Azione 34 del 21 agosto 2023

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edizione 34

MONDO MIGROS

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SOCIETÀ

Il progetto «Via vai... ma se vuoi stai!», uno spazio mobile dedicato al dialogo e al confronto tra giovani

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TEMPO LIBERO

A Porza tornano a correre le casse di sapone per animare la 51esima edizione dell’appassionante gara

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Il punto sul caso Ruag che ha portato alle dimissioni di Brigitte Beck, ceo della società elvetica

ATTUALITÀ Pagina 23

Sguardo sul biologico del Ticino

CULTURA Pagina 33

Scrittore e poeta, fondatore di Tinyclues, David Bessis racconta fascino e segreto della matematica

La surreale scazzottata tra Musk e Zuckerberg

Carlo Silini

A meno di nuovi colpi di scena intervenuti dopo la stampa di Azione, l’annunciato incontro di arti marziali miste tra Elon Musk e Marc Zuckerberg non si farà. Peccato, poteva essere la scena di un film di Tarantino, dove il regista prende a caso le tessere dal mosaico del trash che lo circonda e le butta nel frullatore di una narrazione così esagerata che non puoi fare altro che metterti in poltrona e goderti lo spettacolo. Tutto era nato da una provocazione di Musk che a fine giugno aveva evocato l’organizzazione dello scontro in una location «epica» in Italia. Ma i contorni dell’evento sono rimasti così vaghi che la scorsa settimana Zuckerberg ha perso le staffe: «Se Elon decide di prendere la sfida seriamente, proponendo una data e un luogo, sa dove raggiungermi. Altrimenti, è il momento di andare oltre» ha scritto su Threads, versione testuale di Instagram. Ci sono stati vari altri scambi tra i due e venerdì, gigioneggiando,

Musk ha spiegato che l’incontro sarebbe saltato: «Zuckerberg ha rifiutato l’offerta – ha twittato (se di dice ancora così) – perché non è interessato a questo approccio». Pace e amen. Fine di un’assurda leggenda metropolitana estiva. E così, di tutta la grancassa mediatica delle scorse settimane, non resta che una coda di speculazioni e sacrosanti sfottò. Immaginare due miliardari che si picchiano in gabbia a me fa lo stesso effetto delle partite tra la nazionale di calcio cantanti e le ex glorie del football. Sei bravo a cantare? Fai i concerti. Sei bravo a fare gol? Fai il calciatore. Non è che siccome hai talento col microfono puoi pretendere attenzione anche quando ti metti a palleggiare con un vecchio centravanti di razza. E non è che siccome sei un faraone dell’economia mondiale sei anche una divinità dell’ottagono da combattimento.

Intristisce – come ha osservato Aldo Sofia su «la Regione» – aver visto il governo di Roma

genuflesso e galvanizzato dall’idea che la sfida si svolgesse in terra italica, magari all’Arena di Verona o a Pompei: briciole di gloria non per il patrimonio culturale della Penisola, ma per l’eccitazione provinciale di vedere il Belpaese «nobilitato» in quanto sfondo pubblicitario sufficientemente pittoresco per la baruffa.

Che due tra le persone più ricche del pianeta, guru genialoidi nel campo delle nuove tecnologie – il primo è il patron di Tesla, di SpaceX e di X (Twitter); il secondo è il fondatore di Meta (Facebook) e dei suoi remunerativi addentellati – si punzecchino pubblicamente ci sta.

Ma nel mondo reale la retorica della rivalità si gioca sul paragone tra le rispettive offerte, sul messaggio sottinteso: «Il mio prodotto e/o i miei servizi sono meglio dei tuoi». Non sulla prestanza fisica o sulla scazzottata in calzoncini, maglietta elasticizzata e paradenti dei boss dell’azienda. Invece, ridendo e scherzando, alla fine

tutte e due hanno alimentato questa storiella da Topolino, questo fumettistico corpo a corpo tra Paperon de’ Paperoni e Rockerduck. Non a caso nei giorni scorsi, riferendosi alla vicenda sul «Corriere della Sera», Beppe Severgnini ha sostenuto che Musk e Zuckerberg «si contendono l’Oscar dell’Infantilismo».

I moltissimi che nel frattempo si sono bevuti questa favola gladiatoria devono aver creduto che il segreto del loro successo consistesse nell’abilità nel fare a botte. Come se fosse logico pensare che uno col portafoglio di quei due abbia automaticamente il fisico di Tyson. E viceversa. Se fosse vero, l’anno prossimo decine di migliaia di pugili, lottatori, atleti d’ogni categoria, ma anche artigiani dagli avambracci nodosi, boscaioli, scaricatori di porto, muratori e gente di fatica in genere scavalcherebbero nella classifica dei miliardari di Forbes sia Musk che Zuckerberg. E a questo punto se lo meriterebbero.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 21 agosto 2023 Cooperativa Migros Ticino
◆ ● G.A.A. 6592 San t’Antonino
Simona Sala Pagine 6-7

Di corsa verso la 17esima edizione della StraLugano

Evento ◆ La manifestazione sportiva avrà luogo sulle rive del Ceresio il 23 e il 24 settembre e sarà all’insegna del divertimento

Quella di quest’anno sarà un’edizione dedicata alla sostenibilità. Manca un mese al rinnovato appuntamento per la gara podistica luganese, ma le iscrizioni sono già aperte. Giunta alla sua XVII edizione, la StraLugano metterà di nuovo a confronto tantissimi podisti che si contenderanno i migliori posti in classifica. L’evento è organizzato per accogliere ogni tipo di partecipante, con l’obiettivo di far sentire tutti a loro agio: non ci sono restrizioni di età e il gesto atletico richiesto è alla portata di chiunque, grazie ai vari percorsi progettati a tale scopo.

L’evento prenderà il via con la FunRun (23 settembre, alle 16.30) che impegnerà i corridori per 5 km. Questo percorso è dedicato a chi vuole cimentarsi in una gara tutta d’un fiato, ma godersi al contempo i magnifici scorci che la città può offrire: 5mila metri di strada che si snoderanno per

Concorso

«Azione» mette in palio 20 iscrizioni per una gara a scelta all’interno della StraLugano tra le corse: 5 km, 10 km, 21km e Monte Brè Challenge Race. Per partecipare all’estrazione inviare una e-mail a giochi@azione.ch (oggetto: «StraLugano») indicando i propri dati personali e la propria e-mail entro domenica 27 agosto 2023.

le rive del Ceresio, attraversando anche il suggestivo Parco Ciani. Raddoppiano i km, raddoppia la sfida. Durante lo stesso giorno, alle ore 18.30, la CityRun propone 10 km di tracciato, che alternerà i suoi scenari tra il lungolago, il fiume Cassarate e le vie della città. Il prefestivo si chiude alle 20.30 con la Run4Charity, 3 km alla portata di tutti, in un ambiente di totale solidarietà per sostenere le organizzazioni benefiche aderenti.

Domenica 24 settembre, invece, mette alla prova i più caparbi nella Monte Brè Challenge Race. La partenza sarà alle ore 9.30. Non importa come, non importa perché, e non conterà nemmeno la fatica, il sudore, la sete o il desiderio di fermarsi dinanzi ai 730 metri di dislivello previsti dal percorso: conteranno solo resistenza e voglia di non mollare per raggiungere la vetta del Monte Brè. La vista, una volta arrivati «sul tetto di Lugano», ripagherà tutti gli sforzi fatti nei metri precedenti. Tra un marciapiede, i semafori lampeggianti, la fontana di piazza Manzoni, la vista sul Lago Ceresio e una folla di appassionati, ecco che avrà poi luogo sua maestà la 21 km Half Marathon. Questa gara inizia in una zona nevralgica del centro, per poi estendersi imponendo la propria legge per le rive del lago. Un’opzione per chi non se la sentisse, esiste, e consiste nella 21 km HM RelayRun, ovvero una gara a staffetta che permette di suddividere lo sforzo con altre tre persone. Saranno infine i bambini a chiudere la manifestazione nel primo pomeriggio con la KidsRun. Un bre-

ve percorso, diverso a seconda della fascia d’età per offrire a tutti i ragazzi la possibilità di mettersi alla prova. Vincere o perdere sarà secondario, anche perché questa StraLugano è un’edizione dedicata alla sostenibilità (vedi box), per cui – comunque vada – vincerà almeno un po’ l’ambiente. In collaborazione con la Supsi, infatti, analizzando ogni dettaglio di StraLugano, sarà realizzato un Report di sostenibilità, in grado di monitorare e definire i molti aspetti che una gara internazionale come questa presenta.

Informazioni e iscrizioni www.stralugano.ch

Una gara green

Molti gli aspetti che rendono questa edizione sostenibile:

• Incremento dei punti di raccolta e gestione dei rifiuti con la creazione delle isole ECO in collaborazione con i volontari del Gruppo Verde Speranza.

• Medaglie e coppe in legno riciclato al 95 % e prodotte da aziende svizzere o europee.

• Impiego di stoviglie lavabili e riutilizzabili grazie alla fornitura di Ecoglass.

• Auto elettriche sul percorso di gara.

• Gestione dei rifiuti monouso.

• Bici elettriche di Z-Bike Lugano in dotazione al Comitato per gli spostamenti durante i giorni di gara.

• Promozione della mobilità sostenibile per tutti gli iscritti.

Restando in tema dell’ultimo punto, si ricorda che per raggiungere la StraLugano, come da diversi anni, è attiva la promozione del trasporto gratuito con Swiss Runners Ticket (bus e treni) da qualsiasi regione della Svizzera e usufruibile anche dagli stranieri a partire dalla stazione di confine in entrata nel nostro Paese. Tutti i partecipanti alle gare cronometrate potranno quindi lasciare l’auto a casa e utilizzare i mezzi di trasporto pubblici da e per il proprio domicilio.

Dalla cassa Migros al frigo, in maniera sostenibile

Filiale Boffalora ◆ In collaborazione con Frequenze, il nuovo servizio di consegne a domicilio sul territorio di Chiasso è nel pieno della sua attività

Trasportare la spesa non è mai stato così comodo. Capita a tutti, non solo agli anziani o a chi ha problemi di deambulazione o semplicemente ha mal di schiena, un male comune purtroppo, ma anche a giovanissimi o a chi è sprovvisto di un mezzo di trasporto comodo: ci si reca alla Migros per fare le nostre spese e poi si rinuncia alle azioni interessanti, che ci permetterebbero di portare a casa cartoni di latte o di tè freddo, chili di riso e zucchero o anche solo un’anguria ingombrante e scomoda.

Alla Migros Boffalora di Chiasso, da qualche settimana, è invece possibile usufruire di un utile servizio di consegna a domicilio della spesa. Si tratta della messa in pratica di un progetto sociale rivolto a tutta la popolazione del Mendrisiotto, che permette a persone anziane o bisognose, ma anche solo a chiunque lo desideri (non vi è infatti nessuna restrizione) di evitare di portarsi a casa da soli il peso di qualsiasi genere di prodotto, alimentare e non, acquistato presso questa filiale.

azione Settimanale edito da Migros Ticino

Fondato nel 1938

Abbonamenti e cambio indirizzi tel +41 91 850 82 31

lu–ve 9.00 –11.00

Il compito di aiutare chi richiede questo servizio è affidato a diversi ciclofattorini che dispongono una cargo bike elettrica – finanziata dalla Città di Chiasso, Chicco d’Oro, Acqua, gas, elettricità (Age) e da Migros Ticino, oltre che da GodSpeed e Chiara Design: «Sono formati per guidare questi mezzi dotati di un grande vano; portano la spesa a casa in tarda mattinata o durante il pomeriggio», ci conferma Elisa Volonterio, coordinatrice del progetto e fondatrice dell’associazione Frequenze, volta alla promozione economica, culturale, e inclusione sociale, sostenuta dal Comune di Chiasso.

Tutto ciò che bisognerà fare sarà recarsi presso la sede Boffalora, acquistare i prodotti che più si desiderano, inserirli nel carrello e pagarli alla cassa. Una volta terminate le operazioni, bisognerà indicare tramite un formulario la via dove recapitare la spesa, e contribuire alla consegna con un importo pari a cinque franchi ogni due sacchetti, qualunque sia il loro peso.

Redazione Carlo Silini (redattore responsabile)

È stata inoltre introdotta una novità a sostegno dell’ambiente: per sensibilizzare ancora di più la popolazione su quanto sia preziosa l’acqua che esce dai nostri rubinetti (senza dun-

que dover subire processi di lavorazione e finire in bottigliette Pet), si è deciso che le confezioni d’acqua da sei bottiglie da 1,5 litri, se il cliente decide di farsele trasportare a casa, saran-

no consegnate a domicilio al prezzo di cinque franchi. Una proposta del partner di progetto Age di Chiasso, che in questo caso è stata avallata da Migros Ticino.

Elisa Volonterio racconta che momentaneamente la consegna a casa è prevista solo dalla succursale di Chiasso, ma non preclude possibili espansioni del servizio: «Non è detto che in futuro ci siano altre piccole filiali che possano aderire all’iniziativa». I presupposti affinché un tale progetto possa essere esportabile in altri quartieri è che non vi sia già operativa un’azienda come Smood, che si occupa di un servizio simile. Quest’ultima è attiva nelle grandi città, il progetto sostenuto da Migros Ticino e il Comune di Chiasso, invece, punta a offrire supporto ai piccoli nuclei.

Come detto il servizio è accessibile a tutti, ovvero anche a coloro che non hanno particolari esigenze.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 21 agosto 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino MONDO MIGROS 2
/ 14.00 –16.00 registro.soci@migrosticino.ch
Simona
Barbara Manzoni Manuela Mazzi Romina Borla Natascha Fioretti Ivan Leoni Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Telefono tel + 41 91 922 77 40 fax + 41 91 923 18 89 Indirizzo postale Redazione Azione CP 1055 CH-6901 Lugano
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Il momento della consegna al ciclofattorino. (Frequenze)

SOCIETÀ

Bio-Ticino non è solo un marchio È uno stile di vita condiviso con quasi un quarto di tutte le aziende agricole del nostro cantone, ce ne parla Valentina Acerbis-Steiner

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Il grande «sogno» di Byd Accelerare la vendita di auto e altri veicoli verdi, tra cui intere flotte di mezzi pubblici su ruota, così da contribuire a raffreddare la Terra di 1°C

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Gli Skate Park in Ticino

Quello «storico» è a Cornaredo, ma anche le altre strutture sono molto frequentate e nel frattempo si può andare a scuola di skate

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Uno spazio mobile per raggiungere i giovani

Prevenzione ◆ Intervista a Luca Riva, operatore di prossimità responsabile del progetto «Via Vai… ma se vuoi stai!»

Un luogo aperto a tutti, uno spazio di accoglienza, confronto e informazione. Questo vuole, ed è ad oggi, lo spazio dedicato al progetto «Via Vai… ma se vuoi stai!»: un invito rivolto ai giovani a fermarsi, per l’appunto, a chiacchierare con loro pari (i peer), cioè dei ragazzi in formazione, attorno a temi come l’utilizzo di sostanze, ma non solo.

Per tutta la durata del Longlake festival la campagna di sensibilizzazione, coordinata dal Servizio di Prossimità della Divisione Socialità, ha avuto casa nei pressi del Boscetto Ciani, tra il Pop Up di Lugano Bella, i Food Track e vicino al Family Festival. Insomma, un gazebo aperto immerso letteralmente nella folla di giovani e meno giovani che hanno abitato il parco per tutta la durata del festival. Proprio nello spirito del Servizio di Prossimità, che intende andare là dove stanno i ragazzi, essere presente senza imporsi, per accogliere senza costringere. Una permanenza, quella al Parco Ciani, che si inserisce nelle attività di sensibilizzazione e che vedono attivi i peer educator tutte le settimane da maggio a fine agosto presso lo spazio della Foce di Lugano, in concomitanza con Lugano Marittima dal giovedì al venerdì.

Incuriosita, mi sono avvicinata anche io allo spazio «Via Vai… ma se vuoi stai!», e, tra un sound check e uno spettacolo teatrale, ho incontrato il responsabile del progetto, Luca Riva, operatore di prossimità. «L’obiettivo è quello di creare uno spazio di accoglienza e di confronto per tutti i giovani cittadini ma anche per le loro famiglie. Si tratta infatti di un luogo dove è possibile ricevere informazioni e materiale riguardo l’abuso di sostanze e dove si viene a conoscenza di una rete di servizi sul territorio che possono essere d’aiuto in caso di necessità».

Importante, come detto, è essere presenti in contesti di aggregazione, «soprattutto gli eventi organizzati dalla Città in cui si trovano molti giovani. Lavoriamo in contatto con la Divisione eventi e congressi, che nel periodo autunnale poi invernale e primaverile, ci indirizza sulle serate allo Studio Foce con maggiore presenza».

Ma non sono gli operatori stessi a essere presenti, bensì, come detto, i peer educator, ragazzi dell’Associazione INCURF (Insieme Contro l’Uso Ricreativo di Farmaci), nata qualche anno fa e con consolidata esperienza in ambito di sensibilizzazione giovanile. «I ragazzi vengono formati attraverso il progetto Danno.ch dell’associazione Radix, che ha le nostre stesse finalità, anche se rivolte alla riduzione del danno appunto, mentre noi siamo finalizzati oltre che alla prevenzione anche all’informazione». Sono tutti

studenti o neolaureati in ambito sociale e sanitario, e sono presenti per ascoltare e «fare rete», quindi proporre, indirizzare verso servizi con professionisti specializzati.

Il progetto si basa sul dialogo tra giovani per parlare di temi legati al consumo di sostanze ma non solo

«La realizzazione di “ViaVai… ma se vuoi stai!” è stata voluta in primo luogo dal Municipio, attraverso un gruppo di lavoro interdivisionale in collaborazione con la Divisione eventi e congressi e la Polizia di Lugano». Il progetto ha preso vita nell’aprile 2022 alla Foce di Lugano, luogo non casuale, sede dei grandi ritrovi spontanei giovanili sulle rive del lago durante la pandemia. Ritrovi che avevano causato spesso tensioni con le forze dell’ordine e probabilmente messo in evidenza una problematica sociale legata alle sostanze stupefacenti. «Si è incrementato l’utilizzo di queste sostanze, era necessario uno spazio di accoglienza e confronto».

Secondo le statistiche interne, da ottobre 2022 a giugno 2023 le presen-

ze al progetto «Via Vai…ma se vuoi stai!» sono state attorno al migliaio, con una media di 36 presenze a sera. «A volte è qualcuno che chiede una brochure, a volte invece c’è la volontà di raccontare la propria storia. Per ora il riscontro è positivo, tenendo in considerazione il fatto che esistiamo, con questo progetto, da così poco tempo. Si tratta di utenze che vanno soprattutto dai 18 ai 30 anni, ma si rivolgono a noi anche famigliari o insegnanti».

Il Servizio di Prossimità della Città di Lugano invece è una realtà a oggi ben radicata nel nostro territorio. Dialogo aperto, facile accesso, assenza di giudizio e presenza costante sul terreno, queste alcune delle caratteristiche del lavoro svolto dagli operatori sociali di prossimità. «Lavoriamo molto sulla relazione con le persone. La durata dell’accompagnamento è soggettiva, come pure la struttura del lavoro» ci racconta Luca Riva. Una libertà da strutture fisse che permette di adeguarsi alle richieste degli utenti, «si negozia coi giovani, si valutano le diverse necessità, a volte si inizia con un’assistenza burocratica per scoprire che c’è altro. Si crea una relazione, si instaura un dialogo, anche davanti a un caffè e se la persona è ben

disposta la si sostiene e indirizza in più ambiti».

Ma che cosa differenzia il sostegno di un operatore di prossimità rispetto per esempio ai professionisti del campo della salute mentale, o all’assistenza sociale? «Soprattutto la presenza sul territorio. Riusciamo a individuare precocemente le situazioni di disagio, prima che il giovane si presenti al servizio. Si inizia con un approccio informale, e se si viene a creare una relazione di fiducia possiamo accompagnare il ragazzo, o comunque informarlo sugli aiuti che ci sono». Un lavoro di rete estremamente importante che mostra all’utenza una panoramica delle possibilità di consulto e permette una progettualità per il futuro.

«Nel 2003 Ingrado (il Servizio ticinese di cura dell’alcolismo e altre dipendenze, n.d.r.) ha iniziato a proporre un approccio di prossimità con i tossicodipendenti. Sono stati i primi nella Svizzera italiana. Poi nel 2008 siamo nati noi come Prossimità giovani. A poco a poco questa metodologia si è poi diffusa negli altri centri urbani come Chiasso, Mendrisio, Bellinzona e Locarno e nel Malcantone».

La tendenza rispetto all’utilizzo

di droghe da parte dei giovani, oggi sembra aggravarsi. Per Luca Riva, «non è che peggiora o migliora, semplicemente ci sono richieste diverse, e in questo periodo ce ne sono di più. Non bisogna vedere sempre tutto negativo. I ragazzi hanno vissuto un periodo devastante, a causa del Covid, e dobbiamo capirli. Anche la polizia si sta avvicinando molto ai loro bisogni, ovviamente con altre modalità, ma collaboriamo costantemente. Non mi piace che il dito sia puntato sempre sui giovani. Sono il futuro, stigmatizzarli non serve, loro ne sentono il peso e la situazione rischia di diventare ancora più carica di ansia. Per me è importante sostenerli e saperli ascoltare, accoglierli con le loro visioni, le loro fragilità, le loro risorse, le loro problematiche e i loro desideri. Alcuni di loro dicono: nessuno mi ascolta, perché ti interessi a me? Questo mi ha stupito, significa che non vedono più interesse e ascolto nelle figure adulte». Aiutare i ragazzi a trovare gli strumenti necessari per superare un periodo difficile è l’obiettivo degli operatori di prossimità: «Essere la loro spalla e poi pian piano, quando hanno acquisito strumenti e risorse, lasciarli andare mantenendo però un contatto, un legame e l’affetto».

● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 21 agosto 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 3
La postazione del progetto animata da ragazzi formati in ambito sociale per interagire con i loro pari. (Città di Lugano) Valentina Grignoli

Melanzane che bontà

Attualità ◆ Grazie alla loro versatilità, le melanzane sono tra gli ortaggi più apprezzati dell’estate

La produzione di melanzane nostrane va da marzo a novembre. Gli ortaggi sono coltivati in tunnel, in serra e in serra hitech. La produzione totale stagionale si aggira circa sulle 1000-1200 tonnellate, di cui il 98% da produzione integrata e il resto biologica. Il riscaldamento della produzione può essere considerato al 100% Co2 free. L’80% delle melanzane sono prodotte in serre riscaldate con energia alternativa derivante da termovalorizzazione, il resto in serre e tunnel non riscaldati. Oltre alle classiche melanzane allungate, la produzione annovera anche melanzane striate, tonde viola e mini a grappolo.

Le melanzane possiedono un sapore relativamente neutro, il loro aroma si sviluppa quando sono abbinate ad altri ingredienti. Sono degli ortaggi che richiedono di essere cotte prima del consumo. Prima di essere cucinate, le melanzane affettate devono essere cosparse leggermente di sale e lasciate spurgare per ca. 30 minuti. Questo procedimento permette non solo di perdere l’acqua di vegetazione, ma le rende anche più dolci, tenere ed evita che assorbano troppi grassi. Le melanzane sono di facile digestione e diuretiche.

Un pane della settimana gustoso e salutare

Attualità ◆ Il pane proteico You promette momenti di piacere all’insegna del benessere

Insieme ai carboidrati e ai grassi, le proteine rappresentano una delle sostanze nutritive essenziali per il nostro organismo. Le proteine svolgono un ruolo importante per il potenziamento e mantenimento muscolare, ma anche per l’equilibrio ormonale, la coagulazione del sangue e per il rafforzamento generale del sistema immunitario. Gli alimenti particolarmente ricchi di proteine possono contribuire a migliorare il nostro benessere. Tra questi annoveriamo anche il gustoso pane proteico You, un prodotto che arricchisce la nostra alimentazione di questa preziosa sostanza. Oltre al suo alto contenuto di proteine vegetali, questo pane contiene anche molte fibre

che aiutano a digerire bene e saziarci a lungo. Il suo aroma pronunciato è dato dalla miscela di diversi cereali e semi con cui è panificato, tra cui farina e crusca di frumento, farricello di soia, semi di lino, semi di girasole, semi di sesamo e avena. È un pane che può essere gustato in qualsiasi momento della giornata, sia col dolce che col salato. Si abbina bene a burro e marmellata, formaggi sia freschi che stagionati, salumi in generale, salmone e verdure cotte o crude. Grazie alla sua forma rettangolare, è facile da affettare per preparare gustosi panini o tartine. Inoltre, grazie alla sua mollica leggermente umida, si conserva bene anche per alcuni giorni.

Le melanzane sono originarie dell’India e si ritiene che siano state introdotte nel bacino mediterraneo attraverso gli arabi, durante il 13° secolo. Le varietà coltivate sono perlopiù di classica forma allungata con un colore che va dal violetto intenso al nero. L’interno del frutto si presenta poco succoso con semini presenti nella polpa spugnosa. Per svilupparsi bene, le melanzane necessitano di più calore rispetto al pomodoro.

Le melanzane grigliate e ma rinate con pasta di miso, zenzero, aglio, olio di sesamo, aceto, chicchi di melagrana sono un piacere per l’occhio e il palato. La ricetta di questa delizia tutta vegetariana la trovi su migusto.ch.

Ogni paese ha le sue specialità a base di melanzane. Se in Italia a farla da padrone è la parmigiana, un gratin di melanzane, salsa di pomodoro, parmigiano e mozzarella, in Grecia è diffuso la moussaka, piatto composto da melanzane, pomodoro, patate e macinata di agnello o manzo; mentre in Francia è naturalmente famosa la ratatouille, piatto a base di verdure miste stufate.

Pane proteico You

400 g Fr. 3.30

In vendita nelle maggiori filiali Migros

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 21 agosto 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino MONDO MIGROS 4
Foto di Giovanni Barberis

Pronti per l’asilo!

Attualità ◆ Grazie ai graziosi grembiulini disponibili attualmente nei principali negozi Migros, i bimbi saranno perfettamente equipaggiati per l’inizio della scuola dell’infanzia

Restano ormai pochi giorni prima dell’inizio del nuovo anno scolastico e, oltre allo spirito giusto, è importante cominciare ben attrezzati. Tra gli articoli che non possono mancare al rientro sui banchi della scuola dell’infanzia, vi è il classico grembiulino. Questo pratico indumento permette ai piccoli studenti di poter giocare, dipingere, divertirsi, mangiare… senza la preoccupazione di rovinare o macchiare i propri vestiti. È tuttavia importante che esso sia comodo da indossare, robusto e facile da lavare. I grembiulini disponibili attualmente nelle principali filiali di Migros Ticino sono confezionati in Italia da un’azienda artigiana a conduzione famigliare e totalmente al femminile con una lunga esperienza nel settore alle spalle, la Guarducci di Trento. Gli ar-

ticoli sono realizzati in morbidissimo zefir di puro cotone, un tessuto grezzo non trattato con agenti chimici ultimato in Italia con coloranti indantrene. La collezione è stata ideata per rendere divertente la scuola pur mantenendo l’armonia del bambino grazie ad un’impronta vintage che mescola passato e presente. I grembiuli sono ottenibili nei colori blu e rosa, con classico disegno a quadrettini e pratiche tasche laterali. Per la massima comodità dei piccoli, i capi sono dotati di maniche con elastici ai polsi, chiusura a bottoni e colletto alla coreana. Ma non finisce qui: i grembiulini possono essere abbinati ad uno zainetto e ad un bavaglino dello stesso colore, anch’essi presenti nell’assortimento Migros. Tutti i prodotti possono essere lavati in lavatrice a 30 gradi.

Grembiulino rosa o blu

Fr. 25.90

Zainetto rosa o blu

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Bavaglino rosa o blu

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Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 21 agosto 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino MONDO MIGROS 5
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Pancho Villa, un eroe politicamen

Reportage ◆ L’uomo e il generale che fu capace di interpretare come nessun altro la più profonda anima messicana, a cent’anni dalla sua

Basta poco per ritrovare le sue tracce tra i deserti fioriti di cactus della Sierra Madre, spazzolati da un vento rovente che si perde in ruvidi canyon popolati da villaggi fantasma e miniere perdute. È qui che bisogna cercare il general Francisco Villa, roboante nome ufficiale cui sono dedicati innumerevoli villaggi, scuole, piazze e strade del Messico, ma lui è e sarà sempre Pancho Villa per tutto il mondo, capace di interpretare come nessun altro la più profonda anima messicana.

Un’intoccabile santo laico protettore dei poveri per la maggioranza, rievocato e invocato in ogni conflitto sociale, un sanguinario bandito per altri. Un destino segnato per quel suo impasto di follia e furbizia contadina, «impresentabile» rispetto agli standard odierni del più politicamente corretto Emiliano Zapata, l’altro importante caudillo della Rivoluzione.

La più grande debolezza di Villa era il carattere incontrollabile, capace di trasformarlo in pochi istanti da simpatico buontempone a uomo pronto a sparare alla minima provocazione. Un imperatore-contadino dal potere assoluto, un analfabeta che non aveva avuto diritto a un’istruzione ma che fece di tutto per assicurarne una ai figli dei campesinos, fondando scuole ovunque passasse e proclamando: «Preferisco pagare un maestro piuttosto che un generale».

Che cosa significa «bio»?

La fine di José Doroteo Arango Arámbula, il suo vero nome, fu all’altezza di una vita turbolenta.

Centro storico di Zacatecas. La statua Cerro de la Bufa, che raffigura Pancho Villa, commemora la vittoria dell’esercito rivoluzionario; a destra, in alto, Durango, monumento di Pancho Villa; sotto, Zocalo, Città del Messico.

Morì nel 1923, un secolo fa, a 45 anni crivellato nella sua auto Dodge da più di quaranta colpi, incluse pallottole dum-dum utilizzate per la caccia grossa, mentre tornava da Parral dove si era ritirato a fare l’agricoltore, una vocazione che non convinceva tutti, soprattutto il governo che molti sospettarono di essere il mandante. Quanto bastava per dare la stura a trucide leggende sul suo cadavere, sostituito con un altro dopo avergli tagliato la testa, che sarebbe in possesso della società segreta Skull and Bones dell’università di Yale.

L’omaggio dei musicisti norteños al Centauro del Norte

Stile di vita ◆ Valentina Acerbis-Steiner e Gabriele Bianchi, segretaria e presidente di Bio Ticino, ci raccontano le sfide del più naturale metodo di coltivazione e di allevamento che può fregiarsi della «gemma»

Una versione improbabile ma che non stupirebbe troppo perché i gringos non gli perdonarono mai l’invasione del territorio continentale degli

Usa, il 9 marzo 1916, quando cinquecento villistas avevano saccheggia-

All’Azienda agricola Bianchi di Arogno, bio non fa semplicemente rima con uno dei molteplici marchi che ormai siamo abituati a riconoscere (non necessariamente a «leggere», vista la vastità degli stessi), ma rappresenta un vero e proprio stile di vita, un approccio alla natura e agli animali che si riverbera in ogni gesto quotidiano. E ciò è chiaro subito quando si entra nella sede, gestita con entusiasmo e attenzione dall’omonima famiglia da molti anni: un cubo di cemento grigio immerso nel verde, quale sede operativa

«La mia vita è stata una tragedia» confidò a scrittori e giornalisti famosi come Jack London o John Reed, ma neppure la cacciata post mortem dal pantheon ufficiale dei protagonisti della rivoluzione riuscì minimamente a scalfire il suo mito. I suoi cantori sono da sempre i musicisti norteños, «la voce dei poveri», che sotto sdruciti cappelli Stetson immancabilmente neri o bianchi ostentano cinturoni con fibbie d’argento, stivali di lucertola e camicie dai bottoni di madreperla da cui occhieggiano trucidi tatuaggi affollati di Vergini di Guadalupe e Cristi sanguinanti. Solo loro sono capaci di incantare ancora oggi al ritmo forsen -

fico e dal caos del fondovalle, che Gabriele Bianchi si riunisce con Valentina Acerbis-Steiner, segretaria di Bio Ticino, al fine di elaborare nuove strategie e pianificare eventi inediti. Tutt’intorno, fin dove l’occhio può arrivare, è un alternarsi di piante e animali, menta e mele cotogne, pecore e oche, uno stagno con le ninfee e poi gli ulivi, le galline e le api, il vigneto, i meli e i fiori di campo, in ottemperanza alle norme della biodiversità, a quelle scelte ambientali che favoriscono una crescita armoniosa e a ritmi umani.

Una delizia per tutta la famiglia

Spiega Valentina Acerbis-Steiner, «Il biologico sta attraversando un trend di forte crescita: a livello nazionale in dieci anni siamo passati da 6120 azien de biologiche a 7900 nel 2022. Nel no stro piccolo Ticino quasi un quarto delle aziende agricole (23.3%) ticinesi produce biologico, situandosi al quinto posto della classifica nazionale di per centuale di aziende bio. I marchi bio presenti sul mercato sono molti, ma Biogemma è il marchio più biologi co, perché sta per un’idea di sostenibi lità a 360° gradi. In altre parole, se un prodotto è biologico, allora tutto de ve esserlo. Faccio un esempio: se si ha una viticoltura biologica, come questa dell’Azienda Bianchi, occorre nutrire anche le oche con cibo biologico, af finché il loro concime sia per così dire anch’esso “pulito”. È necessario rispet tare il concetto di ciclo chiuso».

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al lungo tavolo di legno con una vista mozzafiato su un paesaggio che pare quasi sospeso, lontano com’è dal traf-

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È un mondo in continua evoluzio ne quello dell’agricoltura, sottolinea Gabriele Bianchi, da una parte per la meteo (che proprio qui si è fatta sen tire violentemente all’inizio di giugno

nato di polke e mazurke di melodrammatici corridos, le sanguigne ballate del Messico settentrionale, un popolo di romantici smodati che ascolta estasiato, sui piazzali polverosi delle feste di paese o nelle ultime cantinas, storie quasi mai a lieto fine, popolate da donne che tradiscono, cavalli fedeli fino alla morte, e ultimamente anche da narcos, scariche di kalasnikov e rombo di elicotteri. Un repertorio in cui non potrebbe mai mancare il Centauro del Norte, come Pancho Villa era chiamato negli anni più gloriosi per la sua simbiosi con Siete Leguas, il cavallo più amato con cui aveva condiviso mirabolanti avventure.

to la cittadina di Columbus nel New Mexico nonostante la debolezza di Villa di fronte a nuovi leader rivoluzionari. Per vendicare l’affronto, gli americani inviarono in Messico una «spedizione punitiva» di oltre diecimila soldati con i mezzi più moderni per l’epoca, camion, motociclette, blindati, otto aerei e persino un dirigibile. Un insuccesso clamoroso. Dopo avere vagato per oltre undici mesi tra canyon e deserti, il generale Perkins e il suo braccio destro, un ancora sconosciuto George Patton, tornarono indietro senza avere visto Pancho Villa neanche da lontano.

Non male per uno che si era guadagnato sul campo gloria e strategia militare, imparando a cavalcare e sparare fin da ragazzo tra le montagne della Sierra Madre, per poi trasformarsi in bandito dopo avere ucciso un proprietario terriero che aveva

violentato la sorella, almeno secondo una delle variopinte varianti che accompagnano ogni storia del general Sicuramente Villa inventò per primo una guerra lampo di fulminee avanzate aggirando le linee nemiche e guidando le sue truppe da un quartier generale mobile; di cui ha lasciato una descrizione impagabile John Reed: un vagone rosso con tende di chintz e peccaminose immagini femminili.

La sua carriera di rivoluzionario iniziò nel 1911 quando si unì a Francisco Madero che aveva iniziato la rivolta contro l’anziano dittatore Porfirio Diaz, così appassionato al potere da restarci per 35 anni. Villa si era distinto per un coraggio pari solo alla sua inguaribile conflittualità, compreso un tentato omicidio di Peppino Garibaldi nipote del più celebre Giuseppe e comandante di una pic-

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con una grandinata che sulla natura ha avuto l’effetto di un piccolo tornado), dall’altra per tutte le pratiche tecnolo giche che nascono giorno dopo giorno.

Valentina Acerbis-Steiner, dalle statistiche scopriamo che in Sviz zera ben il 18 % della superficie uti le è dedicata all’agricoltura biolo gica, con valori più alti nelle zone di montagna…

Ciò è dovuto al fatto che di solito le aziende agricole di montagna sono

rapidi, e lo vediamo oggi, che siamo

confrontati con i vari cambiamenti

Confezione da 5

Come funziona la conversione?

Ogni anno in Ticino ci sono circa 6-7 aziende che iniziano la conversione, che dura due anni. I tempi relativamente lunghi sono dati da diversi motivi. Occorre annunciarsi al Cantone, che è anche organizzatore delle due giornate formative, cui se ne aggiungono altre due di formazione continua nel corso della conversione. Noi di Bio Ticino, occupandoci di formazione tecnica, ossia di questioni legate al biologico, ne organizziamo alcune. In tutto sono necessari 16 crediti. Al lato pratico, per prima cosa si de-

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ve lasciare tempo al terreno di smaltire tutti i residui e permettere una ricostituzione, o rigenerazione. Secondariamente l’azienda agricola, rispettivamente gli agricoltori, devono mettere in pratica le nuove direttive e capire fino in fondo la nuova gestione delle attività. Durante questi due anni i prodotti di chi ha intrapreso la conversione, vengono venduti come prodotti Bio Suisse ma con l’aggiunta di una piccola scritta: «in conversione». Al termine di questi due anni ha luogo la certificazione e l’azienda riceve la gemma. Nello scorso mese di maggio a Landquart è stata ad esempio pianificata una grande giornata sull’allevamento

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 21 agosto 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 6
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Simona Sala Annuncio Enrico Martico, testo e foto

biologico, e noi di Bio Ticino abbiamo organizzato un pullman a costo zero, fornendo accompagnatori bilingue. Questo ha permesso anche ai ticinesi di integrarsi nella giornata che valeva come credito.

In autunno, invece, organizzeremo due incontri qui in Ticino: il 12 ottobre, una giornata dedicata alle erbe aromatiche, e il 9 novembre, una sulla viticultura biologica e le nuove sfide.

Cosa ci vuole per essere considerati azienda agricola?

Per essere considerati un’azienda agricola sono state stabilite delle unità per ettaro o di personale minime, quindi superficie e numero di persone attive.

Come si compone Bio Ticino?

Nell’associazione, per questioni tecniche, sono rappresentati tutti i settori di produzione, cosa che ci permette di rispondere in modo competente alle numerose sollecitazioni che riceviamo. In comitato ci sono 9 persone, oltre a me che gestisco il segretariato. Siamo un gruppo di giovani con un’età media di 35 anni. Fin dalla costituzione dell’associazione – ben 44 anni or sono – si è voluto un gruppo di persone che potesse rappresentare ogni settore di produzione agricola, questo per far fronte alle richieste o alle problematiche di carattere tecnico. Gabriele Bianchi è presidente e specialista nel settore viticoltura e apicoltura. Pascal Mayor, vicepresidente e responsabile di un’azienda di vacche madri (Azienda Agricola Agarta) si occupa di orticoltura e viticoltura nel Locarnese. Ivan Mattei (Azienda agricola Mattei) tiene le mucche scozzesi al piano di Peccia e in estate gestisce l’Alpe Serodano sotto al Poncione di Braga a 2400 mslm. Adrian Feitknecht della Masseria Ramello produce latte bio (e rifornisce anche Migros) ed è attivo nella campicoltura. Chiara Cattaneo gestisce l’orticoltura di famiglia ed è presente settimanalmente nei mercati cantonali. Per il settore caseario e la trasformazione del latte ci sono Luca Ferracin (azienda agricola Grom) con le vacche da latte e Mattia Arnoldi (Azienda agricola Marachiei) per il settore caprino. Abbiamo anche un rappresentante dei trasformatori, ossia Simone Galli di Erbe Ticino, che annovera tra i propri prodotti la tisana di Olivone (realizzata anche con erbe acquistate da Gabriele). Non da ultimo in comitato abbiamo Sibilla Quadri, direttrice del Centro di Competenze agroalimentari Ticino, e rappresentante dei consumatori. L’associazione Bio Ticino nasce dai consumatori un anno prima della fondazione di Bio Suisse. Fra i suoi capostipiti troviamo Renzo Cattori, che ha portato anche alla nascita di ConProBio.

ConProBio, la Cooperativa Consumatori e Produttori del Biologico, come si integra con Bio Ticino?

ConProBio è una cooperativa a sé stante. Ne fa parte Ivan Mattei, che è anche membro della nostra associazione, e con cui abbiamo dato vita alla realizzazione di piccoli eventi, ma fondamentalmente si gestisce in

modo autonomo. In futuro però ci piacerebbe essere un po’ più presenti. ConProBio ha un ruolo molto importante per i piccoli produttori, perché permette loro di smerciare i propri prodotti attraverso un canale facile, diretto e senza intermediari. Molti preferiscono ConProBio perché impossibilitati a dedicarsi alla larga distribuzione, che richiede continuità. A ConProBio il produttore offre di settimana in settimana quello che ha a disposizione, ed essendo il sistema abbastanza snello, ha dei margini diversi rispetto alla grande distribuzione. Oggi ben 15 persone lavorano per ConProBio, e trovo interessante il sistema cooperativa, grazie al quale, quando ci sono degli utili (come durante il periodo Covid), questi vengano ripartiti tra i fornitori e i produttori. Si tratta di un’alternativa importante per i nostri produttori, in cui noi di Bio Ticino crediamo dato che intravvediamo un grande potenziale.

Quali sono gli ambiti in cui è attiva Bio Ticino?

Per prima cosa rappresentiamo i nostri produttori, li sosteniamo, cerchiamo di capire le loro necessità e organizziamo formazioni e tavole rotonde. Cerchiamo di sensibilizzare anche i consumatori promuovendo il biologico locale e il biologico in generale e abbiamo la nostra pagina Instagram, che è attiva e tutto sommato funziona.

Da alcuni anni presentiamo alcuni progetti nelle scuole, in particolare tre. Nel primo, una nostra collaboratrice, membro di comitato, si reca nelle scuole – soprattutto le medie – a fare lezioni di educazione alimentare, illustrando i principi del chilometro zero, e cucinando materialmente con i ragazzi. In questo modo possono rendersi conto che, pur facendo una spesa completamente bio, è comunque possibile stare nel budget. Sempre nelle scuole medie abbiamo un progetto nell’ambito dell’insegna-

bito di questo controllo viene fatta anche la checklist della biodiversità: le misure prese dall’azienda per la promozione della biodiversità riceveranno quindi un punteggio. In questo controllo nulla è lasciato al caso, si valutano l’altezza dell’erba, la presenza di strisce fiorite o di cataste di legno per lo sviluppo di micro-organismi e animaletti, eccetera. La biodiversità può infatti essere promossa in moltissimi modi. Il concetto dei 360° è questo, ci si riferisce a un ciclo chiuso per quanto possibile in azienda: il letame diventa quindi un concime naturale per quei terreni fertili che poi produrranno il foraggio per le mucche, le quali saranno poi vendute, e così via. Un altro aspetto che non va trascurato, a cui Bio Suisse tiene molto, è quello sociale: i salari di chi lavora nell’ambito del biologico devono essere equi. Lo stesso vale per la cura degli animali e per le questioni climatiche: a livello nazionale ci confrontiamo spesso su temi come approvvigionamento energetico e sostenibilità, elaborando insieme delle linee guida. Gabriele Bianchi mostra lo «scarto» di cera proveniente dagli alveari: le parti riutilizzabili vengono acquistate per la produzione di cera da candele, di cosmesi o dei wrap (tessuti cerati per avvolgere gli alimenti), quelle invece ormai inservibili, finiscono in vigna, dove saranno attaccate dai microrganismi, dai batteri, e rientreranno così a fare parte del terreno.

Fate spesso riferimento a Bio Suisse, la vostra associazione mantello. Come si suddividono i compiti tra di voi?

mento delle scienze: prepariamo una lezione ad hoc per aumentare la consapevolezza alimentare nelle nuove generazioni e promuovere un acquisto e un consumo sostenibili.

In collaborazione con SUPSI abbiamo poi implementato «A scuola con B(r)IO», una formazione continua per docenti delle scuole elementari e delle scuole dell’infanzia. I docenti ci portano dei progetti da sviluppare in classe: c’è chi ha sviluppato il mangime per le galline e chi invece si è dedicato alla costruzione di un lombricaio o alla questione della fertilità del suolo. In questo modo alcuni principi dell’agricoltura biologica, come la promozione della biodiversità e l’importanza del suolo, sono stati portati nelle classi e sviluppati. Non da ultimo vi è la comunicazione PR e quella con i giornalisti. Creiamo costantemente sinergie e collaboriamo con enti e autorità, inoltre siamo sempre alla ricerca di nuovi canali per sostenere i nostri produttori bio e la vendita diretta, coinvolgiamo i trasformatori per trovare nuove filiere.

Si parla spesso di sostenibilità a 360°, come ce la dobbiamo immaginare? Bio Suisse si centra molto sulla sostenibilità al 100%, ossia sul concetto di ciclo chiuso in azienda. Da un recente studio (Pfiffner L, Balmer O., 2011) che è durato dieci anni è emerso come le aziende agricole biologiche presentino il 30% in più di biodiversità rispetto a quelle non biologiche. I produttori biologici vengono controllati annualmente da un ente esterno e autonomo, che verifica l’ottemperanza alle direttive Bio Suisse. Nell’am-

Il processo del biologico è in costante divenire, sempre in evoluzione. Al momento a Basilea, sede di Bio Suisse, ci sono circa 90 collaboratori, poiché la mole di lavoro aumenta incessantemente. Bio Suisse è l’associazione mantello sotto cui si trovano 26 associazioni membro; queste non sono necessariamente suddivise per cantone, ma anche per settori, per cui troviamo ad esempio i contadini di montagna. Anche il ruolo di segretariato differisce da associazione ad associazione: la segretaria di Bio Grigioni, ad esempio, lavora a metà tempo pur rapportandosi con circa 1200 produttori – quando noi ne abbiamo «solamente» 190 – ma il suo è un lavoro puramente amministrativo. Alcune associazioni sono più attive di altre, o si muovono in modo diverso, ma alla fine l’organo mantello è sempre Bio Suisse, che ci garantisce anche il sostegno ad alcune iniziative che proponiamo. L’ultima in ordine di tempo è stata quella della Rassegna biologica, con 25 ristoranti sparsi per il Canton Ticino che sulla loro carta hanno proposto almeno tre piatti con ingredienti biologici locali per due settimane.

Come avete ribadito anche voi, i marchi legati all’agricoltura biologica sono ormai moltissimi: come possono orientarsi la consumatrice o il consumatore?

Il marchio Bio Suisse garantisce che le direttive seguite, anche nel caso di un prodotto estero, sono quelle svizzere (e le nostre norme sono fra le più severe). Quando sul marchio troviamo la bandierina svizzera, significa che il 90% degli ingredienti all’interno provengono dalla Svizzera; in caso contrario si troverà il logo Bio Gemma senza bandierina svizzera. Dobbiamo comunque sempre fare attenzione a non confondere sostenibile con biologico, poiché si tratta di due ambiti distinti: il primo non implica la presenza del secondo, e viceversa.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 21 agosto 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino TEMPO LIBERO 7
«Il biologico sta attraversando un trend di forte crescita»
Valentina Acerbis-Steiner Segretaria di Bio Ticino
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Europa-Cina: da cacciatori a facili prede?

Byd (Build Your Dreams; costruisci i tuoi sogni), multinazionale asiatica tra i leader mondiali nella produzione di veicoli a nuova energia (Nev), ha raggiunto lo scorso 9 agosto un importante traguardo: «È un momento storico per Byd: il nostro 5milionesimo veicolo a nuova energia, una Denza N7, esce dalla linea di produzione», ha dichiarato Wang Chuanfu, presidente dell’azienda, in occasione della cerimonia tenutasi presso la sede globale di Byd.

Facciamo qualche passo indietro. Ma che casa costruttrice è Byd? Siamo certi che almeno in Europa dove è arrivata solo nel 2022 è ancora sconosciuta ai più. Byd nasce nel 1995 in Cina, ma opera in realtà nel Vecchio Continente già da diverso tempo con un impegno limitato però al settore del trasporto pubblico.

Dai primi anni 2000 vende bus elettrici grazie a una sede in Olanda e una fabbrica in Ungheria. Alla fine degli anni Novanta ha esordito con la produzione di batterie per telefoni cellulari crescendo rapidamente e catturando in dieci anni più della metà del mercato mondiale, diventando il più grande produttore cinese e tra i primi quattro al mondo di tutti i tipi di batterie ricaricabili.

E le automobili? La Casa di Shenzen ha diversificato il suo business

con le quattroruote (ma non solo) e si è concentrata con successo essenzialmente sul mercato interno. Nel 2021 è arrivata a vendere in Cina 730mila vetture di cui circa 600mila elettriche o ibride. Nella prima metà del 2022 ha piazzato ben sei modelli nella top dieci dei modelli più venduti nella «Terra del Dragone». Oggi festeggia i 5 milioni di esemplari prodotti.

Se a Byd sono serviti 13 anni per produrre il primo milione di veicoli a nuova energia, le sono bastati 18 mesi in più per raggiungere i 3 milioni, e dopo soli altri 9 mesi ha centrato il risultato odierno.

Nei primi sette mesi del 2023 le vendite sono state pari a 1,5 milioni di unità di cui «solo» 92’479 unità vendute all’estero. Insomma, le sue auto piacciono e quindi c’è da aspettarsi che si diffonderanno anche da noi abbastanza rapidamente.

D’altra parte, dal 2010 Byd sta espandendo attivamente la propria presenza a livello globale, introducendo strategicamente autobus e taxi a nuova energia per l’elettrificazione del trasporto pubblico. Con un decennio di sforzi dedicati, le soluzioni Byd per il trasporto pubblico elettrico sono ora operative in oltre 400 città in più di 70 Paesi. Nel 2022 Byd ha investito oltre 20 miliardi di renmin-

bi (valuta cinese equivalente a circa 2 miliardi e mezzo di franchi svizzeri) in ricerca e sviluppo, registrando un notevole aumento del 90,31% rispetto all’anno precedente. A luglio 2023, grazie a un team affiatato di oltre 90mila professionisti del reparto Ricerca e sviluppo, Byd ha dimostrato la sua abilità innovativa depositando oltre 40mila brevetti su scala globale, di cui più di 28mila già

approvati. Le risorse non le mancano di certo, basti pensare che la sua capitalizzazione nel 2022 è pari a 134 miliardi di dollari. Insomma, i numeri parlano e ci suggeriscono che l’invasione è alle porte. Inizialmente siamo stati testimoni di come i costruttori europei si siano mossi verso la Cina pensandola come terreno di facile conquista. Oggi va detto che l’Europa resta ancora un riferimento per quan-

to riguarda il settore del lusso, anche a quattroruote, ma negli altri settori da cacciatori siamo diventati facili prede.

Eppure, ormai trent’anni or sono, nel 1993, Opel assieme ad altri costruttori era coinvolta in un programma quadriennale di sperimentazione sull’isola tedesca di Rügen che divenne, se non proprio la «capitale dell’automobile elettrica», quantomeno un banco di prova fondamentale per il suo futuro sviluppo.

Si era partiti in tempo. Nella più grande isola della Germania, situata nel Mar Baltico di fronte alle coste del Meclemburgo-Pomerania Occidentale, Rügen, Opel portò una flotta di dieci prototipi Impuls III (terza generazione del progetto avviato nel 1990) a motore asincrono trifase che percorsero in totale più di 300mila chilometri.

Oggi Opel, come altri, è avviata alla transizione elettrica che passa dall’ibrido e ha in gamma diversi modelli. Facile trovarne uno che piaccia e molto. Eppure la sensazione davanti ai numeri di Byd è quella di aver perso un treno, di essere arrivati lunghi. L’ultimo «sogno» di Byd? Accelerare la transizione verso un futuro più verde contribuendo a raffreddare la Terra di 1°C. Almeno tra Europa e Cina gli obiettivi sono comuni per tutti. Pace è quasi fatta. O forse no…

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Motori ◆ La multinazionale asiatica tra i leader mondiali, Byd, si sta espandendo a chiazza
conquistandosi a suon di cifre il mercato dei veicoli elettrici
d’olio
Mario Alberto Cucchi
Nel 2021 la Byd è arrivata a vendere in Cina 730mila vetture di cui circa 600mila elettriche o ibride; oggi festeggia i 5 milioni di esemplari prodotti. (Spielvogel)
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La costante ricerca di un bel «trick»

Territorio ◆ L’evoluzione degli Skate Park in Ticino, amatissimi dagli appassionati di una disciplina che nel frattempo è diventata sport olimpionico. Il prossimo dovrebbe sorgere a Mendrisio dove la popolazione è chiamata ad esprimersi sul progetto

Guido Grilli

Danzano sulla tavola, un piede spinge incessantemente e poi la discesa, una rampa, ora un salto e subito dopo un’acrobazia da lasciarti stupefatto. Le braccia che roteano in espressioni di libertà. «Benvenuti nel mondo degli skate», sembra dire Samuele, 19 anni, che ci fa strada in un pomeriggio plumbeo nel suo regno e a un tempo il più vecchio, grande e frequentato Skate Park del Ticino, quello di Lugano Cornaredo.

«Dalla strada, oltre la rete, potrai vedere questi giovani duri e imbronciati, ma è solo apparenza, perché noi siamo forse le persone più pacifiche al mondo, c’è molta solidarietà. Frequento questo luogo da più o meno tre anni, ho iniziato da autodidatta con il “longboard”, una tavola più lunga per poi passare a quella classica. Pratico principalmente “street”, in quest’area della struttura» – indica allargando il palmo della mano. «Evito invece la “bowl” dall’altra parte, perché spesso non si riescono a vedere i bambini dietro le rampe che girano con il monopattino».

Il nostro interlocutore – accanto la sua ragazza, Leila, stessa età che, tavola riposta nello zaino, chiarisce subito, «sono alle prime armi, è lui che da poco mi ha convinta» – amplia l’argomento: «In Ticino esistono diversi gruppi, anche se io non ne faccio parte. Due di questi vanno forte, i Warriors The Family e i Poorskateboarding. Li conosco e sono davvero formidabili, hanno cambiato il

Errata corrige

Nella scorsa edizione la fotografia pubblicata con l’articolo di Enrico Morresi a pag. 8 intitolato «La lenta ascesa femminile», non si riferisce a Cora Carloni, come erroneamente indicato nella didascalia, ma a Luigia Carloni-Groppi. Ci scusiamo con i lettori.

Viale dei ciliegi

Vivian Lamarque, illustrazioni di Matteo Arosio, Animaletti vi amo

Solferino Young (da 5 anni)

Sa passare con grazia dalla scrittura per adulti a quella per bambini, e non è scontato che un grande scrittore per adulti sia anche un grande scrittore per bambini. Vivian Lamarque lo è: soprattutto poetessa quando si rivolge ai grandi, è invece prevalentemente narratrice quando si rivolge ai bambini. Narratrice di storie delicate e brevi, percorse da umorismo e malinconia, ma leggera, subito stemperata dal calore di una scrittura in cui la voce narrante si affaccia a tratti, per rivolgersi direttamente ai piccoli lettori, sollecitandone la partecipazione, condividendo toni emotivi, anticipando domande, coinvolgendoli nella dimensione etica che sottende ogni vicenda. Ma, sebbene questa dimensione sia chiara fin dall’inizio – «A tutti gli animaletti (specie a quelli che vengono maltrattati) e a tutti i bambini (specie a quelli che se ne accorgono e li difendono)» recita la dedica – non è mai esplicitata con pesantezza, ma

modo di concepire lo skate in Ticino, avvicinando molti giovani, io stesso ho iniziato grazie ad alcuni di loro e mi sono ritrovato qui al Park in un bell’ambiente, dove sono ormai di casa, ci vengo spessissimo appena ho un po’ di tempo libero. S’impara sempre e i più grandi, attorno ai trenta, spingono per migliorarti». Riprende

Samuele: «La qualità delle rampe è buona, a parte una crepa là in alto. E la superficie è ottima, oltretutto con la pioggia si asciuga subito». Ma anche in periferia la passione per la tavola appare intramontabile. A Capriasca da oltre un decennio c’è lo Skate Park di Tesserete, in via alle Pezze, all’Arena Sportiva – «è più piccolo di quello di Lugano – assicurano i frequentatori – ma adatto per chi intende imparare a “skateare”». Dispone di rampe e elementi distribuiti su una superficie di 320 metri quadri. È accessibile tutti i giorni dalle 14 alle 19. Ma la strada… politica affinché gli skater ottenessero il loro parco dei desideri – reclamato sin dagli anni Novanta – non è stata priva di ostacoli. Il tema, approdato in Consiglio comunale una prima volta nel 2009, aveva visto la bocciatura del credito. Anche il rumore e le perizie foniche sono state un passaggio obbligato prima di conquistare i favori del Legislativo. A sud del Cantone, come noto, i giovani di Mendrisio si ritrovano tutt’oggi a rivendicare a viva voce uno spazio. Un traguardo lo hanno ottenuto lo scorso 12 giugno, quando a larga maggioranza il Consiglio comunale ha dato luce verde alla realizzazione di uno Skate Park alla rotonda all’ex macello. Ma si dovrà ancora attendere il voto popolare dal momento che la raccolta firme del comitato referendario ha avuto successo.

Intanto nel Sopraceneri altre strutture, modeste eppure solide e durature, vengono solcate quotidianamente dagli amanti delle tavole a quattro ruote. Ad Ascona, in via Losone 14, lo Skate Park è aperto dodi-

ci ore al giorno, dalle 8 alle 20 ed è dotato di tutto quanto un appassionato possa richiedere: street, miniramp, bowl, vertramp e altri elementi. Anche la capitale è della partita, con il suo Skate Plaza Bellinzona, in via Motta. Mentre a Riazzino in via Cantonale 64 si trova lo Skate Park Vanja al coperto, 450 metri quadri di superficie, ma accessibile solo su prenotazione (occorre chiamare un’ora prima allo 078 7555849 per usufruirne). Il più a nord del Ticino, invece, sorge a Rodi-Fiesso vicino al campo da calcio e vanta una tradizione ormai quasi ventennale, è stato infatti inaugurato nel 2006.

Ogni struttura, tutte a ingresso gratuito, possiede un regolamento d’uso e gli immancabili graffiti, una costellazione di colori, disegni, nomi e slogan. Dipinti e salti sulle rampe viaggiano a braccetto in un connubio unico.

«Lo skate è uno stile di vita» – assicura Daniele Stamerra, 46 anni, responsabile della prima Skateboard School presente in Ticino, sorta nel 2014, annessa alla The Joker Shop, di cui è titolare, situato nell’infrastruttura principe della disciplina affermatasi alle nostre latitudini: lo Skate Park di Cornaredo, inaugurato nel 2002 e aperto tutti i giorni dell’anno dalle 9 alle 22.30. «Ho acquistato il negozio e ritirato la scuola nel 2017 da Yari Copt (tra i promotori dell’attività a Lugano, al quale occorre riconoscere il merito di aver gettato le basi per la diffusione di uno degli hobby maggiormente praticati dai giovani, ndr.)».

Ma torniamo al presente. Quanti sono oggi gli allievi della scuola? «Difficile stabilirlo. Intanto la frequentazione è libera, senza vincoli, basta avvisare un giorno prima (telefonando allo 076 6797976). In media settimanalmente partecipano alle lezioni una ventina di bambini, soprattutto della fascia tra i 4 e i 12 anni – ma anche adulti e over 25 che intendono ricevere i primi ru-

dimenti. Disponiamo di una decina di maestri, tra loro prevalentemente studenti che praticano lo skate da parecchi anni ad ognuno dei quali vengono affidati tre o quattro allievi. Un’ora di lezione, inclusa la tavola e il materiale di protezione, costa venti franchi. Ospitiamo pure campus estivi esterni e molti dei nostri corsi si svolgono nei doposcuola presso le sedi scolastiche interessate a promuovere lo skate».

È dura imparare? «Comporta come tutte le attività disciplina, costanza e diligenza: più lo si pratica e più si apprende. Io ho iniziato dopo che i miei due figli, oggi di 15 e 18 anni, si sono lanciati sulla tavola. Lo skate è ormai entrato a far parte degli sport olimpionici, ma in Ticino non viene assolutamente vissuto come una competizione, diversamente da grandi città quali Zurigo, Stoccolma, Copenaghen. È un modo per incontrarsi. Tra i giovani che lo praticano

vige molta solidarietà. Se uno riesce a chiudere un bel “trick” gli amici esprimono compiacimento. Dal 2017 al 2022 abbiamo organizzato un contest abbinato a musica e graffiti, il The Joker Cup. Quest’anno non si è tenuto, ma lo riproporremo senz’altro nel giugno 2024». Con l’arrivo del nuovo Polo Sportivo e degli Eventi lo Skate Park è a rischio? «No, ci hanno garantito che lo manterranno» –fa sapere Daniele Stamerra. «Anche se per la costruzione del nuovo stadio hanno tolto i posteggi, un aspetto che ha provocato un certo calo del numero di giovani».

Intanto, il prossimo evento per i cultori della tavola è in agenda nel week end da venerdì 8 a domenica 10 settembre alla Foce di Lugano. Una tre giorni che si preannuncia ricca di eventi per l’universo dello skate. A proporla, i Warriors The Family, il primo e intramontabile gruppo di skater luganesi.

è veicolata con naturalezza proprio grazie alla bellezza delle storie e della scrittura. Chi sono gli «animaletti» protagonisti di queste storie? Sono i più miseri, i più piccoli (come i vermi, i millepiedi), o i più sfruttati (come i maiali, gli agnelli, le galline), quelli tenuti prigionieri in gabbie, quelli abbandonati… A ognuno un omaggio gentile, mai patetico, anzi sobrio e fermo, sempre accompagnato dalla luce di un sorriso e soprattutto dalla speranza che per questi animali il lieto fine possa venire proprio dai bam-

bini che oggi li leggono e che in un domani li salveranno.

Sono storie che per ritmo e capacità di entrare subito nel vivo della vicenda si prestano benissimo anche alla lettura ad alta voce, e ogni protagonista entrerà nel cuore dei bambini: dal «cagnolino che voleva un bambino», al verme attaccato all’amo che si fa salvare dal pesce, al pidocchietto che gioca a calcio tra i capelli del bambino, al micio «che aveva una nonna. Non con la coda e quattro zampe, una nonna di quelle bipedi e senza coda. Comunque sempre nonna era». A volte anche i vecchi (non tutti) sanno amare gli animaletti, proprio come (non tutti) i bambini.

Deborah Diesen, illustrazioni di Dan Hanna Pesce Pescione non riesce a dormire Il Castoro (da 3 anni)

Pesce Pescione ci guarda con i suoi occhi a palla e la bocca all’ingiù, dalla copertina di questo albo (in rime ben tradotte da Loredana Baldinucci), secondo della serie Pesce Pescio-

ne, la quale negli Stati Uniti è giunta a sette milioni di copie. Fa ridere, fa tenerezza, fa empatia un personaggio col broncio, che sdogana il nostro diritto a essere anche un po’ musoni (del resto Gastone Musone è un’altra serie di successo dell’editore Il Castoro). Però è bello vedere che le cose possono cambiare e che – magari con l’aiuto di un amico, ma anche da soli – possiamo scacciare la malinconia, anzi metterla a dormire pure lei, come fa il nostro Pescione, stavolta alle prese con l’insonnia: «Non riesco, non posso,/ma non è colpa mia!/Sono sveglio, sveglissimo!/Ho la malinco-

nia!». Ha la malinconia, e troppi pensieri, povero Pescione, e a nulla valgono i consigli degli altri abitanti del mare. Madame Ostrica consiglia di contare le pecorelle (illustrate genialmente con codino pinnato), Granchio Martino di scegliere una roccia giusta come cuscino, poi arriva Anguilla, poi Calamaro, e così via, ognuno con il suo inutile rimedio, anzi Pescione si innervosisce ancora di più perché ogni amico, dopo aver dato il suo consiglio, si addormenta beatamente senza proseguire la conversazione. Sarà la pesciolina Violetta a risolvere la situazione, e al suo consiglio, cioè quello di trovare un proprio rituale, potranno ispirarsi anche i lettori. Pescione trova la sua piccola pratica di mindfulness per raggiungere la quiete interiore («Mi scelgo il posto giusto / tra le alghe morbidine. / Do un bacio al mio pescetto / tra le mie copertine. / Poi muovo un po’ la coda / finché mi calmo dentro. / E infine chiudo gli occhi: / adesso mi addormento»), i bimbi troveranno il rituale loro, ma forse non ce ne sarà bisogno, perché questa si avvia a entrare nel novero delle storie della buonanotte efficaci.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 21 agosto 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 11 SOCIETÀ
di Letizia Bolzani Lo Skate Park di Lugano Cornaredo è il più vecchio e grande del Ticino, vi è nata anche la prima Skateboard School, altre foto su www.azione.ch (Foto Azione)

Approdi e derive

Sguardi diversi sulle sofferenze del mondo

Mi era capitato spesso, in anni recenti, di non riuscire a partire per la Grecia, di non riuscire ad immaginarmi piacevolmente immersa nelle acque dell’Egeo. L’anno scorso avevo raccontato, su queste pagine, del ritorno in questo mare e di un inatteso intreccio tra felicità e sofferenza. Ho capito in seguito che quell’esperienza di bellezza, nutrita dalla sofferenza di naufraghi e migranti, è stata solo un dono, una rivelazione momentanea, forse irripetibile. Ho voluto perciò spiegare i motivi di questa nuova rinuncia ad amici che sanno della mia consueta frequentazione delle Cicladi, nella speranza di poter cogliere, nelle loro risonanze, quel «di più» di senso che sempre ci dona lo sguardo dell’altro.

Dopo l’ennesima tragedia di Kelemata, in cui centinaia di bambini e di donne sono stati inghiottiti dal mare, ho avvertito il bisogno più intimo, più radicale, non tanto di andare incontro a questo mare, ma di attenderlo sulla

Terre Rare

riva del cuore per accogliervi l’inquietudine di queste acque che forse sanno di tradire il nostro desiderio di infinito nel silenzio sacro di un infinito orizzonte di morte.

La verità disarmata di questo mio sentire mi ha regalato molte risonanze.

C’è stato anche chi ha pensato di rincuorarmi sostenendo che non siamo noi i responsabili di queste tragedie, che non è colpa nostra e perciò non dobbiamo punirci. A queste parole consolatorie mi permetto di rispondere con una semplice domanda: qual è la differenza tra l’esserne responsabili e il rassegnato disincanto di chi si convince di non avere nessuna presa sulle nefandezze del mondo?

Mi hanno fatto riflettere, invece, le diverse motivazioni che hanno accompagnato molte condivisioni. Un affettuoso «ti capisco» mi è stato offerto sia da chi riconosceva nei miei sentimenti la presenza di un valore irrinunciabile, sia da chi invece vi coglieva soprattutto il

Il futuro visto dal passato

Ci è capitato, in una di queste serate estive televisive dedicate al déjà vu, di scoprire un film che ci eravamo persi e che pure all’epoca aveva suscitato un certo interesse: Broken Flowers di Jim Jarmusch. Ne parliamo qui perché ci ha suscitato una riflessione particolare in ambito di storia della tecnologia. Il film, che era uscito nel 2005, ci presenta un uomo d’affari depresso e annoiato che a un certo punto della sua vita viene a sapere (da una lettera anonima) di aver avuto un figlio da una delle sue numerose partner di gioventù. Senza grande entusiasmo, ma in realtà con la segreta speranza che la notizia possa apportare un significativo cambiamento alla sua vita, il protagonista parte per contattare le sue vecchie «fiamme» e capire con quale di loro l’avesse concepito. La lettera misteriosa, infatti, lo lasciava volutamente all’oscuro sull’identità della madre.

Ora, al di là della trama non proprio originalissima ed entusiasmante, il film pare volerci mostrare come, grazie alle risorse fornite da Internet, sia possibile all’uomo trovare i recapiti delle sue amanti di vent’anni prima, scoprire persino che una di loro è morta, stampare delle cartine geografiche che gli permettono di individuare le abitazioni di quelle viventi e addirittura la tomba della defunta (si può fare: conoscete findagrave.com?). In conseguenza di questo,

Le parole dei figli

Dissing

Il dissing è una Parola dei figli che, più che usarla, gli Gen Z vedono tradotta in musica ed è l’arte di insultare pubblicamente denigrando i rivali. In modo cattivo, spesso spietato. Cantando. Il verbo inglese da cui deriva il sostantivo è to diss che vuol dire mancare di rispetto. A sua volta to diss è un’abbreviazione di (to) disrespect registrato dai dizionari anglosassoni con il significato di criticare. In italiano il verbo diventa dissare. Diffusosi inizialmente negli Stati Uniti, dov’era in uso soprattutto fra le comunità afroamericane, il dissing è quel che fanno i rapper e i trapper quando insultano causticamente qualcuno o qualcosa attraverso il testo di una canzone.

Anche se non siete esperti di musica da giovani, è probabile che abbiate sentito parlare negli scorsi mesi del singolo della cantante colombiana Shakira. Magari il titolo Bzrp Mu-

disagio e il timore di potersi ritrovare in circostanze dolorose e insopportabili. Al di là della condivisione, in quei «ti capisco» ho colto la presenza di motivazioni che rimandano a modi diversi di stare al mondo e di abitare le sofferenze della vita. Alcuni hanno riconosciuto nella mia scelta l’espressione di un’esperienza originaria del valore, di un bene non ancora contaminato dai valori presenti nella società, né dalle logiche della razionalità che orienta, legittima e controlla l’espressione di questi valori

Questa condivisione coglie bene la purezza e la potenza di quel sussulto dell’etica, del suo essere atto generativo dell’esperienza umana: l’oikos, la nostra dimora interiore da cui ci apriamo alla vita. Questo valore intrinseco alla vita, che della vita esprime l’essenza e il significato, può indicare un altrove del vivere, sempre un po’ straniero rispetto ai valori riconosciuti. Abitare la vita lasciandoci ospitare dagli strati

più profondi della nostra umanità può a volte rivelarsi come un grido dell’anima che dice di no. Ma i «ti capisco» di condivisione sono stati accompagnati anche da preoccupazioni diverse che riassumo, un po’ brutalmente, così: «Pensa che orribile, dolorosa esperienza potrebbe essere la visione di un corpo restituito dalle onde». Si capisce bene come motivazioni tanto diverse siano il segno di qualcosa di più profondo, di qualcosa di radicato nel nostro modo di stare al mondo che tocca anche la nostra personale percezione della sofferenza. C’è il «ti capisco» di chi percepisce il dolore in modo autoreferenziale, quando la sofferenza del mondo viene incontro al proprio io e lo sorprende provocando timore e insopportabile disagio. Questa percezione rimanda ad un approccio alla vita e al sentimento di appartenenza assai dominante oggi. È la misura dell’umano ricondotta al proprio esserci, ben

visibile in tante espressioni del vivere e del relazionarsi all’altro.

La scelta di fermarsi a guardare l’Egeo dalle rive del cuore, con il tuo io in qualche modo dissolto dentro la presenza di quel lutto sacro che si consuma nel mare, attento a non violarne i luoghi, è invece un’esperienza della sofferenza che tende a superare la misura dell’umano. È un modo di accogliere la vita nell’assenza di differenza tra il mio io e la realtà dentro cui il mio esserci prende forma e senso. Credo che si esprima qui la nostra più autentica appartenenza.

Di fronte a motivazioni e sguardi tanto diversi sulla realtà, come non pensare alle ambivalenze o al vuoto di senso di tante condivisioni, di tanti «mi piace» che popolano la superficie del mondo e alimentano le nostre relazioni. E come non pensare al bisogno di ritornare alle radici etiche della nostra umanità per illuminare il nostro pensiero e le nostre scelte.

sempre grazie ad Internet, l’uomo potrà prenotare poi quattro voli aerei per quattro diverse regioni degli USA, e altrettante auto a noleggio che gli permettano di raggiungere gli indirizzi individuati. Insomma, uscito nel 2005, quel film voleva proporre al suo pubblico una chiara riflessione sulla potenza della grande Rete, allora agli albori, e sulla sua grande capacità di influenzare le relazioni umane. Un contrasto sentimental-tecnologico molto ben orchestrato, peraltro. A uno spettatore odierno, però, il film risulta completamente banale. Nel giro di vent’anni, infatti, ognuna di quelle operazioni, che all’epoca potevano sembrare praticamente fantascientifiche, è diventata la pura normalità quotidiana. Tanto che il povero Bill Murray, alle prese con le cartine geografiche stampate dal sito Map Quest (qualcuno se lo ricorda?) ci appare oggi persino patetico per la sua

arretratezza tecnologica. È una sorta di anacronismo a rovescio: noi abituati ad utilizzare il navigatore non percepiamo più nessun elemento di novità e di paradosso in questo contrasto tra sentimenti e tecnologia. Soprattutto perché la tecnologia rappresentata è diventata obsoleta e noi rivedendo la pellicola reagiamo con nostalgia, magari, ma non con stupore. Quel contrasto è la nostra normalità. Questo però Jarmush non lo poteva prevedere. Lasciando da parte il film, ora veniamo a noi: la nostra riflessione estiva, maturata sotto l’ombrellone, osservando umanità impegnata a strusciare i propri smartphone incurante del potere abrasivo della sabbia, ci fa pensare che molta della tecnologia utilizzata oggi, e che per certi versi ci sembra fantascientifica, sarà perfetta normalità tra vent’anni. Il polverone che si sta muovendo attorno all’avvento di Chat GPT appare in quest’ot-

tica completamente inutile, tanto più che ogni giorno scopriamo o che la sua tecnologia era già in uso da tempo e non ce ne eravamo mai accorti, oppure che il suo uso è economicamente interessante per molti professionisti i quali non si faranno nessun problema nell’implementarla ai loro servizi. E se i giornalisti sono preoccupati per le capacità redazionali dell’IA, si scopre che sono i programmatori quelli che ne possono utilizzare al meglio le doti (Chat GPT scrive ottimo codice già oggi), per non parlare degli avvocati, dei medici, e scendendo nella lista delle categorie d’impiego, gli operatori di Call Center e dei servizi di contatto con i clienti.

Tra vent’anni Chat GPT non ci farà più paura: guiderà la nostra macchina, molto probabilmente e farà la spesa per noi. E allora noi, finalmente, potremo passare il tempo a pensare se gli Ufo esistono davvero.

sic Sessions Vol. 53 vi dice poco, ma il contenuto della canzone è rimbalzato ovunque: «Yo valgo por dos de 22 / Cambiaste un Ferrari por un Twingo / Cambiaste un Rolex por un Casio (Valgo come due ventiduenni, hai barattato una Ferrari con una Twingo, un Rolex per un Casio)». Nelle sue prime ventiquattro ore il video musicale viene visto oltre 63 milioni di volte, stabilendo il record per il debutto nella storia di YouTube per una canzone latino-americana. Ebbene, il brano rappresenta, citazione da Wikipedia, un dissing nei confronti del calciatore spagnolo Gerard Piqué, ex partner di Shakira dal quale si è separata nel giugno 2022 a seguito di un tradimento dell’ex difensore del Barcellona con la giovanissima modella spagnola Clara Chia Martì. Il rapper milanese Guè in Prefissi del gennaio 2023 canta: «Che faccia da

babbo c’hai senza il passamontagna, quattro pugni al sacco, ma, fra’, non sei Adesanya. Hai noleggiato il mezzo per fare il giro del corso, non mi prendi mai come se stessi correndo sul posto. Foto in guardia con il pugno, non siete abbastanza forti, quando avrai pagato i debiti, sarai già in rigor mortis». L’ipotesi è che ce l’abbia con un altro rapper ascoltato dai nostri figli, il romano Tony Effe che nella canzone Doc 3 in cui collabora con il collega VillaBanks risponde: «Come c…o eri vestito nel tuo video? Con Lacoste e durag (foulard annodato in testa, ndr), la tua immagine fa schifo». Nessuno dei due nomina l’altro ma i riferimenti sono precisi: Tony indossa spesso il passamontagna e ha una passione per la boxe e le auto sportive, e Guè nel video di Cookies n’ Cream dell’album Madreperla appare in polo Lacoste blu e un durag sulla testa.

Non è una nuova moda, piuttosto una moda che non passa mai. Per dire nel 2015 Fabri Fibra nel brano Il Rap nel mio Paese dell’album Squallor attacca Fedez: «Odio i rapper banali chi li produce e chi li segue / 10 in comunicazione non uso mai l’inglese / ora faccio un’eccezione: fuck Fedez». Le parole sono inequivocabili: «Vende il disco chi è in tele / sotto stress l’ho capito a mie spese / nessuno esiste se le telecamere non sono accese / Il rap nel mio paese un po’ qua un po’ la un po’ rock un po’ dance un po’ facce ballà / un po’ club un po’ fashion le modelle tra i flash…». E Fedez viene attaccato anche da Marracash e Gué nel brano Purdi dell’album Santeria (2016): «La tua pagina

è il museo del tuo ego / Con la musica a margine / Quanto rido con i post che fai / Strappalacrime, strappa-like / Tra un link al tubo e uno a Spoti-

fy / E un petto nudo alla Sporty Spice». E gli esempi possono continuare. Da qui all’uso nello slang soprattutto giovanile il passo è breve.

La linguista Barbara Patella scrive per l’Accademia della Crusca: «Scavalcate le rime della musica rap e trap, dissare ha allargato il proprio significato ed esteso i propri ambiti d’uso fino a diventare sinonimo di insultare, beffare, e a essere perciò utilizzato nel senso più generico di denigrare e screditare qualcosa o qualcuno (non solo esclusivamente attraverso il testo di una canzone), con la tendenza a riferirsi, il più delle volte, a offese, diffamazioni o dispute avvenute in contesti pubblici e di ampia visibilità (come dichiarazioni ai media, post o video sui social network e occasioni simili)». Un tempo avremmo detto lavare i panni sporchi in pubblico, oggi facciamo dissing

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 21 agosto 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino SOCIETÀ / RUBRICHE 12 ◆ ●
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di Alessandro Zanoli
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di Simona Ravizza

TEMPO LIBERO

Mexico: el Centauro del Norte

A cent’anni dalla sua morte, il generale Pancho Villa resta un eroe postmoderno

Pagine 14-15

Bologna, salire a San Luca Un portico ininterrotto di 3800 metri, 666 arcate e 489 scalini, oggi patrimonio Unesco

Pagina 17

È cilena la salsa pebre

Ottima con la t-bone steak: aglio, cipolla, pomodori, coriandolo, pepe di Cayenna, limetta e olio d’oliva

Pagina 19

Haiku in cammino

Il poeta Glauco Saba ha scritto una sorta di manuale per viandanti ispirati e viaggiatori poeti

Pagina 21

Casse di sapone a tutta velocità per le vie di Porza

Adrenalina ◆ È una striscia di suppergiù seicento metri di asfalto, il percorso che si snoda dall’inizio di via San Rocco e l’incrocio con via Marter. Appuntamento per la 51esima edizione del Derby dal 1. al 3 settembre

Siamo a Porza, dove, tra via San Rocco e l’incrocio con via Marter, un tratto di strada di circa seicento metri, da cinquant’anni sfrecciano (senza rombare) piccoli prototipi di automobili guidate perlopiù da giovani (ma non mancano i più grandicelli) in una battaglia che si corre sui centesimi di secondo. Quelli, i prototipi, sono le «casse di sapone» e quella, la gara, è il Derby delle casse di sapone di Porza, ovvero «l’appuntamento ludico-competitivo dedicato a questi mezzi che vanta la maggior tradizione in Ticino» come conferma non senza una punta di giustificato orgoglio Nicola Rezzonico, che dal 2005 è presidente del comitato d’organizzazione della manifestazione. «È vero che negli anni sono state create diverse altre corse simili in diverse altre località del Cantone, come in Vallemaggia o al Nara, ma quello di Porza resta il più longevo e costante nel tempo». Parole che trovano riscontro nei numeri: quella che si disputerà a inizio settembre (da venerdì 1 a domenica 3) sarà infatti la 51esima edizione.

Ma come nascono le casse di sapone, e le relative gare? Come ci si prepara e come si svolgono le competizioni? Per conoscere più da vicino questa particolare attività, assurta a disciplina ludico-sportiva a tutti gli effetti (con tanto di ufficioso titolo mondiale in palio), occorre fare un salto a ritroso di quasi cent’anni e… varcare l’Atlantico.

È il 1933 quando l’obiettivo del fotografo Myron Scott, si ferma su un gruppo di ragazzi di Dayton, nell’Ohio, intenti a gareggiare sulla strada con le loro macchinine (non motorizzate) autocostruite. Scott ne rimane affascinato al punto che, intravvedendone il potenziale, decide di dedicar loro una manifestazione, inventandosela con tutti i crismi del caso, dando così vita al Derby delle casse di sapone (il Soap Box Derby).

L’anno seguente, sempre a Dayton, il primo All-American Soap Boy Derby, con tanto di sponsor di prim’ordine (nientemeno che la Chevrolet) diventa una realtà a tutti gli effetti. L’entusiasmo è enorme, al punto che sponsor e organizzatori nel 1936 decidono di creare qualcosa di più stabile, dando così corpo e forma al Derby Downs, la prima sede permanente per questo genere di competizioni, nella zona sud-est della città. A tutt’oggi, il Derby delle casse di sapone di Akron resta la più grande gara amatoriale del genere al mondo.

Spulciando gli annali della competizione ci si imbatte in diverse curiosità. Come quella della squalifica a posteriori del vincitore dell’edizione del 1973, reo di aver «truccato» il suo mezzo con magneti in grado di

generare una spinta artificiale, oltre a quella gravitazionale (l’unica consentita). Già nelle prove precedenti il 14enne del Colorado era stato «pizzicato» con le ruote impregnate di una sostanza chimica vietata e capace di ridurre l’attrito.

Torniamo però all’ultra cinquantennale gara di Porza. «Se siamo arrivati all’edizione numero 51 è perché di anno in anno abbiamo saputo consolidare e far crescere questa manifestazione, rendendola un appuntamento molto sentito e apprezzato a

livello regionale. Inoltre, per diversi anni, il Derby di Porza rientrava nel novero delle gare di qualifica per il campionato svizzero, almeno finché non è cresciuto a sufficienza per poter vivere autonomamente» sottolinea Rezzonico. «Merito, prima di tutto, dell’intero comitato, che da un anno all’altro si prodiga per fare il meglio, e non da ultimo da chi mi ha preceduto. Molto del merito va indubbiamente a chi ha avuto questa intuizione, ossia l’allora sindaco». Il riferimento è a Pio Regazzoni, ossia il papà del

compianto pilota di Formula 1 Clay. «Clay non ha mai partecipato al Derby come concorrente, ma per diversi anni ha presenziato nel duplice ruolo di starter d’onore e padrino della manifestazione».

Il segreto di longevità di questo Derby è «sicuramente l’aver saputo trovare di volta in volta stuzzicanti iniziative capaci di risvegliare l’interesse dei bambini non solo di Porza, ma anche dei Comuni vicini, prova ne è che da un’edizione all’altra sulla griglia di partenza si presentano giovani provenienti da un po’ tutta la regione, e non solo: le iscrizioni vanno in sold out in men che non si dica; per questioni organizzative dobbiamo limitare i partecipanti ai primi cento (cifra portata a 120 per il giubileo del 50esimo, ma davvero al limite per permettere lo svolgimento della gara in assoluta sicurezza), che in pochissimo vengono tutti assegnati».

La competizione principale si rivolge soprattutto «ai giovani con almeno 8 anni, fino all’anno dei 16. Per i più grandi c’è invece la possibilità di prendere parte alla gara per gli Over 16, il venerdì, in notturna». Tre, come detto, i giorni su cui si articola il Derby delle casse di sapone di Porza. Il venerdì si procederà con le formalità amministrative, come la consegna dei

pettorali, che saranno appunto seguite dalla prova serale per Over 16 e da animazioni varie. L’indomani, spazio alla gara dei giovani (suddivisi in tre categorie), con una prima manche, seguita ancora una volta da una festa in piazza. Domenica, giorno del gran finale, si terranno le ultime due prove: una al mattino e una nel pomeriggio. «Per la classifica finale sarà determinante la somma dei due migliori tempi realizzati sulle tre prove».

E che non si pensi che siano poi tanto contenute le velocità raggiungibili con una cassa di sapone: «L’anno scorso, per curiosità, abbiamo provato a misurarla con un “radar amico”, e i più veloci sfrecciavano a 30 km/h, che per una macchinina così è decisamente una bella velocità!». Ma si parlava di trucchi. Di fatto esiste un regolamento che determina le caratteristiche che deve avere (e rispettare) una cassa di sapone per poter essere schierata sulla griglia di partenza: «Il kit meccanico di base deve essere identico per tutti, ed è lo stesso che viene impiegato per le casse di sapone che vengono messe a disposizione (poco meno di una quarantina) dal comitato d’organizzazione a chi ne è sprovvisto ma vuol comunque competere, in modo da rendere il più equilibrata possibile la competizione».

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Moreno Invernizzi

Pancho Villa, un eroe politicamente

Reportage ◆ L’uomo e il generale che fu capace di interpretare come nessun altro la più profonda anima messicana, a cent’anni dalla sua morte

Enrico Martico, testo e foto

Basta poco per ritrovare le sue tracce tra i deserti fioriti di cactus della Sierra Madre, spazzolati da un vento rovente che si perde in ruvidi canyon popolati da villaggi fantasma e miniere perdute. È qui che bisogna cercare il general Francisco Villa, roboante nome ufficiale cui sono dedicati innumerevoli villaggi, scuole, piazze e strade del Messico, ma lui è e sarà sempre Pancho Villa per tutto il mondo, capace di interpretare come nessun altro la più profonda anima messicana.

Un’intoccabile santo laico protettore dei poveri per la maggioranza, rievocato e invocato in ogni conflitto sociale, un sanguinario bandito per altri. Un destino segnato per quel suo impasto di follia e furbizia contadina, «impresentabile» rispetto agli standard odierni del più politicamente corretto Emiliano Zapata, l’altro importante caudillo della Rivoluzione.

La più grande debolezza di Villa era il carattere incontrollabile, capace di trasformarlo in pochi istanti da simpatico buontempone a uomo pronto a sparare alla minima provocazione. Un imperatore-contadino dal potere assoluto, un analfabeta che non aveva avuto diritto a un’istruzione ma che fece di tutto per assicurarne una ai figli dei campesinos, fondando scuole ovunque passasse e proclamando: «Preferisco pagare un maestro piuttosto che un generale».

La fine di José Doroteo Arango Arámbula, il suo vero nome, fu all’altezza di una vita turbolenta. Morì nel 1923, un secolo fa, a 45 anni crivellato nella sua auto Dodge da più di quaranta colpi, incluse pallottole dum-dum utilizzate per la caccia grossa, mentre tornava da Parral dove si era ritirato a fare l’agricoltore, una vocazione che non convinceva tutti, soprattutto il governo che molti sospettarono di essere il mandante. Quanto bastava per dare la stura a trucide leggende sul suo cadavere, sostituito con un altro dopo avergli tagliato la testa, che sarebbe in possesso della società segreta Skull and Bones dell’università di Yale.

Una versione improbabile ma che non stupirebbe troppo perché i gringos non gli perdonarono mai l’invasione del territorio continentale degli Usa, il 9 marzo 1916, quando cinquecento villistas avevano saccheggia-

L’omaggio dei musicisti norteños al Centauro del Norte

«La mia vita è stata una tragedia» confidò a scrittori e giornalisti famosi come Jack London o John Reed, ma neppure la cacciata post mortem dal pantheon ufficiale dei protagonisti della rivoluzione riuscì minimamente a scalfire il suo mito. I suoi cantori sono da sempre i musicisti norteños, «la voce dei poveri», che sotto sdruciti cappelli Stetson immancabilmente neri o bianchi ostentano cinturoni con fibbie d’argento, stivali di lucertola e camicie dai bottoni di madreperla da cui occhieggiano trucidi tatuaggi affollati di Vergini di Guadalupe e Cristi sanguinanti. Solo loro sono capaci di incantare ancora oggi al ritmo forsen -

Una delizia per tutta la famiglia

Centro storico di Zacatecas. La statua Cerro de la Bufa, che raffigura Pancho Villa, commemora la vittoria dell’esercito rivoluzionario; a destra, in alto, Durango, monumento di Pancho Villa; sotto, Zocalo, Città del Messico.

nato di polke e mazurke di melodrammatici corridos, le sanguigne ballate del Messico settentrionale, un popolo di romantici smodati che ascolta estasiato, sui piazzali polverosi delle feste di paese o nelle ultime cantinas, storie quasi mai a lieto fine, popolate da donne che tradiscono, cavalli fedeli fino alla morte, e ultimamente anche da narcos, scariche di kalasnikov e rombo di elicotteri. Un repertorio in cui non potrebbe mai mancare il Centauro del Norte, come Pancho Villa era chiamato negli anni più gloriosi per la sua simbiosi con Siete Leguas, il cavallo più amato con cui aveva condiviso mirabolanti avventure.

to la cittadina di Columbus nel New Mexico nonostante la debolezza di Villa di fronte a nuovi leader rivoluzionari. Per vendicare l’affronto, gli americani inviarono in Messico una «spedizione punitiva» di oltre diecimila soldati con i mezzi più moderni per l’epoca, camion, motociclette, blindati, otto aerei e persino un dirigibile. Un insuccesso clamoroso. Dopo avere vagato per oltre undici mesi tra canyon e deserti, il generale Perkins e il suo braccio destro, un ancora sconosciuto George Patton, tornarono indietro senza avere visto Pancho Villa neanche da lontano.

Non male per uno che si era guadagnato sul campo gloria e strategia militare, imparando a cavalcare e sparare fin da ragazzo tra le montagne della Sierra Madre, per poi trasformarsi in bandito dopo avere ucciso un proprietario terriero che aveva

violentato la sorella, almeno secondo una delle variopinte varianti che accompagnano ogni storia del general Sicuramente Villa inventò per primo una guerra lampo di fulminee avanzate aggirando le linee nemiche e guidando le sue truppe da un quartier generale mobile; di cui ha lasciato una descrizione impagabile John Reed: un vagone rosso con tende di chintz e peccaminose immagini femminili.

La sua carriera di rivoluzionario iniziò nel 1911 quando si unì a Francisco Madero che aveva iniziato la rivolta contro l’anziano dittatore Porfirio Diaz, così appassionato al potere da restarci per 35 anni. Villa si era distinto per un coraggio pari solo alla sua inguaribile conflittualità, compreso un tentato omicidio di Peppino Garibaldi nipote del più celebre Giuseppe e comandante di una pic-

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politicamente scorretto morte

cola legione straniera di insorti. Perdonato e liberato da Madero, Villa fu uno dei pochi a restargli fedele quando il primo presidente del Messico rivoluzionario venne tradito e assassinato, decidendo di ricominciare la rivoluzione da El Paso con un pugno di uomini, cinque muli e due sacchi di farina.

Era l’inizio della leggendaria Division del Norte che le sue intuizioni militari, e una straordinaria capacità istintiva di approfittare delle debolezze e degli errori degli avversari, trasformarono in un formidabile strumento bellico. Un esercito pittoresco la cui sussistenza era assicurata da un’armata di soldaderas, le donne che seguivano le truppe, ma che aveva la sua forza nell’utilizzo geniale della cavalleria e soprattutto dei treni, strumento fondamentale di una guerra combattuta su grandi distanze. Il general fu anche il primo a capire l’importanza della moderna informazione, fotografi e cineoperatori seguivano l’esercito rivoluzionario su vagoni riservati, e Villa arrivò a cambiare l’ora dell’attacco perché ci fosse luce sufficiente per le riprese, facendosi in cambio pagare lautamente le esclusive dai giornali degli Stati Uniti.

Il primo interprete di successo del suo personaggio per la nascente industria cinematografica americana fu proprio lui, che in cambio di un cospicuo contratto accettò persino di indossare una scintillante uniforme completa di berretto e sciabola, ritornando però subito alla vecchia camicia kaki sbiadita e all’abituale cappello Stetson, cedendo il ruolo a una lunga sequenza di star hollywoodiane che lo sostituirono sullo schermo, da Pedro Armendàriz jr a Yul Brinner e Antonio Banderas, l’ultimo almeno per ora.

La Rivoluzione raccontata dai murales di Rivera, Siqueiros e Orozco però era una cosa seria, un’epopea di ferro e fuoco impastata di polvere, cannonate, cariche di cavalleria, eroismi e tradimenti che ha attraversato come un turbine il Messico. Sembra quasi di sentirsele alle spalle le ombre dei dorados, la cavalleria scelta della Division del Norte, dietro l’ultima curva di una pista di pietre lisciate dal passaggio di migliaia di carri che si arrampica lungo la Sierra de Mapimì. Finisce davanti a due torri in ferro che trattengono con grandi cavi d’acciaio il ponte sospeso più lungo dell’America latina, progettato nel 1898 dall’ingegnere tedesco Santiago Mingui che partecipò alla costruzione del Golden Gate a San Francisco. Oltre duecentosettanta metri di precarie assi di legno che scavalcano un canyon cupo come le nuvole che spingono il vento giù dalle montagne fino al buco nero della miniera abbandonata di Ojuela.

Il campanile del villaggio di Mapimì, dove la Rivoluzione ha lasciato i buchi delle pallottole, non è lontano e anche la Division del Norte è nata da queste parti, «Vieni, ti faccio vedere una cosa» garantisce il vecchio custode dell’Hacienda de la Loma mentre si fa largo tra fucili arrugginiti e bandi rivoluzionari incartapecoriti, fino a una lapide di marmo nero, «Qui nell’antica Hacienda de la Loma il 29 settembre 1913… il generale Francisco Villa fu nominato generale in capo della Division del Norte». Fuori, su una solitaria piazza calcinata dal sole, le ballerine dell’Espectacular circo Rivas occhieggiano da uno sbiadito manifesto, sbirciate da un paio di scimmie spelacchiate che si aggirano vicino al tendone.

Ne ha viste di storie della rivoluzione lo Stato di Durango dove Villa era nato nel 1878, probabilmente l’unico luogo al mondo dove un supermercato si può chiamare Viva Villa e ogni primo maggio la banda dei minatori sfila sotto il palco imbandierato delle autorità, vigilato da torvi judiciales, i poliziotti in divisa nera. Un contrasto incolmabile con le rare fotografie e riprese cinematografiche sgranate di fanterie contadine che avanzano incuranti dei colpi di artiglieria, grandi sombreros in testa e vecchi fucili in mano. Sono le imma-

Naturalmente bene.

Naturalmente HiPP.

gini della Toma de Zacatecas, la conquista di Zacatecas, la vittoria più famosa di Villa in cui sbaragliò l’esercito governativo aprendo la strada alla conquista della capitale, celebrata sul Cerro de La Bufa, collina che domina la città dove c’è ancora chi si fa immortalare travestito da villista sotto un monumento in cui Villa sembra voler scalare il cielo insieme a Siete Leguas

Il momento del trionfo è immortalato in una famosa fotografia in cui Villa e Zapata sono seduti fianco a fianco sulle poltrone dorate del Palacio Nacionàl, il palazzo presidenziale di Città del Messico. Un’immagine più eloquente di qualsiasi saggio in cui Zapata ostenta l’aria pensierosa del rivoluzionario tormentato che teme le seduzioni del potere, e Villa sghignazza con il sorriso soddisfatto di chi è passato dal furto di cavalli alla guida di una rivoluzione.

Trionfo apparente perché dissensi e tradimenti rispedirono presto i due verso le rispettive aree di influenza, Zapata al sud e Villa al nord. Nel palazzo sono rimaste solo le loro immagini, insieme ad aztechi, spagnoli, operai, inquisitori, Benito Juarez e Massimiliano d’Asburgo, tutti insieme nell’allegro girone infernale del grande mural di Diego Rivera. Fuori, sullo Zocalo, gigantesca piazza ombelico e riassunto dell’intero Messico, turisti, mimi, venditrici di artesanias, innamorati e ballerini travestiti da aztechi si mescolano a delegazioni di maestri e contadini che manifestano per far sapere al mondo che esistono. Anche questa è un’eredità della Rivoluzione, come il buco nel soffitto dorato della vicina cantina La Opera provocato dalle pistolettate di un iracondo Villa che aveva fatto uno spettacolare ingresso a cavallo tra specchiere e lampadari.

Il suo tempo però stava per finire, leader più pragmatici stavano impadronendosi del potere e nel 1915 le cariche di cavalleria di Villa non bastarono contro le mitragliatrici dell’esercito di Obregòn che, a Celaya, sconfisse per sempre le sue ambizioni. Per ritrovare le tracce dei suoi ultimi anni bisogna tornare al nord, a Chihuahua, nella casa-museo di Quinta Luz che ospita le memorie del jefe guerrillero raccolte da Luz Corral Villa, sposata legalmente nel 1911 e riconosciuta vedova oficial , dopo un’estenuante guerra legale con altre concorrenti, perché Villa ogni volta che desiderava una donna la sposava, senza preoccuparsi minimamente della validità dei suoi matrimoni. Il loro numero, un altro mistero insoluto, sfiorerebbe la vertiginosa cifra di settantacinque anche se dopo la sua morte solo ventitré vedove avrebbero reclamato i loro diritti.

A Quinta Luz, tra cimeli d’ogni genere c’è anche un manifesto rivelatore del senso pratico di Villa, rivolto a potenziali volontari dagli Stati Uniti. «Gringo, cavalca a sud della frontiera in cerca di oro e di gloria. Pagamenti settimanali in oro a esperti in dinamite, mitraglieri, ferrovieri». C’è anche la Dodge nera in cui venne assassinato, così tutto riporta alla sua morte e ai misteri che la circondano, in questi deserti senza confini che ognuno può riempire con la propria fantasia e con i propri sogni. Anche Pancho Villa, metà santo e metà diavolo.

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La Grassa, la Dotta e la Rossa, ai piedi di San Luca

Itinerario

La chiamano «La Grassa», ma non è solo la città del mangiare bene. Non è nemmeno solo la città con la più antica università del mondo occidentale (fondata nel 1088) che le regala il soprannome «la Dotta». E non è solo «la Rossa», altro nomignolo che deriva dal colore dei mattoni con cui sono costruite case e torri del suo centro storico. Bologna è anche la città dei portici con i suoi 62 km di archi, di cui circa 40 km solo nel centro storico; un patrimonio architettonico divenuto oggi patrimonio dell’Unesco.

Ci sono quelli in legno lungo la strada Maggiore, quello chiamato «dei bastardini» perché qui aveva sede un orfanotrofio. Oppure quello più alto del palazzo arcivescovile che raggiunge i dieci metri o quello più stretto di soli 95 centimetri. Ma c’è anche il portico più lungo del mondo, quello che parte da Porta Saragozza e arriva su in cima al Colle della Guardia con la sua chiesa di San Luca che domina Bologna. Un portico ininterrotto di 3800 metri, 666 arcate e 489 scalini. Due simboli di Bologna, i portici e San Luca che si incontrano. Non sono forse i portici più belli e non si trovano in centro, però hanno l’onore di condurre verso l’importante luogo sacro, il santuario di San Luca appunto, che da qualunque parte si arrivi a Bologna già da lontano mostra la cupola e subito fa sentire a casa. Un luogo che rappresenta un punto fermo e che fa parte della vita dei bolognesi. Perché tutti i cittadini doc della Grassa almeno una volta nella vita hanno detto la frase: «Se succede vado a piedi fino a San Luca». E allora basta indossare un paio di scarpe comode per fare questo pellegrinaggio e cercare di capire ancora di più cosa vuol dire «salire fino a San Luca».

Il desiderio di salire

Se l’inizio che è in pianura, dopo essere partiti da Porta Saragozza, è forse il meno affascinante, basta arrivare all’Arco del Meloncello, in stile rococò del 1700 ai piedi della salita, per iniziare a sentire il desiderio di andare verso la cima del colle, lasciandoci alle spalle le vie trafficate per avviarci lungo un viaggio che ci porterà in un luogo diverso, bello e accogliente, per scoprire il quale ci sarà però richiesta un po’ di fatica. E subito, dopo il Meloncello, alla vista si mostra una serie infinita di archi e volte continui.

Nella prima parte della salita, le aperture dei portici sono sulla destra, mentre a sinistra, sul muro, i numeri indicano l’arco dove ci si trova e poco sotto scorrono le lastre di pietra con i nomi di chi ha pagato le ristrutturazioni di un pezzo di muro o di una volta. Alcune hanno solo la scritta con i ringraziamenti a chi ha finanziato l’opera, mentre altre sono omaggi e ricordi, come quello di Gina e Saverio, che hanno voluto celebrare i loro 50 anni di matrimonio facendo una donazione per risistemare un muro.

Il sole che entra dalle aperture disegna in terra una lunga ombra dei portici creando un effetto grafico che sembra una grande onda nera. L’interminabile portico non è solo la meta di turisti e bolognesi che vanno a rendere omaggio al santo protettore della città. Spesso, infatti, si incontrano atleti che corrono in entrambe le direzioni. «Per noi bolognesi che pratichiamo il jogging, il portico di San Luca è un’otti-

ma palestra – mi dice Mario, maglietta, pantaloncini e scarpe d’ordinanza, la fronte imperlata di sudore e il fiato grosso per la fatica – sia d’estate che d’inverno puoi venire qui a correre: è una bella arrampicata».

Anche una bella passeggiata, dove turisti stranieri, accaldati e sudati, muovono un passo dopo l’altro, verso la cima che, a causa dell’effetto ottico dei portici, sembra non arrivare mai.

C’è chi si riposa sui muretti sotto gli

archi e chi sugli scalini che ogni tanto si incontrano. Quindici le edicole votive, che punteggiano il tragitto, e che rappresentano il mistero del Rosario. Non mancano operai con gilet arancioni e caschetto giallo in testa, intenti nelle opere di ristrutturazione: una crepa sul muro, l’intonaco che è si staccato da un arco, una riverniciata alla volta. A metà strada, il muro passa sulla destra e i portici si aprono sulla sinistra, sui colli bolognesi. È l’occasione per fermarsi e riprendere fiato e iniziare ad ammirare il panorama. Scambio due parole con una signora di un’età indefinita, capelli canuti, occhiali da vista e un piccolo cane nero al guinzaglio, che si racconta, con la classica cadenza emiliana e la «s» dolce e sonora: «Faccio questa passeggiata da quando ero piccola. Ho sempre abitato qui vicino. Il mio babbo mi diceva che la prima volta l’avremmo fatta insieme. E così è stato. Avevo solo otto anni. E da allora, quando posso, vengo qui a camminare sotto i portici». Si aggiusta i capelli, riprende fiato e poi continua: «Per noi bolognesi questi portici sono una mano santa. Puoi venire qui d’inverno quando piove e camminare senza bagnarti, oppure d’estate, camminare all’ombra e respirare l’aria dei colli». Ci salutiamo e lei riprende a scendere, ma prima di sparire alla vista la vedo che si ferma davanti a una Cappella del Mistero e sistema dei fiori.

Dopo un’ora circa, una croce accoglie chi arriva alla fine della camminata sotto i portici verso il Santuario. Tutto intorno ci sono giardini e prati che si riempiono di scolaresche in visita generando un sottofondo di voci allegre e risate felici. Costruito intorno alla metà del 1700, il santuario ha una forma circolare con una sola navata e una cupola maestosa. Al suo interno i dipinti di Guido Reni e di altri artisti di scuola bolognese. Le statue sono dello scultore locale, Angelo Piò, e di Bernardino Cometti, scultore di origine piemontese, famoso a Roma. Poi è tutto un susseguirsi di marmi e bronzi.

Prima di riposarsi di nuovo seduti nel giardino o in una panchi-

na all’ombra, bisogna fare un ultimo sforzo e salire un altro centinaio di scalini, attraverso una stretta e ripida scala a chiocciola all’interno della chiesa, per arrivare alla sommità della cupola. Dove da un piccolo terrazzo si potrà ammirare un paesaggio fantastico, con i colli bolognesi che si perdono a vista d’occhio da un lato, mentre davanti ci sono gli Appennini che dividono l’Emilia dalla Toscana, e più sotto la città di Bologna. Intanto in chiesa c’è chi accende un cero votivo, chi prega e chi si siede solamente per stare un po’ al fresco. Nei giardini, un piccolo gruppo di ragazzi festeggia la laurea di una loro amica, che è venuta a rendere grazia a San Luca. In testa la classica corona di alloro e dalle sue labbra, la famosa frase dei bolognesi: «Lo avevo promesso, se mi laureavo sarei venuta a piedi fino a San Luca». Seduto su una panchina, prima di affrontare la discesa verso la città, parlo con un prete che mi spiega quanto è davvero importante San Luca per questa terra: «Vedi, io penso che per i bolognesi, sapere che c’è il santuario è come sentirsi protetti. Basta alzare gli occhi verso il colle della guardia e avere la certezza che vedrai sempre la cupola». Si sistema il colletto della camicia, incrocia le mani e poi continua: «I lunghi portici per arrivare fin qui sono come un cordone ombelicale che lega il santuario alla città. Li unisce in modo indelebile». Si guarda intorno, fa un respiro profondo e riprende a parlare: «Devi vedere che bello, quando c’è la processione nel mese di maggio, che fa scendere la Madonna dal santuario alla città: tantissima gente si affolla lungo il tragitto sotto i portici».

Ci salutiamo, ma prima di andarmene mi dice ancora: «Che poi il nome completo è Santuario della Beata Vergine di San Luca, ma tutti lo chiamano solo San Luca. E la tradizione vuole che il giorno della processione piova sempre».

Informazioni: Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica.

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Sono ben 62 i chilometri di archi che definiscono Bologna anche la città dei portici iscrivendo questi ultimi tra i patrimoni dell’Unesco
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Ricetta della settimana - T-bone steak

Ingredienti

Piatto principale Ingredienti per 4 persone

1 mazzetto di cipollotti

3 spicchi d’aglio

2 pomodori carnosi

1 mazzetto di coriandolo

1 cc di pepe di Cayenna

1 dl di succo di limetta

6 c d’olio d’oliva

2 cc di fleur de sel

pepe dal macinapepe

2 bistecche alla fiorentina di circa 650 g ciascuna

Preparazione

con salsa pebre

1. Tritate finemente i cipollotti. Unite l’aglio schiacciato. Riducete i pomodori a dadini. Tritate grossolanamente il coriandolo.

2. In una scodellina mescolate gli ingredienti tritati con il pepe di Cayenna. Aggiungete il succo di limetta e ⅔ dell’olio d’oliva. Condite con la metà del sale e pepe.

3. Accendete il grill a 220 °C. Spennellate la carne con l’olio restante. Condite le bistecche con il sale restante e pepatele.

4. Grigliatele da entrambi i lati per circa 12 minuti a fuoco alto diretto, fino a raggiungere la temperatura al cuore di 52 °C. Coprite le bistecche, oppure avvolgetele nella carta alu e lasciatele riposare per 5 minuti. Servite la carne con la salsa.

Consigli utili

Per una cottura al bleu la temperatura interna dev’essere di 45 °C, al sangue 52 °C, media al sangue 55 °C, per una cottura media 60 °C e ben cotta > 70 °C.

Potete servite la carne con aglio grigliato: scaldate il grill a 200 °C. Dimezzate una testa d’aglio in senso orizzontale e spennellate le due superfici di taglio con olio, poi grigliate a fuoco medio per 15-20 minuti.

Preparazione: circa 10 minuti; cottura alla griglia: circa 10 minuti; riposo in forno: circa 5 minuti

Per persona: circa 42 g di proteine, 34 g di grassi, 9 g di carboidrati, 530 kcal

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Uno sbirro così inutile da poterne fare a meno

Antichità rabelaisiane ◆ Antesignano del Poker, il goffo è un antico gioco d’azzardo che un po’ ricorda la scopa dei giorni d’oggi

«Lo scarterei come lo sbirro a goffo». Così, i genovesi riferendosi a persone di poco conto. L’origine di questo modo di dire si rifà certamente allo scarso valore del fante nel gioco del goffo. Secondo le sue regole, infatti, questa carta conta così poco (1 punto, rispetto alla donna, 8, e al re, 9), da prevedere la possibilità di scartarla dal mazzo, eliminando la sua presenza per l’intera partita.

Sono proprio i genovesi a definirsi gli inventori di questo gioco a carte, sebbene un approfondito studio svolto da Franco Pratesi, professore di scienza dei materiali e ricercatore di giochi di Firenze, fa risalire il goffo alla Toscana dei monarchi, quale parente povero della primiera. Mentre i signori dell’epoca cinquecentesca potevano spendere ingenti somme di danaro, il popolo si contentava di una versione più ordinaria (anche detta «variante toscana»): «Tanto che giocare a goffo acquistò il significato di far la figura del semplicione», secondo lo studio del Pratesi, datato 30 ottobre 1988.

Stiamo parlando di un gioco d’azzardo italiano (peraltro imparentato anche con il più giovane poker americano) che fu per molto tempo proibito. Oggi potrebbe essere paragonato alla scopa (basti ricordare il punteggio della primiera che prende origine proprio dal gioco rinascimentale). D’altro canto, è risaputo che qualche anziano di paese punta ancora oggi il cinquan-

tino, nascondendolo sotto il tappeto delle carte, forse memore di quei tempi, o forse perché giocare a soldi resta da noi proibito, al di là della somma scommessa.

Sono davvero poche le persone che sentendo la parola goffo potrebbero pensare al gioco di carte, ormai sconosciuto anche ai giocatori più colti. Noi lo abbiamo scoperto grazie all’elenco del capitolo XXII del divertente romanzo Gargantua e Pantagruel di François Rabelais, la cui prima edizione risale al 1532. Di questa incredibile lista di nomi di giochi ne abbiamo già estratto un altro, e più precisamente il passadieci, (di cui abbiamo parlato su «Azione» del 7 marzo 2022) dando il via a un occasionale spazio voluto come antidoto ludico e materico contro l’era del virtuale, un’alternativa per trascorrere il nostro tempo libero. Nato in Toscana, si diceva, restò gioco popolarmente in voga fino al Settecento. Di questo periodo in verità «nessuna possibilità (…) esiste di ricostruirne una letteratura specifica». Si sa solo che comparve nella lista del 1753, quale gioco proibito nel Regno di Napoli. Dopodiché «nella successiva diffusione del gioco, una località di elezione è rappresentata da Genova, (…) è lì che il goffo trova una precisa regolamentazione; è da lì che poi si ridiffonde (…) anche in altre città italiane». Secondo la ricerca effettuata da Ivana Ferrando, che firma il sag-

L'estate come sei tu

gio I giochi a Genova (1969) in un Regolamento in dialetto di fine Ottocento compare l’affermazione secondo cui: «Anche se il Goffo poteva essere un rovina famiglie, lo troviamo fra i giochi permessi dalla Legge del 1779». Risale al 1896 anche uno dei manuali che contiene le Regole del gioco di goffo (tip. S. Belforte e C., Livorno) che così presenta il nostro passatempo per i genovesi: «La Spagna inventò l’Ombre che è il re de’ giochi di combinazione, e il Reversis; l’Inghilterra il Whist; la Francia il Pichetto e il Lansquenet; e i Genovesi per sollevarsi chi dalle occupazioni del Governo al quale erano chiamati tutti i benestanti e

capaci, e chi dal commercio, dal negozio e dalle speculazioni, di cui furono maestri al mondo, non pure all’Italia, inventavano il gioco che Goffo si chiama. …Di un tal gioco si dilettano le famiglie Genovesi non solo, ma quelle altresì delle due riviere, e di oltre gioghi, amanti quai sono di continuare a godere, almeno nei sollazzi, della libertà che possedevano al tempo dell’invenzione del gioco, e perdettero sulla fine del secolo XVIII».

Ma veniamo finalmente al gioco vero e proprio. Si gioca fino a un massimo di sei o sette partecipanti e per vincere bisogna «fare goffo», vale a dire che vince chi ha in mano tutte le

carte di uno stesso seme, o colore. Se nessuno fa goffo, vincerà chi ha totalizzato il punteggio più alto. Quest’ultimo avviene sommando i punti delle carte del medesimo colore (minimo due, massimo quattro). Con il termine punti ci si riferisce al valore nominale delle singole carte, da uno a sette, più il fante (che vale solo uno, se non è stato tolto), e le due figure restanti che contano otto e rispettivamente nove punti. Ovviamente come nel poker (del quale è un progenitore) esistono termini tecnici che hanno che fare con il rilancio, l’andare a monte, e persino il bluff, detto all’epoca «fare campana».

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Quattro gentiluomini d’alto rango giocano a Primero, attribuito a Meister der Gräfin von Warwick, XVI secolo.

Haiku e l’illuminazione del quotidiano

Editoria ◆ Il poeta Glauco Saba ci racconta l’origine giapponese dei tre versi che intrecciano le parole all’«esperienza del cammino»

«Tra le caratteristiche umane più ancestrali vi sono la camminata bipede e l’espressione vocale ritmata o cantata» è questo l’incipit del libro Haiku in cammino, Manuale per viandanti poeti, con il quale l’autore Glauco Saba, pseudonimo di un docente della Scuola del viaggio di Milano, fornisce ai lettori «uno strumento agile nella forma e nelle dimensioni per chi voglia gradualmente affiancare la scrittura di haiku alle proprie esperienze di viaggio».

L’Haiku è una forma di poesia breve di origine giapponese con una metrica precisa e temi prestabiliti. Tradizionalmente è scritta in kanji, ovvero con i caratteri orientali che a loro volta – per una questione grafica e comprensibile ovviamente più a chi conosce questa meravigliosa arte dello scrivere con logogrammi – possono formare una sorta di guida spirituale dei viaggiatori, per raggiungere nuovi orizzonti e trovare nuovi equilibri.

Sho¯tetsu: una buona poesia è quella che lascia sempre qualcosa di inespresso, qualcosa ancora da espandere

Al di là della metrica, i temi sono tre: il primo dovrebbe tradizionalmente essere di tipo naturalistico ovvero dare spazio alla figura di un animale, un

fiore, una pianta o un fenomeno meteorologico; solitamente questo concetto viene espresso all’interno della prima frase. La seconda frase divide concettualmente e foneticamente lo Haiku in due parti, con lo scopo di poter far immaginare al lettore un universo di scenari appartenenti al «non detto». La frase conclusiva (dato che sono solo tre) si riferisce alla ciclicità del tempo.

Grazie a poche parole, la scrittura Haiku proietta il lettore nel proprio mondo permettendogli di intraprendere un cammino

Il padre degli haiku è Bashō, in origine Matuso Munefusa (16441694). Ideò questa forma di scrittura assumendone la pratica, al pari di un «cammino attraverso la natura come nella vita». La prospettiva con cui egli vedeva il mondo, e la sua apertura verso il reale, è ben riassunta dall’autore del manuale: «Camminare ci permette di cogliere quei minimi mutamenti del mondo reale che altrimenti ci sarebbero sfuggiti, a patto però di essere aperti e recettivi verso ciò che accade al nostro esterno».

Chi pratica questa poesia non si esprime normalmente in prima persona, ma lo fa attraverso le sue sensazioni ed emozioni, scegliendo elementi oggettivi del mondo esterno di facile condivisione con il lettore.

Giochi e passatempi

Cruciverba

Il miele di rosmarino ha moltissime proprietà tra le quali quelle di agire beneficamente su… Completa la frase leggendo, a cruciverba ultimato, le lettere nelle caselle evidenziate.

(Frase: 6, 7, 1, 9)

ORIZZONTALI

1. Vale… in mezzo

3. La stella più splendente dell’emisfero boreale

6. In italiano e in tedesco

8. Due… di noi

9. Posto, collocato

10. Se è comune si dimezza

11. Nome femminile

13. Frutti col mallo

14. Un anagramma di Noè

15. Molto in francese

17. Caudali nei pesci

19. Un valore geometrico

Per Bashō, l’interesse cardine in qualità di viandante moderno, secondo quanto è riportato da Saba, era quello di «cogliere la realtà attraverso i dettagli e renderla in forma adeguata sotto forma di Haiku», ed è proprio questa la formula per aspirare ancora oggi ad essere un vero viaggiatore. Quando noi camminiamo, ci immergiamo in una realtà costituita da luci, forme, colori, profumi e suoni, i quali ampliano sia il nostro orizzonte, sia il nostro bagaglio emotivo.

Il viaggio, il cammino anche in senso metaforico, emerge in quasi tutti gli haiku, anche nella sua acce-

zione negativa, l’anti-viaggio: «Questo sentiero / nessuno lo percorre / sera d’autunno».

Nel «manuale per viandanti poeti si trovano dunque delle riflessioni sulle caratteristiche della poesia haiku e sui suoi legami con l’esperienza del cammino, illustrate da una scelta personale di haiku significativi. La parte antologica non è però arbitraria, ma è formata soprattutto a partire dall’opera degli antichi maestri del genere» com’è stato per l’appunto Bashō, il quale da ex samurai si è poi dedicato allo Haiku per tutta la sua vita restante: «L’identificazione di Bashō con l’esperienza del viag-

gio è cosciente e totale fino alle estreme conseguenze: morirà nell’autunno 1694 proprio sul cammino verso Osaka, accomiatandosi dai discepoli e dal mondo con questo haiku: «malato in viaggio / sui campi bianchi ancora / vagano i sogni».

Glauco Saba, nel suo manuale per viandanti poeti, tuttavia, non resta solo nella scia del maestro, bensì rende conto anche dell’evolversi di questa letteratura: «La poesia haiku si è evoluta in modi differenti sia in Giappone che all’estero; tuttavia in molti “compagni di cammino” è tuttora presente una consonanza con i temi e i modi classici che confermano la validità di questa forma poetica nell’esprimere tutte le stagioni dello spirito».

Ne è uno splendido esempio Maria Laura Valente, haijin italiana di risonanza internazionale, con i suoi haiku la cui delicatezza e profondità di sentimento imprimono una cifra inconfondibile: «Di nuovo in viaggio / i rami dei salici / sciolti nel vento // lungo cammino / di ogni foglia caduta / serbo ricordo // pellegrinaggio / mi accompagna in silenzio / la mia ombra» (M.L. Valente, La carezza del vento (2018).

Bibliografia

Glauco Saba, Haiku in cammino, Manuale per viandanti poeti, Ediciclo editore, Portogruaro, 2023.

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21. Un anagramma di oste

23. Le iniziali dell’attore Selleck

25. Nome maschile

26. Un nome biblico

27. Li… seguono in bilico

28. Conifere

29. Penisola dell’Asia orientale

VERTICALI

1. Per a Londra

2. Gareggiano nel Palio

3. Il santo da dessert…

4. Stato francese

5. Le iniziali dell’attore Oldman

6. Esame clinico (sigla)

7. Lubrificante

9. Città vallesana

10. Il bimbo salvato dalle acque del Nilo

12. Uomini inglesi

13. Un Franco attore

16. Un tessuto

18. Filosofia morale

20. Vi nacque Platone

22. L’antico precede il medio

24. Gabbia per polli

26. Il titolo di Falstaff

28. Nel tempo e nello spazio

Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch

Soluzione della settimana precedente

OTTIMA OSSERVATRICE – La beccaccia ha un…

Resto della frase:… CAMPO VISIVO DI TRECENTOSESSANTA GRADI

I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell ’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 21 agosto 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino TEMPO LIBERO 21
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ATTUALITÀ

Cosa succede in Mongolia?

Dal 31 agosto al 4 settembre papa Francesco farà tappa nella terra di Gengis Khan, un’area dimenticata

Pagina 25

La spia uccisa in Alta Savoia Con il caso dell’ex agente segreto francese Daniel Forestier parte la serie di «Azione» sui delitti irrisolti

Pagina 27

I minori e l’orrore della guerra Quanti bambini ogni anno vengono feriti, uccisi, sfruttati come soldati, stuprati, rapiti e non solo?

Pagina 29

Tra i carri armati ammuffiti in Friuli

Dagli ottomani a Erdogan

Un viaggio nella storia alla scoperta delle relazioni complicate tra la Turchia e la Russia

Pagina 31

Svizzera ◆ Il punto sul caso Ruag che ha portato alle dimissioni di Brigitte Beck, la direttrice della società elvetica di armamento

Partiamo da un punto fermo, uno dei pochi in questa vicenda piuttosto contorta. Il punto fermo è un deposito, dove dal 2016 sono stazionati 96 carri armati Leopard 1 di proprietà della Ruag, la società svizzera di armamento nelle mani della Confederazione. Il deposito si trova nella città di Villesse, in provincia di Gorizia, e appartiene a Goriziane Spa, azienda attiva nel settore ingegneristico e nella manutenzione di veicoli, anche militari. La Ruag aveva acquistato dall’esercito italiano questi 96 Leopard per un prezzo complessivo di 4 milioni e mezzo di franchi, con l’obiettivo di rivenderli, interi ma anche smontati, facendo leva sul mercato internazionale dei pezzi di ricambio. In questi sette anni però niente di tutto questo è capitato, e così questi blindati si trovano ancora in Friuli, intaccati dalla ruggine e coperti da un semplice telone di plastica. L’invasione russa dell’Ucraina ha però rimescolato le carte e ridato speranze alla Ruag, più che mai convinta di riuscire a trovare degli acquirenti per questi vecchi carri, costruiti in Germania negli anni Sessanta del secolo scorso, quando l’Europa e il mondo si trovavano in piena guerra fredda.

La vicenda mette in risalto il confronto tra chi difende la neutralità e chi ritiene che questo principio possa coabitare con una limitata cooperazione militare internazionale

A fiutare l’affare, viste anche le impellenti necessità dell’esercito ucraino, è stata in prima linea l’ormai ex direttrice della Ruag, Brigitte Beck, entrata in carica nel settembre del 2022, portando con sé un’ampia esperienza gestionale, ma non in ambito militare. Nei primi mesi di quest’anno l’allora numero uno di Ruag sottoscrive un contratto con la tedesca Rheinmetall AG, società attiva nel settore dell’armamento. Il contratto prevede anche l’intervento del Governo dei Paesi Bassi, pronto a finanziare l’acquisto e a inviare i carri armati in Ucraina, dopo gli imprescindibili lavori di riassetto dei veicoli, di cui si sarebbe occupata la stessa Rheinmetall di Düsseldorf. L’affare è però andato presto in fumo, dopo una presa di posizione della Seco, la Segreteria di Stato per l’economia, convinta che la neutralità elvetica non sia compatibile con una vendita di questo tipo di materiale bellico. Una decisione avvallata successivamente anche dal Consiglio federale, ma soltanto lo scorso 28 giugno e dopo aver chiesto un’ulteriore analisi giuridica anche all’Ufficio federale di giustizia.

Come documentato anche dalla RSI, nei primi sei mesi dell’anno la Ruag ha tentato più volte di convincere la Seco a cambiare idea, facendo soprattutto leva sul fatto che i Leopard 1 di sua proprietà siano ormai fuori uso, in altre parole il materiale in vendita non può più essere considerato «bellico». Dalla Seco però non è mai arrivato il tanto atteso nullaosta. Il contratto è stato pertanto annullato, una brusca frenata che solleva diversi malumori in Germania e nei Paesi Bassi, nonostante l’accordo fosse vincolato a un’approvazione politica da parte delle autorità del nostro Paese. In attesa della presa di posizione definitiva del Governo, che si è fatta attendere per diversi mesi, Bri-

gitte Beck era nel frattempo balzata agli onori della cronaca per alcune sue dichiarazioni pubbliche decisamente poco diplomatiche e relative proprio alla riesportazione di materiale militare svizzero. Una rivendita che la Confederazione ha finora impedito a diversi Paesi europei, pronti a inviare le loro armi di origine elvetica a sostegno dell’esercito ucraino. Per Beck questi Paesi avrebbero dovuto osare di più, violare gli accordi sottoscritti con Berna e consegnare all’esercito ucraino il materiale bellico in questione. «Cosa può fare il nostro Paese per impedirlo? Niente». Questa la conclusione della top manager. Un invito esplicito a violare le norme elvetiche, in aperto contrasto con il Consiglio federale e anche con il Parlamento.

Così sono state lette quelle dichiarazioni, in particolare dal Dipartimento federale dell’economia, diretto dall’UDC Guy Parmelin, e da diversi parlamentari del nostro Paese che hanno pubblicamente criticato l’atteggiamento della numero uno di Ruag. Critiche e pressioni che hanno portato alle dimissioni di Brigitte Beck, giunte lo scorso 8 di agosto. La vicenda, il caso dei Leopard 1, non si chiude però qui. Diversi membri delle Camere federali chiedono ulteriori chiarimenti per far luce sul ruolo avuto in questo contesto dalla consigliera federale Viola Amherd. È lei la responsabile

politica del nostro esercito, è stata lei a proporre l’assunzione meno di un anno fa di Beck ed è sempre lei ad avere stretti contatti con la Ruag, azienda di proprietà della Confederazione. Quanto sapeva la consigliera federale vallesana del contratto, seppur provvisorio, stipulato per vendere i carri armati stazionati in Italia? Quanto si è data da fare lei in prima persona per riuscire a piazzarli? Anche allo scopo di allentare la pressione internazionale sul nostro Paese, criticato da più parti proprio per non sostenere attivamente l’esercito ucraino. Domande a cui in Parlamento le commissioni della politica di sicurezza chiedono di avere risposte chiare e inequivocabili.

La Segreteria di Stato per l’economia e il Consiglio federale sono convinti che la neutralità elvetica non sia compatibile con la vendita di questo tipo di materiale bellico

Sullo sfondo, una questione aperta fin dalle prime ore dell’invasione russa dell’Ucraina, quella della neutralità del nostro Paese. A cui, nello specifico, si aggiunge un ulteriore argomento: il ruolo e il futuro della nostra industria pubblica di armamento. A ben guardare, Beck si è mossa a di-

fesa della Ruag e della sua possibilità di continuare a vendere le proprie armi non solo all’esercito svizzero ma anche all’estero, in particolare agli Stati democratici che ci circondano. Anche per questo motivo la consigliera federale Viola Amherd insiste nel voler collaborare con la Nato, a livello di partenariato e senza intaccare la neutralità svizzera. Proprio per permettere alla nostra difesa di estendere i suoi contatti con altri eserciti e accrescere così anche le sue competenze tecnologiche, coinvolgendo in questo ambito anche la Ruag. Una posizione che solleva anche critiche e polemiche. In conclusione, la vicenda dei vecchi Leopard 1 mette in risalto proprio questo: il confronto interno al nostro Paese tra chi difende la neutralità, nelle sue varie interpretazioni, e chi invece ritiene che questo principio possa coabitare con una limitata cooperazione militare a livello internazionale. Brigitte Beck ha di certo calcato la mano, facendosi del male da sola. Ormai inevitabili, le sue dimissioni vanno viste come una sorta di effetto collaterale delle tensioni politiche che scuotono il nostro Paese dall’inizio dell’aggressione russa all’Ucraina. E chissà se chi le succederà riuscirà a muoversi con maggiore equilibrio e anche a vendere i quasi cento blindati fermi in Italia ormai da sette anni.

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Un carro armato Leopard 1 destinato all’Ucraina e ristrutturato in Germania. (Keystone) Sotto: Brigitte Beck. (Ruag) Roberto Porta

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Occhi puntati sulla Mongolia

Vaticano ◆ Dal 31 agosto al 4 settembre papa Francesco farà tappa nella terra di Gengis

I viaggi di papa Francesco sono spesso un’occasione per aprire una finestra su aree del mondo a torto dimenticate. Ed è un discorso che vale in maniera particolare per la Mongolia, il Paese incastonato tra la Russia e la Cina dove il pontefice sta per recarsi in una visita apostolica inconsueta anche per gli standard a cui ci ha ormai abituato il papa argentino. Dal 31 agosto al 4 settembre Francesco farà infatti tappa nella terra di Gengis Khan, dove i cattolici sono appena 1500. Ci saranno praticamente tutti alla messa che il pontefice celebrerà alla Steppe Arena, lo stadio dell’hockey di Ulan Bator, in un momento che sarà un simbolo potente per una Chiesa rinata appena trent’anni fa nelle ger (o yurta), le tende mongole, alla periferia dell’impero sovietico. Anche andando al di là dell’aspetto religioso, però, la visita del pontefice in Mongolia sarà l’occasione per osservare da vicino un Paese che – pur contando solo 3,5 milioni di abitanti dispersi su un territorio che è cinque volte più grande dell’Italia – sta assumendo un’importanza notevole da un punto di vista geopolitico.

Contraccolpi della guerra

Per arrivarci, intanto, con ogni probabilità papa Francesco tornerà a sorvolare la Repubblica popolare cinese proprio nello Xinjiang, la tormentata regione dove Pechino è accusata di gravi violazioni dei diritti umani ai danni degli uiguri, la popolazione musulmana che vive nella più Occidentale delle province cinesi. Ma Ulan Bator, oggi, è soprattutto un osservatorio interessante sulle ripercussioni asiatiche innescate dalla guerra in Ucraina, che dura ormai da un anno e mezzo.

Proprio per la sua collocazione geografica e il legame storico con Mosca, la Mongolia è uno dei Paesi che hanno dovuto subire i contraccolpi più duri. Dopo la pandemia – che già aveva fermato i flussi turistici – la pur neutrale Ulan Bator ha dovuto comunque subire le conseguenze delle sanzioni imposte alla Russia di Putin. Le sono venuti a mancare, dunque, gli introiti che arrivavano dalle rotte aeree che collegano l’Europa all’Asia, che ora passano molto più a sud per evitare i cieli russi. Ma, soprattutto, sono diventate più difficili le importazioni delle materie prime da Mosca, prime tra tutti i carburanti che in un Paese dove d’inverno si raggiungono facilmente i meno 20 gradi sono una necessità vitale.

Scandali e proteste

Tutto questo ha portato all’esplosione del malcontento: nel mese di dicembre, dopo che è venuto a galla uno scandalo che ha coinvolto alti funzionari di un’azienda di Stato che incassavano enormi mazzette sul carbone venduto alla Cina, vi sono state manifestazioni di piazza a Ulan Bator. Il Governo del primo ministro Luvsannamsrai Oyun-Erdene è riuscito a contenere le proteste; ma in un Paese dove l’età media è intorno ai 30 anni e le prospettive per i giovani restano scarse, l’insoddisfazione cova lo stesso sotto la cenere.

Anche per questo il Governo mongolo oggi sta puntando sempre di più sull’unica carta che ha funzionato in questi anni: il settore minerario. Ne-

Khan, un’area del mondo dimenticata

Una donna cammina davanti a una yurta e, sullo sfondo, la capitale della Mongolia Ulan Bator. In basso: papa Francesco. (Keystone)

gli ultimi 25 anni, infatti, sono stati i proventi di risorse come il carbone, il ferro, il rame e l’oro – presenti in abbondanza nel sottosuolo mongolo e vendute soprattutto ai cinesi – a permettere a Ulan Bator di triplicare il proprio Prodotto interno lordo (Pil). Adesso la nuova frontiera sono le terre rare, i ricercatissimi 17 elementi essenziali per lo sviluppo dell’auto elettrica e di tante altre tecnologie d’avanguardia. Materie prime che stanno aprendo scenari inediti anche per Ulan Bator. Sulle terre rare, infatti, fino ad ora a livello globale Pechino ha potuto contare su un monopolio di fat-

to, controllando la quasi totalità delle esportazioni di questi preziosi materiali anche in Occidente. Le tensioni geopolitiche tra Stati Uniti e Cina e la volontà di Washington di smarcarsi da Pechino nelle «catene di approvvigionamento», però, ora stanno portando alla ribalta le possibili alternative. Compresi gli importanti giacimenti di terre rare della Mongolia, stimati dall’Ufficio geologico nazionale in ben 3,1 milioni di tonnellate di minerali.

Forte di questo patrimonio, il premier Oyun-Erdene sta provando ad allargare gli orizzonti, guardando anche oltre i due ingombranti vicini. In

Degrado ambientale e tortura

Ma cosa dice Amnesty International (AI) sulla Mongolia? Nel Paese – afferma l’organizzazione nel suo Rapporto 2022 – «le ONG hanno dovuto affrontare nuove restrizioni alle loro attività e chi è stato coinvolto in proteste contro l’industria mineraria e altri progetti di sviluppo ha rischiato il carcere».

Le autorità – secondo AI – non hanno sostenuto le comunità di pastori confrontati col degrado ambientale causato dalle operazioni di estrazione. In particolare «le operazioni di estrazione del carbone e di altri minerali nel -

febbraio si è recato a Seul dove ha firmato con il Governo della Corea del Sud un accordo per ampliare la cooperazione per l’esplorazione, l’estrazione e la vendita di queste risorse. All’inizio di questo mese, poi, è volato a Washington dove – incontrando la vice-presidente Kamala Harris – ha annunciato l’estensione alla Mongolia dell’accordo sull’aviazione civile Open Sky, che dovrebbe portare entro il secondo trimestre del 2024 all’istituzione di voli diretti con gli Stati Uniti. Una premessa indispensabile per il potenziamento delle relazioni commerciali attraverso voli cargo, in un Paese privo di sbocchi sul mare.

Legami con Pechino

la regione del Gobi hanno distrutto le praterie, contaminato le falde acquifere, impoverito altre fonti d’acqua e causato l’erosione del suolo». Inoltre gli attivisti per i diritti umani sono stati oggetto di intimidazioni e indagini di polizia. «A luglio il Governo ha istituito un meccanismo nazionale per la prevenzione della tortura. La Commissione nazionale per i diritti umani in Mongolia ha tuttavia registrato casi di tortura e altri maltrattamenti ai danni di persone detenute, anche per ottenere “confessioni”». / Red.

con Pechino. Ed è impensabile che su un crinale oggi strategico la Cina vada contro i propri interessi.

Il deserto avanza

La vendita delle terre rare a Washington e ai suoi alleati può rappresentare davvero un’alternativa a Russia e Cina per Ulan Bator? La strada appare complessa. Intanto perché trasformare dei giacimenti in minerali pronti per essere esportati richiede investimenti e conoscenze su cui l’Occidente ha accumulato forti ritardi nei confronti della Cina. Ma anche ammesso che questo gap possa essere colmato in fretta, resta il problema delle infrastrutture per i trasporti necessarie per movimentare le merci, sul cui sviluppo oggi Ulan Bator è legata a filo doppio

La Mongolia avrebbe tutto da guadagnare, quindi, da un allentamento della tensione tra Cina e Stati Uniti. Anche per poter contare sull’aiuto di entrambi per affrontare l’altro suo più grave problema: la desertificazione, che proprio la corsa allo sfruttamento delle risorse minerarie sta accentuando. Secondo gli ultimi dati dell’agenzia ambientale locale, oltre il 76% del territorio mongolo è colpito dal fenomeno, con livelli di desertificazione acuta in oltre il 20% dei terreni. A rischio oggi vi sono circa il 90% delle aree dedicate alle attività agricole e pastorali, settori importanti anche dal punto di vista culturale per la Mongolia. Il Governo di Ulan Bator sta cercando di frenare la desertificazione con un massiccio piano di forestazione: per il 2023 ha promesso la piantumazione di 40 milioni di nuovi alberi. Ma la sfida vera è conciliare questo sforzo con un’economia in cui da solo il settore minerario costituisce l’80% dell’export del Paese. È una terra in cui si concentrano tante delle sfide del mondo di domani, dunque, la Mongolia di oggi. Otto secoli dopo l’impero di Gengis Khan.

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Il misterioso omicidio di una spia

Delitti irrisolti ◆ Prima puntata: chi era Daniel Forestier, ex agente segreto francese trovato senza vita nel 2019 in

In morte di Daniel Forestier, ex agente segreto francese trovato senza vita nel 2019 in un parcheggio dell’Alta Savoia. Storia d’intrighi, storia di enigmi, storia di doppio e financo triplogiochisti. Storia di cold case, ovvero un «delitto a pista fredda»: quando il killer rimane anonimo e crede di godere del vantaggio del tempo che scorre. Inizia proprio con Forestier una serie per contrastare la dimenticanza. Andremo a conoscere le vittime e cercare gli indizi lasciati dagli assassini. Seguiteci.

Parte con questa vicenda che lambisce anche la Svizzera una serie sui delitti irrisolti

Poco, quasi nulla s’è scritto su questo segreto di Stato – anzi di Stati – e nel poco manca un dettaglio. Basilare. Forestier, ex paracadutista del corpo d’élite del 13esimo Reggimento Dragoni e incursore in missioni estreme dalla guerra del Golfo a quella civile a Mogadiscio, dal Congo al Ciad, ma soprattutto ex agente del Dgse, il Servizio informazioni all’estero della Francia, era andato in pensione a Lucinges, Alta Savoia, mezz’ora di macchina da Ginevra. Proprietario e gestore dell’unico bistrot del paese di 1500 abitanti. Ritmi blandi e pacifici, finalmente vicino alla moglie e ai due figli dopo svariate assenze. Forse una mera copertura. L’ennesima. Nel 2018, un anno prima di venir assassinato a Ballaison – ancora una piccola comunità, 18 chilometri più in basso sulla mappa tra Svizzera e Alta Savoia – ed eccoci al dettaglio inedito, Forestier era sceso con quattro uomini da un volo privato nell’aeroporto di Bolzano. Lo scalo è fra i minori in Italia, a perenne rischio di chiusura: scarso numero di passeggeri, scarsi introiti rapportati ai costi ma strategico per chi deve «trafficare» (la sorveglianza è relativa). Dicevamo dei quattro uomini al fianco di Forestier: francese lui e francesi loro. Però quel giorno, pur dinanzi a probabili e innocui

Alta Savoia

manager, giacca e cravatta e 24 ore, gli agenti doganali avevano chiesto i documenti. E a differenza degli altri, l’ex spia, 58 anni, aveva esibito al varco il passaporto diplomatico come se non avesse affatto chiuso col passato operativo al servizio del Governo francese. Al contrario. E infatti il suo omicidio, nel tardo pomeriggio del 21 marzo 2019, a oggi buio assoluto –mancano i mandanti, gli esecutori, il movente – fu opera di professionisti. Sicari a pagamento.

In un decesso cagionato da armi da fuoco, tre sono i tempi della morte: una cessazione immediata, rapida oppure ritardata delle attività motorie. Quella immediata, come nel caso di Forestier, viene innescata dalla devastazione del proiettile di aree fondamentali per la vita quali il cervelletto e il mesencefalo. Le cinque pallottole lo raggiunsero proprio in quei punti e, in aggiunta, al cuore. Forestier s’accasciò a quattro metri dalla sua utilitaria, una Peugeot 107 ferma in un parcheggio sterrato al limitare di un bosco. Un luogo appartato, sicuro.

Daniel Forestier sarebbe, forse con un pensiero banale, un libro. Non fosse che già lui ne scriveva. Avventure e operazioni romanzando il variegato pregresso personale e la supplementare militanza nei commando clandestini dei Servizi segreti. Di quelli in cui, in fase di annuncio della missione, i capi ripetono la frase: dovesse andar male qualcosa, avete agito di vostra iniziativa.

Killer in Congo

Forestier era appena riemerso illeso da indagini contro una squadra del Dgse accusata d’aver tramato a favore di Denis Sassou Nguesso, militare, longevo presidente della Repubblica del Congo e un dichiarato massone affiliato alla Gran Loggia francese. Secondo gli inquirenti, una squadra avrebbe dovuto freddare Ferdinand Mbaou, di Sassou Nguesso acerrimo rivale, e a sua volta in esilio in Fran-

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cia. La giustizia accertò le responsabilità di quel commando accusando Forestier d’essere stato incaricato di procurare armi ed esplosivi. Un suo sodale, Bruno S., transitato dalla Dgse a un lavoro da investigatore privato, rimediò il carcere. Non Forestier. Forse perché davvero innocente; forse perché aveva alte protezioni. Magari Nursultan Nazarbayev.

Nazarbayev è l’ex presidente del Kazakistan. Ha tre figlie: Dariga, Dinara, Aliya alle quali sono accostate esclusive proprietà immobiliari a Ginevra. La secondogenita Dina-

ra vanta una ventennale presenza in Svizzera. Secondo il quotidiano «Le Monde», Forestier era il capo delle sue guardie di sicurezza. I sicari dell’ex spia si sono mossi attraverso la Svizzera prima e dopo l’omicidio? Forse non ci interessa, anche perché avranno agito sotto copertura. Dobbiamo piuttosto prestare attenzione a quattro elementi. 1) Da nessuna parte come in Congo esistono miniere di Coltan, il minerale utilizzato nella produzione di apparecchi elettronici. 2) Come ricostruito da inchieste giornalistiche, Nazarbayev ha avuto

ingenti interessi in quelle miniere. 3) Delle sorelle, Dinara vanta le maggiori capacità imprenditoriali e diplomatiche, i più estesi e consolidati giri di potenti relazioni. 4) La medesima donna è la seconda moglie del connazionale Timur Kulibayev, oligarca e fra i soci di maggioranza del colosso bancario Halyk bank protagonista di investimenti in Africa. A questi elementi dobbiamo aggiungere quelli già narrati.

Nelle esistenze prima da paracadutista poi da spia, Forestier ha trascorso lunghi periodi anche in Congo. Per la Procura di Lione, che coordinò l’inchiesta, sarebbe acclarata la sua partecipazione al piano per eliminare Mbaou. Un ultimo elemento: già nel 2015, il dissidente congolese, alloggiato a Bessancourt, 7mila residenti nel Nord della Francia, era scampato a un omicidio. Un unico killer in azione. Chi era? Mai scoperto.

Le piste inesplorate

La mattina di quel 21 marzo 2019 Forestier aveva avvisato la moglie che sarebbe rincasato in ritardo: lo aspettava una vecchia conoscenza, residente sempre nell’Alta Savoia. Interrogato dai poliziotti, l’amico negò ogni appuntamento in programma. Sulla scena del crimine, i killer – che si ipotizzò essere due, a bordo di una macchina – non recuperarono i bossoli. Se è vero che i componenti di una munizione sono come un’impronta digitale, unici e associabili soltanto a una pistola, le armi utilizzate nel parcheggio sterrato contro Forestier compongono arsenali mai registrati.

Sul bistrot a Lucinges, buen retiro e simbolo della rinascita di Forestier, vera o falsa che fosse, auspicata oppure solamente esibita, l’insegna in lingua francese: «L’escapade». Ovvero «la fuga». Da chi, da cosa, da quanto? I segreti e parimenti i misteri di Stato sovente sono eterni. Forse. Esistono altre piste. Le batteremo.

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Giovani vite nell’orrore della guerra

Mondo ◆ Quanti minori ogni anno vengono feriti, uccisi,

La guerra non guarda in faccia a nessuno. A volte nemmeno certi giornalisti che, non sapendo più cosa raccontare, cercano l’attenzione dei lettori con collage di storie tragiche che hanno come protagonisti degli «innocenti». Persone che ci guardano e ci sorridono, nelle immagini proposte dallo schermo o dalla carta, ignare del (non) futuro che le attende.

Una bara come culla

Settimana scorsa è stata la volta dei bambini ammazzati in Ucraina in questo lungo anno e mezzo di guerra. Articolo online di un noto quotidiano italiano con, appunto, una terribile serie di fotografie. La prima: il monumento ai piccoli caduti di Kharkiv. Poi c’era Polina, ciuffo rosa e 10 anni, uccisa durante la fuga da Kiev poco dopo l’inizio del conflitto. Sasha, 4 anni, crivellato di colpi insieme alla nonna sul fiume Dnipro: denti da latte in vista e gattone grigio in braccio. Vediamo anche il frammento del volto di Serhii, deposto in una bara bianca simile a una culla: ha avuto la sfortuna di nascere nell’ospedale di Vilniansk, devastato dai missili russi. Invece Kyrylo – residente a Uman –era un sedicenne lungo dallo sguardo malinconico che voleva continuare a studiare… Restiamo dell’idea che si possano raccontare i drammi dell’umanità usando soprattutto parole e dati invece di sfruttare gli scatti delle famiglie colpite dallo tsunami. Ma torniamo all’articolo online…

La notizia: secondo Kiev, «quasi 500 bambini sono stati uccisi e oltre 1000 feriti da quando la Russia ha lanciato la sua invasione su larga scala il 24 febbraio 2022». Le cifre sono state confermate dalle Nazioni unite che hanno sottolineato quanto siano incomplete e approssimate probabilmente per difetto, a causa della difficoltà di raccogliere dati attendibili. Non dimentichiamo poi i minori rapiti: a inizio giugno il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha

dichiarato: «Non disponiamo di informazioni complete sulle centinaia di migliaia di bambini deportati in Russia. Ad oggi, grazie ai vari sforzi, è stato possibile riportarne in Ucraina 371». Senza contare le bambine e i bambini violentati, torturati, reclutati ecc. Non solo in Ucraina (azzardiamo: forse, come tanti sostengono, esistono cose peggiori della morte). Sarebbero stati circa 449 milioni i minori che nel 2021 vivevano in aree di conflitto, afferma Save the children. Non entriamo nemmeno nel merito del capitolo sull’impatto psicologico, tremendo, della guerra su di loro... Nel giugno scorso l’Onu ha pre-

sentato il Rapporto annuale del Segretariato generale sui bambini e i conflitti armati. I dati sono allarmanti: sono aumentate le violazioni gravi contro i minori, nel 2022 le Nazioni unite ne hanno registrate oltre 27 mila in 24 contesti diversi. E anche qui si tratta solo della punta dell’iceberg di un fenomeno in realtà molto più diffuso. «I crimini più frequenti – precisa l’organizzazione – sono stati l’omicidio (quasi 3000) e le lesioni fisiche (più di 5655), seguiti da casi di reclutamento e utilizzo di bambini a fini bellici (oltre 7600) e dal rapimento (quasi 4 mila)». Alcuni minori sono finiti in carcere per associazio-

ABBIOCCO?

ne reale o presunta a gruppi armati (circa 2500), comprese organizzazioni considerate terroristiche dall’Onu, o per motivi di «sicurezza nazionale».

Nel 2022 i casi accertati di violenza sessuale contro minori in contesti di conflitto (a subire qui sono soprattutto bambine e ragazze) sono diminuiti del 12%, ma le segnalazioni di tali crimini continuano ad essere poche rispetto alla reale ampiezza del fenomeno «a causa della stigmatizzazione delle vittime, della paura di rappresaglie, di norme sociali dannose, della mancanza di servizi di aiuto o dell’impossibilità di accedervi, dell’impunità dei colpevoli».

L’uso di ordigni esplosivi ha portato all’aumento delle vittime tra i bambini e al danneggiamento di scuole e ospedali

Ma dove sono state perpetrate le più gravi violazioni contro i minori? Afferma l’Onu: «Nella Repubblica democratica del Congo, in Israele e nello Stato di Palestina, in Somalia, nella Repubblica araba siriana, in Ucraina, Afghanistan e nello Yemen». In alcuni di questi Paesi soprattutto l’uso di ordigni esplosivi ha portato all’aumento del numero delle vittime tra i bambini e al danneggiamento di scuole e ospedali, privando chi resta della possibilità di accedere ai servizi educativi e sanitari, con conseguenze gravissime che possiamo immaginare.

Nessuno è «pulito»

Il documento citato prosegue con l’esposizione di informazioni dettagliate su ogni realtà interessata dalle violazioni in tempo di guerra. Soffermiamoci sull’Ucraina. Le Nazioni unite hanno confermato l’uccisione (477) e gli attacchi all’integrità fisica (909) di 1386 bambini per mano di elementi delle forze armate russe e dei gruppi armati affiliati (658 in tutto), di mem-

bri delle forze armate ucraine (255), di autori sconosciuti (473). Registrati anche 751 attacchi contro scuole (461) e ospedali (290), attribuiti a forze armate russe e gruppi armati affiliati (480), alle forze armate ucraine (212) e ad autori non identificati (59). Nessuna parte quindi ne esce «pulita» perché la guerra, come dice la scrittrice e giornalista bielorussa Svetlana Aleksievič, trasforma l’uomo «in un essere spaventoso e oscuro». Tutti gli uomini.

Ma quindi, alla fine, cosa ci resta da fare? Diverse organizzazioni – come il Fondo delle Nazioni unite per l’infanzia (Unicef), Save the children, Terre des hommes, SOS Villaggi dei Bambini, Enfants du monde, Médecins Sans Frontières ecc. – si adoperano per tentare di sostenere le vittime più giovani dei conflitti. Ad esempio impegnandosi per la reintegrazione dei bambini soldato, nell’assistenza medica e psicosociale delle bambine e ragazze stuprate; per la protezione dei minori non accompagnati in fuga; in progetti a favore delle vittime delle mine antiuomo ecc. Tante fondamentali gocce nel mare di sfide che si presentano davanti agli occhi.

Un altro aspetto da considerare, e portare avanti, è l’educazione alla pace. Save the children Italia, per esempio, ha messo a disposizione un manuale destinato agli insegnanti delle scuole primarie e secondarie dal titolo La pace oltre la guerra (si trova online). Con tre percorsi da proporre in classe: il primo storico La guerra in casa, il secondo geografico Una finestra sul mondo e l’ultimo artistico Immagina la pace. Sempre per tentare di spiegare ai nostri figli che cos’è la guerra, vi consigliamo infine di leggere Lo sguardo oltre il confine (dai 12 anni), scritto da Francesca Mannocchi, reporter e collaboratrice di «Azione». Un saggio adatto anche agli adulti, abituati a leggere veloci notizie online che – senza un’adeguata conoscenza delle dinamiche della Storia – rimangono istantanee di drammi sospesi, in contesti di momentanea follia.

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Quelle amiche-nemiche imprevedibili

Storia ◆

Dall’Impero ottomano al «mediatore» Erdogan. Un viaggio alla scoperta delle relazioni complicate tra Turchia e Russia

Recep Tayyip Erdogan ha di recente dichiarato che il rilancio dell’accordo con la Russia per l’esportazione di cereali dai porti del Mar Nero «dipende dai Paesi occidentali che devono mantenere le loro promesse», compiendo i passi necessari per fare dell’intesa sul grano la base di una trattativa di pace. «Penso che si possa trovare una soluzione», ha aggiunto riferendosi a una recente telefonata con Vladimir Putin, che dovrebbe incontrare entro fine mese. Ricordiamo che nel luglio scorso la Russia ha interrotto la sua partecipazione all’intesa in questione, negoziata dall’Onu e dalla Turchia circa un anno fa, che aveva l’obiettivo di mitigare la crisi alimentare a livello globale, consentendo l’esportazione in piena sicurezza del grano ucraino bloccato a causa del conflitto. Ankara, insomma, continua a voler mediare tra Putin e Zelensky e affermarsi conseguentemente come potenza di rango globale (leggi articolo di Lucio Caracciolo su «Azione» del 24 luglio 2023). Ma facciamo qualche passo indietro nella storia…

Il controllo degli Stretti, e fino alla fine dell’Impero ottomano la sovranità territoriale sui luoghi sacri del cristianesimo, sono gli elementi che più fortemente hanno caratterizzato le relazioni internazionali della Turchia. A volte questi due fattori si sono intrecciati, come accadde a metà del diciannovesimo secolo quando la guerra di Crimea, nata dopo un confronto fra gli Ottomani e la Francia sull’accesso ai luoghi sacri, allora in territorio turco, si sviluppò su altri temi, compreso quello della libertà di navigazione.

Il controllo degli Stretti e la sovranità territoriale sui luoghi sacri del cristianesimo sono elementi che hanno caratterizzato le relazioni internazionali della Turchia

Era accaduto che l’imperatore dei francesi Napoleone III, desideroso di compiacere la folta componente clericale della sua maggioranza, aveva chiesto a ottenuto da Costantinopoli, anche attraverso una minacciosa esibizione di forza navale, certe agevolazioni al transito dei monaci cattolici per Gerusalemme che in pratica assicurava a quella parte della cristianità il controllo dei luoghi sacri. Immediatamente la Russia, che intendeva riservare quei vantaggi alla chiesa ortodossa o almeno considerare la cosa su un piede di parità, attaccò in armi la Turchia.

La Francia e la Gran Bretagna, quest’ultima preoccupata dalla prospettiva di perdere il controllo navale del Mediterraneo, accorsero in soccorso degli Ottomani, presto affiancate da un corpo di spedizione del Regno di Sardegna, che intendeva cogliere l’opportunità per proporre alle potenze d’Europa la questione dell’unità italiana. La mossa del primo ministro Cavour discendeva dal fatto che anche l’Austria aveva dato il suo appoggio politico alle potenze occidentali filo-turche, dunque a Torino si temeva una entente franco-austriaca che avrebbe potuto compromettere l’obiettivo unitario. Dopo due anni di conflitto sanguinoso, con la caduta di Sebastopoli la Russia fu sconfitta e dovette rassegnarsi allo status quo. La vicenda s’iscriveva nel solco di

una lunghissima storia. Già verso la fine del decimo secolo la Crimea era stata al centro di un conflitto fra l’allora Impero bizantino e la nascente Russia raccolta attorno ai Rus’ di Kiev. Attaccato da alcuni generali dissidenti, l’imperatore Basilio II non trovò di meglio che allearsi proprio con gli arcinemici di Kiev. Il loro re, Vladimir I, mandò un esercito in appoggio a Basilio, in cambio della promessa di un’unione matrimoniale che lo legasse al potere bizantino. Poi attaccò i generali ribelli in Crimea, sposò la sorella dell’imperatore, si fece cristiano e ordinò agli abitanti di Kiev di farsi battezzare in massa nel Dneper. Questa conversione non esattamente spontanea farà della Russia la sentinella del cristianesimo ortodosso.

Fin dai tempi dei Rus’ di Kiev, il Bosforo e i Dardanelli hanno esercitato sulla Russia una forte attrazione. Li consideravano una gabbia che frenava la libertà di movimento sulle rotte marittime. Il richiamo dei «mari caldi» è sempre stato irresistibile dalle parti di San Pietroburgo, la grande capitale immersa nel gelido Nord. In epoca sovietica la vecchia questione riemerse una volta ancora. Era il secondo dopoguerra e da tempo ormai la splendida metropoli dello Zar, che aveva dovuto rinunciare al suo fascinoso nome e si chiamava Leningrado, aveva ceduto a Mosca il ruolo di capitale.

Nei primi anni Cinquanta del Novecento, dunque, fu Mosca a esercitare pressioni su Ankara perché la flotta sovietica potesse liberamente transitare attraverso gli Stretti fra Mar Nero e Mediterraneo. I turchi, che dopo la rivoluzione kemalista tendenzialmente gravitavano nel campo occidentale sospinti dalla casta militare, respinsero la richiesta russa. Il Governo dei soviet reagì ordinando una spettacolare parata navale. Fu per questo che la Turchia, desiderosa di coprirsi le spalle di fronte all’ingombrante vicino, chiese e ottenne l’adesione alla Nato.

La Turchia uscita dal retaggio ottomano è tutt’altra cosa rispetto alla superpotenza imperiale del passato, capace persino di risollevarsi da umiliazioni come l’assedio di Costantinopoli del 1204, quando la quarta crociata mutò direzione per volontà del doge veneziano Enrico Dandolo e mise a sacco la maggiore città cristiana del mondo. Eppure, certi capisaldi della politica estera turca hanno conservato la loro attualità nei lunghi decenni del declino ottomano. La sconfitta nella guerra contro l’Italia per il controllo della Libia innescò una serie di eventi che portarono alla disfatta nella Prima guerra mondiale e alla perdita dei Balcani, del Nordafrica e del Medio Oriente. L’impero dei sultani si ridusse alla sola penisola anatolica, e a quel pezzetto d’Europa attorno a Istanbul che comunque assicurò alla nuova repubblica l’eredità ottomana del controllo sugli Stretti.

Alcuni fattori, del resto, alimentano certe contraddizioni della strategia turca: la stretta relazione con le repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale affini per lingua e cultura, il rapporto critico fra l’appartenenza atlantica e l’identità musulmana, l’auto-candidatura all’Unione europea. Tutto questo ha portato la Turchia a una politica multiforme e spesso incoerente. Il conflitto fra Ucraina e Russia ha visto la volontà mediatrice del presidente Erdogan ostacolata da troppe ambiguità. Paese Nato che

si professa al di sopra delle parti, non vuole tagliare i ponti con Mosca ma al tempo stesso ne condanna la politica e soprattutto la sua prosecuzione con altri mezzi, per dirla con Carl von Clausewitz.

Resta il fatto che ancora oggi il controllo del Bosforo è per la Turchia una carta cruciale, che stimola le sue

ambizioni strategiche. La convenzione di Montreux prevede deroghe al libero transito delle navi appartenenti a Paesi in guerra. Dunque, l’operazione militare speciale di cui parlano i russi è una guerra? Accettando questa equiparazione, la Turchia ha chiuso il passaggio, con la sola eccezione delle navi in rotta verso la loro base.

Ma fra le clausole della convenzione si annidano ambiguità e dubbi interpretativi, soprattutto sui traffici non militari. Una quota significativa del petrolio esportato da Mosca via mare passa davanti alle cupole di Istanbul: ecco perché il Cremlino guarda con inquieta attenzione a questo imprevedibile amico-nemico.

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Il tesoro nascosto

Tra le bellezze della Pinacoteca Nazionale di Bologna c’è

Il Polittico del Maestro Jacopino

Pagina 35

Intervista a Roy Jacobsen Tra i più influenti scrittori norvegesi, l’autore de Gli invisibili e Mare bianco racconta le sue saghe

Pagina 37

L’editoria che non c’è più

Il germanista Roberto Cazzola racconta delle sue esperienze e dei suoi incontri in Einaudi e Adelphi

Pagina 39

Ilgrande segreto della matematica

Sospeso

Omar Pedrini, ex Timoria, spiega il suo nuovo album e i suoi sei anni di silenzio lontano dalla scena

Pagina 41

Intervista ◆ David Bessis sfata più di un luogo comune sulla scienza dei numeri che vede come un’avventura alla ricerca di noi stessi

Appassionato di letteratura, stregato da Les fleurs du Mal e da Baudelaire, David Bessis (nella foto), ha scelto però di diventare un matematico, ma è anche scrittore, poeta e ha fondato Tinyclues, società specializzata in intelligenza artificiale, oltre ad essere l’autore di un libro dal titolo insolito: Mathematica. Un’avventura alla ricerca di noi stessi, pubblicato da Neri Pozza, dove non parla di numeri, ma di persone, di esperienze, di se stesso e soprattutto cerca di sfatare molti pregiudizi svelando il legame segreto che tutti noi abbiamo con una delle materie che in ogni epoca è stata considerata dai giovani tra le più ostiche del percorso scolastico.

Cosa l’ha spinta a scrivere un libro dove matematica ed esistenzialismo si intrecciano in modo così inaspettato?

La mia esperienza personale unita al fatto che la matematica è forse, con le pene d’amore, l’argomento al mondo che rende più gente infelice. È assodato che le due cose insieme sono considerate un incubo sotto tutte le latitudini. Ma per quanto riguarda la matematica credo che le persone siano infelici perché non hanno ricevuto la giusta spiegazione, non sanno qualcosa che rende tutto più desiderabile e più facile di quanto sia stato raccontato loro a scuola.

Lei si rivolge a lettori di che età?

Ho cercato di scrivere un libro che possa interessare sia i liceali, che gente con una buona formazione scientifica, perché non racconto niente di tecnico, solo quello che ci succede a livello emotivo e caratteriale mentre studiamo la matematica. Ovviamente penso che a quindici, o vent’anni, questo libro possa avere un impatto cruciale, magari cambiando il modo in cui ci si relaziona con il sapere e la conoscenza.

Perché inizia raccontandosi? A cinquant’anni si vede come una sorta di mentore?

No, affatto. Lo studio, o meglio, l’incontro con la matematica è per ognuno di noi un’esperienza molto personale ed è questo il tema centrale del libro. Perciò affrontarlo significa parlare di sé, ma poi bisogna uscire dalla propria biografia e da quelle che sono state le nostre emozioni e le nostre intuizioni, per farne un racconto più generale che sia illuminante per tutti. Così, per scrivere questo libro ci ho messo vent’anni e mi ha aiutato la storia di molti altri studiosi e matematici, anche famosi come Cartesio, Alexander Grothendieck, William Thurston che hanno avuto una vita molto speciale in epoche e contesti diversissimi, ma che dimostrano con le loro esperienze quale

sorprendente meraviglia sia il funzionamento del cervello umano.

Tuttavia, più si va avanti nella lettura e più si ha l’impressione di avere per le mani un libro di filosofia più che di matematica…

In fondo la matematica è un «affaire» filosofico; non a caso sul frontone dell’accademia, la scuola di Platone, c’era scritto: «Nessuno entri, che non sia geometra». I filosofi sin dall’antichità greca hanno piazzato la matematica molto in alto ed è lecito chiedersi come mai avevano un così alto concetto di questa disciplina. Evidentemente perché avevano scoperto proprio come la matematica può cambiare il nostro modo di pensare.

Un segreto, quindi? Ma come può l’esperienza matematica essere una forma di «chiaroveggenza», influire sulla «plasticità mentale» e persino cambiare il nostro destino?

Non sono il primo a parlare di un «segreto», nel Discorso sul Metodo di Cartesio si legge: «C’è un segreto della matematica che si conosce sin dall’antichità, ma che nessuno insegna» e lui ne fa quasi una teoria del complotto. Non è mai stato insegnato perché se si sapesse, la gente si renderebbe conto che i matematici non sono particolarmente intelligenti, bensì persone normali che hanno un metodo segreto. Ma anche perché non si riusciva a trovare le parole giuste per raccontarlo. Io ci provo in questo libro. Provo a riassumerlo: il grande malinteso sulla matematica è che da molti secoli si fa credere alle persone che per capire la matematica basta pensare in modo logico, e, se abbiamo difficoltà a capire la matematica è che non siamo abbastanza intelligenti, e invece non è vero! In realtà sia la logica che la matematica sono solo degli strumenti per aguzzare la nostra intelligenza. E ci rendono più intelligenti perché se si interagisce con la matematica nel modo giusto ecco che questa diventa uno strumento che sviluppa il nostro intuito.

Per molti l’intuito è qualcosa d’innato, che dà delle risposte in situazioni inaspettate, e per lei?

Anche per me, tuttavia il nostro intuito non è qualcosa di finito e di immutabile, e neppure di infallibile, ma al contrario è qualcosa che si può sviluppare e correggere. Credo che per capire davvero le cose bisogna che siano intuitive, ad esempio che due per due corrisponda a 4 è intuitivo, non abbiamo bisogno di rifletterci, è quello che la matematica ci ha insegnato, e questo tipo d’intuito non lo avevamo alla nascita, ma lo abbiamo sviluppato un po’ per volta. Molti giochi implicano conoscenze mate-

matiche, anche il tennis, anche se per alcuni è solo buttare la palla dall’altra parte della rete, dopo un certo tempo e infiniti palleggi, lei nella sua testa riesce a immaginare il rettangolo del campo, le traiettorie dei suoi tiri e a impostare il suo gioco tenendo conto di quello dell’avversario. Ecco che matematica, immaginazione, chiaroveggenza, fiducia in se stessi e anche sensualità e intuito si combinano insieme in un momento esaltante. L’intuito è un organo vivo, è come un tessuto che può essere sviluppato, e migliorato ogni giorno.

E il genio in matematica esiste?

È stato Einstein a dire: «Non ho doni particolari, sono solo appassionatamente curioso.» Cartesio affermò circa la stessa cosa quattrocento anni fa. Capire, fare matematica, non è un dono, è qualcosa che si sviluppa alle volte senza rendersene conto, e spesso nell’infanzia. Ma i pregiudizi sono molti: secondo alcuni le donne sarebbero meno dotate in matematica degli uomini. E perché mai? Car-

tesio nel 1637 volle scrivere il suo Discorso sul Metodo in francese e non in latino perché così sarebbe stato accessibile anche alle donne che spesso non ricevevano i rudimenti di latino. Pregiudizi secolari hanno reso la matematica un campo prevalentemente maschile, ma ci sono donne matematiche di successo e bisognerebbe raccontarlo più spesso.

Allora il segreto è la nostra capacità di immaginazione?

Quanto all’immaginazione, dieci anni fa c’era chi dava dei tablet in mano ai bambini pensando che così sarebbero stati capaci di utilizzare presto e meglio il computer. Adesso sappiamo che è sbagliato, anzi tossico, perché i bambini ed i ragazzi devono conservare un’immaginazione attiva e reattiva e tutti questi aggeggi tecnologici, la sollecitano sempre meno.

Ma oggi la matematica si studia di più di ieri?

Direi che dobbiamo constatare una

sorta di fallimento a livello mondiale: la matematica oggi viene insegnata a miliardi di persone e la maggioranza ne soffre, non capisce niente, ne è frustrata e ne trae un grande senso d’insicurezza personale. Ma, in questo mondo sempre più tecnologico, dove molte professioni hanno bisogno di una competenza matematica, troppe persone si ritrovano con un handicap molto grave. E questo è inaccettabile. Tutto a causa del malinteso storico che vorrei con il mio libro riuscire a dissipare e così forse tra venti, o cinquant’anni sapremo insegnare la matematica e ci troveremo in una situazione simile a quella della scrittura, dove quasi tutti hanno imparato a leggere e a scrivere e anche se c’è chi lo fa meglio e chi peggio, quasi tutti hanno capito come si fa e questo sarà fondamentale per l’umanità.

Bibliografia

David Bessis, Mathematica. Un’avventura alla ricerca di noi stessi, Neri Pozza, Milano, 2023.

● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 21 agosto 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 33
CULTURA
Keystone
Blanche Greco

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La Pinacoteca nazionale di Bologna e i musei del cuore

Il tesoro nascosto/1 ◆ Il fascino eterno delle opere del Maestro dei Polittici bolognesi e le Collezioni comunali d’arte a Palazzo Accursio

Gianluigi Bellei

Ci sono musei vastissimi, intriganti, discosti, monotematici; tutti con le loro storie, i loro capolavori, ammirati o nascosti. Ma, come scrive Michel Laclotte, se la «vocazione dei musei non è quella di attirare il pubblico a tutti i costi» ne esistono di particolari da visitare più e più volte: i musei del cuore. Personalmente uno di questi è ubicato a Palazzo d’Accursio a Bologna e contiene le Collezioni comunali d’arte. Qui vi è il ritratto più bello del mondo. Almeno per me. Anche se l’ho perso di vista e non ne rammento l’autore. Avevo circa 13 o 14 anni durante la prima visita e ho fatto una scoperta eccezionale. Teniamo presente l’elemento principe dei ritratti: gli occhi. Devono guardare lo spettatore e soprattutto, spostandosi a destra e a sinistra devono continuare a farlo. Solo in questo caso si tratta di un buon lavoro. Bene, nel girovagare fra le sale mi imbatto in una tela molto piccola (diciamo 20x30 centimetri) che contiene la parte centrale di un volto. Ho controllato gli occhi e spostandomi a destra e a sinistra mi sono accorto che tutto il volto mi seguiva e appariva di tre quarti quando ero ai lati e centrato quando ero davanti. Sconvolgente; il dipinto sembra muoversi. Ritornai molte volte per ammirarlo e carpirne il segreto. Non ho mai visto nient’altro di così stupefacente.

Poco fuori dal centro città c’è la Pinacoteca nazionale.

Il canonico Carlo Cesare Malvasia pubblica nel 1686 Pitture di Bologna –che negli anni successivi raggiunge le sette edizioni – e assieme alle Vite rende onore alla storia cittadina nel momento del suo maggiore splendore dopo le età dei Carracci e del Reni. Secondo Luigi Crespi – nelle sue Vite, uscite a complemento di quelle del Malvasia nel 1769 – il cardinal Lambertini, divenuto Papa nel 1740 col nome di Benedetto XIV, meditava di erigere una galleria che «fosse superiore a quante altre Gallerie Principesche si ammirano nella nostra Europa» collocandovi tutte le superbe pale d’altare dei pittori bolognesi. A metà del secolo da Dresda Gian Ludovico Bianconi preconizza la costituzione di una Galleria citando con estrema puntualità i dipinti che doveva contenere. Nel 1762 l’Accademia Clementina entra in possesso di un primo nucleo di dipinti donati da monsignor Francesco Zambeccari. Nel 1796 Napoleone fa requisire 31 dipinti da portare a Parigi. Con la soppressione dei conventi l’Accademia Clementina seleziona molti lavori ubicati in seguito all’Accademia di Belle Arti sorta nel 1802. Nel 1815 inizia il ritorno da Parigi dei dipinti trafugati e dopo i lavori di ampliamento e ristrutturazione la Pinacoteca apre al pubblico il 14 marzo 1882 accanto all’Accademia.

Le parole miti di Gianni Celati

Raccolta ◆ Conversazioni e interviste attorno allo scrittore e critico letterario italiano

Una trentina le sale che comprendono i dipinti degli artisti bolognesi o di quelli che hanno operato a Bologna in ordine cronologico. Da rimarcare San Giorgio e il drago di Vitale da Bologna (1305-1361); diverse opere di Francesco Raibolini detto il Francia; la Madonna di Santa Margherita del Parmigianino; le sale dedicate ad Agostino, Ludovico e Annibale Carracci; la Strage degli innocenti di Guido Reni eseguita verso il 1611 e considerata uno dei più alti documenti pittorici del periodo; poi Giuseppe Maria Crespi, i fratelli Gandolfi e infine il simbolo della Pinacoteca ovvero L’estasi di santa Cecilia di Raffaello del 1515.

Soffermiamoci però su di una delle opere dello Pseudo Jacopino: il Polittico con la presentazione al Tempio e la Pietà del 1330-1335 (nella foto). Precisiamo che dello Pseudo Jacopino si sa poco e la maggior parte delle opere sono attribuzioni variabili nel tempo. Roberto Longhi, nella presentazione della «Mostra della pittura bolognese del ’300» avvenuta nel 1950, lo chiama Jacopino di Francesco. I nomi che giravano erano i più disparati; nel catalogo della Pinacoteca acquistato nel 1984 è definito Jacopino da Bologna. Lo stesso Longhi fa un tentativo e definisce i confini di uno stesso artista a dipinti previtaleschi in un’identica personalità che chiama Jacopino di Francesco dei Bavosi o dei Papazzoni. Senonché con gli anni si è capito che quel corpus pittorico non poteva essere datato alla fine del secolo bensì all’inizio e contemporaneamente Luciano Bellosi suggerisce il nome Pseudo Jacopino di Francesco. Nel 1986 Andrea Bacchi divide in due gruppi il lavoro dello Pseudo Jacopino propendendo per due mani diverse: quella del Maestro dei polittici bolognesi e quello del Maestro della Crocefissione campana, per via della tavola con lo stesso soggetto conservata al Louvre. Daniele Benati nel 2003 sostiene che il Maestro dei polittici bolognesi possa essere il miniatore-pittore Lando di Antonio e nel catalogo della mostra

«Giotto e le arti a Bologna» del 2006 ritiene che i dipinti siano «ripartiti tra più maestri individuati sulla base di opere simbolo». Insomma l’ambiente era fluido anche se esisteva una sostanziale unità linguistica.

Il Polittico in questione è una tempera su tavola di centimetri 197 per 114. La parte centrale si riferisce alla Presentazione al Tempio sormontata dalla Pietà. In basso, racchiuse in archi lobati, tre formelle per lato come in alto, ma stavolta entro cuspidi triangolari. Al centro la Madonna con il sacerdote Simeone, la profetessa Anna e san Giuseppe con due tortore. Al lato destro Paolo con il libro e la spada, san Michele Arcangelo alato e con la spada e san Gerolamo, con il leone e il libro. A sinistra Pietro con la chiave, Agostino con accanto il bambino e Pietro crisologo, dottore della Chiesa. In alto la pietà e altri sei santi. E proprio questa Pietà affascina. Il viso dolente della Madonna, ruvido, marmoreo, come le contadine; la mano di Gesù che l’abbraccia quasi senza vita, il corpo ossuto, il sangue, le spine. Un aspro naturalismo, scrive Benati, «tale da scompaginare come un brivido a fior di pelle le certezze dell’ordine toscano».

Nelle Collezioni comunali c’è inoltre il Crocifisso, di uno scultore bolognese eseguito verso il IV decennio del XIV secolo in legno policromo, che ha lo stesso impianto del volto del Cristo della Pietà in una «somiglianza delle fisionomie levantine tutt’altro che fortuite», precisa Luca Mor.

Lo Pseudo Jacopino è un pittore intriso dei duplici caratteri riminesi e francesi ricco di un «espressionismo tra umoristico, sarcastico e selvaggio», scrive sempre Longhi. Un maestro geniale che rivela la «vita credula e crudele, mistica e sensuale».

Dove

Pinacoteca nazionale di Bologna, via delle Belle Arti 56. Ma-me 9.00-14.00; gi-do 9.00-19.00. www.pinacotecabologna. beniculturali.it

All’inizio dei miei studi di letteratura italiana a Ginevra, da matricola ingenua qual ero, pensavo che gli scrittori contemporanei imprescindibili fossero Eco, Moravia, Buzzati, Ginzburg, Bassani, Cassola, Maraini, De Carlo… Invece scoprii non senza meraviglia che nel dipartimento d’italianistica vigeva tutt’altro canone: Bilenchi, Meneghello, Manganelli, Malerba, Celati, Biamonti, Ceronetti, Morante, Bufalino, Pontiggia, Arbasino, Vassalli, Consolo, Volponi… Allora erano tutti in attività. Ora sono tutti scomparsi, compreso Gianni Celati (nella foto), che degli autori elencati è il più eccentrico e inclassificabile. Proprio per entrare nel mondo di questo affascinante scrittore e saggista è uscito un ampio volume, ll transito mite delle parole, a cura di Marco Belpoliti e Anna Stefi, che raccoglie un folto gruppo di sue interviste, dagli anni Settanta al 2014, anno della morte. La progressione temporale consente di seguirlo quasi passo dopo passo, dai primi testi espressionisti e stralunati (nelle Avventure di Guizzardi c’è una reminiscenza diretta delle novelle picaresche), agli anni del DAMS, fino alle successive, affascinanti «scritture documentaristiche» realizzate in collaborazione con Luigi Ghirri. Ma una parte non trascurabile delle oltre seicento pagine è dedicata alla sua battaglia per rivendicare uno spazio nel sistema letterario italiano, appannaggio quasi esclusivo dei tradizionali gruppi di potere.

Se in gioventù Calvino è stato il suo mentore e l’ha lanciato, le tappe fondamentali della sua vita sembrano tutte segnate dal caso. Perfino l’insegnamento a Bologna, dove fu un docente molto eterodosso, durò solo alcuni anni. Infatti nel libro non mancano gli strali contro gli eccessi del DAMS e contro il primato della semiotica, ossia il dogma attorno al quale era stato creato l’ateneo bolognese. E nel volume la semiotica viene sbeffeggiata a più riprese, ora ridotta a feticcio dissennato che sforna schemi e discorsi a caso, ora paragonata a un boccone indigesto che

produce molta salivazione e poco altro. D’altronde Celati è sempre stato estraneo al principio di appartenenza, prioritario nell’ecosistema letterario italiano, in base al quale per avere successo occorre far parte di una cricca, di una loggia o una fazione. E in questo destino si è sempre sentito affratellato, anche per ragioni di stile, a scrittori come Tozzi, Campana, Delfini. Senza contare che tra i suoi modelli ci sono anzitutto l’Ariosto, da delibare sempre ad alta voce, e il nostro Robert Walser, anch’egli un solitario della letteratura. Per essere efficace la parola ha bisogno di un alveo rituale che la protegga e che ne valorizzi la sostanza fonica

Ma Celati non si è mai crogiolato nel risentimento dell’emarginato, perché i sentieri poco battuti che ha seguito si sono ogni volta cristallizzati in libri eccentrici e raffinati, come nei Narratori delle pianure, dove la sintassi si fa liquida e lo sguardo fotografico, o Verso la foce, diario di vagabondaggi lungo gli argini del Po, dove descrizioni e divagazioni alimentano un’immaginazione che tenta di recuperare i ritmi della narrazione orale. A mia conoscenza solo Guido Ceronetti è riuscito a raffigurare con altrettanta efficacia il delta del Po, questo territorio tra terra e acqua così vasto e così sconosciuto.

Forse il cuore del libro è costituito dall’elogio della novella tradizionale, con le sue cadenze orali e con il piacere quasi fisico di raccontare. Per essere efficace, infatti, la parola ha bisogno di un alveo rituale che la protegga e che ne valorizzi la sostanza fonica. Insomma, narrare come un cerimoniale. Ma queste caratteristiche sono state soppiantate dalla dittatura della trama «cinematografica» e dall’onnipresenza del climax che deve catturare il lettore, due tecniche peculiari del racconto moderno.

Tuttavia l’esortazione più vigorosa di questo intellettuale messo ai margini dalla cultura ufficiale è quella sull’urgenza di rimettersi a studiare la tradizione narrativa italiana più gloriosa e negletta, la letteratura cavalleresca. Perché di fronte a un capolavoro come l’Orlando furioso non possiamo ripetere la dissennata esclamazione d’Ippolito d’Este: «Messer Ludovico, dove avete mai trovate tante fanfaluche?».

Bibliografia

Gianni Celati, Il transito mite delle parole. Conversazioni e interviste 1974-2014 , Quodlibet, Macerata, 2022.

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Le meravigliose storie norvegesi di Roy Jacobsen

Intervista ◆ Tra i più influenti scrittori contemporanei, l’autore de Gli invisibili e Mare bianco racconta le sue saghe

Il primo romanzo della saga dei Barrøy, Gli invisibili (Iperborea) di Roy Jacobsen (nella foto in basso), è una sorta di Malavoglia scandinavo. L’autore, uno dei più influenti scrittori norvegesi contemporanei, nel 1989 ha vinto il prestigioso Premio della Critica Norvegese e i suoi romanzi Seierherrene (I vincitori) e Frost sono stati nominati per il Premio del Consiglio Nordico. Nel libro si si narra la storia di tre generazioni di una famiglia di pescatori che cercano di sopravvivere nei primi decenni del XX secolo su una piccola isola, sperduta e brulla, una delle migliaia che si trovano al largo delle coste norvegesi dello Helgeland (nella foto un’immagine del paesaggio), a sud delle Lofoten. Lì vivono i Barrøy, che hanno lo stesso nome dell’isola: il vecchio Martin, i figli Barbro e Hans, la moglie Maria e la figlia di quest’ultimo Ingrid, in quel fazzoletto di terra minacciato da burrasche e uragani con «tre salici, quattro betulle e cinque sorbi», dove le case che abitano «dall’alto sembrano quattro dadi lanciati per caso».

Nel secondo romanzo arriva la guerra, è il 1944, la Norvegia è occupata dai tedeschi, la vita delle persone è sconvolta, e sull’isola approdano degli sfollati, questo costringe Ingrid, ma anche Barbro a convivere con loro e a guardare con occhi diversi il proprio rapporto con la vita e con la propria terra.

Sì, esatto, nel primo romanzo, Gli invisibili, incontriamo una famiglia che trascorre la propria vita dura ma armoniosa e pacifica in un’isola remota a largo della costa settentrionale della Norvegia, in un isolamento per così dire quasi assoluto, con un contatto molto scarso con il resto del mondo. In questo secondo romanzo Mare bianco, la loro intera esistenza è sconvolta, capovolta, il mondo arriva sull’isola, e non solo il mondo, ma il dramma della Seconda guerra mondiale che spinge i miei personaggi a cambiare completamente sguardo, ad adattarsi alle circostanze che nel passato non sapevano nemmeno esistere, una sorta di terapia d’urto che immagino la guerra causi a chiunque non sia preparato ad essa. Se Gli invisibili era permeato di uno stabile e relativamente sicuro flusso di stagioni e tempo, questo secondo romanzo fa i conti con il cambiamento, repentino e brutale della Storia.

Le donne sono assolute protagoniste di questo suo ciclo romanzesco,

come Maria ne Gli invisibili, il primo romanzo della saga, arrivata da un’altra isola, una donna inquieta con un forte senso critico, o nel secondo sua figlia Ingrid, che è al centro della narrazione.

Ingrid, la figlia di Maria, è il personaggio principale in Mare bianco, la persona che si è assunta la responsabilità di gestire la vita sull’isola quando scoppia la guerra. Ma durante la catastrofe, sperimenta anche il miracolo dell’amore, l’amore della sua vita, quando salva Alexander, il prigioniero di guerra russo naufragato lì. Vive uno strano e meraviglioso paradosso, i due non sono in grado di comunicare verbalmente con nessun linguaggio comune, ma non hanno bisogno di un linguaggio verbale, così il loro amore ha un’influenza ancora più profonda sui sentimenti e sulla vita di Ingrid rispetto alla guerra, un pensiero che nel libro dà un messaggio di bellezza e speranza anche quando avvengono eventi disastrosi come un conflitto bellico.

C’è uno shock, una perdita di memoria di Ingrid alla fine della prima parte del romanzo che cambia la prospettiva della narrazione. Perché questa scelta?

Ingrid è traumatizzata a seguito di un brutale stupro subito da parte di due nazisti arrivati a perlustrare l’isola, e questa perdita di me-

moria temporanea è la sua strategia inconscia ma naturale per convivere con questo trauma. Nel periodo successivo gli eventi vissuti ritornano, in un modo che lei riesce a gestire emotivamente, e il lettore del romanzo è invitato a prendere parte a questo processo doloroso del recupero di memoria, visto dalla prospettiva interiore di Ingrid. La risposta finale si manifesta quando lei vede gli occhi della sua bambina appena nata e realizza che è il prodotto dell’amore, invece che della violenza e della guerra.

Sua madre è nata a Dønna, un’isola della contea di Nordland, queste storie vengono dai racconti orali di suo nonno, padre di diciotto figli, eroe delle sue mitologie giovanili, ma anche dal fatto che lei ha frequentato quei luoghi da ragazzo e fatto persino il pescatore. Lei stesso hai una casetta su un’isola dove va a scrivere. Come mai ha sentito il bisogno di raccontare questo mondo?

La mia casa a Dønna non è poi così piccola, mi occupo io stesso costantemente di ingrandirla e migliorarla, un lavoro che forse non finirà mai. Sì, ho vissuto in questa parte magnifica del mio Paese da quando sono nato. E durante gli anni sono entrato in contatto con una storia dopo l’altra, storie terribili ma anche meravigliose, epiche, così mi sono sentito in obbligo di ricordarle e scriverle affinché i miei lettori di tutto il mondo potessero leggerle, intanto per l’innegabile contenuto esotico di molte di loro, ma anche per sottolineare gli aspetti universali, evidenziare quello che unisce tutti noi in quanto esseri umani in quest’isola che è il mondo.

Gli occhi di Rigel e Una barca bianca chiuderanno la quadrilogia. Cosa succederà ai Barrøy nei prossimi libri?

Nel romanzo Gli occhi di Rigel Ingrid va alla ricerca dell’amore della sua vita, Alexander, che è scomparso. Per la prima volta lascia volontariamente l’isola, e portando con sé la figlia appena nata visita l’entroterra, i boschi e le campagne. Nella difficile situazione postbellica fatica

a orientarsi: si muove in un mondo strano, enigmatico, incontra persone che stentano a riconciliarsi con quello che hanno fatto durante la guerra, persone che mentono, modificano il loro passato, dimenticano quando fa comodo… Perché tutti noi, – individui e nazioni – tendiamo a conservare della nostra storia, della nostra biografia, le parti che ci fanno sentire più a nostro agio nel presente. Un’esperienza molto confusa per una persona che ha a cuore la verità. E alla fine Ingrid troverà solo la verità che riuscirà a sopportare. Invece

in Una barca bianca Ingrid è tornata sulla sua amata isola Barrøy, che ora è più prospera e popolata che mai. Finché non arriva un ragazzino, un ragazzino con una storia strana, un personaggio che sembra avvolgere tutti in un incantesimo, e che ancora una volta costringe gli esseri umani a interrogarsi su di sé, sulla propria mentalità. E alla fine scoppia la tempesta.

Bibliografia Roy Jacobsen, Mare bianco Iperborea, Milano, 2023.

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civile italiano di Chiavari. (Wikipedia)

Memorie editoriali

Saggio ◆ Racconto di un mondo che non c’è più

Ci aveva pensato Ernesto Ferrero qualche mese fa nel suo Album di famiglia (Einaudi) a ripercorrere gli anni effervescenti e fortunati dell’editoria italiana del Novecento. Fortunati per chi c’era, per chi quel momento e quelle esperienze li ha vissuti da vicino, con la testa e con il cuore, per chi – nel piccolo come nel grande – si è trovato ad essere una forza propulsiva e virtuosa di un mondo in cui i libri, le idee, la letteratura e i grandi maestri convivevano e si confrontavano.

«Ti mando in colonia!»

Pubblicazione ◆ Storia delle colonie estive italiane del Novecento, tra welfare ideologico e architetture ardite

«Ti mando in colonia!» è ingiunzione storica implicitamente minacciosa che risuona ancora nelle orecchie dei non più giovani tra noi. E in quelle orecchie di infanzie sanguinose ha un tasso di terrore inferiore forse solo a «Ti mando in collegio!», destinazione equivalente ma qualificata dalla durata indeterminata: anni invece di estati. Per buona pace di quei tempi e dei loro protagonisti, l’abitudine probabilmente oramai esaurita di vacanze collettive in luoghi di villeggiatura solitamente marittima è sostituita oggi da «campi» vari di varia attività: lavoretti di utilità sociale, scuole estive, vivicittà con rientro serale, tutto molto più semplice e sostenibile per i piccoli e ormai perlopiù spensierati villeggianti.

Stefano Pivato è stato professore universitario di storia contemporanea e in questo Andare per colonie ci racconta degli aspetti principali di quella ricorrenza e dei suoi cicli annuali: prima di tutto, il progetto esplicito di un sistematico welfare pubblico in aiuto di un’infanzia che certo non era normale, marcata com’era stata a due riprese da frequenti orfanezze di guerra. Ma poi pure il liberarsi soprattutto nel Ventennio fascista di architetture ardite e di sicura virtù, in occasione della costruzione dal nulla di strutture e edifici di accoglienza, che sulla base di una riconosciuta singolarità

oggettiva potevano generare nei piccoli ospiti choc estetici di meraviglia e incredulità. Mariangela, villeggiante alle «Navi» di Cattolica alla fine degli anni Trenta, parla di una immagine «indelebile, stampata nella mia mente dal mio arrivo. Tutto un vetro splendente, una nave circondata dalle piccole barchette». «Un’opera d’arte, meravigliosa in tutto», aggiunge Laura, che allora era stata lì per tre estati.

I complessi che ospitano le colonie sperimentano tecniche coraggiose e materiali prima mai usati, e sono spesso collocati in luoghi arditi, non di rado a pochi metri dal mare. C’è abbondanza di calcestruzzo e vetro, e le forme richiamano simboli del territorio e del regime: navi, aerei, torri e verticalità estreme, fino al disegno, con gli edifici, della M di Mussolini. E non casuali sono anche le intestazioni e le concrete denominazioni dei complessi. Le quali avranno espressioni celebrative del regime in abbondanza, fino alla caduta dello stesso, quando i precedenti omaggi saranno obiettivo di una sistematica cancel culture, nella quale muteranno nome tra le altre la Giovinezza di Pietra Ligure, la Italo Balbo di Marina di Massa, la Costanzo Ciano di Calambrone. All’insegna di un marcato carattere ideologico della pratica delle colonie (è in ballo l’educazione dei ragazzini), il secondo Dopoguerra vivrà una bre-

ve stagione di appropriazioni alternate delle gestioni, laiche o religiose, fino a un definitivo assestarsi sull’impronta confessionale, legata direttamente al Vaticano attraverso la sua Pontificia commissione di assistenza.

A fare da contraltare a un piano politico tutto collettivo (sono molto belle le fotografie degli edifici ma anche quelle di diversi ’insiemi’ di bambini), questo libro non dimentica infine la psicologia individuale e gli stati d’animo dei piccoli ospiti, registrandone gli umori negativi alla partenza e positivi al rientro, e verbalizzandone anche le lettere spedite a casa. Sono vistosi alcuni ricordi positivi, come quello della cantante Rita Pavone, che frequentò le colonie Fiat nei primi anni Cinquanta e che pur essendo stata spesso testimone del pianto malinconico di alcune compagne disse di trovarsi «magnificamente in quel tipo di organizzazione». Andare in colonia, esservi «mandati», non è comunque mai piaciuto ai più; nemmeno a Enzo Biagi, piccolo ospite negli anni Trenta: «Era come andare soldato: un addio alla casa e alle care abitudini, e avanti in fila per due: bagno, dormire, passeggiata, gabinetto, merenda».

Bibliografia

Stefano Pivato, Andare per colonie estive, Bologna, il Mulino, 2023.

Oggi, mentre a dettare letture e tendenze sono i BookToker a suon di hashtag #BookTok, i ricordi e gli aneddoti personali di chi è stato parte di quell’universo culturale sono impagabili.

Ad esempio quelli di Roberto Cazzola che nel suo saggio ritrae da vicino i suoi maestri Giulio Einaudi (nella foto), Roberto Calasso, Roberto Bazlen e Giulio Bollati. Torinese, classe 1953, dal 1974 responsabile della germanistica Einaudi, dal 1995 per Adelphi, autore di diversi romanzi (Lavati le mani, Elmar e La delazione editi da Casagrande), ci regala il racconto schietto, intimo, a tratti divertente, di un mondo ormai scomparso assieme ai suoi protagonisti. Di Giulio Einaudi ci dice che «non poteva stare da solo», ricorda «il suo amore per le rose e i fiori di Perno», la sua totale identificazione con la casa editrice, la sua commozione per la morte dell’«altro Giulio», l’amico e rivale Bollati, al quale era «debitore di “moralità editoriale” e di rigore “nel saper distinguere il buono dal falso”». Ne ricorda l’abitudine a pescare nei piatti degli altri senza chiedere il permesso «come un padre generoso, o come un despota, un sovrano assoluto e ghiribizzoso». Di

Bazlen, invece, ricorda che per conoscere e giudicare un libro il fondatore di Adelphi riteneva indispensabili una «testa fredda» e «occhi caldi». Per lui la qualità del racconto è data dall’«Erlebnis: l’esperienza vissuta, l’esperienza diretta» e citava come esempio la Novella degli scacchi di Zweig. Altro suo concetto fondamentale è quello della Verwandlung (trasformazione) che la lettura come un’«opus alchemica» è in grado di determinare in noi.

Cazzola riflette anche sulla missione della letteratura, del mestiere di editore e di germanista. Quello di «fare memoria», di scavare nel ricordo, nella storia, nello sforzo di restituire «una risposta etica alle tragedie e alle ingiustizie del passato, come appuntamento fra le generazioni». A suggerirgli questo pensiero è il fil rouge che si estende tra le due esperienze, einaudiana prima, adelphiana poi. L’autore ci racconta di come Vertigini di Sebald, fosse stata rifiutata dal Consiglio editoriale di Einaudi, e di come invece Adelphi avesse accolto Austerlitz. «La letteratura è il tentativo di una restituzione postuma attraverso un romanzo. Una restituzione narrativa, intesa a conciliare empatia e rigore storico, finzione e archivio». A questo va aggiunta «un’esigenza di autenticità e poesia» che ben riscontriamo nell’opera di Anne Weber Annette, un poema eroico (Mondadori, 2020). Dunque la grandezza dei testi e di chi li promuove sta nel saper valorizzare il passato ma al contempo – dice Cazzola – saper «offrire uno sguardo prospettico» anticipando «i movimenti tellurici al di sotto della superficie». E «a quegli autori presaghi ai quali è data la capacità di “indovinare il mondo”, bisogna prestare ascolto».

L’autore infine condivide una selezione dei testi editoriali per Adelphi in cui emerge il legame fra «la teoria e la prassi editoriale». Nel 2004 a proposito di Das Buch des Vaters di Urs Widmer scrive: «è un romanzo che vorrei vedere presto in “Fabula”»; nel 2010 suggerisce Justiz e Grieche sucht Griechin di Dürrenmatt «potessimo avere in catalogo il Grande Elvetico, restituiremmo al pubblico un gigante che – negli ultimi anni in Italia… – ha latitato».

Bibliografia

Roberto Cazzola, Un quarto di pera di Giulio Einaudi. E altre memorie editoriali Edizioni SEB27, Torino, 2023. Keystone

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Il ritorno del guerriero sospeso

Musica ◆ Intervista a Omar Pedrini che dopo sei anni di silenzio e con qualche cicatrice in più racconta il suo nuovo disco

La storia di un uomo si legge nelle sue cicatrici. Omar Pedrini (nella foto) ne ha accumulate fin troppe. Una condizione cardiaca precaria lo costringe, ormai da quasi vent’anni, a periodici interventi chirurgici che lui ha sempre affrontato con lo spirito degno di uno dei suoi soprannomi, «il guerriero». L’ex leader della rock band Timoria, delle sue cicatrici va orgoglioso tanto da averle esibite anche sulla copertina della sua biografia Cane Sciolto (scritta con Federico Scarioni) in un bellissimo scatto del compianto grande fotografo Giovanni Gastel. Le cicatrici però non si vedono nella sua musica e il suo nuovo album Sospeso, il primo in sei anni, è una celebrazione della vita, un invito alla speranza e a condividere le sfide delle nuove generazioni.

Sospeso arriva dopo sei anni di silenzio discografico…

Dopo il primo episodio cardiaco grave che accadde nel 2004, quando avevo appena vinto il premio della critica a Sanremo, mi ero abituato a una routine di controlli medici e di pause dalla musica. Nei periodi di convalescenza forzata ho collaborato con la televisione e lavorato nel mondo dell’enologia in cui ho avuto un grande maestro come Luigi Veronelli. Nonostante i miei problemi di salute non ho mai voluto abbandonare la musica del tutto. Sono e rimango un musicista, continuo ad esibirmi quando posso ma ormai compongo nuove canzoni solo quando sento davvero che c’è qualcosa di nuovo da esprimere.

La tua vicenda personale è un filo conduttore di alcuni dei brani della raccolta.

Questi ultimi due anni sono stati molto duri. Ho avuto la necessità di un nuovo intervento, messo in pausa forzata per colpa del Covid. Dopo l’operazione, la brutta notizia di dover tornare in sala operatoria per un nuovo problema… e poi le riabilitazioni in isolamento dalla mia fami-

glia a causa della pandemia. La canzone che apre l’album, Dolce Maria, è un’Ave Maria laica. In questi mesi non ho mai avuto paura, perché sono stato fin da bambino un temerario, ma la spiritualità mi ha aiutato. Sono un anarchico, pacifista, e non ho mai avuto un dogma o una religione. Sono sempre stato vicino alle filosofie orientali che avevano ispirato molte canzoni dei Timoria. Ma ho riscoperto, con una scelta molto trasgressiva per chi mi conosce, la figura di Maria. La vedo come un personaggio storico che non appartiene solo alla religione cristiana. Un simbolo forte di una donna fiera e coraggiosa. La madre di Gesù che oggi che ho cinquant’anni, vedo sempre più come un giovane, un ragazzo, un figlio. Un ribelle, il primo degli hippie e il primo dei socialisti.

Il disco guarda però alla nuova generazione e soprattutto ai ragazzi impegnati nelle campagne ambientaliste.

Il disco è dedicato a loro. L’ecologia per me non è una scoperta di oggi. Già nel 1994 con i Timoria pubblicai l’album 2020 Speedball. Era frutto dei miei studi universitari. Un libro dal titolo State of the World affermava che la nostra generazione, quella dei nati dalla fine degli anni ’60 e che sarebbe stata definita X Generation, era destinata a essere la prima che riceveva in eredità un pianeta nelle condizioni ambientali, sociali ed economiche peggiori rispetto alla generazione precedente. Oggi ho due figli piccoli, ma ai tempi avevo 26 anni, ero diventato padre per la prima volta, cercai di immaginare in che mondo avrebbe vissuto mio figlio quando avrebbe avuto la mia età. Non avrei ovviamente mai pensato che il 2020 sarebbe stato drammatico come quello che abbiamo vissuto. Alcune canzoni di quell’album sembrano oggi profetiche.

Il tema del cambiamento climatico è trattato nel singolo Diluvio uni-

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versale, in Col fiato sospeso e ne La giusta guerra, dove canti: «Combatti per la terra, è l’unica giusta guerra». Come giudichi le azioni che i giovani ambientalisti stanno portando avanti?

Non si possono non difendere questi ragazzi. Sono pacifisti e non violenti, anche se talvolta usano metodi discutibili. Da amante dell’arte soffro a vedere offeso un quadro o la fontana di Trevi, ma hanno trovato un modo di farsi notare senza far male a nessuno. Io mi ricordo la generazione che protestava nelle università con le molotov. Loro vogliono il dialogo. E noi non li ascoltiamo. Bisogna dare certezze, dire loro che abbiamo un piano per rinunciare al fossile. Fare qualcosa. Non processarli. Il rischio è che vengano strumentalizzati, infiltrati e la loro battaglia pacifica si trasformi in violenza. Sensibilizzare serve, ma ormai non è più abbastanza. C’è bisogno di atti concreti.

Ma anche il rapporto con la natura è un rapporto spirituale… Certo. Io sono anche un contadino e

questo disco nasce dalla campagna. In Toscana, nella bassa senese, ho una piccola tenuta che era appartenuta a mio padre dove faccio l’olio e il vino. Qui ho portato la mia band e qui sono state incise tutte le canzoni. È zona etrusca e nell’album il brano Ombre Etrusche rievoca le suggestioni di queste terre. Volevo distaccarmi da Milano, sentivo che questo disco così personale e nello stesso tempo così universale doveva nascere a contatto con la natura. Io sono «sospeso», ma sospeso è anche il mondo. Parlo di me, ma anche di quello che sta accadendo intorno a noi.

Guardi anche al passato con un brano dedicato agli anni ’80 e un nuova versione di Fresco uno degli ultimi brani dei Timoria. Plastic Killer è un brano new wave che ricorda quando da Brescia andavamo a Milano per la sua scena musicale e culturale. Questo disco è dedicato anche ad amici punti di riferimento della città che sono venuti a mancare negli ultimi anni: Andrea Pinketts, Giovanni Gastel, Matteo

Guarnaccia e Tommaso Labranca. Milano è diventata più ricca, ma è culturalmente più povera. Fresco era nell’ultimo album dei Timoria, la colonna sonora del film Un Aldo qualunque. La scrissi dopo una delusione amorosa, ma mi è tornata in mente in questi mesi di ricoveri e convalescenze. Ai tempi dovevo uscire da una storia d’amore sofferta, adesso mi sono trovato a cercare di uscire da una malattia contro cui continuerò a combattere.

L’album si chiude con Mangia ridi ama e tanta di voglia di vivere. Lawrence Ferlighetti il poeta della beat generation e mio grande amico aveva uno slogan: «Ridi spesso, mangia bene e ama sempre». Ha vissuto fino a centouno anni, rimanendo sempre un bambino. Ho pensato a lui e a mio figlio, Leone Faustino, che oggi ha due anni. Voglio che mio figlio abbia un futuro e viva una vita lunga e intensa come quella di Lawrence. È per questo che penso che ora sia il momento di agire e di difendere il mondo che abbiamo. E io voglio essere in prima linea.

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In fin della fiera

Ho fatto il pieno di emozioni

Il Lingotto di Torino è una delle poche fabbriche di auto rimaste ancora in piedi. Inaugurata il 15 maggio 1923, ha festeggiato i primi cento anni di vita. Progettata dall’ingegner Giacomo Mattè Trucco, è un’opera rivoluzionaria.

Le automobili erano assemblate man mano salendo verso l’alto, lungo una spirale elicoidale. Sul tetto subivano il collaudo correndo sulla pista per poi scendere a terra dal lato opposto lungo una spirale simmetrica alla prima. Da anni la Fiat non esiste più, ha cambiato nome, è emigrata all’estero. Il Lingotto ospita ogni anno il Salone del Libro, sulla Bolla c’è la Pinacoteca Agnelli e in queste settimane è in corso una mostra intitolata Pista 500. Non potevo sottrarmi alla fascinazione che esercitano su di me quegli undici capolavori esposti all’aperto. Salito in ascensore fin sulla pista, per mettere piede oltre l’ingresso sono stato costretto a pestare un pri-

Pop Cult

mo capolavoro. Si tratta di un nastro largo un metro di vernice rifrangente bianca e gialla steso a terra. L’autore Marco Giordano l’ha creata l’anno scorso, l’ha intitolata Loop Pool e l’ha fatta girare tutto intorno alla pista. Mal contati sono tre chilometri, da percorrere tutti se vogliamo leggere la poesia visiva che porta stampata una lettera qua e l’altra là, in inglese naturalmente. L’ho poi letta sul catalogo. Se state pensando a Leopardi siete fuori strada. Inizio la visita da una scultura in bronzo dorata alta quasi cinque metri, l’artista Valie Export le ha dato un nome semplice da memorizzare Die Doppelgängerin. Avete indovinato, si tratta di due enormi forbici intrecciate dipinte in oro. Se missione dell’arte è suscitare i ricordi, qui l’obbiettivo è centrato in pieno. Contemplo l’opera e penso a mia nonna materna che, armata di forbici, inseguiva sull’aia il gallo per trasformarlo in cappo-

ne. Il catalogo della mostra propone un’altra lettura: «La forbice è anche una metafora onnicomprensiva delle molteplici identità che abitano i nostri corpi». Bravi: se spendi la «metafora» vai sul sicuro. Passiamo a The Guardians di Nina Beier. Su un’aiuola quadrata ricoperta di ciottoli cinque leoni di marmo sono sdraiati su un fianco, stufi di essere stati per millenni e per molte culture un simbolo del potere. Vogliono tornare nella foresta e riprendere il vecchio mestiere. L’opera trasmette un insegnamento: per liberarsi di un tiranno non è necessario ucciderlo, è sufficiente convincerlo a sdraiarsi su un fianco. Un collettivo di artisti danesi si firma Superflex. Lavorando in gruppo per tre anni e senza una sosta per prendersi un caffè, hanno creato una enorme scritta in lettere maiuscole in alluminio. È in inglese ovviamente: «It Is Not The End Of The World» ovvero: «Questa non è la fine del mondo». Tu

La fama non è eccellenza artistica

In concomitanza con la recente ricorrenza dell’ottantesimo compleanno di Mick Jagger, il web è stato invaso da un filmato quantomeno eloquente – un montaggio eseguito a regola d’arte, che mostra un estratto da un programma televisivo degli anni Settanta, in cui al frontman dei Rolling Stones viene domandato se riesca a immaginare di calcare il palco da sessantenne («magari sostenendosi con un bastone»). E mentre la star risponde affermativamente (e senza alcuna esitazione), viene accostato a questo reperto video un clip tratto da un recente concerto degli Stones, in cui vediamo l’ormai ottantenne Mick dimenarsi come un ossesso, saltando qua e là alla stregua di una cavalletta, senza mostrare il minimo segno di fatica; come a voler smentire chiunque ritenga quello della rockstar un mestiere riservato ai giovani.

Xenia

pensi: «Finalmente un’ondata di ottimismo contro i profeti di sventura». Errore: il catalogo ti spiega che la frase comunica l’esatto contrario, che il pianeta Terra continuerà a vivere anche quando l’ultimo esemplare della specie umana sarà scomparso. Cos’è l’arte? È pagare qualcuno perché ti suggerisca uno scenario apocalittico. Un’opera di facile lettura è Monopoly Game: è una gigantesca fotografia a colori risalente agli anni ’80. Ritrae in un interno famigliare un gruppo di adulti, uomini e donne, intenti a giocare a Monopoly. Anche qui devi leggere il bugiardino della mostra per renderti conto che si tratta di un’opera d’arte. Perché in quel gruppo di giocatori in cui si trova anche l’artista Nan Goldin, nata nel 1953, è rappresentata tutta la comunità LGBTQ+. Forse il messaggio è libertario: per Monopoly siamo tutti eguali, il regolamento del gioco non fa discriminazioni. La Pista 500 ospita anche due instal-

lazioni sonore, entrambe rivoluzionarie. La prima, intitolata Dead Time dell’inglese Cally Spooner, dura solo 45 minuti e 15 secondi. L’altra opera sonora è di un’artista americana, Louise Lawler, Birdcalls e dura 7 minuti e un secondo. Sono versi di 28 specie di uccelli, fatti da lei pronunciando i nomi di 28 celebri artisti, tutti maschi bianchi. Una vera goduria. Chiudo per ora con l’opera più impegnativa della mostra. Titolo Pistarama. È un murale più lungo del nome dell’artista, Dominique Gonzalez-Foerster: sono 150 metri spalmati sulla curva parabolica nord, un collage ispirato alla storia politico culturale di Torino: sono in tanti, però manca tutto il mondo Fiat, dagli Agnelli a Vittorio Valletta, a Ghidella, a Cesare Romiti. Forse per una forma di pudore. Ho fatto il pieno di emozioni. Riprendo l’ascensore, tornerò un’altra volta per completare la visita.

A questo punto, diviene difficile non tentare un confronto inevitabile quanto impietoso con le capacità delle rockstar di oggi – nate a svariate generazioni di distanza da quella magica stagione a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, i cui maggiori esponenti superstiti (dagli ex Beatles agli Who) ancora adesso si producono in esibizioni spesso notevolissime. Certo, in molti sarebbero inclini a sminuire l’entusiasmo per questi exploit ottuagenari attribuendolo al noto effetto nostalgia, il quale inevitabilmente porta gli ascoltatori più stagionati a rimpiangere gli «animali da palcoscenico» della propria giovinezza; eppure, è difficile negare l’evidenza – ovvero, il fatto che oggi la cultura della performance poprock è mutata radicalmente, così come la concezione del ruolo stesso di frontman e le aspettative che il pubblico intrattiene al riguardo.

Così, ciò che gli anglosassoni chiamano stamina («energia») sembra non essere più alla base della performance rock; e questo, inevitabilmente, si riflette anche sul concetto stesso di esibizione live, divenuta ormai più simile a uno showcase intellettuale delle intenzioni del cantante, piuttosto che a una strenua maratona volta a valorizzarne le abilità e doti performative. Del resto, è innegabile come, al giorno d’oggi, sia difficile assistere al concerto di un performer cosiddetto giovane (ovvero, sotto i 50/60 anni) che si dimostri in grado di «reggere il palco» per più di un’ora filata senza cominciare ad annaspare; e questo, purtroppo, poco ha a che vedere con il valore artistico o la potenza vocale. Finiti sembrano i tempi in cui il vulcanico Freddie Mercury guidava i Queen in poderose cavalcate rock da quasi tre ore in stadi ricolmi di gente,

I pastori macedoni nella notte di San Lorenzo

La prima cosa che vedo di lui è il fucile: l’occhio nero della canna puntata contro di me. Sto camminando su un costone, tra i sassi e l’erba stenta che ricopre di peluria il dorso di una montagna anonima, nell’Appennino abruzzese. Nonostante la bellezza scontrosa, le pareti di roccia verticali, le valli verdi, i villaggi medievali, la spina dorsale dell’Italia è per lo più vuota – uno spazio restituito alla fauna selvatica e alla natura, insieme grandioso e sinistro.

Non ci sono turisti, non ho incontrato nessun altro. Ho solo sentito un furente latrato. Gregge di pecore vicino. Un pericolo, perché i bianchi cani da pastore non permettono di avvicinarsi e ti aggrediscono se osi farlo. Per evitarli, ho abbandonato il sentiero, e procedo dall’altra parte del vallone, sotto vento, verso il rifugio. Ma l’uomo col fucile è stato allarmato dai cani, ed è spuntato dalla cre-

sta, all’improvviso. Mi blocco, terrorizzata. L’uomo esplode in una risata infantile e abbassa l’arma, con sollievo. Ha avuto più paura di me. Non saprei dire la sua età. Attorno agli occhi – di un verde cupo – si irraggiano le rughe. La carie o le percosse gli hanno fatto perdere i denti (due nell’arcata superiore, uno in quella inferiore). Il suo viso è perciò una maschera piuttosto spaventosa. È il pastore del gregge. Vive in un container un centinaio di metri più in basso: me lo indica con la mano ossuta. Si chiama Vlado, ed è tutto ciò che riesce e dirmi di sé. Tocca lo zaino, pretende da mangiare. Posso lasciargli solo un panino, una barretta energetica e un succo di frutta. Del cibo rimanente ho bisogno per arrivare al rifugio. La sua richiesta del resto mi insospettisce. Mi pare impossibile che le persone per cui lavora non lo riforniscano. Gli promet-

to che gli lascerò qualcosa al ritorno. Confesso che – benché io non sia sola – ho paura di quest’uomo, che mi fissa con insistenza. È armato. Vlado incamera le provviste, fischia ai cani e sparisce. Al ritorno, per prudenza, il mio compagno e io prendiamo un’altra strada.

In hotel, la sera, apprendo che il pastore è macedone. Ce ne sono parecchi, sparpagliati nei dintorni. Da anni, ormai. Qualcuno andò a prenderli dopo la fine della guerra in Yugoslavia. Sono bravi, gente esperta, montanari. Sanno come badare alle pecore. Costano poco. Vivono isolati, ciascuno sul suo pascolo, per tutta l’estate. Una vita dura. Nessun italiano vuol farla più. Ma è normale per loro. Può darsi. Però la notte di San Lorenzo, mentre vaghiamo in auto in cerca di un prato per gustarci la pioggia di stelle, lo incontriamo di nuovo. E non ci fa meno paura della prima

o Michael Hutchence e i suoi INXS inanellavano una ventina di canzoni semplicemente impeccabili senza quasi versare una sola goccia di sudore: quella che oggi viene a mancare è proprio la cosiddetta «cultura del palco», ovvero la capacità di gestire lo spettacolo dal vivo con l’energia, carisma e assertività che una vera star dovrebbe sempre mostrare, indipendentemente dal genere musicale di riferimento. Infatti, sebbene il rock puro (o «da stadio») possa definirsi come più adatto a un contesto live «intenso», qualsiasi tipo di artista dovrebbe sempre tenere a mente il vero obiettivo di ogni performer – vale a dire, quello di suscitare meraviglia nel pubblico; e sebbene sia difficile identificare la motivazione precisa di un simile cambiamento di rotta, molti ritengono che la causa sia da ricercarsi nelle

pretese del mercato discografico, oggigiorno molto più incentrate sull’immediatezza dei risultati (ad esempio, l’ottenere un primo posto in classifica con un tormentone estivo) e sulle apparenze che non sulla sostanza. In altre parole, le pretese dei fan si sono fatte più sfuggenti, e il pubblico stesso è, per certi versi, più passivo e meno esigente di un tempo.

Qualunque sia il motivo, un dubbio permane: aver relegato l’eccellenza live a un trascurabile dettaglio secondario potrebbe rappresentare il segnale d’allarme di una tendenza più pericolosa – una superficialità che, nell’epoca degli influencer miliardari e delle finte «icone di stile» del discutibile sito web OnlyFans, tende a considerare la mera appariscenza un attributo sufficiente a garantire la fama, confondendola implicitamente (e ingenuamente) con l’eccellenza artistica.

volta. Una sagoma emersa dalla notte si staglia nella luce dei fari e ci intima di fermarci. Non è una rapina. È Vlado, e vuole un passaggio. Indica a gesti il grappolo di luci del paese da cui proveniamo. Andiamo nella direzione opposta, ma lo facciamo salire. Ha camminato ore nel buio, per scendere fin qui. Avrà una buona ragione. La ragione sono Darko e Luka, altri due pastori macedoni. Si incontrano in uno spiazzo prima delle case, perché non vogliono farsi vedere (forse in paese ci sono i padroni delle pecore, che hanno lasciato incustodite). Luka, barba folta, occhi di cielo, lo abbraccia e lo accarezza. Vlado è suo cugino, mi dice, lo ha portato lui in Italia. Non poteva restare al suo villaggio. Toccato, o traumatizzato dalla guerra – non me lo spiega. Un peso inutile, lì. Perfetto qui. Non si lamenta, sopporta, sorveglia

e minaccia – come i suoi cani. Darko gli passa una busta con scatolette di tonno e un pacco di riso – perché, ride, nessuno si ricorda di Vlado, lassù. Non è una pecora, che può brucare l’erba. La fame lo porta a valle, come un lupo. Perché non va a caccia? chiedo. Ci sono le lepri, pure le quaglie. Il suo fucile non ha cartucce, spiega Luka. Gliel’hanno dato per farlo sentire al sicuro. Vorrei dirgli che nessuno dovrebbe essere trattato come un cane, o un lupo, nel mio paese, e che non lo accetto. Ma non lo faccio. Li lascio insieme, a raccontarsi chissà cosa, finché la notte nera li nasconde. Adesso, ogni volta che scorgo un bioccolo di lanugine, nelle valli deserte degli Appennini, mi chiedo se in quella brutale e inumana solitudine il pastore macedone vittima di guerra ha trovato l’ultima umiliazione, o un’inattesa forma di libertà.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 21 agosto 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 43 CULTURA / RUBRICHE ◆ ●
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