Azione 35 del 28 agosto 2023

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SOCIETÀ

Il neurobiologo Andrea Levi ci spiega come il nostro cervello produce e conserva i ricordi

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TEMPO LIBERO

Una buona campagna elettorale non può prescindere dal proporre un’immagine di sé accattivante

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ATTUALITÀ

Cosa succederà in Russia e in Ucraina dopo l’eliminazione di Prigozhin, il capo di Wagner

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La cura delle dimore storiche

edizione 35

MONDO MIGROS

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CULTURA

Il rapporto tra uomo e natura al centro della mostra dell'artista svizzera Teres Wydler ad Ascona

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Così

vicini, così lontani

A essere sinceri, probabilmente nessuno (a parte gli addetti ai lavori) si è allarmato più di tanto lo scorso 10 agosto, quando le agenzie hanno battuto la notizia di un incidente a Faido, all’interno del tunnel di base del San Gottardo, che con i suoi 57 km di lunghezza e gli oltre 2000 m di profondità massima è annoverato fra i portenti ingegneristici del pianeta. Fortunatamente l’incidente non aveva causato feriti, né si erano sviluppati esplosioni o incendi. Il danno sembrava anche piuttosto contenuto, si prevedeva infatti che i lavori di ripristino sarebbero terminati entro il 16 agosto, dunque, a distanza di nemmeno 150 ore dal fatto.

Con il passare dei giorni però, la situazione è peggiorata, costringendo tutti noi a un involontario e inatteso bilancio di quel progetto faraonico che, per anni, aveva infiammato i titoli dei giornali e i tavoli delle discussioni politico-economiche per i costi esorbitanti e i con-

tinui imprevisti in fase di realizzazione. Dal grande momento storico dell’inaugurazione (di cui, forse, ciò che a molti è rimasto soprattutto in mente, è il vestito bianco dell’allora ministra dei trasporti Doris Leuthard con i buchi che ricordavano il tradizionale formaggio Emmentaler) sono ormai passati sette anni, durante i quali uno straordinario gioiello ingegneristico, per chiunque non soffra di claustrofobia, si è trasformato quasi in un’ovvietà. E questo forse, soprattutto per noi ticinesi.

La rottura della ruota di un convoglio tedesco all’interno del tunnel di base (e ora la questione

è: chi pagherà il danno? in fondo, la Svizzera, se per la realizzazione della galleria di base si è autofinanziata, per la Ferrovia del Gottardo, alla fine dell’Ottocento, aveva potuto contare sui contributi finanziari di Italia e Germania) ci sta presentando un conto la cui portata, come dicevamo all’inizio, era difficilmente prevedi-

bile. Anzitutto in termini economici: era stato un attimo, per svizzero tedeschi e romandi abituarsi a una tratta così veloce per una gita fuori porta in vetta al Monte Generoso o per i vicoli di Ascona, per la soddisfazione di albergatori e ristoratori nostrani. Così come non avevano fatto fatica numerosi abitanti del Sopraceneri a iniziare una vita di pendolarismo che sì, richiedeva un sacrificio importante, ma d’altra parte offriva finalmente e in tempo reale una fetta di quella che è la grande torta delle opportunità professionali zurighesi anche a una parte dei ticinesi. Una situazione win win sotto ogni punto di vista.

Ma forse, a fare più male ancora è la voce «lontananza». Per sette anni ci eravamo sentiti indubbiamente un po’ più svizzeri perché più vicini alla nostra capitale, là dove si prendono le decisioni importanti e si determinano le sorti del Paese, ma anche là dove, come detto, fi-

nalmente ci si offrivano delle opportunità professionali che non prevedessero di rimanere un Wochenaufenthälter (residente settimanale) a vita, ossia di potere mettere al servizio le proprie competenze senza necessariamente rinunciare alla propria casa e magari anche alla famiglia.

A un livello ancora più sottile, ma è sempre una semplice ipotesi, ci manca anche tutta una serie di valori, che per sette anni avevamo sentito più vicini, come lo slancio innovativo e un forte senso di appartenenza.

Da qualche giorno, seppur in quantità ridotta, i treni merci hanno ricominciato a transitare nella galleria est del tunnel di base, ma il traffico passeggeri è ancora affidato alla rotta panoramica, con una dilatazione dei tempi di percorrenza che ci ha riportati a un passato che credevamo dimenticato. Paradossalmente sarà dunque una grande boccata di ossigeno potere tornare sotto terra.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 28 agosto 2023 Cooperativa Migros Ticino
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Giovani in fattoria

Agriviva offre la possibilità di scoprire il lavoro e la vita delle famiglie contadine; due ragazze ticinesi ci raccontano la loro esperienza

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I contrabbandieri «Capel» a Maloja Una passeggiata in Val Bregaglia verso il Lägh da Bitabergh, immersi in un paesaggio che vanta viste panoramiche e tanta natura

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Dolori, vertigini, spossatezza, poca forza La fibromialgia, malattia reumatica che può essere invalidante, è difficile da diagnosticare e subisce anche uno stigma sociale

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Alla scoperta dei meccanismi della memoria

Pubblicazioni ◆ Intervista al neurobiologo Andrea Levi che, nel suo ultimo libro, indaga il cervello e i modi in cui produce e conserva i ricordi

I ricordi sono le tracce che la vita lascia dietro di noi. Possiamo ripercorrerle, tornando nei luoghi del passato, riascoltando voci scomparse e percependo, ancora, nella nostra mente, odori e sapori perduti. La memoria è un arcipelago frammentato: forma la nostra identità, ci rende ciò che siamo. La neurobiologia ha fatto grandi passi avanti, negli ultimi anni, per capire come funzionano i nostri ricordi da un punto di vista fisiologico. In un libro, appena pubblicato dal Saggiatore, Genetica dei ricordi. Come la vita diventa memoria, il neurobiologo Andrea Levi – ha lavorato in diversi centri di ricerca, tra questi: Conway in Irlanda; Weizmann in Israele; NIH negli USA – indaga il cervello e suoi meccanismi di «produzione» dei ricordi.

«Ogni volta che ricordiamo possiamo rimodellare il circuito nervoso che sta alla base di ogni specifica memoria»

Andrea Levi, perché la memoria è importante per la nostra identità?

Per rispondere è necessaria una premessa: ci sono diversi tipi di memoria, con funzioni specifiche. Ad esempio, la «memoria a tempi brevi» permette di mantenere un’informazione appena acquisita per pochi secondi, la durata necessaria per rammentare un numero di telefono e digitarlo. Altre memorie, come imparare ad andare in bicicletta, invece, permangono per tutta la vita, ma sono «implicite», operano cioè indipendentemente dalla nostra coscienza. Esistono poi le «memorie esplicite a lungo termine», in grado di richiamare intenzionalmente alla coscienza un ricordo. Questi ricordi riguardano sia nozioni e concetti appresi nel corso della vita, che plasmano la nostra visione del mondo e la nostra appartenenza sociale, sia avvenimenti personali con un contenuto emotivo, che ci rendono «unici», distinti dagli altri esseri umani.

Come nascono i ricordi?

Il primo a definire la memoria in termini moderni è stato, probabilmente, lo zoologo tedesco Richard Semon, agli inizi del Novecento. Per lo scienziato, la memoria è «la traccia materiale lasciata nel cervello da un’esperienza personale». Tuttavia, Semon non era in grado di spiegare come funzionasse la memoria a livello molecolare perché, all’epoca, gli studi scientifici erano ancora insufficienti. Venendo ai giorni nostri, invece, la visione comunemente ac-

cettata è la «teoria Hebbiana», dal nome del neuroscienziato canadese Donald Hebb che l’ha ideata. Secondo questa tesi, il nostro cervello reagisce agli eventi esterni attivando un certo numero di cellule nervose (i neuroni) che sono direttamente o indirettamente collegate tra di loro. Il fatto di venire «azionate» insieme rafforza le loro connessioni. È sufficiente che alcuni neuroni si rimettano in funzione, in risposta a un certo input, per fare sì che anche gli altri si riattivino. Quindi, ad esempio, rivedere la foto di una nonna oppure sentire il profumo del dopobarba usato da un nonno, ci farà «rivivere» i ricordi collegati ad esperienze vissute con loro.

Di che cosa è fatta la memoria?

Seguendo la teoria Hebbiana, possiamo considerare la memoria come composta da un «hardware», costituito dalle connessioni tra i neuroni nel nostro cervello, e da un «software» che corrisponde al rafforzamento delle connessioni tra quei neuroni che sono stati contemporaneamente attivati da un particolare evento.

Perché ricordiamo alcune cose e ne dimentichiamo altre?

Ci sono delle ragioni fisiologiche. «Hardware» e «software» si possono rovinare, portando, rispettivamente, alla morte di alcuni neuroni e all’indebolimento delle connessioni. A questo proposito è opportuno distinguere tra un ricordo perso per sempre (la sua traccia nel cervello non esiste più) e quello che non si riesce a riportare alla memoria («quel nome c’è l’ho sulla punta della lingua, mi verrà in mente più tardi»).

Ma c’è anche un’altra possibile risposta a questa domanda. Da un punto di vista darwiniano, quasi tutte le nostre caratteristiche, fisiche e mentali, sono il risultato della selezione naturale, ossia esistono perché sono vantaggiose. Quindi, se è necessario ricordarci dove abbiamo parcheggiato l’auto l’ultima volta che siamo tornati a casa, per poterla ritrovare, non ci è utile (anzi, costituisce uno spreco di risorse ed energie) tenere a mente tutti i luoghi dove abbiamo posteggiato la macchina da quando abbiamo preso la patente. E ancora, ci sono ricordi che ci fanno sentire bene

(e in certi casi la nostra mente può decidere, addirittura, di «fare un po’ di photoshop» per abbellirli ulteriormente) mentre altri, legati a traumi che condizionano i nostri comportamenti, ci fanno stare male. In questo secondo caso, rimuovere i ricordi, o ridurre il loro impatto emotivo, rappresenta un vantaggio.

Ricordiamo davvero quello che abbiamo vissuto oppure, ogni volta che pensiamo a un evento passato, lo «ricostruiamo» nella nostra mente?

La seconda ipotesi è più probabile. Ogni volta che ricordiamo, abbiamo l’opportunità di rimodellare il circuito nervoso alla base di ogni specifica memoria. Si pensa, addirittura che, con il tempo, il ricordo cambi la localizzazione in cui viene mantenuto nel cervello. Infatti, si osserva spesso come, con l’età, restino intatti ricordi del passato remoto mentre si perdano quelli più recenti. Si ipotizza, perciò, che «la traccia del ricordo» si possa spostare in una regione del cervello meno soggetta all’usura. Tuttavia, non possiamo escludere che ci siano

anche ricordi fedeli alla realtà, a ciò che è realmente accaduto, «scolpiti nella pietra», per così dire.

I ricordi si ereditano?

Questa è una bella domanda. La tentazione di rispondere «sì» è grande. Dal punto di vista darwiniano, l’ereditarietà della memoria appare una risorsa preziosa. Spesso, ricordare il passato ci serve per predire il futuro. Forse, se alcuni di noi hanno un ribrezzo innato per i serpenti, è perché i nostri antenati avevano imparato a loro spese che sono animali pericolosi. In quest’ottica, probabilmente, se gli incidenti stradali continueranno a essere una causa di morte più frequente del morso di una vipera, i nostri nipoti o pronipoti proveranno ripugnanza per le automobili. A parte qualche sparsa evidenza, però, attualmente non ci sono ipotesi in grado di spiegare come i ricordi possano essere ereditati da generazioni successive né prove sperimentali incontrovertibili che ciò accada. Per rispondere, perciò, non ci resta che aspettare i progressi della scienza.

● ◆ 2 Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 28 agosto 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino
SOCIETÀ
Rivedere la foto di una nonna oppure sentire il profumo del dopobarba usato da un nonno, ci farà «rivivere» i ricordi collegati ad esperienze vissute con loro. (Pexels) Stefania Prandi

Conservare, vivere e tramandare edifici storici

Territorio ◆ L’associazione nazionale Domus Antiqua Helvetica terrà la sua assemblea annuale a Lugano: un’occasione per incontrare il presidente della sezione Ticino Gianfederico Pedotti e per visitare, a Preonzo, una delle quaranta case storiche della Svizzera italiana

Prendersi cura di edifici storici per tramandarli alla propria discendenza, ma pure all’intera comunità in quanto patrimonio culturale degno di protezione. È l’impegno dei membri dell’associazione nazionale Domus Antiqua Helvetica (DAH) che nei primi tre giorni di settembre terrà l’assemblea generale annuale a Lugano. L’appuntamento vedrà riuniti circa duecento proprietari in una preziosa occasione d’incontro per allargare la discussione a interessi e sfide comuni. Gli aderenti si considerano anzitutto i depositari di un patrimonio storico costruito, testimonianza dell’identità culturale delle diverse regioni svizzere. L’associazione nazionale è infatti suddivisa in sezioni cantonali, alle quali spetta di anno in anno l’organizzazione dell’assemblea generale accompagnata da visite a dimore locali e ad altri siti di interesse storico o culturale. Gianfederico Pedotti, presidente della sezione Ticino, si rallegra pertanto di poter dare accesso ai partecipanti ad alcune delle circa quaranta case storiche situate nella Svizzera italiana. Fra quelle ammesse di recente figura Ca’ dal Geni a Preonzo, che abbiamo potuto visitare grazie alla disponibilità della famiglia di Fausta e Simone Bionda.

Storie, aneddoti e ricordi si intrecciano non solo a Preonzo, ma fra le mura di ogni edificio inserito nella lista di Domus Antiqua Helvetica, associazione attiva dal 1984. Gli oltre 1500 membri sono proprietari di varie tipologie di case. Possono essere palazzi cittadini, ville di campagna, chalet, castelli, complessi agricoli, immobili racchiusi nei nuclei, residenze in posizioni spettacolari. Gianfederico Pedotti evidenzia che «sono tutte dimore degne di protezione o di interesse storico o culturale, sotto differenti aspetti». Quali le questioni da affrontare quando si possiede un simile edificio?

«Tramite lo scambio di informazioni aggiornate e l’attività di consulenza – risponde il presidente della Sezione Ticino – l’associazione sostiene i suoi aderenti nell’ambito del restauro, delle questioni giuridiche e assicurative o ancora della pianificazione e delle successioni. Quest’ultimo aspetto è molto importante, motivo per cui la DAH ha creato di recente una categoria di giovani membri o presunti eredi (Nextgen, meno di 40 anni), promuovendo il confronto intergenerazionale e l’apporto di nuove idee per contribuire ad affrontare anche altre sfide, come la svolta energetica, la protezione dei beni culturali e l’adeguamento all’evoluzione delle normative». Domus Antiqua Helvetica collabora da parte sua con le istanze cantonali della protezione dei beni culturali ed è attiva anche a livello europeo. Gianfederico Pedotti, originario di Bellinzona

e già ambasciatore di Svizzera all’estero, è stato chiamato alla guida della sezione ticinese in ragione della casa che abita nella campagna bernese. Per una quindicina d’anni, in qualità di membro del comitato direttivo, ha pure rappresentato l’associazione in Europa Nostra, federazione paneuropea

per il patrimonio culturale e naturale. Il contatto fra gli aderenti è un altro punto chiave dell’associazione, elemento che circa due anni fa ha stimolato Fausta e Simone Bionda ad avvicinarsi a Domus Antiqua Helvetica. Ogni edificio racconta una storia e in Ticino numerosi edifici sono il frutto dell’emigrazione artistica dei secoli passati. Seppure in un altro ambito, è una storia di emigrazione anche quella di Ca’ dal Geni. Il nome è il diminutivo di Eugenio Bionda (1873-1953), cuoco che la costruì nel 1908 quando tornò a Preonzo dopo una ventennale esperienza di successo a New York. Per circa ottant’anni la casa ha ospitato il Ristorante Bionda, prima di rimanere chiusa con l’intero arredo per un paio di decenni. All’inizio del nuovo millennio Simone Bionda si è interessato in modo più concreto alla casa del bisnonno, da sempre punto di riferimento non solo della famiglia (la nuora di Eugenio e nonna di Simone ha gestito il ristorante sino alla chiusura), ma dell’intera comunità di Preonzo,

Due particolari degli interni di Ca’ dal Geni a Preonzo, che per quasi ottant’anni ha ospitato il Ristorante Bionda.

pur abbinando interventi attuali e sostenibili per renderla adatta alle moderne esigenze abitative, lo si ritrova in ogni dettaglio. Dettagli che anche i tre bambini tengono a mostrarci, fornendo spontaneamente un bell’esempio di coinvolgimento e sensibilizzazione dei più giovani. Aggiunge il proprietario: «Di fronte a una casa vecchia e malandata non bisogna limitare lo sguardo a ciò che si vede, ma cercare piuttosto di immaginare come può diventare dopo un intervento adeguato. Con questa visione abbiamo recuperato anche alcuni mobili in legno, come lo Stammtisch del ristorante, senza aggiungere altri pezzi d’epoca estranei alla casa. Per le nuove componenti dell’arredo, come la libreria, è stato scelto il colore bianco per garantire un accostamento neutrale». Il restauro conservativo di Ca’ dal Geni, progettato dallo Studio Ivo Trümpy-Aurelio Bianchini, è stato un elemento essenziale per la sua accettazione in Domus Antiqua Helvetica che privilegia il carattere degno di protezione di un edificio piuttosto che la sua età. Nell’elenco figurano pertanto costruzioni di diverse epoche, alcune con una storia di più secoli. Ne è un esempio l’abitazione risalente al Settecento del presidente Gianfederico Pedotti, una campagne (dimora all’epoca a uso estivo) alla quale dedica grande cura per preservarne «la sostanza, l’anima e il carattere, mantenendo in vita storie e tradizioni».

essendo un ritrovo pubblico affacciato sulla piazza del villaggio, oggi pure valorizzata.

Da ristorante la casa è stata trasformata in un’abitazione monofamiliare dove vivono Fausta e Simone Bionda con i loro tre figli. Con grande passione e cura la coppia ha effettuato nel 2008 il restauro dell’edificio (tre piani più mansarda), conservandone le caratteristiche esterne e interne. «La sua progettazione come ristorante –spiega Simone Bionda – è all’origine della posizione laterale della scala che garantisce locali più ampi rispetto a dimore analoghe a uso privato. Il locale più significativo è la sala banchetti al primo piano, di cui siamo riusciti a recuperare, oltre al pavimento in larice americano, la decorazione del soffitto che prima del restauro era quasi completamente nascosta da pittura bianca. A un certo punto la sala era infatti stata trasformata in tre camere da letto suddivise da pareti in legno che abbiamo potuto rimuovere». Il piacere di ripristinare la casa allo stato originale,

Grazie alla scelta di Lugano per l’assemblea di quest’anno (che torna al Sud delle Alpi dopo 27 anni), il presidente della sezione Ticino potrà guidare i partecipanti alla scoperta del patrimonio storico costruito della regione. Il programma comprende pure una conferenza della storica dell’arte Stefania Bianchi sull’Emigrazione artistica ticinese e la visita a istituzioni museali e al nuovo edificio della SUPSI a Mendrisio. Quest’ultimo ospita infatti il Dipartimento ambiente costruzioni e design che affronta questioni come la conservazione e il restauro.

Gli affiliati alla sezione Ticino, fondata 15 anni fa, si riuniscono comunque con regolarità due volte all’anno, visitando la casa di un membro e altri beni culturali nei dintorni. Ciò permette di consolidare la rete di conoscenze in un contesto privato con però anche risvolti pubblici. Informare e facilitare la conoscenza diretta di edifici storici, arricchita dallo scambio di opinioni fra i rispettivi proprietari, sono attività sviluppate con costanza da Domus Antiqua Helvetica, convinta che l’impegno privato sia essenziale nella conservazione del patrimonio storico costruito.

Informazioni: www.domusantiqua.ch

● Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 28 agosto 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 3 azione Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Abbonamenti e cambio indirizzi tel +41 91 850 82 31 lu–ve 9.00 –11.00 / 14.00 –16.00 registro.soci@migrosticino.ch
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Redazione
Silini (redattore responsabile)
Sala

Tentazioni di salumeria italiana

Attualità ◆ Cosa c’è di meglio di qualche fetta di bresaola Beretta essiccata all’aria di montagna per regalarsi un piatto fresco, leggero e nutriente?

Il prolungarsi dell’estate invoglia a concedersi piatti rinfrescanti che non appesantiscano troppo la digestione e lo stomaco. Un buon carpaccio di bresaola è sicuramente un’ottima scelta per coloro che desiderano conciliare gusto e leggerezza. La bresaola Beretta è prodotta nella zona tipica della Valtellina seguendo un’antica ricetta tradizionale e si fregia del marchio IGP (Indicazione Geografica Protetta). È ricavata usando una delle parti più pregiate della coscia di manzo, la punta d’anca, un taglio che permette di ottenere un prodotto finale fragrante, di colore rosso vivo e con la caratteristica striatura di grasso all’interno della carne.

Dopo un’accurata selezione della carne, essa viene immersa in una miscela di sale e spezie per almeno due settimane per permettere al taglio di acquisire la sua tipica e distintiva nota aromatica. Trascorso questo lasso di tempo, la bresaola viene insaccata in un budello naturale e lasciata stagionare per almeno sei settimane in locali a temperatura e umidità controllate in modo da acquisire la caratteristica consistenza morbida.

La bresaola è fra i pochissimi salumi a non essere prodotto con carne di maiale.

Grazie al suo elevato contenuto di proteine e al basso tenore di grassi, è ideale nell’ambito di una dieta equilibrata e non contiene né glutine né lattosio. È una delizia servita tradizionalmente sotto forma di carpaccio con l’aggiunta di qualche scaglia di parmigiano, rucola e condita con limone e olio. Naturalmente è ottima anche per la preparazione di involtini farciti con formaggio fresco o verdure; per arricchire un tagliere di affettati misti oppure anche tagliata a striscioline e usata per condire risotti e paste.

Una lunga tradizione

La bresaola ha origini antichissime (1400) e nasce nelle Alpi per poi diffondersi soprattutto nelle regioni della Valtellina e Valchiavenna per la necessità di conservare le carni per lunghi periodi. Fino alla fine del 1800 rimane una produzione locale, per poi diffondersi agli inizi del 1900 nel resto d’Italia grazie alla nascita di laboratori di trasformazione. Si ritiene che il nome derivi da «Brasa» (brace), poiché un tempo i locali per l’essiccazione venivano riscaldati con dei bracieri.

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• 150 g di bresaola

• 200 g di formaggio fresco al naturale

• 1 cucchiaino d’olio d’oliva

• ½ cucchiaino di succo di limone

• un poco di scorza di limone

• ca. 2 punte di coltello di pepe di Cayenna

• sale

• 20 g di rucola

Preparazione

Mescola il formaggio fresco con quasi la metà dell’olio e il succo di limone. Aggiungi un po’ di scorza di limone grattugiata e condisci con pepe di Cayenna e pochissimo sale. Distribuisci il formaggio fresco aromatizzato sulle fette di bresaola, aggiungi qualche foglia di rucola e arrotola le fette. Condisci le fette arrotolate con l’olio rimasto e cospargi con un pizzico di pepe di Cayenna

Ristorante di S. Antonino

Novità ◆ Il Ristorante Migros del Centro S. Antonino propone alcuni sushi e poke bowl preparati freschissimi ogni giorno

Per la gioia degli amanti della cucina del Sol Levante, da qualche giorno il Ristorante Migros di S. Antonino propone ai propri avventori alcune specialità di sushi e poke bowls preparate dal sushi corner situato all’interno del supermercato. Tutte le

proposte sono confezionate quotidianamente da personale specializzato in cucina asiatica utilizzando prodotti di qualità attentamente selezionati. La scelta annovera, per quanto attiene le poke bowl: spicy salmon, con salmone, riso, mango, edamame, po-

modorini; zukedon, con riso, salmone, tonno, gamberetti, avocado, edamame, sesamo e yamakake, una bowl con riso, tonno, avocado, mango, erba cipollina, sesamo e salsa yamakake. Chi preferisce i sushi ha invece la possibilità di optare tra diverse golo-

se proposte sotto forma di futomaki, uramaki, nigiri e hosomaki, a scelta con salmone, tonno, verdure diverse, gamberetti o uova di pesce. Insomma, chi cerca qualcosa che sia al contempo gustoso, sano e leggero ha solo l’imbarazzo della scelta durante la

propria pausa pranzo. Tutte le pietanze sono preparate rispettando le norme igieniche più severe come pure il mantenimento della catena del freddo in ogni fase della lavorazione. In questo modo potete godervi la vostra specialità preferita in tutta tranquillità.

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Involtini di bresaola con formaggio fresco al limone

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Reportage ◆ Quarta e ultima puntata del nostro viaggio all’interno della filiera del cioccolato, che ci porta laddove viene gestito e smistato

Novità dell‘autunno!

Scopri ora i nostri pezzi forti stagionali!

Una volta tornati da Lucerna (v. «Azione 10 luglio 2023), ci aspetta un’ultima avventura, non più tra le coltivazioni di Cacao della Costa d’Avorio (v. «Azione» del 3 aprile 2023), né tantomeno in uno zuccherificio elvetico (v. «Azione» 15 maggio 2023).

In questo percorso ci attende, a Suhr nel Canton Argovia, un enorme centro logistico delle aziende di distribuzione delle Migros, il quale accoglie l’intero assortimento Food, che viene poi smistato per la consegna alle oltre settecento filiali.

Conosceremo quindi il percorso finale delle tavolette di cioccolato Côte d’Ivoire dall’interno dei magazzini, fino all’esposizione sugli scaffali.

Quando l’organizzazione

è tutto

Sei alla cassa della tua Migros e lo scanner fa un «bip!», Cosa significa? Due cose: la prima è che il prezzo dell’articolo viene aggiunto al tuo conto, e la seconda che la cassa segnala al sistema della filiale che c’è un articolo in meno. La sera il sistema crea un elenco di tutti gli articoli mancanti e li trasmette alle aziende di distribuzione della Migros. Una di esse si trova per l’appunto a Suhr, nel canton Argovia.

Le tavolette di cioccolato

Côte d’Ivoire, dopo tanta strada, giungono sugli scaffali per donare i veri sapori del cacao combinati a gusti unici

Ogni giorno arrivano qui da tutte le direzioni tonnellate di prodotti secchi freschi e bibite, circa la metà su rotaia, il resto su gomma. Se i produttori non mandassero i loro articoli qui ma direttamente alle settecento filiali Migros, ogni mattina si creerebbe un infinito ingorgo di camion, e ne verrebbe scaricata solo una piccola parte. I camion Migros vengono così mandati prima a Suhr e, di lì, verso le singole filiali, solo con il rifornimento preciso che esse hanno ordinato.

Nel caso del cioccolato Frey, il viaggio dalla fabbrica è molto breve perché questa si trova nel villaggio di Buchs. La locomotiva di manovra elettrica di tipo Alstom H3 deve fare sì e no una curva per portare il con-

voglio nell’enorme padiglione ferroviario di Suhr. Le europalette vi vengono scaricate con un grande carrello elevatore, munito di forche così lunghe che di palette può sollevarne due.

«Per prima cosa controlliamo la merce e la spariamo», spiega l’addetta alla logistica Melanie Perren, accanto alla quale ora si impilano le palette. Come sarebbe «la spariamo»?

Perren ride: «Vuol dire che scansioniamo i codici a barre sulle etichette». Su di esse si può leggere quante scatole ci sono sulla paletta. Tutto torna: 9 strati con 48 scatole, in ciascuna delle quali ci sono 20 tavolette di cioccolato. Alla guida di un transpallet giallo, Perren curva decisa – la bionda coda di cavallo che ondeggia allegramente avanti e indietro – fino a raggiungere l’impianto di movimentazione sul quale poggia la paletta. Tramite spesse catene a maglia l’impianto sposta la merce indietro di qualche metro, dove viene poi spinta su un’altra catena a nastro, un po’ come al check-in di un aeroporto. «Ora la paletta va automaticamente in uno dei nostri magazzini con scaffalature a grandi altezze. Lì di palette simili ce ne stanno 22mila».

Volteggiando sui trasloelevatori

Nel capannone, alto 30 metri, ci sono tre trasloelevatori – macchinari per metà ascensori e per metà carrelli elevatori – che sollevano dai convogliatori a catena le palette in entrata per sistemarle, con un sonoro sibilo, da qualche parte lassù in alto negli sterminati scaffali. «È un deposito caotico – dice Djellza Saciri, una collega di Melanie Perren – il sistema usa il primo spazio utile in base alle dimensioni della paletta». Gli imponenti macchinari stoccano e smistano merci non solo in entrata ma anche in uscita: ogni volta che una filiale ordina qualcosa, la paletta corrispondente viene prelevata dal magazzino e portata alla depallettizzazione, dove una macchina chiamata «Layer Picker» fa esattamente ciò che promette il suo nome: preleva (o sovrappone) uno strato della paletta dopo l’altro.

Il dolce e lungo nastro

Le scatole e i contenitori con cioccolato, biscotti e tè freddo finiscono poi uno a uno sui nastri e dopo pochi me-

tri vengono «sposati» su un tray, un vassoio provvisto di codice a barre. «Così il sistema sa cosa c’è sul tray », spiega Djellza Saciri. Dato però che a volte su una paletta finiscono più articoli di quanti ne servano, c’è un ulteriore magazzino dove i tray sono messi temporaneamente da parte. Anche qui, dei robot per scaffalature sono continuamente impegnati a infilare e sfilare merce.

su una nuova paletta, dove sono impilati con razionalità: come avviene con la borsa della spesa, sotto vanno le cose pesanti e sopra quelle leggere, e anche questo viene effettuato automaticamente. Il computer conosce infatti tutte le dimensioni e tutti i pesi. Tuttavia resta ancora molto da fare per gli operatori e le operatrici umane.

Una piccola quota per un grande futuro

Dopo lunghi e tortuosi percorsi, i singoli articoli dell’ordine si ritrovano

«Il nostro compito consiste soprattutto nell’eliminare i problemi», ride timidamente Melanie Perren. «Io però sono anche responsabile di die-

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Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 28 agosto 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 14

Sperimentare la vita e il lavoro in fattoria

Giovani ◆ L’associazione Agriviva da più di settant’anni offre la possibilità ai ragazzi tra i 14 e i 25 anni di essere ospitati in una fattoria svizzera con l’obiettivo di favorire incontri arricchenti tra le nuove generazioni e le famiglie contadine

Può essere un’idea da tenere a mente per la prossima estate o da mettere in pratica per chi dovesse avere del tempo a disposizione durante l’anno, quella proposta da Agriviva, un’associazione attiva a livello svizzero che si occupa da un lato di cercare aziende agricole che siano interessate a ospitare ragazzi e dall’altro giovani che siano interessati a vivere un’esperienza in fattoria, solitamente in un ambiente familiare.

Una valida opportunità per entrare in contatto con la natura e immergersi in una realtà altra rispetto alla propria, prendendo parte alla vita quotidiana di una famiglia contadina, sperimentandone il ritmo, sicuramente diverso da quello cui siamo abituati, scoprendo una varietà di lavori che probabilmente non si conoscono, come pure una zona del nostro Paese dove magari non si è mai stati. Le famiglie ospitanti rispecchiano in tutto e per tutto la varietà agricola svizzera: ci sono fattorie in montagna e nelle valli, nella parte tedesca e in quella francofona – offrendo così ai ragazzi ticinesi interessati un modo alternativo per perfezionare una lingua nazionale – come pure in quella italiana, per chi preferisse vivere l’esperienza più vicino a casa. I ragazzi – tra i 14 e i 25 anni – che volessero partire alla scoperta della vita rurale, possono cercare loro stessi la destinazione che fa al caso proprio direttamente sul sito dell’associazione. Oltre alla regione, si può per esempio scegliere una struttura che ospita animali oppure una famiglia in cui sono presenti dei bambini. Nel 2022 in tutta la Svizzera sono stati 1083 i giovani che hanno colto questa opportunità.

Due gemelle ticinesi di sedici anni ci raccontano la loro esperienza in due fattorie della Svizzera tedesca

Martina e Céline, due gemelle sedicenni che quest’estate hanno colto l’opportunità offerta da Agriviva, ci hanno detto di aver cercato una famiglia che parlasse tedesco, così da poter, anche, migliorare nella lingua. Quello linguistico non è però stato il solo criterio di scelta: «abbiamo guardato le settimane prenotate per vedere quali famiglie avessero più bisogno», spiegano. «La famiglia che mi ha ospitato non aveva prenotazioni per tutta l’estate, il che vuol dire che non avrebbe avuto nessuno che sarebbe andato ad aiutarli, ed è in base a questo elemento che l’abbiamo scelta», spiega Céline, che è stata per due settimane in una fattoria nel Canton Zurigo. Lei e la sorella erano da tempo a conoscenza di questa opportunità: «C’è una signora del nostro paese, a cui siamo molto affezionate, la cui sorella ha una piccola fattoria con pochi animali. È da quando eravamo bambine che d’estate vediamo che ospita ragazzi dalla Svizzera interna o francese», spiega Martina, che ha vissuto la sua esperienza in una grande fattoria del Canton Berna, gestita da una giovane coppia. Sono infatti oltre settant’anni che Agriviva adempie l’obiettivo di favorire incontri arricchenti tra le nuove generazioni e le famiglie contadine, costituendo un «ponte» tra città e campagna, consumatori e produttori, tecnologia e natura, culture e tradizioni differenti, come

pure tra le varie aree linguistiche. Oggi l’associazione, che può contare sul sostegno di Confederazione, Cantoni, organizzazioni contadine e sponsor, come pure del settore dell’istruzione, ha un’organizzazione decentrata in 15 uffici di collocamento distribuiti sul territorio nazionale e situati presso le amministrazioni cantonali o le unioni contadine. Nel nostro Cantone, da oltre sei anni è l’Unione Contadini Ticinesi a essere responsabile dell’ufficio di collocamento per il servizio Agriviva, gestito in precedenza dalla Sezione Agricoltura del Canton Ticino.

C’è sempre bisogno di aiuto

Come detto in apertura, è possibile vivere questa esperienza lungo tutto l’arco dell’anno. Le aziende agricole hanno infatti sempre bisogno di manodopera. La durata va dalle due alle otto settimane; al di fuori delle vacanze estive – che restano ovviamente il periodo più gettonato – è possibile prenotare anche per una sola settimana. L’aiuto nei lavori quotidiani, molto apprezzato dalle famiglie contadine, viene remunerato con vitto e alloggio e una paghetta, che va dai dodici ai venti franchi a giornata di lavoro, a dipendenza dell’età. I possibili lavori da svolgere sono tantissimi, visto che seguono l’attività quotidiana di una famiglia contadina. Si passa dall’aiutare in stalla, per esempio abbeverando i vitelli o dando da mangiare alle capre, dal raccogliere la frutta a fare il fieno, dal collaborare nelle faccende domestiche all’accudire i bambini o produrre prodotti per il negozio della fattoria e molto altro ancora. Sul sito dell’organizzazione,

nel profilo della famiglia, è possibile vedere i settori lavorativi con i quali ci si potrà eventualmente cimentare.

«Io mi alzavo verso le sette, preparavo la colazione e poi andavamo in stalla, dove pulivamo il fieno delle mucche dallo sporco prima di dare loro da mangiare e di dare il latte ai vitellini. Fatto ciò, raccoglievo le uova delle galline e davo da mangiare alle pecore. Il pomeriggio portavamo le mucche al pascolo», racconta Martina, che dopo pranzo aveva due ore di tempo libero. La famiglia, infatti, è tenuta a controllare che il giovane che ospita non lavori più di 40-48 ore la settimana (a seconda dall’età). «Oltre a ciò, stavo molto con il figlio di casa, di due anni, perché in una grande fattoria sono molti i pericoli per un bambino di questa età, oppure aiutavo a cucinare, visto che il tempo a disposizione per farlo non era molto», continua.

La sveglia di Céline, invece, la mattina suonava già alle 4:30: «Per prima cosa andavamo a mungere le mucche così da poter portare il latte ai bambini per la colazione. Dopo il primo pasto della giornata svegliavamo gli animali e verso le sette avevo un attimo di libero. Il compito successivo era quello di dare latte e cibo agli animali. Dopodiché ogni giorno c’erano delle attività un po’ diverse da fare, per esempio cambiare la locazione del pascolo. La mia giornata lavorativa si concludeva col chiudere gli animali in stalla la sera, dar loro nuovamente da mangiare e mungere».

Far parte della famiglia

Sia Martina che Céline si sono trovate molto bene con la famiglia che

le ha ospitate. «Ho apprezzato che la famiglia mi coinvolgesse molto; mi hanno portata a fare delle gite con loro, per esempio colazione in un altro Cantone», racconta Martina. «Anche la mia famiglia mi includeva in tutto. Qualsiasi cosa facessero – andare in piscina o partecipare ai compleanni dei compagni dei bambini – era scontato che ci fossi pure io e il fatto di sentirmi parte della famiglia è stata per me una delle cose più belle», le fa eco Céline. Ma, per le ragazze, com’è risultata la vita in fattoria? «Io me la sono sempre immaginata così – esordisce Céline – una cosa che però ho sentito come molto forte è stata la percezione di far parte di una famiglia che ha molto poco e del fatto che, di conseguenza, se tu in quel momento non aiuti, il giorno dopo ti mancherà qualcosa, anche perché, nel caso delle persone che mi ospitavano, tutto quello che si consumava derivava dai propri animali. Questo è qualcosa di completamente estraneo alla realtà a cui siamo abituati». Impressione, quella appena esposta, confermata anche da Martina.

La lattuga non è nel frigo

Un po’ di difficoltà le gemelle l’hanno pure riscontrata a livello di comprensione linguistica, visto che entrambe le famiglie ospitanti non parlavano Hochdeutsch. «Loro capivano me ma io faticavo a capire loro, anche se devo dire che dopo qualche giorno le parole ti entrano in testa, almeno quelle principali», commenta Céline. «A me tutto sommato è comunque servito a livello lingui-

stico. Con la ragazza, con cui andavo molto d’accordo, parlavo spesso in inglese, visto che capivo poco lo Schweizerdeutsch» aggiunge Martina. Nonostante qualche difficoltà, il bilancio dell’esperienza è positivo: «A me è piaciuta tantissimo, la voglio sicuramente rifare e la consiglierei a chiunque. Si fatica, ovviamente, ma ti permette di immergerti in un altro modo di vivere e di sperimentare cosa vuol dire non avere certe cose che noi diamo per scontato.

Il bagnoschiuma, per esempio, non è quello della tua marca preferita, ma per fare il bagno usi una saponetta fatta dai ragazzi del posto. Oppure, se per pranzo vuoi la lattuga non la trovi già lavata nel frigo ma la devi andare a raccogliere. A me tutto ciò è servito molto», racconta entusiasta Martina. «A me ha fatto molto riflettere vedere delle persone che, pur vivendo dignitosamente, non fanno la mia stessa vita, nonostante lavorino più faticosamente e duramente di noi. È aumentata la mia consapevolezza di quello che ho e della fortuna che abbiamo», conclude Céline.

Un bilancio positivo confermato dalle testimonianze riportate sul sito di Agriviva, nelle quali altri ragazzi che hanno provato questa esperienza raccontano del bello di sentirsi utili, imparare nuove cose, conoscere persone diverse e anche nuovi aspetti di sé.

Informazioni

www.agriviva.ch

Unione Contadini Ticinesi,

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 28 agosto 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 7 SOCIETÀ
In Pièza 12, 6705 Cresciano, tel. 091 851 90 90, carolina.pedretti@agriticino.ch
Segretariato agricolo,
Con il lavoro in fattoria si può scoprire l’affascinante mondo degli animali. (Famiglia Coretti Marisa, Plaun da Lei) I giovani possono sperimentare la vita rurale in zone di montagna. (Famiglia Guntern-Frischknecht, Laax)

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La natura e il passato della Bregaglia

Maloja ◆ Sulle tracce dei contrabbandieri, una gita per raccogliere indizi, esplorare il territorio e conoscere la storia

Una passeggiata nella foresta, ma anche un percorso didattico sulle orme dei contrabbandieri, alla scoperta di luoghi affascinanti e a «caccia di un tesoro». Questo, in poche parole, è il «percorso dei contrabbandieri», un itinerario didattico in Bregaglia, a Maloja, ideale da percorrere nel periodo da giugno a ottobre, come indicato nel pieghevole illustrativo di Bregaglia Engadin Turismo, promotore e ideatore dell’interessante proposta.

Un tema, il contrabbando, ricorrente nelle fasce di confine della Svizzera italiana, le quali sono ricche di storie e aneddoti a esso legati. Vicissitudini che hanno lasciato tracce indelebili nella memoria della gente e anche sul territorio, divenendo lo spunto per quest’allettante esperienza adatta alle famiglie: «Dagli inizi del XIX e fino a buona parte del XX secolo, il contrabbando fu una fonte importante di reddito per la popolazione, specialmente per quella della Val Bregaglia e dell’Engadina. Fu scambiata una vasta gamma di prodotti, tra cui in prevalenza alimentari e bevande», leggiamo nella presentazione. Merce che era oggetto di commercio con la Val Malenco (Italia), e che rese più movimentata e avventurosa la vita alla popolazione di queste valli.

A spingere verso quest’attività erano motivi molto semplici: abbondanza o carenza di alcuni beni di prima

necessità, che divennero articoli più o meno interessanti anche in seguito all’applicazione di dazi doganali, legislazioni, imposte, divieti o sanzioni.

Il «Percorso dei Contrabbandieri – Capel» esiste in questo formato dal 2015 (prima c’era un percorso avventura) e parte dai 1790 metri d’altitudine, nei pressi di Villa Baldini a Maloja, a pochi passi dalla diga per il controllo delle piene di Orden, dove si trova anche una tavola informativa. Dopo aver superato lo sbarramento artificiale costruito nel 1971 (e testato con successo durante l’alluvione del 1987), si raggiunge l’inizio del percorso, segnalato con il simbolo del Capel (il cappello). Ad accompagnare i visitatori ci sono storie, nozioni e tanta natura, oltre ai cinque personaggi (vedi cartellonistica) che, nei panni dei contrabbandieri, svelano una parte della loro vita lungo il chilometro e trecento metri che conducono al Lägh Bitabergh, luogo d’arrivo.

I cinque si chiamano Maiöc, Vito, Marchetto, Elda e Raffaele, e hanno sviluppato proprie conoscenze, abilità e astuzie per svolgere questo «mestiere» evitando i pericoli. Uno è forte e abile con il tempo, l’altro conosce tutti i nascondigli, mentre Marchetto sa come orientarsi. Tra di loro c’è anche chi padroneggia le erbe e loro proprietà, mostrando tanta sapienza ai visitatori in occasione di alcune delle diciassette postazioni disseminate

lungo il percorso, caratterizzato anche da una stupenda foresta di larici. La percorrenza stimata è di un’ora e mezza circa, a cui si deve aggiungere il tempo necessario per il rientro, che può avvenire ripercorrendo la stessa via oppure continuando la gita e completando un circuito sulla rete pedestre esistente. Non mancano dei punti con ampia vista sulla Bregaglia, oppure le possibilità per una sosta lungo il tragitto, che presenta anche dei passaggi impegnativi, come ripide salite (in totale 120 metri di dislivello positivi), qualche discesa, ponti so-

spesi o passerelle su tronchi di legno. Le postazioni sono differenti e anche partecipative, dato che bisogna per esempio cercare le sette merci più importanti del contrabbando (nascoste nel bosco, nel raggio di una decina di metri), le quali saranno poi fondamentali per la ricerca del nascondiglio alla fine del percorso. Elda e Raffaele dispensano poi informazioni sulle erbe, sia quelle commestibili, utilizzate per placare la fame durante il viaggio, sia quelle medicinali, impiegate anche dai viandanti per curarsi le piccole ferite.

Tutto il piacere e l’intensità della tartare in porzioni

Interessanti, nei pressi di una suggestiva postazione panoramica, anche i consigli di Maiöc. Il simpatico personaggio ricorda come il tempo possa mutare molto velocemente in montagna, diventando un pericolo se lo si sottovaluta. Lui e i contrabbandieri dovevano pertanto essere capaci di osservare la natura, per interpretare correttamente i suoi segnali.

Indizi che si possono ricavare osservando le nuvole, il colore del cielo, il fumo dei falò, le api, le rondini, i moscerini o i ragni, ma anche la nebbia. Nebbia che in determinate condizioni, soprattutto nelle mattine autunnali, crea un fenomeno spettacolare in Bregaglia, formando dei banchi allungati che ricordano un serpente, il quale non si ferma, ma sovente «striscia» verso il passo del Maloja. Un elemento che può anche dissolversi in fretta e al di sopra del quale spesso splende il sole.

Una volta giunti al lago Bitabergh (a 1855 m di altitudine), un’ulteriore tavola informativa verifica le conoscenze apprese durante la gita. Con cinque domande legate a quanto visto e letto lungo il cammino s’ottengono le coordinate per raggiungere il «tesoro», abilmente nascosto nelle vicinanze del lago.

Informazioni

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Il dolore «invisibile» della fibromialgia

Medicina ◆ Una patologia reumatica che comporta mali cronici diffusi in tutto il corpo e che, socialmente, viene ancora troppo stigmatizzata invece che compresa

«Una decina di anni fa ho iniziato ad avvertire dolore e stanchezza frequenti; senza sapere bene cosa mi stesse accadendo: avvertivo dolori, vertigini, spossatezza, mancanza di forza. All’inizio non capivo da cosa venissero questi dolori e sentivo il bisogno di riposare molto. Pur riposando, mi sono però resa conto che quello stato di malessere non passava mai. Anzi, aumentava. I controlli e gli esami del sangue erano quasi sempre nella norma e per anni mi sono sentita dire che ero depressa oppure che avevo problemi con il mio compagno e li somatizzavo. La diagnosi di fibromialgia è arrivata dopo sette anni e oggi vorrei sottolineare che invece non bisogna perdere tempo: è importante prendere consapevolezza e agire per evitare peggioramenti repentini». Giulia (nome noto alla redazione) è una donna di quarant’anni alla quale è stata diagnosticata la fibromialgia che il reumatologo Mauro Lucini definisce come «una malattia che rientra nella branca delle patologie reumatiche: termine generico per indicare più di duecento patologie che interessano l’apparato locomotore quali ossa, articolazioni e parti molli».

Ancora oggi si tratta di una malattia estremamente debilitante come ai tempi in cui aveva colpito la famosa artista messicana Frida Kahlo. Per questo, va presa molto sul serio. «Statisticamente in Svizzera sono più di un milione e 150mila le persone che soffrono di dolori cronici. Fra queste vi sono un numero superiore alle 500mila che soffrono di fibromialgia, più donne che uomini, contando coloro che hanno ricevuto una diagnosi e quelle ancora non diagnosticate», prosegue Lucini che, di fatto, ammette quanto sia complicato giungere a una diagnosi («che avviene per esclusione di altre patologie con alcuni dei sintomi analoghi») data la natura della sindrome fibromialgica che si caratterizza per avere una moltitudine di sintomi: «Quelli prevalenti e sempre presenti sono dolore cronico diffuso, astenia e disturbi del sonno, disturbi cognitivi, ansia, depressione, alterazioni visive, vertigini. Ma possiamo riscontrare anche cefalea, emicrania, dolori addominali, colon irritabile, parestesie (ndr : condizione caratterizzata da un’alterata percezione della sensibilità ai diversi stimo-

Qualità

li sensitivi), dolori al torace, difficoltà di concentrazione e disturbi della sfera affettiva».

Dal canto suo, Giulia spiega che dolore cronico e stanchezza non lasciano mai il malato di fibromialgia: «Dolore e stanchezza continui annientano fisicamente, psicologicamente e mentalmente, con una grande ricaduta sulla concentrazione e sulla memo-

Sessant’anni contro i reumatismi

Quest’anno la Lega ticinese contro il reumatismo raggiunge i sessant’anni dalla sua fondazione. Per l’occasione, sul territorio, sarà dato risalto all’anniversario con un ciclo di conferenze informative dal titolo «Il dolore: un mostro da gestire». Per ottenere maggiori informazioni è possibile consultare il sito: www.reumatismo.ch/ti/ manifestazioni-e-conferenze .

A questo proposito, giovedì 14 settembre 2023, dalle 14 alle 17, si terrà la giornata della salute al Palazzo dei Congressi di Lugano, aperta al pubblico, che tratterà il tema «Vivere il dolore: fibromialgia e altre malattie del dolore».

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ria tanto da indurre alla depressione. Allora non si trovano le parole, i concetti sfuggono, non ci si ricorda di che si sta parlando, le parole si inceppano. Sono sintomi che riducono notevolmente la qualità della vita, mettono a dura prova le relazioni personali e compromettono la capacità lavorativa, tutto in modo destabilizzante».

Il dottor Lucini conferma che sulle cause scatenanti non c’è ancora chiarezza ma, formulata la diagnosi, l’approccio è di tipo multimodale: «La fibromialgia è associabile sia alla sfera dei dolori fisici sia a quelli psichici: la causa scatenante non è unica e comprende un ampio spettro che si riflette anche sulle terapie proposte, non esclusivamente farmacologiche». Quindi, sempre secondo il reumatologo: «La malattia va affrontata su diversi fronti che devono essere mirati ad alleviare i dolori affinché non si cronicizzino in modo drammatico. L’obiettivo è di migliorare la qualità di vita con diversi approcci come uno stile di vita sano e sereno (ma soprattutto attivo), l’attività sportiva, la terapia farmacologica, le terapie adiuvanti che attingono alla medicina complementare con trattamenti di agopuntura, tecniche di rilassamento e via dicendo. Senza tralasciare i grandi benefici di un supporto psicologico».

Supporto che la psicoterapeuta Giulia Raiteri vede ben inserito in quella che definisce «una sindrome strettamente correlata al funzionamento della psiche, dovuta alla comorbidità con vari disturbi mentali come quelli d’ansia e depressivi». Ne traccia l’evoluzione: dalla sua definizione di disturbo psicosomatico all’essere oggi riconosciuta e annoverata nelle «malattie da dolore cronico e persistente. È innegabile la correlazione fisiologica del disturbo perché il dolore è oggettivo, non rilevabile da strumenti diagnostici come radiografia o risonanza magnetica, ma diagnosticabile dal reumatologo attraverso la sollecitazione al dolore dei 18 tender points. Invece, dal punto di vista psicologico il corpo esprime un conflitto complesso, interno e spesso non conscio al paziente, il che rende la presa a carico della fibromialgia molto articolata su tutti i piani».

Ed è proprio la compresenza di una natura organica e una psicologica, insieme all’assenza di un nesso causale diretto, a rendere questa patologia così complessa e socialmente incomprensibile: «Queste persone si trovano a fare i conti con uno stigma sociale, in quanto il dolore che provano non è diagnosticabile come altre patologie di carattere reumatico e risulta poco comprensibile nella sua dinamica.

Il dolore “fantasma” della fibromialgia, nella sua connotazione fisiologica e psicologica, porta spesso a un pregiudizio collettivo verso chi ne soffre che rischia talvolta di essere considerato come una persona che lamenta dei sintomi senza avere “un reale problema”». Il che aumenta considerevolmente i livelli di stress, frustrazione e senso di impotenza di chi è già di per sé molto provato dalla malattia: «Fin dalla prima infanzia, siamo abituati a cercare contatto e approvazione nell’altro. Quando il paziente sviluppa la fibromialgia, va alla ricerca dello stesso riconoscimento nell’ambiente circostante, come fosse una prova della propria sofferenza, restando incastrato in questa dinamica. Allora, è importante sia accompagnato nel percorso votato al prendersi carico della propria patologia, senza aspettarsi che gli altri la riconoscano. Significa cominciare a scardinarla dalla base, lavorando sull’autenticità e sulla ricerca dei propri bisogni primari senza sprecare energie nel tentativo di essere approvati dall’ambiente circostante, spesso non disponibile a ciò». Un lavoro che necessita un lungo periodo di attuazione anche nel rispetto dei «tempi fisiologici e psicologici del paziente stesso. L’obiettivo della terapia è finalizzato a strutturare la personalità dei pazienti, creando una stabilità interna, mentre si lavora con molta calma sulla gestione dei sintomi e sulla struttura sovrastante (quella più visibile ed evidente). Si crea coscienza nell’individuo e nel contesto famigliare e, dove sia possibile, si sollecita e sviluppa anche la relazione col proprio corpo: cercando il benessere e il piacere delle sensazioni corporee ed evitando che esse vengano sacrificate e annullate dalle richieste eccessive, ingiuste o arbitrarie provenienti dal contesto esterno».

La psicoterapeuta ricorda l’importanza delle terapie complementari che aiutano a «vivere nel qui e ora. È nel presente che si riconoscono i bisogni della persona che deve imparare a relazionarsi col proprio corpo e con le sue necessità primarie, per sviluppare la conoscenza e la confidenza verso sé stessa». E il dottor Mauro Lucini concorda sul fatto che: «Il successo della presa a carico multimodale dipende parecchio dal grado di comprensione della malattia».

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L’ultima tappa del viaggio del cacao Dopo essere passate dai capannoni di Suhr, le tavolette «Côte d’Ivoire» giungono nelle mani degli amanti del cioccolato

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Foglie da diavolo, petali da angelo Adatta a vivere nei pressi degli stagni, la spirea rossa regala contrasti cromatici grazie al fogliame scuro e ai fiori chiari

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Il rischio di mistificare la realtà

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Ecco come preparare una cornice atipica: con delle bottigliette di vetro e un po’ di spago decoreremo la casa con fiori in sospensione

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Fotografia ◆ Non solo in politica, ma anche in merito a temi centrali che riguardano riflessioni sociologiche: basta poco per trasformare un reportage in propaganda

Prendendo spunto dalla campagna per le prossime elezioni federali, abbozziamo una riflessione sui possibili legami tra fotografia e politica. E più precisamente in merito al loro legame, che si è concretizzato a partire da inizio Novecento, quando la fotografia ha cominciato a ricoprire un ruolo importante nell’ambito della comunicazione sociale, e se n’è colta la capacità nel determinare e orientare opinioni politiche. Proviamo allora a esaminare in che modo e sotto quali forme si manifesta tale legame, partendo proprio dalla situazione di una campagna elettorale. Dove la fotografia affianca – e se possibile, rinforza – i messaggi formulati verbalmente illustrando, in modo semplice, con immagini di facile lettura, i temi di cui le formazioni in lizza si fanno portatrici.

Una campagna elettorale con un’alta posta in gioco, come è il caso per delle elezioni federali o anche solo cantonali, non può prescindere da una regia professionale – composta da uno o più specialisti della comunicazione di massa – atta a proporre un’immagine che sia omogenea (per stili di ripresa, tagli di luce, colori, sfondi, eccetera) e il più possibile accattivante nella proposizione dei contenuti che una data formazione politica vuole trasmettere, caratterizzandola per poterla facilmente distinguere dalle campagne concorrenti.

Il suo obiettivo è sostanzialmente d’ordine propagandistico: il messaggio che veicola in fondo viene trattato come se fosse un qualsiasi prodotto di consumo da vendere, nel nostro caso al cittadino-elettore.

Al di fuori di un contesto elettorale, ma sempre nel segno della propaganda, possiamo includere anche certa fotografia documentaria che aspira a denunciare realtà problematiche, disturbanti – quando non propriamente illegali –, si tratti di realtà a noi lontane o semplicemente celate al nostro sguardo.

Se ben realizzati, questi servizi fotogiornalistici possono divenire dirompenti e – generando forti movimenti d’opinione – andare a incidere sull’andamento stesso delle realtà messe in luce. Diversi approfondimenti simili sono entrati a far parte della storia della fotografia: servizi che hanno trattato temi legati al lavoro, alla marginalità, alle guerre, ai dissesti ambientali, a soprusi e violazioni di vario genere. Come è purtroppo accaduto a parecchi giornalisti, va evidenziato che non pochi fotografi sono stati ammazzati proprio perché, con il loro lavoro di denuncia, hanno ostacolato lo svolgersi di logiche criminali. Alcuni di questi reportage, o lo-

ro singole immagini, sono perfino divenuti iconici. Pensiamo al lavoro di Salgado sulle miniere a cielo aperto in Brasile – tanto duro nei contenuti quanto sontuoso nella forma. O all’immagine dell’uomo in piedi davanti a quattro carri armati in Piazza Tienanmen. Oppure alla foto della ragazzina vietnamita che, nuda e disperata, fugge dopo un bombardamento al napalm. O, ancora, a quelle scattate all’interno dei campi di sterminio nazisti nei giorni della loro liberazione… Sono certo che di alcune di queste immagini, avete voi stessi memoria, e forse anche di numerosi altri esempi. Tali fotografie, in virtù della loro grande forza emblematica, acquisendo quel valore simbolico, sono divenute parte del nostro immaginario collettivo .

Il passo dalla propaganda alla mistificazione può essere breve, e anche se quest’ultima trova terreno fertile soprattutto nei regimi totalitari, non si può che constatarne l’uso anche nell’ambito delle nostre preziose, ma sempre più fragili, democrazie. Magari – per tornare al discorso

iniziale – proprio nel contesto di una competizione elettorale. Ma, di certo, non solo lì.

Con mistificazione intendiamo il lavoro di falsificazione della realtà attraverso l’alterazione consapevole della sua messa in scena (nel nostro caso, fotografica). Un modo di operare che, ipotizziamo, viene adottato quando alla posta in gioco viene attribuita una tale importanza da giustificare l’annichilimento della verità, il cui valore etico dovrebbe, invece, impregnare la comunicazione nei suoi vari aspetti.

Per quanto riguarda le immagini, è possibile alterarle intervenendo sui negativi, sulle stampe o, oggi, più facilmente, in postproduzione con Photoshop, per eliminare o aggiungere elementi che ne modificano il senso. Ma la falsificazione di un’immagine si può agevolmente operare anche trasformando con poche parole, con una semplice didascalia, la sua possibile lettura, la comprensione dei fatti descritti, l’identificazione del luogo e del tempo in cui sono accaduti.

Le rovine di un edificio distrutto da un terremoto, poniamo, con una breve frase possono diventare quelle di un edificio bombardato in modo criminale in un contesto di guerra. E così via. Chissà quante volte c’imbattiamo in questa sorta di falsificazione senza nemmeno rendercene conto. E purtroppo, questo problema di comunicazione mistificata oggi si è complicata ulteriormente con il progressivo affermarsi delle intelligenze artificiali nel processo di produzione d’immagini, capaci già da ora di creare ex novo e con grande perizia realtà inesistenti.

Un altro vivace punto d’incontro tra politica e fotografia lo troviamo frequentando sale di musei e di gallerie d’arte, quegli spazi in cui sempre più spesso vengono esposti anche lavori di fotografia contemporanea. Figlia di un’epoca portata in particolare alla critica dei modelli culturali e comportamentali dominanti, la fotografia che oggi raccoglie maggior consenso e legittimazione nel mondo dell’arte – fino a essere riconosciuta come uno tra i media più importanti

di quel contesto – è quella che affronta le questioni definite come centrali nelle nostre società dalla riflessione sociologica, politica e filosofica.

Per farne un breve elenco, non di certo esaustivo, pensiamo alle questioni relative all’identità, ai generi, alla preservazione ambientale, al pensiero neo – e post – coloniale, alla virtualizzazione della realtà, dei rapporti sociali, oltre a quelle più classiche risultanti dall’analisi dei rapporti di potere, della gestione della violenza, delle marginalità, e così via.

Considerata la specifica creatività caratterizzante questo particolare ambito, come possiamo ben immaginare innumerevoli – e spesso sorprendenti – sono le modalità con cui le tematiche in questione vengono affrontate fotograficamente. E inutile sarebbe volerne fare un – peraltro impossibile – riassunto. Invito invece volentieri il lettore ad approfondire questo genere di fotografia attraverso sue personali letture e visitando con curiosità e attenzione le interessanti mostre allestite regolarmente ormai un po’ ovunque.

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TEMPO LIBERO
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Per gestire gli ordini bisogna ave

Reportage ◆ Quarta e ultima puntata del nostro viaggio all’interno della filiera del cioccolato, che ci porta laddove viene gestito e smistato

Una volta tornati da Lucerna (v. «Azione 10 luglio 2023), ci aspetta un’ultima avventura, non più tra le coltivazioni di Cacao della Costa d’Avorio (v. «Azione» del 3 aprile 2023), né tantomeno in uno zuccherificio elvetico (v. «Azione» 15 maggio 2023).

In questo percorso ci attende, a Suhr nel Canton Argovia, un enorme centro logistico delle aziende di distribuzione delle Migros, il quale accoglie l’intero assortimento Food, che viene poi smistato per la consegna alle oltre settecento filiali.

Conosceremo quindi il percorso finale delle tavolette di cioccolato Côte d’Ivoire dall’interno dei magazzini, fino all’esposizione sugli scaffali.

Quando l’organizzazione

è tutto

Sei alla cassa della tua Migros e lo scanner fa un «bip!», Cosa significa? Due cose: la prima è che il prezzo dell’articolo viene aggiunto al tuo conto, e la seconda che la cassa segnala al sistema della filiale che c’è un articolo in meno. La sera il sistema crea un elenco di tutti gli articoli mancanti e li trasmette alle aziende di distribuzione della Migros. Una di esse si trova per l’appunto a Suhr, nel canton Argovia.

Le tavolette di cioccolato

Côte d’Ivoire, dopo tanta strada, giungono sugli scaffali per donare i veri sapori del cacao combinati a gusti unici

Ogni giorno arrivano qui da tutte le direzioni tonnellate di prodotti secchi freschi e bibite, circa la metà su rotaia, il resto su gomma. Se i produttori non mandassero i loro articoli qui ma direttamente alle settecento filiali Migros, ogni mattina si creerebbe un infinito ingorgo di camion, e ne verrebbe scaricata solo una piccola parte. I camion Migros vengono così mandati prima a Suhr e, di lì, verso le singole filiali, solo con il rifornimento preciso che esse hanno ordinato.

Nel caso del cioccolato Frey, il viaggio dalla fabbrica è molto breve perché questa si trova nel villaggio di Buchs. La locomotiva di manovra elettrica di tipo Alstom H3 deve fare sì e no una curva per portare il con-

voglio nell’enorme padiglione ferroviario di Suhr. Le europalette vi vengono scaricate con un grande carrello elevatore, munito di forche così lunghe che di palette può sollevarne due.

«Per prima cosa controlliamo la merce e la spariamo», spiega l’addetta alla logistica Melanie Perren, accanto alla quale ora si impilano le palette. Come sarebbe «la spariamo»?

Perren ride: «Vuol dire che scansioniamo i codici a barre sulle etichette». Su di esse si può leggere quante scatole ci sono sulla paletta. Tutto torna: 9 strati con 48 scatole, in ciascuna delle quali ci sono 20 tavolette di cioccolato. Alla guida di un transpallet giallo, Perren curva decisa – la bionda coda di cavallo che ondeggia allegramente avanti e indietro – fino a raggiungere l’impianto di movimentazione sul quale poggia la paletta. Tramite spesse catene a maglia l’impianto sposta la merce indietro di qualche metro, dove viene poi spinta su un’altra catena a nastro, un po’ come al check-in di un aeroporto. «Ora la paletta va automaticamente in uno dei nostri magazzini con scaffalature a grandi altezze. Lì di palette simili ce ne stanno 22mila».

Volteggiando sui trasloelevatori

Nel capannone, alto 30 metri, ci sono tre trasloelevatori – macchinari per metà ascensori e per metà carrelli elevatori – che sollevano dai convogliatori a catena le palette in entrata per sistemarle, con un sonoro sibilo, da qualche parte lassù in alto negli sterminati scaffali. «È un deposito caotico – dice Djellza Saciri, una collega di Melanie Perren – il sistema usa il primo spazio utile in base alle dimensioni della paletta». Gli imponenti macchinari stoccano e smistano merci non solo in entrata ma anche in uscita: ogni volta che una filiale ordina qualcosa, la paletta corrispondente viene prelevata dal magazzino e portata alla depallettizzazione, dove una macchina chiamata «Layer Picker» fa esattamente ciò che promette il suo nome: preleva (o sovrappone) uno strato della paletta dopo l’altro.

Il dolce e lungo nastro

Le scatole e i contenitori con cioccolato, biscotti e tè freddo finiscono poi uno a uno sui nastri e dopo pochi me-

tri vengono «sposati» su un tray, un vassoio provvisto di codice a barre.

«Così il sistema sa cosa c’è sul tray », spiega Djellza Saciri. Dato però che a volte su una paletta finiscono più articoli di quanti ne servano, c’è un ulteriore magazzino dove i tray sono messi temporaneamente da parte. Anche qui, dei robot per scaffalature sono continuamente impegnati a infilare e sfilare merce.

Dopo lunghi e tortuosi percorsi, i singoli articoli dell’ordine si ritrovano

su una nuova paletta, dove sono impilati con razionalità: come avviene con la borsa della spesa, sotto vanno le cose pesanti e sopra quelle leggere, e anche questo viene effettuato automaticamente. Il computer conosce infatti tutte le dimensioni e tutti i pesi. Tuttavia resta ancora molto da fare per gli operatori e le operatrici umane.

«Il nostro compito consiste soprattutto nell’eliminare i problemi», ride timidamente Melanie Perren. «Io però sono anche responsabile di die-

Una piccola quota per un grande futuro

A Schweizerhof una tavoletta «Côte d’Ivoire» costa come in qualunque altra filiale, ovvero 2.45 franchi, 50 centesimi dei quali vanno direttamente alle coltivatrici e ai coltivatori della cooperativa Necaayo in Costa d’Avorio. Questa quota si aggiunge ai contributi già esistenti che la Migros eroga per la certificazione. Con queste risorse, in loco sono già state costruite varie opere idrauliche e un ambulatorio che consente a 2500 persone di avere accesso a un’assistenza medica di base.

E nel 2018 è sorta una scuola primaria per 150 bambine e bambini, che permetterà così di mettere a frutto in modo ottimale ulteriori risorse.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 28 agosto 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 14

re la testa su un «transpallet»

ci apprendisti nella logistica: ed è ciò che più mi piace del mio lavoro».

Il sistema, a questo punto, avrà creato una paletta commissionata al meglio, l’avvolge quindi nella pellicola retrattile e la movimenta fino al punto di carico n. 28, dove già l’attende un camion vuoto. Negli ultimi quindici metri torna a operare un essere umano per portare col muletto la paletta sul rimorchio: il motore del camion Iveco si accende e inizia uno dei centocinquanta giri di consegne della giornata: si va a Lucerna, nella filiale Schweizerhof.

Fascino svizzero

Dopo un lungo viaggio, il cioccolato arriva sugli scaffali della Migros, e non in un posto qualunque, ma in una mecca del turismo: Lucerna.

Per mare, via terra e su rotaia: il cioccolato ha un lungo viaggio alle spalle. Ora le tavolette sono sugli scaffali della filiale Schweizerhof di Lucerna. Gli scaffali si estendono per sette metri e contengono circa centocinquanta prodotti differenti, ma «Côte d’Ivoire Coopérative Necaayo» spicca immediatamente con il suo design artistico. «Non ne vendiamo ancora tantissimo», dice Sandrina Schurtenberger, caporeparto Pane e convenience, «la linea è nuovissima, l’abbiamo in assortimento solo dall’ottobre scorso».

Turismo del cioccolato

Ciò significa che Schurtenberger e il suo team non devono ancora rifornire lo scomparto corrispondente ogni mattina, al contrario di quanto avviene con i bestseller, che richiedono riapprovvigionamenti ogni giorno. Specialmente verso sera, quando gruppi di turisti inglesi e asiatici visitano la filiale. «Le guide turistiche indossano cuffie e microfono e spiegano così al proprio gruppo che qui troverà il famoso cioccolato svizzero. E questo basta per fare scatenare il gruppo: non si riesce più a passare», racconta Schurtenberger divertita. In alta stagione, sul posto c’è persino del personale che parla cinese.

«Il mio preferito è il Noxana Crèmant, ma sono tutti fantastici!», afferma Schurtenberger, esponendo le tavolette che più le piacciono.

Di sotto, nel magazzino c’è il dietro le quinte del cioccolato. Qui non viene presentato elegante e scintillante sotto le luci della ribalta ma è… già, dov’è? Sandrina Schurtenberger indica varie pile di contenitori pieghevoli. In uno di essi ci sono le tavolette, in scatole bianche da venti pezzi, così come le ha portate la mattina presto il camion dall’azienda di distribuzione Suhr SA, dopo che la sera prima la filiale le aveva trasmesso il proprio ordine.

Schurtenberger prende una confezione con la varietà «Chocolat au lait» di «Côte d’Ivoire» per disporne il contenuto sullo scaffale, e per prepararsi al prossimo assalto dei turisti, che letteralmente si abbatteranno sulla filiale.

«Se non rimettessimo continuamente in ordine le tavolette, qui sembrerebbe come dopo una festa di compleanno dei bambini», ride Schurtenberger.

Uniti per un’unica causa

«Côte d’Ivoire» ◆ Grazie a ogni tavoletta di cioccolato acquistata è possibile contribuire alla costruzione di infrastrutture scolastiche e al finanziamento del materiale didattico necessario

sistema nel complesso funziona un po’ meglio». La collaborazione con le autorità è però importante al fine di «ottenere progressi stabili e duraturi», poiché sono gli stessi enti che si occupano propriamente della disposizione delle infrastrutture. Bisogna purtroppo sottolineare che lo Stato manifesta «eclatanti mancanze».

Abbiamo posto alcune domande a Martin Lobsiger (nella foto), responsabile del settore «Sostenibilità» all’affiliata Migros Delica riguardante il sostegno alla lotta nei confronti del lavoro minorile. Un problema tuttora presente nelle coltivazioni di cacao: «Come un tempo, ancora molto, ma nell’area coperta dalla cooperativa Necaayo il fenomeno è meno pronunciato» ci spiega Lobsiger, secondo il quale i coltivatori si aiutano l’un l’altro nel raccolto, un valore che rafforza il controllo sociale, grazie anche a una presenza ridotta di lavoratori stranieri salariati. Categoria quest’ultima, nella quale il rischio di lavoro minorile è più alto.

Contrastare questo fenomeno è possibile, e lo è «costruendo scuole e infrastrutture migliori ma anche retribuendo meglio e sensibilizzando i coltivatori. Finanziamo kit scolastici e versiamo un premio di importo superiore alla media per il cacao certificato».

L’efficacia non è immediatamente misurabile rispetto alle risorse investite, afferma Lobsiger, negli anni precedenti ci sono stati casi isolati di lavoro minorile, e sono stati identificati; «abbiamo però l’impressione che si stia facendo un buon uso della scuola, ci vanno più bambini e il

Ogni anno Migros contribuisce a sostenere la causa grazie a dei premi, i quali vengono utilizzati con uno scopo specifico, infatti ci racconta Lobsiger: «Per le 1500 tonnellate di semi di cacao certificati Rainforest Alliance che compriamo ogni anno dalla cooperativa Necaayo versiamo in totale più di 250mila franchi. La metà viene erogata in contanti direttamente ai coltivatori, con il resto si supportano progetti a sostegno del bene comune dei coltivatori di cacao e delle loro famiglie».

0.50 franchi permettono ai bambini di disporre del materiale scolastico e costruire un futuro basato sull’istruzione

Infine, grazie ai centesimi che vengono raccolti dalle donazioni, vi è un piano ben preciso: «Per ogni tavoletta di cioccolato Côte d’Ivoire venduta versiamo altri 50 centesimi. Intendiamo così continuare a farci carico dei costi dei kit scolastici per tutti i figli dei coltivatori di cacao. È un grosso alleggerimento delle loro spese che incoraggerà altre famiglie a mandare a scuola i propri figli».

Dall’interessante intervista emerge chiaramente quanto la Costa d’Avorio e la sua gente non conoscano la parola «arrendersi», e come non smettano di sognare un futuro migliore per loro stessi e per le prossime generazioni, un futuro reso possibile grazie anche al costante contributo dell’associazione Necayoo.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 28 agosto 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino TEMPO LIBERO 15
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Il nero Physocarpus opulifolius «Diablo»

Mondoverde ◆ Chiamato anche spirea rossa americana, è originario dell’America del Nord, appartiene alla famiglia delle Rosaceae e ama le zone

Pochi anni fa ho deciso di allargare di qualche metro il mio laghetto in giardino. Ho sempre desiderato uno stagno ricco di ninfee, ma sono dovuta scendere a compromessi: lo stagno c’era e vantava già un buon flusso di acqua corrente grazie alla presenza di un fiumiciattolo naturale, che lo serviva senza sosta tutto l’anno, ma purtroppo su quello specchio d’acqua non sono mai riuscita a far emergere belle ninfee e questo per colpa dei ripetuti e divertenti (per dirla tutta) bagni che oche e papere fanno ogni volta che vien loro l’uzzolo di rinfrescarsi o lavarsi.

Non potendo deliziarmi con i fiori all’interno, ho pensato di valorizzare le sponde del laghetto creando qualcosa di particolare: iris, una Buddleja bianca, l’immancabile salice, una bella rosa inglese che fiorisce anche nei mesi freddi, un Cornus dai rami rossissimi in inverno e poi… poi mancava qualcosa di più inusuale.

La scelta è così caduta sul Physocarpus, un bel arbusto da fiore, molto semplice da coltivare, che regala per tutta l’estate un ricco fogliame rosso porpora, che alla luce del sole diventa nero.

Chiamato anche spirea rossa americana, è originario dell’America del Nord e appartiene alla famiglia delle Rosaceae. In particolare io ho scel-

to Physocarpus opulifolius «Diablo», caduco, con uno sviluppo in altezza che non supera i due metri e mezzo e una larghezza intorno ai due metri, con lunghi rami arcuati pieni di fiori bianchi in maggio, che creano un fantastico contrasto con le foglie scure.

Non amando l’aridità, il mio ospite in questi anni si è ben sviluppato senza avere avuto bisogno di nessun aiuto, ma per tenerlo giovane provvederò – arrivata al quinto anno di vita – a una potatura di ringiovanimento: basterà recidere alla base tre o quattro fusti tra quelli più grossi, dando così a quelli più piccoli spazio di svilupparsi. Se eseguirò la potatura a febbraio, aspetterò maggio per decidere se moltiplicarlo: basterà prelevare delle cime dai vari rami, lunghi solo dieci centimetri, e piantarli in vasi con terra soffice e umida. In poche settimane radicheranno a mezz’ombra e già l’anno successivo li potrò mettere in piena terra.

Sono sempre indecisa se moltiplicare le piante che già ospito o comperarne delle nuove con varietà diverse: accanto al mio «Diablo» potrei decidere di piantare Physocarpus opulifolius «Little Angel»: ha una grandezza più limitata, visto che raggiunge il metro e mezzo, ma in compenso ha foglie che quando compaiono in pri-

mavera incantano grazie alle loro sfumature che variano dal magenta all’arancione, con altre rosa cupo e verde muschio, accompagnate anche loro da fiori bianco rosati presenti da fine aprile. Oppure potrei optare per un «Diable d’Or», anch’esso dalle dimensioni ridotte, non più di un metro (e quindi coltivabile anche in vaso)

e con foglie arancioni dalla fioritura bianca che parte da metà giugno e perdura per tutto luglio. Come resistere alla tentazione di collezionare anche le altre due varietà presenti sul mercato, «Little Devil», molto simile alla «Diablo» ma ridotta in miniatura, e «Dart’s Gold» che si riempie dalle prime settima-

Paga tutto. Eccetto la tassa annuale.

ne di marzo di foglioline dorate e verdi-gialle.

Qualsiasi sarà la scelta in merito alla varietà del nuovo Physocarpus che deciderò di piantare, lo accompagnerò con qualche ciuffo di Hemerocallis «Stella de Oro» che con i suoi bei fiori a imbuto color oro creeranno un favoloso contrasto.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 28 agosto 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino TEMPO LIBERO 17 Soddisfazione dei clienti 2023 Carte di credito Voto: Molto buono 2x Punti doppi per un anno alla Migros L’emittente è la Banca Migros SA, Zurigo.
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umide come potrebbero esserlo la sponda di uno stagno
Physocarpus opulifolius «Diablo». (F. D. Richards)

Un abito moderno per i vostri fiori incorniciati

Crea con noi ◆ Le bottigliette di vetro possono avere una seconda vita e diventare elementi decorativi per la casa

In questo tutorial vediamo come trasformare, grazie a dello spago da cucina e qualche punto base di uncinetto, le bottigliette in vetro degli aperitivi analcolici, in piccoli vasi decorativi per fiori recisi. Appese a una cornice o appoggiate su un vassoio creeranno un’originale decorazione di ispirazione nordica per la vostra casa.

E se non sapete lavorare all’uncinetto, nessun problema, vi basterà avvolgere le bottigliette nello spago e fissarlo con un po’ di colla

vinilica, un lavoro che potrete fare anche in compagnia dei più piccoli.

Procedimento

Per la bottiglietta rivestita a uncinetto

1° giro: Fate un anello magico e al suo interno lavorate 5 punti bassi. Chiudete il giro.

2° giro: procedete agli aumenti lavorando 2 maglie basse in ogni maglia bassa del giro precedente (1 mb + 1 aumento)

Giochi e passatempi

Cruciverba

«Ciao, ieri continuavo a prelevare con il bancomat ma non ci riuscivo finché sul monitor non è apparsa la scritta…» Trova cosa diceva la scritta risolvendo il cruciverba e leggendo le lettere evidenziate.

(Frase: 3, 3, 7, 6, 3, 2, 5, 6)

ORIZZONTALI

1. Organi da presa dei gamberi

5. Indicano i porti

9. Una corsa a Londra

10. Bucati... all’aria

12. Era soprannominata «riccioli d’oro» (iniz.)

13. Le iniziali dell’attrice Rossellini

14. Casse per biancheria

15. Parte laterale rispetto al centro

16. Fiume della Polonia

17. Lago tra Uzbekistan e Kazakistan

18. Monetina USA

19. Periodo che va dal 21 giugno al

23 settembre

21. Lo fischia l’arbitro

23. Una fila di attendenti

24. Macchine semplici

25. Colpiscono il naso

28. Rosi senza indizio

29. Suppellettili del camino

30. Adesso per Brignano

3° giro: continuate con gli aumenti ma nel seguente modo. 1 maglia bassa, 1 aumento, 2 maglie basse, 1 aumento fino alla fine del giro. A questo punto il vostro cerchio dovrebbe avere lo stesso diametro della bottiglia, ora quindi dobbiamo cominciare ad andare in altezza senza più aumentare.

4°-6° giro: 3 catenelle quindi lavorate 1 maglia alta in ogni maglia sottostante.

7° giro: 1 catenella quindi lavorate

1 maglia bassa in ogni maglia sottostante. Chiudete il giro, tagliate e con un ago fissate i fili.

Per la bottiglietta rivestita con giri di cotone Rivestite con il biadesivo trasparente la parte inferiore della bottiglietta. Partendo dalla parte superiore ricoprite la bottiglietta avvolgendola con il cotone senza lasciare spazi vuoti.

Una volta coperta tutta la superficie tagliate il filo e con poca colla vinilica fissate l’inizio e la fine del cotone in modo il lavoro non si disfi e le estremità non si sfilaccino. Prendete una cornice, eliminate il fondo ed eventuali fermi.

Con il cotone usato in precedenza appendete i vostri vasetti ad altezze variabili in modo da rendere la composizione più dinamica. Fissate

Materiale

• Una cornice di recupero privata del fondo.

• Bottigliette in vetro (analcolici)

• Spago da cucina in cotone

• Uncinetto n.3,5, ago da maglia

• Colla vinilica

• Biadesivo trasparente

• Taglierino/forbici

(I materiali li potete trovare presso la vostra filiale Migros con reparto Bricolage o Migros do-it)

saldamente la vostra cornice, aggiungete poca acqua nelle bottigliette e inserite un fiore. Naturalmente potete anche adagiare le vostre bottiglie su di un piccolo vassoio. Buon divertimento!

Tutorial completo azione.ch/tempo-libero/passatempi

Vinci una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una carta regalo da 50 franchi con il sudoku

31. Si ripetono nelle funzioni

32. Sereni, tranquilli

33. Avverbio di tempo

34. Un tasto sullo stereo

35. Raggruppamento umano basato su caratteri specifici

VERTICALI

1. Accessorio per auto

2. Il celebre Ben con Charlton Heston

3. La targa di Enna

4. Corrette e precise

5. Tipo di pianta

6. Asia senza fine

7. Prefisso replicativo

8. Nome dell’autore de «Il barone rampante»

11. Possessivo

12. Una persona nata a Belgrado

14. Buona a Parigi

15. Secchi, asciutti

16. Possono saltare o essere saldi

17. Corpuscoli di materia

18. Compatti, uniti

20. Residui di lavorazione industriale

21. Hanno uno stesso corredo cromosomico

22. Una competizione automobilistica

26. La memoria del PC

27. Eseguiva sentenze capitali

29. Precede alcuni annunci

30. Pronome personale francese

32. Le iniziali dell’attore Lambert

33. Ai confini del Pakistan

Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch

Soluzione della settimana precedente

Il miele di rosmarino ha la proprietà di agire beneficamente su… Resto della frase: …FEGATO, STOMACO E INTESTINO

I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell ’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 28 agosto 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino TEMPO LIBERO 18
F R A V E G A T O O I S I T O M A L R O M I N A N O C I N E O T R E S O P I N N E A R E A T E S O T S I V O S E T C O P I N I A C O R E A 3 1 2 7 8 9 6 4 5 6 8 4 1 2 5 9 7 3 5 7 9 6 4 3 2 1 8 1 5 6 8 9 2 7 3 4 2 4 3 5 1 7 8 6 9 7 9 8 4 3 6 5 2 1 9 6 1 3 7 8 4 5 2 8 3 5 2 6 4 1 9 7 4 2 7 9 5 1 3 8 6
Sudoku Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate. 5 7 4 9 5 9 2 3 2 1 5 8 7 6 3 1 2 9 6 4 4 5 7 4 9 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35

Viaggiatori d’Occidente

Un centro rifugiati galleggiante al posto del carcere australiano

Il governo inglese ha da poco approvato un severo decreto per contrastare l’immigrazione clandestina. I numeri preoccupano: nel 2022 quasi cinquantamila persone hanno attraversato la Manica su piccole imbarcazioni e ne sono state registrate già quindicimila nel primo trimestre del 2023. Molti altri sono morti nel tentativo.

Ora la stretta. Cinquecento richiedenti asilo, tutti maschi adulti, saranno imbarcati sulla Bibby Stockholm, una grande chiatta lunga cento metri, con tre piani e duecentoventidue alloggi, ancorata al largo di Portland, nel Dorset, a sud-ovest di Londra. L’idea di fondo è quella già applicata in Australia: chi cerca di sbarcare illegalmente sul territorio nazionale perde il diritto di chiedere asilo e verrà rimandato indietro. Nel caso australiano si finisce nell’isola-prigione di Nauru, nella Papua Nuova

Guinea. Gli Inglesi invece, dopo un soggiorno sulla Bibby Stockholm, intendono rimandare i migranti nel loro Paese d’origine, oppure nel lontano Ruanda. Qualcuno ha proposto anche l’isola di Sant’Elena, nell’Atlantico meridionale, uno dei luoghi più remoti al mondo, tanto che ci confinarono Napoleone dopo la fuga dall’isola d’Elba e l’avventura dei Cento giorni.

Per il momento si naviga a vista (anzi non si naviga per nulla), tra i ricorsi delle opposizioni e le proteste dei cittadini di Portland, poco interessati a diventare un centro di smistamento per i profughi. Oltretutto i primi trentanove migranti imbarcati sono stati subito evacuati dopo la scoperta a bordo di un pericoloso batterio, la sindrome del legionario.

Questa notizia di mezza estate mi ha colpito, per diverse ragioni. In primo luogo perché i promotori dell’inizia-

Passeggiate svizzere

tiva, il premier Rishi Sunak e il ministro degli interni Suella Braverman, sono entrambi figli d’immigrati indiani. Ma anche negli Stati Uniti gli immigrati messicani, una volta insediati, spesso votano per i repubblicani e quindi per una politica di controllo delle frontiere. Soprattutto mi è tornato alla mente un parallelo storico. Siamo alla fine del Settecento. Nell’Inghilterra avviata verso la Rivoluzione industriale i crimini aumentano, spesso solo a causa della povertà, generando una forte inquietudine sociale. Di conseguenza anche verso prostitute o ladruncoli si ricorre al pugno di ferro. E quando le carceri scoppiano per i troppi detenuti, li si imprigiona in una piccola flotta di tre vecchie navi alla fonda nel Tamigi. Com’è facile immaginare, le condizioni a bordo sono miserabili e la mortalità elevata; nel 1777 un’epidemia di tifo fa strage.

Nonostante questi drastici provvedimenti, il numero di carcerati sembra aumentare senza fine. Vedendoli già stipati su una nave, per una naturale associazione di idee, si immagina di mandarli lontano, per toglierseli dalla vista. Ma dove? Sino a quel momento i criminali comuni venivano mandati nelle colonie americane, ma la guerra d’indipendenza (dal 1776) vanificò questi propositi. In quel momento d’incertezza ebbe un peso decisivo il consiglio del presidente della Royal Geographical Society, il botanico Joseph Banks. Egli ricordò di essere approdato quindici anni prima, il 29 aprile 1770, sulle coste orientali dell’Australia, a Botany Bay, durante una crociera nel Pacifico guidata dal capitano James Cook. E dunque Banks suggerì alla Camera dei Comuni di creare una colonia penale in Australia. Il 19 gennaio 1788 la Prima flotta, undici navi

Il pavillon Plantamour nel parc Mon Repos a Ginevra

Philippe Plantamour (1916-1898): chimico, fisico, naturalista, viene ricordato perlopiù come inventore, nel 1847, di un metodo per la doratura delle minuscole ruote dentate che muovono gli ingranaggi nei meccanismi degli orologi. Interessatissimo ai movimenti lacustri, studiati attraverso un limnografo installato nella sua proprietà in riva al Lemano, su una targhetta di quelle blu per i nomi delle strade, in faccia al Grand Duke pub di Pâquis, è indicato come «sapiente, benefattore della Città».

Nell’estate di quindici anni fa, a un chilometro di distanza da rue Plantamour, il suo nome – nessuno poteva inventarne uno migliore – viene dato a un’orangerie riconvertita in centro natura. Spuntata nel corso della mia recente ondata di studio sfrenato a proposito di questi ottocenteschi ripari d’inverno per arance, continuazione ideale della mia fase pavil-

lonaire-gazebista, è databile attorno al 1872 e attribuibile probabilmente all’architetto Charles Schaeck-Prévost (1810-1874). Dentro fino al collo in questo florido filone di orangerie, tanto da divenire quasi un feuilleton estivo, decido, un po’ così, per sport, di andarci di notte. E così, un sabato notte tropicale di agosto inoltrato, all’inizio del Parc Mon Repos a Ginevra, vedo l’effetto lanterna del pavillon Plantamour (377 m). Cinque vetrate, ritmate da quattro colonne toscane e delineate da cinque archi a sesto ribassato, magicizzano il corpo perpendicolare dell’orangerie in uso fino al 2006.

Lasciata in eredità alla città di Ginevra, assieme alla villa non lontana e tutto il resto della tenuta, ci torno l’indomani, in barca, a visitarla. Gestita dall’associazione la libellule, l’orangerie-centro natura è aperta i pomeriggi di domenica e mercoledì.

Sport in Azione

con oltre mille galeotti, sotto il comando del capitano Arthur Phillip, tornò a Botany Bay. L’insediamento permanente fu poi stabilito un poco più a nord, dove oggi sorge Sydney, ma fu comunque il primo passo verso la trasformazione dell’Australia in una prigione a cielo aperto. Negli ottant’anni successivi 160mila «criminali» vi furono condotti in catene. Quegli uomini e quelle donne sono il nucleo originario della popolazione australiana, anche se i loro eredi impiegarono due secoli per liberarsi dal marchio della vergogna e accettare i propri antenati.

Alla fine, attraverso percorsi imprevisti e qualche pagina infelice (il trattamento riservato agli aborigeni), quella storia disonesta di fine Settecento si è risolta per il meglio ed è stata anzi un nuovo inizio. Così possa avvenire anche per quei poveri migranti confinati sulla Bibby Stockholm.

Un platano maestoso, già lì di sicuro da ben prima dei tempi di Plantamour, accoglie lo sbarco dal battello-mouette. La sua ombra, questa domenica di caldo assurdo, per il momento, è la salvezza. Sulle mura di arenaria, catturo una targa che intreccia due nuovi personaggi alla storia dell’ex orangerie di Philippe Plantamour, ribattezzata, come si legge lì sopra, pavillon Plantamour Sotto, c’è scritto: «l’edificio è stato restaurato con il sostegno del barone e della baronessa Benjamin de Rothschild». Senza distrarci troppo nei vari rami famigliari, va almeno detto che attraverso la Fondation Maurice et Noémie de Rothschild – una delle dieci fondazioni Rothschild –ci si riferisce qui al barone Benjamin de Rothschild (1963-2021) e sua moglie Ariane (oggi miliardaria a capo di questo impero bancario privato fondato nel 1953 a Parigi e residen-

È possibile avere il senso dello sport nel DNA ?

Se tra i lettori c’è un genetista in grado di fornire una risposta, che si manifesti. Lo ringrazierò di cuore. Da profano direi di sì. Pochi giorni fa la pagina 194 del TXT riferiva del felice ritorno alle gare in Mountain Bike di Filippo Colombo, reduce da una lunga fase di recupero dalla frattura al gomito dovuta alla caduta, il 9 aprile scorso, alla Parigi-Roubaix. Alla 195 scopro che Elia Colombo, grazie al suo 21esimo posto al Campionato Mondiale di Windsurf, categoria IQFoil, ha conquistato per la Svizzera il diritto di partecipare ai Giochi Olimpici di Parigi del prossimo anno. Nulla di che, se non fosse che Filippo ed Elia sono fratelli. Filippo, 25 anni, ha già partecipato ai Giochi, tre anni fa a Tokio e ci sono le premesse perché ci possa tornare. Per il 28enne Elia sarebbe il debutto. Tra gli annali dello sport, una situazione simile non si era mai verificata in Ticino.

Sembra quasi che i loro genitori si siano suddivisi impronta genetica, influsso e sostegno: mamma Lorenza per Filippo, papà Andrea per Elia. Lei è stata ciclista, in odore di professionismo. Una passione, quella sportiva e per la bicicletta in particolare, respirata in famiglia. La stessa passione che ha contagiato anche il fratello Rocco Cattaneo, uno dei più forti scalatori svizzeri degli anni Ottanta-Novanta. Zio Rocco non ha mai abbandonato le due ruote. Lo accompagnano anche quando si reca a Berna alle sedute del Parlamento. La bici, per lui, è un concetto, un terreno sul quale agire: a lui dobbiamo la riuscitissima organizzazione dei Mondiali disputati a Lugano nel 1996, la pionieristica edizione dei Mondiali di MTB del 2003 nella regione del Monte Tamaro, da ultimo l’Europeo dei «Grimpeurs» andato in scena sulle rampe della Tremola quest’anno, a fine luglio.

Dal canto suo, Andrea non ha mai praticato vela a livelli mondiali. Ma in quel mondo gli riconoscono una passione planetaria. Per un ventennio è stato Presidente del Circolo Velico Lago di Lugano. Potrebbe significare poco, se non potessimo aggiungere gli impulsi organizzativi e divulgativi che ha iniettato nel settore. Nuove regate, la presenza esemplare a Lugano dell’equipaggio di Alinghi, in bella mostra, dopo il primo trionfo in Coppa America, e soprattutto decine e decine di giovani avviati verso la pratica di questo sport ecologico. Fra questi, appunto, suo figlio Elia, che verosimilmente porterà le insegne del Club il prossimo anno nella capitale francese. Il suo 21esimo rango al Mondiale potrebbe essere un obiettivo raggiunto, in perfetto stile De Coubertin. In realtà, il velista luganese è già salito sul gradino più alto del podio alla Coppa del Mondo, lo scorso mese di giugno

te nel castello di Pregny, un paio di chilometri da qui).

Biciclette appoggiate contro, un ceppo così così con sopra copie del bollettino dell’associazione, tavolini sparsi con dépliant sopra, incrinano un po’ la visione notturna del réperage-scappata di ieri. I ragazzi dell’associazione sono però, nonostante dentro ci sia un caldo da morire, molto disponibili e gentili; uno mi mostra, sollevando un pezzo di legno, delle orrende blatte del Madagascar. Convivono, dentro un terrario, con i grilli del focolare. Più amabili sono i fasmidi: insetti-stecco che vivono dentro un altro terrario e sembrano dei rami di piante. In alto, nella struttura sotto il tetto vetrato, in parte coperto da tapparelle in legno artigianali, si nota il lavoro serio della rimodernazione, nel 2008, a opera dello studio di architetti Ganz e Müller che si è occupato anche del restauro del-

la cattedrale di Saint Pierre. Per terra, sul pavimento, vagando qua e là, scopro impresse nel beton, impronte di volpe, cinghiale, scoiattolo, cornacchia, tasso, rospo. In multilegno (noce, acero, quercia, faggio, olmo, frassino, ciliegio selvatico) sono composti dei mobili che ospitano in esposizione centinaia di reperti ritrovati nella natura dei dintorni, come per esempio un teschio di cinghiale, denti di natrice viperina, uova di piccione eccetera. Un tocco da Wunderkammer-amici della natura a tutti i costi. In compenso c’è un angolo biblioteca di tutto rispetto. Da una porta vetri aperta, entra un pezzo di lago. Fuori, tutto attorno, molto rinsecchito c’è un giardino-foresta ispirato agli scritti di Gilles Clément. Accanto al debarcadero Chateubriand, mi sdraio sotto l’ombra plurisecolare del platano che potrebbe riassumere in sé tutto l’amore per le piante.

a Torbole, sul lago di Garda. Filippo è più conosciuto al pubblico degli sportivi. Si è già imposto in prove di coppa del Mondo e ha già assaporato il podio sia agli Europei, sia ai Mondiali. Quindi il Barone che nel 1896 ideò i Giochi Olimpici moderni è avvertito: per i fratelli Colombo, a Parigi, non si tratterà solo di partecipare. Per tornare all’interrogativo iniziale, lascio evidentemente agli scienziati il compito di fornire una risposta adeguata allo stato attuale della ricerca. Mi sento tuttavia di porre l’accento sul concetto di «modello». Filippo ed Elia l’hanno avuto in casa. Da esso hanno assimilato valori etici e comportamentali che li stanno facendo veleggiare lontano dalle insidie di una società sempre più aspra e ostile nei confronti dei giovani. Sono altresì convinto che Lorenza e Andrea non abbiano vestito i panni del guru e che si siano limitati semplicemente a fornire degli esempi.

L’arte dello scaricabarile è in costante espansione. Se fosse una disciplina sportiva avrebbe già i crismi per essere considerata olimpica. I giovani sono degli sbandati, o sono allo sbando? Per molti non fa differenza. Basta attribuirne le responsabilità ad altri. La scuola accusa la famiglia. La famiglia se la prende con gli insegnanti. Stessa dinamica tra società sportive, allenatori, giovani praticanti e relativi genitori. Nessuno vuole assumersi la responsabilità. Eppure basterebbe fungere da esempio, senza troppe prediche e senza moralismi.

Ci sono contesti in cui magari le condizioni socioeconomiche sono meno penalizzanti. Altri in cui, la famiglia è confrontata addirittura con problemi di sopravvivenza. Ma basterebbero pochi minuti al giorno. Un gioco insieme. Un giro in bici invece che in auto. Una bevanda sana invece di una ipercalorica. In una parola: l’esempio.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 28 agosto 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 19 TEMPO LIBERO / RUBRICHE ◆ ●
di Giancarlo Dionisio
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di Oliver Scharpf
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A ’STO PREZZO, BUTTANE UN CHILO!

CHILO!

1.40

ATTUALITÀ

Una grande nazione in crisi Quali sono le tre sfide da superare per la Francia, legata a doppio filo al destino del resto d’Europa

Pagina 22

Reportage dal Sudafrica

Ritratto di un’aristocrazia della politica che si è arricchita alle spalle della popolazione

Pagina 23

Se il caccia ha un difetto

Un incidente mette in luce aspetti preoccupanti che riguardano gli F-35 acquistati da Berna

Pagina 25

Putin riafferma il suo «diritto del capo»

L’inflazione rallenta

In Svizzera il tasso di rincaro è diminuito ma quelli d’interesse sono cresciuti. I timori per il futuro

Pagina 27

L’analisi ◆ L’eliminazione di Evgeny Prigozhin conferma la degenerazione del regime russo in una guerra per bande, senza più alcuna regola o garanzia che non sia la volontà del dittatore. Cosa significa questo per Kiev

Anna Zafesova

La morte di Evgeny Prigozhin segna la fine di un periodo – breve, intenso e paradossale – dell’involuzione del regime di Vladimir Putin, e l’inizio di una nuova fase inedita. La coesistenza, dopo l’ammutinamento del gruppo Wagner del giugno scorso, tra un golpista e il capo di Stato che aveva tentato di rovesciare, non poteva durare a lungo. I due mesi trascorsi tra la marcia su Mosca dei mercenari di Prigozhin e l’esplosione del suo aereo a poche decine di chilometri dalla dacia di Putin nel nord russo, sono stati una tregua necessaria a evitare un collasso del Cremlino, che aveva bisogno di tempo e risorse per scovare gli eventuali alleati dei ribelli, isolare gli scontenti nell’esercito e mettere in sicurezza in altre mani i possedimenti (economici e militari) di Wagner in Africa. Due mesi nel corso dei quali tutti i membri del mondo politico russo stavano osservando il presidente, considerato universalmente come indebolito, e il suo «cuoco», considerato ormai da molti il vero fulcro della politica russa (e per molti, inclusi alcuni liberali, anche l’unica speranza per far finire la guerra in Ucraina).

Qualcuno continua a credere che il 62enne capo di Wagner sia ancora vivo, forse latitante in qualche Paese africano

Qualcuno continua a credere che il 62enne capo di Wagner sia ancora vivo, forse latitante in qualche Paese africano, con una delle sue barbe finte e passaporti falsi come quelli rinvenuti nella sua residenza durante le perquisizioni post-golpe.

Se si è trattato di una uscita di scena spettacolare, comunque non può essere avvenuta senza il consenso del Cremlino, come mostra anche la reazione incredibilmente rapida dei media e delle autorità russe, che pochi minuti dopo la notizia della sciagura aerea già riferivano i nomi delle vittime, tra cui Prigozhin e i suoi due collaboratori più importanti. Perché prendessero incautamente lo stesso aereo insieme, e che fine farà l’archivio del «cuoco di Putin» – che contiene presumibilmente prove inconfutabili del coinvolgimento delle «fabbriche dei troll» di Prigozhin nel Russiagate delle elezioni di Donald Trump nel 2016, dei crimini di guerra in Siria, dei golpe riusciti e non in Africa, e dei massacri commessi dal Wagner in Ucraina – sono domande a cui probabilmente non arriverà mai una risposta esauriente. In ogni caso, vera o inscenata, è la morte di Prigozhin come protagonista della po-

litica russa, e la fine del suo esercito privato. E nessuno dubita che questa morte non sia dovuta a un incidente.

Perfino molti putiniani di ferro parlano esplicitamente di «omicidio», a volte attribuendo l’attentato, senza troppa convinzione, ai servizi segreti ucraini. Putin riafferma il suo «diritto del capo». Il messaggio principale mandato dall’esplosione del jet privato del capo del Wagner è chiaro e brutale: nessun dissenso, nessuna critica, nessuna esitazione, il Cremlino esige soltanto una fedeltà assoluta. Si tratta di una buona notizia per l’Ucraina: una guerra condotta da generali corrotti che dicono sempre di sì al presidente non potrà che essere meno efficace di quella condotta da un gruppo di mercenari esperti e indipendenti. La seconda buona notizia (relativamente) è il segnale ai falchi ultranazionalisti che chiedono la «guerra totale», la mobilitazione generale e la

legge marziale: Prigozhin è morto, il suo arcirivale e altro grande critico dei generali putiniani, Igor Strelkov, è in carcere per «discredito delle forze armate», il «generale Armageddon» Sergey Surovikin è stato destituito dal comando delle forze aerospaziali russe, e i membri del Wagner promettono terribili vendette, ma intanto numerosi mercenari sono stati reclutati dai nuovi eserciti privati dei fedelissimi putiniani, tra cui il Redut del petroliere Gennady Timchenko e il Convoy del «premier» della Crimea annessa Sergey Aksyonov.

Il posto del «ribelle» che rappresenti lo scontento è dunque ora vacante. Gli oppositori liberali sono stati esiliati o incarcerati già all’inizio dell’invasione dell’Ucraina, ora le repressioni toccano i putiniani stessi, in primo luogo l’ala più a destra, quella del filosofo Aleksandr Dugin che invita a pregare per Prigozhin. Potreb-

be essere un’altra «buona notizia», se non fosse che paradossalmente i falchi erano molto più critici e realisti sull’impossibilità per la Russia di conquistare l’Ucraina. È vero che con Prigozhin viene eliminato un protagonista che aveva reso la brutalità da gang criminale il «new normal» della vita russa: basti ricordare il video con l’esecuzione di un soldato «traditore» a martellate, con il successivo invio del martello con finte macchie di sangue al Parlamento europeo. Però è vero anche che la sua eliminazione altrettanto brutale conferma la degenerazione del regime putiniano in una guerra per bande, senza più alcuna regola o garanzia che non sia la volontà del capo. Se è questo il principio che Putin voleva ribadire, al 24simo anno al Cremlino e l’anno prima di una quinta rielezione alla quale si avvia con quello che il politologo d’opposi-

Prigozhin serve del cibo all’allora primo ministro russo Putin (più in basso) nel novembre del 2011 a Mosca. (Keystone)

zione Abbas Gallyamov ritiene essere al massimo il 30% dei consensi reali, questa è invece una pessima notizia. Significa che la guerra continuerà molto più a lungo perché al Cremlino non rimarranno persone che avranno il coraggio di dire al dittatore di fermarsi. E che i tentativi diplomatici dell’Occidente e dell’Oriente devono tenere conto di non avere di fronte uno Stato, seppure dittatoriale, ma semmai una satrapia di stampo mafioso. Per i contendenti di Mosca invece, l’eliminazione di un concorrente scomodo e potenzialmente forte – basti vedere gli altari improvvisati per Prigozhin a Pietroburgo e Rostovsul-Don – rappresenta insieme un sollievo, un invito alla prudenza e un avvertimento. D’ora in poi il Cremlino gioca senza più regole, e quindi il prossimo che lancerà una marcia su Mosca non si fermerà a 200 km di distanza.

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Una Grande Nazione in profonda crisi

Francia ◆ Le tre sfide da affrontare riguardano la coesione sociale e culturale, la legittimità del potere, il rango del paese nel mondo

La Francia è seriamente malata. Tre onde avverse scuotono una delle più antiche e nobili costruzioni d’Europa e ne incrinano le certezze. La prima riguarda la coesione sociale e culturale, dunque l’identità. La seconda concerne il suo regime, ovvero la legittimità del potere. La terza investe la sua potenza, ossia il rango nel mondo. Le tre crisi rendono triste e precario il lungo tramonto dell’era Macron, battezzata a suon di fanfare nel 2017 e destinata a esaurirsi nel 2027. Forse prima?

I francesi sono una Nazione. La Grande Nazione. O lo erano? Il concetto di Nazione è sufficientemente flessibile da consentirne declinazioni e usi i più vari, ma un punto dovrebbe restar fermo: l’appartenenza alla propria comunità, senza di che il termine «Nazione» è privo di senso. Nulla di oggettivo, tantomeno scientifico. Puro sentimento, vero collante di qualsiasi aggregato umano. Nel caso francese imperniato su una religione di sé maturata nei secoli della gloria e sviluppata in missione universale con la Rivoluzione. Libertà, uguaglianza, fraternità: tre parole molto impegnative, il cui senso è molto meno sicuro e comune di quanto fosse fino a pochi anni fa.

Ci sono molteplici linee di faglia. Quella principale divide i francesi di ceppo dai cittadini di recente affiliazione

Le linee di faglia sono molteplici. C’è quella principale, classica, che divide se non oppone i francesi de souche – di ceppo – dai cittadini di recente affiliazione, per tacere degli immigrati di origine maghrebina. Chi si pensa inscritto in una continuità che da Vercingetorige via Clodoveo e Giovanna d’Arco porta alla Francia moderna difficilmente possiede gli stessi ancoraggi identitari di chi ha raggiunto l’Esagono da una generazione o due. E che viene solo sfiorato dal discorso assimi-

lativo su cui è tuttora basata la pedagogia nazionale. Quando non lo rifiuta.

Vi è poi – e questo caso non è solo francese – il crescente divario economico e sociale fra benestanti (fra cui una discreta quota di straricchi) e ceti poveri o impoveriti. Sarà la «globalizzazione», sarà l’impossibilità di garantire lo stato sociale a tutti – diritto cui però nessuno dei non-ricchi intende abdicare – fatto è che questa frattura è sempre meno tollerabile. In un Paese che non rinuncia alla violenza nell’esprimere o nel reprimere le idee e le rivendicazioni irrinunciabili, questo si evidenzia nelle émeutes (moti) – come si classificano le rivolte di piazza che scuotono anche i quartieri benestanti, non solo le periferie. Un’ispezione nel sistema sanitario o perfino in quello scolastico rende immediatamente palese il ben fondato disagio di tanti francesi.

Tutto ciò contribuisce a mettere in questione la legittimità delle istituzioni repubblicane. Per un Paese dove il culto dello stato è centrale, questo senso potenzialmente eversivo è pericolo mortale. La Quinta Repubblica – sorta di monarchia repubblicana con un presidente-re, inventata dal generale de Gaulle a misura delle proprie smisurate ambizioni – si svela inadeguata ai fermenti attuali. Un presidente-re intelligente e capace ma inguaribilmente arrogante viene percepito da una crescente quota della Nazione come un contromodello più che come un esempio. Neanche Macron fosse un estraneo. Il suo silenzio durante l’ultima parata del 14 luglio, quando gli è stato consigliato di rinunciare al discorso ufficiale per non essere fischiato, è illustrativo di tanta distonia caratteriale e istituzionale. Né appare all’orizzonte un movimen-

to o una figura sufficientemente coesiva da poter ricostruire il collante che cementa Stato e cittadino.

Infine, la Francia deve ancora elaborare il trauma del 1940: l’invasione tedesca assai poco contrastata che suonò allarme per tutti coloro che s’illudevano di poter continuare a essere nel Novecento, e oltre, quel che furono per secoli: cittadini di una grande potenza. Se non della grande potenza. Ispiratrice come nessun’altra stella del firmamento geopolitico – America esclusa e perciò non amata – di una missione civilizzatrice per il bene dell’umanità. La vocazione universalista è il pendant della Grande Nazione. La colonizzazione dell’Ottocento era legittimata e illustrata dalla convinzione – o dalla pretesa – di portare i lumi a popoli vissuti nell’oscurità, ai margini della storia e del progres-

so. La perdita traumatica dell’impero, specie di quello africano, ha messo in crisi questa paradigma. I suoi effetti riverberano tuttora. Ultimo caso quello del Niger, roccaforte del post-impero neocoloniale dove i golpisti anti-francesi sono salutati in piazza – e in molte altre piazze africane – al grido di «abbasso la Francia» (talvolta accompagnato da un «viva la Russia!»).

Troppe crisi convergono su Parigi. Sarà bene prenderne nota. Il malessere francese può diventare europeo e occidentale. Già lo è, in parte. In tempo di guerra e di collasso delle certezze coltivate per almeno tre generazioni i segnali che arrivano dall’Esagono vanno ascoltati. La Francia resta un grande Paese, con le risorse necessarie a risollevarsi. Ma niente è garantito, specie per chi volesse far finta di nulla.

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Keystone

Quei diamanti neri che depredano il Sudafrica

Reportage ◆ Tra i compagni di lotte di Nelson Mandela, allievi e seguaci, si è affermata un’aristocrazia della politica che ha usato l’antirazzismo per arricchirsi, abbandonando la maggioranza della popolazione alla povertà e alla violenza

Federico Rampini

Sono atterrato a Città del Capo, capitale del Sudafrica. Il mio primo incontro, fortuito e fugace, ha l’aria di un presagio. Ho posato la valigia nella mia camera di albergo e scendo per andare a un appuntamento. All’ingresso dell’hotel incrocio un personaggio inquietante, con occhiali scuri (al buio) e cappello Borsalino. Da come si veste e si atteggia potrebbe essere un boss dei narcos locali, il capobanda di qualche organizzazione criminale. I ceffi che sono le sue guardie del corpo sono ancora meno rassicuranti. «Benvenuto in Sudafrica», mi dice la persona con cui ho l’appuntamento. «Quello che hai appena incrociato è il nostro ministro della polizia». In un Paese che gareggia per il record mondiale degli omicidi questo ministro della polizia non è famoso per la sua efficienza ma per la sua ricchezza. Appartiene alla categoria che qui chiamano black diamonds, diamanti neri. È l’élite locale andata al potere con la fine dell’apartheid e le prime elezioni democratiche del 1994, poi divenuta smisuratamente ricca grazie alla politica. Questo tema m’inseguirà durante tutto il mio viaggio. Tra i primi assaggi del fenomeno, a Città del Capo mi viene indicata la mega-villa multimilionaria del presidente in carica, Cyril Ramaphosa: affacciata su una delle più meravigliose baie di questa costa, a pochi chilometri in linea d’aria da una delle township o shanty-town, le baraccopoli dove i poveri si agglutinano in casette fatte di lamiera, senza servizi essenziali.

C’è il calvario dei blackout elettrici, che getta nel buio una Nazione dotata un tempo di infrastrutture

energetiche di prim’ordine

I capi del partito di maggioranza che governa ininterrottamente da trent’anni, l’African National Congress (ANC), vivono sulla rendita politica del loro leader scomparso, l’eroe della lotta anti-apartheid: Nelson Mandela, scomparso il 5 dicembre 2013 all’età di 95 anni dopo essere stato il primo presidente del Sudafrica libero. Tra i suoi compagni di lotte, allievi e seguaci, si è affermata un’aristocrazia nera della politica che ha usato l’antirazzismo per arricchirsi, abbandonando la maggioranza della popolazione alla povertà e alla mercé della violenza. Il reddito medio dei sudafricani è sceso sotto il livello del 1994. Tra i peggioramenti più recenti c’è il calvario dei blackout elettrici, che getta nel buio una nazione dotata un tempo di infrastrutture energetiche di prim’ordine. La compagnia aerea nazionale è fallita, come tante altre aziende che furono sane ma sono state spolpate dai nuovi padroni. I treni merci, essenziali per trasportare verso le banchine dei porti i prodotti da vendere all’estero, sono spesso fermi. Inettitudine, incompetenza, furti di beni pubblici concorrono al degrado. In grandi città come Johannesburg mancano i trasporti pubblici. Le aziende di Stato sono state occupate e depredate dai black diamonds, con una corruzione fine a sé stessa, che in cambio non dà quasi nulla al Paese.

Quasi che avesse previsto questo tradimento, Mandela aveva lanciato un appello severo e profetico al suo popolo: «Se un giorno l’ANC farà a voi ciò che fecero i Nazionalisti bian-

chi, trattateli come noi abbiamo trattato i Nazionalisti». Non siamo certo arrivati allo stesso livello di mobilitazione che segnò la grande battaglia contro l’apartheid negli anni Ottanta. Però fremiti di rivolte popolari contro l’ANC ce ne sono stati di recente e possono riesplodere in qualsiasi momento, soprattutto nelle gigantesche e rabbiose township

I black diamonds non sono nati per caso, sono il frutto di un’operazione d’ingegneria socio-economica che pervade la vita quotidiana del Sudafrica. Uno strumento fondamentale è la legge del Black economic empowerment, che nel suo titolo annuncia appunto il trasferimento del potere economico ai neri. È una norma che viene applicata in modo rigoroso, i numeri lo confermano. «Ma il modo più semplice per mettersi in regola con la legge – mi dice un imprenditore – è assumere un nero senza alcuna competenza, dargli un ufficio sontuoso con poltrone di pelle, una Mercedes con autista, due segretarie e tre cellulari, un biglietto da visita con su scritto presidente o vicepresidente. Naturalmente il potere deci-

sionale resta ai bianchi che lo hanno assunto, e che avevano il controllo dell’azienda».

Non sempre il trasferimento di potere ai neri è avvenuto in maniera così sfacciatamente vacua. Spesso insieme con uffici, segretarie e Mercedes sono passate di mano quote azionarie importanti, anche di colossi industriali. È nata in questo modo una nuova classe dirigente che dal mestiere politico si è convertita all’economia. I diamanti neri, appunto. Uno di lo-

Intanto a Johannesburg

I Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) si allargano: conteranno altri sei «membri effettivi» a partire dal primo gennaio 2024: Argentina, Egitto, Etiopia, Iran, Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti. Lo ha annunciato il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa al termine del vertice del gruppo che si è svolto settimana scorsa a Johannesburg. Ma sono le posizioni sulla guerra in Ucraina ad

ro è al vertice del potere proprio adesso. Sul presidente Cyril Ramaphosa potete leggere ritratti biografici che lo descrivono come un businessman, un uomo d’affari. In realtà lui faceva il sindacalista all’epoca della lotta contro l’apartheid. È uno dei capi dell’ANC che ha saputo sfruttare il Black empowerment per riconvertirsi in imprenditore. Accumulazione primitiva del capitale, l’avrebbe definita Karl Marx. Ciò che è accaduto con l’arrivo al potere dell’ANC in fondo

aver rischiato di rovinare la «festa». Vladimir Putin, in videocollegamento, ha ribadito che l'invasione sarebbe stata una risposta forzata alle azioni di Kiev e della Nato. Gli ha risposto Volodymyr Zelensky, dal vertice internazionale della Piattaforma Crimea, affermando che obiettivo di Kiev è «smantellare la tirannia russa» anche nella penisola sul Mar Nero annessa da Mosca nel 2014. / Red.

Una baraccopoli ai margini di Città del Capo. Sotto: al vertice dei Brics di Johannesburg Cyril Ramaphosa (al centro) ha incontrato il presidente cinese Xi Jinping e quello brasiliano «Lula» da Silva (a sinistra), il primo ministro indiano Narendra Modi e il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov. (Keystone)

non è troppo diverso dall’arrembaggio degli oligarchi russi che ai tempi di Boris Eltsin sfruttarono le «privatizzazioni» per convertirsi da boss di partito o dei servizi segreti in industriali miliardari. Qui c’è l’aggiunta della dimensione razziale.

Nel gruppo dirigente formatosi con Mandela, non tutti si sono lasciati attirare dalla corruzione e dall’accumulazione di ricchezze private. A Johannesburg incontro un critico severo dei diamanti neri che li conosce tutti personalmente. È l’ex presidente del Sudafrica Kgalema Mothlante. A 73 anni Mothlante è stato un leader storico dell’African National Congress.

Durante la lunga battaglia contro l’apartheid fu rinchiuso per dieci anni in carcere nella stessa Robben Island dov’era detenuto Mandela. Finito l’apartheid Mothlante fu uno dei capi del movimento sindacale, insieme all’attuale presidente Ramaphosa. A differenza di quest’ultimo, però, Mothlante non ha usato la carriera nel sindacato come un trampolino di lancio per trasformarsi in businessman. È rispettato come un leader di rara onestà, è un’autorità morale del Paese, prende le distanze pubblicamente dai suoi compagni di lotte sprofondati nella corruzione. «Ramaphosa – mi dice quando lo intervisto – aveva annunciato una rinascita, una nuova alba, la liberazione dalla corruzione che era esplosa a livelli estremi sotto il suo predecessore Jacob Zuma. Invece la sua presidenza è offuscata dalla scoperta di una montagna di banconote in un divano di casa sua, di cui non sa o non vuole spiegare la provenienza. Anni fa io dissi che l’ANC mi sembrava ormai condannato. Da allora il partito ha subito diverse sconfitte elettorali, a livello locale. Molte municipalità sono governate dall’opposizione. L’ANC ha perso la maggioranza perfino nella metropoli più grande, Johannesburg, una città che ha un bilancio più grosso di tutta la Namibia. Queste sconfitte elettorali hanno forse insegnato qualcosa? Niente. Non c’è un’etica, c’è solo l’opportunismo di chi vuole il potere ad ogni costo». (1. continua)

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 28 agosto 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino ATTUALITÀ 23
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Caccia F-35, quando l’atterraggio è pericoloso

Aviazione ◆ Un incidente mette in luce aspetti preoccupanti che riguardano gli aerei da combattimento acquistati dalla Svizzera

La firma del contratto di acquisto dei nuovi super-caccia Lockheed Martin F-35 Lightning II per l’esercito svizzero è avvenuta il 19 settembre dell’anno scorso, quando lo sviluppo di quel sistema d’arma aereo era stato dichiarato praticamente completato. Invece, il 13 ottobre, alla base aerea Hill Air Force (Salt Lake City, Utah) tutto è stato contraddetto da un incidente che ha dato origine a un’inchiesta, i cui sconcertanti risultati sono stati pubblicati di recente. In quell’occasione – si legge nel rapporto ufficiale – uno di questi aerei tecnologicamente avanzatissimi è andato «perduto», in una situazione riscontrata del tutto normale, per cause e circostanze che rimangono tuttora in parte misteriose e quindi preoccupanti.

La firma del contratto di acquisto dei nuovi supercaccia F-35 Lightning II per l’esercito svizzero è avvenuta il 19 settembre dell’anno scorso

Era sera e spirava un venticello di circa 9 chilometri orari quando una squadriglia di quattro aerei si è presentata all’atterraggio con la solita procedura, allineandosi con la pista in fila indiana e distanziando gli aerei di circa un chilometro uno dall’altro. Il primo e il secondo hanno toccato terra senza problemi, alla velocità di circa 275 Km/h. Per il terzo le cose sono andate del tutto diversamente. A 800 metri dalla testata della pista, sulla quale il caccia che lo aveva preceduto stava smaltendo velocità, mentre planava alla quota di circa 60 metri dal suolo, improvvisamente ha iniziato a compiere movimenti strani e inconsulti, per ora solo parzialmente spiegabili.

«L’aereo ha incominciato a oscillare – ha osservato un pilota collaudatore presente sul posto – mentre le superfici di controllo (piani di coda orizzontali e verticali, alettoni e flap delle ali) facevano ampi e rapidi movimenti, probabilmente al limite delle capacità dei comandi elettro-idraulici». Il pilota del caccia – che ha riportato solo poche leggere ferite alle mani – ha poi raccontato d’aver percepito il solito rumore aerodinamico di quando si attraversa la scia dell’aereo che precede, e che di solito dura circa due o tre secondi. Così è stato, ma quando il fenomeno è cessato, semplicemente il si-

Cos’è la turbolenza di scia?

È un fenomeno che viene provocato nell’aria dal passaggio di un aeroplano, in quanto il movimento relativo della sua ala fa sorgere forze di alta pressione (portanti) sul dorso, e di depressione sul ventre. Esse, incontrandosi ai terminali alari, imprimono all’aria due moti rotativi speculari, dal basso verso l’alto. Questi moti sono caratterizzati da un forte contenuto di energia e sono spesso resi visibili dalla condensazione dell’umidità ambientale.

A bassa velocità, con l’estensione delle superfici mobili che esaltano la funzione portante dell’ala, queste scie possono essere fortemente energizzate, tanto da continuare a persistere per vari minuti, Attraversandone una, un aeroplano di dimensioni analoghe o minori rispetto a quello che l’ha prodotta viene brevemente ma forte -

stema computerizzato di controllo del volo – unico (ma ridondante) mezzo per rendere pilotabile un aereo intrinsecamente instabile allo scopo d’essere altamente manovriero – ha semplicemente smesso di funzionare.

L’inchiesta ha scoperto che, a provocare questo malfunzionamento, non è stato un guasto dell’impianto, ma una specie di ammutolimento del sistema di acquisizione dei dati dell’aria nella quale l’aereo stava volando.

L’Air data system (in sigla Ads) è un sistema computerizzato che fonde i dati provenienti da numerosi sensori sparsi su tutto l’aereo (in particolare sul muso e su entrambe le fiancate), derivandone gli input digitali che, a sua volta, il sistema computerizzato dei comandi di volo traduce in attuazioni e regolazioni dei movimenti delle superfici aerodinamiche di controllo.

Sembra che sia stata l’incapacità del sistema di comparare rapidamente i dati discordanti provenienti dai sensori sulle due fiancate, investiti dai flussi differenti dell’aria turbolenta prodotta dalla scia dell’aereo precedente. Ne è risultato un rimpallo di dati rapido e continuo, che ha portato a una saturazione del sistema, il quale ha semplicemente smesso di trasmettere dati per un momento, breve, ma sufficiente per mandare in tilt il sistema dei comandi di volo. Operando con dati non corretti, esso ha risposto in maniera errata alle azioni frenetiche del pilota, complicando le cose.

Forse pensando a uno stallo, una perdita di portanza, egli ha dato tutto motore, compreso il postbruciatore, per tentare di riprendere quota e fare un altro giro. Niente da fare: nessuna azione congruente dalle superfici di controllo d’assetto del caccia. Anzi – in risposta all’incremento di spinta (e di velocità, che ha raggiunto i 320 Km/h) – esso si è intraversato, puntando il muso a sinistra e ruotando sul proprio asse dalla stessa parte. Unica soluzione possibile per sopravvivere: lanciarsi con il sedile eiettabile a razzo, mentre l’F-35 (valore 76 milioni di dollari, ma danno prodotto valutato complessivamente in 166,3 milioni) è andato a disintegrarsi al suolo fra la strada esterna al recinto aeroportuale e la via perimetrale interna. Dal termine della sensazione di turbolenza da parte del pilota al «crash» sono trascorsi meno di 10 secondi.

A provocare grossi grattacapi al Pentagono vi sono due fatti. Primo,

mente forzato a ruotare con il flusso vorticoso. Normalmente l’attraversamento dura pochi secondi, durante i quali il pilota (o l’autopilota) reagiscono dando comando contrario e, al termine, lasciando che l’aereo si stabilizzi naturalmente. Diverso è il caso di un aereo naturalmente instabile e mantenuto in assetto da impianti computerizzati digitali che, a loro volta, molte volte al secondo, fanno riferimento ai «dati aria» rilevati da appositi sensori statici e dinamici. Se questi dati vengono a mancare o vengono valutati incongruenti dal sistema computerizzato che li gestisce, esso cessa di fornire dati all’impianto elettronico dei comandi di volo. Risultato: l’aereo diviene immediatamente totalmente ingovernabile e la sua traiettoria imprevedibile.

che con oltre 600’000 ore volate dagli F-35, questo è un caso del tutto anomalo e inaspettato. Secondo (e ben più grave): riproducendo nel simulatore di volo di progetto della Lockheed le medesime condizioni di volo incontrate dal quel caccia, il risultato è stato sempre il medesimo, indipendentemente da chi fosse il pilota: «crash» assicurato, senza alcuna possibilità di recupero del controllo del volo. La soluzione adottata al momento è sta-

ta triplicare a tre chilometri il distanziamento fra gli F-35 in avvicinamento per l’atterraggio. In effetti, questo provvedimento era già stato valutato opportuno da parte del personale della torre di controllo della Hill Air Force Base, e veniva consigliato ogniqualvolta il vento al suolo superava i 9 chilometri orari. Non si trattava, però, di una proceduta standard resa nota ufficialmente ai piloti, e non era riportata nel loro manuale di volo.

È vero che, se fosse stata applicata quella semplice procedura, si sarebbe evitato quel danno. Ma forse i costi di quel danno pagheranno il salvataggio di altri aerei e altri piloti, se dai risultati dell’inchiesta si passerà alla soluzione del funzionamento dell’Air data system dell’F-35. Speriamo che essa si materializzi prima della consegna dei primi esemplari alla Svizzera. Intanto, facciamoli volare molto ben distanziati.

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L’inflazione scende ma le preoccupazioni restano

Economia ◆ In Svizzera il tasso di rincaro è diminuito sotto la soglia del 2 per cento mentre i tassi di interesse sono cresciuti.

La Riserva Federale americana dovrebbe annunciare altri aumenti e le banche centrali temono il rallentamento delle economie

In Svizzera il tasso d’inflazione a fine luglio era sceso all’1,6%, dopo aver già toccato il livello dell’1,7% a fine giugno. Quindi, al momento, il tasso di rincaro è sceso sotto la soglia del 2% che alcune banche nazionali, in particolare la Banca centrale europea (BCE), si erano date come obiettivo della politica monetaria volta a ridurre la domanda di beni e servizi. Lo scopo è quello di far scendere il tasso d’inflazione, ma provocando nel contempo un’ondata di rialzo dei tassi di interesse.

L’inflazione in Svizzera è generalmente inferiore a quella degli altri Paesi industrializzati. Questo perché il prezzo dei beni importati (che costituiscono circa il 50% del PIL), tradotto in franchi svizzeri, risulta inferiore a quello fissato in valuta estera nei singoli Paesi esportatori. E questo grazie alla forza del franco svizzero sui mercati valutari. Anche i dati del rincaro nel mese di luglio hanno beneficiato di questa situazione. L’Ufficio federale di statistica, pubblicando questi dati, fa notare che, sempre nel mese di luglio, mentre i prezzi di prodotti e servizi realizzati in Svizzera era ancora aumentato del 2,3%, i prezzi di prodotti e servizi importati dall’estero erano diminuiti dello 0,6%, rispetto a un anno prima.

Anche in Svizzera si cominciano però a sentire alcune tendenze al rallentamento della crescita economica

Anche in Svizzera si cominciano però a sentire alcune tendenze al rallentamento della crescita economica. Alcune importanti ditte del ramo industriale hanno annunciato una diminuzione del personale, nonostante persista nel nostro Paese un’elevata mancanza di personale specializzato. Questo, tra altri fattori, è sicuramente un segno degli effetti provocati dal rialzo dei tassi di interesse. Tanto più che il rallentamento fa seguito a un eccezionale periodo di espansione, dovuto questa volta soprattutto al calo degli interessi da pagare su prestiti e anticipi. Qualche preoccupazione in più potrebbe derivare alla Svizzera

dalla situazione in Germania. Per il momento, fra le grandi Nazioni europee, è l’unica che denuncia un tasso di crescita del PIL in termini negativi. Altri Paesi, in particolare Francia e Spagna, potrebbero seguire la tendenza. Questo anche perché la Germania sta perdendo la sua posizione di locomotiva dell’economia europea.

Tra i grandi Paesi europei fa eccezione l’Italia che annuncia ancora tassi di crescita positivi, con un’inflazione che rallenta. Ma proprio il caso italiano è significativo. L’Italia conta infatti molto sulla propria industria automobilistica e sta facendo sforzi, come altre, per convertirsi in tempo, abbandonando il motore a scoppio per passare a quello elettrico. Ma proprio

in questo settore l’Italia ha sviluppato molto tutta la tecnica legata al tradizionale motore a scoppio, mentre è un po’ in ritardo sui motori elettrici. Ora proprio la Germania è uno dei maggiori clienti dell’Italia per le componenti automobilistiche legate ai motori tradizionali. Da qui un doppio pericolo dipendente dalla situazione della Germania e della sua industria automobilistica. Industria che sembra anche soffrire della dipendenza dalla Cina, per molta parte delle componenti, e sopporta le conseguenze del forte rallentamento dell’economia del gigante asiatico, mentre gli Stati Uniti investono molto per sostituirsi alla Cina in questo enorme mercato. Tratteggiato per sommi capi il

quadro mondiale, torniamo al nostro commento sull’inflazione. Inflazione, in termini semplici, significa aumento dei prezzi, soprattutto di quei prodotti e servizi che compongono il «paniere» della spesa. Ora per esempio in Italia si sente dire, o si può leggere, che l’inflazione cala ma i prezzi aumentano. Questo perché, in tempi recenti, il costo dei fattori energetici (petrolio, gas, energia elettrica) è aumentato sensibilmente, ma negli ultimi mesi è parecchio diminuito. Di contro il costo dei beni di prima necessità (quelli che compongono il paniere da noi e il «carrello della spesa» in Italia) è continuato ad aumentare. I dati italiani dicono che il tasso di inflazione è in diminuzione, ma pur sempre al 5,9%,

«A partire da quale importo conviene una gestione patrimoniale?»

mentre l’aumento del costo del «carrello della spesa» è pari al 10,2%. Ora è proprio a questa spesa che il consumatore guarda con molta attenzione. Anche in Svizzera, come detto sopra, l’inflazione scende all’1,6%, ma il paniere dei beni di prima necessità resta a un tasso più alto (2,3% se consideriamo il costo dei prodotti importati, ma buona parte dei quali è costituita da beni di prima necessità). La differenza, a nostro vantaggio, è dovuta alla forza del franco, che si riflette sulle importazioni.

In Svizzera l’inflazione scende all’1,6% ma il paniere dei beni di prima necessità resta a un tasso più alto

Significative, in questa situazione, saranno le decisioni delle banche nazionali dei vari Paesi e, in particolare per noi, della Banca centrale europea. Le ultime scelte sono state ancora di aumentare i tassi direttori, perché l’obiettivo di un tasso di inflazione inferiore al 2% è ancora parecchio lontano. D’altro canto i rallentamenti di alcune economie importanti potrebbero sopportare male un conseguente aumento dei tassi di interesse. Si attendono quindi con impazienza le decisioni di inizio settembre. La Riserva Federale americana (FED) dovrebbe annunciare un ulteriore aumento dei suoi tassi, magari inferiore a quelli precedenti. L’economia americana, grazie anche a un forte aumento degli investimenti pubblici, con relativo aumento del debito pubblico, sta meglio di quelle europee. La BCE seguirà l’esempio della FED? Probabilmente sì, ma con un ulteriore chiaro segnale a voler ridurre l’inflazione. La Svizzera di per sé potrebbe stare a vedere, ma la Banca nazionale teme non solo l’inflazione, ma anche l’aumento del valore del franco sui mercati valutari. Finora l’industria d’esportazione sembra aver sopportato bene il livello attuale, ma anche in Svizzera sono stati annunciati licenziamenti di personale proprio in questo settore e il momento è particolarmente delicato nei principali mercati dell’esportazione.

La consulenza della Banca Migros ◆ Molti istituti offrono soluzioni d’investimento digitali già a partire da 5000 franchi

Ho messo da parte un piccolo gruzzolo e vorrei investire il denaro senza dovermene occupare attivamente. Quando ha senso una gestione professionale?

Le persone interessate possono prendere in considerazione una gestione patrimoniale già a partire da 5000 franchi. Per importi di questa entità, infatti, oggi molte banche offrono soluzioni d’investimento digitali: la Banca Migros offre la «GP Focus». Coloro che investono non ricevono una consulenza individuale, ma i fondi azionari nei quali investono vengono gestiti da professionisti e professioniste del settore.

Nella maggior parte delle gestioni patrimoniali digitali, gli investitori e le investitrici possono definire priorità tematiche per il portafoglio: chi ha a cuore la svolta energetica può investire una parte del patrimonio in imprese che promuovono soluzioni energetiche sostenibili. Questi fondi vengono costantemente monitorati e ottimizzati. Si ha inoltre la possibilità di integrare il portafoglio con altre classi di asset, ad es. immobili o metalli preziosi. Il livello di rendimento dipende dalla durata dell’investimento e dal profilo di rischio. Un esempio: investendo 5000 franchi nella «GP

Focus» della Banca Migros con un investimento conservativo, il patrimonio risparmiato dopo dieci anni ammonterà presumibilmente a 6000 franchi. Se l’andamento è positivo, l’importo può addirittura raggiungere 7900 franchi. Ma è possibile anche una perdita. Quanto più lungo è l’orizzonte temporale, tanto maggiore è la probabilità che le fasi positive dei mercati compensino quelle negative. Le commissioni per la gestione patrimoniale digitale sono relativamente basse: oscillano tra lo 0,5% e l’1% della somma investita. Chi investe in un mandato di ge-

stione patrimoniale tradizionale ottiene un’assistenza maggiore rispetto alle offerte con gestione patrimoniale digitale. Ma in questo caso l’importo minimo per avviare l’investimento è molto più elevato: presso la Banca Migros, ad esempio, è di 20000 franchi. A tal fine un Comitato d’investimento composto da rappresentanti della Direzione generale si occupa della rispettiva allocazione del patrimonio. E tale comitato è in grado di reagire rapidamente ai cambiamenti sui mercati finanziari e prendere decisioni d’investimento responsabili.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 28 agosto 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino ATTUALITÀ 27
Angie Schweizer consulente alla clientela presso la Banca Migros ed esperta in tematiche d’investimento. La Banca nazionale svizzera teme non solo l’inflazione, ma anche l’aumento del valore del franco sui mercati valutari. (Keystone)

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Il Mercato e la Piazza

Denatalità e aumento dell’inflazione

La questione demografica sta prendendo sempre maggior importanza nel dibattito sul futuro dell’economia, anche in Svizzera. Mentre nei Paesi del nord i tassi di natalità conoscono, da decenni, una tendenza alla diminuzione, in molti Paesi del sud, in particolare in diversi Stati africani, fecondità e natalità continuano a essere elevate. Dalla fine dello scorso secolo i demografi ci avvertono che, se la tendenza alla denatalità dovesse continuare, nei Paesi del nord si assisterà non solo a un graduale invecchiamento della popolazione ma, a date diverse, secondo la gravità del problema, a un’inversione della tendenza demografica secolare: dall’aumento si passerà alla diminuzione di popolazione. Di quest’inversione di tendenza, e delle sue possibili ripercussioni sull’economia mondiale, si sono occupati di recente gli economisti Charles Goddhart e Manoj Pradhan nel sag-

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gio La grande inversione demografica Secondo noi l’originalità delle tesi di Goodhart e Pradhan risiede nel fatto che trattano alcuni aspetti economici della grande inversione demografica in un’ottica che possiamo definire monetaria, trovando così, fra l’altro, un nesso diretto tra il declino della fecondità e l’inflazione. Pradhan ha parlato del contenuto di questo libro in una recente conferenza alla CFA Society Switzerland, associazione che riunisce soprattutto esponenti del mondo della finanza. L’analisi di questi due autori è la seguente. Sullo sviluppo delle economie nazionali degli ultimi decenni hanno agito due forze principali: l’inversione demografica e la globalizzazione, rispettivamente la deglobalizzazione. Vediamo dapprima che cos’è successo nei decenni a cavallo tra il vecchio e il nuovo secolo. In questo periodo, affermano i due economisti, la disponibilità di forze

lavorative è cresciuta rapidamente per effetto della crescita dell’economia cinese, la caduta della cortina di ferro in Europa, l’aumento significativo dei tassi di attività femminile e la presenza sul mercato del lavoro di classi d’età numerose come quelle dei cosiddetti «baby boomers». Il potere di negoziazione dei lavoratori si è così indebolito e i salari reali sono diminuiti. Questa evoluzione del mercato del lavoro e tendenze deflazionarie accentuate hanno poi contenuto il rincaro nelle economie avanzate. La fase dello sviluppo secolare, molto influenzata dalla grande disponibilità di manodopera e dalla globalizzazione dei mercati, sta arrivando alla fine, sostengono Goodhart e Pradhan e questo, essenzialmente, in seguito all’invecchiamento della popolazione. Nei prossimi decenni la popolazione attiva tenderà a diminuire in più d’un Paese a causa dei bassi tassi di natalità.

Calcio, con gli sceicchi tutto è cambiato

In Italia ha destato emozione e anche sdegno la notizia – arrivata a metà agosto – che Roberto Mancini, il commissario tecnico (ct) che aveva portato la Nazionale alla conquista del campionato europeo di calcio, ha deciso di lasciarla; probabilmente per i 25 milioni di euro (forse di più) che gli hanno offerto i sauditi, per allenare la loro, di Nazionale. Se andasse davvero a finire così, se davvero Mancini diventasse il ct dell’Arabia Saudita, per lui sarebbe certo un danno alla reputazione e non solo, ad esempio non potrebbe più girare i numerosi spot pubblicitari che faceva da commissario della Nazionale; eppure noi appassionati di sport non avremmo diritto di stupirci. Tutto è cambiato da quando gli sceicchi hanno deciso di investire le loro ricchezze – frutto del petrolio ma anche dell’elusione fiscale internazionale – nel calcio. Il Manchester City ha vinto la sua prima Champions quest’anno; ma da

un decennio domina la Premier inglese, il campionato più importante del mondo. Il Paris Saint Germain la Champions non l’ha ancora vinta; ma da tempo non gli sfugge la Ligue 1, il campionato di calcio francese. Ebbene, sia il City sia il Psg appartengono agli sceicchi. I petroldollari hanno pure comprato un Mondiale di calcio, quello del dicembre 2022 in Qatar, che è stato certo un grande successo organizzativo ma ha destato molte polemiche, ad esempio sul rispetto dei diritti umani. Ho seguito il Mondiale, e mi ha impressionato vedere lavoratori di così tante nazionalità – tunisini e pachistani, marocchini e afghani, kenyoti e cingalesi – trattati di fatto come schiavi. Purtroppo è il denaro che muove il mondo, e anche il calcio. Quest’anno sono andati a giocare in Arabia Saudita non soltanto i grandi vecchi, come Cristiano Ronaldo, ma anche calciatori ancora giovani

Il presente come storia

L’esposizione che il Museo nazionale svizzero dedica all’«italianità» (fino al 14 aprile 2024 nella sede principale di Zurigo) offre un’ottima occasione per tornare a riflettere su un concetto che per più di un secolo ha permeato le relazioni italo-svizzere, attraverso una fitta rete di interscambi e di reciproche influenze. Una trama intessuta nel tempo da Governi, partiti, associazioni, giornali, enti di formazione, missioni cattoliche e patronati, e con sullo sfondo la lunga e spesso tragica vicenda migratoria. L’iniziativa riserva una sezione anche all’«italianità autoctona», quella interna, nei suoi molteplici rapporti, verso nord con la Berna federale e verso sud con la Lombardia. Succede spesso che un osservatore italiano chieda come un novello Prezzolini quale sia l’«anima» del Cantone, se si senta più italiano o più svizzero (più impegnativo è allargare la discussione alla nozione di «Svizzera italiana»). La

reazione è di solito immediata: «svizzero», è ovvio. Ma poi, quando arriva la seconda domanda, la faccenda si ingarbuglia: va bene, l’itinerario storico è questo, ma la lingua, le tradizioni, il corredo culturale in senso antropologico, il patrimonio storico e architettonico? Non sono tutti frutti caduti dal frondoso albero dell’italianità?

L’osservatore sa di toccare un nervo sensibile, e in buona parte rimosso, almeno negli ultimi decenni. Ma fino all’avvento di movimenti e partiti d’ispirazione micro-sovranista («il Ticino ai ticinesi»), il dibattito è stato intenso, coinvolgendo non soltanto gli intellettuali, letterati come Chiesa, Zoppi, Calgari, Janner, Bianconi, ma anche la scuola e l’informazione, prima radiofonica e poi televisiva. L’interrogativo era già affiorato nel corso della «Belle époque», all’alba del Novecento. Motivo: il timore che il Cantone perdesse il suo plurisecola-

Parallelamente aumenterà la quota dei pensionati nella popolazione. La carenza di forze lavorative indurrà un aumento dei salari e provocherà tendenze inflazionistiche. Nel medesimo tempo, la deglobalizzazione ridurrà la possibilità di contenere il rincaro importando prodotti da Paesi dove i livelli salariali sono ancora bassi. A peggiorare le cose verranno le misure di limitazione dell’immigrazione che i Governi saranno costretti a prendere sotto la pressione dell’elettorato. Né c’è da sperare che l’inflazione resti un fenomeno temporaneo. L’aumento dei tassi di interesse frenerà gli investimenti e farà crescere la disoccupazione, obbligando così i Governi a intervenire con misure di sostegno della domanda globale che faranno ripartire l’inflazione nel ciclo susseguente. Nei Paesi avanzati, avvertono i due autori, i problemi demografici diventeranno sempre più grandi.

Le politiche sociali saranno dominate dai problemi legati all’invecchiamento, primo fra tanti quello del finanziamento delle pensioni. Anche qui i conflitti non verranno a mancare. Nell’impossibilità politica di aumentare l’età del pensionamento è probabile che a fare le spese di questa situazione saranno le classi di età più giovani. Il conflitto generazionale si farà dunque più acuto. Per l’economia mondiale il continuo invecchiamento della popolazione sarà, in generale, foriero di grosse difficoltà. Solo i Paesi con tassi di natalità elevati – come l’India, per esempio – saranno in grado di profittare di questa situazione. Siccome questi Paesi sono oggi tra i più poveri del pianeta è quindi probabile che lo scenario evolutivo, anticipato da questi due autori, per finire, nel mondo, aiuti a ridurre le disparità nei livelli di reddito pro-capite. Come dire: non tutto il male viene per nuocere!

nel pieno della carriera, come il laziale Sergej Milinkovic Savic. Certo, farebbe impressione se lo facesse anche l’ex allenatore della Nazionale. Ma già nel 2016 il ct Antonio Conte lasciò gli azzurri per andare ad allenare il Chelsea. Squadra di Londra che allora apparteneva non a uno sceicco, ma a un oligarca, Roman Abramovic, che all’inizio della guerra in Ucraina ha tentato una forse generosa ma certo inutile mediazione tra i belligeranti. Qualcuno sostiene che Mancini si sia offeso perché il commissario federale Gravina gli ha cambiato lo staff senza il suo consenso; ma lui ha negato che il problema sia l’arrivo come capodelegazione di Gianluigi Buffon, il veterano azzurro che prenderà il posto di Gianluca Vialli, il grande amico di Mancini prematuramente scomparso. Di sicuro la moglie di Mancini, che gli fa da manager, aveva chiesto la cancellazione della clausola che prevedeva il

licenziamento del ct in caso di mancata qualificazione all’Europeo del 2024. Gravina ha detto no; e Mancini se n’è andato. Ora è tempo di guardare avanti. La qualificazione all’Europeo 2024 è ancora da conquistare; e tutto è nelle mani del successore di Mancini, Luciano Spalletti. Un tipo molto diverso. Mancini è riservato ma è uomo di mondo, è collezionista d’arte, sa trattare i giornalisti. Spalletti è imprendibile. L’ho conosciuto ai Mondiali del 2006 in Germania, dov’era come osservatore, e non sono riuscito a parlargli: diffidente, sfuggente. A Napoli però ha fatto un miracolo, vincendo il terzo scudetto dopo i due di Maradona. Poi ha rotto con il presidente Aurelio De Laurentis. Per lui è chiusa una porta; si è aperto un portone. La Nazionale oggi è da rifondare. L’Europeo non è stato vinto soltanto grazie alla fortuna; la vera congiunzione astrale è stata quella che ha porta-

to all’esclusione del Mondiale, per mano della Macedonia del Nord. Ma lo sport nazionale non può essere affidato al caso; perché il caso prima o poi ti volta le spalle. Con l’eliminazione dal Mondiale qatarino il calcio italiano ha toccato il livello più basso di sempre. Peggio delle sconfitte con la Corea del Nord nel 1966 e con la Corea del Sud nel 2002. Peggio dei disastrosi Mondiali in Sudafrica e in Brasile. Tutto il calcio italiano è da ripensare. Troppa tattica, poca tecnica. Stipendi troppo alti rispetto al valore e al rendimento, poca cultura calcistica. E troppo potere ai procuratori. Non si tratta solo di trovare undici campioni all’altezza della maglia azzurra. Si tratta di lavorare sui vivai, di motivare i giovani, di preparare atleti che siano capaci di muoversi non soltanto sul campo ma anche nella vita. Consapevoli che il denaro è importante; ma non è la misura del valore di una persona.

re «volto italico» a vantaggio di una sempre più numerosa ed economicamente agguerrita colonia germanofona. Nel contempo giungeva l’eco delle agitazioni che scuotevano città non ancora incorporate nel Regno d’Italia come Trieste e Trento: «terre irredente», ossia non ancora liberate, il cui destino muoveva le coscienze di Teresa Bontempi e Rosetta Colombi (redattrici del settimanale «L’Adula»), di giornalisti come Emilio Colombi, di glottologi di chiara fama come Carlo Salvioni.

A questa tendenza, salutata con favore all’inizio ma poi scivolata nel filo-fascismo dopo la grande guerra del 1914-18, gli elvetisti, con in prima linea Brenno Bertoni, opposero la fedeltà all’ideale repubblicano ancorato nella Costituzione federale, e questo fino al tramonto del regime mussoliniano. Sventato il pericolo autoritario esterno (l’Italia nel 1946 diventa anch’essa una

Repubblica), rimaneva quello endogeno, ossia l’intedeschimento, una forma di neo-colonialismo vissuta dai ticinesi come un’azione di esproprio, sia della terra («Bauland Tessin»), sia della lingua italiana. Un dibattito che poi si riaccenderà negli anni Ottanta del Novecento, dopo l’apertura della galleria stradale del San Gottardo (come si vede il tema delle vie di comunicazione trascina sempre con sé un sacco di altre questioni). Nel contempo andava configurandosi un altro incontro-scontro, quello con gli immigrati italiani, bersaglio di una martellante campagna ostile da parte dei movimenti xenofobi. Anche questa comunità era portatrice di italianità nei suoi luoghi di ritrovo e di aggregazione, ma agli occhi degli svizzeri italiani rimaneva una presenza estranea se non esotica. Le pur lodevoli iniziative radio-televisive («Per i lavoratori italiani», «Un’ora per voi») non abbatte-

vano gli steccati che la propaganda anti-italiana di Schwarzenbach e seguaci aveva eretto fin dalla metà degli anni Sessanta.

Ora il panorama è decisamente cambiato, perfino nella più rigida Svizzera tedesca. Ora l’italiano non vive più ai piedi della scala socio-economica; è anzi accettato come esponente di un modo di vivere inconfondibile, in cui convergono buon gusto, moda, eno-gastronomia, concezioni estetiche. Si parla per tanto di «Italian style» o, come per anni ha sostenuto il primo presidente della regione Lombardia Piero Bassetti, di «italicità», intendendo con questo un amore per le cose d’Italia che trascende la conoscenza della lingua. In Ticino invece il concetto di italianità è uscito dall’uso, spodestato da «identità», termine tanto vago quanto informe, e per niente inclusivo. Ma un’identità priva di italianità è un guscio vuoto.

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Oppenheimer

Grande attenzione di critica e di pubblico per il film di Christopher Nolan sul padre dell’atomica

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La natura primordiale e ibrida di Teres Wydler

Mostra ◆ L’artista svizzera è protagonista al Museo Comunale d’Arte Moderna di Ascona

Mai come oggi il rapporto tra uomo e natura è diventato un tema di assoluta centralità non solo nei dibattiti prettamente scientifici ma anche in quelli sociali, politici e, nondimeno, in quelli estetico-artistici. In linea con il comune sentire dell’epoca attuale, lo sguardo dell’arte si è fatto ancor più premuroso e critico nei confronti di problematiche ormai impossibili da ignorare e che necessitano di soluzioni urgenti.

A livello globale, sempre più artisti fanno della loro ricerca creativa una forma di attivismo capace di sensibilizzare il pubblico sulle questioni legate all’ecologia, alla sostenibilità e ai cambiamenti climatici. A muoverli è il desiderio di farsi interpreti di una nuova concezione del legame tra individuo e ambiente basata sulla consapevolezza di dover modificare alla radice la nostra cognizione della natura, partendo dal presupposto che non c’è divisione tra noi ed essa e che il modo in cui la trattiamo si ripercuote inevitabilmente sulla nostra esistenza: a una natura sempre più sfigurata dal nostro sfruttamento corrisponde una condizione umana sempre più disorientata.

È fondando il proprio lavoro su questo concetto che Teres Wydler, artista di origine bernese attiva tra Zurigo e Intragna, porta avanti fin dagli anni Ottanta un’indagine improntata sul dissidio tra la natura come forza primordiale e la natura ibrida, addomesticata dall’essere umano per poterci vivere secondo i propri bisogni.

Ciò che interessa alla Wydler è cogliere le trasformazioni che caratterizzano l’ambiente nell’era della tecnologia, esplorando gli interventi innescati dall’uomo contemporaneo in relazione al paesaggio in costante mutamento.

Con la sua formazione artistica imbevuta di studi e interessi scientifici, la Wydler riflette dunque sul modo in cui i processi organici della natura si incontrano con quelli artificiali della cultura dell’essere umano, palesandone i contrasti. La chiave sta nel comprendere che, affinché l’incontro tra natura e cultura possa essere virtuoso, è indispensabile prima di ogni altra cosa prendere le distanze da una visione antropocentrica. Nel flusso di una natura in continua metamorfosi, infatti, l’uomo appare irrilevante. Nostro dovere è quello di capire la complessità e la ricchezza del pianeta, coscienti che esso non sta alle nostre regole. Riassumono bene questo concetto le parole dell’artista stessa: «Cinquecento anni fa abbiamo superato il geocentrismo grazie a Giordano Bruno, Niccolò Copernico e Galileo Galilei. Oggi è tempo di superare l’antropismo». Consapevoli che la natura si riappropria sempre del suo spazio vitale, meglio allora porsi in una posizione di ascolto e di rispetto delle sue esigenze che ci permetta di sentirci parte di una totalità.

A ispirare le opere della Wydler sono prima di tutto gli artisti americani della Land Art, da Robert Smithson a Walter De Maria e Michael Heizer. Proprio in America, a New York, l’artista si trasferisce negli anni Ottanta grazie a una borsa di studio. È qui che, già a partire dal 1983, lavora a progetti in cui le sue creazioni vengono sottoposte agli interventi esterni del mondo naturale, come il vento, la pioggia e gli animali. Sempre a New York, la Wydler incomincia anche a elaborare un suo personale patrimonio di segni e immagini in cui confluiscono scienza, filosofia, mito e arte: una sorta di deposito di elementi desunti dalla matematica, dalla fisica, dall’astronomia e dall’alchimia che l’artista trasferisce poi nei suoi esiti estetici.

Sempre attenta alla dimensione temporale della natura, con i suoi ritmi legati alla germinazione, alla fioritura e al deperimento, la Wydler ricorre così all’utilizzo di residui co-

me semenze, radici, pollini, foglie e fiori, raccolti e innestati in processi sintetici, nonché alla ripresa di figure geometriche, formule scientifiche e simboli ermetici con cui crea opere seducenti ed enigmatiche in grado di stimolare la riflessione sulla nostra interazione con il pianeta.

Il Museo Comunale d’Arte Moderna di Ascona, proseguendo nell’intenzione di organizzare rassegne che omaggino l’attività di importanti donne artiste, dedica a Teres Wydler una mostra in cui i lavori presentati danno infatti vita a un percorso che pungola il pensiero dello spettatore, inducendolo a porsi delle domande sul rapporto tra uomo e natura con una mente aperta e pronta a mettere in discussione le proprie certezze.

L’emblematico titolo scelto per l’esposizione, Nature IN Transit, rivela subito quale sia l’obiettivo dell’artista, ovvero quello di renderci partecipi delle sue sperimentazioni in cui l’ar-

Hypernature, 2012. Fotogrammacollage. Fine Art Print su Hahnemühle. (© Teres Wydler)

Colpisce poi la nostra attenzione l’installazione ambientale Artifice in Nature/Nature in Artifice (2002/2023), una casetta ricoperta da un prato verde attorno a cui, sul pavimento, sono stati collocati alcuni frammenti di specchi. L’opera è stata affidata al museo, che se ne è preso cura bagnando l’erba e illuminandola per favorire la fotosintesi clorofilliana: grazie alle premure umane, ha potuto così sopravvivere all’interno di uno spazio artificiale in una perfetta simbiosi tra natura e cultura.

tificio dell’uomo tecnologico odierno si confronta con la natura in via di mutazione.

Attraverso installazioni, video e collage, tutti site-specific, la Wydler, senza alcun pregiudizio e puntando al processo piuttosto che al risultato, chiede il nostro coinvolgimento affinché possiamo meditare sugli effetti illusori e sulle contraddizioni del nostro approccio all’ambiente.

Piccola summa di questo concetto è l’opera Rosas, a inizio mostra: trenta rose essiccate, fissate al muro con del nastro adesivo nero e disposte all’interno di un piano cartesiano, come a volerle ordinare e categorizzare per poterle comprendere. Eppure questi fiori, nei loro diversi colori e nel loro posizionarsi ognuno in maniera diversa, sfuggono al rigore prestabilito, ricordandoci che serve uno sguardo più ampio e decentralizzato, capace di cogliere anche ciò che si ribella alla nostra razionalità.

Ecco poi alcune fotografie della serie Transit Nature, scattate dall’artista durante i suoi viaggi in treno da Zurigo a Intragna per catturare la vegetazione intrappolata tra i guardrail dell’autostrada, o l’opera De Cultura, del 1992, in cui la Wydler pianta dei semi direttamente sul supporto cartaceo lasciandoli liberi di fare il loro corso bio-chimico-energetico. Nell’installazione Controlled Versus Uncontrolled Nature, datata 2013, una radice di bambù secca è stata inscatolata in un packaging accattivante, a simboleggiare come la natura venga trattata dall’uomo alla stregua di un oggetto finalizzato al proprio uso e consumo, mentre nei dieci fotocollage del ciclo Nat. Hist., del 2023, alcuni animali imbalsamati dell’American Museum of Natural History di New York vengono ricollocati dall’artista nel loro habitat naturale ricostruito; in ogni istantanea, però, appare anche una grande area bianca che incarna il distacco della visione egoistica e strumentale dell’uomo da quella che dovrebbe essere una vicinanza empatica al mondo vegetale e animale. Nell’ultimo ambiente della mostra, un’installazione video dal titolo Aeons of Accumulations ci riporta all’epoca in cui la Terra ha avuto origine: un ammasso di alghe, i primi vegetali a comparire sul pianeta, si muove incessantemente disegnando infiniti andamenti fluttuanti. «In loro – spiega l’artista –risiede il potenziale di preservare risorse e abilità per milioni di anni. Rispetto a ciò, l’esistenza degli esseri umani appare come una realtà effimera». Dal Proterozoico, l’eone caratterizzato dalla prima abbondanza di forme di vita complesse sulla Terra, la natura si è evoluta di continuo. La domanda di Teres Wydler allora è questa: «Potrebbe essere che la cultura umana sia solo una tappa intermedia di questa evoluzione che consentirà alla natura di raggiungere un livello più alto?».

Dove e quando Teres Wydler. Nature IN Transit. Museo Comunale d’Arte Moderna, Ascona. Fino al 1. ottobre 2023. Orari: ma-sa 10-12 / 14-17, domenica e festivi 10.30-12.30, lunedì chiuso. www.museoascona.ch

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CULTURA
Alessia Brughera

Addio a Toto Cutugno, vero performer melodico

In ricordo ◆ Nato nel 1943, amato in tutto il mondo, il cantautore

Sebbene si possa affermare che oggi ciò avvenga sempre meno spesso, in passato la scena della musica popolare italiana è stata attraversata da figure in grado di travalicare i limiti imposti dalle banali divisioni di genere per unire tipi di pubblico anche molto differenti tra loro. Il celeberrimo Salvatore «Toto» Cutugno (nella foto), scomparso la scorsa settimana a 80 anni appena compiuti, era senz’altro uno tra i pochi eletti – e questo nonostante gli sguardi scettici di molta critica musicale italiana, che lo ha spesso visto come un esempio del kitsch made in Italy, alla stregua di figure altrettanto neglette quali Nino D’Angelo e Mario Merola.

Al pari di molti performer della sua generazione, Toto è stato contraddistinto, oltreché dall’enorme successo popolare, anche da una grandissima professionalità

Esiste infatti una certa forma di snobismo dai marcati accenti esterofili, che tende a relegare personalità del calibro di Cutugno al ruolo di cosiddetti «cantanti popolani», anziché popolari – e di fatto, in quel banale cambiamento di consonante si nasconde una vera e propria condanna: la tendenza altezzosa a storcere il naso davanti a quella che viene erroneamente percepita come una facile concessione alle sfumature meno «colte» del pop. Così, diventa facile dimenticare che Cutugno è stato, in realtà, uno dei rappresentanti più autentici della canzone italiana nel mondo, come evidenziato dal successo a dir poco stellare otte-

nuto a livello internazionale: del resto, cento milioni di dischi venduti costituiscono un record che ben pochi artisti possono vantare.

Non solo: al pari di molti performer della sua generazione, Toto è stato contraddistinto, oltreché dall’enorme successo popolare, anche da una grandissima professionalità – cosa che, nell’epoca dell’auto-tune e delle effimere popstar diventate fenomeni semplicemente grazie alla loro capacità di suscitare scandali mediatici, è ormai divenuta merce rara. Certo suscita un discreto rammarico constatare come il palco del Festival di Sanremo sia oggi sempre più spesso conteso tra giovincelli intenti a puntare molto sul look e sulla trasgressione e, per contro, troppo poco sulle proprie capacità vocali e le qualità melodiche dei brani – elementi teoricamente destinati a costituire ben più che semplici dettagli secondari. Eppure, c’è stato un tempo in cui un cantante dall’evidente talento (ma dall’aria forse non esattamente glamour) quale Cutugno poteva inanellare quindici partecipazioni a Sanremo, tra cui ben sei secondi posti – senza dimenticare, naturalmente, la vittoria del 1980 con il brano Solo Noi, poi seguita dal trionfo all’edizione 1990 dell’Eurovision Song Contest (con Insieme: 1992). Tuttavia, c’è da scommettere che i giovanissimi andati in brodo di giuggiole davanti alla vittoria dei Måneskin all’edizione 2021 dell’ambita kermesse europea non immaginino affatto che l’illustre predecessore di tanta gloria sia stato proprio un connazionale definibile come artisticamente agli antipodi, e tuttavia in grado di lasciare il segno su molteplici generazioni di ascoltatori.

E pensare che, a differenza di tan-

Le nuove povertà

e paroliere italiano ci ha lasciati settimana scorsa

Molleggiato – che in seguito avrebbe amaramente rimpianto la sua decisione – apparisse semplicemente perfetto per quel pezzo, il successo inimmaginabile della versione di Toto avrebbe per sempre etichettato l’artista toscano come portavoce canoro del proprio Paese.

te star patinate, il Nostro aveva vissuto inizi tutt’altro che privilegiati: il giovanissimo Cutugno, già batterista adolescente, dovette infatti abbandonare il pianoforte a causa del costo troppo elevato dello strumento, passando così alla fisarmonica – esperienze che gli avrebbero donato una preziosa formazione da polistrumentista, cruciale nell’infondere respiro e profondità al suo lavoro di performer. Forse anche per questo, tanta perseveranza è stata premiata da una carriera durata ben 60 anni e proseguita, instancabilmente, fino a poco prima della morte: un risultato ancor più significativo, se si pensa che Toto si è dedicato principalmente a un genere a prima vista poco internazionale quale la canzone melodica italiana nella sua accezione più culturalmente radicata, e (apparentemente) avulsa dalle mode contemporanee – il che avrebbe portato molti autoproclamatisi «intellet-

Feuilleton ◆ Il romanzo a puntate di Lidia Ravera per «Azione». Sul nostro sito www.azione.ch sono disponibili quelle precedenti

Da una settimana le finestre dell’appartamento di via Giulia erano chiuse e sbarrate dagli scuri. Betta aveva preso l’abitudine di andare a prendere la figlia a scuola, per concedersi quel quotidiano ronzare attorno al palazzo dove abitava Von Arnim, fantasticava di incontrarlo mentre era con Sara. E che le facesse salire tutte e due fino alle sue sontuose stanze. Immaginava l’impressione che avrebbe fatto quel lusso sulla ragazzina. «Mamma, sposalo, è impaccato di soldi!», avrebbe detto. O forse no. Certo la povertà induceva al disprezzo per i genitori adolescenti cresciuti senza altro obbiettivo che possedere questo o quell’oggetto, fotografarlo, condividerlo in rete. Farsi invidiare.

I poveri non erano per definizione invidiabili.

E poi: che poveri erano loro? Poveri per scelta. Per presunzione di potere.

Avevano mai pensato di andare a lavorare e basta? In un ufficio, in una fabbrica o in un negozio? Senza gratificazioni che andassero al di là dello stipendio o addirittura del salario, a fine mese? No, mai.

Quindi né invidia né pena.

Che cosa suscitava lei, agli altri abitanti del mondo?

Era a pochi metri dal portone di casa quando vide Tom uscire, istintivamente si fermò, e si finse intenta a frugare nella borsa, osservandolo di sottecchi. Non si era accorto di lei, e stava imboccando la strada che portava al lungotevere. Decise di seguirlo. A distanza. Era svelto, leggermente gobbo come se portasse addosso un peso che gli faceva chiudere le spalle.

Betta percepì nettamente, nel guazzabuglio dei suoi sentimenti, una specie di disperata tenerezza.

Ne avevano parlato, del divorzio. Ne parlavano spesso. Come, prima che lui la mettesse incinta, parlavano spesso dei due bambini che avrebbero messo al mondo e che avrebbero educato con gioviale saggezza e giocattoli moralmente significativi.

Quando la gravidanza era diventata una realtà, era scaduta come argomento di quelle conversazioni a bassa voce, cariche di pathos, che seguivano, per lo più, un accoppiamento felice.

La bambina aveva tre anni quando avevano incominciato a parlare di divorzio.

Ma si trattava, lo ammettessero o no, della meccanica del litigio, un copione che avevano perfezionato negli anni, e che, inevitabilmente, li portava

a paci sontuose, in cui le loro anime si aggregavano con la forza dello scampato pericolo e le lacrime di Betta servivano da lubrificante per una appassionata compenetrazione dei corpi.

Del divorzio come di una svolta possibile per uscire dal pantano in cui si agitavano senza muoversi da mesi, avevano ricominciato a parlare da pochi giorni.

Da pochi giorni, il discorso sul divorzio era uscito dalla stanza dello psicoanalista di Betta per insediarsi nella tana di Betta e Tom. Ne parlavano con una simulata freddezza, la mattina, mentre «la bambina» era a scuola.

«Tu vai a vivere da tua madre, magari ti porti Sara».

«Certo, buona idea… così Esther e Candido mi sotterrano di prediche sulla mia immaturità, sulla precarietà in cui viviamo immersi come…».

«D’accordo, tu vai a stare da Nicola e Sara va dai Fortuzzi».

«Se il problema è che vuoi restare sola…».

«E se fosse?».

«Quindi il problema non sono io».

«Siamo noi, il problema».

«Il problema è che non siamo riusciti a diventare NOI, siamo due io sgomitanti sull’orlo del baratro». (41 – Continua)

tuali» del pop-rock a storcere il naso davanti all’inarrestabile, sempreverde rilevanza di un Cutugno che, forse proprio grazie alla propria devozione alla tradizione, ha attraversato indenne mode e correnti d’ogni tipo, rimanendo sempre sulla cresta dell’onda. Eppure, guardandosi indietro, diviene altrettanto evidente come, per molti versi, egli sia stato ben più di un semplice ambasciatore dell’italianità nel mondo: perché se è impossibile trascurare che il suo più grande successo (nel 1983) è stato proprio il tormentone L’italiano (come dimenticare il leggendario incipit «lasciatemi cantare / con la chitarra in mano»?), forse non tutti sanno che, per ironia della sorte, Cutugno abbia finito per legarsi a quella canzone quasi per caso, dopo che Adriano Celentano (per il quale era originariamente stata pensata) l’aveva rifiutata; e anche se è facile intuire come il timbro irriverente del

Tuttavia, andando oltre il risaputo status di icona del pop tricolore, Toto si era rivelato anche un autore fortemente raffinato, componendo brani, tra gli altri, per Ornella Vanoni e il già citato Celentano; e nonostante sia sempre stato identificato con la forma canzone più classica, non ha disdegnato neppure exploit di carattere più sperimentale e azzardato (si vedano le incursioni nella musica progressive da lui effettuate negli anni ’70 come cantante degli Albatros). Il che offre un’interessante dicotomia, ricordandoci come, nonostante la fedeltà alla melodia, l’Italia sia spesso stata in prima linea nell’avanguardia musicale pop – in fondo, una perfetta metafora del destino di Cutugno, «incastonato» a vita nello stereotipo del cantante demodé e d’altri tempi nonostante la sua invidiabile capacità di mettersi in gioco e rimanere sempre in sella.

Di fatto, sebbene la dipartita dell’inossidabile Toto Cutugno non sia giunta come una vera sorpresa (l’artista combatteva da anni contro il cancro), non vi è dubbio che con la sua morte scompaia, forse per sempre, anche una figura per molti versi sottilmente rivoluzionaria: quella del performer orgogliosamente popolare, che, in barba ai commenti cinici di critici musicali spesso lontani dal polso del pubblico, ha saputo combinare professionalità, talento e tradizione – regalando ai fan lunghi decenni di intrattenimento.

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Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 28 agosto 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino CULTURA 33
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Il teatro nella sua veste di impegno sociale

Spettacoli ◆ Molto seguita l’edizione del Festival internazionale di narrazione con i racconti di qui e d’altrove

Il carcere è una dimensione che il luogo comune non riesce a identificare come fonte di lezioni positive. Un sentimento di disagio avvolge la realtà detentiva come presenza sociale accettata e come luogo di punizione. Uno spazio coercitivo in cui espiare colpe racchiuse in un codice, in un sistema creato dall’uomo con l’obiettivo di redimere attraverso la pena, l’esclusione, l’annientamento sociale. Il carcere è la sede di un crudele processo di dissoluzione della personalità, un non-luogo dove l’individuo perde gradualmente la sua dignità che si confonde con la disperazione.

Il carcere è l’altrove su cui la XXIII edizione del Festival internazionale di narrazione con l’emblematico titolo di Vedersi di fronte ha voluto incentrare buona parte delle sue proposte sull’arco di quattro intense (e bollenti) giornate nei borghi e nelle corti di Arzo e Meride. Percorsi dove il tema principale ha convissuto con racconti destinati a giovani e bambini senza dimenticare spettacoli legati alla drammaturgia contemporanea. Il tutto accompagnato da interpreti eccellenti, una costante che ha caratterizzato l’offerta festivaliera rendendola unica e riuscita. Con il suo centro tematico il cartellone non ha lasciato nessuno a bocca asciutta, intrigando il pubblico con proposte provenienti da esperienze esemplari maturate soprattutto nel difficile contesto carcerario italiano inserite nel progetto Il teatro, una finestra aperta sul carcere sostenuto dal programma di integrazione cantonale del Dipartimento delle Istituzioni.

Toccante e profondo è il racconto di Davide Mesfun con Sguardi a confronto presentato dietro le sbarre del cancello della suggestiva vecchia dogana

Il carcere, dunque, con le sue identità variegate e ricche di umanità negata, è un terreno fertile per la narrazione laddove il teatro diventa la destinazione ideale per chi lo vuole raccontare utilizzando la scena come strumento di educazione e, per certi aspetti, veicolo di redenzione. La forza dell’esperienza raccontata in House we left di Alessandro Sesti con Cecilia di Donato accompagnata dai Greasy Kingdom ha narrato un’esperienza vissuta guidando una sezione transgender del carcere di Reggio Emilia lungo il sentiero teatrale. Lasciate le loro case, le detenute devono affrontare un luogo nuovo, estraneo, che cancella la loro esistenza nella società e racconta storie che generano interrogativi nella consapevolezza degli errori commessi.

Toccante e profondo è il racconto di Davide Mesfun con Sguardi a confronto presentato dietro le sbarre del cancello della suggestiva vecchia dogana, ormai dismessa, sulla via fra Arzo e Clivio. Una verità in carne e ossa che ha ripercorso la sua via, lunga e dolorosa, verso il riscatto per cui sta scontando 24 anni: «ho cambiato diversi istituti e dopo un tremendo periodo di isolamento, mi sono detto, o vai o rimani, ma se rimani non puoi pagarla due volte». Per Davide, ex-rapinatore oggi detenuto in semi libertà a Opera, il teatro dentro il carcere e l’esperienza del carcere si fanno teatro esperienziale grazie a un percorso educativo e professionale. È il

risultato di un laboratorio realizzato con detenuti della casa di reclusione e con studenti che ha assunto una forma esemplare riconosciuta dall’Università Bicocca.

C’è anche chi invece ha raccolto le testimonianze di donne in attesa di incontrare i parenti detenuti di Poggioreale a Napoli. Come Eduardo Di Pietro con Il colloquio con i suoi attori Renato Bisogni, Mario Cangiano, Marco Montecatino (nella foto). Un’ora di schietta veracità partenopea nella tragica condizione di chi unisce il fatalismo alla sofferenza, fra il sorriso e l’amarezza di una vita negata. Bello e intenso. Nel corso dei diversi e interessanti incontri con autori e protagonisti dei progetti sviluppati sulla scena, sebbene mettendo in forte evidenza l’umanità così ricca e frastagliata presente in un carcere, ci è forse mancato l’appuntamento con l’approfondimento del suo universo culturale, inteso come società di invisibili costruita fra le mura della società stessa. Una realtà fatta di regole, di gerarchie, con la sua morale e la sua giustizia, spesso spietata. Come ad esempio nei confronti di stupratori e pedofili. È un aspetto difficile da raccontare e da accettare se, in qualche modo, non lo si è vissuto in prima persona, ma è una dimensione presente che si tramanda all’interno di spazi dove tutto trasuda coercizione e isolamento. Una constatazione che vuole allontanare il pericolo di quel buonismo che spesso avvolge un tema sensibile come una nuvola protettiva, come una distanza che permette una sorta di oggettività nei confronti di una realtà della quale è necessario però imparare la grammatica per evitare di trasformarci nei soliti antipatici e morbosi colonizzatori del male.

Alle proposte legate al tema del carcere abbiamo anche voluto aggiungere un’iniziativa originale accanto a spettacoli orientati alla drammaturgia contemporanea. Come Vasi comunicanti che, giunto alla sua quarta edizione, esito teatrale di un progetto transfrontaliero che ha coinvolto quattro autori dopo un periodo di residenza: Chiara Boscaro, Stefano Beghi, Allegra de Mandato e Angela Demattè. Ne è uscito un collage di quattro storie di una memoria collettiva raccolte fra Clivio, Saltrio, Meri-

de e Besazio da cui emerge la forza sociale di vicende legate alle comunità di confine. Una Microstoria come chiosa fra le pagine della grande Storia, raccontata con efficacia da Alice Pavan, Susanna Miotto, Emanuele Arrigazzi e Stefano Beghi nella corte interna

di Casa Fossati a Meride. Per un’incursione nel contemporaneo ci siamo dapprima affidati a Gli altri. Indagine sui nuovissimi mostri di Nicola Borghesi e Riccardo Stabilio. È un’indagine sui giorni nostri, fra urla di rabbia e disperata solitudine, fra espressioni

di superficiali e volgari spinte collettive all’odio della shitstorm mediatizzata e in cui ci si può imbattere fra le pagine dei social con hater impuniti. Con un’energia straordinaria, Borghesi si fa interprete di un’indagine originale e coraggiosa nata dai commenti sessisti di un giovane pizzaiolo locale all’indirizzo di Carola Rackete al momento del suo arresto a Lampedusa, dopo essere approdata con la nave Sea-Watch con a bordo 42 migranti salvati dal naufragio. Borghese entra nella storia di quella giovane vittima delle contraddizioni del sistema.

Il racconto di una coppia di potere è invece quello scritta da David Lescot e interpretato da Elvira Frosini e Daniele Timpano ne Gli sposi. Romanian tragedy sul palco del Giardino Castello di Arzo. Con il suo stile inconfondibile, la coppia teatrale romana esplora con ironica, surreale e divisiva forma caricaturale, la storia di Nicolae Ceausescu e Elena Petrescu, i sanguinari e capricciosi Macbeth dei Balcani destituiti e giustiziati sommariamente nel 1989 dopo un ventennale delirio di onnipotenza vissuta sulla pelle del popolo romeno. Momenti teatrali preziosi, incastonati nella cornice di un festival che anche con questa edizione ha lasciato al pubblico innumerevoli spunti di riflessione su come leggere il passato e il presente.

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«L’esperienza vale molto più della tecnologia»

Incontri ◆ Di professione tecnica del suono, «cresciuta a pane e Kiss», Lara Persia si racconta tra passione e nuove sfide

Bisogna inoltrarsi lungo stradine nel bosco anche abbastanza impervie, per arrivare al Lemura Recording Studio di Lara Persia (amante degli animali, nella foto è ritratta assieme a uno dei suoi gatti). Forse è giusto così. Le sale di registrazione più importanti sono ricordate spesso per la loro particolare location, che riesce magari anche a diventare mitica. Qui, dalla collina di Agra si spazia sulla piana di Grancia e sull’autostrada. Le macchine, si vedono lontane, là in fondo. Scorrono quasi senza rumore, apparentemente… «Eh no, si sentono eccome: i microfoni sono molto sensibili e a volte riescono a captare il fruscìo» commenta sorridendo Lara. Lo Studio Lemura trova posto in una piccola costruzione, apparentemente normalissima, proprio al margine del bosco. Sembra una casetta di vacanza. Al suo interno invece, varcando la soglia, ci si trova nella plancia dell’Enterprise. Le pareti sono insonorizzate da pannelli speciali (molto coreografici, tra l’altro). Vari tipi di strumenti musicali, aste per microfoni, cavi, colonne audio e monitor video di ogni genere occupano gli spazi. Il pezzo più importante e suggestivo dell’impianto è la grande consolle del mixer…

Sembra davvero un pezzo di astronave!

Viene da New York. Era in uno studio molto grande che si chiamava Sound One. Su questa regia, dal 1978 in poi, sono state mixate un sacco di musiche da film famosi, e anche diversi dischi. Una regia che lavorava a tempo pieno, tutti i giorni. E come ha fatto ad arrivare ad Agra?

Volevo una regia analogica «di quelle vere». Era un sogno, e sembrava un sogno impossibile, in particolare a causa dei prezzi. Poi un giorno, a New York, ne ho trovata una a un costo ragionevole.

Potenza di Internet?

Esatto. Un prestito in banca e via. È arrivata in perfetta forma. Ovviamente ha bisogno di una regolare manutenzione. Io ho una persona che se ne occupa.

Sono macchine delicate?

No, lei (molto tenero il modo con cui Lara si rapporta alla sua consolle, ndr) non è molto delicata, meno di quelle digitali. Inoltre è costruita in modo semplice, quindi anche se hai problemi, è facile metterla a posto. La sua tecnologia, diciamo, è molto «trasparente».

Lo studio Lemura di fatto è nato nel 2007. Lei da quando lo aveva in mente?

Da quando ero bambina e pensavo di diventare una rockstar. Sono cresciuta a pane e Kiss. Vedevo alla TV tutti quei musicisti negli studi in America registrare con queste regie piene di luci. Mi hanno sempre affascinata. All’inizio volevo fare gli esami al Conservatorio da privatista, studiare chitarra classica. Poi mi sono detta: «No, io voglio fare il tecnico del suono. Voglio avere uno studio di registrazione». Sono riuscita a convincere i miei genitori e siamo partiti per Londra, per cercare una scuola. All’epoca ce n’erano due o tre. Ho scelto quella che più mi ispirava. Era una piccola scuola privata

con pochissimi allievi. Era il 1991…

Ho vissuto lì per due anni.

Che musica girava, allora, cosa ascoltava?

Mi ricordo uno dei primi pezzi dei Nirvana, Smells Like Teen Spirit. Qui però devo dire una cosa che forse sembrerà strana: a me non interessa ascoltare una canzone dal punto di vista della musica, il mio cervello va sempre ad ascoltare i suoni. Mi piace scomporre i suoni e immaginarmi gli strumenti lì, nello spazio. Quando ascoltavo i pezzi, già allora, cercavo di capire, ad esempio, come era messo il microfono. Era lontano? Era vicino? Che tipo di microfono era?

Che tipo di riverbero c’era? Nella mia professione non ti dirò se la canzone è bella ma ti spiegherò i suoni.

Quindi un tecnico del suono non si concentra sul contenuto di una canzone?

Ascoltiamo anche il contenuto, ma soprattutto ci concentriamo sulla forma. Devi sentire quali emozioni ti trasmette la musica che stai registrando, è quello che poi ti dice come muoverti. È il lato artistico del nostro lavoro. Per assurdo, la stessa band registrata da me o da qualcun altro potrebbe avere un suono totalmente diverso. Quando ascolto qualcosa che poi devo andare a registrare, mi immagino sempre di vedere gli strumenti nello spazio, di pensare dove li vorrei: me li immagino rotondi, più lontani, più fini, più larghi. È una cosa che sento a livello di pancia. Da lì decido quali microfoni usare, come metterli...

Come funziona la condivisione con l’artista?

La cosa che chiedo sempre quando i musicisti vengono a registrare da me, è di farmi avere dei dischi di riferimento, in modo da capire meglio i suoni che piacciono loro. Poi se il musicista è d’accordo ci metto del mio. Se invece è contrario – come è capitato – gli dico «Ok, se vuoi facciamo così, ma a me sinceramente non piace». Una volta ho chiesto che il mio nome non risultasse sul disco. Insomma, se un musicista vuole lavorare con me deve essere in chiaro sul mio modo di procedere e i miei gusti. Altrimenti non sono la persona giusta.

Qual è la direzione in cui vorrebbe portare la musica che registra?

Riprodurre il suono degli strumenti così come è, registrarli nel modo più naturale possibile e al tempo stesso renderli più belli, più patinati. Come quando hai una rivista con una copertina che brilla. Mi interessa rendere la musica più brillante, più profonda e più ampia… Gigante: dev’essere gigante. Ma deve essere anche naturale.

Non sarà sempre facile… A volte funziona, a volte no. Dipende anche dal tocco del musicista. Dipende certamente dallo strumento di per sé, ma il lavoro più importante è come e dove si posizionano i microfoni. Certo, poi è fondamentale come mixi il materiale, ma io cerco sempre di prendere il suono nel modo migliore.

Parliamo della sua carriera radiofonica: nel lavoro alla RSI ha avuto modo di conoscere grandi professionisti. Ho lavorato con Manfred Eicher, il boss dell’ECM. Ho fatto sette o otto dischi con lui. Era il mio sogno. È

diventato realtà. Da lui ho imparato tantissimo. Lui sa esattamente il suono che vuole. Mette le mani sul mixer, lavora con te: è… non lo so… una forza della natura. Negli anni ho conosciuto un sacco di musicisti. Molti si sono ricordati di me. Alcuni sono venuti qui al Lemura Studio. Per questo ho pensato

di ingrandirlo: ne stiamo costruendo una nuova ala, in cui sarà ospitato un pianoforte Steinway. È un impegno finanziario non da poco. Ma succedono cose inattese. Durante il Covid mi ha contattata un pianista di Boston dicendo: «Ho sentito un disco di cui mi piaceva molto il suono e ho letto che l’hai registrato tu. Stavo cercan-

do qualcuno per il mio nuovo album: vorresti iniziare il disco con me?». Sono belle soddisfazioni. Oggi è relativamente facile mettere su uno studio di registrazione. Ma l’esperienza vale molto più della tecnologia. La tecnologia è al tuo servizio, ma tu devi sapere come usarla per ottenere il suono che hai in testa.

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Il fuoco di Oppenheimer

Cinema ◆ Grande successo per il film più riuscito di Christopher Nolan

Nicola Falcinella

Incubi e visioni, luce e oscurità. Oppenheimer, la pellicola di Christopher Nolan è un film di contrasti, del quale tanto si sta parlando e si spera, si parlerà, perché come il vino bisogna lasciarlo decantare per capirlo al meglio.

Oppenheimer è un’opera importante che negli Usa e nei Paesi in cui è già uscito nelle sale ha riscosso un grande successo di pubblico, a differenza della precedente pellicola che aveva già raccontato questa storia. La vicenda di Robert Oppenheimer, considerato il padre della bomba atomica, era stata portata sullo schermo nel 1989 da Roland Joffé (noto soprattutto per Urla del silenzio e Mission) ne L’ombra di mille soli con Paul Newman, Dwight Schulz, John Cusack e Laura Dern. Una pellicola molto classica, basata soprattutto sul rapporto tra lo scienziato e il generale Leslie Groves responsabile del progetto Manhattan, che si inseriva nel filone del cinema bellico con una bella colonna sonora di Ennio Morricone e con un risultato per nulla malvagio, che però si rivelò un flop al botteghino.

Oppenheimer avrebbe rubato un altro fuoco, quello della fissione tra atomi all’origine del mondo, per farne un’arma micidiale

Tutt’altro interesse si avverte per il dodicesimo lungometraggio del regista inglese di Insomnia, Il cavaliere oscuro, Inception e Interstellar, basato sulla biografia Robert Oppenheimer, il padre della bomba atomica. Il trionfo e la tragedia di uno scienziato (in originale American Prometheus) di Kai Bird e Martin J. Sherwin. Naturalmente non si tratta di un film biografico comunemente inteso, bensì di un thriller costruito a tasselli avanti e indietro nel tempo, come ci si aspetta da Nolan. Se il titolo italiano del romanzo è molto esplicativo, quello americano centra il punto di partenza della visione nolaniana, ovvero quella del fisico che come Prometeo, il titano della mitologia greca, ruba il fuoco agli dei per darlo agli uomini. Oppenheimer avrebbe rubato un altro fuoco, quello della fissione tra atomi all’origine del mondo, per far-

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ne un’arma micidiale. Il personaggio è proiettato in una dimensione mitica ed esprime la sua ribellione a Dio, quasi a voler diventare un altro Dio. I concetti di creazione e distruzione stanno alla base dei contrasti che alimentano le tre ore del film: il rapporto tra benefici e potenziale devastante del fuoco è estremizzato nel caso del nucleare.

Oppenheimer, incarnato da Cillian Murphy quasi emaciato e spiritato, ascetico nella sua determinazione, è animato dall’ambizione e da un ideale, che diventeranno ossessione e poi tormento lacerante. Nolan non ne tratteggia la parabola in un lineare percorso di ascensione e caduta, parte invece da un momento chiave nella sua vita. Nella realtà, da eroe nazionale, lo scienziato finì presto processato in piena epoca maccartista, accusato per le simpatie comuniste che non aveva nascosto fin dagli anni Trenta, quando aveva fornito il suo contributo a diverse organizzazioni. Nel 1954 fu messo sotto inchiesta e gli fu revocata l’autorizzazione di sicurezza, quella che gli dava accesso ai segreti atomici di interesse militare. L’interrogatorio è uno dei punti di partenza del film, la linea narrativa dalla quale tutto deriva e subito presenta una delle sue controparti di spicco, il senatore Lewis Strauss (interpretato da Robert Downey jr.), ambiguo nei confronti dello scienziato che cerca di incastrare sulla base delle idee politiche. Lo spettro del comunismo è pari a quello dell’atomica in quegli Stati Uniti nel pieno della Guerra fredda, così Oppenheimer si trova di nuovo a dover allontanare i sospetti che sempre l’avevano accompagnato. Del resto l’uomo aveva a lungo frequentato la dirigente comunista Jean Tatlock (divertenti i loro siparietti con i fiori, uno dei tormentoni, nonché momenti di alleggerimento, della vicenda), anche dopo il matrimonio con la biologa Kitty, fino all’improvviso suicidio di lei che gli instilla un senso di colpa che divamperà dopo il Trinity test e ancor più dopo Hiroshima e Nagasaki.

A questo proposito arriva la scena che riassume il senso più profondo del film, l’incontro con il presidente Harry Truman (Gary Oldman in pochi minuti lascia il segno): questi smonta, anche con il gesto beffardo del fazzoletto, le convinzioni del protagoni-

sta (e pure le tentazioni da superuomo) prendendosi tutte le responsabilità dell’impiego degli ordigni. Le responsabilità della scienza e della politica sono separate, si tratta di due piani distinti, sebbene una volta che uno strumento sia disponibile qualcuno deciderà di usarlo. Così pure, quando ci sono le conoscenze scientifiche per realizzare qualcosa, si scatena una gara per arrivarci: Oppenheimer, quando capisce che anche i tedeschi possono arrivare alla bomba, moltiplica gli sforzi per precedere i nazisti e difendere il mondo libero. Anche in questo si vede un legame con l’attualità, che si tratti di bioingegneria o intelligenza artificiale, se una cosa è possibile, qualcuno la raggiungerà.

Forse non sarà un secondo Prometeo, ma Nolan riesce a stare vicino alle proprie ambizioni per il suo film più riuscito

Nolan vuole rendere le ossessioni di Oppenheimer non solo esplicitandole tra visioni e incubi, ma con la forma contorta che gli è consona, in modo meno cervellotico rispetto ad altri suoi film. Il regista esplora i limiti e le potenzialità della scienza e degli umani e anche del cinema, forse la sua ambizione è essere il Niels Bohr della situazione, il fisico danese che fece lezione a un giovane Oppenheimer nel 1926 spiegando che la fisica quantistica non rappresentava un semplice passo avanti, ma un cambiamento completo rispetto alla fisica classica. Forse non sarà un secondo Prometeo, ma Nolan riesce a stare vicino alle proprie ambizioni (ha filmato in pellicola 70 mm, per una proiezione che rende al massimo sugli schermi Imax, con un lavoro sul sonoro di grande impatto) per il suo film forse più riuscito. Curiosamente, sembra essere un’estate cinematografica dedicata al nucleare: il bel thriller serbo-francese Guardians of the formula di Dragan Bjelogrlić, su uno sconosciuto episodio di ricerche in Jugoslavia nel 1958 e di generosità di medici francesi, ha vinto il Pardo verde e il premio Variety al Festival di Locarno, mentre Wes Anderson in Asteroid City racconta a suo modo la paranoia da guerra fredda.

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Tel. 091 912 17 17 – info@prosenectute.org

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