mercoledì la banca centrale cinese ha evitato di prolungare la discesa

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del renminbi, mostrando cautela, un gesto che ha momentaneamente placato i mercati. In quanto al Tesoro Usa, per ora l’aver bollato la Cina come una manipolatrice del tasso di cambio non ha conseguenze concrete. È un tassello aggiuntivo in un armamentario giuridico che legittima le future ritorsioni americane. Peraltro già annunciate, visto che in assenza di novità sul fronte commerciale dall’inizio di settembre altri 300 miliardi di merci made in China saranno assoggettate ai dazi aggiuntivi quando varcano la frontiera Usa. Con quella nuova raffica di dazi, praticamente la totalità delle importazioni americane dalla Cina sarà soggetta a tassazione protettiva-punitiva. Va ricordato l’argomento di Donald Trump: l’export americano verso la Cina è sempre stato colpito da dazi superiori, vi è dunque una mancanza di reciprocità. Lo squilibrio nell’interscambio tra i due Paesi continua ad essere enorme: 167 miliardi di dollari è stato il deficit bilaterale americano nella prima metà di quest’anno. È però in calo, in questo senso i dazi stanno funzionando: le importazioni americane dalla Cina si sono ridotte del 12%. Xi Jinping ha meno spazio di manovra del suo omologo: poiché Pechino importa un quinto di quel che esporta in America, la sua capacità di replicare colpo su colpo con i dazi si sta già esaurendo. Un’alternativa è compensare i dazi Usa rendendo meno care le merci cinesi attraverso la svalutazione. La guerra delle monete finora era stata evitata, perché ha delle controindicazioni. La Cina è anche una grossa importatrice di materie prime, petrolio in testa, che paga in dollari. Se deprezza il renminbi, è automatico il rincaro della sua bolletta energetica. Un altro rischio è la fuga di capitali. I risparmiatori cinesi, impauriti dalla svalutazione della propria moneta, possono cercare di diversificare i propri portafogli aumentando i titoli stranieri. Esportare capitali dalla Cina non è facile come da un paese occidentale, però ci sono strade per aggirare le restrizioni valutarie e in passato sia i risparmiatori che le imprese cinesi vi hanno fatto ricorso nei momenti di paura. Questo si collega con la denuncia del Tesoro Usa sulla manipolazione valutaria. Una premessa di quella denuncia, è che il renminbi sia effettivamente manipolabile, cioè controllato dalla banca centrale e quindi dal governo di Pechino (l’autorità monetaria in Cina non è indipendente dall’esecutivo). Nella realtà la valuta cinese naviga in un sistema ibrido. In parte risponde alle forze di mercato, domanda e offerta, come il dollaro o l’euro, lo yen giapponese o la sterlina britannica. In parte

è la People’s Bank of China (Pboc, nome ufficiale delle banca centrale) a dirigerne le oscillazioni tenendolo agganciato ad un paniere di valute. Questo modello ibrido si traduce anche nell’esistenza di due mercati valutari, uno a Hong Kong ed uno a Shanghai, con cambi diversi e anche tassi d’interesse diversi. La transizione della Cina verso una libera fluttuazione del cambio sembrava avviata alcuni anni fa. Poi alcuni scossoni di Borsa – con relative fughe di capitali, in particolare nel 2015 – convinsero Xi a ripristinare dei controlli sulle uscite di capitali. L’arma valutaria è a doppio taglio, ma in questa escalation di ostilità tra le due superpotenze ciascuna sembra disposta a infliggersi qualche danno pur di piegare l’avversario. Gli appassionati di teoria del complotto potranno trovare interessante la coincidenza con la ripresa di attività missilistiche che proprio in questi giorni tornano a intensificarsi nella Corea del Nord. Se Xi è in grado di manovrare Kim Jong-un questo aumenta le sue carte negoziali.

Tutto è iniziato con la mossa della banca centrale cinese che ha fatto scivolare per la prima volta la parità dollaro-renminbi sotto la quota simbolica di 7 a 1 Su un altro dossier, quello di Hong Kong, Xi ormai minaccia apertamente un intervento repressivo cinese, senza escludere la scesa in campo dei militari. Questo però è un segnale di debolezza. Si direbbe che il presidente cinese, pur avendo concentrato nelle proprie mani un potere personale senza precedenti dai tempi di Mao Zedong – o forse proprio per questo – sia preoccupato dal rischio di «perdere la faccia». Questo offre un’altra possibile lettura del suo irrigidimento sulla sfida economica con gli Stati Uniti. Ancora qualche mese fa, la delegazione governativa cinese aveva messo sul tavolo negoziale delle concessioni significative, almeno sulla carta: per esempio una riforma delle leggi sulla proprietà intellettuale. La strada più semplice per Xi sembrava quella di promettere grandi cambiamenti a favore delle imprese occidentali, poi rimangiarsele nell’applicazione quotidiana. Nulla di più facile, vista la natura del sistema istituzionale cinese, in particolare la mancanza di indipendenza della magistratura. Sarebbe stato facile per Xi offrire agli americani ampie garanzie sulla protezione dei segreti industriali delle loro aziende, poi calpestarle nella pratica, continuando a praticare discriminazioni contro le multinazionali estere. Trump sarebbe stato prima illuso e poi gabbato. Questo approccio tradizionale comportava però un’apparenza di cedimento all’America. Quando Xi si è rimangiato quelle promesse, è plausibile che abbia avuto paura di incrinare la propria immagine di leader «macho», di uomo forte, nazionalista alla guida di una superpotenza in ascesa. Lo stesso potrebbe valere per Hong Kong, dove qualsiasi concessione alle richieste di democrazia da parte della cittadinanza può essere vissuta come un pericoloso cedimento. Xi sta rispolverando perfino i toni della propaganda maoista sulla «Lunga Marcia», l’epopea della resistenza partigiana contro i nazionalisti di Chiang-Kai Shek e contro gli invasori giapponesi. Anche sul versante cinese, i toni stanno preparando una guerra fredda.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 12 agosto 2019 • N. 33

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Politica e Economia

Perché tanta violenza? Christian Rocca Poche ore dopo la doppia sparatoria di inizio agosto che tra El Paso, Texas, e Dayton, Ohio, ha ucciso 31 persone innocenti, sulle bacheche e sulle timeline dei social è comparsa una statistica che non lascia spazio a interpretazioni o dubbi sul gigantesco problema che vive l’America: nel 2019 negli Stati Uniti ci sono state 255 stragi a colpi di arma da fuoco, mentre nello stesso periodo ne sono state registrate soltanto tre in Messico, una a testa in Canada, Brasile e Olanda e zero in tutto il resto del mondo sviluppato. Duecentocinquantacinque stragi in sette mesi sono più di una al giorno e, se si considerano tutti gli episodi di violenza con armi da fuoco, compresi quelli non di massa, nei primi sette mesi dell’anno in America sono morte 8574 persone e 17.013 sono state ferite (dati Gun Violence Archive). La domanda che tutti si pongono è per quale motivo le stragi a mano armata succedano con tale frequenza soltanto in America. È colpa dell’America o della facilità di accesso alle armi, o forse di entrambi? Come capita inesorabilmente dopo ogni strage, anche in questo caso è partito il solito rimbalzo di responsabilità tra chi si batte per regole più severe sulla vendita di pistole e di fucili, fino a chiedere il divieto di vendita di armi da guerra, e chi spiega invece che le armi non c’entrano niente e che la colpa è soltanto degli squilibrati che sparano, magari dei videogiochi e di qualche altra mancanza della società contemporanea. Ma le malattie mentali esistono in

tutti i paesi del mondo, come ha commentato Hillary Clinton su Twitter, così come ovunque si gioca con i videogame, eppure si spara a raffica solo negli Stati Uniti. L’unica cosa che differenzia gli Stati Uniti dal resto del mondo è la facilità di accesso alle armi, e su questo c’è poco da discutere. Ci sono anche altre specificità americane, culturali e politiche, a spiegare la violenza nichilista, visto che questo tipo di stragi non sono un fatto isolato ma quasi un codice, un rituale per denunciare la rabbia e l’alienazione sociale, una specie di antidoto all’aggregazione e, più recentemente, allo stile paranoico della vita digitale. L’accesso alle armi facilita questi gesti estremi, anche se in America il possesso delle armi non è il prodotto caricaturale di una cultura bullista o machista, ma è collegato al principio della libertà e della difesa personale garantito dalla Costituzione e alla base degli Stati Uniti. L’America è una nazione giovane, priva delle astuzie europee, non conosce le alchimie del razionalismo nostrano ed è, per questo, un paese di grandi illusioni e di fermenti religiosi, di laicismo esasperato e di attesa dell’Armageddon. L’America vive ancora la psicologia della frontiera, è violenta e perentoria, capace di moralismi assoluti e di abbassamento della soglia minima di decenza. Questa è la sua caratteristica fin dalla fondazione e con essa convive da oltre duecento anni. Oltre alla vicenda delle armi e all’aspetto storico-culturale, ad esasperare gli animi degli individui instabili e particolarmente influenzabili c’è anche

AFP

Sparatorie Usa Nel 2019 nel Paese si sono verificate 255 stragi, facilitate dall’accesso alle armi e da un clima di odio

una recente curvatura politica: il clima d’odio creato dal pulpito più autorevole del Paese, quello della Casa Bianca. Sono ormai anni che Donald Trump usa il suo ruolo per definire la migrazione ispanica come «un’invasione» nemica, lasciando proliferare le teorie cospirative intorno a un piano di Grande Sostituzione degli americani con gli ispanici. Trump ha chiamato gli immigrati «animali», «gentaglia», gli ha dato degli «stupratori», ha proposto di costruire un muro per tenerli lontani e ha imposto la detenzione di bambini in condizioni squallide al confine col Messico. «Come si ferma questa gente? Non si può», ha detto Trump in un comizio in Florida a maggio, facendo spallucce quando i suoi fan gli hanno risposto «spariamogli». Il cosiddetto manifesto ideologico, postato dallo stragista di El Paso su

8chan, il forum prediletto dagli assassini di massa, contiene parole e concetti ripetuti spesso da Trump, e spiega che «questo attacco è una risposta all’invasione ispanica del Texas», anche se tiene a precisare che l’autore pensava queste cose da prima che fosse eletto Trump. Ora il presidente è impegnato in una campagna per la rielezione nel 2020 incentrata sui temi dell’immigrazione, con un messaggio via social network e non solo che punta prevalentemente sulla paura dell’invasione ispanica al confine meridionale. Da gennaio, sono oltre duemila le pubblicità diffuse dalla campagna Trump su Facebook con la parola «invasione» a far da punto centrale dello spot. Non stupisce che poi qualche svitato passi dalle parole ai fatti. «Trump non si limita a tollerarli, ma li incoraggia e la gente poi agisce», ha detto il deputato di

El Paso, e candidato alle primarie democratiche, Beto O’Rourke: «Va dicendo che alcune persone sono intrinsecamente difettose o pericolose facendo venire in mente le cose che si potevano sentire nel Terzo Reich, non quelle che ti aspetteresti negli Stati Uniti d’America». Trump ha aspettato un paio di giorni per reagire da presidente alla strage di El Paso (foto) e Dayton. In un primo momento si era limitato ai tweet, poi ad ordinare le bandiere a mezz’asta, infine con un discorso alla Casa Bianca si è convinto a denunciare il suprematismo bianco e l’odio razzista, senza però fare cenno alla facilità di accesso alle armi, anzi collegando le stragi ai videogame violenti, alle malattie mentali e al fanatismo su Internet. Di tono diverso, decisamente più presidenziale, le parole del suo predecessore Barack Obama: «Dobbiamo tutti rigettare in toto il linguaggio che viene fuori dalle bocche di alcuni dei nostri leader, parole che alimentano un clima di paura e di odio e normalizzano i sentimenti razzisti». Senza mai citare Trump, Obama ha denunciato quei «leader che demonizzano chi non ci somiglia o insinuano che altre persone, compresi gli immigrati, minaccino il nostro modello di vita o definiscono gli altri come subumani o lasciano intendere che l’America appartenga soltanto a un certo tipo di persone». Le armi e la cultura americana sono uno specifico degli Stati Uniti, ma viviamo il tempo in cui il linguaggio d’odio dei leader politici contro i diversi e gli immigrati è diffuso di qua e di là dell’Atlantico. Sarebbe il caso di rendersene conto e di fermarsi in tempo. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 12 agosto 2019 • N. 33

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Idee e acquisti per la settimana

Un picnic più conveniente

Il prezzo del cestino della spesa Fr. 16.35 finora Fr. 19.15

Moira Desando di Altstetten ZH e i suoi amici durante i fine settimana estivi apprezzano trascorrere i pomeriggi vicino all’acqua, per esempio sulla riva della Limmat o del lago di Zurigo. «Niente di più semplice che incontrarci all’aperto, dove ognuno porta qualcosa da spizzicare», afferma la giovane di origine italiana. Per un picnic, oltre alla frutta fresca sono adatti anche spuntini come i flips o le noci. Tanto meglio se ora questi stuzzichini sono più economici. Per mantenerle fresche, le bevande vengono messe nell’acqua.

Dopo le riduzioni di prezzo apportate, questo cestino della spesa costa Fr. 16.35. Il 24 giugno i clienti pagavano ancora Fr. 19.15.

Riduzioni di prezzo permanenti I prodotti preferiti sono più convenienti Recentemente il prezzo di molti dei prodotti preferiti dai clienti Migros, vale a dire i prodotti più venduti, è diventato più conveniente. Tra questi anche i piacevoli e croccanti brezel Party, le noccioline Party al wasabi o ancora i flips M-Classic. Settimanalmente se ne aggiungono altri. L’aspetto più interessante: non si tratta semplicemente di promozioni, bensì di riduzioni di prezzo permanenti.

«I flips alle arachidi mi ricordano l’infanzia»

Facilmente riconoscibili Grazie al logo sotto illustrato, nei prossimi mesi sarà facile riconoscere a colpo d’occhio i sempre più numerosi prodotti preferiti che hanno beneficiato di una riduzione di prezzo permanente.

Foto e Styling: Tina Sturzenegger

Moira Desando

D’ora in poi alla Migros i tuoi soldi valgono ancora di più: nei prossimi mesi ribasseremo settimana per settimana in modo permanente i prezzi dei prodotti preferiti dai nostri clienti, continuando a investire nella comprovata qualità Migros.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 12 agosto 2019 • N. 33

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Politica e Economia

Argentina: vincere è la regola

Cono Sur In vista delle presidenziali di ottobre l’antiperonista Macri si ripresenta insieme a un vice iperperonista,

mentre Cristina Kirchner sceglie di candidarsi alla vicepresidenza accanto all’ex nemico Alberto Fernandez – 1. parte

Non c’è ossigeno lontano dal pianeta peronista a Buenos Aires. Nessuna creatura politica, nemmeno la più vitale, riesce a sopravvivere fuori dal peronismo in Argentina. Ad ottobre si celebrano le elezioni presidenziali e persino il capo del governo Mauricio Macri – accolto al suo debutto nell’Occidente antistatalista come il tanto agognato antiperonista finalmente impostosi nella terra del generale Peròn – per sperare di confermare il suo mandato, cos’ha fatto? S’è preso come vice, per presentarsi con lui in tandem agli elettori, Miguel Ángel Pichetto, una vecchia volpe peronista, il fedelissimo dell’ex presidente Cristina Kirchner, la super peronista vera sfidante di Macri. Per sperare di vincere il liberista ha imbarcato un vice che più peronista non si può. Pichetto è il senatore che per anni si è prodigato con successo a trasformare in operazioni parlamentari gli ordini politici di Cristina. Nessuno in Argentina si scandalizza per aver visto Pinchetto saltare il fosso e schierarsi con gli ex nemici. Nessuno, allo stesso tempo, gli potrà rimproverare di non esser più peronista. E come potrebbe, se il peronismo ha come caratteristica fondamentale l’adattabilità alle convenienze del momento garantita dal suo essere tutto e il contrario di tutto, camaleontico, cangiante, capace di assumere senza sforzo le dimensioni e l’aspetto dell’involucro che lo contiene? D’altra parte Cristina per tentare di scalzare Macri dalla Casa Rosada non si presenta forse, forzando ogni prassi istituzionale, come vice del candidato presidente Alberto Fernandez, suo ex braccio destro, ex capo di gabinetto del suo governo e di quello del suo defunto marito Nestor, poi diventato nemico di entrambi? Peronista anche Fernandez. E lui, da candidato presidente con una vice che in realtà è il suo capo, non s’è forse presentato appena dopo la nomina in coppia con lei, a deporre contro di lei in una causa penale per corruzione? Le categorie di comune ragionevolezza saltano in aria nel caleidoscopio politico argentino, dove tutto si muove secondo le regole assai fluide dell’opportunità del momento. Perché la regola fondamentale del manicomio politico locale è che non esiste la necessità della coerenza né della lealtà. Ci si misura solo sui risultati. La politica gronda di retorica ideologica di appartenenza, eppure ciò che conta per vincere è solo l’efficacia, costi le giravolte che costi. Ciò consente al peronismo da decenni di tenere tutti dentro il suo carrozzone: militari filonazi ed ex guerriglieri guevaristi, liberisti ed antiliberisti, statalisti e attivisti pro libero mercato, addirittura abortisti ed antiabortisti. Spesso gli uni contro gli altri armati. Senza che né gli uni né gli altri possano rimproverare al nemico interno di aver abbandonato la matrice iniziale che è inafferrabile, polimorfa, mitica. E il bello è che, nonostante in Argentina non si misuri l’affidabilità politica delle persone sulla loro capacità di rimanere leali a qualcosa o a qualcuno, l’insulto politico più comune è «traditore». Il caso recente esemplare di questa tradizione locale è la rocambolesca vicenda che lega tra loro d’odio viscerale due pezzi da novanta del partito giustizialista, la casa peronista: l’ex ministro del Commercio Guillermo Moreno e l’ex ministro dell’Economia Axel Kicillof. Quando, in una sera di qualche anno fa, al semaforo rosso di Plaza de Mayo un tassista ha urlato dal finestrino «Traidor», prima di sparire nel traf-

Keystone

Angela Nocioni

fico sotto lo sguardo da galera di «Acciaio» Cali – professione gorilla, re della kickboxing arruolato come guardia del corpo dall’ex ministro del Commercio di Buenos Aires – Guillermo Moreno ha dovuto ingoiare sul marciapiede due pasticche rosa per dissolvere la rabbia. «Aliviol», due grammi di ibruprofene argentino, la sua unica droga, il suo solo sollievo. Eh sì, perché Moreno, ex uomo forte di Cristina Kirchner, incubo di tutti gli investitori esteri in Argentina e temutissimo ministro con una collezione di nomignoli acidissimi (il Pistola, la Bestia, il Selvaggio, il Pazzo) ha avuto con la coppia presidenziale, Nestor prima e Cristina poi, la fedeltà di un labrador.

Il caso emblematico è quello di Moreno e Kicillof, due pezzi da novanta della casa peronista: il primo è stato cacciato, vittima della sua lealtà, una dote rara in Argentina È stato per l’intero decennio d’oro kirchnerista (2003-2013) l’uomo dei panni sporchi e il simbolo dei modi spicci dei due patagonici al governo. Ha liquidato con un «putos de mierda!» la delegazione della impresa petrolifera Shell. Ha causato una crisi diplomatica nel 2010 per insulti all’ambasciatore brasiliano Enio Cordeiro, è stato colto da una diretta tv mentre con l’indice e il medio della mano destra faceva il gesto del «ti taglio la testa» all’allora ministro dell’Economia Martin Lousteau che proprio non poteva soffrire. Ma mai ha tradito. E all’improvviso lui, il ministro più leale del pianeta, l’unico peronista a non aver cambiato mai corrente in vita sua, è stato cacciato. L’ha saputo da un amico compassionevole quando tutto il governo di Cristina Kirchner già sapeva. La Regina Cristina l’ha mollato senza una parola. Un licenziamento offensivo e impensabile per l’ex padrone dell’import export di Buenos Aires, il fustigatore degli imprenditori, lo sceriffo che ha tenuto in mano l’economia argentina dell’era kirchnerista mentre ai nuovi arrivati veniva bisbigliato: «No te mètas nunca contra Moreno». Consiglio legittimo, considerata

l’abitudine di convocare le riunioni difficili nel suo studio di Diagonal sur, nella city di Buenos Aires, con il revolver poggiato sulla scrivania. Da quell’ufficio sono stati visti uscire, increduli più che offesi, manager di multinazionali trattati come gangster dal ministro. Ed anche, entusiasti, innumerevoli uomini d’affari locali benedetti dalle commesse di Stato e imbarcati in mitologiche missioni all’estero per portare «el ejemplo argentino en el mundo». In Vietnam, in Corea, in Azerbaigian. Comitive di solito non sotto le trecento persone. In Angola, per mostrare dal vero le meraviglie dell’export argentino, il ministro andò con 359 persone al seguito, più una nave carica di bovini vivi arrivati stremati a destinazione sotto gli occhi increduli degli ospiti africani. «El arca de Moreno» fu battezzata la sua trovata. Moreno è precipitato in disgrazia dopo la sconfitta della presidente alle elezioni legislative di metà mandato che segnarono la sua fase calante e spalancarono le porte all’ascesa dell’attuale presidente Mauricio Macri. La sua testa fu chiesta e ottenuta dalla stella luminosa dell’ultima fase kirchnerista, quello che poi divenne il super ministro dell’Economia, lo charmosissimo Axel Kicillof, ex ragazzino prodigio dell’università di economia di Buenos Aires, fino a quel momento famoso solo per una foto in costume su «Vanity fair». Lui e Moreno si odiano appassionatamente dal momento in cui Kicillof passò dai pomeriggi goliardici con l’amico Massimo Kirchner, figlio della ex presidente, al ruolo di consigliere personale di Cristina. «La tengo hipnotizada» si vantava al debutto con gli amici. Viene dalla militanza di sinistra del gruppo universitario marxista eterodosso «Tontos pero no tanto». All’economia lo spinse suo nonno, rabbino, che aveva imparato da solo il tedesco per poter leggere Marx senza traduzione. Kicillof è stato la mente prima, e il capricciosissimo esecutore poi, della nazionalizzione della industria del petrolio argentina, l’Ypf, che fino al suo arrivo era per buona parte della Repsol. Mentre l’intrepido Axel Kicillof, comodamente affacciato sul Rio de la Plata dall’ultimo piano del grattacielo Ypf di Puerto Madero, studiava la cacciata della Repsol, il povero Moreno correva su e giù con gli scagnozzi di «Acciaio» per i marciapiedi della city di Buenos Aires, il Microcentro, per multare i cambiavalute

che vendevano in nero il dollaro, a quei tempi ancora legato a un valore fittizio dal cambio fisso. Il governo Kirchner è stato ostinato nell’illusionismo del cambio fisso e lui, il fedele scudiero Moreno, si doveva occupare di scacciare i mercanti dal tempio che vendevano per strada i dollari al loro reale valore di mercato. Quando Cristina finì sull’orlo del precipizio perché la vendita a credito e a rate, vecchia abitudine del consumo argentino, era complicata dalle percentuali che le carte di credito internazionali fanno pagare ai negozianti, fu sempre Moreno a tentare di salvarla inventandosi la «Supercard», la carta di credito «peronista y popular» che avrebbe dovuto sbaragliare la concorrenza. La Supercard fece una fine ingloriosa nel giro di una settimana. Per mantenere in piedi lo scenario di cartapesta della rinascita economica argentina che ha sorretto per due mandati presidenziali Cristina, Moreno riuscì a fissare d’imperio un tasso d’inflazione fittizio e a sanzionare con una multa di 50.000 euro i tecnici dell’istituto di ricerca privato Finsoport che lo contestarono. Si guadagnò una denuncia per «abuso di potere». Il suo è un curriculum personale senza una elezione vinta, senza un momento di gloria politica autonomo. È la storia di un uomo di strada che diventa uomo di potere militando nell’obbedienza. Moreno ha uscite drammatiche da macho di periferia, si fa accusare di avere modi «poco urbani», ma non si è messo un centesimo in tasca, per quel che si sa. Non nelle sue, perlomeno. È stato passato sotto lo scanner di investigatori pubblici e privati dei tanti nemici che si è fatto fuori e dentro l’Argentina. E dopo anni trascorsi a far da mastino alla guardia degli affari nazionali, petrodollari venezuelani compresi, nessuno è riuscito a scovargli un dollaro fuori posto. Anche il perfido Kicillof, che si è sempre vantato di averlo sconfitto «por goleada», gli riconosce la fama di incorruttibile. Immaginarsi quanto ha patito quando è stato liquidato da Cristina Kirchner senza battere ciglio e s’è sentito trattato come un «traidor». Nel 2005 fu l’allora presidente Nestor Kirchner ad arruolarlo. Gli piaceva l’idea che un peronista integralista lo seguisse sulla strada del «più Stato, meno mercato». Cristina lo ricevette in eredità come un bene di famiglia. Finché ha potuto l’ha anche protetto. Fu Moreno ad uscire su Plaza de

Mayo (nella foto) come un carrarmato a difendere Cristina Kirchner quando la lobby dell’agrobusiness, ricca, influente e legata a una corrente peronista avversa a quella della presidente, non gradì la nuova tassa sui profitti dell’export agricolo e dichiarò guerra al governo. Successe che nel marzo del 2008 Cristina Kirchner firmò un decreto per portare dal 35% al 47% le imposte sull’esportazione del grano e di altri prodotti agricoli, tra cui la soia. Le tasse sull’export sono tuttora le principali fonti d’entrata di denaro per le casse dello Stato. In Argentina, in realtà, allora come ora, si produceva molto poco, ma il denaro era tornato a circolare dopo la grande crisi del Natale 2001 e creava la piacevole sensazione della rinascita dopo la crisi. Era, ed è tuttora, denaro che arriva dall’agrobusiness. L’export agricolo era a quell’epoca miracolato dall’aumento generale dei prezzi di miglio e soia sul mercato internazionale e il governo aveva deciso per questo di imporre nuove tasse su quei profitti. Agricoltori e allevatori alzarono le barricate. Cristina fu sul punto di essere travolta in un corpo a corpo fatto di blocchi stradali, scontri di piazza e minacce di sospendere i rifornimenti ai supermercati. Moreno uscì in plaza de Mayo, spalleggiato da «Acciaio» Cali, e lanciò contro gli imprenditori agricoli che chiamò da quel giorno «la vieja oligarquia agraria fascista», i suoi piqueteros di fiducia, i disoccupati organizzati delle fazioni peroniste filogovernative. Gli agricoltori però avevano copiato dai piqueteros le tecniche di lotta: blocchi stradali e improvvise barricate sorgevano qua e là, prendevano fuoco appena arrivavano le telecamere delle tv. Cristina fu sull’orlo del precipizio. Rispose facendo quello che mai Nestor Kirchner aveva osato fare: spedì la polizia a sgomberare la piazza. La prova di forza durò cento giorni. Cristina alla fine ce la fece. Moreno fu glorificato come il peronista di quartiere capace di trionfare sulla potente Federazione agraria argentina. A differenza di molti dei suoi scagnozzi e di tutti i suoi colleghi di governo, non si è mai trasferito in un quartiere per ricchi nelle esclusive «zone nord» di altrettante «zone nord» che spuntano nei quartieri privati, alla moda nordamericana, nella Buenos Aires dei country club. Lui vive da sempre nella vecchia casa di Constituciòn, quartiere di cui si parla molto nelle pagine di cronaca nera argentina e quasi mai per ragioni positive. Un reticolo di palazzi popolari. Quando il 18 marzo del 2013, prima dell’investitura papale, Jorge Bergoglio ricevette la presidente Kirchner nella residenza di Santa Marta in Vaticano, all’uscita Cristina, raggiante, raccontò a uno dei membri della sua delegazione che il papa le aveva chiesto notizie di due persone soltanto: Julián Domínguez, allora presidente della Camera dei deputati e Guillermo Moreno. L’attenzione del papa per Domínguez, quadro cattolico del peronismo, si spiega da sola. Quella per Moreno rimanda all’universo politico della Buenos Aires degli anni Settanta, quando l’allora padre Bergoglio, gesuita già influente, ebbe contatti con il gruppo cattolico peronista Guardia de Hierro. Lì militava la cattolicissima Marta Cascales, moglie di Moreno. È stata lei, la cattolicissima moglie, a convincere il ministro disarcionato da Cristina a non sbattere la porta mentre i maligni tutt’intorno sussurravano: «Non l’ha salvato nemmeno il papa». «El Pistola» furioso, armato solo di ibruprofene, aveva chiesto di essere mandato in ambasciata in Angola.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 12 agosto 2019 • N. 33

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Idee e acquisti per la settimana

Una questione di pulito

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Consigli di lavaggio Eliminare le macchie ostinate Se i tessuti tollerano prodotti contenenti candeggina, pretrattarli con una soluzione a base di detersivo o/e smacchiatore, come Total Oxi Booster. In seguito lavare il capo normalmente con del detersivo, eventualmente aggiungendo ancora un po’ di Oxi Booster. Per i tessili non colorati utilizzare Total Spray & Wash. Testare prima l’effetto in un punto poco appariscente e prestare attenzione alle istruzioni di lavaggio. Prevenire o eliminare l’ingrigimento Lavando spesso i tessuti bianchi, quest’ultimi con il tempo possono ingrigirsi. Per la biancheria bianca si consiglia l’utilizzo di detersivo universale in polvere contenente candeggina. Se l’ingrigimento è lieve, può essere d’aiuto lasciare i capi alcune ore in una soluzione a base di detersivo completo e Oxi Booster White. Total Color preserva la luminosità dei colori. Speciali sostanze proteggono i tessili dallo sbiadimento e prevengono l’ingrigimento. Total Color 2 l Fr. 8.45 invece di 16.90 Total Color Pulver 2,475 kg Fr. 7.95 invece di 15.90

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 12 agosto 2019 • N. 33

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Politica e Economia I lavoratori che sentono di più gli effetti della digitalizzazione sono quelli con una formazione media. (Keystone)

Informa Novità Festeggiamenti 40° anniversario Centro diurno di Massagno Nel 2019 il centro diurno compie 40 anni. Il centro, voluto dal Municipio di Massagno, è stato poi ripreso da Pro Senectute dal 2016. In collaborazione con il Comune verranno organizzati diversi momenti di festa da venerdì 6 settembre a fine mese. Nuovo programma attività 2019-2020 (sport e formazione) È già possibile richiedere il nuovo programma, con una vasta offerta di corsi e attività sportive, ma anche di proposte legate alla mobilità, alla prevenzione e all’alimentazione. > Telefono 091 912 17 17 creativ.center@prosenectute.org

Attività e prestazioni

Effetti dell’informatica sull’occupazione

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Occupazione Le nuove tecnologie allargano il fossato, sul mercato

del lavoro: aumentano i laureati, ma nascono pressioni sul personale con formazione media negli uffici e anche nelle fabbriche

L’indagine della Mc Kinsey, di cui riferivamo nell’ottobre dello scorso anno, prevedeva nei prossimi dodici anni la soppressione in Svizzera di un milione di posti di lavoro, a causa della crescente informatizzazione di quasi tutte le attività. Nella stessa indagine si prevedeva però che nel contempo sarebbero stati creati 800’000 nuovi posti di lavoro che in ogni caso richiederebbero un’alta qualificazione e una specializzazione sempre più spinta.

In 20 anni il numero di occupati negli uffici è diminuito di 150mila unità, gli artigiani di 90mila, gli impiegati con titolo universitario sono 470mila in più Oggi le conseguenze di questa evoluzione cominciano a manifestarsi nella realtà del lavoro quotidiano. Assistiamo, infatti, da qualche tempo a ristrutturazioni nelle aziende che costano posti di lavoro. Lo si è visto in vari settori, soprattutto dell’industria, ma anche in altre attività. Difficile dire se il principale responsabile di queste decisioni sia sempre e solo l’informatizzazione. Spesso però è proprio il processo di automazione e digitalizzazione che dà l’avvio a ristrutturazioni che possono anche assumere proporzioni più ampie. La stessa Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) prevede tempi difficili per il mercato del lavoro in Svizzera e teme un forte rischio indotto proprio dall’automatizzazione. Le statistiche dell’occupazione

dell’Ufficio federale danno già chiare indicazioni sull’evoluzione in atto: sono sempre più ricercate persone con un grado di formazione elevata e una specializzazione specifica. In Svizzera i lavoratori delle categorie con formazione elevata sono aumentati di 600’000 a partire dal 2003. Cresce però la pressione sulla rimanente mano d’opera. Il numero di persone con una qualificazione media, cioè un diploma di commercio, per esempio, è diminuito di 200’000 unità. Anche il numero di persone occupate con una qualificazione bassa è diminuito di 120’000 unità. Queste cifre sono messe in evidenza da uno studio del Politecnico federale di Zurigo, effettuato sulla base dei dati forniti da 450 aziende, per studiare l’effetto dell’informatizzazione sulla struttura del personale. Lo studio constata che le tecnologie moderne creano nuovi posti di lavoro, ma stanno differenziando molto la struttura della mano d’opera impiegata. Infatti, l’aumento dei posti di lavoro è limitato ai settori che esigono alte qualificazioni, mentre negli altri comparti la mano d’opera tende a diminuire. Il fenomeno piuttosto nuovo è dato dalla constatazione che la diminuzione colpisce piuttosto il personale con formazione media, e questo in misura doppia rispetto alla diminuzione di personale con basse qualificazioni. Ci si può chiedere perché la digitalizzazione colpirebbe soprattutto le persone con formazione media. Secondo il professor Martin Wörter, responsabile dello studio, si tratterebbe di attività ripetitive, tanto negli uffici, quanto nei reparti industriali, che possono facilmente essere affidate a computer o robot. Sono invece meno minacciate dall’automazione le professioni di servizio che richiedono un contatto diretto con la clientela.

Secondo la statistica dell’occupazione dell’Ufficio federale di statistica, il numero di occupati negli uffici, in 20 anni, è diminuito di oltre 150’000, mentre quello degli artigiani è diminuito di 90’000. Per contro le persone occupate con formazione universitaria sono aumentate di 470’000. In Svizzera, questo importante cambiamento nella struttura degli impieghi è dovuto da un lato alla forza del franco e dall’altro alla libera circolazione delle persone. Anche secondo uno studio dell’OCSE del 2017, nel nostro paese, negli ultimi 20 anni, il tipo di lavoro che richiede qualificazioni medie ha subito riduzioni maggiori rispetto ad altri paesi. La diminuzione è quantificabile nel 15% circa dei posti di lavoro. Nel contempo sono però aumentati soprattutto i posti di lavoro che richiedono un’alta qualificazione. L’OCSE avverte del pericolo della crescente polarizzazione sul mercato del lavoro, aggiungendo che i vantaggi della digitalizzazione dovrebbero favorire tutte le categorie, mentre oggi si creano sacche di occupati con bassi salari e scarse possibilità di miglioramento. Non dovrebbe invece preoccupare la riduzione fra le persone con medie formazioni, poiché molte sono le possibilità di migliorare la loro posizione. Determinanti per questa evoluzione sono però gli investimenti nella formazione del personale. Non dimentichiamo che un lavoratore può subire oggi da due a tre rivoluzioni tecniche nella sua carriera professionale o, come dice il professor Bruno Staffelbach, rettore dell’Università di Lucerna: il 60% delle giovani generazioni, al momento della pensione, eserciterà una professione che oggi non esiste ancora. Per adattarsi a questa evoluzione la formazione continua del personale è una soluzione molto migliore di quella della sua sostituzione.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 12 agosto 2019 • N. 33

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Una politica di collocamento efficace Qualche settimana fa ha fatto il giro delle pagine economiche la notizia stando alla quale il Canton Neuchâtel era riuscito, nel giro di un anno, a ridurre la disoccupazione del 28%. Ora, con un tasso del 3.1% (dati Seco) non è più l’ultimo della classifica. Ha lasciato questo posto al Canton Ginevra. La diminuzione del numero dei disoccupati è stata così rapida e di così grande portata da attirare l’attenzione dei commentatori economici. Anche di quelli di grande testate come la NZZ. A che cosa si può attribuire questa tendenza? Di solito la disoccupazione diminuisce quando la domanda di lavoro aumenta, ossia nelle fasi di forte espansione del ciclo economico. Il rischio di disoccupazione aumenta invece nelle recessioni. La seconda metà del 2018 e la prima del 2019 non sono state caratterizzate da forti aumenti del

Pil. L’economia svizzera non è in recessione ma, facendo la media del tasso di crescita dei quattro trimestri, possiamo affermare che la stessa sta attraversando una fase di stasi. Ciò nonostante quasi in tutti i Cantoni il dato sulla disoccupazione del mese di giugno di quest’anno è risultato inferiore a quello del medesimo mese del 2018. Ovviamente i mercati del lavoro dei singoli Cantoni sono diversi perché diverse sono le strutture delle loro economie. È comunque certo che la riduzione più recente della disoccupazione o, se volete, l’aumento dell’occupazione di questi ultimi anni, non può essere fatto risalire solo all’andamento positivo della congiuntura o, per esprimerci come fanno gli specialisti, alla diminuzione del rischio di disoccupazione. Da uno studio eseguito di recente da specialisti basilesi del mercato del

lavoro risulta però che la riduzione più recente della disoccupazione sia da attribuire anche alla diminuzione della durata del periodo medio di disoccupazione. E sulla riduzione della durata della disoccupazione sembra abbiano avuto un’influenza significativa i cambiamenti nel modo nel quale la disoccupazione viene gestita dalle autorità cantonali competenti. Così l’importante calo della disoccupazione, conseguito nel Canton Neuchâtel, pare debba essere fatto risalire, in buona parte, ad un’aumentata efficacia dell’azione portata avanti dai responsabili degli uffici di collocamento del Cantone. Non è che abbiano fatto miracoli. Si sono limitati a migliorare i rapporti tra gli uffici di collocamento e i datori di lavoro (in particolare le aziende più grandi) così da identificare meglio e più rapidamente il loro

fabbisogno in manodopera qualificata. Per l’insieme dell’economia svizzera è vero infatti che, mentre in certi periodi la disoccupazione aumenta, continua ad esistere un congruo contingente di posti di lavoro liberi. Si tratta quindi, in parole povere, di far circolare meglio e più rapidamente, l’informazione concernente le richieste dei potenziali nuovi datori di lavoro in modo da trovare rapidamente al disoccupato un nuovo posto di lavoro e ridurre così la durata del periodo di disoccupazione. Potrebbe essere l’uovo di Colombo per ridurre al minimo il problema della disoccupazione, almeno per una parte della manodopera disoccupata, vale a dire quella che possiede le qualifiche che vengono richieste dai nuovi datori di lavoro ed è pronta ad accettare gli eventuali costi (spostamenti o traslochi) che potrebbe implicare

l’assunzione di un nuovo impiego. In ogni modo sembra che la ricetta, grazie anche alle possibilità che offrono oggi le applicazioni digitali, funzioni. La tendenza alla riduzione del tasso di disoccupazione che ha conosciuto, nel corso degli ultimi due anni, il Cantone di Neuchâtel, si è infatti già manifestata anche in altri Cantoni, non da ultimo il Ticino. Il tasso di disoccupazione del nostro Cantone che, per diversi decenni, è stato superiore alla media svizzera, da almeno quattro anni si allinea con la stessa, per lo meno nei mesi estivi. Mentre nel giugno del 2013 era ancora pari al 4.1%, nel giugno di quest’anno era sceso al 2.4%, segnando quindi una riduzione superiore al 40%. Tutto questo probabilmente anche grazie alla maggior efficacia delle azioni di collocamento della sezione del lavoro della nostra amministrazione cantonale.

la mordicchia, accenna anche a una coccola finale. Ma pure gli erbivori sono battaglieri. I maschi delle giraffe si riconoscono dalle corna spelacchiate, per le battaglie combattute ovviamente a colpi di collo. I millenni hanno reso gli struzzi – ma anche i pavoni e i fagiani – sempre più belli, proprio per attrarre le femmine. Anche noi uomini ci siamo evoluti (forse meno di quel che crediamo). Ma a volte ho l’impressione che le donne sottovalutino quanto sia dura e a volte crudele la battaglia che talora noi maschi ingaggiamo per loro. Ovviamente, però, la cosa più importante per cui si viaggia non sono gli animali. Non sono neppure i paesaggi, o i monumenti. È la gente. Gliafricanisonounpopologiovanee gentile.Ilcontrariodinoieuropei,semprepiùvecchieincattiviti. La prima cosa in assoluto che mi colpisce, quando viaggio in Africa, sono i bambini. Ce ne sono moltissimi. Scappano da tutte le parti. Sono liberi, indipendenti, autonomi. Li vedi piccolissimi già con la cartella in mano, e poco più grandi a pascolare gli animali.

Penso a come doveva essere l’Europa della Ricostruzione, dopo la Seconda guerra mondiale: piena di bambini. E di fiducia nella vita e nel futuro. Il numero di cani, nel cosiddetto Terzo Mondo, è inversamente proporzionale. In giro se ne vedono pochissimi. Magri e mansueti. Non uno che abbai o ringhi a un passante. In Italia i bambini sono pochissimi. Ne facevano di più gli italiani del 1918, quando gli uomini morivano sul Piave e le donne in casa di febbre spagnola. In compenso i cani sono molti, belli pasciuti, spesso aggressivi («vuole giocare» ci tranquillizza ogni volta il padrone). Intendiamoci: l’amore per gli animali è un sentimento nobile. Chi li maltratta merita tutto il nostro disprezzo. Ho il timore però, che esprimo nelle forme più rispettose possibili, che in Occidente e in particolare in Italia si sia sviluppato un rapporto a volte poco sano con gli animali. Che non sono figli, e non andrebbero trattati da tali. Anche nel loro interesse. Poi, com’è ovvio, ci sono tante cose che varrebbe la pena approfondire. Tante differenze che colpiscono.

Ad esempio in Africa la gente vive – molto più che in Occidente – seguendo il sole: ci si sveglia prima dell’alba, ai primi raggi di luce sono già tutti in movimento, e dopo il tramonto si va a casa a riposare. La movida non esiste o è roba per turisti. Tutto cambia per le feste, che da quelle parti hanno ancora un senso, o per le cerimonie religiose. È una vita più semplice, forse con meno aspettative, in cui i legami tra le persone sono più solidi; e il degrado dei rapporti umani che avvelena la nostra vita ancora non si vede. Viene allora da chiedersi: perché se ne vanno? Perché milioni di africani sono disposti a rischiare la vita pur di lasciare la propria terra? In Africa, tranne luoghi isolati e per tempi limitati (segnati dalle guerre), non si muore più di fame. Nel 1961 gli africani erano trecento milioni, vent’anni dopo erano raddoppiati, oggi l’Africa ha più abitanti dell’India, e tra qualche anno saranno ancora di più. Non si sfugge tanto dalla fame, quanto dalla mancanza di prospettive, da una vita segnata. Si cerca la libertà, e in qualche forma l’avventura, il rischio, l’opportunità.

con l’avvento dello Stato radiotelevisivo che sostituisce il vecchio “sistema”»). A suggerirmi di rivolgere una cinguettata alla RSI è giunta la splendida trasmissione dedicata alla Fête des Vignerons, trasmessa l’ultimo sabato di luglio da Vevey e magistralmente condotta da Alain Melchionda. Un intrattenimento serale da incorniciare, finalmente ancora un lavoro di vera televisione, cioè di stimolo allo spettatore a «vedere quel che capita lontano», come etimologicamente e idealmente dovrebbe sempre trasmettere il media elettronico. E non occorre valicare gli oceani, inseguire eventi, festival o navicelle spaziali: basta aprire le porte e essere in grado non soltanto di inquadrare e riportare, ma di «far vedere», cioè spiegare e aiutare a capire. Incommensurabile l’apporto di Daniele Finzi Pasca, meritevole di Oscar allo spettacolo per aver ancora una volta cesellato storia, leggende e tradizioni, per aver guidato migliaia di comparse a recitare, ballare, cantare, suonare;

ma soprattutto per averci confortato (nel senso di ridare speranza) con una regia spettacolare in cui passato (miti e tradizioni) e futuro (nuove tecnologie) interagiscono per catturare fantasia, poesia e giocosità. A Vevey, regista (Enrico Lombardi) e conduttori hanno saputo ricavare una serata televisiva talmente riuscita da consentire alla televisione estiva di mostrarsi paradossalmente più viva e vera di quella «studiata» che, per intenderci meglio, viaggia sui binari solo durante il calendario scolastico. La stessa differenza l’avevo percepita l’estate scorsa con la perfetta regia dei mondiali di calcio in Russia e l’irruzione in tv di un «blitz notturno» purtroppo sempre in attesa di un bis. Pur dovendo ammettere lunghe latitanze, arrivo a collegare la medesima sensazione di televisione viva d’estate (qualche anno fa, una serata dedicata al 1. agosto) con una serie di incontri e proposte dall’Engadina anche quella volta con abilità giornalistica (da Davide Gagliardi, se

non erro). E mi chiedo: è normale che simili serate oltre che rare siano anche in contrasto con l’«ordinaire de la maison», vale a dire con la sempre più scolastica (il riferimento non è alle ferie...) e «palinsestata» quotidianità televisiva? Riecco il mio mantra: sto mandando cinguettii ormai sorpassati... Meglio lasciare la torre. Tanto più che ogni critica viene facilmente oscurata dall’alibi di una televisione che cambia, impegnata nella rivoluzione mediatica e obbligata a seguire mode e scelte dettate dai «social media trend». Però è dura dimenticare i vecchi maestri. Dicevano: non c’è scampo al monopolio di pochi personaggi…, chi legge il bollettino meteorologico in tv rischia di diventare capo del governo..., al posto della tv di Stato eccoci con lo Stato radiotelevisivo! Erano solo fantasie distorte di critici inaciditi, come sosteneva chi osteggiava e sviliva la critica televisiva, o premonizioni di un dramma in atto oggi non lontano da noi, e proprio grazie al «social media trend»?

In&outlet di Aldo Cazzullo Il fascino dell’avventura Fin da bambino, grazie a libri tipo i romanzi d’avventura che ora non si leggono più (i ragazzi sono tutti su Instagram), sono cresciuto con il mito dei viaggi esotici (anche per sfuggire alle estati dai nonni a Loano, in Liguria). Ho iniziato presto, zaino tenda e «Avventure nel Mondo». Le tracce di Salgari mi hanno portato soprattutto in Asia. Ricordo quasi con commozione un remoto viaggio in Indonesia in cui mi imbattei in un combattimento di galli, come quelli raccontati da Alex Haley in Radici (ambientato nel Sud degli Stati Uniti). Ma forse in questo momento il continente più istruttivo sul futuro dell’umanità, e pure sulla natura umana, è il continente nero. L’Africa ogni volta mi suggerisce questo: la famosa storiella della gazzella e del leone che al risveglio partono al galoppo non è soltanto ansiogena («non importa se tu sia il leone o la gazzella, l’importante è che cominci a correre»); è stata inventata da uno che in Africa non c’è mai stato. Gazzelle, leoni e altri animali non corrono quasi mai, se non quando è strettamente necessario. La

prima preoccupazione degli animali è risparmiare energia. Il cibo è soltanto la terza. La seconda è l’amore. La vera lotta per la sopravvivenza non è la caccia, sempre più sporadica in una savana in cui i leoni sono diminuiti del 50 per cento in vent’anni (ne restano 25 mila in tutta l’Africa). La vera «struggle for life» è per la riproduzione. Ho visto tre leoni azzannarsi a sangue per stabilire chi dovesse accoppiarsi con la leonessa, che attendeva su un albero. A volte il leone giovane che arriva nel gruppo uccide i piccoli del leone vecchio, per costringere le femmine ad accoppiarsi con lui e mettere al mondo altri cuccioli. Va detto però che l’atto amoroso non può essere definito bestiale: il leone corteggia la leonessa, le lecca il collo,

Zig-Zag di Ovidio Biffi Un merlo alla Fête des Vignerons C’è un merlo – suppongo sempre quello, visto che si ripresenta da anni – che ha scelto il comignolo di fronte al nostro balcone come torre di controllo per chissà quale suo nido. Ci parliamo, nel senso che, ormai istupidito dal suo cinguettio inarrestabile, anch’io provo a emularlo cercando di ripetere i suoi richiami o segnali. L’unica certezza che ricavo è che gli creo fastidio, sempre mi guarda e a volte ho l’impressione che mi stia dicendo di smetterla, che lui sta lavorando e non in panciolle sul terrazzo come me. Quel merlo mi ricorda un passato ormai remoto, quando anch’io mi ero creato una sorta di torre di controllo. Prima e per tanti anni al «Giornale del Popolo», poi anche su questo giornale, solo meno sovente. La torre mi serviva e la frequentavo quando avvertivo la necessità di attivare anche da noi, come nella vicina Italia, un po’ di critica per televisione e radio. Sulla torre non mi sentivo passero che «alla campagna cantando vai», ma come il merlo del comignolo, visto che

anch’io ogni tanto dovevo far capire a chi mi richiamava, o mi consigliava di smetterla, che stavo solo lavorando, che la critica a chi stava in panciolle a Besso (poi a Comano) non era un vezzo o una mania, ma uno dei miei compiti professionali. Ispiratori e maestri di questa mia attività? Diversi. All’inizio ero ammaliato dalla vena satirica di Achille Campanile («Quando un’azienda di Stato diventa monopolio di pochi personaggi, allora non c’è scampo»); poi irretito dai corsivi di Giorgio Saviane su l’Espresso («In tutte le reti televisive straniere, il bollettino meteorologico viene trasmesso anonimamente. In Italia, chi legge il bollettino, del giorno prima, rischia di diventare capo del governo»); infine sedotto dal lustro letterario di un Ennio Flaiano che «elzevireggiava» impareggiabile su «Il Mondo» e sul «Corriere della Sera» («Sono tornato nella nostra bella Italia dopo sei anni [...] Tutto mi sembra diventato più semplice


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 12 agosto 2019 • N. 33

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Cultura e Spettacoli Locarno, grande cinema e glamour Ha preso il via la rassegna cinematografica più attesa della Svizzera, con centinaia di appuntamenti imperdibili pagina 33

Un gradito ritorno Dopo anni di assenza ritornano con un doppio album i Lighthouse Family

Così ti salvo il disco La Fonoteca nazionale svizzera di Lugano ha sviluppato il prezioso sistema VisualAudio

Stranieri oggi come allora Paura e diffidenza verso lo straniero contrassegnavano già l’antichità

pagina 35

pagina 37

pagina 41

L’energia del mondo

Mostre Jannis Kounellis alla Fondazione

Prada di Venezia

Gianluigi Bellei Chi è Jannis Kounellis? O meglio, chi era? visto che è morto due anni fa. Un trombone di regime, intoccabile, che pensava di non aver avuto i riconoscimenti che gli si dovevano, un po’ vittima e un po’ cialtrone, decadente, come sostengono alcuni o un gigante che ha modificato la grammatica dell’arte, come dicono altri? Fino al 24 novembre la Fondazione Prada di Venezia ha organizzato una sua retrospettiva, curata da Germano Celant, con più di sessanta lavori che vanno dal 1959 al 2015. Una bella occasione per vedere, o rivedere, la summa della sua opera nell’incantevole magione di Ca’ Corner della Regina che lentamente vede proseguire, grazie appunto alla Fondazione Prada, il suo restauro conservativo. Con la messa in sicurezza negli anni scorsi degli affreschi, stucchi e materiali di pregio del primo piano, del mezzanino e del secondo piano nobile. Quest’anno saranno restaurate le superfici del portego e del secondo piano nobile. Insomma, un luogo incantevole per farsi un’idea personale. La mostra, come dicevamo, è curata da Germano Celant, oramai osannato come un guru, vestito sempre in total black, di Prada ovviamente. Quello che unisce Celant a Kounellis è una sorta di sovversivismo giovanile. Celant scriveva di artisti come guerriglieri e Kounellis, in un impeto di operaismo simil Tronti, racconta della funzione sociale dell’arte e della capacità dell’anarchia di comprendere e non dare giudizi. Kounellis, poi, è uno degli esponenti più rappresentativi di quell’Arte povera patrocinata nel 1967 proprio dallo stesso Celant. Da guerriglieri a personaggi amati dalla grande borghesia illuminata. Al funerale a Roma c’era pure la sindaca pentastellata in una sorta di nemesi al contrario. Kounellis nasce in Grecia al Pireo nel 1936 e si trasferisce in Italia nel 1956 assieme alla prima moglie Efi. Due anni dopo l’arrivo a Roma inizia la sua carriera artistica influenzato da Burri e Fontana. Nel 1966 come molti altri comincia ad annunciare la Morte della Pittura. È del 1967 il suo famoso esordio con le gabbiette contenenti delle cocorite. Del 1969 i 12 cavalli esposti alla Galleria L’Attico di Fabio Sargentini a Roma. «Ciò che dobbiamo fare, sostiene, è stabilire un’unione fra la vita e la nostra pratica artistica».

Thomas McEvilley scrive che Kounellis si «pone dalla parte della vita piuttosto che dell’arte» in una logica marxista; la sua famiglia era comunista. E poi precisa «che con il suo materialismo sta dalla parte della vita vissuta piuttosto che da quella della rappresentazione». L’anno delle cocorite è lo stesso dell’inizio dell’Arte povera ed è il periodo più aggressivo e materialista o marxista. Sempre McEvilley sostiene che in molte delle sue opere Kounellis celebra il comunismo mediante l’uso dell’acciaio e con le torce a gas «suggerisce un’estetica di tipo industriale». Germano Celant, al contrario, punta tutto sull’aspetto trasformativo del suo lavoro. Trasformativo e pieno di mutamenti. «Ha dato corpo, scrive, a una rappresentazione unica, che non si è nutrita di ripetizioni ma di continui mutamenti e trasformazioni, per rimanere ancorato al passato quanto al presente». E il suo, volente o nolente, è un passato che ingloba oltre che il marxismo pure la cultura greca. Classica. Vasi, statue, frammenti dell’età d’oro dell’arte come memoria di un sentimento negato ma nel contempo mai rimosso. La mostra veneziana presenta una selezione di suoi lavori provenienti da varie istituzioni come la Tate Modern di Londra, il Centre Pompidou di Parigi, il Museum Boijmnas Van Beuningen di Rotterdam, il Castello di Rivoli a Torino. Naturalmente non ci sono né cavalli né cocoriti. La sensibilità odierna nel frattempo è mutata. Chi esporrebbe un «mongoloide» (si apostrofava così) seduto nell’angolo di una sala? Allora tutto ciò era scandaloso ma possibile. Oggi, Dio ce ne scampi… Al massimo si rappresentano dei poliziotti che manganellano un «afroamericano» (ultimamente si dice così) accovacciato per terra. L’allestimento è particolarmente suggestivo e il contrasto fra la povertà dei materiali e la sontuosità delle sale decorate ad affresco e con stucchi è strabiliante. Detto questo è chiaro che, come qualunque retrospettiva, manca il tocco dell’artista per rendere vivi gli elementi. Tutto è un po’ asettico e in un certo senso inquadrabile. Si perde così quella forte energia che caratterizza i lavori di Kounellis. La maestosità in ogni caso rimane, come negli armadi legati con cavi d’acciaio che pendono dal soffitto del 1993-2008. O il muro ricoperto

Una delle suggestive sale espositive della Fondazione Prada con opere di Jannis Kounellis. (Foto: Agostino Osio - Alto Piano Courtesy Fondazione Prada)

in foglie d’oro (Tragedia civile) del 1975 con davanti un attaccapanni con il cappello dell’artista (tocco felice del curatore). Questo contrasto testimonia la condizione esistenziale dell’artista (assente) tra passato e presente: un autoritratto vagamente magico e nello stesso tempo surreale e tragico. Qui troviamo tutto il pensiero contraddittorio di Kounellis che vaga tra l’opulenza della classicità e la pochezza del vile lavoro umano. Anche se il materiale dell’industria che ha utilizzato simboleggia sicuramente il lamento per la condizione dell’operaio e il suo triste sfruttamento da parte del capitale. Con il passare degli anni l’artista

crea delle vere e proprie rappresentazioni teatrali con materiali disposti più o meno in ordine, tra presenza e assenza. Anna Stippa su Interface scrive: «Kounellis ci ricorda che materiali come il legno, la pietra, il carbone e il fuoco appartengono al mondo da migliaia di anni» e che tutto questo viene reso dall’artista con la bellezza della semplicità delle piccole cose che acquistano a volte il sapore kafkiano dell’inconoscibilità. Le porte chiuse da pietre, legno, macchine da cucire, campane, statue classiche, esaltano appunto la sua visione metafisica, surreale della vita. Alla fine rimane un senso di spaesamento unito a un forte contenuto sensoriale

profuso dagli odori (il caffè, la grappa), i fumi del fuoco; dal suono con la musica dei flautisti sparsi nelle diverse sale che intonano frammenti di Mozart. La retrospettiva si conclude, o si apre, al piano terra con film cataloghi, inviti, manifesti e fotografie, per testimoniare il suo lungo e sfaccettato percorso. Dove e quando

Jannis Kounellis. A cura di Germano Celant. Fondazione Prada. Ca’ Corner della Regina, Venezia. Orario: 10.0018.00. Chiuso martedì. Fino al 24 novembre. www.fondazioneprada.org


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Cultura e Spettacoli Il cast del film A Febra della debuttante Maya Da-Rin. (Stefano Spinelli)

Quella luce così diversa

Festival di Locarno/2 Grazie alla rassegna

Black Light alla scoperta di opere poco note Nicola Falcinella

Alla ricerca di sé stessi Festival di Locarno/1 Piazza Grande aperta dal film della Elkann

Nicola Mazzi Personaggi potenti o alla ricerca di una forte identità. È questo, mi sembra, uno dei legami che unisce i primi film del concorso internazionale e le due opere in lingua italiana visti nei primi giorni del Festival del film di Locarno. Personaggi che acquistano tridimensionalità grazie all’interpretazione degli attori.

La bravura degli attori a volte non basta per reggere un film intero, soprattutto se la trama mostra qualche debolezza Seconda – così si chiama la protagonista del film ticinese Love Me Tender, presentato nella sezione Cineasti del presente nei giorni scorsi – è malata. Ma questa è anche la seconda opera della regista Klaudia Reynicke, dopo Il nido, presentato sempre a Locarno nel 2016. Ed è un passo in avanti importante verso una strada originale e anche piuttosto interessante. Il film racconta, appunto, di una donna affetta da una grave forma di agorafobia che, quando i genitori l’abbandonano (la madre muore e il padre se ne va) è costretta a fare i conti con le proprie ansie e le paure. Incapace di solcare l’uscio di casa, accoglie gli sgarbati messaggi telefonici di un ufficiale giudiziario e fa entrare un ragazzo che raccoglie bottiglie vuote. Da quel momento prende coraggio e, armata di una tuta blu, cerca la sua strada. Una sorta di supereroina, anzi di anti-supereroina, come ha evidenziato la stessa autrice. Love Me Tender è un film che nella protagonista Barbara Giordano ha il pilastro più importante di tutta la struttura narrativa. E da questo punto di vista la prova è ampiamente superata e il castello ha retto bene. Qualche piccola crepa

Azione

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

il film l’ha mostrata nei personaggi di contorno o in alcune battute poco efficaci, ma – anche grazie alla scelta di limitare gli spazi, i protagonisti e i temi, è riuscito a essere convincente. Restando alle produzioni di lingua italiana, ma parlando del film che ha inaugurato la Piazza Grande di questa 72esima edizione e cioè Magari, possiamo dire che l’esperimento è riuscito solo a metà. Al suo debutto dietro la macchina da presa Ginevra Elkann (rampolla della famiglia AgnelliElkann e sorella dei noti John e Lapo) ha mostrato cose discrete, senza però toccare punte eccelse. Una commedia sentimentale che racconta un inverno particolare. Tre fratelli figli di genitori separati sono letteralmente scaraventati dalla madre nelle braccia del padre; un regista fallito alla continua ricerca di una buona idea e che non ha la minima idea di come fare il padre. È un apprendimento reciproco, quello al quale assistiamo, dove il padre e i figli cercano di capirsi e di trovare un linguaggio comune. Lontano dalla grande tradizione della commedie all’italiana, anche Magari come Love Me Tender punta comunque tutto o quasi sulla forza degli attori: Riccardo Scamarcio e Alba Rohrwacher riescono a tenere legata la storia, i tre giovani attori in erba e l’attenzione dei pubblico. A fare da sfondo il lungomare di Sabaudia con le sue luci e diverse citazioni degli anni 90: dal Game Boy ai motorini, passando per l’imitazione di Lino Banfi alla macchina da scrivere e per i telefoni con il filo. Così come punta parecchio sul protagonista uno dei film in competizione che finora ci ha più convinto: il brasiliano A Febre della debuttante Maya Da-Rin. Lui è un nativo dell’Amazzonia che vive nella grande città di Manaus dove lavora come guardiano al porto. Un personaggio diviso tra il passato (le sue origini e il richiamo della sua terra che viene esplicitato in diversi modi e attraverso la figura del fratello) e il futuro, rappresentato dalla figlia, la quale ha ottenuto una borsa per studiare medicina nella lontana

Brasilia. Ma oltre alla naturalezza del protagonista, A Febre ha anche il merito di avere una struttura formale rigorosa. Soprattutto la costruzione dell’immagine è interessante in quanto la regista spesso divide il grande schermo a metà grazie a elementi di scena (come un muro, un container, ecc). In questo modo si esplicita, a livello formale, l’appartenenza o meno, del personaggio a uno spazio, a un luogo. Un concetto, quello dell’appartenenza, fondamentale e sottolineato anche nei discorsi famigliari e in quelli con il collega di lavoro. Pure un secondo film, passato in competizione, si risolve nella bravura degli attori. Douze Mille di Nadège Trebal (anche attrice protagonista) parla di povertà e di amore, di fame e di sesso. E lo fa ponendo al centro della scena Frank e Maroussia: una coppia innamorata che deve trovare il modo di sopravvivere in un paese che offre poche opportunità. E allora lui è costretto a partire per guadagnare 12mila euro, l’importo sufficiente per vivere un anno. Con la camera quasi sempre incollata ai loro volti e ai loro corpi, Douze Mille gioca facile con l’identificazione e ricorda maestri come i fratelli Dardenne o Kechiche. Ma il gioco non infastidisce troppo. Anche se forse, alla fine, manca di un certo brio e di piccoli dettagli narrativi alla Ken Loach per essere un grande film. Meno convincente degli altri il siriano Fi al-thawra. La rivoluzione armata in quella terra, tra il 2011 e il 2017, è filmata da una donna che non si vedrà mai. Se nell’intenzione doveva essere una sorta di diario di guerra in realtà è diventato un diario di quello che si vorrebbe fare, di come sarebbe meglio organizzarsi. Difficile trovare un film che parli di guerra in modo poco spettacolare. Questo lo è perché filma un gruppo di attivisti politici mentre discutono di un volantino o di come rinnovare il Paese. Litigi e scontri verbali a simboleggiare la difficoltà di unire il popolo siriano. Ma che, alla fine, allontana anche noi, spettatori, al film.

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Luci nere che illuminano un cinema conosciuto solo in parte. È la retrospettiva «Black Light», che quest’anno il Festival di Locarno non dedica a un grande regista del passato, ma al cinema fatto dai neri e sui neri. Sono passati esattamente cento anni dal primo film di un autore di colore, l’afroamericano Oscar Micheaux che realizzò The Homesteader, tratto da un suo romanzo e oggi perduto. Scrittore intraprendente che andava di porta in porta a vendere i suoi libri, fino al 1948 realizzò, con alterne fortune, più di quaranta film, oggi non più rintracciabili. Sempre del 1919 è Within Our Gates (il titolo riprende un verso del libro del Deuteronomio) la sua opera seconda che ha inaugurato il ciclo locarnese, curato dall’americano Greg de Cuir jr e che vede anche la pubblicazione di un volume per Capricci. Micheaux con The Exile del 1931 firmò anche il primo film sonoro di un afroamericano. Dello stesso anno Borderline di Kenneth MacPherson con Paul Robeson, altra figura di spicco tra gli intellettuali e gli artisti di colore. Una storia di coppie, tradimenti e pregiudizi che vengono a galla o si alimentano. La robusta selezione di quasi cinquanta titoli realizzati fino al 2000 mette insieme opere diverse, un ampio sguardo rivolto al Sudamerica, ai Caraibi, all’Europa, evitando l’Africa, concentrandosi invece sulle terre della diaspora, dove gli africani sono stati spesso portati come schiavi. La sezione riunisce cineasti molto diversi tra di loro e non vuole essere un ghetto, casomai offrire un riscatto, mettendo i registi della rassegna al fianco e in ideale dialogo con le opere di Samuel Fuller, Pier Paolo Pasolini, Robert Wise, Joseph L. Mankiewicz fino a Quentin Tarantino o Jim Jarmusch. L’unico cineasta del quale sono stati messi nel programma due film è Melvin van Peebles, a suo modo un altro apripista: troviamo il suo esordio francese La permission (1968) e Sweet Sweetback’s Baadasssss Song (1971). Quest’ultimo è considerato l’inizio della blaxploitation, il movimento che segnò gli anni ’70 con film d’intrattenimento e di genere rivolti principalmente, ma non unicamente, a un pubblico afroamericano. Tra i cultori del filone anche Tarantino, che in Jackie Brown (1997) lo omaggia apertamente, fin dalla scelta come protagonista di Pam Grier, icona femminile di quel periodo. L’attrice fu, tra gli altri, protagonista di Coffy (1973) di Jack Hill, proiettato a Locarno.

Tra i prodotti più importanti della blaxploitation anche Super Fly (1972) di Gordon Parks jr, del quale non è invece mostrato Shaft il detective (1971), altro titolo cruciale, memorabile anche per la colonna sonora di Isaac Hayes. L’altro fronte degli anni ’70, quello dei cineasti losangelini formatisi alla Ucla e più attenti all’impegno politico e civile, è rappresentato da Killer of Sheep (1978) di Charles Burnett, il cui valore è stato sancito anche dall’Oscar alla carriera 2017. Qui però mancano registi importanti come Haile Gerima (Bush Mama) o Billy Woodberry. Il fronte delle assenze eccellenti è nutrito, del resto si sarebbe potuta stendere facilmente una lista lungo il doppio. Per stare all’attualità, non c’è Beloved - Amatissima (1998) di Jonathan Demme dal romanzo di Toni Morrison con Oprah Winfrey e Danny Glover. Escluso anche un caposaldo come Nascita di una nazione (1915) di David W. Griffith che macchiò il grande cineasta dell’accusa di razzismo per come aveva rappresentato la gente di colore. Film poetico che avrebbe meritato considerazione è Sidewalk Stories (1989) di Charles Lane, come anche film importanti socialmente quali Nel fango della periferia (1957) di Martin Ritt o il celebre Indovina chi viene a cena? (1967) di Stanley Kramer con Spencer Tracy e Sidney Poitier (presente con il suo Stir Crazy) con la coppia Gene Wilder e Richard Pryor, ma forse sono stati considerati visti a sufficienza. Tornando a ciò che è in programma, segnano tappe fondanti Boyz n the Hood di John Singleton e Daughters of Dust di Julie Dash, entrambi del 1991. Dalla ricognizione non può mancare Spike Lee, autore che ha dato un contributo significativo ad allargare pubblico e ambizioni di questi cineasti, con il suo esordio She’s Gotta Have It (1986, noto anche come Lola Darling) oltre a Fa’ la cosa giusta presentato in Piazza Grande restaurato e come evento di pre-apertura. Risalgono a più indietro nel tempo Blood of Jesus (1941) dell’attore e regista Spencer Williams, esempio di «race movie» rivolto a un pubblico nero e dalle tematiche religiose con tanti gospel e musiche da ballo, e The Cool World dell’indipendente Shirley Clarke. Allontanandoci dagli Stati Uniti il cubano De cierta manera (1944) di Sara Gomez, il franco senegalese La noire de... (1966) di Ousmane Sèmbene, il giamaicano The Harder They Come (1972) di Perry Henzel e Amor maldito della brasiliana Adélia Sampaio. Si arriva al samurai filosofo interpretato da Forest Whitaker in Ghost Dog di Jim Jarmusch del 1999, film da rivedere in mezzo a tante gemme da scoprire.

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Cultura e Spettacoli

La famiglia del faro al giro di boa

Musica Ancora sulla breccia: dopo quasi vent’anni di silenzio, l’insperato ritorno dei Lighthouse Family scatena

un piccolo terremoto sulla scena pop inglese

Benedicta Froelich Come ogni appassionato di musica anglosassone ricorderà, a metà degli anni ’90, proprio in piena esplosione britpop, la scena «made in UK» ha vissuto un momento di grazia in cui – accanto agli esperimenti a cavallo tra surrealismo e rock rabbioso di formazioni allora sulla cresta dell’onda quali Blur e Oasis – si è sviluppata una corrente musicale quasi anomala e a tratti ignorata dal grande pubblico, caratterizzata da brani delicati e melodici e ballate inguaribilmente romantiche e suadenti. Diversamente dai nomi meno noti di quel periodo, la formazione dei Lighthouse Family (appellativo dietro il quale si è, per parecchi anni, nascosto il duo easy listening composto da Tunde Baiyewu e Paul Tucker, rispettivamente cantante e tastierista) è riuscita così a ottenere ottimi riscontri popolari, il tutto grazie all’estrema orecchiabilità della propria produzione e ad alcuni eccellenti piazzamenti nelle classifiche internazionali con pezzi dallo spirito romantico, eppure vitalista, come Lifted e High. Ciononostante, i Lighthouse Family sembravano essersi definitivamente ritirati dalle scene, come suggerito dall’improvvisa latitanza seguita a Whatever Gets You Through the Day (2001); eppure, oggi il duo di Newcastle, già brevemente ricostituitosi nel 2010, torna alla ribalta con un nuovo album, nientemeno che un doppio – di cui il secondo disco, Essentials, è, in realtà, composto soprattutto da remix

e versioni alternative di brani tratti dai tre precedenti album firmati da Tucker e Baiyewu. E dal momento che il grande talento dei Lighthouse Family risiede da sempre nel timbro e nel cantato particolarmente morbidi di Tunde, non stupisce che, anche in questo Blue Sky in Your Head, il fulcro di tutto sia proprio l’equilibrio tra la voce vellutata e suadente del vocalist e gli avvolgenti tappeti sonori concepiti dal suo collega Paul. In effetti, i due sembrano non aver voluto in alcun modo alterare la formula che oltre vent’anni fa li ha resi celebri a livello internazionale: sia l’ottima title track del CD, che brani come Waterloo Street e Live Again ricalcano da vicino (addirittura fin dalle liriche!) tormentoni del passato quali il già citato High o Ocean Drive, mentre pezzi più intensi quale gli eccellenti Put My Heart On You e Immortal dimostrano come il gruppo sappia anche sfornare classiche hit ballabili. Inoltre, nel cimentarsi in pezzi più ritmati e spensierati, il duo mantiene l’abituale usanza di effettuare contaminazioni a cavallo tra vaghe sonorità jazzate e il pop orchestrale di ampio respiro (come avviene in My Salvation, singolo apripista dell’album, ma soprattutto nel nostalgico Super 8, in cui la sezione ad archi risulta fondamentale per il successo del brano). Ecco quindi che, per quanto non troppo originali dal punto di vista strettamente musicale, ballatone soft del calibro di Who’s Gonna Save Me Now, Under Your Wings e Light On ri-

Blue Sky In Your Head è il secondo disco del doppio album dei Lighthouse Family.

sultano emotivamente coinvolgenti, proprio come, del resto, è sempre stato con il catalogo dei Lighthouse Family, che mostra una particolare grazia nel coniugare leggerezza e sentimenti profondi; ne è un esempio l’epico lento Clouds, che non a caso ha riscosso particolare successo tra i fan di vecchia data. Non solo: tale grazia si ritrova

perfino nel secondo CD dell’album, dedicato a rimaneggiamenti assortiti del repertorio del duo. E sebbene chi scrive abbia sempre trovato difficile nutrire una qualsiasi forma d’interesse verso l’arte del remix, bisogna dire che anche stavolta Tunde e Paul hanno mostrato grande gusto, evitando di piegare la propria musica a sonorità

dal sapore troppo dance e riuscendo così nella difficile impresa di impedire qualsiasi reale stravolgimento del proprio sound a fini puramente commerciali. Lo dimostra anche la riproposizione di un raro esperimento gospel come (I Wish I Knew How it Would Feel to Be Free), la cui coda è nientemeno che un omaggio all’immortale One a firma degli U2. Certo, davanti a un album squisitamente easy listening quale Blue Sky In Your Head i puristi della musica impegnata troveranno forse difficile affermare di trovarsi confrontati con musica di particolare spessore o elevata rilevanza artistica; tuttavia, fare di un prodotto di largo consumo uno sforzo di classe è meno facile di quanto si pensi, e la rinnovata abilità dei Lighthouse Family nell’intessere brani orecchiabili e rilassanti, caratterizzati da quelle sonorità «uplifting» che da sempre rappresentano il loro marchio di fabbrica, riesce ancora a dar vita a un perfetto equilibrio tra il più puro sound pop e l’eleganza di contributi orchestrali e sfumature ad alto voltaggio emotivo (si vedano brani emozionanti come The Long Goodbye e The Streetlights and the Rain). Ed è proprio la combinazione di tali elementi a far sì che quest’ultimo lavoro sia degno di essere annoverato tra i migliori esempi di garbato pop radiofonico attualmente disponibili sul mercato: non poco, per un duo che può ormai vantarsi di aver superato la boa dei venticinque anni di carriera. Annuncio pubblicitario

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Idee e acquisti per la settimana

Anche i piccoli animali hanno le loro necessità Conigli e porcellini d’India hanno un aspetto irresistibilmente grazioso. Sono però animali esigenti, che si spaventano facilmente. Per sentirsi a loro agio necessitano di un’ampia superficie chiusa e adattata ai loro fabbisogni, che offra diversivi così come uno spazio dove possano ritirarsi. Naturalmente anche il nutrimento è importante per i nostri piccoli beniamini: i prodotti Vitakraft della Migros aiutano a mantenere un’alimentazione equilibrata.

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Socievole e timoroso

I conigli sono animali sociali che non andrebbero mai allevati da soli, ma assieme ad un altro loro simile. Questi animali, che tendono alla fuga, necessitano di una gabbia molto spaziosa che offra dei nascondigli. Se possibile dovrebbe trovarsi all’esterno e avere una superficie minima di sei metri quadrati. Gli speciali mangimi Vitakraft per conigli e conigli nani non contengono coloranti, conservanti e aromi artificiali. La confezione richiudibile aroma-fresh assicura una freschezza che dura nel tempo. Vitakraft menu vital per porcellini d’India 1 kg Fr. 4.95

Un roditore comunitario

I porcellini d’India sono animali che vivono in gruppo. Ottimale sarebbe per esempio un maschio, castrato, assieme a due femmine. Insieme necessitano di una gabbietta con una superficie di uno o più metri quadrati, con lettiere, spazi dove possano rifugiarsi e oggetti da rosicchiare, per esempio in legno morbido. Vitakraft propone mangimi che contengono vitamine, minerali e oligoelementi d’importanza vitale per la specie. Grazie alle ricette, senza zucchero, i piccoli beniamini si mantengono in salute in modo naturale.

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Cultura e Spettacoli

Una corsa contro il tempo

Tecnologia Grazie al sistema VisualAudio sviluppato dalla Fonoteca nazionale svizzera di Lugano l’archivio storico

di Radio suisse romande è tornato in vita

Zeno Gabaglio Per la Fonoteca nazionale di Lugano si sono da poco conclusi tre anni di instancabile lavoro per sottrarre al disfacimento del tempo 13’000 facciate di disco dai contenuti unici e quindi culturalmente inestimabili. Un evento da salutare con soddisfazione, e forse anche con un po’ di commozione, ma che per essere appieno compreso necessita di qualche premessa.

VisualAudio si compone di tre processi: una fotografia analogica del disco, una scansione digitale e il riconoscimento via software Agli albori della radiofonia, quando nelle singole nazioni prendevano vita le emittenti pubbliche, la creazione e diffusione dei contenuti avveniva in diretta. In diretta erano date le notizie, in diretta veniva eseguita la musica, in diretta si inscenavano i radiodrammi: per quasi tre decenni – tra la fine degli anni Venti e l’inizio dei Cinquanta – non ci fu praticamente modo di pre-produrre i contenuti, e di conseguenza il loro salvataggio e l’archiviazione risultavano piuttosto problematici. L’unico modo

per creare un backup delle trasmissioni passava attraverso la registrazione (sempre in diretta, of course) su dischi acetati: un supporto assai duttile nel breve termine ma estremamente fragile sul lungo. Anche l’archivio della Radio suisse romande dei primordi è stato tramandato su dischi acetati, ma ai giorni nostri è giunto in uno stato praticamente inservibile: 13’000 pezzi unici impossibili da ascoltare perché spezzati o irrimediabilmente curvati. Per evitare quella che sarebbe stata un’immane perdita storico-culturale per tutta la Svizzera francofona è però venuto in soccorso VisualAudio, il sistema di lettura ottica (non meccanica) delle incisioni discografiche sviluppato negli ultimi due decenni dalla Fonoteca nazionale svizzera di Lugano, in costante scambio con la Haute école d’ingénierie de Fribourg, la SUPSI, l’Università di Friborgo e l’Università di Berkeley in California. Un team in costante evoluzione guidato da Stefano Cavaglieri, responsabile del dipartimento tecnico della Fonoteca. «VisualAudio raccoglie in sé sostanzialmente tre processi» ci spiega Cavaglieri. «Dapprima una fotografia analogica del disco, successivamente una scansione digitale ad altissima definizione dei solchi riportati sulla stampa fotografica, infine il riconoscimento via software delle frequenze e delle ampiezze tracciate nei solchi del disco per ricavarne la risultante sonora». Il segreto di

Esempio di un disco deteriorato.

questo apparente miracolo è tutto qui: se normalmente – cioè nei giradischi tradizionali – la puntina genera l’onda sonora muovendosi secondo le irregolarità del solco inciso, in VisualAudio queste piccole vibrazioni vengono rilevate otticamente seguendo la dettagliatissima scansione fotografica di un disco, ricreando i singoli movimenti di una puntina virtuale. Come se a riprodurre ogni minimo spostamento (e si

tratta di decine di migliaia di oscillazioni al secondo) fossero degli occhi che guardano un microsolco ingigantito digitalmente. L’intero percorso – dall’ideazione, ai prototipi, al sistema finale – che ha portato a questo risultato prodigioso è inevitabilmente stato complesso, e «ha implicato la risoluzione di problemi di varia natura: ottica, meccanica, matematica e informatica», consen-

tendo infine di «vedere» quello che si pensava non si sarebbe mai più potuto «ascoltare». Com’era lecito attendersi, le reazioni positive a una simile novità tecnica – che rimane in costante aggiornamento, sulla scorta dell’evoluzione tecnologica globale – non sono tardate ad arrivare. «Nel 2011 a VisulAudio è stato attribuito il Premio James A. Lindner, un prestigioso riconoscimento assegnato ogni 3-4 anni da tre enti internazionali riuniti» e nel corso degli anni «le prestazioni offerte da VisualAudio sono state richieste da importanti istituzioni europee come il Phonogrammarchiv dell’Accademia delle Scienze di Vienna». Tra le varie domande arrivate alla Fonoteca di Lugano ce n’è anche stata una piuttosto singolare, proveniente dalla Corte penale internazionale dell’Aia. «Le voci del processo di Norimberga – istruito alla fine della Seconda Guerra Mondiale a carico dei più noti gerarchi nazisti – furono infatti registrate su dischi, ora conservati all’Aia. I dischi sono peraltro in ottimo stato, ma la preoccupazione dei depositari di quei materiali così cruciali per la storia dell’umanità era di poterli digitalizzare con un sistema che – evitando il passaggio meccanico della puntina sui solchi – preservasse intatte le condizioni originali dei supporti, evitando i problemi etici derivanti da eventuali manomissioni. Un compito che VisualAudio, a differenza di tutte le tecnologie precedenti, poteva finalmente assolvere». Annuncio pubblicitario


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Idee e acquisti per la settimana

Grandi tagli per il grill

Papaia alla griglia con caramello e Fleur-de-sel Ingredienti per 4 persone 100 g di zucchero 1,5 dl di panna 2 cucchiai di burro 1 limetta 2 papaie di ca. 350 g ciascuna 2 cucchiai d’olio di girasole 1 cucchiaino di zucchero a velo ½ cucchiaino di Fleur-de-sel per guarnire Preparazione Per il caramello, scaldate lo zucchero in una padella antiaderente finché non assume un colore ambrato. Unite la panna e fate sciogliere il caramello. Fate ridurre la salsa per ca. 2 minuti a fuoco basso. Incorporate il burro. Togliete la pentola dal fuoco e lasciate raffreddare la salsa. Scaldate il grill a 200 °C. Tagliate a spicchi la limetta. Dimezzate le papaie per il lungo. Estraete i semi con un cucchiaio. Mescolate l’olio con lo zucchero a velo e spennellate la polpa dei frutti. Grigliate i frutti con la buccia a fuoco medio diretto per ca. 12 minuti, girandoli solo una volta. Sistemate le mezze papaie sui piatti, irroratele di salsa al caramello e spremete gli spicchi di limetta. Cospargete di fleur de sel e servite.

Fotografie Daniel Aeschlimann, Tina Sturzenegger, Lukas Lienhard, zVg

Frutta fresca e grandi tagli di carne e pesce portano varietà sulla griglia e sono semplici da preparare. L’aspetto più interessante: il cibo è pronto per tutti nello stesso momento

Filetto di salmone su tavoletta per affumicare Ingredienti per 4 persone 1 cucchiaino di sale grosso 1 mazzetto di coriandolo ½ mazzetto di basilico 4 cucchiai d’olio di colza 2 limette pepe dal macinapepe 600 g di filetto di salmone con la pelle (da ordinare al banco del pesce) Preparazione Mettete la tavoletta di legno a bagno nell’acqua per ca. 1 ora. Scaldate il grill a ca. 200 °C. Nel frattempo frullate le erbe con il sale e l’olio. Aggiungete la scorza grattugiata delle limette e condite con il pepe. Dimezzate le limette.

Asciugate il panetto di legno e adagiatevi il salmone con la pelle sulla tavoletta. Spennellate il filetto con la marinata e sistemate il panetto con il salmone sulla griglia. Mettete le mezze limette accanto al pesce e grigliate a fuoco indiretto per ca. 25 minuti con il coperchio del grill abbassato. Ogni tanto spennellate il pesce con la marinata rimasta. Tagliate il filetto sulla tavoletta in grossi tranci, usando un coltello affilato. Servite con le mezze limette. Tempo di preparazione Ca. 15 min + cottura alla griglia ca. 25 min + macerazione ca. 1 h.

Tempo di preparazione ca. 30 min + cottura alla griglia ca. 12 min. Tavolette grandi per affumicatura Weber, 2 pezzi Fr. 29.90 Da Do it + Garden

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Carré di vitello con fagiolini alla pancetta Ingredienti per 6 persone 1 carré di vitello di ca. 2 kg (da ordinare al banco della carne) 2 cucchiai d’olio di girasole sale 2 cucchiai di senape granulosa 800 g di fagiolini verdi 100 g di pancetta 60 g di pangrattato Preparazione Togliete la carne dal frigo ca. 2 ore prima della preparazione. Scaldate il grill a 220 °C. Mescolate l’olio con il sale e la senape e ungete il carré di vitello. Rosolatelo a fuoco diretto per ca. 20 minuti. Riducete il calore a ca. 160 °C. Grigliate il carré con il coperchio del grill chiuso per ca. 50 minuti, finché

la temperatura interna della carne raggiunge 56 °C. Nel frattempo, mondate i fagiolini e lessateli in abbondante acqua salata per ca. 5 minuti. Scolateli non troppo al dente e fateli sgocciolare. Tagliate la pancetta a striscioline e rosolatela in una padella ampia senza grasso. Unite il pangrattato e rosolatelo brevemente. Aggiungete i fagiolini e mescolate bene il tutto. Togliete il carré dal fuoco e fatelo risposare coperto per ca. 10 minuti. Servite la carne con i fagiolini. Tempo di preparazione Ca. 30 min + riposo a temperatura ambiente ca. 2 h + rosolatura ca. 20 min + cottura alla griglia ca. 50 min + riposo ca. 10 min.

Daniel Tinembart Autore di ricette per Migusto

I consigli dei professionisti per la griglia La temperatura è determinante I tagli grandi di carne non vanno messi sulla griglia appena tolti dal frigorifero, ma devono rimanere per un po’ a temperatura ambiente. Durante la cottura alla griglia si consiglia di utilizzare un apposito termometro per la cottura della carne. Così il grado di cottura può essere definito con precisione. Prima di tagliarla a fette lasciar riposare la carne per 5-10 minuti, in modo che i succhi si distribuiscano. Mai a fuoco troppo alto Il carbone rosso incandescente è troppo caldo per grigliare. È perfetto quando sulla brace si è formato un leggero strato di cenere bianca. Regolare il calore modificando l’altezza della griglia. Cottura diretta e indiretta Cuocere per breve tempo i grandi tagli a fuoco diretto, affinché la carne sviluppi i suoi aromi, quindi a fuoco indiretto (non direttamente sulla brace), con il coperchio, fino a cottura ultimata. Affinché il pesce non si attacchi alla griglia Prima di cuocerlo, cospargere di sale la pelle del pesce quindi strofinare con un asciugamano da cucina. Ciò rende meno facile che il pesce si attacchi alla griglia. Per controllare se un pesce è cotto tirare delicatamente la pinna dorsale. Se si stacca facilmente significa che il pesce è cotto. Non dimenticare di pulire Prima di posare il dessert sulla griglia, è opportuno strofinare quest’ultima con una spazzola d’acciaio. In caso contrario la frutta può prendere un gusto indesiderato.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 12 agosto 2019 • N. 33

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Cultura e Spettacoli

Cambiano i tempi, ma non i dilemmi Migranti e migrazioni nel mondo classico Grecia e Roma di fronte allo straniero – Quarta e ultima parte

Elio Marinoni È noto che i Greci, pur politicamente frazionati in una miriade di città stato e profondamente divisi dal particolarismo civico, sentivano di appartenere alla comune stirpe degli Hellenes e contrapponevano questo nome etnico alla nozione di barbaroi, con cui indicavano tutti gli altri popoli con cui venivano in contatto. In origine barbaroi, voce onomatopeica, indicava semplicemente i parlanti una lingua diversa dal greco, che perciò all’orecchio ellenico davano l’impressione di balbettare (fare bar-bar). Col tempo tuttavia a questa nozione si sommò quella di portatori di una civiltà diversa e inferiore a quella greca. L’esperienza delle guerre persiane, che coinvolse buona parte del mondo greco, radicalizzò l’antinomia Hellenes/barbaroi nel senso di una contrapposizione tra dispotismo asiatico e libertà greca.

Come testimoniano molti autori, già nell’antichità ci si interrogava sull’estensione dei diritti civici e politici agli stranieri residenti Barbaroi furono inizialmente per i Greci anche i Romani. Se ne lamenta Catone il Censore (234-149 a.C.) in un passo che trasuda di risentimento e di diffidenza verso il popolo ellenico, definito «una razza perfida e incorreggibile»: «pure noi sono soliti chiamare barbari, e più sconciamente degli altri ci insudiciano con l’appellativo di Opici [cioè Osci, popolazione indigena dell’Italia meridionale]» (Catone, Praecepta ad Marcum filium, fr. 1 Jordan). Con la progressiva conquista romana della Grecia e dell’Oriente mediterraneo e il conseguente intensificarsi dei contatti anche culturali prevarrà tuttavia il filellenismo, ossia un atteggiamento di apertura e ammirazione nei confronti della civiltà greca, che trova compiuta espressione nel famoso riconoscimento di Orazio: «la Grecia con-

Distruzione di un villaggio germanico da parte dei romani, rilievo del 1800 dalla colonna Antonina (o Colonna di Marco Aurelio, 176-192 d.C.) di Roma. (Keystone)

quistata conquistò il rozzo vincitore e introdusse le arti nel Lazio contadino» (Epistole, II 1, 156-157). Si giunge così – con l’unificazione politica del Mediterraneo e con l’osmosi culturale – alla formazione di un impero bilingue greco-romano, che il geografo Strabone, vissuto in età augustea, considera un’isola di civiltà attorniata da barbari. Gli abitanti di quest’«isola» si considerano i depositari esclusivi dei valori dell’humanitas (o della greca philanthropia), un atteggiamento tendenzialmente amichevole nei confronti di tutti gli uomini in considerazione della fondamentale unità del genere umano. Ma questo atteggiamento non ha mai comportato una particolare mitezza nelle operazioni di conquista territoriale (il De bello Gallico di Cesare o la colonna di Marco Aurelio a Roma sono solo due dei tanti documenti che illustrano con dovizia imponenti massacri di barbari), né alcuna proposta di abolizione della schiavitù, considerata un fatto naturale

(oltre che profittevole per l’economia): semmai, si raccomanda – come fa Seneca nella famosa Epistola 47 a Lucilio – di trattare gli schiavi con umanità (anche nell’interesse del padrone!). Ma come si comportavano i depositari dell’humanitas, greci e romani, nei confronti dello straniero non massacrato o non schiavizzato? In altre parole, come si ponevano di fronte al problema dell’estensione della cittadinanza? Un cliché storiografico diffuso contrappone avarizia greca e generosità romana come due diverse risposte al problema dell’allargamento della cittadinanza. La diversità dell’approccio ha probabilmente le proprie radici nella diversa storia dei due popoli: nelle póleis greche la cittadinanza si costituì prevalentemente sulla base dell’isogonia, cioè dell’uguaglianza della stirpe; Roma invece si formò, probabilmente fin dalle origini, con la giustapposizione, sullo stesso territorio urbano, di due etnie diverse (patrizi e plebei). Di qui il carattere di «città aperta», sempre

disposta ad accogliere e assimilare elementi esterni e a elevarli alle massime cariche. Si tratta di un argomento che attraversa tutta la storia di Roma, dal discorso di candidatura al trono dell’etrusco Lucumone, il futuro re Tarquinio (Livio, I, 35) a quello pronunciato dal tribuno delle plebe Gaio Canuleio (445 a.C.) a sostegno del proprio disegno di legge che apriva il consolato ai plebei (IV 3, 10-13), fino a quello tenuto nel 48 d.C. davanti al senato dall’imperatore Claudio a sostegno dell’eleggibilità alle cariche pubbliche dei maggiorenti della Gallia Comata. Nel suo discorso l’imperatore, appartenente lui stesso a una stirpe – la gens Claudia – di remota origine sabina, indicò l’apertura di Roma verso l’altro come il fondamento della sua costante crescita, e sottolineò che la decadenza della Grecia era stata accelerata dalla miope avarizia con cui le póleis concedevano il diritto di cittadinanza e dalla conseguente incapacità di assimilare i vinti: «Agli Spartani e agli Ateniesi, pur così

potenti nelle armi, che altro cagionò rovina se non il respingere i vinti come stranieri? Ma il nostro padre Romolo ebbe tale saggezza da trattare, in un sol giorno, molti popoli come nemici e poi come cittadini. Degli stranieri furono nostri re; dai nostri antichi, non dai moderni, come molti falsamente credono, furono affidate le magistrature ai figli degli affrancati» (Tacito, Annales XI 24, trad. di A. Resta Barrile, Zanichelli, Bologna 1986). A questo atteggiamento di apertura aveva guardato con ammirazione anche il re Filippo V di Macedonia, che in una lettera del 214 a.C. agli abitanti della città greca di Larissa cercò di convincerli a concedere la cittadinanza ai meteci (cioè agli stranieri residenti), argomentando (pur con qualche imprecisione) che i Romani la concedevano perfino agli schiavi: «Una volta che li hanno liberati, li accolgono nella cittadinanza e li fanno partecipi delle magistrature; in tal modo […] hanno ingrandito la loro patria» (Sylloge Inscriptionum Graecarum 543). Filippo non riuscì a convincere i cittadini di Larissa ad assumere un atteggiamento «romanizzante» in materia di concessione della cittadinanza. Roma invece, con la progressiva conquista e assimilazione dei popoli circostanti e quindi con la trasformazione in capitale di un impero mediterraneo, aveva ormai assunto, ai tempi dell’imperatore Claudio, un carattere marcatamente multietnico. In un’operetta scritta intorno al 42 d.C., essa è descritta da Seneca come una città di immigrati: «Osserva questa folla, cui a stento bastano le case di un’immensa città: la maggior parte di codesta massa è priva della patria. Sono confluiti dai loro municipi e dalle loro colonie, insomma: da tutto il mondo. […] Fa’ chiamare per nome tutti costoro e chiedi a ciascuno di che paese sia: vedrai che la maggior parte, lasciata la propria residenza, si è trasferita in questa città, grandissima certo e bellissima, che tuttavia non è la loro» (Seneca, Consolatio ad Helviam matrem 6, 2-3). Cittadinanza multietnica, estensione dei diritti civici e dei diritti politici agli stranieri residenti: problemi di ieri con i quali siamo oggi sempre più confrontati. Annuncio pubblicitario

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Idee e acquisti per la settimana

Indimenticabili gite ad alta quota Quattro proposte di escursioni per grandi e piccoli

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Panorama mediterraneo sul San Salvatore

Secondo un’antica leggenda, il figlio di Dio in persona avrebbe fatto una breve sosta sul San Salvatore durante la sua ascesa al cielo. Questo è anche il motivo per cui da centinaia di anni numerosi pellegrini salgono in cima al monte a piedi. Chi preferisce una via più comoda può giungere in cima al Monte San Salvatore con la funicolare da Paradiso. Una volta in vetta, si può lasciar vagar lo sguardo sul panorama, fino all’orizzonte e forse anche più lontano, mentre i bambini si precipitano nel parco giochi. Quassù, a pochi istanti dalla frenesia della città di Lugano, ci si rilassa facilmente. famigros.ch/sansalvatore

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Scoprire il cuore della Svizzera al Sasso San Gottardo

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Il massiccio del Gottardo è quanto di più simile al centro della Svizzera, sia dal punto di vista geografico che storico: si tratta di un nucleo attorno al quale si è sviluppato lo Stato della Confederazione, dove s’incontrano le quattro culture e le aree linguistiche del paese. Il San Gottardo non è semplicemente solo un passo. Nel corso dei secoli è stato designato come centro d’Europa, arteria vitale, castello d’acqua o roccia nei frangenti della storia mondiale. Proprio al culmine del passo, accanto all’ospizio, il «Museo nazionale del San Gottardo» fornisce informazioni interessanti e variegate sulla storia e l’importanza di questo asse di comunicazione europeo. famigros.ch/sasso-sangottardo

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Funicolare Piotta-Ritom

La funicolare Piotta-Ritom, realizzata nel 1920, percorre una delle tratte più ripide al mondo. Con una pendenza dell’87,8% supera un dislivello di quasi 800 metri su una lunghezza di soli 1370 metri. La funicolare consiste di un solo vagone che serpeggia su e giù dalla montagna con indescrivibile audacia. Pur essendo attualmente gestita da un’azienda privata, la funicolare appartiene alle FFS.

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famigros.ch/piotta-ritom

4 Info: famigros.ch/schellenursli

Passeggia sulle orme di Schellen-Ursli Chi non conosce Schellen-Ursli, il coraggioso fanciullo di Guarda? Passeggiando sul sentiero di Schellen-Ursli a St. Moritz, potrai rivivere con la tua famiglia la toccante storia di questo fanciullo, quasi come se tu fossi parte di essa. Su questo sentiero tematico non ti verrà semplicemente raccontata la storia di Ursli: disegni e sculture di legno raccontano infatti le scene più rocambolesche lasciando spazio anche alla tua fantasia. Il sentiero di Schellen-Ursli a St. Moritz è particolarmente adatto per una tranquilla passeggiata con tutta la famiglia. Si snoda su una lunghezza di circa due chilometri ed è percorribile anche con il passeggino. Per completare l’intero percorso calcola all’incirca un’ora di cammino. Tieni conto che potresti impiegarci più tempo poiché lungo il sentiero si aprono scorci incantevoli e naturalmente sono presenti anche aree attrezzate per grigliate. Un’escursione non è un’escursione senza il picnic!


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Cultura e Spettacoli Rubriche

In fin della fiera di Bruno Gambarotta Quella volta nel monastero buddista Terzo capitolo del trattato sulla «torinesità». La fascia dei miei concittadini che viaggiano allo scopo di accumulare esperienze da raccontare al ritorno è molto ampia. Chi compra un viaggio organizzato «tutto compreso» chiede qualche variazione del programma, tanto per personalizzarlo. Trascorre interi pomeriggi in agenzia, lui di qua e l’impiegato al di là del tavolo, persi in estenuanti conciliaboli a bassa voce. L’impiegato lancia occhiate supplici ai colleghi perché lo vengano a salvare. «Cosa cambia se la nave deve tornare indietro a prenderci? Basta dirlo al capitano, è lì apposta per prendere ordini... Come sarebbe che sull’altro lato dell’isola non ci sono alberghi? Mancano ancora tre mesi alla partenza, c’è tutto il tempo per costruirne uno, basta volerlo....» All’estremo opposto troviamo i torinesi che villeggiano sempre nella stessa località; quest’anno la signora novantenne e in piena salute è sicura di vincere la targa assegnata al

villeggiante più fedele dal momento che ci va tutte le estati ininterrottamente da quando aveva cinque anni di età. Viene battuta da una coetanea che dimostra, documenti alla mano, che sua mamma incinta aveva villeggiato lì già poco prima che lei nascesse. Il villeggiante fedele nelle sue passeggiate, sempre le solite, nota tutti i cambiamenti rispetto all’anno prima, esempio la vite americana al posto della passiflora sul muro della villa della famiglia Pautasso. Sarà questo l’oggetto della conversazione quando tutti sostano con l’aria svagata nella hall dell’albergo pronti a scattare al suono della campana che annunzia l’inizio della cena. Alla prima colazione era stata celebrata la cerimonia del menù; lo chef aveva letto ad alta voce il nome delle portate previste per quel giorno e il villeggiante fedele (e perciò anziano) aveva sostituito il pasticcio di maccheroni con il brodo vegetale e il camoscio con polenta con la fettina di vitello cotta a vapore e – mi raccomando – senza sale.

C’è poi la versione torinese di Indiana Jones, colui che riscatta undici mesi di vita ordinaria con un mese di avventure, preparate sulle carte e sulle guide nei mesi invernali. Lui non è un volgare turista, i turisti sono sempre gli altri, lui è un vero viaggiatore, visita posti di cui i turisti ignorano persino l’esistenza. Due in particolare: l’isola greca non collegata da servizi di linea, abitata soltanto da pescatori che tornano all’alba apposta per cuocerti alla brace il pesce appena pescato e che, quando tenti di ricompensarli, si offendono e il monastero buddista, dove ti accettano solo se superi un esame di filosofia zen in tibetano stretto. «Non mi dire che conosci il tibetano», «No, ma che c’entra, hanno capito subito che non ero un volgare turista che andavo lì solo per poterlo raccontare. È un’esperienza sconvolgente, esci di lì che sei un altro, vedi le cose terrene con un’ottica diversa, respiri sui ritmi dell’eternità. A proposito, come sta andando la Borsa? Ho un pacco di Generali che vorrei vendere...»

Il grande viaggiatore ritorna e ti invita a cena, per mostrare agli amici i quasi tremila scatti digitali che ha portato a casa, senza aver trovato il tempo per selezionare i più interessanti. È un discreto fotografo perciò la visione sul grande televisore sarebbe anche piacevole se non fosse accompagnata dai suoi commenti, dedicati sempre al racconto di quello che stavano facendo i suoi amici mentre lui scattava quella foto. Descrivendo la vita spartana cui deve rassegnarsi il visitatore dello Yemen, proietta una serie di stupendi scatti realizzati a Sana’a, la capitale. In uno si vede la città dall’alto e viene spontaneo domandare: «Bella questa inquadratura. Dov’eri quando l’hai scattata?». «Dalla terrazza dell’Hilton. O era lo Sheraton? Sai com’è, questi grandi alberghi americani si somigliano tutti. Mentre scattavo questa foto Giovanna e Guglielmo sotto l’ombrellone bevevano un long drink buonissimo, fatto con latte di cammella inacidito e la spremuta di un cactus che cresce solo

da quelle parti. L’hai mai assaggiato? Dovresti provarlo una volta o l’altra. Elisa invece era in piscina con Filippo». «No», lo corregge la moglie, «Filippo stava dormendo, ha dormito per tutto il viaggio». «Va bene, hai ragione tu», concede magnanimo il marito. Indica me: «Lui non lo conosce neanche Filippo, perché dovrebbe appassionarsi al dilemma se era in piscina o se dormiva? Piuttosto lì all’Hilton, o allo Sheraton, c’era un barman simpatico, una vera sagoma, aveva uno stock di lenti a contatto e ogni giorno si cambiava il colore degli occhi. Noi ci facevamo su le scommesse, su quale sarebbe stato il colore di quel giorno e per essere sicuro di vincere un giorno gli ho dato una bella mancia ma un altro cliente, un americano pieno di soldi, gliel’ha data più alta della mia e così ho perso. Lì abbiamo fatto amicizia con una famiglia di Santa Croce sull’Arno, hanno un commercio all’ingrosso di pelli, se andiamo a trovarli ci fanno un forte sconto. Vuoi venirci anche tu?»

linguaggio mio e poi degli altri. Mi vennero dei dubbi, se era lo zio Piripicchio che cosa faceva in Valgardena, e senza l’invadente moglie, che non poteva certo essere nascosta, per il volume corporeo e la chiacchiera inesorabile. Mi maceravo nel dubbio, mentre un signore simile allo zio, commosso fino alle lacrime, ripeteva «ecco il zio, ecco il zio». Come rinnegarlo, come negare questa consanguineità e rovinare il sogno di un uomo benestante ma solo. Per anni mi accolse come il zio, poi la vita ebbe il suo corso. Una mano, una pettinatura, per un bambino rapidamente diventano identità: papà, zio. Gli studiosi ritengono che l’identità sia data dal volto, impossibile da non distinguere, nemmeno tra gemelli, ogni volto è unico nel corso dell’intera storia umana. Tanto che il termine «persona» è fatto derivare dal greco prosopon, che significa maschera. Per anni mi sono interrogata: come è possibile che la singolarità di ogni essere umano derivi da qualcosa che copre, che nasconde. Poi forse una luce, la maschera in sé è unica.

La usavano gli attori, quando da uno sul palcoscenico divennero due, come dice Aristotele nella Poetica a proposito delle innovazioni portate da Eschilo nelle tragedie. La maschera definiva in maniera perentoria il personaggio, la persona: Clitennestra, Edipo, Agamennone, Elena, Prometeo… Il pubblico quindi, indipendentemente dal comprendere le parole e i canti, sapeva chi fosse in scena, quale storia sarebbe stata raccontata. Una maschera, in cuoio o in terracotta, non nascondeva, ma indicava il personaggio, con assoluta certezza. Da qui il scivolo del senso, da maschera a unicità dell’individuo. Il tema viene raccolto dalla teologia cristiana, che si trova a fronteggiare il difficile problema di un unico Dio in tre persone. Grazie a questa difficoltà, Severino Boezio, decapitato per mobbing nel 425 d.C., arrivò a definire la persona naturae rationalis individua substantia, una sostanza individuale dotata di razionalità. Temi interessanti, oggetto di grandi studi. Ma tutto questo indagare non porta aiuto sul

piano pratico. Quando entrai di ruolo a Venezia, a Ca’ Foscari, esisteva un look adeguato al filosofo (le filosofe non contavano, eravamo solo due, giovani e molto diverse nel vestire, nelle scelte di vita, negli oggetti di studio). I maschi invece avevano la barba, corta, erano facilmente pingui (lo studio…) nessuno di loro era alto. Vestivano giacche di velluto a coste, camicie mai bianche, spesso a righine, e cravatte di quelle che sembrano – sembravano – un calzino annodato al collo. Per i primi tempi, me la cavavo ascoltando il barbuto e sorridendo. Poi dovetti interagire coi colleghi, distinguere almeno quale materia insegnavano. Disperata, ma neanche poi tanto, cercai di catalogare quelle personae, colore degli occhi, lunghezza dei capelli, accento regionale. Fatica immane e a volte inutile, perché poi i filosofi si trasferivano, andavano in pensione. Queste grandi menti volevano omologarsi, indossavano tutti la stessa maschera, quindi baravano. Nessuno di loro fu mai il zio.

un lampo di superiore intelligenza (-1), decide di mettere il vivavoce in modo da potere, mentre parla, permettere al bimbo di scorrere lo schermo e così rasserenarsi. Infatti riprende a sorridere muovendo il suo agile ditino. scena terza. Si va a fare un giro in barca tra Marzamemi e Portopalo per un’escursione organizzata dall’agenzia «Sapore di mare» e annunciata come una gita nel mare «caraibico» siciliano. Siamo una dozzina su un’imbarcazione non nuova e nemmeno troppo vecchia, con tre giovani gentili dello staff che illustrano le bellezze naturalistiche della zona. A parte qualche preoccupante défaillance ortografica («pomerigio» con una sola g, «spazzi» con due zeta, un «cosi» senza accento), il pieghevole bilingue italiano-inglese era promettente, ma l’escursione lascia alquanto a desiderare per varie ragioni: il giro non è quello previsto sulla carta e la musica a palla non concede un attimo di quiete, sicché lo specchio di mare «caraibico»

si trasforma in una sorta di pedana da discoteca con tuffi sguaiati e sculettamenti, sigarette fumate a raffica e cicche gettate nell’acqua senza ritegno. La parola «inquinamento» acustico e materiale non deve mai essere entrata nel cervello di questi turisti internazionali che sembrano adolescenti in libera uscita serale e che invece sono cinquantenni, uomini e donne (voto: 2+2), per lo più con pance imponenti rigonfie di birra. D’altra parte, in questo agosto 2019, le scene prima, seconda e terza diventano (quasi) nulla se confrontate con certi scivolamenti nella trivialità sboccata e aggressiva da parte di personaggi pubblici che, si diceva una volta, sono quelli che dovrebbero dare l’esempio: come i genitori e i maestri. Prendiamo il turpiloquio. Diventato, annota il «Financial Times», uno strumento utile per fare carriera. Lo dimostrerebbero alcune recenti ricerche sociologiche: chi si esprime come un camionista (poveri camionisti – 5+ di solidarietà – probabilmente

hanno un linguaggio più forbito di un professore universitario, ma restano le vittime del luogo comune…) risulta più «onesto, credibile e convincente» di chi si esprime con toni e parole educate. Le volgarità di Boris Johnson e quelle di Donald Trump fanno crescere il loro consenso, così come le uscite triviali di Salvini? Bene, il linguaggio vincente della politica pare che faccia scuola anche nel mondo bancario, dove secondo un sondaggio della Stanford University l’improperio e la scurrilità aiutano a scalare gli organigrammi, per simpatici «brainstorming» sempre più ricchi di imprecazioni maschiliste e di riferimenti scatologici. Il «brainstorming» è una riunione aziendale, dicono che derivi dalle «quaestiones disputatae» in auge nelle università medievali: ma se letteralmente significa «tempesta di cervelli» diventa sempre più una tempesta di rutti e altri borborigmi di provenienza molto intestinale e pochissimo mentale.

Postille filosofiche di Maria Bettetini L’identità e il zio Che cos’è l’identità? Chi definisce il valore della singolarità? Nella mia vita ho due ricordi, e anche oggi potrei elencare diverse imbarazzanti occasioni. Ma il passato ha un maggior peso, nella sua ingenuità. Il primo fatto davvero avvenuto, intorno ai cinque anni: in una situazione di normale folla, non c’era alcuna paura, i bambini molto spesso – ma davvero molto – erano riportati ai genitori, erano vittime solo di faide famigliari (diciamo «solo» non per salvare o giustificare nessuna delle efferatezze, certo accadute e poco raccontate). Dunque il corso affollato di una città marina: i genitori, i fratelli. Perdo la mano che mi accompagna (già allora affascinata dalle vetrine?) mentre sola mi trovo in mezzo alla folla. Nessuna paura, vedo una mano di uomo abbastanza «anziano» da poter essere quella di papà – allora neppure quarantenne. Mi afferro a quella mano, e si scatena la catastrofe: questo vecchio signore mi dice «ah ah, hai sbagliato!». Che a me arriva come un hai sba-glia-to. L’uomo, divertito, trova subito i genitori

in ansia. Di chi era quella mano? Di un estraneo gentile, di cui solo ricordo la mano. Peggio andò, negli stessi anni, con un affettuoso amico dei miei genitori, che viveva per tutto l’inverno a Ortisei, dove noi trascorrevamo ogni anno una settimana detta bianca, naturalmente in bassa stagione. Quel signore ci aspettava, ci venne incontro, ci accolse con affetto. «Hai visto chi c’è» ripetevano i miei. Lo guardai, e chi era? Però aveva i pochi capelli grigi pettinati all’indietro, ben pettinati, era uomo di mondo. Chi altro godeva tale soluzione tricologica? Mi venne in mente lo zio che chiamerò Piripicchio, che lì in montagna non avrebbe avuto senso. Ma era l’unica possibilità, nella mia confusa memoria. Così, per non deludere nessuno, accolsi il suo affetto con un chiaro «ciao zio», senza nomi, avvolta da un velo di incertezza. Feci così la felicità dell’elegante signore, che esclamò «ecco il zio!» Ebbi un vago senso di turbamento per l’uso di quell’articolo determinativo, il zio. Ma sono sempre stata severa giudice del

Voti d’aria di Paolo Di Stefano Se una sera d’estate un bambino Ho visto (e sentito) cose che voi umani… potete benissimo immaginarvi. La famosa frase di Blade Runner merita di essere capovolta. Abbiamo visto cose che fino a pochi anni fa solo degli extraterrestri avrebbero potuto vedere e a cui oggi assistiamo senza fare una piega, con l’indifferenza che suscitano le cose abituali. scena prima. In una bellissima sera stellata su una spiaggia siciliana, seduti a un tavolino da ristorante, con le onde del mare che vanno e vengono dolcemente una ventina di metri più avanti, due genitori sulla trentina e un bambino sui due anni aspettano la cena. Lui e lei sorseggiano un cocktail, mentre il bimbo è concentrato a giocare con un videogame sul telefonino liberando insistenti e regolari impulsi sonori. Quando arriva il piatto del piccolo, la mamma, con le braccia nude tappezzate di fantasiosi tatuaggi che si inoltrano lungo la schiena e le vanno a coprire il collo fino alla nuca, prende a imboccarlo senza minimamente riuscire a scalfire la sua

occupazione. Il bambino mangia e gioca senza soluzione di continuità tra le due cose, nulla gli interessa della magnifica cornice crepuscolare, nulla del gusto del cibo che ingurgita quasi senza accorgersene, nulla del disturbo che arreca agli orecchi degli altri ospiti del ristorante: né i genitori (1) si pongono domande su quella scena che una volta si sarebbe definita grottesca o sulla passività emotiva e cognitiva del loro pargolo. scena seconda. Aeroporto di Malpensa. In attesa per l’imbarco, un bambino che potrebbe essere il fratellino minore del primo comincia a piangere, seduto sul passeggino. Forse è stanco della lunga coda, penso: invece no. Il padre ha dovuto sottrargli il cellulare per rispondere a una chiamata privandolo della possibilità di scorrere la galleria delle fotografie sullo schermo. Suo padre accelera la chiacchierata per restituire il più presto possibile l’apparecchio al figlioletto che è ormai in preda a un attacco di nervi. Finché il genitore, in


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Idee e acquisti per la settimana

Mai più con la bottiglia vuota!

Foto Cyrill Krähenbühl

Escursionisti e fan della Rivella attenzione: la «Rivella Unlimited Bottle» può essere riempita a piacere gratuitamente e rappresenta un biglietto gratuito per le ferrovie di montagna. Rivella mette in palio ogni ora tre bottiglie

L’escursionismo è una delle attività più amate in Svizzera. La Rivella, dal canto suo, è la bibita svizzera più apprezzata dai consumatori. Per gli appassionati della montagna e per i fan della Rivella ecco ora una buona notizia: con un po’ di fortuna, grazie alla «Rivella Unlimited Bottle», potreste raggiungere gratuitamente con la ferrovia 22 destinazioni di montagna e bere Rivella gratis. La bottiglia rossa di alluminio della Sigg non è in vendita, ma può essere solamente vinta. Da subito sul tappo delle botti-

Il biglietto per le montagne: la rossa «Rivella Unlimited Bottle» di Sigg.

glie Rivella rossa, blu e Rivella Refresh si trova un codice di vincita. Camminare, saltare, vincere

Il codice dà la possibilità di partecipare ad un gioco online. Si sceglie una figura e con essa si cammina e salta attraverso un paesaggio di montagna digitale. Ogni ora viene determinato casualmente un periodo di vincita. I tre partecipanti che, in uno specifico momento, hanno fatto più metri, rispettivamente hanno raccolto più punti, vincono una

«Rivella Unlimited Bottle». In totale vengono messe in palio 6000 bottiglie. La bottiglia è valida come biglietto per le ferrovie di montagna di 22 destinazioni, come per esempio Säntis, Schilthorn o Nendaz. In alcuni ristoranti di montagna selezionati è inoltre possibile riempire gratuitamente di Rivella la propria bottiglia – ogni volta che lo si desidera. Il gioco online dura fino al 13 ottobre. Informazioni e gioco su www.rivella.ch/win


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Vincere su Facebook SportXX e Rivella il 16 agosto sorteggiano sulla pagina Facebook di Rivella dieci zaini da trekking Trevolution con la «Rivella Unlimited Bottle» inclusa. Non dovete fare altro che indicare quale tra i due modelli illustrati a sinistra è il vostro zaino preferito. Con un po’ di fortuna farete presto una gita nella natura con un nuovo zaino.

Qual è lo zaino giusto? Ronny Biggel, SportXX Grüzepark Winterthur «Prendete in considerazione quanto tempo può durare l’escursione, poiché ciò determina il volume dello zaino. Gli zaini per una gita giornaliera hanno un volume da 10 a 35 litri, mentre quelli da trekking per più giorni sono ottenibili a partire da 32 litri. Fate anche attenzione che abbia una buona imbottitura delle spalline e uno schienale traspirante. E se dovesse piovere improvvisamente, un parapioggia integrato è un vantaggio ulteriore». Altri consigli: Sportxx.ch

Partecipazione su: facebook.com/rivella

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