Azione 34 del 19 agosto 2019

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Cooperativa Migros Ticino

Società e Territorio Una spiaggia a Lugano? L’idea non è morta, ed è l’occasione per aprire un dibattito su cittadini, territorio e natura

Ambiente e Benessere I costi della salute e la salute ad ogni costo: ce ne parlano Luca Jelmoni e Paolo Merlani, direttori all’Ospedale Regionale di Lugano

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXII 19 agosto 2019

Azione 34 Politica e Economia Si aprono prospettive incerte nell’Italia oberata dal debito e dalla nuova crisi politica

Cultura e Spettacoli A pochi passi dal confine, in una cornice ricca di storia, si trova il Sacro Monte di Varese

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pagine 11-12

di Sara Rossi Guidicelli pag. 43

Stefano Spinelli

la carica dei 700

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A Berna la polarizzazione perde terreno di Peter Schiesser Vi ricordate, all’indomani delle elezioni federali di quattro anni fa, del tanto parlare di svolta a destra, dopo che il PLR e l’UDC insieme avevano conquistato 101 seggi su 200 al Consiglio nazionale? La tesi è stata sostenuta dal PS per tutto il quadriennio ogni qualvolta una votazione veniva decisa dai voti di questi due partiti borghesi. In realtà, però, non regge il confronto con i fatti. Ci hanno pensato i giornalisti della «SonntagsZeitung» a smentirla (vedi edizione dell’11 agosto 2019), analizzando tutte le votazioni avvenute fin qui al Consiglio nazionale in questi quattro anni: se nella legislatura 2011-2015 PLR e UDC avevano vinto da soli lo 0,4 per cento delle votazioni alla Camera del Popolo, in questa la percentuale è salita allo 0,9 per cento – non proprio una rivoluzione. Piuttosto, l’analisi ci porta un’altra sorpresa: una maggiore concordanza. Infatti le vittorie ottenute dalla coalizione PLR-PPD-PS-UDC sono salite al 38,5 per cento (2011-2015: 34 per cento), quelle fra PLR-PPDPS al 31 per cento (2011-2015: 25,8 per cento), ma anche quelle fra i partiti borghesi PLR-PPD-UDC sono aumentate, dal 10,1 al 12,3 per

cento, il centro sinistra (PPD-PS-Verdi) ha invece perso terreno (dal 2,9 all’1,3 per cento). Che cosa è successo? Come era facile prevedere, l’altra Camera – notoriamente più moderata – e il voto popolare hanno fatto da calmiere. L’esempio forse più evidente è quanto avvenuto con l’ultima revisione dell’AVS: poco prima della fine della scorsa legislatura, la riforma presentata dal Consiglio federale venne cementata da un compromesso fra PPD e PS al Consiglio degli Stati, ma nella presente legislatura, quando venne il turno del Nazionale, PLR e UDC la trasformarono, dandole un timbro di centro-destra; gli Stati cedettero, però in seguito la riforma cadde in votazione popolare. Solo un compromesso fra PPD, PS e PLR permise l’anno scorso di dare un po’ di sollievo all’AVS, legando la riforma della tassazione delle imprese (anch’essa bocciata dal Popolo poiché troppo di destra) ad una maggiore capitalizzazione dell’AVS. Il fatto di unire in una votazione due temi così diversi contraddiceva un principio sacro della democrazia parlamentare elvetica (l’unità della materia), ma quest’anno il Popolo l’ha accolta comunque. Gli esiti delle votazioni popolari hanno quindi spinto PLR, PPD, PS e qualche volta anche

l’UDC a più miti consigli: inutile forzare delle soluzioni che poi non hanno speranza di essere accolte dal Popolo, il quale evidentemente non si spinge così a destra come UDC e PLR speravano. E poi c’è da ricordare che in tanti dossier, primo fra tutti quello europeo, l’UDC resta graniticamente all’opposizione, ciò che rende più facile un’alleanza fra PLR, PPD e PS. Quest’anno è prevedibile che il pendolo torni ad oscillare verso sinistra, anche in virtù della dominanza dei temi legati all’ambiente. Ma la lezione da trarre da questa legislatura è semplice: qualsiasi forzatura politica da parte di risicate maggioranze al Nazionale è tempo perso, poiché agli Stati non troverà maggioranze e ancor meno davanti al Popolo. Serve invece, visti i numerosi cantieri aperti, una maggiore consapevolezza degli effettivi equilibri della democrazia svizzera, ossia un ritorno ad una maggiore concertazione, dopo 20 anni di polarizzazione politica. È tempo di tornare a riempire di senso e di contenuti il termine «concordanza» e di ricreare una «Formula magica», forse in futuro non più identica nella forma a quella del passato (con nuovi partiti in Consiglio federale) ma simile nella sostanza, ossia tale da forgiare maggioranze solide.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 agosto 2019 • N. 34

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Società e Territorio Bondo, due anni dopo Le ferite dell’alluvione causata dalla frana del Pizzo Cengalo si stanno rimarginando, ora Bregaglia guarda al futuro

Giornate europee del patrimonio Per la 26.esima edizione, quest’anno dedicata ai colori, si organizzano in Svizzera un migliaio di eventi e manifestazioni, molti anche in Ticino pagina 7

The Social Truck A breve vedrà la luce un originale progetto sociale dedicato ai ragazzi della Nuova Bellinzona pagine 12-13

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Più natura e spazi liberi L’idea di una spiaggia a Lugano non è morta, va però ripensata, come va ripensato il rapporto fra cittadini e territorio

pagine 12-13 Un aspetto da non dimenticare è lo stato di terrore in cui vivono le vittime. (Ti-Press)

Come parliamo di violenza domestica

Abusi La giornalista americana Rachel Louise Snyder, nel libro No visible bruises, definito da «The Washington Post»

un testo che «salverà delle vite», offre una chiave diversa per interpretare la violenza sulle donne Stefania Prandi Dalla Francia agli Stati Uniti, passando per l’Italia dove è appena stata approvata una nuova legge (Codice Rosso), si intensifica il dibattito sulla violenza domestica, psicologica e fisica, che sfocia nei femminicidi. Con quest’ultimo termine si intende l’uccisione di una donna a causa del suo genere di appartenenza (cioè del suo essere donna), per motivi di odio, disprezzo o senso del possesso. Nella maggioranza dei casi, il delitto è commesso dal marito, dal compagno o dal fidanzato, spesso dopo la rottura della relazione. Un fenomeno confermato dall’ultimo rapporto dell’Onu sull’incidenza dei crimini nel mondo (UNODC), secondo il quale, inoltre, gli omicidi commessi per mano di un partner raramente sono casuali, essendo in molti casi pianificati o esito di un’escalation. Ma come si parla di violenza domestica? Nel dibattito pubblico, anche mediatico, si fa riferimento a «uomini terribili e irascibili» e alle loro «sfortunate donne», alla «rabbia maschile incontrollabile» e al «fato avverso». Un libro appena pubblicato negli Stati Uniti offre una chiave di interpretazione diversa. In No visible bruises (Senza lividi

visibili), definito da «The Washington Post» un testo che «salverà delle vite», la giornalista e scrittrice americana Rachel Louise Snyder esamina le cause culturali e sociali dei femminicidi e l’inadeguatezza del sistema giudiziario nella prevenzione dei delitti. L’analisi della tragedia di un’intera famiglia del Montana, con moglie e figli uccisi dal padre e marito, poi suicida, diventa uno strumento per raccontare come un familicidio possa avvenire nell’incapacità di chi è attorno, dai parenti agli amici, di capire la gravità della situazione e di intervenire in tempo. Dalle interviste a familiari, avvocati, agenti di polizia e dall’analisi dei documenti disponibili, come ad esempio i filmini girati durante i momenti di svago, emerge uno spaccato chiaro: l’uomo che commette uno o più omicidi non è consumato da una rabbia costante né viene colto da raptus. Invece, è ossessionato dalla convinzione che gli si debba portare rispetto e lo si debba assecondare sempre. Soprattutto, non concepisce la possibilità di essere lasciato. La violenza di genere è pervasiva e ha radici nella normalità della quotidianità. L’autrice di No visible bruises – il saggio ha ricevuto ottime critiche e ha un fitto calendario di presentazio-

ni – ha alle spalle anni di reportage in diverse parti del mondo. Ha scritto di spose bambine in Romania, di vittime di crimini sessuali in India e di sterilizzazione forzata in Tibet. Quando è tornata a Washington nel 2009, ha iniziato un’indagine approfondita sull’epidemia di violenza contro le donne negli Stati Uniti. Dopo avere intervistato centinaia di persone tra vittime, esperti e assassini, si è fatta un’idea precisa del problema. La violenza domestica è diversa dagli altri reati, non accade nel vuoto, non capita perché qualcuno si trova nel posto sbagliato al momento sbagliato, ma è frutto di un sistema culturale. È il male di qualcuno che si conosce e dal quale ci si aspetta amore. Questo la rende così insostenibile. Di solito è nascosta anche ai confidenti e in molte occasioni la violenza fisica risulta meno dannosa di quella emotiva e verbale. Ed è subdola perché accade in casa, luogo che «dovrebbe essere un territorio sacro, il “rifugio in un mondo senza cuore”, come mi ha insegnato il mio insegnante di sociologia all’università». Tra le tante informazioni contenute nelle trecentoventi pagine, due sono particolarmente rilevanti per la prevenzione delle tragedie. La prima:

il tentativo di strangolamento è un segnale particolarmente importante – va preso come un allarme – per capire se si rischia che la violenza sfoci in un omicidio. La seconda: se la sequenza temporale della violenza (minacce, stalking, soffocamento, violazione degli ordini restrittivi) viene registrata e condivisa tra le diverse forze dell’ordine e le istituzioni giudiziarie, si possono prevenire più facilmente gli esiti fatali. Interessante la riflessione offerta da Snyder sull’espressione «violenza domestica» usata per descrivere un fenomeno così devastante: una terminologia, a suo dire, inadeguata, incapace di cogliere l’incubo vissuto nella realtà. «Per altri tipi di eventi terribili abbiamo parole che comunicano vividamente le situazioni che descrivono. Genocidio e olocausto, per esempio, oppure crimini contro l’umanità. Sono tutte astrazioni – fondamentalmente solo un mucchio di fonemi messi insieme – capaci tuttavia di evocare immagini sorprendenti. Mentre scrivo queste parole, le visualizzo nella mia mente. Sono una sorta di stenografia del peggio che gli esseri umani si infliggono l’uno all’altro. Con “violenza domestica” non si ottiene lo stesso effetto». Addirittura, può ri-

mandare a un’idea di complicità della vittima perché un pensiero comunque è che, dopo tutto, il proprio partner si sceglie e lasciarlo sia semplice, basta volerlo. La parola «domestica» evoca qualcosa di accogliente, non di brutale. Inoltre, molte persone tendono ad associare il mondo della casa a qualcosa di femminile e di «privato», che non riguarda l’intera società. Ricercatori ed esperti stanno cercando una definizione migliore, ma è difficile trovare qualcosa che metta tutti d’accordo. Snyder si è rivolta anche a Deborah Tannen, sociolinguista della Georgetown University e autrice di numerosi libri sul linguaggio e sulla comunicazione. Hanno discusso per un giorno intero di persona, continuando successivamente a distanza, su quali parole potrebbero essere adeguate. Sono giunte alla conclusione che l’aspetto peggiore vissuto dalla vittima è il «terrore» – termine che, secondo loro, dovrebbe essere considerato seriamente – ossia la paura del male non ancora accaduto. Ci si abitua a uno stato di accresciuta vigilanza, in uno stress psicologico paragonabile a quello dei prigionieri di guerra, perché vengono usate le stesse tattiche di isolamento, umiliazione e lavaggio del cervello.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 agosto 2019 • N. 34

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idee e acquisti per la settimana

il festival dei molluschi

Attualità Per tutta la settimana queste delicate prelibatezze del mare saranno protagoniste

nelle pescherie di Migros Ticino I molluschi ci fanno ricordare le vacanze trascorse al mare e, oltre ad essere deliziosi, sono particolarmente versatili, facili da cucinare, poveri di calorie e grassi, ma ricchi di proteine. Ma quali sono i molluschi più comuni disponibili nella vostra pescheria di fiducia e cosa li caratterizza? I molluschi sono animali dal corpo molle, privi di scheletro, che per difendersi dai pericoli del mare si rifugiano all’interno di conchiglie o fanno uso di tentacoli. Ne esistono molte specie dalle forme più disparate, che si suddividono in tre grandi gruppi: cefalopodi, gasteropodi e lamellibranchi. I cefalopodi si caratterizzano per l’assenza di conchiglia - o con conchiglia interna -, e includono per esempio le seppie, il polpo, il moscardino e il calamaro. I gasteropodi sono molluschi con la conchiglia a una sola valva, di cui fanno parte tra gli altri lumaca di mare, patella, torricella e murice. La conchiglia a due valve è invece il segno distintivo dei lamellibranchi, classe di molluschi che include per esempio capasanta, ostrica, vongola, canestrello, mitilo, tartufo di mare e tellina.

la ricetta

Azione 20%

impepata di cozze

su tutti i molluschi dal 20 al 24.8

L’impepata di cozze è un grande classico della cucina mediterranea. (migusto.ch) ingredienti per 4 persone 2 scalogni · 3 spicchi d’aglio · 3 cucchiai d’olio d’oliva · 2 kg di cozze pulite · 3 dl di vino bianco · 400 g di pelati tritati · sale · pepe · 1 mazzetto di prezzemolo Preparazione Tagliate gli scalogni ad anelli, tritate l’aglio. Scaldate l’olio in una padella ampia. Soffriggete gli scalogni e l’aglio per ca. 2 minuti. Aggiungete le cozze e mescolate il tutto. Unite il vino e i pelati. Mettete il coperchio e lasciate sobbollire per ca. 5 minuti, finché le cozze si sono aperte. Eliminate le cozze rimaste chiuse. Condite il sughetto con sale e pepe. Tritate il prezzemolo e cospargetelo sulle cozze.

Grande varietà ai banchi del pesce Migros

Attualmente nelle pescherie di Locarno, S. Antonino, Agno, Lugano e Serfontana trovate una scelta varia di molluschi freschissimi, in grado di soddisfare al meglio le richieste dei clienti buongustai. Gli esperti del banco del pesce sono a vostra disposizione per rispondere a ogni domanda e consigliarvi ricette di sicuro successo. La selezione spazia dai calamari alle seppie, dalle capesante alle vongole veraci, dalle cozze al polpo, fino alle seppioline e ai tentacoli di polipo cotto.

Tempo di preparazione ca. 25 min

Come zucchero filato

la genuinità che ti premia

Attualità L’uva bianca Cotton Candy possiede un inconfondibile

sapore che ricorda il famoso dolce tanto amato dai bambini. Provare per credere

Azione 25% sull’uva bianca Cotton Candy Italia, 500 g Fr. 2.90 invece di 3.90 dal 20 al 26.8

è uno spuntino ideale per i bambini e una sana alternativa ai dolci. È ottima non solo al naturale, ma si presta bene anche per la preparazione di dessert,

torte, sciroppi e sorbetti. Una volta acquistata, si conserva bene fino a una settimana nel cassetto della frutta/verdura del frigorifero.

Flavia Leuenberger Ceppi

Succosa, croccante, senza semi e con una dolcezza unica nel suo genere: l’uva bianca Cotton Candy ha tutte le carte in regola per conquistare anche i palati più esigenti. Quest’uva, risultato di un incrocio naturale di due diverse varietà, viene coltivata in Puglia, in una zona particolarmente assolata nelle vicinanze del mare. La Cotton Candy contiene oltre il dieci per cento in più di zucchero rispetto all’uva da tavola convenzionale, mentre l’acidità è quasi assente. I suoi acini, grandi e ovali, hanno un gusto che ricorda al contempo lo zucchero filato, con delicate note di caramello e vaniglia. La creazione di questo nuovo vitigno ibrido ha richiesto un lungo e scrupoloso lavoro di selezione delle piante, senza nessun ricorso alla tecnologia genetica (no OGM). Grazie alle sue caratteristiche, l’uva Cotton Candy

Attualità Partecipa al concorso sulle Gallette di mais con Farina Bóna e vinci simpatici premi

Gallette di mais con Farina Bóna 120 g Fr. 5.90 In vendita nelle maggiori filiali Migros

Le Gallette di mais alla Farina Bóna (Galétt de Carlón), introdotte sugli scaffali di Migros Ticino la scorsa primavera, hanno avuto un grande successo presso la clientela. Con questo snack innovativo, sviluppato in collaborazione con Ilario GarbaniMercantini, responsabile del progetto di rilancio della Farina Bóna della Valle Onsernone, hai ora la possibilità di partecipare ad un divertente e originale concorso gastronomico: non devi fare altro che creare una salsa, una crema o un condimento da abbinare alle gallette di mais. Una volta consegnato ai promotori dell’iniziativa, il prodotto verrà valutato da una giuria di esperti e da una giuria popolare. Infine, il 1. settembre 2019, in occasione della festa della «Farina Bóna» di Vergeletto, i creatori delle tre ricette più votate verranno premiati con alcuni apprezzati prodotti del territorio. Informazioni, iscrizioni e modalità di partecipazione al concorso su www. farinabona.ch, oppure telefonando al numero 078 709 48 85.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 agosto 2019 • N. 34

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Società e Territorio

Bregaglia semplicemente autentica

Grigioni italiano Sono passati due anni dalla frana che ha sconvolto Bondo e la Val Bregaglia. La sindaca Giacometti

guarda al futuro con due scadenze elettorali, comunali e nazionali che la coinvolgono

Fabio Dozio I bregagliotti non hanno perso tempo. A due anni dalla sciagura del 23 agosto 2017, quando rotolò a valle un’enorme frana staccatasi dal Pizzo Cengalo, il fondovalle, attorno al villaggio di Bondo, è stato sistemato. Il fiume è incanalato in due enormi sponde fatte di sassi e detriti e, accanto alla strada che collega Chiavenna con il passo del Maloja, si è formato un terrapieno che sta tornando verde. «Io non mi sento responsabile» ci dice la sindaca di Bregaglia Anna Giacometti. «Certo, continuo a provare grande dispiacere per gli otto morti, sorpresi mentre stavano camminando in val Bondasca. La Procura pubblica ha emanato un decreto di abbandono dopo l’inchiesta. Ma i famigliari si sono opposti e hanno inoltrato ricorso al Tribunale cantonale. Penso sia comprensibile: anch’io, se perdessi un figlio così, non mi rassegnerei. La domanda è: bisognava chiudere la val Bondasca? Noi non lo abbiamo fatto perché ci siamo basati sulle raccomandazioni degli esperti». In Val Bregaglia la storia delle frane è infinita e inizia con quella di Piuro del settembre del 1618, che cancellò l’intero paese e fece più di mille morti. Da anni la Bondasca è monitorata e a Bondo è stato costruito un bacino di contenimento che ha permesso di limitare i danni due anni fa. «Il bilancio della ricostruzione, – spiega Giacometti – è positivo. Abbiamo fatto il possibile per fare in fretta e permettere alla gente di tornare nelle loro case prima possibile. Il bacino è stato svuotato in tre mesi. I muraglioni di sassi ai bordi del fiume sono provvisori. Abbiamo indetto un concorso di progettazione con dieci uffici di ingegneria e architetti paesaggisti che entro la fine di quest’anno presenteranno le loro proposte su come ricostruire gli argini nel modo migliore. Ci sono finanziamenti federali e cantonali e il Comune dovrà sborsare 7 milioni di franchi, una bella cifra, ma abbiamo ricevuto molte donazioni». Anna Giacometti è diventata famosa, suo malgrado, per l’impegno profuso in occasione di questa calamità. Nel mese di maggio scorso ha partecipato a Ginevra, con la delegazione svizzera, alla Conferenza delle Nazioni Unite per la riduzione dei rischi di catastrofe (Global Platform for Disaster Risk Reduction), dove ha raccontato la sua esperienza a Bondo. Com’è nata la sua passione per la politica? «Ci sono cascata dentro per caso. – afferma sorridendo – Sono tornata in valle a 27 anni, dopo gli studi a Zuoz e esperienze professionali nelle sedi consolari svizzere di Lisbona e di Milano. Mi avevano offerto di andare a New York, ma qui ho rivisto il mio vecchio moroso e abbiamo deciso di vivere assieme in Bregaglia. Lui è architetto carpentiere; io, allora, mi sono occupata di una piccola azienda agricola, con una decina di pecore, un lavoro che ho fatto

Bondo un anno dopo la catastrofe: il bacino di contenimento è già stato svuotato, oggi la situazione si presenta ancora migliore. (Keystone)

con passione. Essendo una donna giovane, che aveva girato un po’ il mondo, mi hanno chiesto di far parte della commissione della gestione, poi archivista, poi attuaria, poi vicepresidente del comune di Stampa. Così, piano piano, mi sono ritrovata presidente della Regione. In quel ruolo ho coordinato il progetto di aggregazione comunale e quindi, a quel punto, pensavo di smettere, perché non sono una vera politica… Ma quando l’aggregazione è stata accettata dai cittadini della valle, mi hanno detto che non potevo lottare per un progetto e poi sparire. Così, nel 2009, mi sono candidata a sindaco e ho vinto». A una Giacometti della Val Bregaglia, patria di Alberto, scultore e pittore di fama mondiale, non si può non chiedere quali siano i legami di parentela con la famiglia di artisti. La nonna materna era Sina Dolfi Giacometti, cugina di Alberto. Ma il cognome di Anna, preso dal padre, discende da Augusto Giacometti, pittore famoso per la sua passione per i colori, secondo cugino di Giovanni, padre di Alberto. Il cimitero di San Giorgio, a Borgonovo, che merita una visita, ospita le tombe dei Giacometti e permette di chiarire, leggendo le lapidi, la cronologia della famiglia. Nella chiesetta di San Giorgio, semplice e spoglia come tutti gli edifici ecclesiastici evangelici, c’è una vetrata colorata, opera di Augusto, posta nella lunetta del coro. La Bregaglia, dettaglio non secondario, è l’unico comune svizzero di lingua italiana di religione evangelica. La Riforma, giunta dall’Italia, ha attecchito e ha messo radici. Nel 2008 i cittadini dei cinque comuni della Bregaglia, Bondo, Castasegna, Soglio, Stampa e Vicosoprano, hanno accettato di aggregarsi in un solo comune, nato il primo gennaio del 2010. «L’aggregazione è stata importante

– spiega la sindaca – ma abbiamo ancora molto da fare. In particolare bisogna armonizzare le leggi edilizie, ne abbiamo ancora cinque. Con la nuova legge federale sulla pianificazione del territorio siamo chiamati a ridurre le zone edificabili. Non sarà facile. Dobbiamo dezonare, cioè togliere terreni edificabili ai privati: un compito arduo». Il Comune conta 1530 abitanti ed è confrontato con l’invecchiamento della popolazione. I giovani sono costretti a lasciare la valle, al termine delle scuole obbligatorie. In Bregaglia ci sono le scuole elementari e le secondarie, le nostre medie, ma a sedici anni chi vuole proseguire gli studi deve andare via. I posti di apprendistato sono pochi e i lavori più modesti sono appannaggio dei frontalieri. «Abbiamo bisogno dei frontalieri – sottolinea Anna Giacometti – non abbiamo mai l’impressione che ci rubino i posti di lavoro. Non tutti i bregagliotti vogliono fare il falegname, il muratore o la cameriera. All’ospedale sono quasi tutti frontalieri. Mio marito ha una ditta di carpenteria con dieci impiegati, uno svizzero e nove frontalieri. È gente che da decenni viene a lavorare qui, peccato che non vivano qui. I rapporti con i comuni italiani sono amichevoli. Lasciare la valle a 16 anni è un’opportunità. Mio figlio ha studiato matematica e vive a Zurigo. L’altro sta facendo un dottorato in fisica a Oxford: nessuno dei due tornerà in valle». Nei confronti degli stranieri la Bregaglia è aperta. Fin dal 2010, con l’aggregazione, il Comune ha deciso di offrire il diritto di voto e di eleggibilità agli stranieri domiciliati: una prima assoluta per la Svizzera italiana. Economicamente la valle non è ricca. Il settore agricolo, anche se di dimensioni ridotte, è piuttosto solido. I figli dei contadini continuano il mestiere

Anna Giacometti, sindaca del comune di Bregaglia. (Keystone)

dei genitori. Il ricambio generazionale è garantito, grazie anche ai contributi diretti che i contadini incassano. Meno rosea la situazione del settore turistico. «Bisognerebbe investire di più nelle strutture per renderle più accoglienti, i turisti oggi sono esigenti. – precisa Giacometti – Ci sono aiuti della Confederazione e del Cantone, ma ognuno deve metterci anche del suo. Abbiamo soprattutto un turismo estivo, siamo sui 40 mila pernottamenti l’anno. C’è anche il problema della concorrenza italiana. Chiavenna ha migliorato molto negli ultimi anni e offre buoni servizi a prezzi più interessanti dei nostri». La Bregaglia ha un patrimonio culturale non indifferente. Soglio, comune più bello della Svizzera nel 2015, con l’affascinante Palazzo Salis, oggi albergo; il museo Ciäsa Granda a Stampa e le testimonianze dei suoi artisti, dai Giacometti a Varlin e, non da ultimo, Giovanni Segantini che passò i suoi ultimi anni a Maloja e nel cimitero del villaggio riposa. Non si potrebbe fare di più per pro-

muovere un turismo culturale? «Certo, si potrebbe fare di più e meglio. – ci dice sconsolata Anna Giacometti – L’atelier di Alberto è stato aperto solo pochi anni fa e mi sorprende che i visitatori siano pochi. È l’unico atelier ancora intatto di questo artista di fama mondiale e non è valorizzato. C’è un problema di collaborazione e coordinazione fra le varie società culturali. Il Centro Giacometti non decolla, anche se il Comune l’avrebbe sostenuto con due milioni di franchi. Si fa fatica, con il Municipio abbiamo provato a smuovere le acque, ma è difficile. Forse è questione di persone, bisognerebbe rinnovare». Per una signora che non pensava di far politica, queste settimane sono particolarmente impegnative. Il partito liberale le ha infatti proposto di candidarsi alle prossime elezioni nazionali: «Essendo ormai un po’ conosciuta, hanno la speranza che io porti qualche voto, anche se non necessariamente debba venire eletta, perché i candidati principali sono altri. Comunque mi piacerebbe rappresentare il mio cantone a Berna». Ma non solo, il prossimo 1. settembre ci saranno anche le elezioni comunali in valle. Anna Giacometti si ricandida, ma dovrà confrontarsi con uno sfidante particolare: suo fratello Marco, presidente della Fondazione Centro Giacometti, senza partito. In un piovoso giorno d’agosto, poco prima di mezzogiorno, nell’accogliente osteria di Donato Salis, sulla piazzetta di Bondo a due passi dalla chiesa riformata di San Martino, abbiamo chiesto ai sei o sette clienti fissi seduti al tavolone con birre e bicchieri di bianco per quale dei due fratelli voteranno alle comunali. È bastato un attimo di riflessione per una risposta unanime: «per la sorella!» Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 agosto 2019 • N. 34

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Società e Territorio

i colori, portatori di identità

Giornate europee del patrimonio Per la 26.esima edizione previste

in Svizzera 1000 visite e manifestazioni gratuite

Marco Martucci Ormai una tradizione, le Giornate europee del patrimonio in Svizzera e nel Principato del Liechtenstein sono giunte quest’anno alla ventiseiesima edizione. Sono inserite nell’ampio contesto degli «European Heritage Days», manifestazione culturale voluta e promossa ufficialmente dal Consiglio d’Europa col sostegno dell’Unione europea, che si svolge in 50 Paesi d’Europa coinvolgendo milioni di persone. Le nostre Giornate si terranno il 14 e 15 settembre in oltre 400 località. Ogni anno attirano più di 50’000 persone e anche questa volta saranno un’occasione da non perdere per conoscere e visitare luoghi e strutture conosciuti e soprattutto meno noti ma non per questo meno importanti e non sempre accessibili. Obiettivo delle Giornate è destare l’interesse di un numero sempre maggiore di cittadini verso i beni culturali, materiali o immateriali, che possono essere musei, monumenti, luoghi storici, tradizioni e che meritano protezione e salvaguardia anche nei confronti delle generazioni future, un patrimonio da tramandare, un’eredità culturale. Gli obiettivi europei si estendono a dimensione continentale e comprendono la consapevolezza del cittadino europeo nei confronti della ricchezza e della

varietà della cultura d’Europa e la necessità d’informare cittadini e autorità di quanto sia importante preservare e proteggere questo variopinto mosaico culturale. Sul piano nazionale svizzero emerge poi la speciale peculiarità del nostro Paese anche nell’ambito del patrimonio culturale, la presenza e coesistenza di culture, lingue e tradizioni tanto diverse. Durante le due giornate, da parte dei servizi federali, cantonali e comunali, da associazioni culturali e altri enti vengono organizzate visite guidate a monumenti, strutture, musei, cantieri e varie animazioni. Responsabile della coordinazione nazionale è NIKE, «Nationale Informationsstelle zum Kulturerbe», Centro nazionale d’informazione sul patrimonio culturale, e la realizzazione delle Giornate è sostenuta fra gli altri dall’Ufficio federale della cultura e dall’Accademia svizzera delle scienze umane e sociali. Ogni anno viene scelto un tema nuovo a livello europeo che ciascuna nazione può adottare o modificare: nel 2018 le nostre Giornate erano sotto il motto «Senza frontiere», il 2014 era all’insegna del cibo con il tema «A tavola!», nel 2006 protagonisti erano i giardini. Il tema svizzero di quest’anno 2019 è «Colori». «I colori, negli spazi privati e pubblici, sono stimolanti: possono piacere

o non piacere, sollevano interrogativi e contribuiscono così ad animare l’ambiente» dice Jean-François Steiert, Presidente di NIKE e Consigliere di Stato del Canton Friburgo. E Alain Berset, Consigliere federale, capo del Dipartimento federale dell’interno, sotto il cui patronato stanno le Giornate: «Ogni luogo ha i suoi colori e questi hanno un’influenza su come ci sentiamo. I colori non sono mai neutri». Certo il tema «Colori» è stato vincente se ha saputo creare tanto interesse, un vero record mai visto prima: circa 1000 manifestazioni gratuite e aperte al pubblico in tutta la Svizzera, ben 25 nel canton Ticino. Attorno ai colori che, come sottolinea Jean-François Steiert, «contribuiscono all’identità», troveremo città e villaggi, musei e biblioteche, chiese e castelli attraverso tutta la Svizzera. Due giorni non basteranno certo per partecipare a tutte quante le manifestazioni: s’impone una scelta. Ecco, per cominciare, una piccola anteprima fatta cogliendo qua e là fra le numerose offerte, tutte ugualmente interessanti, sparse per il nostro cantone. A Bellinzona, l’Archivio di Stato del Cantone Ticino aprirà le porte alla scoperta dei suoi ricchi fondi documentari, delle sue collezioni di libri antichi, quadri e bandiere e del suo laboratorio di restauro e conservazione. «Colori in copertina»

Un interno del Castello Visconteo di Locarno. (Keystone)

è l’esposizione presentata dalla Biblioteca cantonale di Bellinzona e, sempre nella Capitale, il Centro di dialettologia e di etnografia ci farà visitare il deposito di Palazzo Franscini, dov’è custodita la Collezione etnografica del Cantone Ticino. In Vallemaggia, una passeggiata attraverso Cevio permetterà di scoprire la policromia naturale degli edifici in pietra, i colori delle chiese e dei palazzi, le tonalità dell’architettura dell’Ottocento. Fra le quattro manifestazioni di Locarno, una propone due visite guidate alla scoperta del patrimonio storico-artistico della Città, al Museo Casorella e nel Castello Visconteo. Con «I pigmenti nelle pitture murali: Bernardino Luini a Lugano» verranno presentati i pigmenti e le tecniche di pittura murale impiegate dal Luini nel 1529 per la realizzazione della celebre «Passione e Crocifissione» in Santa Maria degli Angeli. Ancora a Lugano, il Museo cantonale di storia naturale, con «I colori della natura e del territorio» ci farà scoprire l’importanza dei

colori nel mondo degli animali, delle piante, dei minerali e delle rocce. A Meride, «Scopri un mondo perduto di 240 milioni di anni fa», visita guidata al Museo dei fossili e alla recentemente inaugurata terrazza panoramica inVal Mara, Monte San Giorgio, Patrimonio mondiale dell’UNESCO. A Rancate, la visita guidata alla Pinacoteca cantonale Giovanni Züst permetterà di ammirare dipinti dei principali artisti di area lombarda e ticinese dal XVI agl’inizi del XIX secolo. In Val di Blenio, una visita guidata storico-archeologica e un concerto corale animeranno la giornata nel Castello di Serravalle. Le informazioni su tutti gli altri eventi, in Ticino, nel resto della Svizzera e nel Liechtenstein si possono consultare sul sito internet o nel programma in versione stampata, disponibile gratuitamente. informazioni

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 agosto 2019 • N. 34

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idee e acquisti per la settimana

Il mondo della giraffa e del koala Con l’Animal Planet Mania i bambini imparano a conoscere oltre 150 animali e a scoprire il loro habitat. Oltre al piacere di collezionare gli adesivi degli animali, con un po’ di fortuna le figurine permettono anche di vincere una gita gratuita con la famiglia in uno zoo o in un parco faunistico

le bustine delle figurine: a partire da un acquisto di 20 franchi, alle casse dei supermercati Migros e su LeShop viene distribuita una bustina con quattro figurine.

Fotografie: studio fotografico FCM; illustrazioni: Getty Images

Testo: Yvonne Samaritani


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Bellissime avventure famigliari nel mondo degli animali

Dal 13 al 30 settembre alla Migros e su LeShop.ch le famiglie possono trovare anche giraffe, koala e pinguini. Questi tre e altri 153 animali sono le celebrità dell’Animal Planet Mania: di sicuro la Mania più animalesca di sempre. Chi vive nel mare?

Quanto pesa un rinoceronte? A che velocità nuota uno squalo e chi vive nelle profondità del mare? E perché il pipistrello orecchione sente dieci volte meglio di un essere umano? A queste e a molte altre domande si trova risposta nell’album delle figurine. Tutti i membri Famigros ricevono un buono per un album gratuito, che altrimenti alla cassa costa cinque franchi. Due avventurosi bambini, Mia e Leon, fanno da guida in questo viaggio attraverso i continenti. E informano anche su quali animali sono in via di estinzione. Collezionare e incollare le figurine

Per ogni acquisto di un valore minimo di 20 franchi viene distribuita una bustina con quattro figurine di animali. Venti di queste figurine permettono addirittura di dar vita agli animali grazie all’app Migros Play: se una figurina è dotata di un simbolo cubico AR, questo nasconde una sorprendente animazione in 3D. Il simbolo del video permette invece di visualizzare dei filmati per i collezionisti che vogliono apprendere ancora di più sul mondo degli animali. Con un po’ di fortuna gratis allo zoo

In 40’000 bustine delle figurine si cela anche una grande avventura per l’intera famiglia. In queste bustine i bambini trovano solo tre adesivi con le immagini degli animali, mentre la quarta è una figurina dorata. Questa vale come buono per l’accesso di due adulti e due bambini in uno dei 21 zoo o parchi faunistici svizzeri. informazioni sull’Animal Planet Mania e sulle borse di scam-

bio su animalplanetmania.ch

Golden Sticker: in 40mila bustine in aggiunta agli adesivi degli animali sono contenute delle figurine dorate. Queste permettono di partecipare con la famiglia a una gita in uno zoo o in un parco faunistico.

* Massimo 15 bustine per acquisto, fino a esaurimento dello stock; sono esclusi gli acquisti di buoni e carte regalo.

Chi trova una figurina dorata nella bustina può scegliere la destinazione del viaggio. Il biglietto è valido come entrata per due adulti e due bambini in uno dei seguenti 21 zoo e parchi faunistici che si trovano sparsi in tutta la Svizzera. 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. 20. 21.

Parco degli orsi di Arosa GR Zoo Plättli a Frauenfeld TG Museo svizzero all’aperto del Ballenberg BE La piccola fattoria di John a Kallnach BE Juraparc a Le Pont-Vallorbe VD Zoo alpino a Marécottes VS Falconeria a Locarno TI Zoo al Maglio di Magliaso TI Zoo Hasel a Remigen AG Stazione ornitologica svizzera di Sempach LU Tropiquarium di Servion VD Zoo dei serpenti a Wallenwil TG Sikypark a Crémines BE Zoo di Basilea Parco zoologico di Dählhölzli BE Parco naturale e faunistico di Goldau SZ Papiliorama di Kerzers FR Zoo di La Garenne VD Zoo per bambini Knie a Rapperswil SG Zoo di Zurigo Zoo Walter a Gossau SG


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idee e acquisti per la settimana

Un panino ancor più grande per lo stesso prezzo

Quando sul campo fa sudare la sua avversaria, Heidi Bacchilega, tennista tesserata di Zurigo, ha un solo obiettivo: punto, set e vittoria. Terminato il match diventa tuttavia più conviviale. «Durante la stagione Interclub siamo noi le responsabili del sostentamento delle avversarie. A tale scopo prepariamo baguette o lunghini interi farciti con bresaola, mortadella o formaggio». Questi panini XXL rimangono a disposizione delle giocatrici affamate; ognuna di loro taglia un pezzo di panino a scelta nella grandezza desiderata. E dal momento che ora alla Migros i soldi valgono ancora di più, lo si può fare anche due volte.

Il prezzo del cestino della spesa Fr. 22.05 finora Fr. 25.– Dopo le riduzioni di prezzo apportate, questo cestino della spesa costa Fr. 22.05. Il 18 giugno i clienti pagavano ancora Fr. 25.–. Il prezzo di singoli prodotti dipende dal peso.

Riduzioni di prezzo permanenti

«Il panino che preferisco è farcito con bresaola, mozzarella e rucola».

Fotografia e Styling: Tina Sturzenegger

Heidi Bacchilega Tennis Club Engstringen, Team Nati C

i prodotti preferiti sono più convenienti Recentemente il prezzo di molti dei prodotti preferiti dai clienti Migros, vale a dire i prodotti più venduti, è diventato più conveniente. Tra questi anche i pani Twister, la bresaola, il formaggio Gouda a fette e la mozzarella. Settimanalmente se ne aggiungono altri. L’aspetto più interessante: non si tratta semplicemente di promozioni, bensì di riduzioni di prezzo permanenti. Facilmente riconoscibili Grazie al logo sotto illustrato, nei prossimi mesi sarà facile riconoscere a colpo d’occhio i sempre più numerosi prodotti preferiti che hanno beneficiato di una riduzione di prezzo permanente.

D’ora in poi alla Migros i tuoi soldi valgono ancora di più: nei prossimi mesi ribasseremo settimana per settimana in modo permanente i prezzi dei prodotti preferiti dai nostri clienti, continuando a investire nella comprovata qualità Migros.


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Società e Territorio

Quel desiderio di spazio e natura

Spiaggia a lugano L’idea lanciata dal linguista Alessio Petralli a Capodanno torna ad essere dibattuta

e potrebbe realmente prendere forma, anche se non come proposta inizialmente Guido Grilli Chi dice spiaggia oggi dice implicitamente natura, libertà. Andreas Kipar, 59 anni, architetto paesaggista di respiro internazionale – da trent’anni dirige lo studio di architettura del paesaggio e progettazione LAND, acronimo di «Landscape Architecture Nature Development» con diverse filiali in Europa, incluso Lugano che conosce bene – offre una singolare lettura al dibattito sull’opportunità di realizzare una spiaggia di sabbia dalla Foce al LAC. Il tema ha riconquistato le prime pagine dei giornali alla luce della discussione che lo scorso 6 agosto, in una gremita biblioteca cantonale, è stata lungamente dibattuta da esperti e dal sindaco, Marco Borradori, a otto mesi dalla cerimonia cittadina di capodanno, quando il suo promotore – il linguista Alessio Petralli – ne aveva parlato per la prima volta come di un sogno da esaudire.

Andreas Kipar: «i cittadini desiderano spazi liberi, la proposta della spiaggia è l’inizio di una discussione sul rapporto con la natura Il «designer del paesaggio» Kipar è stato fra i relatori dell’importante dibattito svoltosi alla sala Tami, le cui vetrate si aprono direttamente sull’oggetto dei desideri: il lago, per cui si auspicano finalmente una migliore accessibilità e fruibilità. È davanti a questo orizzonte che il celebre architetto ci illustra la sua filosofia di progettatore di spazi e luoghi, forte di esperienze portate a compimento in numerose realtà del pianeta. «Quando Alessio Petralli mi ha interpellato su questo tema ho pensato: ecco un altro Comune – Lugano – che si sta interrogando sul proprio

Una spiaggia dal Cassarate al LAC? Un sogno forse solo da ridimensionare nelle dimensioni, ma non da dimenticare. (Ti-Press)

futuro attraverso un desiderio primordiale, che si chiama: spazio e rapporto con la natura. Per me la spiaggia è un sinonimo per un desiderio di libertà. Per un desiderio di rapporto con la natura, in questo caso con l’acqua. Per un desiderio di nuova socialità. Non è tanto la spiaggia intesa come luogo fisico, «adriatico», quanto piuttosto si tratta di un luogo quasi metafisico d’incontro, fuori dagli schemi consolidati del-

la città di Lugano, che sono altrimenti codificati». Dichiara il fondatore di LAND: «Noi stiamo attraversando un periodo in tutta l’Europa, l’antico mondo, di liberazione dagli schemi codificati. Le persone, i cittadini desiderano spazi indefiniti, spazi appunto liberi. E nel caso della proposta di spiaggia a Lugano la reputo un inizio di un movimento che vuole sostanzialmente ridiscutere

il proprio rapporto con la natura. La polarizzazione – dire sì o no, in questo caso alla spiaggia – è figlia dei nostri tempi. I dibattiti non sono ormai più lineari. Spiaggia sì, spiaggia no. Invece noi architetti del paesaggio – che sappiamo che la vita va al di là delle polarizzazioni – abbiamo un po’ il compito di chiederci, «ma dietro a questa domanda, quale desiderio si cela?». La risposta è: la natura, il paesaggio. La

ridefinizione di un nuovo paesaggio urbano, che magari parte dall’immagine-cartolina di Lugano che a noi tutti suscita ancora emozione». Ma secondo la sua visione, concretamente, il progetto di una spiaggia a Lugano è fattibile? «Concretamente tutto è fattibile. Una spiaggia ce la vedo, ma una «spiaggia luganese», non una spiaggia «copiata», bensì individuata secondo una sua localizzazione. Pri-

uno spazio itinerante per i giovani

The Social Truck Un progetto sociale ideato dall’operatrice Alicia Iglesias che a breve percorrerà le vie

della Grande Bellinzona, realizzato a partire dai desideri e dei bisogni dei ragazzi

Alessandra Ostini Sutto «The Social Truck» – letteralmente «furgoncino sociale» – è un veicolo che, a breve, percorrerà le vie della Bellinzona «allargata». Si tratta di un progetto che mira a diventare uno spazio e un punto d’incontro capace di coinvolgere i ragazzi con l’aiuto di un furgone

che si sposterà dove più interessa. Altra caratteristica del «furgoncino sociale» sarà quella di fungere da spazio di lavoro, dando la possibilità ai ragazzi di dare vita ad iniziative personali. Attraverso l’impegno ad operare sul territorio e la realizzazione di progetti sociali, sportivi e culturali, The Social Truck diventerà una sorta di «laboratorio di

idee e iniziative itinerante» in grado di favorire nuove forme di incontro e scambio. Questa interessante iniziativa si deve ad Alicia Iglesias, operatrice sociale ed educatrice mediale, e alla collaborazione con la Cooperativa Baobab di Bellinzona, uno spazio polivalente attivo in ambito educativo,

The Social Truck per ora è ancora un’idea, ma sarà presto realtà.

psicologico e sociale. Essa si profila come uno dei progetti più innovativi a livello cantonale, grazie alle sue potenzialità di coinvolgimento dei giovani in un’ottica partecipativa. Avendolo ritenuto interessante e fatto su misura per il territorio e i giovani bellinzonesi, il Municipio di Bellinzona – senza il cui sostegno non ne sarebbe stata possibile la concretizzazione – ha aderito a questo progetto di innovazione sociale sostenendolo finanziariamente, assieme al Cantone e alla Confederazione, pur non rinunciando all’idea di realizzare in futuro un centro giovanile tradizionale. L’idea di utilizzare un furgone come luogo di animazione socioculturale ed educativa non è del tutto nuova: «In particolare ho preso spunto da alcuni progetti preesistenti in Ticino, come Piazza Aperta – Giovani in movimento dell’Associazione Arcolaio, un’iniziativa portata avanti diversi anni fa nel comune di Giubiasco e in altri comuni del Bellinzonese», spiega Alicia Iglesias, che dalle esperienze maturate in diversi contesti lavorativi e dalle relazioni strette con professionisti del settore sociale svizzero e italiano, ha avuto l’idea di creare The Social Truck. Negli anni successivi è stato creato The Van della Città di Lugano, che offre so-

stegno ai giovani per mezzo di operatori di prossimità. «Con The Social Truck volevo mettere in atto un cambiamento di paradigma, nel senso che il concetto è quello di partire dai bisogni e desideri dei ragazzi, per poi metterli nella posizione di ideatori, creatori e realizzatori dove noi adulti – educatori ed operatori sociali – fungiamo da supporto e da ponte con il resto della società», afferma Alicia, che ha unito due delle sue passioni – quella di creare, di fare, e quella di lavorare con i giovani – per dare vita ad un modello la cui fase operativa è cominciata nel corso dell’estate. «Fondamentale è stato fare un lavoro su me stessa – e lo stesso vale per i miei collaboratori – per evitare di andare sul territorio portando le nostre idee. L’unica idea che voglio portare è quella del furgone come un contenitore, come una fucina di idee, che vuole aiutare i ragazzi a sviluppare le proprie iniziative. Si va così a lavorare sul concetto di gruppo, di passioni, di progettualità, dando l’occasione ai giovani di fare delle proposte e soprattutto mettendoli nella posizione di attivarsi per realizzarle», continua. Questo ruolo attivo dei ragazzi comincia fin dalla costruzione del furgono, attualmente in corso: «un gruppo di ragazzi e ragazze di età compresa


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Società e Territorio

una testata che ha fatto storia

ma o poi – vedasi l’esempio del nostro progetto in corso di risanamento del fondovalle ad Airolo – la strada dovrà porsi sotto. Sopra invece dovranno trovarsi gli spazi. E questo credo sia anche il ragionamento alla base di questo dibattito sulla spiaggia». «Riconnettere la popolazione alla natura» rappresenta uno dei motti di LAND. Ma come si può realizzare concretamente questo proposito? «Le faccio un esempio: laddove noi con i nostri progetti tiriamo via le fortificazioni, i muri di sostegno, la natura comincia a riadattarsi. È quanto è avvenuto con il progetto della città di Lugano di rinaturazione del fiume Cassarate. Lo stesso si può dire con il «Raggio verde» del Cassarate, dove da cinque anni stiamo lavorando: si sono tolti i muri di sostegno. Togliere, togliere. Siamo in un’epoca che va verso la riduzione. E la libertà della natura stessa crea una nuova estetica. Non più un’estetica tutta ordinata e lineare, ma un’estetica dinamica, movimentata. E questo, lo vediamo, è un po’ l’esito di quanto è accaduto alla Foce. La gente avverte il bisogno di spazi così, non cementificati, bensì liberati. «Reconnecting people with nature» vuol dire anche liberarsi da eccessivi schemi di design e lasciare spazio a una processualità. Le città che guardano avanti – vedasi New York, Londra, vedasi oggi Mosca, vedasi Riad – promuovono strategie libere, verso una nuova naturalità». A suo avviso la politica recepisce questo bisogno primordiale di natura che lei evoca? «C’è bisogno di sostenibilità. La politica intercetta immediatamente. La gente vuole natura, la vuole in città, nello spazio urbano. E anche una natura umanizzata. A Milano abbiamo il bellissimo esempio del “bosco verticale”. Lecco ha lanciato un concorso internazionale attraverso il quale sta ragionando a una spiaggia di 10 chilometri. Como dal canto suo percepisce che a Lugano si sta muovendo qualcosa. Lugano a sua volta guarda all’esempio della spiaggia realizzata a Ginevra (alla Plage publique des Eaux-Vives, ndr.). Ci sarà presto in atto una competizione». Un altro aspetto non trascurabile: le finanze. A suo avviso si stanno liberando le risorse finanziarie per questo tipo di progetti? «Noi siamo in un’economia circolare. Se io penso che per il progetto di Airolo il Gran Consiglio ticinese ha votato all’unanimità 50 mi-

lioni di franchi e altri 50 milioni sono stati recuperati all’interno del progetto, vuole che non si trovino 100 milioni per Lugano? Cosa vuole che siano oggi 100 milioni rispetto al futuro delle nostre città? Con questo progetto di spiaggia su cui si sta ragionando, Lugano si colloca di nuovo sulla mappa geografica dei luoghi interessanti. E questo credo valga più di 100 milioni». E ora il ragionamento – come lo chiama Andreas Kipar – come proseguirà? Nel corso del dibattito svoltosi a inizio agosto alla biblioteca cantonale il tema di una spiaggia a Lugano è stato scandagliato da più esperti. Il geologo, Urs Lüchinger, ha escluso che sull’intero lungolago, dalla Foce al LAC, si possano posare depositi di sabbia per edificarvi l’agognata spiaggia. Ha tuttavia indicato due precise zone nelle quali è senz’altro possibile realizzare la «croisette»: nella lunghezza di circa 180 metri tra piazza Rezzonico e la fine di via Nassa (escluso il LAC) e nel tratto lungo circa 250 metri tra la fine dei pontili del Belvedere al Lido Riva Caccia. Dal canto suo, il sindaco, Marco Borradori, ha dichiarato di condividere il progetto solo al 30% – «una lunga spiaggia sul golfo banalizzerebbe il lungolago» – informando che il Municipio sta lavorando a uno studio per sfoltire il traffico delle auto nel centro cittadino e sul lungolago. L’ideatore Alessio Petralli, linguista e direttore della Fondazione Möbius: «Alla luce di quanto emerso durante il dibattito ho in parte emendato quello che è il mio sogno, so-

stenendo che allora si potrebbe pensare a una spiaggia dal LAC a Paradiso. Con una battuta, a “una spiaggia che porta… in paradiso”. Seguendo le indicazioni di Lüchinger è concepibile realizzare due “tratti di croisette” distinti; e sul tratto di Riva Caccia si è detto d’accordo anche il sindaco». Dalle parole, lei ha chiesto che si passi ai fatti. «Sì, ora mi aspetto che si concretizzi uno studio di fattibilità, che si concluda in pochi mesi. Si comincino a realizzare queste due spiagge che daranno nuova vita alla città. Facendo tesoro dell’esempio ginevrino, in quattro o cinque anni al massimo il progetto si potrebbe portare a termine: entro il 2024. Un altro punto importante sarà promuovere la discussione con tutte le associazioni toccate dal progetto, penso in particolare alle varie istanze ambientaliste, quali la Società ticinese per l’arte e la natura (Stan), il WWF, l’Associazione traffico e ambiente (Ata), i Verdi, i Verdi liberali, ecc. Questo anche per evitare quanto accaduto all’inizio a Ginevra, dove un ricorso del WWF ha provocato un ritardo di parecchi anni sui lavori per l’edificazione della spiaggia, mentre i pur impegnativi lavori veri e propri sono invece stati conclusi in soli due anni». Insomma, spiaggia, riva lacustre naturale ricostruita – come l’ha definita il geologo Lüchinger – poco importa il nome. Sì, perché tutti sembrano almeno d’accordo su un punto: occorrono nuove vie al lago per renderlo finalmente accessibile.

tra il 13 e i 19 anni, con i quali ho già lavorato, si è messo a disposizione per questo compito», puntualizza Iglesias, che è pure formatrice e media educator presso la Croce Rossa Svizzera. Si tratta di una costruzione vera e propria, dal momento che il veicolo scelto è del tipo «chassis cabine», dotato cioè di un telaio, sul quale sarà collocata la cabina, realizzata appunto con i ragazzi, con i quali è stato definito pure l’allestimento interno, sempre con la supervisione degli operatori sociali e in stretta collaborazione con i professionisti del settore. «Durante un primo incontro, abbiamo mostrato loro la bozza dell’interno del furgone, riguardo alla quale hanno potuto esprimere le proprie idee, mettendo anche in discussione delle precedenti scelte. Da questa discussione, nel corso della quale ognuno ha portato un pezzettino di sé, del proprio sguardo, è scaturito il progetto definitivo», spiega Alicia, «durante la fase finale di realizzazione del furgone i ragazzi hanno la possibilità di vedere il mezzo in costruzione confrontandosi anche con dei veri professionisti. Questo modo di procedere è sicuramente laborioso, perché dobbiamo rispettare dei tempi che non sono i miei, o quelli del mondo degli adulti in generale, ma dobbiamo saper aspettare il momento giusto per cogliere le idee dei ragazzi, e saperle poi tradurre. D’altra parte è prioritario che essi siano coinvolti, perché questo diventerà il loro furgone». Di fatto, rendere protagonisti i ragazzi è uno dei concetti chiave del progetto, che viene anche definito dalla sua fondatrice una «fabbrica delle idee»: «Il principio di base è la collaborazione tra adulti e giovani. Per que-

sto siamo alla ricerca di professionisti (artigiani ed artisti, aziende private o pubbliche, enti ed associazioni, comuni, scuole e musei) che, cooperando con noi, vogliano contribuire a produrre un valore aggiunto per la comunità». Persone, aziende o istituzioni possono collaborare mettendo a disposizione la propria esperienza, le proprie abilità e competenze, i propri spazi e strumenti oppure attraverso un sostegno di tipo economico. «L’idea è di rimettere in moto un sostegno reciproco, anche a livello intergenerazionale, nell’intento di dare nuovo impulso alla vita sociale coinvolgendo le persone nel creare esperienze e significati condivisi», afferma la fondatrice. Questo «laboratorio itinerante di idee» dovrebbe essere operativo tra settembre e ottobre. Ma quale sarà la quotidianità del suo agire? «Il furgone sociale, con a bordo due operatori sul territorio, andrà, per esempio, in zona stazione, in Piazza del Sole o in Piazza Collegiata, dove entrerà in interazione con i ragazzi; ciò significa conoscerli e, altrettanto importante, farsi conoscere. Dopodiché si potrà iniziare a lavorare assieme, in particolar modo andando a capire cosa piace loro, quali sono le loro passioni, i loro hobby e vedere se da ciò scaturisce qualche idea che si possa sviluppare e portarla sul territorio», spiega la responsabile, «parlando con i ragazzi, negli ultimi due anni, per vedere se il progetto fosse fattibile o meno, mi sono accorta che le idee non mancano. Si tratta, a volte, di iniziative già esistenti ma che i ragazzi non sentono loro, e l’unico modo per far sì che lo diventino è poter partecipare alla creazione».

Molte delle proposte avanzate riguardano, per esempio, la realizzazione di concerti. «La prima cosa da fare è raccogliere le idee, e, successivamente fare una sorta di management del progetto, suddividendo le mansioni e creando dei gruppi di lavoro che ne curino i vari aspetti», spiega Alicia, «laddove non possono arrivare i ragazzi, per esempio per impegni professionali o scolastici, interveniamo noi, come pure nel fare da ponte di comunicazione tra la loro idea e la realtà effettiva del territorio». Si arriva a questo punto ad un’altra, importante, dimensione di The Social Truck, quella cioè che mira a farne un punto d’osservazione privilegiato del mondo giovanile: «Nel lavoro comune, i ragazzi si aprono, raccontano le proprie storie, le proprie difficoltà e fragilità. Da una dinamica di gruppo, all’interno della quale si lavora sul concetto di aiuto reciproco, di creazione, di interazione con la popolazione, si passa così a lavorare su un bisogno individuale, laddove esso emerge», afferma la responsabile. In questo particolare progetto si arriva quindi ad affrontare determinate problematiche connesse all’universo giovanile, partendo però da qualcosa di bello. «In questo mi sono basata sulla mia esperienza: le persone che mi hanno aiutato di più nella vita sono quelle che mi hanno permesso di fare e di mettermi in gioco, anche sbagliando e ricevendo dei “no”, e che però ci sono sempre state. E The Social Truck vuole essere lo stesso per i ragazzi: vuole esserci sempre anche laddove ci siano dei “no” e delle difficoltà», conclude Alicia Iglesias.

illustrazione Ticinese La Società editrice

del «Corriere del Ticino» ne ha acquisito i diritti il 2 agosto 2019 Enrico Morresi

Andreas Kipar: «La libertà della natura crea una nuova estetica». (Keystone)

Sul numero del 2 agosto, la Società Editrice del «Corriere del Ticino» ha dato la notizia che «Illustrazione Ticinese SA» le ha ceduto i diritti editoriali della «storica testata». Il periodico andrà innanzi a cadenza mensile. È sperabile che «IT» non faccia la fine de «lo Sport ticinese», assorbito e chiuso dopo pochi mesi nel 1973, e dell’«Eco dello Sport» assorbito e liquidato nel 1997. E bisogna pur dire che la vecchia testata – nata nel 1931 – conduce da anni una pallida vita, soprattutto se la si rapporta agli esordi e soprattutto ai 35 anni in cui la condusse Aldo Patocchi (1907-1986), artista silografo e animatore culturale di primo livello durante gli anni del secondo dopoguerra.

Fondato nel 1931, fu il primo periodico in Ticino, sotto la guida di Aldo Patocchi, a dare risalto alle fotografie Prima del deciso rinnovamento impresso al «Giornale del Popolo» negli anni Sessanta del Novecento da monsignor Alfredo Leber (il laboratorio fotografico in redazione), lo stato dell’informazione visiva sulla carta stampata ticinese era più che povero. Ricordo le lastrine di piombo incise che i tipografi inchiodavano su precarie basi di legno da ficcare tra righe di piombo da mandare in macchina: documento di una povertà che, anche allora, si poteva definire frutto di pigrizia e non solo di indigenza. Da decenni, ormai, la stampa delle immagini aveva conosciuto progressi non solo nel mondo dei periodici. Basta pensare alla «Domenica del Corriere» e all’«Illustrazione italiana». Vantaggio che Patocchi sfruttò a partire dagli anni Trenta e precisamente con «Illustrazione Ticinese», che del resto si stampava a Basilea, presso l’editore Birkhäuser. La stampa in rotocalco permise al periodico di affermarsi. Le sue pagine color seppia, una ventina per settimana, presentavano una parte iconografica dei più svariati interessi:

il sestetto di sottufficiali immortalato a conclusione di un corso di formazione, il ritratto di famiglia per il compleanno del nonno sindaco del paese, lo sportivo locale vittorioso in campo nazionale o internazionale (i quattro Riva del calcio in giacca e cravatta, come per il passaporto!), il nuovo ponte sul Vedeggio. Ai divi dello schermo, oppure ai grandi dello sport (Koblet e Kübler i favoriti, naturalmente!) era riservata la foto di copertina, qualche volta anche ai politici di casa (Aleardo Pini, per esempio, dopo la sua elezione a presidente del Consiglio nazionale, nel 1950). «Illustrazione Ticinese» chiedeva le foto di attualità ai migliori professionisti: in prima linea due fotografi destinati a notorietà non solo locale: Vincenzo Vicari e Gino Pedroli, ma pure ad altri, in genere, titolari di negozi di fotografia (il fotoreportage non dava da vivere): Schiefer, Tritten, Rüedi, Piccaluga, Carpi, Steinmann, Lucini. Agli editori più recenti di «Illustrazione Ticinese» va riconosciuto il merito di una operazione editoriale intelligente, promossa nel 2006 per i 75 anni della testata. Furono pubblicate undici pagine di rievocazione della storia del periodico, incrociandola con quella del Cantone. Vi si ricorda che nel 1931 le prime copie, in vendita nelle edicole, costavano 35 centesimi, fr. 15.60 l’abbonamento annuale (che includeva un’assicurazione sulla vita e contro gli infortuni). Nel 1944 l’abbonato aveva diritto «a un cartamodello ABC gratuito per la realizzazione di un abito a scelta»; dal 1950 il cartamodello fu venduto a parte e costava 40 centesimi. Lunga vita, perciò, a «Illustrazione Ticinese» entrata a far parte della grande famiglia del «Corriere del Ticino», dove costeggerà le più ardite novità tecnologiche. Pare che l’interesse sia legato alla sua diffusione, ancora più che decente (128 mila lettori certificati dalla REMP). Se tornerà a interessare la massa dei lettori è sperabile ma non è certo: potrebbe essere offerta sugli «smartphones»? Ancora, dovrà convincere – se vorrà tener fede alla sua testata – che esiste un briciolo di panorama ancora da sfruttare nell’universo delle proposte iconografiche fisse e in moto che ci assedia.

Adriano Coduri, allora capitano del FC Lugano, con l’edizione di «Illustrazione Ticinese» dedicata alla vittoria della Coppa Svizzera nel 1968. (Ti-Press)


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Società e Territorio Rubriche

lo specchio dei tempi di Franco Zambelloni Fantasie degenerate Nel 1994 il Centro Didattico Cantonale pubblicò uno studio sul rapporto dei bambini ticinesi con la televisione: il campione analizzato comprendeva 800 allievi delle scuole elementari e 200 del prescolastico, e i dati raccolti indicavano che, in media, la permanenza davanti al video era di circa un’ora e mezza al giorno (ma il 29% guardava la TV per più di 2 ore al giorno). Non sono al corrente di ricerche più recenti, ma credo che le percentuali rimangano grosso modo stabili; oppure, se fossero diminuite, probabilmente lo si dovrebbe al fatto che parte del tempo dedicato alla TV viene ora deviato sugli smartphones, sui tablet, sulle immagini virtuali della Rete. In ogni caso, sono sempre le immagini, i videogiochi e i filmati che assorbono gran parte dell’attenzione. La nostra è davvero l’era dell’immagine. Un libro non compare quasi mai nelle mani dei ragazzi; un telefonino, quasi sempre. Ci sono studi che sostengono che,

conseguentemente al prevalere dei nuovi media, anche l’intelligenza umana sta cambiando: le aree cerebrali preposte alle competenze linguistiche cedono spazio alle abilità psicomotorie, alla rapidità di riflessi necessaria per i videogiochi e per gli sport. È stato così anche in passato: quando iniziò la civiltà agricola e si formarono comunità sempre più numerose, la comunicazione linguistica divenne necessariamente più complessa e il cervello si adattò per sviluppare nuove competenze; il mondo cambia, cambia l’ambiente di vita e il cervello si adegua di conseguenza. Come sempre, però, quando avvengono grossi cambiamenti, quel che si guadagna lo si paga perdendo qualcos’altro. Una capacità che mi sembra a rischio di scomparire – o per lo meno di atrofizzarsi – è la fantasia; e, con lei, ciò che le è strettamente legato, la creatività. È provato che la cre-

atività, la capacità di produrre nuove idee, a volte geniali, è circoscritta in genere all’età giovanile: nell’arte come nella scienza le idee nuove e le trovate geniali sbocciano soprattutto nella giovinezza. Probabilmente questo accade perché la fantasia, la curiosità e il gusto di fantasticare sono più vivi e forti quando si è ragazzi; poi le necessità della vita pratica rafforzano il pensiero razionale, che segue percorsi logici in modo realistico e riduce le fantasticherie. Einstein ricordava un episodio di quando era un ragazzino: suo padre gli mostrò una piccola bussola e lui ne rimase affascinato. Più tardi ebbe a scrivere: «L’enorme impressione che mi fece allora ha senz’altro avuto conseguenze molto importanti nella mia vita». Troppo spesso si trascura il fatto che episodi della giovinezza, anche se apparentemente insignificanti come questo, possono essere determinanti per la crescita e la vita successiva.

Ma, appunto, perché questo accada è necessario lo stupore, quella capacità di meravigliarsi che, nell’infanzia, è sempre molto forte. Temo però che la sovrabbondanza delle immagini e della fiction televisiva lasci meno spazio alla fantasia di quanto ne lasciavano, un tempo, un libro o l’incontro con una bussola. C’è poi un altro aspetto inquietante nel fenomeno della dipendenza televisiva. Sempre all’inizio degli anni Novanta negli Stati Uniti scoppiarono numerose polemiche contro programmi televisivi violenti e pornografici. D’altra parte, i sondaggi e il rilevamento di dati statistici mostravano che proprio quei programmi facevano registrare un crescente numero di ascoltatori. Anche i notiziari, del resto, tendono a diventare spettacolari mostrando scene di violenza e di sofferenza: il pubblico ne è attratto, e anche il giornalismo televisivo tende ad adottare quegli

espedienti pubblicitari che catturano l’attenzione: scene al rallentatore, scritte cubitali, titoli sensazionali, commenti concitati. Non bisogna sottovalutare l’effetto di prolungate esposizioni televisive del genere: da vari studi risulta che trenta secondi di pubblicità ripetuti più volte sono sufficienti per indurre un bambino o un adolescente ad assillare i genitori perché gli comprino il prodotto pubblicizzato; allo stesso modo, molte ore di «trash tv» possono produrre un effetto analogo. Se i protagonisti di scene immorali o violente vengono ammirati come eroi, a poco a poco sorgerà la tendenza ad imitarli. Negli USA si sono già verificati, nei primi mesi di quest’anno, numerosi casi di sparatorie che hanno provocato stragi in Virginia, nel Texas, nell’Ohio; ma quanto la televisione abbia influenzato le fantasie malate degli attentatori, questo non è dato sapere.

Mi sdraio sull’erba, nel sole di un pomeriggo estivo al lago che contiene in sé già quasi il preludio, anzitempo come un presagio, di quella dolce malinconia da fine estate. Ceno qui, al ristorante in riva al lago di Chavonnes, con trota alla griglia e torta di mirtilli da non morire mai. Un’acquazzone accompagna la mia dormita ancestrale in una delle camere spartane sopra il ristorante-chalet. Prima di colazione, verso le otto, esco a fare il giro del lago sotto una pioggerella. È salita una leggera bruma ad avvolgere il paesaggio. Non c’è più nessuno, a parte tre pescatori di trote. M’incammino verso le rocce sotto la falesia, un tratto di costa inesplorato ieri dove spero di trovare la pirite. L’oro degli stolti che si presenta in natura in cristalli cubici, pentagonododecaedrici, ottaedri. Utilizzata in cristalloterapia per dipanare i conflitti interiori e superare l’indecisione, il suo scintillìo sembra aver generato la leggenda del tesoro mai trovato. «Le Nouvelliste» del diciannove agosto 1928 riporta

solo la notizia che è stato ripescato il corpo del boy scout inglese annegato qui. Avevo anche letto da qualche parte qualcosa a proposito di un cadavere di donna ritrovato nel bosco e di un menhir celtico, ma non c’è verso di ritrovare la fonte; me lo sarò sognato o forse avrò confuso con un altro luogo simile. Nessuna traccia di pirite incastonata nelle tormentate rocce-scogli, solo resti di fuoco e il ticchettìo di pioggia sopra una specie di iurta improvvisata su una lingua fangosa di spiaggia dove ci sono tracce bovine. Rivolgo lo sguardo al lago che riflette il contorno frastagliato delle pinete. Il drago bianco raffigurato in una xilografia da Eugène Burnard – noto per il dipinto I discepoli Pietro e Giovanni correndo al sepolcro il mattino della resurrezione (1898) esposto in permanenza al Musée d’Orsay –con la testa semisommersa simile quasi a quella di un ippopotamo, si nasconde bene. Invisibile come il mostro di Loch Ness o la moglie del tenente Colombo.

Quello che posso dirvi è che Happify non è l’unica app nel suo genere ad aiutarci nella rincorsa alla felicità, ci sono altre app gemelle tutte rintracciabili sotto l’etichetta salute e fitness, benessere, auto aiuto, autosviluppo o, semplicemente, felicità. Come Cabanas e Illouz raccontano nel loro saggio tutte «proclamano orgogliosamente di fornire soluzioni efficaci e testate per migliorare la salute emotiva e il benessere personale» chiamando in causa la scienza per avvalorare il programma. Su Happify c’è un’intera sezione dedicata agli esperti e si dice che i percorsi offerti siano stati creati «da chi si dedica con passione a migliorare la vita del prossimo». In realtà quello della salute digitale è un business da oltre duecento milioni di dollari, tanti sono i finanziamenti che qualche anno fa hanno raccolto le aziende attive in questo settore, nove

milioni di dollari soltanto Happify nel 2017. Senza contare che nel tempo l’azienda di Leidner ha esteso le sue partnership a importanti attori del mondo delle scienze e della ricerca con i quali condivide i dati dei suoi utenti. Un abbonamento a Happify costa meno di un anno di sedute dallo psicologo. E i giochi che la piattaforma propone per qualcuno saranno pure divertenti. Ma come si fa a trovare la felicità cliccando su una mongolfiera che vola? Sono convinta che andare a fare un’ora di volontariato tutti i giorni possa insegnarci molto di più. L’incontro umano, la cultura del fare e non quella dei click o del consumo, ci salveranno. E prima ci svegliamo meglio è per tutti o diventeremo una massa di consumatori digitali omologati e rammolliti senza spirito critico e d’iniziativa pronti a consegnarci nelle mani degli Ofer Leidner di turno. Altro che felicità.

Passeggiate svizzere di Oliver Scharpf il lago di Chavonnes Ai bordi del lago di Chavonnes, sul territorio del comune di OrmontDessous, viveva un drago bianco come la neve. Terrore di tutti gli uccellini, quando invece si avvicinava alla riva qualche fanciulla, accorreva con gli occhi dolci nuotando verso di loro. Superbo da vedere mentre avanzava sull’acqua agitando le sue lunghe ali, mangiava mansueto dalle loro mani. Galante, le ringraziava del cibo offerto, esibendosi in graziose piroette. Poi, d’un tratto, compiva un guizzo in aria e s’immergeva sparendo a ogni sguardo. Vedo dei giovani fare il bagno nel lago di Chavonnes (1692 m), appena raggiunto attraverso un’agile camminata di venti minuti dal Col de Bretaye, a diciotto minuti di trenino a cremagliera da Villars-sur-Ollon. Nell’acqua verdastra smeraldo, circondata da pinete scure, nuotano anche molte trote. La bonarietà del drago bianco, incontrato per la prima volta dodici anni fa tra le pagine di una delle Légendes des alpes vaudoises (1885) di Alfred

Cérésole, viene ribadita, contrapponendolo ai molti malefici rettili alati di altre leggende, da Maria SaviLopez. In Leggende delle Alpi (1889), l’illustre folclorista italiana si chiede se nel drago bianco «così mite e bello» di questo lago alpino, la fantasia popolare non vedesse magari nascosto un principe dannato in attesa della parola magica per sciogliere l’incantesimo. Rievocando poi i draghi del folklore bulgaro che volano sulle foreste le cui altissime cime degli alberi, tra le quali ondeggiano le loro criniere bianche, senza soffio di vento alcuno si piegano per riverenza. E come non ricordare Falkor allora? Indimenticato drago rosa-panna tipo peluche dal volto canino cavalcato da Atreyu nella Storia infinita (1984). Un brutto pedalò di plastica non riesce a scalfire la bellezza del luogo, non mozzafiato come il lago blu di Arolla o quello turchese caraibico di Cauma ma dove l’acqua «it’s just perfect» come esclama una ragazza per invogliare la sua amica titubante. E non

esagera, ha perfettamente ragione: fredda al punto giusto, rigenerante. Una benedizione dopo il non breve viaggio in una calda giornata di agosto inoltrato. Nuoto come non nuotavo da tempo, una nuotata liberatoria fino in mezzo al lago. Un’altra leggenda, trovata sempre tra le pagine ingiallite e odorose dell’antico librone rilegato in tela rossa di Cérésole – sul cui dorso, venati d’oro, ci sono dei rami di pino e pigne – illustrato splendidamente da Eugène Burnand, racconta che in mezzo al lago, sul fondo, c’è un tesoro. Gettato da Isabeau de Pontverre fuggita in tempo dal castello di Aigremont, dato alle fiamme da «bande vallesane». Un forziere di ferro con gioielli e monete d’oro riposa ancora in fondo al lago che alla fine attraverso tutto, approdando alla riva dove c’è un prato scosceso profumato dalle pinete delle alpi vodesi. Al limitare di questi boschi, si aggira ancora inquieta le notti di luna piena, la bella Isabeau trasformata in fata. Per ora si nota solo una tenda da campeggio.

la società connessa di Natascha Fioretti Consumatori digitali felici o rammolliti? Siete in vacanza? Avete tappezzato la vostra pagina Fb di foto con posti incantevoli e cene prelibate su spiagge coralline al chiaro di luna? Le pagine Fb dei vostri amici sono egualmente felici? Non vi sono dubbi, credo, che il luogo d’elezione delle ostentazioni e delle illusioni felici della nostra era siano Facebook e Instagram. E, se per caso non vi sentite all’altezza, ci sono applicazioni pronte a cambiarvi la vita e a rendervi cittadini, anzi, consumatori digitali felici, perfettamente omologati alla massa. Nata nel 2011 dall’idea del suo cofondatore e presidente Ofer Leidner, Happify, l’app che nella versione inglese conta più di tre milioni di utenti (www. happify.com), è il prodotto di quell’industria e quella scienza della felicità dalle quali Edgar Cabanas e Eva Illouz ci mettono in guardia nel loro saggio «Happycracy. Come la scienza della felicità controlla le nostre vite» (ne

abbiamo parlato nello scorso numero). Ofer Leidner crede nella psicologia positiva e nella scienza della felicità e ha deciso di creare una piattaforma che possa tradurre in esempi e vantaggi concreti gli studi scientifici fatti sul campo. Ammette con candore che nessuna app può rendere felici ma gli insegnamenti, i percorsi e le esperienze veicolate su Happify unite alle caratteristiche dell’ambiente digitale, contribuiscono a rendere le persone più felici, ad elevare il loro livello di felicità. Prima di abbandonarvi a facili entusiasmi dovete sapere che Happify si può testare gratuitamente ma per usufruire di tutte le competenze e i vantaggi si paga. Si possono sottoscrivere diversi tipi di abbonamento uno anche a vita (alla fine moriremo felici?) per 337 dollari al mese. La piattaforma mira a coinvolgere gli utenti nella comunità dei felici. Con alcune domande preliminari del tipo

«nel mese scorso quante volte ti sei sentito arrabbiato, ansioso o preoccupato?» si stabilisce il grado di felicità dei nuovi arrivati. Vengono poi proposti contenuti di diverso tipo, in particolare viene utilizzata la formula del gaming e la dinamica del superamento delle prove. Io ho seguito i consigli di Derrick Carpenter, coach della scuola di psicologia positiva che ti esorta a conquistare i pensieri negativi. Mi sono state proposte una serie di attività per elevare le mie abilità ad essere felice. Ho provato la prima, uplift, che consiste nel mostrarti una serie di mongolfiere colorate in volo, ognuna con una parola impressa tipo «amore», «fortuna», «pace», «serenità», «successo». Non si muovono neanche tanto lentamente e devi clicccare quelle con le parole che ti ispirano. Sono arrivata a 430 punti e avrei potuto accedere al livello successivo ma non sono una fan del gaming. Anzi, a dire il vero mi è venuta l’ansia.


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Ambiente e Benessere Nelle acque del lago Malawi Fotoreportage sui ciclidi, una famiglia di pesci di acqua dolce nei Tropici ricca di 1300 specie pagina 19

Profumate e angeliche La Brugmansia suaveolens, nota anche con il nome di tromba degli angeli, è un fiore tanto bello quanto delicato

la nave più imponente La SS Great Eastern fu, nell’800, la nave più grande al mondo, ma senza molta fortuna

un giorno nella Savana Un percorso lungo strade dissestate, attraverso villaggi sperduti, nel sud del Ciad

pagina 21

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Salute: ad ogni costo? Sanità Questo imperativo guida

comportamenti, attese, modi di essere e sentire del nostro tempo

Maria Grazia Buletti «Viviamo sempre più nell’angoscia di una malattia imminente, avvolti in una sensazione di pericolo che ci spinge a sottoporci a divieti e limitazioni, ad affidarci alle mani di specialisti di ogni genere, in un continuo monitoraggio di ogni singolo organo del nostro corpo». Il filosofo e psicanalista argentino Miguel Benasayag così descrive lo spaccato di una società sempre più sanità-dipendente. È lecito chiederci se la nostra grande offerta sanitaria sia sufficiente a colmare questi bisogni crescenti che hanno origini socio-filosofiche, ma che inevitabilmente ci stanno presentando un conto sempre più salato. Un primo spunto di riflessione viene dal direttore dell’Ospedale Regionale di Lugano Luca Jelmoni che, citando un articolo della NZZ, paragona il nostro sistema sanitario a quello danese: «In termini numerici (numero di ospedali per unità di popolazione), in Danimarca ci sono 61 ospedali a fronte dei 281 svizzeri dove disponiamo di 4,6 letti per mille abitanti (a fronte dei 2,6 letti danesi). In Svizzera, la spesa per la sanità rispetto al PIL è del 12,3 percento, in Danimarca del 10,2». Potremmo dunque pensare che siamo meglio curati, ma: «Eppure, ad esempio, secondo la NZZ il numero di morti per infarto è più alto da noi che in Danimarca, così come il numero di interventi per abitante». Secondo il nostro interlocutore, un modello simile a quello portato ad esempio dovrà indicarci la direzione da intraprendere: «281 ospedali generano costi sempre meno sostenibili, a fronte di risultati che grazie alla concentrazione possiamo migliorare a beneficio di un livello qualitativo che sappia sostenere e potenziare la qualità delle cure». Ci chiediamo se la medicina, con la sua evoluzione di offerta terapeutica sempre più specialistica e multidisciplinare, abbia le sue responsabilità. Secondo il professor Paolo Merlani, direttore sanitario ORL e primario di Medicina intensiva, questa crescita dei servizi medici va guardata in prospettiva: «La medicina vive un’evoluzione importante e così continuerà a fare: ciò che oggi appare caro, impos-

sibile o destinato a saturare il nostro sistema sanitario, domani non lo sarà più». Il medico porta ad esempio l’intervento di Bypass coronarico: «Dopo un aumento impressionante, oggi è raro perché sostituito da interventi non invasivi, oppure la prova del DNA che fino a 10 anni fa era quasi impossibile immaginare di routine e a costi contenuti come invece è diventata oggi». Il professor Merlani spiega di non avere una risposta sulla questione se sia la domanda sociale a indurre la risposta medica o invece l’offerta a causare la domanda: «Sconfiniamo in un discorso filosofico che implica diversi punti di vista: penso che la medicina abbia qualche responsabilità sul trend sociale (sono responsabile perché produco certe tecniche); però non saprei dire se davvero l’offerta induca l’abuso o se la tendenza è già tale nel perseguire una cultura generalizzata del «ho diritto di vivere in eterno, giovane e in buona salute». D’altronde, lo specialista ricorda: «Ognuno ha un diritto universale alla cura». Tuttavia poter rendere sempre retroattivi certi meccanismi patologici è altra cosa: «Per ora non sempre possibile, a causa degli odierni limiti tecnologici». Altro discorso è il desiderio di prolungare la vita con qualsiasi mezzo e ad ogni costo: «Talvolta possiamo prolungare la vita solo attraverso certi compromessi: allora bisogna chiedersi a che prezzo far vivere ad ogni costo? Dove costo è inteso in termini di dignità e di sofferenza umana, sofferenza famigliare e sociale». La questione della qualità della nostra vita ci porta alla cultura della dignità umana: un tema, anch’esso, che ritorna ad essere filosofico e che lo specialista invita a rivalutare. Ritorna così la domanda su dove piazzare l’ago della bilancia fra cure e cure «ad ogni costo», fra medicina e benefici o accanimento. E su quanto la nostra offerta sanitaria si possa paragonare all’offerta dell’industria dove la domanda genera l’offerta e l’offerta porta ad aumentare la domanda. Il direttore Jelmoni, senza lesinare considerazioni talvolta scomode che però qualcuno deve pur fare, ci pone dinanzi a un’accurata analisi: «Sostanzialmente, sul tema dei costi, non

Il direttore dell’Ospedale regionale di Lugano Luca Jelmoni, a sinistra, e Paolo Merlani, direttore sanitario. (V. Cammarata)

possiamo paragonare l’industria alla sanità, dove essi non sono prioritari in relazione all’essere ammalato e volersi legittimamente curare. La tecnologia sanitaria esiste e voglio poterne usufruire: è un legittimo segno dell’evoluzione sociale». Eppure, il nostro interlocutore ha già affermato che da noi qualche correttivo sarà d’obbligo e verterà sul senso di responsabilità collettivo di tutte le parti: «In Ticino la situazione è analoga al resto della Svizzera, seppur con qualche vantaggio, ad esempio, nell’EOC dove già gli ospedali lavorano in rete e questo permette di ottimizzare alcune risorse, centralizzare la cura di certe patologie e di conseguenza essere più efficienti non solo dal profilo economico, ma con un’offerta più altamente qualitativa delle cure. Inoltre, settore pubblico e privato hanno entrambi una forza

individuale e un ruolo specifico: una «concorrenza» che porta uno stimolo imprenditoriale benefico nell’offerta sanitaria globale». Pur dicendosi ottimista, Jelmoni ricorda che la Svizzera è «un’isola ad alto costo», seconda solo agli Stati Uniti e ribadisce: «Probabilmente col tempo non sarà più possibile offrire tutto ovunque e si dovrà mettere ordine e razionalizzare la sanità, conservando e migliorando così la qualità specialistica terapeutica». Bisognerà considerare dei limiti, e al professor Merlani chiediamo chi dovrà porli, calcolando il dovere di cura del medico: «È una domanda fondamentale: chi avrà il dovere? Chi il coraggio? Chi sarà più adatto a porre i limiti necessari?». Egli sostiene una responsabilizzazione della medicina e del medico nel dialogo al capezzale del pa-

ziente: «Dobbiamo assumerci questa responsabilità, perché disponiamo degli strumenti per dialogare con paziente e parenti, discutendo cosa è giusto e cosa lo è di meno in termini di costi etici, di qualità di vita, a livello filosofico ed economico». D’altronde, i nostri interlocutori sono unanimi nell’esprimere l’importanza di una maggiore assunzione di responsabilità e consapevolezza della società e del paziente, come riassume Merlani: «L’individuo deve recuperare il potere nel cogliere informazioni e cultura, nel difendere i propri valori e la sua dignità anche e soprattutto nella malattia. Tutti dovremmo coltivare il coraggio di conoscere meglio noi stessi, l’altro e i valori. La società, dal canto suo, dovrebbe rivalutare i tabù della morte, della sofferenza e di tante altre sfumature della vita».


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Ambiente e Benessere

una straordinaria evoluzione Reportage Un’immersione nel Lago Malawi per osservare i ciclidi, famiglia di pesci d’acqua dolce presenti

nei laghi tropicali in tutto il mondo, comprendente fra le 1300 e le 2000 specie – La loro particolarità: una grande capacità di adattamento alle condizioni ambientali

Sabrina Belloni, foto Franco Banfi Una moltitudine di pesci variopinti, di dimensioni, colori e disegni difformi popola le acque dei grandi laghi della zona tropicale di quasi tutti i continenti: sono i ciclidi. Ne sono state descritte analiticamente circa 1300 specie, ma si stima che ne esistano oltre 2000. Ciò li pone al secondo posto dopo i Ciprinidi (2700 specie descritte), fra le famiglie più numerose di pesci d’acqua dolce. La loro vastissima distribuzione – dall’America Centrale e del Sud, dall’Africa al Madagascar, al Medio Oriente, all’India – evidenzia la capacità di adattamento a vari habitat e nicchie ecologiche.

Tutte le specie viventi dei ciclidi in Africa derivano da un’unica specie ancestrale diffusasi nei laghi da un bacino corrispondente al Nilo Ma ci credereste? Tutte le 2000 specie viventi deriverebbero da un’unica specie ancestrale, la quale da un bacino approssimativamente corrispondente al Nilo si è poi diffusa nei laghi. Gli studi effettuati da numerosi ricercatori, fra cui il dr. Ole Seehausen del Dipartimento di ecologia ed evoluzione dell’Istituto Federale di Scienze Acquatiche e Tecnologia svizzero Eawag, pubblicati sulla rivista «Nature», dimostrano che la moltitudine di specie odierne è il risultato di trasformazioni genetiche indotte da adattamenti ambientali. I ricercatori hanno analizzato i patrimoni genetici e le molecole di RNA di alcuni tessuti di pesci provenienti da laghi diversi e hanno rilevato una quantità sorprendente di duplicazioni e mutazioni adattative, le quali hanno consentito ai ciclidi di colonizzare habitat ecologicamente molto differenti, dove per sopravvivere è necessario diversificarsi. Particolarmente, i ciclidi dei laghi africani Malawi e Victoria mostrano il più vasto grado di specializzazione oggi conosciuto fra tutti i vertebrati. Presumibilmente sono giunti a questa differenziazione in seguito a ripetuti isolamenti dovuti alle modificazioni del livello e pertanto del volume di acqua dei laghi, che hanno causato ripetuti cicli di espansione, frammentazione e contrazione delle popolazioni. In pratica, i gruppi che in precedenza si scambiavano geni si sono trovati isolati in piccole pozze d’acqua, nelle quali nuove spe-

cie sono evolute indipendentemente. Quando sono nuovamente venute in contatto in seguito all’innalzamento del livello dell’acqua, esse avevano perso la capacità di accoppiarsi. È sorprendente la quantità di studi scientifici dedicata a questi pesci, intriganti sia per la enorme diversità, sia per i numerosi endemismi, che sono presenti non solamente in laghi differenti, bensì anche all’interno dei medesimi bacini. Alcune specie infatti vivono esclusivamente in un lago ed anche in una unica ristretta area nei grandi laghi Victoria, Tanganika e Malawi/ Nyasa. Da ciò deriva l’assunto che i ciclidi hanno sviluppato particolari abilità cognitive – fra cui anche il riconoscimento dei co-specifici – le quali giocano un ruolo importante nella scelta dei partner, nell’evitare i predatori, nell’alimentazione, nell’orientamento, ecc. Maggiore è la capacità cognitiva, maggiori sono le possibilità di reazione ai cambiamenti ambientali o alle situazioni gravose. Considerata la grande varietà delle livree dei ciclidi in termini di colore e disegni, è stata particolarmente studiata la loro visione, la capacità di riconoscere i colori e le forme geometriche. Si è scoperto che questi pesci riescono a distinguere i membri del proprio gruppo tramite il riconoscimento facciale, discriminando gli esemplari della medesima famiglia o estranei con la stessa accuratezza e velocità impiegate dai primati. I comportamenti sociali, ad esempio i riti nuziali, sono affascinanti e molto diversificati fra le specie. Le relazioni comprendono la monogamia, la poliandria (una femmina con più maschi) e la poliginia (un maschio che feconda le uova di più femmine). I comportamenti riproduttivi, particolarmente la dedizione e l’energia che investono nella cura degli avannotti, soprattutto dopo la schiusa delle uova, hanno sicuramente determinato la longevità evolutiva e la conquista di molti habitat da parte di questa famiglia. Mentre le uova fecondate possono essere sorvegliate da un solo genitore, dopo la nascita spesso entrambi si dedicano ai piccoli. Alcune specie sono invece opportuniste e depongono le loro uova insieme a quelle di altri pesci, lasciando agli ospitanti l’onere dell’allevamento della propria prole. Una strategia comune a molti ciclidi è quella di tenere in bocca le uova fecondate o gli avannotti, in modo da fornire un rifugio sicuro ai piccoli in caso di pericolo. I ciclidi che si sono specializzati nella incubazione orale producono all’incirca una decina di uova. I maschi di queste specie non accudiscono la prole, ma competono tra loro per

Il Malawi è il terzo lago più grande in Africa e il nono del mondo.

fecondare il maggior numero possibile di uova. Talvolta si aggregano in «arene nuziali», dette lek, nelle quali si esibiscono per attirare le femmine. Un lek è costituito in genere di 20-50 maschi, dove regna una gerarchia di esemplari soccombenti ai maschi «alfa». In altre specie, i maschi costruiscono nidi molto elaborati costituiti da sabbia e ciottoli, in cui si esibiscono con livree molto vistose per conquistare le femmine. La femmina solitamente sceglie il part-

ner che ha costruito il nido più grande ed elaborato, vi depone alcune uova che vengono subito fecondate. Quindi lei prende le uova in bocca e lascia il nido, alla ricerca di un nuovo partner. Così come la diversità di questa famiglia di pesci è inverosimile, altrettanto lo è la velocità con cui alcune specie estremamente specializzate si sono estinte o il numero di esemplari è collassato quale conseguenza della distruzione dell’habitat, dell’intro-

duzione accidentale o volontaria di predatori o competitori in ambito alimentare, del sovrasfruttamento determinato dalla pesca. L’esempio più evidente è quanto accaduto nel lago Victoria dopo l’introduzione del persico africano, al fine di migliorare la resa ittica. Circa 30 anni orsono il persico africano si era riprodotto enormemente ed i ciclidi si erano ridotti al lumicino, prede della voracità del persico. Una parte del lago aveva iniziato a soffrire di anossia, determinata dalla radicale diminuzione di ciclidi che si nutrivano delle alghe. Le alghe morte in decomposizione (non più controllate dai ciclidi) avevano sottratto ossigeno all’acqua. Inoltre, il procedimento di affumicatura a legna del pesce persico pescato aveva determinato la progressiva deforestazione lungo le coste. L’acqua piovana, non più trattenuta dalla foresta, si riversava nel lago, trascinando con sé grandi quantità di terriccio che si depositava sui fondali, favorendo le condizioni di anossia indotte dall’esuberanza delle alghe. Introdurre nuovi organismi in ambienti è sempre un’impresa imprevedibile ed il risultato finale non è mai ciò che ci si aspetta, poiché le due specie antagoniste non interagiscono reciprocamente in isolamento da altre specie o dalle mutazioni ambientali.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 agosto 2019 • N. 34

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Ambiente e Benessere

le variopinte trombe degli angeli Mondoverde La Brugmansia suaveolens e altre specie offrono bellissimi e profumati fiori

Anita Negretti Anna era la proprietaria di un piccolo negozio di generi alimentari e io di lei e della sua attività ricordo soprattutto le piante dell’aiuola all’ingresso, dove lasciavo, da bambina, la mia bicicletta. Un bel gruppo di steli fioriti di nicotiana, dei bassi ed azzurri non-tiscordar-di-me, qualche candido alisso e due magnifici esemplari di brugmansie bianche, coltivate in vaso e che ogni anno mi rapivano gli occhi con la loro meravigliosa fioritura. Anna ci ha lasciati da qualche anno, avendo superato abbondantemente gli 80 anni, ed io ogni volta che vedo una Brugmansia suaveolens, non posso fare a meno che pensare a lei per qualche istante. Le grandi corolle bianche, lunghe fino a 30 centimetri, sono profumatissime e di notte al fresco si alzano, mentre di giorno ricadono verso terra. Ne esiste anche una bellissima varietà a corolle bianche e con petali semi doppi, la Brugmansia suaveolens «Knightii». Le brugmansie, chiamate trombe degli angeli per via della forma del loro fiore, soffrono molto il freddo ed il vento che facilmente spezzano le loro grandi foglie morbide e vanno dunque coltivate in capienti vasi da ritirare appena la temperatura scende sotto i 5-6 °C. In autunno, al momento del ritiro in serre riscaldate, garage chiusi o scale interne, è utile potarle accorciando il fusto fino ad un terzo della loro altezza,

Durante la fioritura la Brugmasia suaveolens richiede molta acqua. (Asit K. Ghosh)

eliminando le foglie ed i fiori prima del ricovero. L’ irrigazione è importantissima ed il terriccio deve rimanere sempre

inumidito, infatti, nelle giornate molto calde è necessario bagnare la pianta sia la mattina che la sera ed è sempre uti-

le utilizzare un capiente sottovaso. In inverno, quando la pianta si presenta nuda, sospendete le bagnature e limi-

tatevi a darle solo qualche bicchiere d’acqua ogni 10-15 giorni; da aprile andrà somministrato un concime ad elevato titolo di azoto e di potassio. La posizione ideale è a mezz’ombra molto luminosa, per evitare che le foglie ed i fiori si brucino al sole diretto. Se messi all’interno di vasi capienti gli esemplari adulti raggiungono i 150-170 centimetri, hanno rami robusti e ramificati da cui pendono i lunghi fiori, seguiti da bacche rotonde, dal diametro di 5-6 centimetri, verdi e spinose. Se tanta bellezza vi entusiasma, fate però molta attenzione durante la coltivazione, perché le trombe degli angeli appartengono alla famiglia delle solanacee e sono ricche di alcaloidi velenosi, tra cui la tossica scopolamina. È indispensabile quindi indossare un paio di guanti quando la si trapianta o la si pota oppure ricordarsi di lavare le mani a fondo con sapone ed acqua calda. Oltre alla Brugmansia suaveolens ve ne sono altre di specie, a fiore colorato, come ad esempio la B. sanguinea che ha fiori rosso-arancio, molto appariscenti e simili a quelli della B. vulcanicola; la B. aurea che è caratterizzata da fiori gialli e molto profumati; e infine la B. versicolor che li ha invece di color salmone. Vi sono poi in commercio tutti gli ibridi di Brugmasia x candida, come la «Grand Marnier» color pesca, la «Maya» di un rosa appena accennato, la più accesa «Pink Perfektion» e la «Plena» dal fiore bianco e doppio. Annuncio pubblicitario

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ad es. filetto di tonno · 1 spicchio d’aglio · 10 g di zenzero · 1 cucchiaio d’olio di sesamo · 50 g di crème fraîche · 1 cucchiaio di wasabi · 1 cucchiaino di miele liquido · sale · 4 panini per hamburger di ca. 75 g, ad es. bun per burger XXL · 8 foglie d’insalata, ad es. lattuga romana · 60 g di crescione o germogli di fagioli mungo. 1. Per la marinata – Versate la salsa di soia sul tonno. Unite l’aglio schiacciato. Pelate lo zenzero, tritatelo finemente e aggiungetelo. Mescolate con l’olio, lasciate marinare il tonno per ca. 30 minuti. Emulsionate la crème fraîche, il wasabi e il miele. Salate e mettete in frigo. 2. Dimezzate i panini per burger, tostateli. Spezzettate le foglie d’insalata. Distribuitele sulla metà inferiore dei panini assieme a metà del crescione. Rosolate brevemente il tonno da entrambe le parti a fuoco medio. Adagiatelo sulle foglie d’insalata assieme al crescione rimasto, coprite con la metà superiore dei panini. Servite subito con la salsa. Preparazione: circa 30 minuti + marinata ½ ora. Per persona: circa 40 g di proteine, 22 g di grassi, 47 g di carboidrati, 560

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Ambiente e Benessere

una città galleggiante

Raccontava Marco Polo... Bussole Inviti a

Viaggiatori d’occidente La storia della SS Great Eastern, la nave più grande del mondo

letture per viaggiare

Claudio Visentin Jules Verne è stato il primo scrittore di fantascienza. Nei suoi romanzi, pubblicati nella seconda metà dell’Ottocento, ha anticipato scoperte ed esperienze poi diventate parte della nostra vita quotidiana: il volo aereo (Cinque settimane in pallone, 1863), le esplorazioni spaziali (Dalla Terra alla Luna, 1865), i sommergibili e la discesa negli abissi (Ventimila leghe sotto i mari, 1870). In un caso tuttavia la realtà anticipò la sua immaginazione. Nel marzo 1867, in compagnia del fratello Paul, Jules Verne si imbarcò sul piroscafo SS Great Eastern, dove ambienterà il suo romanzo Una città galleggiante (1870). La SS Great Eastern, varata nel 1858, fu per mezzo secolo la più grande nave del mondo: era lunga oltre duecento metri, larga venticinque, alta come un palazzo e con una stazza di quasi ventimila tonnellate. Era sei volte più grande di ogni altra nave del suo tempo e poteva trasportare fino a quattromila passeggeri, ospitati in spaziose cabine ed eleganti saloni. La SS Great Eastern prese forma nell’immaginazione di un visionario ingegnere inglese, Isambard Kingdom Brunel. Questi aveva già progettato la Great Britain (1843), rivoluzionando le traversate atlantiche: una nave con lo scafo in metallo (anziché in legno), spinta da un motore (anziché dal vento) e da un’elica (anziché dalle ruote a pale). Ma ora con la SS Great Eastern era entrato in un territorio a lui stesso sconosciuto, nella convinzione (corretta) che navi sempre più grandi avrebbero richiesto meno carburante e un equipaggio ridotto in proporzione alla mole. Per muovere la gigantesca massa della SS Great Eastern fu necessario utilizzare tutte le forme di propulsione disponibili: due ruote a pale, un’elica e sei alberi per le vele. La potenza complessiva delle macchine a vapore impiegate raggiungeva gli ottomila cavalli. Le smisurate dimensioni della nave resero la costruzione assai complicata. Alla fine fu assemblata lungo il corso del Tamigi (è ancora possibile visitare quel che resta del cantiere) e varata, dopo diversi tentativi falliti e solo grazie a una marea di straordinaria intensità, facendola scivolare in acqua di lato.

«Lasciate che mi presenti: Marco Polo, veneziano, nato nell’anno 1254 dall’Incarnazione di Cristo, figlio di Niccolò Polo e Nicole Anna Defuseh, nipote di messer Matteo, della Ca’ dei Polo che compì viaggi per il vasto mondo, dalle Indie alla Tartaria, e più in là ancora, autore del libro detto Il Milione…».

Litografia colorata a mano della SS Great Eastern. (Charles Parsons 1821-1910)

Non fu una nave fortunata: una caldaia esplose già nel viaggio inaugurale scagliando in cielo un fumaiolo. La partenza del primo viaggio atlantico (giugno 1860) dovette essere rimandata di un giorno perché tutto l’equipaggio era ubriaco. Nel terzo viaggio verso l’America, alla fine del 1861, la nave rischiò di affondare quando durante una tempesta il carico mal sistemato cominciò a muoversi nella stiva senza controllo. La nave era costruita interamente in ferro, per la prima volta con un doppio fondo lungo tutta la lunghezza della chiglia, oggi obbligatorio per ragioni di sicurezza. Questa soluzione si rivelò provvidenziale nel 1862 quando, in vista di New York, uno scoglio non segnalato aprì uno squarcio di venticinque metri sullo scafo esterno. Durante la riparazione rumori ripetuti alimentarono voci di fantasmi, ma alla fine si comprese che la causa era un anello di ferro spinto dalla corrente contro lo scafo. E tuttavia, quasi a confermare questi macabri presagi, durante la demolizione della nave i cadaveri di due operai furono ritrovati nello spazio tra le due chiglie, dove erano rimasti intrappolati al tempo della costruzione. Nelle intenzioni dei suoi finanziatori la SS Great Eastern avrebbe dovuto

essere impiegata sulla rotta LondraBombay attraverso il Capo di Buona Speranza, senza bisogno di rifornimento durante il tragitto. Ma i suoi armatori, nonostante avessero fatto la migliore offerta, persero la gara per il servizio pubblico che andò alla Peninsular and Oriental Company (l’attuale P&O). Il mercato dell’emigrazione non garantiva ancora una domanda sufficiente lungo quella tratta e la nuova nave fu dunque impiegata sulla rotta atlantica tra la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, percorsa in meno di dieci giorni, dove però navi più piccole risultavano più efficaci e meno costose. Incertezze economiche, derivanti dai costi di costruzione e di esercizio, funestarono tutta la vita della grande nave. Alla fine nel 1864 la SS Great Eastern fu messa all’asta e acquistata in vista di una memorabile impresa: la posa di un cavo telegrafico intercontinentale tra l’Europa e L’America, dopo il fallimento di un primo tentativo nel 1858. Il cavo, lungo quattromilatrecento chilometri, occupava l’intero scafo della nave, svuotato delle cabine. Nel 1865 la SS Great Eastern cominciò la sua missione dall’Irlanda ma a mezza via il cavo si ruppe e andò perduto in acque profonde duemila metri. L’anno

seguente un nuovo tentativo ebbe invece successo. Pur in assenza di ripetitori, il cavo poteva trasmettere otto parole al minuto e quando la rete fu completa con sempre nuovi collegamenti, Londra divenne il centro delle telecomunicazioni mondiali e della nuova società globale in gestazione. A titolo di curiosità, il cavo viene mostrato ai passeggeri del sommergibile Nautilus nel romanzo di Jules Verne Ventimila leghe sotto i mari. Conclusa questa e altre simili missioni, la SS Great Eastern fu nuovamente trasformata in una nave di linea per trasportare ricchi americani all’Esposizione internazionale di Parigi del 1867 (Jules Verne era tra loro, in cerca di informazioni per il suo romanzo) ma i conti restavano in rosso. Nei suoi ultimi anni la SS Great Eastern fu usata per attirare l’attenzione del pubblico con la sua mole, come un vecchio pugile passato al circo; fu un teatro galleggiante, una sala concerti e una palestra. Poi la demolizione, nel 1888. Si concludeva così la storia di una nave senza pari, vittima di qualche circostanza sfortunata e del suo anticipo sui tempi. Ma tuttavia, grazie a Jules Verne, continua a navigare nel vasto mare dell’immaginazione.

La storia de Il Milione è giunta sino a noi solo grazie a una serie di vicende imprevedibili: al suo ritorno dall’Oriente Marco Polo veneziano fu catturato in uno scontro navale dai genovesi, a quel tempo nemici implacabili della Serenissima. Mentre si svolgevano le trattative per definire il suo riscatto, Marco condivise le giornate con un altro prigioniero, Rustichello da Pisa, autore di romanzi cavallereschi. Sarà lui a trascrivere, nella sua prosa immaginifica, le avventure raccontate dal grande viaggiatore. Quella storia, tradotta nelle più diverse lingue, spesso considerata frutto d’invenzione e non cronaca di un viaggio reale (ma oggi gli studiosi danno credito al racconto), ha contribuito più di ogni altra a creare l’immagine degli splendori e delle ricchezze d’Oriente. Italo Calvino la utilizzò come cornice per le sue «Città invisibili» e Gianluca Barbera a sua volta l’ha nuovamente raccontata con la stessa tecnica impiegata lo scorso anno per il primo viaggio intorno al mondo di Ferdinando Magellano (G. Barbera, «Magellano», Castelvecchi): uno stile fluente, la giusta quantità di informazioni, il gioco dell’invenzione. Qui si immagina un Marco Polo che, dopo aver perduto le fortune accumulate coi commerci, per vivere intrattiene coi suoi racconti i nobili delle corti italiane ed europee, ogni volta aggiungendo o cambiando particolari a seconda dell’uditorio. Ma siamo poi sicuri che il narratore sia davvero Marco Polo? / CV Bibliografia

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Ambiente e Benessere

i colori del Ciad del sud Reportage Diario di una giornata nella savana

La siccità ha reso la savana ancora più secca, gli abitanti devono arrangiarsi con il poco raccolto ottenuto.

Fredy Franzoni, testo e foto È mattino. Sono le 6 e da poco la luce del giorno sta rompendo l’intenso buio delle notti africane. Siamo a Bikou, un villaggio nel sud del Ciad. La capitale Njamenà dista oltre dieci ore di strada asfaltata, zeppa di buche. Saliamo in macchina. La meta è Laj, 140 chilometri, dapprima a sud fino a Doba e poi si dovrà risalire verso il nord. Il primo tratto regala finalmente un asfalto quasi intatto, poi per gli ultimi 100 chilometri ci attende la pista. Bikou è già sveglia da tempo. Siamo nella stagione invernale. Anche per noi a quest’ora un maglioncino è indumento gradito. Lungo i due lati della strada si scorgono ovunque dei focherelli. Una manciata di paglia, ultimo regalo delle coltivazioni di miglio o manioca, per riscaldare chi il maglioncino non l’ha. Crocchi di gente accovacciata in attesa che il sole torni a riscaldare l’aria. La stagione secca permette di allungare lo sguardo lontano, per scoprire i tanti nuclei abitati, disseminati sull’immensa pianura. Non appena si entrerà nella stagione delle piogge le case torneranno a nascondersi dietro i campi coltivati che lambiscono le abitazioni. Piccoli nuclei, costruiti con mattoni seccati al sole; tetti in paglia; piccoli sili circolari per conservare i raccolti; al centro il focolare per cucinare. Sul lato della strada qua e là dei bidoni neri. Indicano dove si vende la biri biri, la birra fatta in casa che si serve nei gusci di zucca, attingendo da un bidone colmo di un liquido

schiumoso. Si incrociano anche alcune banderuole bianche con scritte nere. Segnalano dove è possibile consultare una veggente. Non c’è praticamente traffico. Solo qualche motocicletta, molte costruite in Cina. S’incrociano rari camioncini stracarichi di merci e di persone. Da qualche parte oggi ci sarà il mercato. In fondo una densa nuvola nera. Uno dei tanti fuochi accesi per pulire i campi prima della nuova semina. Arrivati nelle vicinanze del fiume Logone di nuovo le risaie, come ne avevamo viste tante dopo la capitale. Ma quest’anno il raccolto è stato scarso. Pochissima pioggia e le piantine sono seccate, tingendo ancor più di sfumature d’ocra un paesaggio dai colori spenti, complice anche l’harmattan, il vento del deserto che riempie l’aria di minuscoli frammenti di Sahara. Poco prima di arrivare a Doba sulla sinistra un grande stabilimento spunta dalla pianura. L’avevano costruito anni fa gli indiani per produrre succo di mango. È stato attivo per pochissimo tempo. Simbolo dell’inefficienza di una pianificazione statale che da decenni soffoca il paese. Anche la produzione petrolifera, iniziata poco dopo l’inizio del 2000, non è riuscita a risollevare l’economia. Diminuzione del prezzo del greggio, ma anche una allegra gestione degli introiti non hanno fatto che rendere più incerto il destino dei ciadiani. E dire che nelle città svettano grandi manifesti contro la corruzione. Arriviamo a Doba: ci accoglie una grande rotonda. Sulla destra si va ver-

In un villaggio si discute un nuovo progetto di cooperazione allo sviluppo.

Fra le poche segnalazioni, quelle dove è possibile consultare una veggente.

so il centro città da dove avanza una lunghissima fila di giovani, quasi tutti a piedi. Pochissime le donne. Oggi riprendono i corsi universitari dopo un anno di scioperi. Siamo a otto chilometri dal centro e da tempo i bus per il trasporto degli studenti sono fuori servizio. Noi svoltiamo a sinistra, ed è subito pista. Una lingua di terra battuta, spesso sabbiosa, che serpeggia nella savana. Per chi è al volante una continua sfida contro le buche. Attorno il paesaggio si fa ancor più spoglio. Si attraversano villaggi che in un paesaggio che ci pare tutto uguale, non si capisce perché siano sorti proprio lì. Ma c’è vita, tanta vita. Bambini che corrono,

donne che pompano l’acqua dai pozzi o che camminano sul bordo della pista con carichi strabilianti sul capo: fascine di legna, catini d’acqua, sacchi di viveri e spesso con anche i bambini attaccati alla schiena. Solo i colori dei loro vestiti riescono a rompere la monotonia del paesaggio. Per l’autista una nuova variante: come evitare di investire galline, oche, maiali, pecore e capre che sembrano essersi dati tutti appuntamento proprio sulla pista. C’è voglia di fermarsi, di mescolarsi, di perdersi in questa semplicità. Ci sarebbero migliaia di scatti fotografici da carpire. La gente però, forse per un giusto orgoglio, non vuole lasciarsi rubare la propria intimità. Allora ci si sforza di imprimere nella mente le immagini più belle. Tornando a casa rimarranno le emozioni e i ricordi, che valgono ben più delle fotografie da esibire in una serata con gli amici. D’improvviso la strada si fa ancora più sabbiosa. Pare di guidare sulla neve. Sulla sinistra ricompare il Logone, il fiume che poco fuori la capitale ci aveva riservato la sorpresa di vedere un gruppo di ippopotami, rimasti tra i pochissimi esemplari di animali selvaggi africani ancora presenti nel Ciad. Il Logone, il grande fiume del Paese che sfocia nel lago Ciad, che più a nord segna il confine con il Niger. Un lago che si è ridotto a un decimo della sua superficie di alcuni decenni fa. Da tempo sono in progettazione interventi faraonici, come costruire un canale che porti le acque di un fiume del Centrafrica nel Logone. Costo previsto 50 miliardi di

Strade sterrate piene di buche e nei villaggi di persone e animali.

dollari. Come dire che si tratta di un sogno proibito e non solo per una realtà corrotta come quella africana. L’auto rallenta e poi si ferma. Dal nulla, così pare, sbuca una mandria di buoi. Corna imponenti, passo flemme, sguardo che punta lontano come tutti i bovini. Sembrano non badare a noi. A guidarli un gruppo di uomini e donne. Alcuni bambini a cavalcioni sugli animali. Altri buoi hanno in groppa sacchi e lunghe pertiche ricurve. Sono i nomadi che nella stagione secca arrivano fin qua per far pascolare le loro mandrie. Torneranno al nord al momento in cui la stagione delle piogge rinverdirà nuovamente le zone desertiche. Centinaia di chilometri per rinnovare ogni anno i conflitti con gli agricoltori del sud, che da sempre mal tollerano queste invasioni periodiche dei loro terreni. Negli ultimi anni si sono aggiunti anche problemi nello smercio del bestiame. Le vie commerciali verso il Sudan e il Camerun si sono chiuse a seguito delle tensioni politiche e della presenza di Boko Haram nelle regioni di confine. La mandria è passata e si perde di nuovo nella savana. Siamo oramai arrivati a Laj. Si cammina praticamente sulla sabbia. Sui due lati della pista tanti nuclei di case. Un vecchio sta intrecciando la striscia di una stuoia. Non risponde al saluto, è troppo concentrato sul suo lavoro. Ci avvolge un gran silenzio che sembra anche inghiottire le nostre parole. Ancora galline, oche, maiali, pecore e capre che scorrazzano, ma anche loro sembrano non riuscire a rompere il silenzio. Ricorda il silenzio della neve da noi. Poco distante il fiume. Voci di bambini, di donne. I suoni di chi fa il bucato. Si fatica a capacitarsi di trovarsi in una comunità di almeno quarantamila persone. Incontriamo una giovane coppia di francesi. Sono a Lay da due settimane con un bimbo di dieci mesi. Vivranno lì per i prossimi due anni, nell’ambito di un progetto di cooperazione. Invidia, ma anche qualche perplessità di fronte alla loro scelta. Per noi è il tempo di ritornare, tra due ore cadrà la notte. Sulla via del ritorno ritroviamo la palla di fuoco argentata del sole che termina il suo viaggio per perdersi all’orizzonte. Il mattino l’avevamo vista sorgere con colori molto più intensi. Ma anche il sole, come noi, è forse stanco dopo una giornata così intensa.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 agosto 2019 • N. 34

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Ambiente e Benessere

Maglie sudate

Sport Identità e appartenenza nel calcio ticinese. Un fenomeno sempre più raro, rispetto ai fasti del passato»

Giancarlo Dionisio Cecchino Malfanti, Camillo Ferrari, Luciano Pagani, Bruno Bernasconi, Otto Scerri, Felice Lazzarotto, Fausto Quattrini. I meno giovani si ricorderanno di loro. Probabilmente con nostalgia. Pietro Belardelli, Enrico Preziosi, Giambattista Pastorello, Gianmarco Calleri, Gabriele Giulini. Nomi che invece suscitano preoccupazioni e mal di pancia. I primi sono stati paladini di un calcio ticinese ruspante, legato al territorio, e vincente. I secondi si sono distinti per avere portato il nostro football in un vortice fallimentare, dal quale si sta tentando di emergere. Con molto impegno e tantissima fatica. I meno giovani ricorderanno anche i nomi dei calciatori di un tempo: Brenna, Gottardi, Riva, Chiesa, Bionda, Tagli, Prosperi, Boffi, Abächerli, Caccia... e la lista potrebbe essere molto più lunga. Si tratta di giocatori che hanno vestito a lungo la maglia di uno dei 6 club che negli anni ’60-’70 militavano in Lega Nazionale. C’era il Lugano, senza dubbio la società dal palmares più prestigioso, con i suoi 3 titoli e le sue 3 coppe svizzera. C’erano Bellinzona e Chiasso, spesso a ridosso dell’élite, a lottare con mezzi ridotti, ma con una montagna di coraggio e di volontà. C’era pure il Locarno, tornato in alto, a provarci, a crederci. C’era il Mendrisio, che per un decennio ha tentato di sottrarre al Chiasso la supremazia nel profondo sud del Cantone. In quegli anni, ci fu, per un brevissimo periodo, anche l’apparizione del Gambarogno. E questo senza andare a pescare in un passato più remoto. Vacche grasse, a fronte dell’asfittico panorama odierno.

Angelo Renzetti, presidente del Lugano, cerca di preservare quanto possibile l’identità ticinese del club. (Keystone)

In Superleague resiste, per ora piuttosto bene, il Lugano. Chissà, forse perché Angelo Renzetti sta facendo salti mortali affinché la società non perda l’identità locale? In Challenge League soffre ed arranca il Chiasso. Bellinzona e Locarno, dopo il fallimento, si sono avviate verso il recupero di una collocazione più consona al loro blasone. Ci sono altre due macro differenze fra passato e presente. Ieri, lo statuto che prevaleva era quello del semiprofessionista. I calciatori trovavano facilmente un imprenditore locale disposto a corrispondere loro un salario, in cambio di un impegno part-time. Molto part-time. Oggi, tutti i calciatori della National League sono professionisti.

Alcuni sono pagati piuttosto bene. Altri ricevono lo stretto necessario per potersela cavare. Altri ancora percepiscono ingaggio e salario dai reali proprietari del loro cartellino, ovvero i club (nazionali o esteri) che contano di lucrare su un loro positivo impegno nel nostro campionato, per poi piazzarli in società più prestigiose. A titolo di esempio cito il brasiliano Raffael, che, dopo essere giunto giovanissimo a Chiasso, è emigrato dapprima a Zurigo, trampolino per un’eccellente carriera in Bundesliga. Il secondo dato rilevante? Allora gli stadi erano pieni. Oggi decisamente meno. Non stiamo a scomodare i 32.500 spettatori che a Cornaredo as-

sistettero il 25 novembre del 1951 alla sfida tra Rossocrociati e Azzurri (1 a 1 con reti di Puci Riva e Giampiero Boniperti). Ok, lasciamoli tutti lì, tranquilli ed esultanti a ricordare quegli attimi di estasi. Devo però sottolineare che a Lugano e a Bellinzona spessissimo si andava ampiamente oltre i 10mila spettatori, mentre a Chiasso e a Locarno il pubblico lo si contava pure a migliaia, non a centinaia o a decine come oggi. Come mai? Cosa è cambiato? Potrei riassumere in una parola: tutto. In ordine sparso: la sentenza Bosmann, che ha spalancato il mercato, favorendo la libera circolazione, più o meno indiscriminata, di calciatori proveniente dai 5 continenti. L’incremento delle

produzioni televisive, in chiaro o a pagamento, che consentono una visione serena delle partite dal divano di casa. La nascita di una nuova categoria professionale, quella degli agenti, o procuratori, che ha fatto lievitare i costi del fenomeno calcio. La trasformazione dei Club sportivi in vere e proprie aziende, con obiettivi dapprima finanziari, poi agonistici, anche se va da sé, che i due aspetti siano strettamente legati. Questi fattori hanno contribuito a parcellizzare la carriera ed il percorso di ogni singolo calciatore. Tizio oggi è a Chiasso, fra un mese a Lugano, a gennaio prende le valigie, direzione Cluj, Salisburgo o Singapore. Nel frattempo Caio lascia la sua squadra in Azerbaigian per approdare sulle rive del Ceresio. Salvo poi deludere le aspettative, quindi salire nuovamente su un treno (difficile di questi tempi con l’aereo) per raggiungere la destinazione successiva. E Sempronio? Sempronio è ticinese. È cresciuto nelle giovanili del Lugano, ha vestito anche la maglia del Team Ticino. È bravo, ma non bravissimo. E allora? Qualche scampolo di partita in Superleague con i bianconeri. Poi via, in Challenge League, a Wil, a macinare minuti di gioco, con la speranza che migliori. E gli spettatori? Non ci capiscono più nulla. Non hanno più eroi, non hanno più bandiere. Si accendono solo se i risultati sono eccellenti, cosa che il Lugano ottiene a singhiozzo. Si spengono rapidamente, non appena si inanellano 2 o 3 risultati negativi. Morale? Stadi semivuoti, entusiasmo scarso, e calcio ticinese a rischio, a meno di un recupero, sia pure parziale, di un’identità locale. Da appassionato mi auguro di sbagliare.

Giochi

Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku

Cruciverba Una cliente al bancone si sta facendo tagliare il prosciutto da un salumiere: «Mi scusi, il prosciutto lo vorrei più spesso». Trova la risposta del salumiere leggendo, a cruciverba ultimato, le lettere evidenziate. (Frase: 6, 5, 2, 3, 5, 1, 6)

oRiZZoNTAli 1. Interpretava «La signora in giallo» (iniz.) 3. Parole di plauso 7. Rapporto di Autovalutazione (sigla) 9. Dieci inglesi... 10. Mare del Mediterraneo 12. Le iniziali dello scrittore Dumas 13. Ambiente buio e tetro 15. C’è anche quella gravitazionale 22. Preposizione articolata 23. Preoccupati, stanchi 24. Nei cerchi e nei triangoli 26. Le iniziali della giornalista Giacobini 28. Sigla di un tasso bancario 29. Si alza se fa freddo 32. Proferire 34. Inique 35. Sul pulsante dell’accensione VERTiCAli 1. Superficie circoscritta 2. La fanno spesso i bambini 4. Fanno coristi ...in crisi 5. Invocata dai pagani 6. Lo cerca il detective 8. Sommità 11. Noto comune della Val Gardena 14. Le iniziali del compositore Respighi 16. Lo... rendono alto 17. Parte dell’occhio 18. Lungo gli uadi 19. Le iniziali della ballerina Titova 20. Articolo indeterminativo tedesco 21. ... et Orbi 25. Lo scrittore Fleming 27. Lavora in cantiere 30. Le iniziali dell’attrice Golino 31. Bocca in latino 33. In fondo al baratro

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I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno 6 8 fatto pervenire la7 soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. 10 11

Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch 1 2 3 4 5 9

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Sudoku Soluzione:

Scoprire i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.

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D I 9 1 5 3 E N 6 4 7 A D Soluzione della settimana precedente LA SAGGEZZA DI GANDHI – Frase di Gandhi: «SII IL CAMBIAMENTO I CHE VUOI VEDERE NEL MONDO». A SZI C I I LOI A N L EU C A 2 3 6 4 1 5 9 8 7 I M E N E O B I O G 1 5 8 3 9 7 6 2 4 R C N A M E N T T I R A T I O 7 9 4 2 6 8 5 1 3 C A M E R O N E C H I 9 8 2 1 3 4 7 5 6 R I S A M B AN R E O I S 3 6 7 8 5 2 4 9 1 V U A N I M O I V 5 4 1 9 7 6 2 3 8 O NE OD UDCE CA IOR E RA AL ERI I EL 8 7 9 6 2 3 1 4 5 6 1 3 5 4 9 8 7 2 N T I S OTTT KTEOR K T OAOMR NA N 4 2 5 7 8 1 3 6 9 A D O

Partecipazione online: inserire la

soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-

luzione, corredata da nome, cognome, indirizzo, email del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui

concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 agosto 2019 • N. 34

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Politica e Economia Ai Weiwei critico verso Xi L’artista cinese spiega in un’intervista perché la protesta di Hong Kong è diversa dalle altre

Argentina: il tonfo di Macri Il malato cronico delle economie sudamericane torna a spaventare i mercati dopo che nel voto delle primarie si starebbe palesando un ritorno del peronismo impersonificato dalla coppia Kirchner-Fernandez

la carica dei Millennials Secondo uno studio americano, questa generazione si appresta a diventare il più forte gruppo di consumatori

i rischi del fracking La più recente tecnica estrattiva di gas e petrolio ha reso gli Stati Uniti il più grande produttore di greggio, ma non è tutto oro quel che luccica pagina 34

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i rischi per la democrazia e l’Europa

la crisi italiana Nel Paese minacciato dalla

recessione e oberato dal debito si sono aperte prospettive inquietanti. Ma anche a Bruxelles si guarda alle vicende italiane con grande preoccupazione

Alfredo Venturi Dobbiamo fermare i nuovi barbari, dice Beppe Grillo. Ma questi nuovi barbari non sono forse gli uomini della Lega, con i quali il Movimento Cinque Stelle aveva stretto un accordo di governo proprio con la benedizione del comico prestato alla politica? Il fatto è che molte cose sono mutate dal varo, un anno fa, del «governo del cambiamento» nominalmente pilotato da Giuseppe Conte. Una delle due componenti di quella eterogenea maggioranza ha divorato il vantaggio con cui l’altra era stata premiata dagli elettori. La furibonda predicazione di Matteo Salvini, prima contro l’«invasione» dei migranti quindi contro le limitazioni che in nome della stabilità continentale l’Unione Europea impone ai suoi membri, ha fatto centro, i sondaggi ci parlano di oltre un terzo dell’opinione pubblica schierato con il ministro dell’Interno. Lui si sente incoraggiato dal consenso popolare, cerca bagni di folla da una spiaggia all’altra e nonostante le frequenti contestazioni arriva a chiedere pieni poteri. Pieni poteri? Per molti italiani è un’espressione da brivido. Ma certo a molti altri piace. Indispettito da un voto parlamentare con cui i Cinquestelle si sono espressi contro la Tav, la tratta ferroviaria ad alta velocità che la Lega auspica e i grillini detestano, Salvini ha improvvisamente annunciato che «non c’è più maggioranza» aprendo di fatto la crisi. E così nel Paese minacciato dalla recessione e oberato dal debito si sono aperte prospettive incerte. C’è voluta la reazione del presidente Conte, appoggiato dal capo dello Stato Sergio Mattarella, perché la vicenda venisse ricondotta nell’alveo suo proprio, che è quello parlamentare. Se si vogliono esercitare pieni poteri, che almeno discendano da procedure corrette: sia il parlamento a sfiduciare il governo e poi si dia la parola agli elettori. Il passaggio parlamentare non piace affatto

al «capitano» leghista: non tanto perché lo considera un fastidioso impiccio, ma soprattutto perché nelle due Camere, uscite dal voto del marzo di un anno fa, i rapporti di forza fra Lega e Cinquestelle sono esattamente rovesciati rispetto a quelli misurati dai sondaggi. Per la stessa ragione i grillini non hanno alcuna voglia di votare, visto che non li aspetta l’esito trionfale dell’anno scorso. Per fissare il calendario della crisi tutti si rifanno all’autorevolezza del presidente Mattarella ma in realtà c’è chi, come i leghisti ansiosi di passare all’incasso, lo tira per la giacca, e chi lo invita implicitamente a ponderare i passaggi, tenendo ben presenti le obbligazioni europee e prima ancora l’esigenza ineludibile di difendere il rispetto delle regole democratiche. Seguace di Donald Trump e amico di Viktor Orbán, il teorico dell’autoritarismo illiberale, Salvini dà l’impressione di non considerarle così essenziali. Anche se un passo compiuto verso Silvio Berlusconi sembra obbedire non solo alla volontà di riproporre la vecchia alleanza di centro-destra, ma anche al desiderio di esibire una verginità democratica. Per lui l’importante è trattare con Bruxelles da una posizione di forza, meglio ancora non trattare affatto ma imporre unilateralmente un aumento consistente del deficit di bilancio, e con le risorse così liberate finanziare il programma: riduzione dell’imposta sul reddito con una sola aliquota, no al paventato aumento dell’Iva. La crisi ha riportato sulla scena un personaggio politico da tempo eclissato, l’ex presidente Matteo Renzi. All’interno del Partito Democratico costui controlla una corrente di fedelissimi, spesso in rotta di collisione con il segretario Nicola Zingaretti. Questa corrente è abbastanza forte nei gruppi parlamentari, dunque Renzi non ha fretta di andare al voto, visto che le candidature saranno decise dalla nuova segreteria e dunque la sua pattuglia ne uscirà più o meno ridimensionata.

Matteo Salvini durante una tappa del suo tour estivo in giro per l’Italia, soprattutto nel Centro e nel Sud. (AFP)

Per questo chiede di procedere con calma, invocando la necessità di mettere in sicurezza i conti dello Stato, e lo Stato stesso, dall’assalto salviniano. Insomma accenti simili a quelli dei Cinquestelle, ed ecco profilarsi una spettacolare evoluzione. L’uomo che aveva detto «mai e poi mai con i grillini» lancia segnali di disponibilità, peraltro accolti con qualche imbarazzo, a un’intesa proprio con il Movimento uscito malconcio dal mortale abbraccio della Lega. L’antitesi è totale con Zingaretti, che insiste per il voto prima possibile e respinge ogni ipotesi di collaborazione con i Cinquestelle. Accomuna molti partiti il desiderio di contenere l’onda salviniana, considerata non soltanto avventurosamente anti-europea, ma anche portatrice di potenziali pericoli per la democrazia.

Salvini sperava di realizzare il disegno di Steve Bannon, che cerca di esportare in Europa e altrove il modello Trump, rovesciando con il voto i rapporti di forza nel parlamento di Strasburgo. Non è andata precisamente così, visto che gli alleati sono sì cresciuti, ma senza ripetere l’exploit della Lega. Dunque si ripromette di fare da solo. Sarà lui a scardinare gli equilibri di Bruxelles, per esempio imponendo un deficit al 3,5 per cento. I mercati faranno a pezzi l’economia italiana, già di salute così cagionevole? I mercati si adegueranno, risponde Salvini, stimolato dal fatto che queste sparate, non meno che quel suo sbaciucchiare crocifissi, fanno scattare l’applauso nei comizi. La vicenda italiana insegna che il populismo di destra, nazionalista e sovranista, è incompatibile con il

populismo di sinistra, pauperista e assistenzialista. Le due parti di quel governo bicefalo hanno fatto cortocircuito, confermando la fragilità di ogni assetto democratico nell’era degli intrecci globali e delle migrazioni di massa. L’odissea della Brexit e quella delle navi cariche di profughi bloccate davanti ai porti italiani dimostrano quanto quegli intrecci siano inestricabili. Lo scenario prossimo venturo propone lo spettacolo di un’Unione Europea alle prese con Boris Johnson e Salvini, insidiata dall’interno e assediata dall’esterno, con Mosca, Washington e Pechino pronte a disputarsene le spoglie. Se l’Europa democratica non si dà una mossa rovesciando le spinte centrifughe sembra proprio destinata, prima o poi, a svanire come un sogno del passato.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 agosto 2019 • N. 34

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Politica e Economia

Ai Weiwei: «Anche io sono un Hongkonghese»

intervista L’artista, una delle voci più autorevoli del dissenso cinese, risponde alle domande di Tom Grundy

e spiega perché sostiene il movimento di protesta dell’ex colonia britannica

ballo nella lotta di Hong Kong, che la libertà vale quanto la vita stessa e che loro sono pronti a sacrificare le loro vite per dimostrarlo. Nulla potrebbe essere più bello. Se i giovani di Hong Kong continueranno a protestare la Cina avrà un grosso problema. È una sfida che mette in allarme tutto il resto del mondo su che tipo di società sia la Cina. Se non smettono di protestare la voce democratica diventerà più forte e ci saranno maggiori possibilità per la libertà. Ma come possono fermarli? Hong Kong non è come una qualsiasi città cinese. Se fosse così, i militari sarebbero già intervenuti e avrebbero stroncato la protesta. Non ci sarebbero state una grande copertura dei media e l’attenzione della comunità internazionale. Queste cose succedono spesso in Cina. Hong Kong è diversa. Ha una storia recente di colonia britannica, che si riflette nella sua adesione allo stato di diritto, nella sua magistratura indipendente e nel relativamente ampio spettro di libertà politiche.

Presentiamo qui di seguito ampi stralci dell’intervista all’artista cinese Ai Weiwei che è stata pubblicata da Hong Kong Free Press, la prima rivista online del territorio finanziata con una sottoscrizione pubblica. L’intervista è stata realizzata dal suo fondatore e direttore Tom Grundy. Hong Kong Free Press è nata nel 2015, sull’onda delle manifestazioni pro-democrazia dell’anno precedente. Ai Weiwei, 61 anni, è forse l’artista cinese più famoso del mondo. Le sue opere di arte visiva e architettura sono largamente conosciute. Dal 2008, quando si impegnò a difendere i diritti delle popolazioni colpite dal terremoto del Sichuan, è visto come un nemico dal regime cinese. Nel 2011 è stato sequestrato illegalmente dalle autorità per quasi tre mesi. Nei quattro anni successivi è stato tenuto agli arresti domiciliari nella sua residenza alla periferia di Pechino. Dal 2015 vive in Germania ed è una delle voci più autorevoli del dissenso cinese. Cominciamo con la crisi dei diritti umani nello Xinjiang, dove migliaia di uighuri sono stati imprigionati. Come dovrebbe reagire il mondo?

La crisi dei diritti umani nello Xinjiang non è diversa da qualsiasi altra crisi del genere. Può verificarsi negli Usa, in Europa, Myanmar, Yemen o in qualsiasi altro luogo. La Cina afferma di aver un modello proprio, uno basato su «caratteristiche cinesi». Noi dobbiamo affermare che i diritti umani sono universali. Ogni tentativo di isolare un problema di diritti umani differenziandoli per regione, cultura o politica non è altro che un trucco. Rivendicare «caratteristiche cinesi» è semplicemente un cinico tentativo da parte di Pechino di colpire i diritti umani. Quello che sta succedendo nello Xinjiang ricorda quanto successe durante la Seconda Guerra Mondiale, sia agli ebrei in Europa che agli americani di origine giapponese negli Usa. i dissidenti cinesi dicono spesso che la Cina sotto Xi Jinping sta diventando più autoritaria. Cosa ne pensi?

La politica della Cina non è cambiata da quando il Partito Comunista Cinese ha instaurato la Repubblica Popolare nel 1949. A volte diventa più estrema, mentre altre volte c’è spazio per la tolleranza. Se la politica cinese è estrema o tollerante dipende dalle condizioni dello stesso Partito. Se è in una situazione di fragilità o di necessità la politica e i metodi di controllo diventano più estremi. La Cina è come un bambino che è cresciuto troppo senza aver acquisito conoscenza o razionalità. I giudizi della Cina sono spesso incomprensibili. La Cina è anche una nazione che ha mantenuto queste condizioni per un centinaio di anni. L’ unica possibilità che i competitori della Cina hanno per impedirle di diventare una minaccia è di riconoscerla per quello che è e di salvare il futuro della società civile. Il modo nel quale la Cina ha percorso la sua rapida crescita è chiaramente

Azione

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

Tu sei stato perseguitato per problemi di tasse, credi che nello stesso modo Pechino potrebbe usare la legge sull’estradizione per colpire il dissenso?

Nelle società autoritarie l’eliminazione degli ostacoli e degli avversari è un principio di sopravvivenza profondamente radicato. Non c’ è modo per dimenticare o perdonare chiunque abbia messo in discussione la legittimità (del potere). Non si può discutere con la tigre del colore della sua pelle.

L’artista cinese Ai Weiwei, 61 anni, vive in Germania dal 2015 ma gira il mondo per allestire mostre delle sue opere. (AFP)

in conflitto con i cosiddetti valori occidentali – i diritti umani che sono stati riconosciuti negli ultimi cento anni e che ci hanno portato al momento attuale, e dei quali anche la Cina ha largamente beneficiato. Però, la Cina non riconosce le norme stabilite e preferisce invece continuare ad usare metodi barbari di governo e controllo e sta diventando una minaccia per tutto il mondo. (…)

Venendo ad Hong Kong – hai fatto qui molte mostre (nel 2015 e 2018). Secondo te, in questo periodo com’è cambiata la scena artistica locale, in particolare in termini di libertà di espressione?

Ho svolto diverse attività artistiche ad Hong Kong. È una società con un’energia speciale, moderna. Allo stesso tempo, penso che l’arte a Hong Kong debba essere più aggressiva o avere un impatto globale più forte. Hong Kong ancora trae beneficio dal fatto di essere la città più internazionale dell’Asia. Ha una popolazione molto istruita. La città avrebbe bisogno di più arte, che rifletta la sua energia, le sue speranze e la sua immaginazione. in futuro, avrai preoccupazioni per la tua incolumità visitando Hong Kong?

Sì. Sotto «Un paese, due sistemi», se la gente di Hong Kong non combatte per difendere i suoi diritti, potrebbe Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

facilmente scivolare nella triste condizione nella quale si trovano (la vicina) Shenzhen e tutte le altre città cinesi. Le violazioni dei diritti umani sarebbero diffuse ed incontrollabili. Finirebbe per trovarsi con lo stesso sistema giudiziario corrotto che è sottoposto agli interessi del Partito. Una volta che il sistema giudiziario perde la sua indipendenza, tutto può succedere e nessuno è al sicuro. (…)

Hai definito le manifestazioni che si sono svolte ad Hong Kong contro la legge sull’estradizione «la più bella protesta del mondo». Perché lo pensi? E vedi all’orizzonte una repressione più severa da parte di Pechino?

La mia impressione di Hong Kong viene da fatti precedenti. Quando fui rilasciato dalla detenzione segreta nel 2011, mi resi conto che la gente di Hong Kong aveva intrapreso grosse iniziative per la mia liberazione. C’erano state molte manifestazioni e alcuni giovani artisti avevano diffuso in tutta la città dei poster col mio nome e la mia foto. C’era anche stata una proiezione della mia foto e del mio nome sull’edificio che ospita la locale guarnigione dell’Esercito di Liberazione Popolare. Furono azioni individuali. Non ho mai saputo chi erano e non hanno mai cercato di entrare in contatto con me. Queste azioni mi hanno commosso profondamente. Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31

Il solo fatto di sapere che i miei valori erano condivisi da altre persone mi ha ricordato che l’umanità esiste anche nelle condizioni più estreme. Questa è una delle ragioni per le quali sostengo i giovani che si stanno esprimendo in questi giorni. Qualcuno dice che gli hongkonghesi sono molto pratici. Vero, e i diritti umani sono molto pratici. Si tratta di una cosa alla quale tutti teniamo. Ogni notte, abbiamo lo stesso sogno: di vivere come esseri umani liberi piuttosto che vivere sotto una dittatura o la violenza dell’autoritarismo. Per questo penso che le proteste di Hong Kong siano le più belle. Sono così pacifiche, razionali e coloro che vi prendono parte sono così giovani. Sono molto diverse dalle manifestazioni in altri posti. Queste in genere sono orientate da idee politiche condivise. Ma la gente che marcia per le strade di Hong Kong è per la libertà. È un concetto astratto ma allo stesso tempo riguarda tutti e certamente riguarda i valori che io ritengo più importanti. In passato ho detto di essere un hongkonghese. Oggi ripeto di essere un hongkonghese. Li ammiro e mi riempie di tristezza il fatto che quattro giovani abbiano già perso la vita (Ai Weiwei si riferisce ai casi dei giovani che si sono suicidati o sono morti in incidenti relativi alla loro attività di protesta. ndr). Loro hanno reso chiaro cosa è in Tiratura 102’022 copie inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch

le proteste di Hong Kong contro l’estradizione hanno dato ai giovani artisti uno spazio per creare arte (…). Perché pensi che la gente sia portata a creare arte nei periodi di crisi?

La libertà di espressione è l’arma più forte per combattere l’autoritarismo. I sostenitori dei regimi autoritari semplicemente non hanno immaginazione e, senza questa, non hanno futuro. Spesso, vediamo anche manifestanti che non hanno immaginazione ma quelli di Hong Kong hanno dimostrato capacità di adattamento. Stanno imparando nel corso della battaglia. Alcune cose si imparano facendole, non c’ è altro modo. Scorrerà del sangue, come abbiamo visto la scorsa settimana con gli attacchi organizzati dei teppisti in bianco. Il nemico è feroce e userà tutti i mezzi che ritiene necessari per distruggere il movimento. Quindi i manifestanti devono avere non solo chiarezza mentale ma anche una strategia definita. Devono dichiarare apertamente le loro idee e mobilitare la gente ma anche avere delle tattiche efficaci per smascherare le debolezze dei loro avversari. Questa è l’arte del dissenso e un’intera generazione di giovani imparerà da questi avvenimenti, perché hanno di fronte un avversario formidabile. Introduzione e traduzione dell’intervista dall’inglese di Beniamino Natale Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–


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Politica e Economia Il presidente liberista Mauricio Macri ha subito un tonfo pesante nelle primarie test dello scorso fine settimana. (Keystone)

Ritorno al peronismo

Cono Sur Il risultato delle primarie per le presidenziali argentine fa presagire che Macri

non sarà rieletto per un secondo mandato. Torneranno forse al potere gli inventori del populismo: Kirchner e Fernandez – Seconda parte Angela Nocioni Grande vittoria del peronismo alle primarie argentine. Stravince il candidato di Cristina Kirchner, tonfo del presidente Macri. Questa sorta di prova generale delle presidenziali – fissate per il prossimo ottobre, peculiarità del sistema argentino che porta alle urne poco prima dell’appuntamento delle presidenziali i diversi schieramenti per primarie contemporanee – offre tradizionalmente una idea precisa di quale sarà il risultato delle presidenziali incombenti. Il presidente in carica e candidato, Mauricio Macri, aveva detto dell’appuntamento di domenica: «Definirà i prossimi trent’anni». C’è da augurargli che abbia esagerato in enfasi perché è stato raso al suolo dall’opposizione. Alberto Fernandez, candidato della sua vice (e in realtà vero capo) l’ex presidente Cristina Kirchner, ha preso il 47%, a capo del Frente de Todos e Macri il 32% di Juntos por el Cambio. In Argentina la legge prevede la vittoria al primo turno se un candidato presidente supera il 45%. Fernandez, prendendo per buono il risultato delle primarie, vincerebbe quindi senza bisogno di passare per il ballottaggio di novembre. La sconfitta di Mauricio Macri ha mandato a picco la Borsa di Buenos Aires, che ha aperto in profondo rosso, in calo del 9%, per poi ampliare ulteriormente il tonfo. La sconfitta di Macri ha scatenato una corsa al dollaro, da sempre bene risparmio degli argentini di fronte alle crisi. Per effetto di questa forte domanda il peso ha subito una maxi svalutazione del 34% (da 49 a 65 pesos), simile a quella del 2015 poco dopo l’insediamento di Macri alla Casa Rosada. Anche la Borsa di Buenos Aires ha accentuato in giornata le perdite. L’indice Merval è andato a picco perdendo oltre il 37,9%, con forte penalizzazione per i settori finanziario ed energetico (–32,5% a metà giornata). Male anche i bond, che hanno ceduto il 17%, mentre il «rischio Paese è cresciuto di 45 punti a quota 904. Il risultato delle primarie per le

presidenziali fa temere che l’uomo favorevole al libero mercato non riuscirà ad aggiudicarsi un secondo mandato alla Casa Rosada, nelle elezioni del prossimo ottobre. Gli investitori vedono il duo Alberto Fernandez/Cristina Fernandez de Kirchner come più rischioso. Tutto ciò nonostante dopo tre anni e mezzo di governo Macri l’economia di Buenos Aires risulti in recessione con un’inflazione volata oltre il 50%. Dall’entourage di Fernandez, a Borsa chiusa, hanno fatto informalmente sapere che l’intenzione politica è di far fede a tutti gli impegni finanziari presi internazionalmente. Anche al debito di 57 miliardi di dollari da restituire a Washington non si sa ancora a quali condizioni. Venerdì scorso l’indice principale di Buenos Aires aveva chiuso in rialzo di quasi l’8% a quota 44’355,09 sperando nel successo di Macri alle primarie. Nel frattempo, il giorno dei risultati la Banca centrale argentina (Bcra) ha portato il tasso ufficiale di sconto (Tus) al 74 per cento. Si tratta di un aumento di oltre 10 punti nominali rispetto al precedente livello, fissato al 63,7 per cento. Lo schiaffo politico peggiore per Macri è la sconfitta della sua candidata, la molto popolare governatrice Maria Eugenia Vidal, fermata al 32% dall’ex ministro dell’Economia di Cristina Kirchner, Axel Kicillof, il pupillo della ex presidente, che sfiora il 50%. Nelle città, tranne che in Buenos Aires, il peronismo ha stravinto, come pure in provincia, tanto al sud come al nord. Al recinto di Cristina sono tornati correndo vari transfughi, tra cui, oltre allo stesso Fernandez, l’altro ex terzo incomodo del peronismo, ora aussunto da Cristina, Sergio Massa. Sarà lui, giovane e spregiudicato, a fare da jolly di Cristina nel governo. E sarà un due contro uno. Un Kirchner-Massa contro Fernandez. Perché l’abilità della mossa di Cristina, il presentarsi come vice lanciando la candidatura presidenziale di Alberto Fernandez, sta anche nel fatto che il vice, essendo eletto in tandem con il presidente, non può essere da questi rimosso. In

presenza di un conflitto politico tra presidente e vicepresidente, il dissidio non può essere risolto con un avvicendamento. Massa, al suo debutto da giovanissimo, per la comunicazione politica assunse un consulente peruviano-americano, Sergio Bendixen, lo stesso che si era occupato di far conquistare ad Obama il voto dei latini negli Stati Uniti. Tirato su a pane e peronismo dalla famiglia Galmarini, la famiglia peronistissima di sua moglie Malena, Sergio Massa ha scelto da subito la parte dell’outsider anche se fa politica da quando aveva 13 anni. Si presenta come un progressista, ma ha militato a lungo nella destra peronista cominciando dall’estrema. Ai tempi del collegio cattolico Agustiniano de San Andrés stava nella Unión de Centro Democrático (Ucede), il partito che fornì sosostanza ideologica alle privatizzazioni degli anni Novanta. È stato menemista durante la presidenza di Carlos Menem (’89-’99), dualdhista con quella di Eduardo Duhalde (2002-2003) e kirchnerista con Kirchner (2003-2007). Poi è diventato l’onnipresente portavoce di Cristina, imitato con grande successo nel programma tv «Il grande cognato» da Marcelo Tinelli che ne ha fatto un personaggio popolare. Ha mollato la allora presidente Cristina nel 2009, dopo la sconfitta kirchnerista alle legislative. Ora l’accusano di essere solo un clone giovane e forte di Cristina. Un clone che ha tradito. Lui si difende: «Opportunista io? No, pragmatico». Ha studiato giurisprudenza. L’arte dell’affabulazione politica l’ha imparata da Néstor Kirchner. L’ex presidente ne aveva fatto il suo prediletto, lo chiamava Massita. Amicizia finita male quando nel 2009 la lista capeggiata da Massa prese più voti di quella di Néstor nel collegio del Tigre. «Traidor» gli ha gridato Kirchner, li hanno separati prima che venissero alle mani. Lo slogan vincente di Massa è sempre stato: «Non mi spiegare i tuoi programmi: parlami di te». Lo prendono in giro dicendo che ha fondato la corrente peronista «aire y sol», mol-

te chiacchiere, zero sostanza e grande sorrisi. Sergio Massa ha la sua Evita. Malena Galmarini si chiama la moglie. Carina, bionda, con un’aria da madonnina indaffarata sempre attenta a stare due passi indietro a lui, a non fargli ombra. Perché in realtà è lei la peronista con pedigree in famiglia. È la figlia dell’italianissimo clan politico dei Galmarini. «El Pato» Galmarini, suo padre, era un pezzo da Novanta del governo di Carlos Menem (’89’99) nell’era del cambio uno a uno tra il peso argentino e il dollaro, l’epoca della «plata dulce», il denaro facile della Buenos Aires pizza e champagne. Prima che il tonfo della crisi del Natale 2001, gli assalti ai supermercati e il congelamento dei conti correnti svegliassero il Paese dall’illusione di essere una piccola Florida australe. «El Pato» Galmarini ha convinto Massa a mollare Cristina anni fa e poi a tornare alla sua corte politica. «No seas cagòn». Non fartela sotto. Ma è stata la suocera, la mamma di Malena, Marcela Durrieu, deputata peronista, a costruire il candidato presidente, passo dopo passo. Massa ragazzino era il suo pupillo. Lo ha istruito sulle mille correnti e le tante faide interne. Gli ha spiegato come sopravvivere alla Idra peronista. Infine, gli ha presentato sua figlia. Malena è perfetta come moglie militante. Vive con lui e i due bambini, Milagro e Tomas, nell’esclusivo country «Isla del sol» dove non si incontra un povero nemmeno a cercarlo, ma sta attenta a vestire semplicemente in un modo che definisce «basic non indigente». Da ragazzino Sergio Massa, era un tifoso del San Lorenzo, la squadra di calcio di papa Bergoglio. Dopo un breve passaggio nella curva della Chacarita juniors si è buttato a capofitto nel Club atletico Tigre, del municipio da cui è partita la sua scalata politica. Hernán Barrionuevo, settantatreenne militante socialista tendenza Diego Armando Maradona, accarezza la sua vecchia tessera del Boca Juniors e scuote la testa: «Ma come si fa a fidarsi di uno che a quarantasette anni ha cambiato squadra di calcio due volte?».

Fra i libri di Paolo A. Dossena Giorgio Galli e Luca Gallesi, L’anticapitalismo di destra, OAKS, luglio 2019 All’incrocio tra attualità e storia, il saggio parte da questa considerazione: il mondo del «capitalismo globalizzato» è «dominato da circa cinquecento multinazionali», incluse quelle dell’informatica. A questa situazione si oppone un fenomeno solo apparentemente nuovo, il cosiddetto populismo, «esploso nel secondo decennio del nostro XXI secolo». Questo soggetto politico ha in realtà un retroterra culturale identificato nella «sedimentazione di un pensiero politico» definito «anticapitalismo di destra», il cui punto di partenza è l’America del tardo XIX secolo. Questo anticapitalismo di destra «non è un corpo organico, come quello di sinistra», che è marxista, ma le sue formulazioni hanno comunque un peso storico fondamentale, come dimostrano le sue più recenti espressioni politiche (Trump, Putin e il governo italiano Lega-Cinque Stelle). In questo pensiero politico (specialmente nella sua variante statunitense) le idee di complotto (i poteri occulti e le manipolazioni della ricchezza), di personalità straordinarie e di decadenza sono centrali. Tutto questo è sintetizzato dall’americano Peter Chadon Brooks Adams, che pubblica nel 1895: «il sogno estatico, che qualche Monaco nel XII secolo scolpì nelle pietre del santuario…viene riprodotto per abbellire un magazzino…il progetto di un’abbazia… viene trasformato in una stazione ferroviaria». La critica è quindi soprattutto al capitalismo finanziario, definito usuraio, e che sorge a Londra nel 1810 con i Rothschild. L’analisi di Brooks Adams (nonostante la diversa impalcatura concettuale) presenta analogie straordinarie (a partire dallo studio del fenomeno dell’enclosure) con il pensiero di Karl Marx. Una prima espressione della sedimentazione di queste idee è il People’s Party Americano (1892-90) seguito dai comitati America First (1940-41 che osteggiano il Presidente Roosevelt per i suoi progetti di portare gli Usa nella «guerra capitalista»), due parole che saranno lo slogan di Donald Trump (2017). La visione ciclica del mondo (la legge della civiltà e della decadenza) accomuna Brooks Adams a Oswald Spengler (il conservatore rivoluzionario tedesco che rifiuta Hitler, ritenuto volgare e idiota) e a Silvio Gesell (teorico del «denaro libero»). Più chiari sono i rapporti di continuità con la rivista britannica «The New Age» e in particolare con uno dei suoi collaboratori, Ezra Pound, che, nel 1940, legge Brooks Adams, che descrive l’«usurocrazia», e che (come Spengler) ammira Mussolini, il nemico della «demoplutocrazia». La conclusione del libro è la seguente: «la sedimentazione culturale dell’anticapitalismo di destra è stata sufficiente a permettere il successo di formazioni politiche» diverse: la «democrazia sovrana» di Putin, quella di Trump «e la crescita dei partiti populisti in Europa». Il libro, diviso in due saggi, si configura quindi come un brillante manuale di storia monotematico (l’anticapitalismo di destra e le sue conseguenze storiche di lungo periodo) indispensabile per chi voglia capire un aspetto del presente politico alla luce del passato.


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Politica e Economia

Padroni e sindacati d’accordo per nuove pensioni

Secondo pilastro La proposta prevede una riduzione del tasso di conversione del capitale di vecchiaia dal 6,8 al 6%

Contrari l’USAM e chi critica il passaggio da un sistema puro di capitalizzazione a un sistema misto in stile AVS

Ignazio Bonoli Lo scorso mese di luglio, poco prima che il Consiglio federale proponesse la sua riforma dell’AVS (vedi «Azione» dell’8.7.19), le associazioni dei datori di lavoro e quelle dei sindacati hanno avanzato una loro proposta per risolvere il problema delle casse pensioni. La proposta prevede in particolare di ridurre il tasso di conversione del capitale di vecchiaia, per trasformarlo in rendita annuale, dall’attuale 6,8% al 6%. Questo significa che le rendite diminuiranno del 12%. È anche previsto un aumento delle rendite per i lavoratori a basso salario o a tempo parziale. Questo permetterebbe di mantenere il livello attuale delle rendite per una generazione transitoria di 15 anni e sarebbe finanziato in modo solidale. Si prevede un aumento dello 0,5% dei contributi sui salari, di cui metà a carico dei datori di lavoro. Il gettito annuale di 1,5 miliardi andrà su un conto centrale di sicurezza, che verrà in seguito suddiviso fra le varie casse. L’aumento delle rendite andrà diminuendo lungo l’arco di 15 anni. Una novità è prevista con la riduzione di 12’443 franchi del salario coordinato, cioè il salario sul quale si calcolano i contributi. Questo favorisce i bassi salari e i lavoratori a tempo parziale che sono soprattutto donne. Vi è anche una diminuzione dei

contributi degli anziani, attualmente del 15 e del 18%, generalizzato al 14%. Aumenta invece il contributo dei giovani al 9% per classi d’età fra i 25 e i 44 anni e al 14% dai 45 anni. I costi dell’operazione sono stimati in 2,7 miliardi di franchi. La diminuzione del tasso di conversione era attesa da parecchio tempo, poiché le casse pensioni non riescono più a realizzare un utile che consenta di coprire le spese dovute al tasso di conversione, almeno per la parte obbligatoria, cioè prevista dalla legge sul secondo pilastro. La maggior parte delle casse pensioni hanno già ridotto il tasso di conversione per la parte non obbligatoria, cioè che supera i minimi previsti dalla legge, in alcuni casi anche ben al di sotto dello stesso 6%. Il tasso di rendimento medio dei capitali, gestiti dalle casse pensioni, è oggi ben lungi dal 5% che sarebbe necessario per finanziare le rendite. L’accordo fra datori di lavoro e lavoratori su un tema così controverso ha destato qualche sorpresa. Da entrambe le parti si sono fatte essenzialmente due considerazioni: la misura è necessaria per evitare che le casse pensioni debbano finanziare con i contributi degli assicurati attivi le rendite dei pensionati. Fatto, questo, che cozza contro lo stesso principio del secondo pilastro, il quale prevede che ogni assicurato, di regola, si

Le generazioni più giovani pagherebbero contributi più alti. (Keystone)

costituisca un capitale che possa finanziare la sua rendita di pensionamento. Non sono quindi mancate le reazioni contrarie, prima fra tutte quella dell’Unione delle arti e mestieri, che si dichiara fin dall’inizio contraria alla proposta, in parte anche perché si è sentita tagliata fuori dall’accordo fra le due altre grandi associazioni. Ma soprattutto perché considera la proposta uno stravolgimento del sistema svizzero dei tre pilastri, con un miscuglio tra siste-

ma di distribuzione e sistema di capitalizzazione. Tra gli osservatori scientifici della materia, Monika Butler, professore di economia all’Università di Lucerna, premette che la riduzione del tasso di conversione sarebbe dovuta avvenire già una decina di anni fa. Tant’è vero che alcune casse la applicano già per la parte non obbligatoria. Per questo la riduzione proposta non avrebbe senso. Tuttavia, data la complessità del sistema

svizzero, è molto difficile trovare una soluzione univoca. Secondo la docente lucernese, la proposta in discussione penalizza una generazione e ne aiuta un’altra con le compensazioni, cioè coloro che si situano oggi nella fascia d’età tra i 55 e i 65 anni. Al momento dell’entrata in vigore della riforma, i nuovi pensionati vengono trattati con le nuove regole, ma tutti gli altri si vedono aumentare i contributi. E questo non è giusto soprattutto per le giovani generazioni. Un problema sorge anche con la compensazione del mancato reddito a causa della riduzione delle pensioni. Non è ancora chiaro chi e fino a quando ne può beneficiare, né nemmeno chi deve pagare. Qui ci sarà di nuovo un onere non indifferente per le giovani generazioni. Molti altri critici citano il fatto che anche questa riforma vuole mantenere ad ogni costo la situazione attuale. Ora, per le casse pensioni, è evidente da tempo che bisogna agire su tre piani: ridurre le prestazioni, aumentare i contributi e aumentare l’età di pensionamento. Attualmente, per far funzionare il sistema, si è calcolato che i capitali accumulati per la parte non obbligatoria servono a finanziare la parte obbligatoria in misura di 7 miliardi di franchi all’anno, il che non era certamente nelle intenzioni di chi ha creato il pilastro della previdenza professionale. Annuncio pubblicitario


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Politica e Economia

Millennials, i nuovi consumatori

Tendenze Attualmente sono la generazione più numerosa e le loro scelte economiche rivoluzioneranno

il modo di scegliere e acquistare prodotti e servizi

Marzio Minoli Ognuno di noi appartiene ad una generazione alla quale è stato dato un nome. Ci sono i baby boomers, nati tra il 1946 e il 1964, la Generazione X tra il 1965 e il 1980 e i Millennials ovvero coloro che sono nati tra il 1981 e il 1996. Di seguito, c’è la Generazione Z, i nati dal 1996 in poi e che hanno come segno distintivo il fatto di non conoscere un mondo senza internet. Ma torniamo ai Millennials. Secondo degli studi dell’ONU attualmente si tratta del gruppo generazionale più numeroso e hanno superato i baby boomers. L’elemento interessante per l’economia è che sono arrivati ad un’età dove dispongono di risorse finanziarie e soprattutto scelgono autonomamente cosa acquistare. Oggi i 2 miliardi di Millennials sparsi per tutto il mondo formano famiglie e spendono non solo per uscire a divertirsi, ma per consolidare la loro vita, tanto che le banche ritengono questa generazione sia, in prospettiva, la più importante dal punto di vista dell’attività economica. Ma cosa acquistano? Un tratto caratteristico di questa generazione è una sorta di rifiuto verso i grandi nomi, le grandi marche che nei decenni scorsi sono state create e disegnate per attrarre i consumatori del tempo, ovvero coloro che oggi hanno 50-60 anni. I Millennials puntano di più a prodotti originali, preferibilmente locali, che siano sostenibili dal punto di vista ambientale. Prodotti dei quali possono fi-

darsi. Il centro di ricerche economiche, Boston Consulting Group, ha stimato che tra il 2011 e il 2016 i grossi nomi del commercio internazionale abbiano perso 22 miliardi di dollari a favore delle piccole marche. Secondo Laurent Freixe, responsabile di Nestlé per il continente americano, probabilmente si tratta di una reazione alla globalizzazione. E per Nestlé è quindi importante offrire prodotti «bio», naturali, senza OGM, proprio per andare incontro a questa nuova tendenza. Tutto questo non è solo una presa di coscienza sul fatto che a volte bisogna puntare sulla qualità delle piccole cose artigianali, piuttosto che puntare sui prodotti industriali. I Millennials preferiscono spendere i soldi piuttosto che risparmiarli, ma li spendono in modo saggio anche perché rispetto alle generazioni precedenti, quella dei baby boomers e la Generazione X, attualmente hanno meno disponibilità economiche e le aspettative per il futuro sono meno rosee, nel senso che per loro la strada verso l’affermazione sociale ed economica è più irta di ostacoli che non quella che percorrevano i loro genitori. Una generazione che vive nell’incertezza e quindi ha, probabilmente, riscoperto il valore dei soldi. Basti pensare al fatto che rispetto a 30-40 anni fa, oggi per un trentenne è molto più difficile poter acquistare una casa di quanto non lo fosse per i suoi genitori. Un esempio che trova una sua parziale spiegazione anche nel fatto che molti sono entrati nel mondo del lavoro

Secondo uno studio del World Data Lab il potere d’acquisto dei Millennials supererà presto quello dei cinquantenni. (Keystone)

a metà degli anni 2000 per poi ritrovarsi nel bel mezzo della più grande crisi finanziaria dal Dopoguerra, nel 2008. Una crisi che è poi diventata economica, facendo perdere il posto di lavoro a parecchi Millennials. Ma la situazione potrebbe presto cambiare, e le aziende ne sono consapevoli. Secondo uno studio del World Data Lab, le difficoltà odierne scompariranno nei prossimi decenni e il potere d’acquisto dei Millennials supererà quello dei 50enni già entro il 2020, per poi continuare ad aumentare, diventando la generazione più interessante dal punto di vista economico. E un primo segnale che il momento sta cambiando arriva dal settore del

lusso. Helen Brand, analista di UBS, ha notato come accanto ai Millennials asiatici, che rappresentano il maggior gruppo, si sono affiancati diversi europei che sono disposti a spendere per i marchi più prestigiosi. «Fino a qualche tempo fa pensavamo che i Millennials fossero giovani che non potevano permettersi il lusso». Evidentemente si sbagliavano. Già a partire dal 2030 il loro poter d’acquisto sarà il più alto in assoluto, con circa 18mila miliardi di dollari da spendere, superando di gran lunga i baby boomers, oramai pensionati, e la Generazione X. A dare una mano, se così vogliamo dire, ai Millennials a spendere i loro soldi naturalmente ci sono i social

media. Un mezzo efficace e poco costoso per raggiungere i milioni di potenziali clienti, ecco perché anche i piccoli marchi possono avere successo. Il «Financial Times» propone l’esempio del settore cosmetica, dove il giro d’affari è arrivato a 250 miliardi di dollari proprio grazie alle spinte dei social come Instagram, particolarmente apprezzato dai Millennials. Senza dimenticare che arriveranno anche le eredità, che in molti casi significa patrimonio cospicui. Una nuova generazione pronta a prendere le redini del mondo, perlomeno dal punto di vista dei consumi. Una generazione che, nonostante viva inserita totalmente nella tecnologia, apprezza e di conseguenza spende in esperienze che presuppongono momenti di aggregazione, come ad esempio concerti o festival. Ma non solo: le parole d’ordine «comunità ed esperienza»: vivere e condividere gli spazi, dal divertimento al lavoro, e le società che offrono questi servizi stanno vivendo un momento d’oro. Non sono poche infatti le società che mettono a disposizione spazi per permettere di ritrovarsi, scambiarsi idee e condividere esperienze, questo sia nel mondo del lavoro che in quello del tempo libero. I Millennials cercheranno prodotti di qualità e originali. Vogliono e vorranno sempre più «il bello», «l’originale», vorranno «il sostenibile». Saranno dei consumatori consapevoli e molto informati. Le aziende che non sapranno intercettare queste esigenze, avranno grossi problemi. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia

i lati oscuri del fracking

Energia La fratturazione idraulica ha permesso agli Stati Uniti di diventare il più grande produttore di petrolio

al mondo. Un business che però nasconde rischi sia ambientali che finanziari Stefano Castelanelli Contea di Midland, Texas. I campi sterminati che si estendono all’orizzonte sono punteggiati da innumerevoli pozzi di petrolio con le loro caratteristiche fiamme rosse ardenti. La contea si trova nel cuore del bacino permiano, un area di praterie cespugliose che si estende per 200’000 chilometri quadrati tra il West Texas e il New Mexico e che è diventato in aprile con i suoi 4,1 milioni di barili al giorno il giacimento petrolifero più produttivo al mondo. Il bacino era considerato un giacimento esaurito ma è tornato fortemente alla ribalta negli ultimi anni grazie all’estrazione di petrolio di scisto (shale oil) tramite la fratturazione idraulica o fracking. Questa tecnica permette di estrarre petrolio e gas naturale da giacimenti non convenzionali in cui le risorse naturali sono intrappolate in strati di roccia poco permeabile. In un decennio la quota di petrolio di scisto sul totale della produzione di petrolio americana è passata dal 6% nel 2008 al 50% nel 2018. La shale revolution ha permesso agli Stati Uniti di diventare il più grande produttore di petrolio al mondo e uno dei maggiori esportatori al pari di Russia e Arabia Saudita. Questo ha modificato le forze in gioco nello scacchiere geopolitico mondiale dando agli Stati Uniti più poteri e margini di manovra. L’amministrazione Trump ha subito sfruttato la nuova situazione per imporre sanzioni all’Iran e al Venezuela senza doversi preoccupare troppo delle conseguenze sul prezzo del petrolio. Ad oggi, gli Stati Uniti e il Canada sono gli unici paesi che utilizzano il fracking su larga scala per lo sfruttamento di petrolio e gas di scisto. Altri paesi con importanti giacimenti come la Cina, il Messico e l’Argentina hanno intensificato le esplorazioni e in alcuni siti hanno iniziato con l’estrazione. Altri paesi invece sono contrari ad impiegare questa tecnologia a causa dei rischi ambientali che comporta e hanno introdotto moratorie che ne vietano l’uso. Ma quali sono i rischi legati a questa controversa tecnologia? E che posizione mantiene la Svizzera al riguardo?

Il problema del fracking non è tanto ambientale, quanto finanziario: la tecnica richiede grandi capitali da investire Il termine fratturazione idraulica o fracking si riferisce ad una tecnologia che permette di avere accesso a risorse di gas e petrolio non convenzionali presenti in strati di roccia poco permeabile. Per estrarre la risorsa si deve scavare un buco verticalmente nel terreno per 1-4 km e poi si perfora orizzontalmente per 2-3 km. Dallo stesso buco verticale vengono fatte fino a 30 perforazioni orizzontali in tutte le direzioni. Dopo aver perforato viene pompato nel buco

Un sito di estrazione di shale gas tramite fratturazione idraulica in Pennsylvania: la nuova tecnica è diffusa in tutti gli Stati Uniti. (Keystone)

un mix di acqua, sabbia e prodotti chimici che genera una forte pressione e produce delle fratture nella roccia. Le fratture permettono al gas e al petrolio di fluire fino al pozzo e venire estratti. I pozzi dei giacimenti non convenzionali dopo una fase iniziale con una produzione elevata diventano improduttivi. Per continuare ad estrarre la risorsa sono necessari sempre nuovi pozzi uno vicino all’altro. Il fracking non gode di una buona reputazione ed è solitamente associato all’inquinamento delle riserve d’acqua dolce e alle scosse sismiche. Secondo un rapporto del 2017 della ditta di consulenza Econcept commissionato dal governo svizzero tuttavia questi due aspetti non sono critici se si rispettano standard di protezione dell’ambiente elevati. Le sostanze chimiche utilizzate hanno infatti una tossicità molto bassa e sono quindi poco pericolose per l’ambiente e per l’uomo. Per quanto riguarda le scosse sismiche invece gli strati di roccia dove viene impiegato il fracking sono in grado di attenuare l’energia rilasciata. Inoltre, la fratturazione viene fatta a piccoli intervalli che permettono di controllare e monitorare il rilascio di energia. Un altro pregiudizio comune sul fracking è legato al presunto elevato consumo d’acqua. La fratturazione idraulica richiede sì grandi quantità di acqua ma in confronto ad altre fonti di energia il consumo d’acqua del fracking è relativamente basso. Secondo uno studio del Belfar Center dell’Università di Harvard, altri vettori energetici consumano molta più acqua. Il carbone richiede fino a 4 volte più acqua del fracking, il petrolio convenzionale fino a 30 volte di più mentre il consumo d’acqua dei biocarburanti è fino a 500

volte superiore. Anche se il consumo d’acqua è relativamente basso in confronto ad altri vettori energetici, la carenza d’acqua nei pressi dei giacimenti di gas e petrolio non convenzionali può impedirne lo sfruttamento. Secondo uno studio del World Resources Institute (WRI) del 2015, le risorse di gas e petrolio di scisto si trovano soprattutto in luoghi con scarsità d’acqua, ciò che ne limita lo sfruttamento. Un aspetto critico legato al consumo d’acqua è il suo smaltimento. Una parte dei fluidi pompati sottoterra per il processo di fratturazione rimane nel sottosuolo. Il resto torna in superficie e deve essere smaltito. Il metodo di smaltimento più semplice ed economico, che viene utilizzato in Nord America su larga scala, è quello di pompare le acque di scarico sottoterra in strati profondi di roccia permeabile. Questo processo non è molto ecologico e può in alcuni casi causare sismi e inquinare le riserve d’acqua dolce. Il problema più grande del fracking però non è ambientale ma finanziario. Il fracking è un business che richiede grandi quantità di capitali perché le aziende devono investire costantemente nell’esplorazione a causa della bassa probabilità di trovare pozzi produttivi. Inoltre i pozzi diventano improduttivi dopo 2 o 3 anni ed è quindi necessario creare sempre nuovi pozzi e le attività di perforazione sono molto costose. Il boom del fracking in Nord America a partire dal 2008 è stato reso possibile dalla combinazione di prezzi del petrolio molto alti (oltre i 100 dollari al barile), tassi d’interesse molto bassi e grandi quantità di denaro disponibili dal quantitative easing della Federal Reserve. Questa situazione finanziaria

favorevole ha alimentato la prima shale revolution che è durata fino al 2014, quando una diminuzione della domanda di petrolio mondiale in combinazione con l’aumento della produzione dovuto al petrolio di scisto nordamericano hanno fatto precipitare il prezzo del petrolio fino a sotto i 50 dollari al barile. Molte compagnie nordamericane sono fallite e la produzione di petrolio di scisto ha subito un contraccolpo. Nel 2016 l’Arabia Saudita, in una vasta alleanza con altri paesi produttori di petrolio, in particolare la Russia, ha deciso di tagliare la produzione globale per spingere al rialzo i prezzi mondiali del petrolio. I prezzi del petrolio più elevati hanno ridato slancio alla produzione di petrolio di scisto nordamericana dando vita ad una seconda shale revolution. Il lungo periodo di prezzi bassi ha obbligato le compagnie nordamericane ha diventare più efficienti riducendo i costi. Nel bacino permiano dove le risorse di scisto sono relativamente facili da estrarre, nuove tecnologie per la perforazione e la fratturazione idraulica hanno contribuito a ridurre il prezzo di estrazione nei migliori pozzi da 70-80 dollari fino a 30 dollari al barile. Nonostante la migliore efficienza, il fracking rimane un’attività finanziariamente rischiosa perché è soggetta all’elevata volatilità dei prezzi del petrolio e non può reggere una politica di tassi d’interesse elevati. L’uso del fracking viene gestito in modo molto diverso in tutto il mondo, a seconda dei paesi. Gli Stati Uniti e il Canada estraggono gas e petrolio dai loro depositi non convenzionali su larga scala e lo continueranno a fare. Altri paesi con risorse rilevanti come Cina, Messico e Argentina, hanno creato le

condizioni quadro per lo sfruttamento delle risorse e in alcuni casi hanno iniziato con lo sfruttamento. Nell’UE alcuni paesi come l’Inghilterra, la Polonia e la Romania, hanno svolto primi test esplorativi. Altri paesi come la Francia e l’Olanda hanno invece vietato l’estrazione di gas e petrolio da giacimenti non convenzionali. In Svizzera si ipotizzano depositi di gas non convenzionali a profondità comprese tra 2000 e 5000 m. Il volume teorico di gas recuperabile potrebbe coprire il fabbisogno di gas naturale della Svizzera per oltre 30 anni. Test esplorativi sono necessari per dare un quadro delle riserve effettive presenti sul territorio svizzero. Il Consiglio federale nel marzo 2017 si è dichiarato di principio contrario a vietare la fratturazione idraulica per l’estrazione di gas e petrolio da giacimenti non convenzionali. Tuttavia non ne favorisce lo sviluppo visto che persegue una politica climatica ed energetica della sostituzione dei combustibili fossili con energie rinnovabili. Il diritto di sfruttamento del sottosuolo è però di competenza dei cantoni. Alcuni cantoni tra cui Berna, Zugo, Neuchâtel, e Vaud hanno bandito il fracking in generale o il fracking per l’estrazione di gas da giacimenti non convenzionali. Altri cantoni stanno lavorando a nuove leggi per regolare lo sfruttamento del sottosuolo. Anche in Svizzera quindi il fracking viene gestito in modo diverso da cantone a cantone. Globalmente il fracking ricopre un ruolo sempre più importante nella produzione di petrolio e gas naturale. Non è da escludere che in futuro anche in Svizzera potrebbe venire impiegato per la produzione di gas naturale da giacimenti non convenzionali. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia Rubriche

il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi le cause del rifiorire dell’economia americana

Keystone

Dieci anni fa, per effetto della crisi bancaria, l’economia degli Stati Uniti si trovava in una situazione di profonda crisi. Oggi, invece, è ritornata a fiorire e può continuare a proporsi come l’economia più forte a livello mondiale. In un interessante articolo, pubblicato di recente dalla NZZ, Christiane Hanna

Henkel, corrispondente del giornale da Nuova York, ha presentato quelle che per lei sono le cause all’origine di questa ripartenza non dimenticandosi di accennare, in chiusura di articolo, anche a qualche aspetto preoccupante. Si tratta di un’analisi che mi è sembrato interessante riproporre ai lettori. La prima causa è costituita dal fatto che le banche americane sono tornate a dominare il settore finanziario a livello mondiale grazie, da un lato al sostegno dello Stato e, dall’altro, al progredire della concentrazione nel settore. Nell’elenco delle cause all’origine della sorprendente ripresa dell’economia degli Stati Uniti, la Henkel elenca poi l’emergere di quella che lei chiama l’economia della piattaforma digitale. Si tratta dello sviluppo di grosse aziende che sfruttano una materia prima relativamente nuova: i dati. I casi più noti di queste piattaforme digitali sono rappresentati da ditte come Amazon, Alphabet (il conglomerato proprietario di Google), Facebook. L’attività che loro consente

di guadagnare miliardi è quella di far incontrare domanda e offerta per uno o più beni e servizi, servendosi per l’appunto di una piattaforma digitale che gestisce dati. Vale ancora la pena di ricordare che in questo nuovo settore dell’economia (che assomiglia molto al settore quaternario la cui nascita era stata anticipata, verso la metà degli anni Cinquanta dello scorso secolo, da economisti come l’australiano Colin Clark e il francese Fourastié) i soli concorrenti dei colossi americani sono le piattaforme digitali cinesi. Come terza causa di peso Henkel cita la scomparsa dei classici conglomerati industriali (per esempio GE, ossia la General Electric) e la nascita di nuovi tipo di conglomerato nel digitale. Amazon, Apple, Microsoft, Alphabet e Facebook utilizzano le loro eccedenze per finanziare lo sviluppo di nuove iniziative. Amazon, per esempio, non si limita più a vendere prodotti online ma ha aggiunto alle sue attività servizi per la memorizzazione di dati, una piattafor-

ma pubblicitaria, la produzione di film e comincia anche a penetrare nel settore della salute. Delle otto cause, elencate da Henkel nel suo articolo, vogliamo ancora citarne due. La quarta che la giornalista chiama «Silicon Valley 2.0» per sottolineare il cambiamento di marcia avvenuto, nel corso degli ultimi dieci anni, in questa mecca del digitale e del turbocapitalismo. Il successo di questa localizzazione è dovuto all’accoppiamento dell’industria del capitale a rischio – ormai internazionalizzata – con l’innovazione tecnologica prodotta in situ. La quinta causa è costituita dall’affermarsi – a livello mondiale – dello «Smartphone», che ha fatto partire una vera e propria rivoluzione in tutte le attività che servono masse di consumatori. Non si tratta solo dei piccoli servizi di informazione offerti dalle App di questo mini-computer ma anche del fatto che, grazie alla sua diffusione, hanno potuto svilupparsi, partendo praticamente dal niente, aziende come Uber e Airbnb che oggi

hanno una dimensione mondiale. Lo stesso ruolo di scompaginatore del mercato lo «Smartphone» lo ha avuto nel mercato dell’intrattenimento. Basti pensare alla diffusione raggiunta oggi dall’App Netflix e dai suoi concorrenti. Lo sviluppo dell’economia messo in atto da questi cambiamenti ha però generato anche nuovi problemi. Christiane Hanna Henkel li enumera negli ultimi tre punti del suo intervento. L’economia americana si è politicizzata. In sé non si tratta di un fatto negativo. Tuttavia l’esigenza di dover prendere posizioni nei conflitti politici del paese può creare più di una difficoltà a proprietari e dirigenti delle grandi aziende americane. Henkel osserva poi che quando il successo economico si basa su ristrutturazioni e misure di risparmio l’opinione pubblica reagisce in modo negativo contro l’economia. Infine l’autrice di questa analisi ricorda che nel corso del decennio è cambiato anche il rapporto degli USA con la Cina. Purtroppo non in meglio.

rantsev che ci stringe la mano si gira il mondo, dal Messico alle Filippine, con qualche tappa in Europa, nel Regno Unito della Brexit fantasiosa (dove vive Pomerantsev) e in Austria, dove si svolge uno degli incontri più significativi, quello con Martin Sellner. Sellner è considerato un ideologo di destra, è stato spesso citato come una voce cosiddetta populista, anche se i suoi argomenti e i suoi toni sono molto più in là rispetto alla retorica della destra tradizionale, in quell’estremo xenofobo e reazionario dal sapore (storicamente) acidissimo in cui ormai si colloca buona parte della politica ex conservatrice. Ironia vuole che Sellner abbia imparato metodi e astuzie da Srdja Popovic, l’attivista serbo che nel 2000 contribuì alla deposizione di Slobodan Milosevic e che ancora oggi si batte in molti paesi a difesa della democrazia (anche Popovic è intervistato nel libro): non c’è bisogno di pensarla allo stesso modo, è

il metodo qui che fa la differenza. E anche i regimi stanno cercando di copiare questo modello: Popovic racconta che un giorno una troupe di una tv russa legata al Cremlino ha cercato di entrare nel suo studio a Belgrado, una porticina che si trova tra una pasticceria e un parrucchiere. «Stanno cercando di copiare il mio messaggio, anche se non sono alleati cercano di replicare il mio modello – dice Popovic – E sai qual è la cosa divertente? Che non mi sono mai occupato di Russia!». Nel suo viaggio Pomerantsev ritorna spesso all’arresto di suo padre e alla lotta di suo padre: partendo da quella ferita che ha condizionato la sua famiglia e la sua vita, vuole provare a capire e spiegare come si è passati dalla battaglia contro la censura alla manipolazione odierna: «Il linguaggio che usiamo, le condivisioni, i like vengono tutti studiati e passati ai pubblicitari o agli spin doctor che si rivolgono a noi

con campagne estremamente personalizzate di cui spesso non sappiamo nemmeno l’esistenza. Più ci esprimiamo, meno potere abbiamo». È questa la grande differenza rispetto al XX secolo, ed è in questo modo che l’abbondanza di informazione diventa un’arma in mano ai leader autocratici, che costruiscono quella che Pomerantsev definisce «la normalità surrogata», un mondo costruito su misura, anzi: manipolato su misura. La dissidenza oggi sta nel ribellarsi a questa realtà surrogata, e sorprendentemente Pomerantsev dice che la disinformazione non si combatte con una nuova censura ma chiedendo più informazione: le fonti, gli account da cui ci arrivano determinati suggerimenti, sono questi gli agenti che formano il nostro mondo e che decidono com’è fatta la nostra realtà. Ed è da qui che dovrà partire il prossimo viaggio: sarà sulla nostra nuova dissidenza.

gli odi e i dissensi, tendiamo la mano fraterna ai nostri avversari che sputacchieremo, schiacceremo come bestie immonde. Viva la conciliazione dei partiti e morte ai liberali-radicali. Deo gratias»; replicava la controparte: «Giù le armi! E botte da orbi ai conservatori democratici. Viva la pacificazione degli animi e dei partiti e sputi sulla faccia ai porci avversari». Si dirà che tutto questo appartiene, per fortuna, al passato, al (rozzo) folclore locale: intemperanze destinate a rimanere negli archivi. Oggi le passioni si sono raffreddate. La fiamma del dibattito politico si è quasi spenta, solo i fedelissimi riescono ancora ad alimentarla aggrappandosi alla tradizione. I più smaliziati sostengono che sul lato pratico la collaborazione tra liberali e popolari è diventata prassi, e senza suscitare scandalo: due partiti collocati al centro intenti a rintuzzare il massimalismo delle ali estreme. Nella lontana Berna la necessità di costruire alleanze allo scopo di

tutelare gli interessi del cantone ha costantemente la meglio sulle residue rivalità di partito. Resta da capire in che misura la base accetterà questo «ragionar d’amore» sul terreno della «congiunzione tecnica», una manovra che a taluno ricorda le «convergenze parallele» di morotea memoria. A nostro parere, le divergenze non sono affatto scomparse, e riguardano sia la sfera economica, sia la sfera morale. Si pensi al ruolo dello Stato e del mercato, alle dispute intorno all’indirizzo laico e pubblico della scuola, alle contrapposizioni che ogni volta nascono sulle questioni sollevate dalla bioetica, dall’interruzione della gravidanza ai dilemmi legati al fine-vita, come il suicidio assistito. Non tutti intendono la laicità allo stesso modo; non tutti vedono di buon occhio l’intervento dell’amministrazione statale nel regolare i conflitti di lavoro, per esempio stabilendo un salario minimo.

C’è poi da considerare un altro dato: le divisioni non sono solo inter-partitiche (PPD-PLRT), ma anche intrapartitiche. Dentro i partiti medesimi convivono varie anime e correnti di pensiero. Nel PPD l’ala liberista deve fare i conti con il gruppo che si rifà all’insegnamento sociale della Chiesa e che ha nell’attuale Papa il suo punto di riferimento; il PLRT è storicamente e geneticamente doppio, liberale e radicale, seguaci di Hayek (liberismo) contro discepoli di Keynes (sostegno alla spesa pubblica). I primi guardano a destra, i secondi a sinistra. Il passaggio dalla tattica (congiunzione delle liste) alla strategia (alleanza) non sarà automatico né incontestato. I fautori dell’operazione mirano a rafforzare il centro e a togliere ossigeno agli antagonisti di destra e di sinistra. Ma molti temono che soprattutto nei ranghi liberali possa farsi largo una ribellione silenziosa, uno scontento che potrebbe anche sfociare nell’astensionismo.

Affari Esteri di Paola Peduzzi i dissidenti di oggi «Lei è in arresto», dissero a Igor due uomini in giacca e cravatta. Era il 1976, sulla spiaggia di Odessa, Unione Sovietica, Igor era appena uscito dall’acqua, si rivestì di fretta con il costume bagnato addosso, fu portato su un’auto e poi in una stanza per un interrogatorio, prima fradicio poi ghiacciato. «Lo colpì il fatto che questi due funzionari del Kgb avessero fatto tutto di proposito, maestri dell’umiliazione facile, del piccolo sopruso gratuito», scrive Peter Pomerantsev nel suo ultimo libro, This is not propaganda: Igor era suo padre, era un giornalista televisivo, uno scrittore e un poeta, quel giorno fu arrestato perché faceva conoscere la «pericolosa letteratura anti sovietica», Solgenitsin o Nabokov. Minacciarono di mandarlo sette anni in prigione e cinque in esilio, e lui decise infine di lasciare l’Ucraina, di lasciare l’Unione Sovietica, si trasferì assieme alla famiglia – Peter aveva un anno – prima a Berlino ovest

e poi a Londra. Quarant’anni dopo, scrive oggi il figlio, «il mondo che mio padre sognava, quello in cui la censura sarebbe finalmente finita, sembra più vicino: viviamo in una stagione che gli accademici definiscono “dell’abbondanza informativa”». Ma tutte queste notizie, questo flusso ininterrotto di immagini e analisi e commenti, oggi non sembrano aver portato maggiore libertà, «contavamo su un dibattito più informato, invece sembriamo sempre meno capaci di prendere decisioni». This is not propaganda è l’ultimo libro di Pomerantsev, che nel 2015 ha pubblicato Nothing is true and everything is possible (tradotto in italiano da Minimumfax), un racconto della Russia di oggi, dove la verità è diventata «una questione soggettiva» e la manipolazione dell’informazione la normalità. Nel suo ultimo saggio, l’autore continua il suo viaggio, c’è ancora la Russia e c’è ancora l’Ucraina, ma con Pome-

Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti Ci eravamo tanto odiati Liberali e popolari democratici congiungeranno le liste per le Federali d’autunno. Così hanno deciso le rispettive direzioni, dopo «ampio e approfondito dibattito». Sorpresa, stupore? Sì e no. No, se l’operazione è da intendersi come risposta a quanto è già avvenuto sul fronte destro (Lega e Udc) e sul fronte sinistro (socialisti, verdi, comunisti) dello schieramento politico; sì, se la manovra prelude ad un abbraccio tra le due formazioni storiche in vista delle Cantonali del 2023. Chi non conosce, o ha dimenticato, la storia di questi due partiti assumerà la suddetta decisione come una mossa tattica, una delle tante che i gruppi dirigenti escogitano per galvanizzare gli iscritti. Soprattutto le giovani generazioni fanno sempre più fatica a «scovare le differenze» tra gli uni e gli altri, come nei giochi della Settimana enigmistica. Non così la vecchia guardia formatasi nel secondo dopoguerra, nel clima infuocato di

epiche battaglie e di contrasti anche personali, condotte sulle pagine del «Popolo e Libertà» e del «Dovere», i due quotidiani-bandiera. Erano, questi battibecchi, la coda di un furore polemico che aveva preso avvio intorno alla metà dell’Ottocento e che fino all’introduzione del sistema proporzionale, allo scorcio del secolo, aveva intossicato la vita politica del cantone. Numerosi gli episodi di violenza, dalle risse nei ritrovi pubblici alle fucilate tra le fazioni in lotta; grande scalpore suscitò nell’opinione pubblica nazionale la sparatoria di Stabio (1876), con morti e feriti. Dopo il 1890, l’anno dell’uccisione del Consigliere di Stato conservatore Luigi Rossi, lo scontro si fece meno aspro, ma non sul piano verbale. Durante il governo moderato del liberale Rinaldo Simen, tra Otto e Novecento, l’auspicata «pacificazione» tra i due partiti maggiori divenne motivo di scherno e di perfide ripicche. Scrivevano i conservatori: «Deponiamo


Foto: Fabian Biasio

Pubbliredazionale

Sicurezza dei mezzi di sussistenza per le famiglie contadine La povertà è particolarmente elevata nella regione ugandese di Teso, dove l’84 per cento della popolazione è povera. È una conseguenza della guerra civile. La situazione è ulteriormente aggravata dal cambiamento climatico. Sono stati scelti 1600 contadini per partecipare a un progetto svolto da Caritas Svizzera insieme all’organizzazione locale «Teso Initiative for Peace». Imparano che la doppia aratura prepara meglio il terreno, che la semina a linee aumenta il raccolto e che la coltivazione a colture miste è più rispettosa del terreno. I contadini ricevono sementi adattate al clima che generano raccolti più sostanziosi.

Lilian e Augustine stanno meglio da quando allevano polli.

Lilian (24 anni): «I polli ci hanno migliorato la vita» L’Uganda è uno dei Paesi più poveri al mondo. Solo pochi anni fa, Lilian Ariokot (24 anni) e suo marito Augustine Ejiet (30 anni) soffrivano la fame. Ora si sono costruiti un’esistenza migliore lavorando duro. Grazie all’allevamento di polli e alla vendita, i loro due figli possono andare a scuola. Lilian non è nata facendo la contadina. Suo padre era insegnante e voleva offrire anche alla figlia una buona formazione. Ma la guerra civile che ha flagellato l’Uganda ha distrutto molte speranze e ha fatto scivolare

nella povertà anche la famiglia di Lilian. All’età di 17 anni ha conosciuto Augustine. I due si sono sposati e con coraggio si sono presi la fattoria abbandonata dopo l’uccisione del padre di Augustine per mano dei ribelli.

«All’inizio non sapevamo quasi niente di agricoltura. Lavoravamo tanto, ma i raccolti erano scarsi. Molte volte andavamo a letto senza aver mangiato» racconta Augustine. Non è quindi scontato che la coppia oggi possa mandare a scuola i due figli Matthew (7 anni) e Gerald (4 anni). È possibile grazie a un progetto agricolo di Caritas Svizzera al quale i genitori partecipano da un anno e mezzo. «Abbiamo imparato molte cose su come migliorare e diversificare la coltivazione dei campi. Ma la cosa più importante sono i polli» dice Lilian. Augustine ha seguito una formazione ed è diventato incaricato per le vaccinazioni. «Prima i polli morivano a causa delle malattie. Da quando li vacciniamo restano sani. Ora il loro numero aumenta e possiamo vendere i polli al mercato a buon prezzo» racconta Augustine. «Adesso stiamo meglio. Abbiamo da mangiare a sufficienza, possiamo pagare le rette scolastiche e persino mettere da parte un po’ di soldi» aggiunge Lilian soddisfatta. Per saperne di più su Lilian: farelacosagiusta.caritas.ch

Raccolti più sostanziosi con nuove tecniche di coltivazione: Augustine e Lilian seminano arachidi.

Caritas sostiene inoltre le famiglie contadine a creare allevamenti di pollame, promuovendo anche il pensiero imprenditoriale e la costituzione di cooperative per una distribuzione comune.

Le famiglie di contadini imparano a contrastare l’insorgere di malattie con le vaccinazioni.

Conto donazioni: 60-7000-4 Per le donazioni online: caritas.ch/uganda-i


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Cultura e Spettacoli il padre dell’operetta Sono trascorsi 200 anni dalla nascita dell’irriverente e ironico compositore Jacques Offenbach

i fantasmi di ognuno A colloquio con Nadia Terranova, finalista del Premio Strega con Addio fantasmi

un Festival di buon livello Opere interessanti, per la 72.esima edizione, la prima di Lili Hinstin. In evidenza il regista portoghese Pedro Costa pagina 41

lo staff del Pardo 700 collaboratori ausiliari fanno funzionare, per la decina di giorni, la macchina del Festival di Locarno pagina 43

pagina 38

pagina 40

uno splendido cammino Arte Il Monte Sacro sopra Varese è una viva

testimonianza di fede situata in una cornice architettonico-artistica di grande pregio

Alessia Brughera Narra la leggenda che il monte sopra Varese fosse luogo di culto fin dal IV secolo, quando Sant’Ambrogio sconfisse proprio su quest’altura gli ultimi seguaci dell’eresia ariana e fece poi costruire una piccola cappella dedicata alla Vergine Maria in ringraziamento per la vittoria. Se tale vicenda appartiene alla tradizione, indubbia fu l’esistenza in questo sito di una chiesa di età carolingia-ottomana sostituita, nell’XI secolo, da un santuario romanico (di cui ancora oggi si conserva la cripta), divenuto subito la meta prediletta di molti fedeli provenienti anche dal Ticino. Per accogliere le schiere di pellegrini che vi affluivano numerosi, nel 1472 l’edificio fu ampliato per volere del Duca di Milano Galeazzo Maria Sforza e attorno a esso incominciò a raccogliersi compatto un caratteristico borgo con le case dei sacerdoti e i ricoveri per i viandanti. Fu poi nei primi anni del Seicento che prese forma il progetto di una Via Sacra con la funzione di facilitare l’ascesa al santuario, fino a quel momento raggiungibile solo attraverso sentieri impervi, e con il ben più ambizioso scopo, in piena Controriforma, di dar vita a un luogo simbolo dei valori della cristianità cattolica: il complesso devozionale varesino si sarebbe affiancato agli altri Sacri Monti che nello stesso periodo stavano sorgendo nell’Italia settentrionale per creare una vera e propria barriera contro il dilagare del protestantesimo. Grazie alla sua collocazione in uno scenario paesaggistico suggestivo e alla sua secolare vocazione religiosa, il monte sopra Varese divenne così il contesto ideale di un percorso in cui fede, storia, arte e natura si intrecciavano indissolubilmente tra loro. Ecco allora che la costruzione della Via Sacra prese avvio nel 1604 per concludersi, grazie anche alle munifiche donazioni di nobili famiglie varesine e milanesi, con una rapidità che ebbe del miracoloso: se infatti fu la data del 1698 a segnare la chiusura dei lavori nella forma attuale, già nel 1623 quasi tutte le cappelle che dovevano scandire la strada acciottolata furono completate. La Fabbrica del Sacro Monte di Varese, che vide l’interessamento diretto del

cardinale Federico Borromeo nella stesura del programma iconografico a cui doveva ispirarsi, apparve agli occhi dei fedeli come uno splendido cammino che si snodava per più di due chilometri lungo le pendici dell’altura, con quattordici cappelle dedicate ai Misteri del Rosario (la quindicesima era all’interno del santuario) a scandirne il ritmo secondo una precisa teoria architettonica e spaziale. Da questa Via Sacra, inserita nel 2003 dall’Unesco nei patrimoni mondiali dell’umanità, si stima siano passati in circa trecento anni sessanta milioni di fedeli, testimonianza di come il luogo abbia mantenuto e corroborato nel tempo quell’aura di misticismo che da sempre gli appartiene. Chi si appresta oggi a percorrere la salita al Sacro Monte (la sommità è comunque raggiungibile anche attraverso la storica funicolare in stile Liberty realizzata nel 1909 e ripristinata pochi anni fa), può ammirare nel silenzio della natura le cappelle progettate dall’architetto varesino Giuseppe Bernascone, valente artista «dall’acuta intelligenza inventiva» molto apprezzato dai committenti dell’epoca per l’attenzione che sapeva porre sull’effetto scenografico scaturito dal rapporto tra edificio e paesaggio. Un’attitudine che ben si coglie lungo la Via Sacra nell’armonioso susseguirsi dei tempietti e degli archi trionfali e nel loro posizionamento in punti da cui è possibile godere di splendide vedute verso la pianura e il Lago di Varese. Abili muratori, carpentieri e stuccatori, reclutati anche in Ticino, hanno affiancato nell’esecuzione delle cappelle i più noti scultori e pittori seicenteschi attivi in area lombarda. Basti pensare a Francesco Silva, di Morbio Inferiore, a cui si devono molti dei gruppi scultorei in terracotta policroma che si trovano all’interno delle architetture, o al Morazzone, a Carlo Francesco Nuvolone, ad Antonio Busca e ai fratelli Lampugnani, solo per citarne alcuni, autori degli affreschi che ambientano e raccontano le scene dei Misteri del Rosario, attestazione di grande rilievo della cultura artistica sviluppatasi in quegli anni nel Ducato di Milano. Al termine della salita, da cui si gode un panorama che nelle giornate più terse riesce a regalare anche la vi-

Veduta delle cappelle del Sacro Monte di Varese. (Keystone)

sta della «Madunina» del Duomo meneghino, si erge il Santuario di Santa Maria, decorato al suo interno con affreschi incorniciati da stucchi barocchi e custode della trecentesca statua lignea della Madonna con il Bambino, opera oggetto di grande venerazione. Camminando per le stradine dell’antico piccolo borgo poi, che pare un presepe, si può raggiungere la Piazzetta Monastero (su cui si affaccia, appunto, il Monastero delle Romite Ambrosiane) e visitare il Museo Baroffio, nei decenni passati destinazione molto in voga tra i ticinesi per il leggendario «drago imbalsamato», qui custodito, che si narra sia stato ucciso nel Settecento sul Monte Lema e poi portato al santuario come ex voto alla Vergine. Istituzione tra le più antiche di Varese, il Museo presenta una ricca collezione

di manufatti legati alla storia del posto, a cui si affiancano una raccolta di lavori dei maestri dell’arte Europea del Novecento e una sezione con opere di artisti del XX secolo che sono stati attivi anche al Sacro Monte, come Renato Guttuso, intervenuto nel 1983 sulla terza cappella del viale del Rosario con la sua coloratissima Fuga in Egitto, o Floriano Bodini, artefice della statua bronzea di Paolo VI, collocata sul piazzale della chiesa, con la celebre pecora a cinque zampe che desta sempre lo stupore dei pellegrini. Un’altra meta da non perdere è la Casa Museo Lodovico Pogliaghi, riaperta da pochi anni al pubblico, dimora suggestiva voluta dallo stimato pittore, scultore, architetto e scenografo milanese che rimase incantato dall’amenità del Sacro Monte e qui decise di costru-

ire, a partire dal 1885, la sua villa dal gusto eclettico concependola non solo come abitazione ma anche come galleria per esporre i suoi lavori (ancora oggi si può ammirare il gesso originale della porta centrale del Duomo di Milano in dimensioni reali) e gli innumerevoli oggetti da lui collezionati, da reperti egizi a pitture rinascimentali, da tessuti asiatici a mirabilia provenienti da tutto il mondo. Un’insolita raccolta che rende ancor più affascinante il Sacro Monte varesino, luogo in cui la spiritualità si fonde con la bellezza dell’opera dell’uomo e del creato. Per informazioni

www.sacromontedivarese.it www.museobaroffio.it www.casamuseopogliaghi.it


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Cultura e Spettacoli

offenbach e l’irriverenza

Anniversari Duecento anni or sono nasceva Jacques Offenbach, considerato

il padre dell’operetta francese

Giovanni Gavazzeni Jacques Offenbach (1819-80) è sinonimo di operetta francese. Il padre di questo genere speciale nacque duecento anni fa a Colonia, da dove si trasferì a Parigi all’età di 14 anni. Senza un soldo in tasca, per sbarcare il lunario, si fece largo come violoncellista virtuoso, sfruttando con grande abilità la stampa e i saloni alla moda. La sua immagine, spesso caricaturata, divenne popolare come la sua musica: magro, allampanato e con un naso aquilino su cui poggiavano occhialini tondi. Sembrava, secondo il suo celebre amico, il fotografo Nadar, «un galletto incrociato a una cavalletta e a dei gamberetti grigi». Offenbach parlava con accento «tudesco» e ironia graffiante. Il successo travolgente delle sue opere buffe, a partire da Orphée aux enfers (1858), lo resero ricco, ammirato (Rossini lo definì il Mozart degli Champs-Elysées) e invidiato (non gli fu risparmiata la pesante «patente» di jettatore). In compagnia della coppia altrettanto geniale dei suoi librettisti, Henri Meilhac e Ludovic Halévy, Offenbach fu il satireggiatore della Francia del Secondo Impero, finito ignominiosamente nel 1870 con il disastro di Sedan e la resa senza condizioni ai prussiani. Ironia della sorte il nemico numero uno della Francia, il Cancelliere di ferro, Otto von Bismarck, fu uno dei molti potenti e teste coronate del tempo, che era venuto a Parigi a vedere quella satira scanzonata dei militari che è la Grande-Duchesse de Gérolstein (1867). La guerra, quella vera, fu condotta dai vertici militari francesi con l’inettitudine e la vanagloria del generale di Offenbach, Boum. I riferimenti alla politica del tempo erano uno degli ingredienti fondamentali di questo genere di intrattenimento. Perfino in un’opera buffa dalla trama esile come la Perichole (1868), non mancavano beffe e allusioni agli imperiali inquilini delle Tuileries. Ambientata in Perù, racconta l’amore di una cantante di strada, la Perichole, per lo stupido collega Piquillo, relazione invano con-

trastata dal Vice-Re, che gironzola in incognito a caccia di donne, e si innamora della sciantosa. Napoleone III, considerato dall’aristocrazia europea un «bastardo», finì per sposare l’avventuriera spagnola, Eugenia de Montijo, una Perichole (una «pericolosa») la cui bellezza aveva paragoni solo con l’imperatrice Sissi. La fama di Offenbach dalla Francia raggiunse subito le grandi capitali, Vienna e Londra, e poi il Nuovo Mondo, dove le sue operette facevano furore. Nel 1876 gli americani fecero ponti d’oro perché il compositore lasciasse l’amata e vasta famiglia a Parigi e si imbarcasse per New York. Il diario di quel viaggio «straordinario» (ripubblicato nel 2018 da Le Castor Astral, Voyage en Amérique) è un pot-pourri d’ironia: invadenti cacciatori d’autografi, annunci pubblicitari ogni dove, mania associativa, dollaro sovrano, chiusura domenicale di teatri e ristoranti che costringe il lavoratore a mandare la moglie in chiesa e ad attaccarsi alla bottiglia. Offenbach omaggia spesso la libertà di costumi: gli Stati Uniti, presieduti dal Generale Ulysses Grant, vincitore degli Stati schiavisti, hanno emancipato i Neri. «La bella e pomposa riforma!» ricorda il compositore. «I buoni Neri sono liberi, arci-liberi. Vedete come. Le vetture pubbliche gli sono interdette. Nei teatri non sono ammessi in nessun modo. Non sono ricevuti nei ristoranti se non come servitori. Ecco: “Libertà, eguaglianza, fraternità”». Gioiello comico del reportage autobiografico è il racconto di una serata in cui l’Autore dirige una sua operetta con un’orchestra raffazzonata. I clarinetti «singhiozzano»; l’oboista «fantasioso suona quando gli prende l’estro»; il flauto «soffia quando può»; il fagotto «dorme metà del tempo». Mentre dirige, deve bloccare con la sinistra gli archetti del violoncello e del contrabbasso che stonano. Una catastrofe musicale che ottiene però un successo clamoroso. Un successo che oggi arride a Offenbach quasi solamente nei paesi francofoni, senza dimenticare che questo genere misto di parti recitate, cantate e dan-

Questo nuovo sound TNS atteso

il 13 di settembre Tommaso Naccari

Jacques Offenbach in una fotografia realizzata da Nadar, pseudonimo di GaspardFelix Tournachon (1820-1910). (Keystone)

zate, è confluito oggi nel musical, di cui Offenbach può essere considerato il progenitore. Se Offenbach tornasse dall’aldilà non esiterebbe a scrivere una delle sue operette, magari ispirandosi ai nuo-

vi inquilini della Casa Bianca, che in quanto a pompa bellicosa e vicende boccaccesche, non hanno nulla da invidiare al «parvenu eletto con il suffragio universale», come Napoleone III si definiva davanti ai suoi ministri.

una valle in salita… ma poi si scende! in scena Dopo sette anni ritorna lo spettacolo Centovalli Centoricordi,

fortemente voluto dal compianto Dimitri Giorgio Thoeni È interessante osservare che succede a uno spettacolo riproposto dopo qualche anno. Nel luglio del 2012 debuttava Centovalli Centoricordi, una sorta di teatro su rotaia itinerante fortemente voluto da Dimitri, che si svolgeva a tappe da Verscio a Camedo lungo parte della storica ferrovia vigezzina sulla scia di un racconto di valle fra scenette e animazioni: il tributo alle Centovalli che il popolare artista ha amato fino alla fine. Un’iniziativa di grande successo tanto da essere rilanciata l’anno successivo. Masha Dimitri, produttore e fra i protagonisti, ha deciso di ripensare il tutto fornendogli una spina dorsale più strutturata e aggiungendovi un nuovo titolo: La canzone della valle. Recita l’adagio che «squadra che vince non si cambia», sono infatti ritornati il regista Livio Andreina, la scenografa e costumista Anna Maria Glaudemans, il compositore e arrangiatore Oliviero Giovannoni ai quali si è voluto aggiungere la collaudata penna di Flavio Stroppini. Rivive così la storia della valle, dei suoi abitanti fra l’archivio dei ricordi,

Uno spettacolo estremamente suggestivo. (teatrodimitri.ch)

storie realmente accadute, altre velate da leggenda o superstizione. Fotografie di un’epoca ormai lasciata alle spalle e di un territorio che però deve essere ancora protetto dagli assalti della speculazione. È questo il motore della narrazione che accompagna Mauro, protagonista della storia, lungo la risalita della valle con l’intento di firmare l’atto di vendita della casa della nonna, ponte col passato. Il viaggio diventa

Perché non giochiamo al rap?

così un magico racconto che la nuova versione ci restituisce in un colorato musical a cavallo della memoria: una canzone della valle cantata, danzata e recitata da attori professionisti e non, accompagnati in musica da una band sorprendentemente organizzata per essere pronta a ogni tappa su palcoscenici creati alle stazioncine di Verscio passando per Intragna, Corcapolo, Verdasio e Cadanza fino a Camedo.

Quello che colpisce in questa rivisitazione è l’affiatamento di tutto il gruppo, dalla bravura dei professionisti all’immedesimazione degli amatoriali coadiuvati dall’efficace regia, con l’impatto scenografico di maschere e costumi e un’animazione costante che accoglie, accompagna e saluta il pubblico sempre numeroso a ogni rappresentazione, fra turisti confederati e italofoni. Con Masha Dimitri (capotreno) e Marco Cupellari (Mauro), davvero bravi, vanno ricordati movimenti e voci di Moira Albertalli, Sarah Lerch e Clarissa Matter con accanto una folta schiera di attori amatoriali, figuranti e bambini. Citarli tutti renderebbe giustizia a molti per un progetto che ha radunato un totale di 37 persone. Vogliamo almeno ricordare per l’investimento emotivo Paula Morisoli, deus ex-machina della narrazione e Chicca Martinoni, la saggia nonna custode della memoria. Ma ci sono piaciuti anche Marco Klurfeld (il prete), Francesca Estrada (la strega), Antonio Lisi e Elisa Iuva (gli speculatori) e Barbara GassParravicini, l’aiuto-capotreno. Ultima replica il 24 agosto.

Un concetto che in Italia fatica a farsi spazio, è quello del «rap game». Non il concetto di «rap», in solitaria, quello è ovunque, dalle playlist di Spotify ad Amici, passando per le pubblicità del Kinder Merendero e simili. Ma quello di «stupido gioco del rap», un genere in cui la competizione è alla base di tutto, il confronto di tecniche e metodo è il primo passo per giocare. Ci stanno provando in tanti, in realtà, a far emergere questo aspetto dalla propria musica, ma chi lo fa, sembra sempre pentirsene, visto che il mercato italiano è una torta piccolissima, e condividere anche solo una parte della propria fetta rischia di portare alla fame. E quindi, in che modo in Italia ci possiamo godere «lo stupido gioco del rap»? Be’, con i dischi dei produttori. Pezzi è stato uno degli album più interessanti degli ultimi anni, proprio perché ci ha regalato degli esperimenti che altrimenti non avremmo mai visto: ci ha regalato un nuovo Luché, Rkomi e Gue Pequeno insieme, ci ha fatto capire quanto CoCo e Mecna stessero bene, insieme, sulla stessa traccia. Ancora più di questo Zero Kills, in cui i Casino Royale si sfidavano con Ensi, mentre Pat Cosmo divideva la traccia con Ghemon. Bene, il 13 settembre arriverà il nuovo disco di TNS. Non si sa molto, o meglio, non si sa nulla, se non il numero di rapper che cavalcheranno le diverse tracce presenti all’interno: 25. Venticinque rapper in un album è un numero esorbitante, neanche Machete Mixtape Volume Quattro è arrivato a tanto, per citare l’ultimo album collettivo italiano, nonché quello di maggior successo. Gli esperimenti sono qualcosa all’ordine del giorno negli USA: Kanye mette tutta la Good Music a remixare brani già esistenti e a crearne di nuovi, i rapper più potenti e famosi fanno a gara a chi crea la strofa più evocativa sul brano del momento – basta guardare Lil Nas X e Old Town Road quanti rifacimenti può contare. In Italia succede di rado, ma perché? La speranza è che The Night Skinny ci regali qualcosa che non sappiamo di volere, ma del quale poi non potremo più fare a meno. Come allora ci aveva regalato un Luché dal flow cantilenato, come anni fa ci aveva regalato un nuovo Achille Lauro o lo stesso aveva fatto con Johnny Marsiglia. Il disco di Skinny può essere anche il campo di prova per la «vecchia scuola» di cimentarsi con la «nuova scuola», di unire gli stili, mischiarsi, appunto sperimentare. In una parola sola: giocare. Perché il rap, seppur stupido, rimane un gioco e senza il gioco manca il divertimento, senza il divertimento anche il successo non diventa che un miraggio. The Night Skinny ha già dimostrato di sapersi cimentare su ogni tipo di base, con ogni tipo di liricista. Non resta dunque che aspettare il 13 settembre, provare a fare il toto-nomi e sperare di non indovinarne neanche uno.

TNS, alias The Night Skinny, alias Luca Pace. (Twitter)


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 agosto 2019 • N. 34

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Cultura e Spettacoli

un paese ci vuole sempre incontri A colloquio con la scrittrice Nadia Terranova il cui Addio fantasmi

è stato selezionato per la cinquina del Premio Strega

conta l’interpretazione dei sogni nella Grecia classica, mi si è rafforzata l’idea che ci fosse una simbologia misteriosa che unisce la nostra vita diurna e notturna e soprattutto che ci fosse in Ida la necessità di produrre narrazione anche nel sogno. Sentivo di avere creato un personaggio le cui notti non potevano essere tranquille, dovevano portare avanti il discorso narrativo delle ore di luce. Così ho creato la Ida notturna, dei sogni e del dormiveglia, delle visioni.

Laura Marzi Abbiamo incontrato Nadia Terranova, autrice di Addio Fantasmi (Einaudi, pp. 208, euro 17,00) selezionato per la cinquina del Premio Strega 2019. Le abbiamo chiesto di raccontarci di questa esperienza e del suo ultimo romanzo: è la storia di Ida che rientra a Messina, sua città natale, dove la madre le ha chiesto di raggiungerla per aiutare a svuotare la «loro» casa, quella in cui la protagonista è nata, ha vissuto e da dove suo padre una mattina è uscito, senza più ritornare. Con Nadia abbiamo parlato di ritorni impossibili, anche di quelli che ognuno di noi tenta di fare per rintracciare il proprio passato. una prima domanda d’obbligo è relativa al Premio Strega: il tuo romanzo è stato selezionato per la cinquina finale. Ci descrivi le tue emozioni?

È stata una sorpresa crescente, non ero neanche così convinta che sarebbe stato candidato. È successo che uno degli «Amici della domenica», ovvero Pierluigi Battista, abbia dimostrato il desiderio di candidarlo e io mi sono lasciata trasportare dall’entusiasmo che ha circondato il libro. Sono stata sempre felice, ho affrontato il percorso con la consapevolezza che ci sarebbero stati momenti critici, in cui mi sarei chiesta con quale criterio di valutazione sarebbe stato giudicato il romanzo nelle diverse fasi. Mi sono chiesta quanto sarebbero pesate le logiche editoriali e l’apprezzamento dei lettori. Al di là quindi della semplice e genuina felicità, il corollario di emozioni è stato ben più complesso.

A un certo punto del tuo romanzo scrivi che la protagonista sente l’esigenza di: «mettere nelle mie storie il dolore che non sapeva stare altrove». la scrittura è una forma di salvezza?

Credo che la scrittura sia una forma di salvezza nel momento in cui si trasforma in un ponte di comunicazione verso gli altri, ma non credo che il semplice atto di scrivere e di sfogarsi sia di per sé terapeutico. Per me ha a che fare col destino

È interessante come nella storia che racconti le diverse età della protagonista coincidono con diverse personaggi, come se la bambina, la ragazzina e poi la donna fossero sì la stessa persona, ma anche irrimediabilmente diverse. Ce ne parli?

Nadia Terranova è nata a Messina nel 1978. (Keystone)

e con la salvezza l’idea di essere letta, che qualcuno un giorno, mesi o anni dopo l’uscita del mio libro, mi scriva e mi dica: «anche io». Ecco, in quella testimonianza di condivisione, sento una salvezza. Così sono uscita anche dal dolore che mi aveva provocato la scrittura di Addio fantasmi. Pur non essendo infatti un racconto meramente autobiografico, per scriverlo avevo comunque saccheggiato tra le mie assenze e i miei vuoti e vedere che si erano trasferiti su carta, su un personaggio immaginario, mi provocava sconcerto. Invece questi lettori che si avvicinano dicendo di aver condiviso parti di quella storia, hanno generato una forma di guarigione che non so ben definire, ma che ho sentito come molto letteraria. Forse perché se la scrittura non salva, di certo salva la lettura. «Tornare è sempre un errore» scrivi. Si tratta di una visione molto interessante dell’impossibilità di tornare davvero, per chi si è trasferito altrove, nel luogo in cui si è nati, perché quel posto scompare nel momento in cui lo abbandoniamo e spesso ritornandoci ritroviamo solo le ragioni per cui ce ne siamo andati. Che ne pensi?

Credo che la risposta sia in una frase di Cesare Pavese, che diceva: «un paese ci vuole». Un paese ci vuole perché ci vuole un posto in cui tornare, anche se non si tratta di un ritorno fisico, ma nel terreno dell’immaginario, del ricordo, della memoria. Tornare sui propri passi con un libro è una consuetudine: sono tanti i testi che trattano infatti il tema del nostos. Ida mentre pronuncia quella frase sta dicendo anche l’esatto contrario, cioè sta utilizzando quella espressione come un esorcismo, perché se non fosse davvero tornata e non avesse riattraversato il luogo del ritorno, i suoi fantasmi sarebbero rimasti sterili.

Nel romanzo i sogni hanno un loro posto, sono parte della trama: il risultato è un rafforzamento dell’intimità tra la protagonista e i lettori.

Ho deciso di raccontare i sogni perché da piccola sono rimasta affascinata dalla lettura de L’interpretazione dei sogni di Sigmund Freud, che lessi come se fosse stato una raccolta di favole e miti e quindi sono stata colpita dalla possibilità dei sogni di esseri liberi da ogni morale nel racconto di mostri, paure, nell’esplorare territori sconosciuti. Quando ho letto Il libro dei sogni di Artemidoro, che rac-

In Memoria di ragazza Annie Ernaux dialoga con la foto di se stessa adolescente, ed è come se dialogasse con una persona che è sia lei, col suo nome e cognome, di cui l’autrice conosce tutto, ma anche qualcuno di lontanissimo. E così accade anche in Argo, il cieco e i sogni della memoria, un libro di Bufalino che ho amato molto, in cui c’è il dialogo incessante tra uno scrittore anziano e uno giovane, trentenne, che trascorre un’estate a Modica. Anche lì c’è una iniziazione sentimentale ed è interessante che questo momento della nostra esistenza venga sempre scelto come quello in cui diventiamo qualcun altro. Anche in Addio fantasmi Ida si rivolge a una se stessa che sta per varcare esattamente quella soglia. In generale credo che siamo formati da tutti i fantasmi delle persone che siamo state, come una sovrapposizione di persone e corpi che abbiamo abitato e che poi si sono trasformati. Stai già scrivendo altro?

Sto lavorando a un altro libro che sarà diverso dai precedenti, ma ci saranno ancora Messina e lo stretto. È un progetto ambizioso che ha bisogno di tempo. Usciranno prima dei libri per ragazzi e un testo a settembre che raccoglie alcuni miei articoli e interventi sulla letteratura per l’infanzia, con degli inediti.

Sono sempre troppo poche Cosa mi metto?

Il culto della scarpa

Maria Bettetini Scarpe: non bastano mai. Come le borse, non c’è femmina da che ha uso di ragione, che pensi anche solo lontanamente di avere un numero sufficiente di borse e scarpe. Manca un colore, uno stile, qualcosa di indispensabile. Poi il retaggio culturale: il Gatto con gli stivali, Cenerentola, tragici influssi per la nostra gioventù, stivali che vanno al ritmo delle sette leghe e non impacciano il portatore, scarpette di cristallo per ballare e correre senza difficoltà, anzi, così belle e piccole, da cui il senso di vergogna delle ragazze, che oggi spesso portano il 43. Attualmente devono acquistare scarpe da uomo, ma «verrà il giorno» in cui troveranno scarpe da ballo. In verità, per alcuni numeri sono già disponibili dei gioielli, Jimmy Choo, Louboutin. Riconoscibili, queste ultime, dalla suola rossa, oltre a un prezzo che sfamerebbe un’intera famiglia per un mese. Tendenzialmente non sono, tutte queste, comodissime, tacco alto a stiletto, definizione a punta, minima presenza del cuoio per aiutare l’appoggio del piede. Si tratta, evidentemente, di calzature inadatte alla vita quotidiana, non per il supermercato, per accompagnare i bambini al parco, per ritirare le cose in lavanderia. D’altra parte, dove pensava di andare Cenerentola con le scarpe di cristallo? Due giri di ballo e già sulla scalinata si perde una delle due scarpette, che misteriosamente non ridiventano ciabatte, come la carrozza torna zucca. Che belle le fiabe, nelle loro assurdità. Ma torniamo a noi, a Carrie Bradshaw di Sex and the City, che non ha solo raccontato del rapporto tra la donna e le scarpe, ma ha proprio impersonato il rapporto fetici-

una lunga storia

Pubblicazioni La storia della linguistica, dall’antichità fino alle ultime avanguardie,

nell’ultimo libro di Giorgio Graffi Stefano Vassere «Che cosa c’è di tanto singolare in questo, se il genere umano, che aveva lingua e voce, secondo le varie impressioni indicava gli oggetti con suono diverso, quando le greggi, che sono prive della parola, quando anche le bestie selvagge e le pantere sogliono emettere gridi di volta in volta diversi, se provano paura o dolore e se cresce in loro la gioia?». Sarà anche breve, questa Breve storia della linguistica di Giorgio Graffi; essa però rende conto di una vicenda tutt’altro che limitata nel tempo, che va dall’antichità classica fino ai primi anni di questo secolo, percorrendo il corso e le passioni di una disciplina da sempre quasi connaturata agli interessi primari dell’uomo. E se da un lato ha sacrosanta ragione Graffi quando nelle ultime pagine sostiene che gli intenti generali non sono mai cambiati, d’altro canto questo libro ci permette di ragionare sugli strumenti dei quali la disciplina si è via via dotata, imparentandosi di volta in volta con scienze di varia natura e grado di raffinatezza: la psicologia, le scienze cognitive, la filosofia, la biologia, lo studio delle mentalità e molte altre. Non ne sono dunque mutate un granché le grandi aspirazioni, che possono essere raggruppate in un grappolo

di direzioni di ricerca: l’origine storica delle lingue e mentale della facoltà del linguaggio, i rapporti tra competenza linguistica e pensiero, la preoccupazione classificatoria e comparatistica. Sono quindi più le risposte che le domande a definire i vari vestiti che la linguistica ha assunto nei secoli. Una storia qua e là anche curiosa, perché al cospetto delle grandi questioni cui la

disciplina si è sempre rivolta le risposte date sono state in linea con lo spirito delle varie età. Per esempio, l’antichità classica fu a lungo intenta a cogliere il carattere naturale del linguaggio soprattutto in relazione alla capacità di riflessione, tipica dell’uomo e non degli animali. Tutto ciò ha un portato, come detto, originale: perché per capire l’uomo come essere parlante qualificato si tratta di vedere quanto male parlano gli animali, con posizioni, come è prevedibile, non sempre pacificate. Il filosofo scettico greco Sesto Empirico (secondo secolo avanti Cristo) sosteneva per esempio che «i linguaggi delle varie specie animali ci paiono non articolati perché non li comprendiamo, tanto quanto non comprendiamo i popoli che parlano lingue diverse dalle nostre». O ancora ha percorso questi millenni l’ansia legata alla creazione di una lingua universale, per motivi scientifici (se le lingue rispondono a un’architettura cognitiva e mentale comune sarà pur possibile creare la lingua ideale condivisa dall’umanità) e anche molto pratici e materiali, se è vero che «il motivo più nobile era quello di evitare il ripetersi di guerre di religione come quelle che avevano devastato l’Europa durante la prima metà del Seicento e che, secondo alcuni pensatori, erano

state originate dal diverso modo in cui le verità di fede erano presentate nelle varie lingue». La Breve storia di Giorgio Graffi percorre i duemila anni e passa delle epoche del ragionamento linguistico, e dall’antichità muove percorrendo Medioevo, Rinascimento ed Età moderna, Ottocento, la prima e la seconda metà del Novecento. Per fortuna che l’autore, nelle prime pagine, ci avvisa che alcune sue scelte oltre che arbitrarie sono legate ai suoi interessi personali: in questo peraltro bel libro latita rumorosamente tra l’altro la sociolinguistica che, a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso, ha letteralmente «occupato» ambiti disciplinari nazionali importanti, non ultimo quello italiano. Non è però casuale che Graffi sia conosciuto fondamentalmente per i suoi studi di grammatica formale e nemmeno che l’immagine di copertina porti inconfondibili i baffoni di Ferdinand de Saussure, inventore dello strutturalismo e fondatore dell’intera linguistica teorica come la conoscono i contemporanei. Bibliografia

Giorgio Graffi, Breve storia della linguistica, Roma, Carocci editore, 2019.

Le vere scarpe di cristallo. (Wikipedia)

stico tra l’una e le altre, eccessivo (che cosa cambia nella vita di una donna alla scarpa milleunesima?) e vanesio (ogni occasione è buona per mostrare piedi nudi, polpaccio sottile, smalto perfetto). Poi, come si viva tra quelle scarpe, è un altro discorso. Che per la donna normale ricorda più che l’alta moda i racconti sullo stivaletto malese, quello strumento di tortura orientale, che stringeva i piedi del prigioniero fino a stritolarli. Dolgono le parti dolenti, se ne creano di nuove. Desiderate solo una tinozza di acqua fresca, basterebbe quella limonata della caraffa di cristallo. C’è una soluzione, fingere di avere così fame e sete da essere costrette a sedervi. Nell’elegante cena in piedi, come usa adesso, voi i piedi li estraete dallo stivaletto malese. Ma così vi esponete al terribile rischio dell’arrivo di qualcuno: baci, abbracci, battute, mentre le vostre estremità inferiori disperatamente cercano i loro stivaletti malesi, li trovano, non entrano più! Vi mettete in punta di piedi, come se indossaste scarpette di cristallo, invisibili. Ma qualcuno ha mai pensato alla sofferenza di Cenerentola, costretta in calzature più rigide dei sandali tedeschi?


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Cultura e Spettacoli

Furore coreano

Festival di locarno/1 Il regista Bong Joon-ho e l’attore Song Kang-ho hanno dialogato con il pubblico

in un incontro moderato dall’ex direttore della rassegna Olivier Père

Nicola Mazzi In Asia sono delle superstar, da noi un po’ meno, anche se negli ultimi anni hanno acquistato notorietà pure in Occidente grazie ai numerosi premi ottenuti e ai film che hanno realizzato. Ospiti d’onore del Festival del Film di Locarno il regista Bong Joon-ho e l’attore Song Kang-ho si sono dimostrati simpatici e disponibili nelle varie occasioni in cui sono intervenuti come nell’incontro con il pubblico, moderato dall’ex direttore Olivier Père. «Ho sempre sognato di diventare come Steve McQueen. Vedevo questi attori americani e avevo voglia di imitarli, avevo per loro una grandissima

ammirazione. Per questo sono diventato attore» ha detto Song Kang-ho, rispondendo a una domanda sui suoi inizi. E lo stesso protagonista dell’ultimo film di Bong Joon-ho, Parasite (meritato vincitore della Palma d’oro a Cannes), ha anche rivelato di aver iniziato a recitare giovanissimo in teatro. Un lavoro, quello a contatto diretto con il pubblico, che lo ha fortificato e aiutato molto a diventare un attore. «È necessaria molta energia a teatro, il pubblico te la chiede; mentre recitare su un set è completamente diverso poiché in quel caso è fondamentale il lavoro di preparazione del personaggio». Sempre Song Kang-ho ha pure evidenziato come a lui piaccia sempre

discutere con i registi del ruolo da interpretare, perché è necessario certamente metterci dentro una bella dose d’istinto, ma occorre anche essere sicuri del personaggio che si mette sullo schermo. Sollecitati da Père i due hanno ricordato il loro primo incontro. Il regista ha sottolineato di aver visto Song Kang-ho per la prima volta nel 1997 quando interpretava il ruolo di un gangster nel film Green Fish di Lee ChangDong e di essere rimasto impressionato dall’interpretazione iperrealistica che aveva dato al personaggio. Sempre l’ex direttore del festival ha evidenziato come la Corea del Sud della fine degli anni 90 sia stata una fu-

L’attore sudcoreano Song Kang-ho con l’Excellence Award ricevuto a Locarno. (Keystone)

cina di talenti incredibile dal punto di vista cinematografico. «Negli ultimi decenni il cinema coreano ha cambiato e influenzato il cinema. È passato da una fase in cui era conosciuto solo all’interno dei propri confini a essere noto in tutto il mondo. E questo in molti generi diversi». «È vero» ha evidenziato Bong Joon-ho. «In quel periodo sono nati e poi cresciuti grandi registi e attori. Ma non solo, c’è anche stata una nuova generazione di produttori che ha creduto nel nostro cinema. Cosa rara ovunque. E il tutto è successo perché «con la fine della dittatura militare è stata rimossa la censura, e io come tanti altri colleghi, ho cominciato a lavorare. In quel momento abbiamo avuto una libertà artistica molto grande. Credo che sia successo così o forse, più semplicemente, il governo ha messo qualcosa nell’acqua che ha fatto impazzire tutti per il cinema», ha scherzato il regista. La prima collaborazione tra i due è stata in Memories of Murder: «Mentre scrivevo la sceneggiatura di quel film pensavo a lui per il ruolo da protagonista, quello che non sapevo e mi preoccupava era sapere se a lui poi sarebbe piaciuta altrettanto. Ma alla fine è andata bene». È stata un po’ diversa la loro prima esperienza insieme fuori dai confini coreani. «È vero che è stato un periodo strano. Snowpiercer è molto ricco di effetti speciali, ma chiede molto anche agli attori e devo dire che lavorare con attori hollywoodiani è diverso rispetto al lavoro fatto con i coreani, avevo delle sensazioni contrastanti, e ammetto che alcune volte finivo le riprese ed ero scoraggiato; invece altre volte trovavo il tutto piuttosto divertente». E sulla loro relazione fuori dal set i due scherzano: «A dire il vero ci amiamo!» «A parte gli scherzi, siamo abbastanza amici e non ci incontriamo solo

quando lavoriamo, e in quelle occasioni preferiamo parlare di calcio, della nostra vita privata e poco di cinema». Molto interessante e significativa di una certa direzione che sta prendendo il cinema è la spiegazione che il regista ha dato per la scelta di trasmettere Okja (il penultimo film) sulla piattaforma Netflix e non nei cinema. «Il discorso è abbastanza semplice. Quello era un progetto a cui lavoravo dal 2014 e che richiedeva un grosso budget per le parti visive, oltre 50 milioni di dollari. Le produzioni europee o coreane difficilmente sono disposte a investire tanto denaro per un solo film. Abbiamo parlato anche con alcuni produttori indipendenti che ci chiesero se potevamo tagliare delle scene costose. Alla fine queste discussioni non hanno portato a nulla. Quando invece ho parlato con Netflix ho subito ottenuto 57 milioni di dollari e soprattutto il controllo totale sul film. Questo significa una libertà creativa incondizionata. È vero che per la distribuzione nei cinema era difficile ottenere qualcosa di meglio, anche perché la loro politica è molto rigida e non permette al film di uscire nelle sale se non per pochi giorni, ma ne ero cosciente e ho comunque accettato». Bong Joon-ho ha quindi terminato con un elogio di Kurosawa. No, non Akira, quello dei Sette Samurai. «Certo anche lui mi piace molto, è un maestro. Ma devo dire che amo il cinema di Kiyoshi Kurosawa. Ha realizzato film molto attuali e che ammiro». Un riferimento non casuale in quanto il regista giapponese è stato inserito nel programma della Piazza Grande, nella serata di chiusura, con il suo ultimo lavoro To the Ends of the Earth. Un riferimento conclusivo a un collega a dimostrazione di come anche l’umiltà faccia parte del DNA di Bong Joon-ho e Song Kang-ho.

Senza grandi colpi di scena

Festival di locarno/2 Un’edizione con opere interessanti,

ma che spesso denotano un eccesso di pretenziosità Nicola Falcinella Sarà stato consacrato il portoghese Pedro Costa con un meritato Pardo d’oro o il premio sarà andato a una delle tante scommesse giocate dalla neodirettrice Lily Hinstin? Mentre scriviamo e cerchiamo di tirare le somme, mancano poche ore all’annuncio dei vincitori del 72° Locarno Film Festival. Un’edizione nell’insieme di buon livello, senza grandi colpi e con pochi veri personaggi di rilievo internazionale. Sarà ricordata però per il tutto esaurito in Piazza Grande per il magnifico C’era una volta a... Hollywood di Quentin Tarantino con Leonardo DiCaprio e Brad Pitt, purtroppo senza la presenza di nessuno del ricco cast, ma con il pubblico a sfidare la pioggia per goderselo interamente. C’è stato un buon risalto per la Svizzera, dal Pardo alla carriera a Fredi M. Murer, con la riproposizione del fondamentale Höhenfeuer, e parecchia Italia. C’è stata un po’ di Hollywood con il Pardo d’onore a un regista fuori dai canoni come John Waters e il Leopard Club all’attrice Hilary Swank. Bella la retrospettiva Black Light, magari non così rigorosa nelle scelte come negli anni passati, ma con tanti titoli importanti e perle poco conosciute di registi di colore, americani e non solo. E sono stati in evidenza l’attore e il regista coreani Song Kang-ho e Bong Joon-ho (v. articolo sopra, ndr), il primo premia-

to con l’Excellence Award, il secondo ad accompagnare il suo attore feticcio e a presentare la recente Palma d’oro Parasite. Conterà però molto il nome che sarà andato a succedere al singaporiano A Land Imagined di Yeo Siew Hua nell’albo d’oro. Il grande favorito è Costa, il nome più illustre tra gli autori in lizza, già Pardo d’argento per la regia nel 2014 con Cavalo Dinheiro. Vitalina Varela racconta la donna capoverdiana del titolo e la sua elaborazione del lutto per l’ex marito in una Lisbona che non conosce. Nell’oscurità delle immagini risaltano la pelle e gli occhi dei personaggi, nel dolore e nello smarrimento tornano i ricordi e si affaccia forse un barlume. Un film che parla di memoria, di amore, di scelte, di privazioni, di emarginazione, di senso della vita, tra inquadrature potenti e una spiritualità viva. Un film non facile, ma almeno una spanna sopra tutti. Gli immigrati di Capo Verde in Portogallo sono anche i protagonisti dello svizzero O fim do mundo di Basil da Cunha, che inizia con un battesimo e finisce con un funerale (quasi il contrario di Costa) e si sofferma su giovani marginali che vivono alla giornata in un contesto violento. Il risultato è però senza infamia e senza lode. Già noto nei festival è il giapponese Koji Fukada, che ha portato Yokogao – A Girl Missing indagine su due

livelli temporali dentro l’esistenza di una donna di mezz’età apparentemente tranquilla e dentro una società fragile. Ichiko lavora come infermiera in una casa privata: accudisce la nonna inferma, fa amicizia con la nipote maggiore, mentre la minore scompare. Si scoprirà che l’autore del rapimento è figlio della sorella della protagonista, che a sua volta non è del tutto estranea, mentre la pressione mediatica intorno al caso si fa soffocante. Fukada costruisce un elegante puzzle di piccoli pezzi, guardando ai classici del cinema nipponico. Altro titolo che spicca è Last Black Man in San Francisco di Joe Talbot, già premiato per la regia al Sundance Festival. Un film sulla ricerca di una casa e di radici, con Jimmie Fails che cerca di recuperare l’abitazione costruita dal nonno in stile vittoriano. Talbot racconta, con un bel ritmo e personaggi profondi, il senso di comunità e le trasformazioni rapide di una città. Tra i migliori anche il francese Terminal Sud di Rabah Ameur-Zaimeche, già in concorso a Locarno nel 2011 con Les chants de Madrin. Un film tra genere e fantapolitica in un paese immaginario del Mediterraneo sprofondato nella guerra civile e un medico scrupoloso posto di fronte a dilemmi morali e alla crudezza della situazione. La giuria, presieduta dalla regista francese Catherine Breillat, potreb-

Il regista portoghese Pedro Costa. (Stefano Spinelli)

be andare però su scelte meno ovvie e nomi nuovi. Alla gara mancavano temi ricorrenti, se non forse la storia e la ricerca della memoria, ed erano fortunamente assenti film su tematiche sociali o politiche esplicitamente attuali, sempre un po’ ricattatori quando si tratta di distribuire riconoscimenti. Una costante a parecchie opere era però un eccesso di pretenziosità, un voler essere molto più di quanto si riuscisse a essere. Tra le novità, le migliori sono probabilmente A febre della brasiliana Maya Da-Rin e il francese Douze mille

di Nadége Trebal, anche coprotagonista. Il primo segue un indio che lavora come guardiano tra i container del porto di Manaus, con una febbre strana e una tensione irrisolta tra i mondo primitivo da cui proviene e la civiltà dell’uomo bianco. Dodicimila sono invece gli euro di cui ha bisogno Frank, che crede che per farsi amare da Maroussia debba guadagnare quanto lei. Un film di belle intuizioni e una prima parte molto tesa, che si perde un po’ cercando di combinare il realismo con la componente visionaria.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 agosto 2019 • N. 34

43

Cultura e Spettacoli

l’esercito dello staff

locarno Film Festival Sono settecento

gli ausiliari che tengono in piedi la macchina festivaliera e hanno un contratto che dura esattamente dieci giorni Gli addetti di sala al PalaCinema. A destra, chi si occupa del movimento copie dei film – pellicole/HD. (Stefano Spinelli)

Sara Rossi Guidicelli Molti ticinesi cominciano così: si avvicinano al festival di Locarno prima di tutto lavorandoci. Sono spesso studenti, sovente locarnesi, ma non esclusivamente; fanno i cassieri, lavorano al desk dell’accoglienza per gli accreditati, stanno nelle sale a controllare i biglietti, portano le sedie in Piazza Grande, distribuiscono il giornale del Festival (che dall’anno scorso si chiama Locarno Daily), portano i microfoni allo Spazio Cinema Forum. Alcuni si alzano alle 6 del mattino per andare a prendere i giornali e ritagliare gli articoli per la rassegna stampa, altri vanno a letto a notte fonda perché aspettano che anche l’ultimo spettatore sia uscito dalla Piazza dopo avergli spiegato come votare il suo film preferito. Sono gli ausiliari. Un esercito di 700 persone con una maglia ufficiale gialla e nera con la scritta Staff, senza le quali, è banale dirlo, non ci sarebbe assolutamente nessun Locarno Film Festival. Tra le mansioni non citate ci sono ancora gli autisti, quelli che noleggiano le biciclette, alcuni addetti alla sicurezza, i traduttori simultanei, le hostess, i segretari della giuria, addetti dell’ufficio stampa, l’assistente del presidente, della direttrice artistica, gli addetti alla pulizia e le magiche signore del Kids

Corner con i loro colleghi che si occupano dei bambini più grandi. Tutte queste persone sono assunte da Locarno Film Festival per dieci giorni: dieci giorni che a molti cambiano la vita. «Ho mandato la mia candidatura giusto giusto a diciotto anni e la prima volta non c’era posto; l’anno successivo però mi hanno presa», racconta Silvia, di Lugano. «Questo è il mio terzo festival...». È studentessa di Pedagogia curativa a Friborgo; non sapeva molto di cinema prima di cominciare, ma voleva partecipare a qualcosa di grande che succede in Ticino. «Lavoro all’accoglienza, dove arrivano i professionisti del Cinema e i giornalisti di tutto il mondo a ritirare le loro tessere. È bellissimo: parliamo tutte le lingue e a volte le persone si fermano a chiacchierare. Siamo i primi rappresentanti del Festival con cui hanno a che fare, quindi è importante che possiamo dare qualche informazione generale e molti sorrisi...». Si creano amicizie, ci si sente parte di una macchina gigantesca e alla fine della giornata restano parecchie ore per andare a vedere i film. «Se ho il turno del pomeriggio, posso vedere uno o due film la mattina; se invece finisco presto posso ancora andare al Cinema alle 16, alle 18 e la sera. Con un’amica ci siamo appassionate così. Prima non mi era mai venuto in mente di vedere film in lingua originale, adesso che mi sono

Per gli interventi del pubblico, serve chi porge i microfoni. (Stefano Spinelli)

Onnipresenti, la sera in Piazza Grande, le addette e gli addetti al Prix du Public. (Stefano Spinelli)

tuttavia è immenso e non parlo solo dello stipendio dei 10 giorni, ma del pass per andare a vedere ogni film, del profumo di cinema che si respira da ogni parte, dell’opportunità di sbirciare dietro le quinte che ti fa toccare con mano quanto lavoro sta dietro a ogni evento. «Ho sentito l’adrenalina di chi si prodiga per far funzionare una manifestazione che coinvolge migliaia di persone», spiega Luna Scolari, che alcuni anni fa ha iniziato come hostess per la Sezione Open Doors e ora è assistente del responsabile della programmazione dei Pardi di domani. Ora (anche) grazie al Festival ha intrapreso un percorso di studi superiori in Cinema e Teatro. «Essere parte della squadra, anche svolgendo i lavori più semplici, mi ha fatto entrare in contatto con un’organizzazione immensa, che è allo stesso tempo artistica e tecnica, rigorosa e visionaria».

abituata non riesco più a sopportare un doppiaggio fatto male. In fondo l’attore ci mette la faccia ma anche la voce, no? Quindi è bello vederlo parlare la sua lingua!». Michael Mros è il responsabile risorse umane e amministrazione di Locarno Film Festival. Ha in testa gli oltre 700 curriculum di tutti i collaboratori che quest’anno e negli anni passati hanno fatto esperienza al festival. «Chiunque può venire a darci una mano, basta essere maggiorenni; in generale mandano candidatura i giovani e naturalmente chi viene una volta, se desidera ripetere l’esperienza l’anno seguente, ha la precedenza. Sempre più ragazzi tornano di anno in anno, così non abbiamo sempre molti posti nuovi. Le iscrizioni avvengono tra febbraio e marzo. Poi faccio tutti i contratti: siamo uno dei pochi festival che pagano gli ausiliari. Pensiamo sia giusto dare un compenso a chi lavora

per la cultura: non è perché è bello che allora bisogna farlo gratis. D’estate poi prepariamo la montagna di magliette da distribuire prima dell’inizio del festival, suddivise nei vari settori. Facciamo una riunione con tutti i ragazzi e i loro capi settore; gli diciamo quanto sia importante il loro ruolo e si comincia! Credo che quello che chiediamo non sia poco: ci vuole precisione, puntualità, pazienza. A volte sono confrontati con persone che fanno la fila per ore sotto il sole e che alla fine non riescono a entrare in sala e vedere il film perché non c’è più posto; dobbiamo essere sempre gentili e disponibili con tutti. Inoltre in un festival, per quanto sia preparato minuziosamente tutto l’anno, gli imprevisti sono sempre tanti. Bisogna farvi fronte, col sorriso e grande elasticità. Ultimo ma non ultimo: è necessario sapere più lingue possibile perché il pubblico è internazionale». Quello che i ragazzi ricevono indietro

Gli addetti al servizio informazioni – Ask Me. (Stefano Spinelli)

Il loro compito: sistemare le migliaia di sedie sulla Piazza Grande. (Stefano Spinelli)


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