Azione 37 del 9 settembre 2019

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Cooperativa Migros Ticino

Società e Territorio Nel nostro cantone sono ancora poche le vie intestate a personalità femminili

Ambiente e Benessere Bruciano le foreste dalla Siberia all’Amazzonia: che impatto hanno questi roghi sull’effetto serra? Quanto CO2 assorbe e sequestra un albero? Quali sono i rischi futuri?

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXII 9 settembre 2019

Azione 37 Politica e Economia Quella tedesca non è solo una crisi politica ma è anche una vera e propria crisi strutturale

Cultura e Spettacoli Designer, architetto, artista: a Milano Palazzo Reale celebra la poliedrica figura di NandaVigo

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Simona Dalla Valle

Wadi Rum, tra beduini e cinema

di Simona Dalla Valle pagina 21

Usa e Cina sempre più estraniate di Peter Schiesser Le borse mondiali sembrano uno yo-yo: l’annuncio di un nuovo incontro a Washington fra negoziatori americani e cinesi a inizio ottobre, capeggiati dall’uomo di fiducia di Xi Jinping, il suo uomo per l’economia Liu He, le fa salire. Il fatto che Liu He avesse disdetto il round precedente previsto a inizio settembre per l’annuncio di nuovi dazi commerciali americani sui prodotti cinesi, le aveva fatte scendere, dopo che erano già state depresse da altri dazi in maggio; mentre in precedenza i segnali di un possibile accordo seguiti all’incontro di primavera le avevano fatte risalire. E quando le borse sono così volatili significa che c’è nervosismo. A breve termine, la guerra commerciale in atto non dovrebbe portare ad una recessione mondiale, ma diversi analisti americani reputano che se invece dovesse portare a tanto, sarebbe una recessione che lascia il segno. In realtà, attualmente questi round negoziali possono portare ben poco: non si tratta più solo di una guerra commerciale, ma di uno scontro geopolitico. Se inizialmente il presidente americano ha usato l’arma dei dazi per costringere Pechino a comprare più prodotti

americani per riequilibrare la bilancia commerciale, per migliorare l’accesso delle aziende americane in Cina e allo stesso tempo proteggerle dai «furti tecnologici» cui sono sottoposte, oggi Trump manifesta il chiaro obiettivo di impedire alla Cina di diventare la maggiore potenza mondiale entro qualche decennio e in particolare leader nell’intelligenza artificiale. Oggi non sembra più avere tanto a cuore il destino delle aziende americane in Cina, visto che ha deciso di imporre loro, con i suoi poteri presidenziali, di lasciare il suolo cinese. Questa confusione e sovrapposizione di obiettivi rende difficile che le parti raggiungano un accordo. E l’appello-ordine di Trump non è caduto nel vuoto: alcune grandi multinazionali statunitensi hanno annunciato che si ritireranno dalla Cina e stanno cercando alternative in altri paesi asiatici, Vietnam e India per esempio. Altre aziende le hanno già precedute. Nell’economia globalizzata di oggi, le catene di produzione sono sparse in più paesi, doversi trapiantare altrove implica grossi investimenti e una visione a medio-lungo termine. Non sarebbe quindi logico che tornassero in Cina neppure se fra Trump e Xi Jinping dovesse concretizzarsi un accordo. Le economie statunitense e

cinese erano molto intrecciate, ora lo stanno diventando meno e la strategia del governo americano è che lo siano ancora meno (quanto, non si sa). Le due maggiori potenze si stanno estraniando, ciò che le renderà ancora più soggette e disposte a conflitti. Una guerra commerciale ha solo dei perdenti. Ma chi perde – come presidente eletto ma anche come presidente a vita – alla fine perde tutto. L’aumento dei dazi americani sui prodotti cinesi, che a fine anno supereranno il 40 per cento in alcuni settori, penalizzeranno i consumatori statunitensi e questo potrebbe alienare potenziali (ri-) elettori di Trump; allo stesso tempo un raffreddamento dell’economia cinese, così sensibile agli introiti derivanti dalle esportazioni, rappresenta un rischio per la stabilità del colosso asiatico. Tuttavia, le vie del mercato sono infinite: Cina e Stati Uniti potrebbero entrambe trovare nuove vie per assicurarsi delle buone basi produttive e mercati per le esportazioni, perché ormai l’intero mondo è diventato un mercato appetibile. La Cina infatti penalizza le merci americane ma mantiene bassi i dazi per quelle di altri paesi, gli Stati Uniti commerciano di nuovo di più con Canada e Messico. Tuttavia, il conflitto geopolitico fra i due colossi resta la contesa principale.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 settembre 2019 • N. 37

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Attualità Migros

Cosa succede con quello che avanza? Foodwaste Migros è molto sensibile al destino degli alimentari in eccesso: Luca Corti responsabile

della comunicazione della cooperativa ticinese ci spiega come sono valorizzati gli scarti della vendita

È estate o inverno? Ci sarà bello o brutto tempo? Siamo a metà o a fine mese? Sono queste le domande che si pongono i gerenti delle filiali di Migros quando devono ordinare verdura, frutta o pane. In tal modo essi cercano di evitare che nei negozi giunga troppa merce. L’obiettivo è limitare al massimo i rifiuti alimentari. Ma questa selezione non è sufficiente: in generale l’1,4 per cento dei prodotti alimentari messi in vendita, infatti, non può più essere venduto. «Per noi è però importante che i prodotti non commerciabili ma ancora consumabili vengano utilizzati in modo ragionevole», ci spiega Julia Schaad, specialista in Ecologia alimentare della FCM. I prodotti facilmente deperibili vengono venduti a prezzo ridotto o vengono regalati ad alcune organizzazioni di beneficenza in tutta la Svizzera. Migros infatti collabora con diversi partner per limitare lo spreco di alimentari. Recentemente, ad esempio, ha iniziato a collaborare con l’Università di Losanna, dove a metà agosto si è tenuto il vertice sul clima «Smile for Future». La cooperativa Migros del canton Vaud vi ha distribuito verdura e frutta che non poteva più essere venduta. Ormai da più di 10 anni Migros ha stipulato contratti di cooperazione con le organizzazioni di beneficenza «Tavolino magico» e «Schweizer Tafel». Tali associazioni ricevono frutta, verdura e prodotti freschi da 248 filiali di Migros. Per raccoglierle si recano nei luoghi di vendita più volte a settimana, e a volte prendono in consegna anche prodotti direttamente dagli stabilimenti delle industrie Migros. I prodotti ricevuti (circa 1 milione di chili all’anno) vengono poi distribuiti tra le diverse organizzazioni.

Migros Ticino collabora da tempo con Tavolino Magico. (Ti-Press)

Nel nostro cantone la Cooperativa Migros Ticino collabora da tempo con «Tavolino magico». Come ci spiega Luca Corti, responsabile della comunicazione di Migros Ticino, la collaborazione è iniziata nel marzo del 2013. «Entrano nel contingente, in linea di principio, i prodotti freschi che sono in uno stato di conservazione ineccepibile. La loro data di vendita è superata, ma la data di consumo è ancora valida. Vengono recuperati dal Tavolino Magico, associazione con cui collaboriamo strettamente durante tutto l’anno: nel 2018 le sono state donate 190 tonnellate di generi alimentari».

I prodotti interessati sono le derrate alimentari di tipo food / near-food / convenience e prodotti freschi. Questi ultimi sono costituiti soprattutto da prodotti da forno e a base di carne, frutta e verdura. «Dall’accorso sono esclusi invece gli alimenti surgelati», ci spiega Luca Corti. «Per quello che riguarda il costo dei prodotti che sono messi a disposizione dei clienti a prezzo ribassato, Migros Ticino persegue una politica di riduzione dei prezzi, che oscilla tra il 25 e il 50 per cento a seconda dell’assortimento, dei livelli delle scorte e degli orari di trasporto. Inoltre per ridurre al minimo gli sprechi sono praticati a vol-

te sconti fino al 75 per cento. Dopo l’ora di chiusura della filiale, la merce con la data di vendita scaduta viene ritirata definitivamente dagli scaffali. Ciò che viene avviato al Tavolino Magico è, dal canto suo, completamente gratuito». Come ci conferma Corti, nel 2018 sono state donate oltre 190 tonnellate di prodotti alimentari. Da un punto di vista statistico, ci spiega, il 98,6 per cento dei generi alimentari che Migros Ticino propone nei suoi supermercati o nei reparti di gastronomia, è venduto a prezzo regolare o scontato oppure è distribuito gratuitamente ad organizzazioni di pubblica utilità. «Le

merci avariate o deteriorate a causa di imballaggi difettosi vengono invece immediatamente ritirate dalla vendita. Queste includono anche un 1,4 per cento di generi alimentari che Migros Ticino considera alla stregua di scarti». E cosa succede a questi prodotti, come vengono smaltiti? «Essenzialmente, del quantitativo in questione l’1,1% viene usato per la fermentazione (che dà luogo a biogas), mentre lo 0,3% entra nelle aree di compostaggio e viene quindi usato per creare fertilizzanti. Importante sottolineare che dalla fine del 2016 nessun rifiuto è inviato al termovalorizzatore» conclude Luca Corti.

Una gara per continuare a sperare

Beneficenza Tra le varie manifestazioni podistiche solidali Migros Ticino sostiene anche la Corsa della Speranza Una gara festosa, o una festa agonistica... La Corsa della speranza è un evento che si celebra ogni anno in più di cinquanta paesi nel mondo. Il suo obiettivo è far riflettere le persone e raccogliere fondi a favore della ricerca sul cancro. Come di consueto, la corsa si terrà a Lugano, lungo le vie della città: e sarà la quattordicesima volta.

La partenza è fissata per sabato 14 settembre 2019, a Lugano. La giornata avrà inizio alle 15.00 in Piazza Riforma e sarà ricca di momenti di animazione. L’accompagnamento musicale sarà curato dalla Ninfea Blues Band, mentre speaker ufficiale della manifestazione sarà Alessandra Visentini. La corsa vera e propria prenderà

Un momento dell’edizione 2018.

Azione

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel. 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

avvio alle 18.30, con arrivo in Piazza Manzoni, sul lungolago: un percorso di 5 km dedicati al sostegno alla ricerca sul cancro. Dalle 19.00 invece è previsto il consueto Pasta Party, allietato dalla musica della band 70 Zone. La prevendita dei kit gara è iniziata il 30 agosto in differenti punti vendita sparsi sul suolo ticinese (informazioni nel sito www.corsadellasperanza.ch/iscrizioni-1). Nei punti di iscrizione si può ritirare il kit di partecipazione alla corsa (maglietta per i primi 3000 iscritti) e una carta giornaliera Arcobaleno di 2a classe valida il giorno della manifestazione per tutte le zone e mezzi delle imprese di trasporto della comunità tariffale Ticino e Moesano. Ci si potrà iscrivere comunque anche il giorno stesso della corsa a Lugano, in Piazza Riforma dalle 11.00 alle 18.00. Per l’edizione 2019 saranno proposte alcune novità che attireranno certamente l’interesse dei partecipanti. Gli organizzatori infatti hanno accolto il progetto di una coperta «patchwork» che vuole scaldare Luga-

no. L’idea è di realizzarne una fatta da piccole coperte di 50x50 cm unite tra loro. Negli ultimi mesi molte persone, ospiti di diverse case per anziani, oltre a molti gruppi di signore e signori, e persino dei ragazzi, si sono impegnati a sferruzzare. Sfidando il grande caldo hanno accettato un importante impegno, contribuendo oltre ogni aspettativa al progetto. In questi giorni sono state infatti raggiunte le 1300 copertine, che sono arrivate a Lugano non solo dal Ticino, ma anche dalla vicina Italia e addirittura dall’Inghilterra. La coperta che il 14 settembre colorerà la piazza interna del Municipio sarà dunque particolarmente importante. L’opera realizzata sarà poi messa in vendita come riquadri di varie dimensioni, a un prezzo simbolico. Tutti i proventi andranno alla Fondazione Ticinese per la Ricerca sul Cancro. Gli introiti infatti vengono utilizzati per sostenere studi e ricerche condotte nella Svizzera italiana, diventata un punto di riferimento internazionale nel campo dell’oncologia medica e scientifica.

Altra novità per questa edizione è il concorso «Scatto alla Speranza!», che intende coinvolgere gli appassionati di fotografia. Sono invitati ad immortalare gli aspetti che preferiscono di questa manifestazione, scegliendo quei momenti che più li incuriosiscono e stimolano: la Corsa delle Speraza, in effetti, è una festa piena di colori, di suoni, di forme e di storie da raccontare. Il prossimo autunno gli scatti raccolti saranno riuniti in una mostra e, naturalmente, la fotografia più bella si aggiudicherà il premio ufficiale. Anche quest’anno, dunque, la Corsa della Speranza si presenta al pubblico con un programma stimolante e divertente. È il modo più adatto per affrontare un problema sociale reale mettendo in campo un impegno individuale concreto: ognuno di noi, infatti, potrà contribuire ad aiutare chi è malato e a sostenere la ricerca medica in questo settore.

Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11

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Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch

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Informazioni

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 settembre 2019 • N. 37

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Società e Territorio La refezione scolastica Lugano per le sue mense si è affidata al «food & beverage manager»: ecco il progetto di riorganizzazione

Aspettando il tunnel La nuova galleria del Monte Ceneri sarà inaugurata tra un anno, ne abbiamo parlato con Dieter Schwank, presidente della direzione di AlpTransit San Gottardo SA

Un punto di incontro per gli anziani Ha aperto da poco il nuovo centro diurno socio-assistenziale voluto da Pro Senectute a Maggia pagina 13

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pagina 7 A Breganzona pochi anni fa una via è stata dedicata a Federica Spitzer. (Ti-Press)

In Ticino il rosa fa fatica a farsi strada

Stradario In tutto il cantone sono solo una ventina le vie dedicate a personalità femminili e una quindicina a sante

Romina Borla Di recente due vie di Bellinzona si sono tinte di rosa. Via Parco è diventata via Lucia Buonvicini (1906-1945), la ticinese protagonista della Resistenza italiana che pagò con la vita il suo impegno politico, mentre il primo tratto di via Linoleum a Giubiasco ha preso il nome di Ada Martinoli (1920-1996), già municipale del Borgo per due quadrienni e filantropa. «Sono le prime donne ad apparire sul nostro stradario», osserva Simone Gianini, capo Dicastero territorio e mobilità. «Finalmente anche l’altra metà del cielo ha ottenuto un riconoscimento tangibile in questo senso». Per curiosità chi scrive ha controllato la situazione nel suo comune di residenza, Monteceneri, trovando un solo riferimento femminile: via Biscossa-Zanetti. Signora la cui esistenza era – anche per la Cancelleria e l’Ufficio tecnico – avvolta nel mistero. A diradare la nebbia ci ha aiutato la più famosa Anna (Biscossa): «Erminia Zanetti (1860-1953) era la mia bisnonna. Nacque a Camignolo, ora quartiere di

Monteceneri, e lavorò come cuoca per diverse famiglie benestanti di Lugano. Sposò Camillo Biscossa – nato a Broni (PV), primo di 27 fratelli, emigrò in Ticino dove gestì il buffet di terza classe alla stazione di Lugano – da cui ebbe un figlio, Ettore. Quest’ultimo, in memoria di sua madre, contribuì finanziariamente alla realizzazione del nuovo cimitero di Camignolo. Per questo motivo a Erminia Zanetti-Biscossa fu dedicata la via che scende verso la chiesa». Ora, perché non cercate anche voi le donne ricordate dalle vie e dalle piazze del vostro paese? Ne troverete assai poche. Già, perché la penuria di luoghi intitolati a loro riguarda tutto il Ticino e perdura. Ce lo confermano l’Associazione archivi riuniti delle donne Ticino (AARDT) e Stefano Vassere, direttore delle Biblioteche cantonali ticinesi e presidente della Commissione cantonale di nomenclatura, la quale stabilisce la grafia dei nomi delle parcelle sulle mappe e fornisce anche un servizio di consulenza ai comuni che vogliono dotarsi di uno stradario o che procedono a modifiche di quello esistente. Sull’intero territorio si contano infatti una

ventina di vie dedicata a notevoli figure femminili e una quindicina a sante. Alcune strade fanno poi riferimento alla Madonna, altre riguardano la sfera letteraria (vedi via Gismonda a Mendrisio, da una tragedia di Silvio Pellico). Vassere rimarca che il 60 per cento delle strade del cantone – che sono circa 5mila – porta nomi di luoghi. «Un migliaio di vie è invece intitolato a personaggi pubblici, come detto per la maggior parte uomini. Si tratta in genere di persone del territorio. La limitazione geografica riduce il campo, ma non è una giustificazione». La clamorosa sproporzione tra nomi riferentesi a uomini e nomi che celebrano donne – spiega l’esperto – è, come spesso succede per i fenomeni linguistici, un riflesso diretto del costume di una società. «È evidente che non si tratta di un dettaglio e che sarebbe importante un ripensamento. Difficile però ribaltare una situazione così antica e sedimentata. Modificare uno stradario è impresa tutt’altro che facile, soprattutto nelle città, dove abitudini e usi anche formali (indirizzi di privati e imprese) tendono ad imporsi su scelte

emanate dall’Amministrazione». Ma qualcosa si muove, come dimostra il caso di Bellinzona. «Alcune realtà comunali – osserva il nostro interlocutore – a seguito di aggregazioni o di altre situazioni, decidono di mettere mano ad alcuni aspetti del proprio stradario e sempre di più emergono scelte che riguardano figure femminili. Del resto interventi di questo genere rispondono alla “Raccomandazione concernente l’indirizzo degli edifici e l’ortografia dei nomi delle vie” emanata lo scorso anno dall’Amministrazione federale, secondo la quale “tenuto conto della disparità storica in materia di intitolazioni di vie a uomini e donne, si raccomanda di tenere queste ultime in particolare considerazione al momento dell’attribuzione di un nuovo nome a una via”». Un concetto portato avanti con forza dall’Associazione Archivi riuniti delle donne Ticino (AARDT) che già nel 2005 ha lanciato il progetto «Tracce di donne», una raccolta di biografie delle protagoniste «nostrane» del Novecento (si può consultare su www. archividonneticino.ch, le vite di Buonvicini e Martinoli sono da poco online)

e inviato una lettera a tutti i Municipi del Cantone per invitarli appunto ad intestare piazze, strade, viali e sentieri a donne, figure sconosciute della storia del Paese. Dobbiamo quindi ben sperare per il futuro? Secondo Vassere «le scelte di intestare vie a personaggi femminili acquisiranno verosimilmente una visibilità solo relativa. Soprattutto perché la disparità attuale è veramente molto alta e poi per altri due motivi. In primo luogo gli stradari in fase di allestimento riguardano ormai solo comuni piccoli e non urbani, dove gli stradari ricalcano di fatto i nomi di luogo tradizionali. Poi perché la scelta di intestare una via o una piazza ad un personaggio pubblico storico non è a mio parere la più logica, soprattutto là dove esista un toponimo accreditato». Ma l’AARDT continua la sua battaglia: «Ricordare il valore delle donne anche sugli stradari, e l’importante lavoro che hanno svolto, è necessario. Perché dedicare vie a laghi, montagne, fiori, piante e non a personaggi che hanno operato per il bene comune? E, scegliendo le donne, toglierle dall’oblio in cui la storia le ha relegate?».


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 settembre 2019 • N. 37

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Idee e acquisti per la settimana

Una carne che si scioglie in bocca

Attualità Tenera e saporita, la carne nostrana di manzo Charolais è disponibile in diversi

tagli da Migros Ticino

Le settimane dei Nostrani Fino al 16 settembre i prodotti locali saranno protagonisti nei supermercati Migros con diverse azioni e degustazioni speciali Il geretto

Le bistecche

L’arrosto spalla

I manzi Charolais pascolano liberi sul Piano di Magadino.

Gli amanti della buona cucina non rinuncerebbero mai ad un bel piatto di aromatica carne bovina. Una preparazione fatta con i dovuti crismi rappresenta un’autentica gioia tanto per le papille gustative quanto per gli occhi. Quando poi la carne proviene da animali allevati nel rispetto delle loro esigenze e del loro benessere, il piacere sarà ancora maggiore. La carne di manzo Charolais dei Nostrani del Ticino soddisfa pienamente questi criteri. Gli animali di questa razza rinomata pascolano in gruppo e in piena libertà sul Piano di Magadino, nei verdi prati dell’Azienda Agricola Fratelli Aerni di Gordola. I vitelli vengono allattati con latte materno

fino allo svezzamento. L’alimentazione dei bovini adulti è invece costituita da erba fresca e foraggio naturale prodotto dall’azienda medesima. I bovini che possono pascolare liberamente nella natura crescono più lentamente rispetto a quelli allevati secondo metodi convenzionali, dando di fatto una carne dalla consistenza ben strutturata, tenera e saporita. Inoltre in cottura essa perderà pochi liquidi, mantenendo tutta la sua succosità. Una razza rinomata

La Charolais è una razza originaria della regione francese della Charolles, in Borgogna, ed è apprezzata da secoli per la qualità delle sue carni. Que-

sti animali possenti dal caratteristico manto bianco posseggono una carne dalla fibratura fine, aromatica ed equilibrata dal punto di vista dei grassi. Molto tenera, ben marezzata e succosa, è una carne che farà la gioia di ogni intenditore della gastronomia più genuina. All’assaggio di un pezzo di manzo Charolais spiccano note aromatiche di nocciola e burro fuso. Affinché possa sviluppare tutte le sue straordinarie qualità, prima di essere consumata la carne subisce una frollatura di alcune settimane in apposite celle a temperatura e umidità controllate. Una scelta variegata

Con una decina di tagli differenti, nei

supermercati di Migros Ticino ognuno troverà il pezzo ideale per preparare la propria succulenta ricetta a base di pregiata carne di manzo Charolais. La proposta a libero servizio delle macellerie verte su geretto, arrosto spalla, bistecche, spiedini, fettine alla pizzaiola, involtini e hamburger. Presso le filiali con banco macelleria, sono invece disponibili i tagli cosiddetti «nobili», ossia le parti di maggior valore, quali lo scamone, l’entrecôte, il filetto e la costa schiena. Si consiglia di togliere la carne dal frigorifero almeno mezz’ora prima della preparazione affinché raggiunga la temperatura ambiente e possa dare il meglio in cottura.

Gli involtini

Bistecca di manzo ai porcini Ingredienti per 4 persone 150 g di funghi porcini 1 scalogno 4 bistecche di manzo di ca. 180 g ciascuna sale pepe

1 cucchiaio d’olio di girasole 1 cucchiaio di burro 4 cl di cognac 1 dl di vino bianco 2 dl di salsa per arrosto 1 dl di panna semigrassa

Preparazione Pulite bene i funghi porcini e tagliateli a fette. Sbucciate lo scalogno e tritatelo. Scaldate il forno a 180 °C. Salate e pepate le bistecche di manzo. Rosolatele nell’olio 2 minuti per lato. Accomodatele in una teglia e terminate la cottura al centro del forno per 10 minuti. Fate appassire lo scalogno nel burro. Aggiungete i funghi porcini e soffriggeteli per ca. 5 minuti. Bagnate con il cognac e il vino bianco e fate ridurre un poco. Aggiungete la salsa per arrosto e fatela sobbollire per 5 minuti. Incorporate la panna e aggiustate di sale e pepe. Servite le bistecche con la salsa porcini.

Gli spiedini

Le fettine alla pizzaiola


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 settembre 2019 • N. 37

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Idee e acquisti per la settimana

Il maiale dell’alpe

Novità Per un periodo limitato presso l’Angolo del Buongustaio di Migros Ticino sono disponibili alcuni tagli

di carne da animali allevati sull’Alpe Manegorio, in Val Bedretto

Voglia di assaggiare qualcosa di veramente particolare? Allora vi consigliamo di provare la carne di maiale dell’alpe, una specialità ottenibile nelle macellerie Migros per poco tempo. I suini vengono allevati durante la stagione estiva sull’Alpe Manegorio (nella foto), in Valle Bedretto, a oltre 1700 metri d’altezza, secondo i principi della produzione integrata IP-Suisse. L’alpeggio è noto tra l’altro per la produzione dell’omonimo e rinomato formaggio d’Alpe DOP, una delizia che sarà disponibile prossimamente nei nostri negozi. Sull’alpe i circa 200 suini possono godere di molto spazio per pascolare in libertà sui verdi prati e di aria buona di montagna. L’allevamento di maiali nei pressi dei caseifici di montagna ha una lunga tradizione: gli animali vengono infatti alimentati anche con siero di latte vaccino fresco ottenuto dalla lavorazione del formaggio, un prodotto ricco di importanti proprietà nutrizionali. All’inizio dell’ingrasso i maiali ricevono dai 5-8 litri di siero al giorno, mentre nella fase finale possono arrivare fino a 15 litri. Grazie all’utilizzo di siero in combinazione con altri foraggi, come pure al movimento costante di cui possono beneficiare

quotidianamente gli animali, la carne risulta particolarmente aromatica e tenera. Questa carne di qualità elevata può essere acquistata in tutti i supermercati Migros con banco macelleria, sull’arco di alcune settimane, sotto forma di differenti tagli freschi, come collo, costolette, lonza, spalla e geretto. Inoltre durante l’autunno giungeranno anche alcune specialità di salumeria. Per non restare a mani vuote, vi consigliamo di prenotare questa carne presso la vostra macelleria di fiducia. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 settembre 2019 • N. 37

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Società e Territorio

1800 pasti fatti in casa Lugano Scopriamo il nuovo progetto di riorganizzazione

e razionalizzazione della refezione scolastica

Giorgia Reclari Lunedì 2 settembre, primo giorno di scuola del nuovo anno scolastico, 28 cuochi a capo di altrettante cucine hanno servito circa 1800 pasti ai piccoli allievi nelle sedi di Scuola dell’infanzia a Lugano e delle mense di Scuola elementare gestite direttamente dalle cucine scolastiche. Il tutto rigorosamente fatto in casa. È una delle principali novità inserite nel progetto di riorganizzazione e razionalizzazione della refezione scolastica obbligatoria (Scuola dell’infanzia) introdotto dalla Città. La parola d’ordine era migliorare i processi e la qualità senza concentrare ma anzi valorizzando le realtà già presenti nei quartieri. Una sfida non da poco, raccolta con entusiasmo da Roberta Barbieri, da gennaio 2019 responsabile della refezione scolastica cittadina. Un ruolo unico nel suo genere in Ticino, quello del «food & beverage manager per la refezione», introdotto nella grande Lugano soprattutto per migliorare ulteriormente la qualità del servizio offerto. «L’idea di introdurre questa figura rientra nella volontà del Municipio di implementare una nuova procedura legata agli acquisti in tutti i suoi dicasteri e per una corretta applicazione del nuovo sistema di valutazione del personale» spiega Fabio Valsangiacomo, direttore dell’istituto scolastico cittadino. Bar-

bieri ha un’ottima esperienza in questo campo maturata con la gestione di molteplici tipi di ristorazione. «A livello di gestione non c’è grande differenza tra una refezione scolastica e una ristorazione classica» – sottolinea, ricordando però che nel caso della refezione scolastica va data grande attenzione alla corretta alimentazione, tenendo conto del fatto che i bambini mangiano tutti i giorni un menu prestabilito. Per creare una lista di pasti equilibrati adatti a bambini dai tre ai sei anni Barbieri è partita dalle ricette raccolte dai vari cuochi cittadini per poi fare capo a Isabella Charbon, consulente cantonale per la refezione nella scuola dell’infanzia, che spiega: «A livello cantonale avevo creato un ricettario-guida con sei settimane di pasti che si possono poi ripetere a rotazione. All’interno di queste indicazioni generali di menu Roberta ha avuto il compito di definire nel dettaglio ingredienti e contenuto dei piatti. Per esempio, per un’insalata mista si deve indicare precisamente che tipo di insalata e di salsa, seguendo le stagioni e rispettando comunque la rotazione cantonale dei menu. Questo rende poi più semplice fare le ordinazioni settimanali per tutte le sedi». Finora i cuochi componevano i menu seguendo il ricettario cantonale con un certo margine di personalizzazione, mentre ora è tutto più strutturato. La nuova organizzazione non vuole

però essere un’imposizione dall’alto di regole e ricette a chi lavora quotidianamente ai fornelli: la personalità e lo stile di ogni cuoco restano fondamentali. «Ci teniamo che siano presenti e visibili in ogni sede» evidenzia Valsangiacomo. Per questo Lugano ha deciso di mantenere le 28 cucine con tutto il personale, senza centralizzare la produzione (a differenza di altre città come Locarno, dove una sola cucina serve tutte le sedi). «Questo è davvero un punto fondamentale che ci piace sottolineare – dice Barbieri – In fondo sono stati centralizzati solo gli acquisti. Così si crea anche un rapporto molto bello fra il cuoco e i bambini, un fatto importante a livello educativo». Anche in una sede minuscola come Brè, con una sola sezione di Scuola dell’infanzia, la cucina è presente. Solo in pochi casi si fa capo a sedi vicine con un servizio di catering: Carona, Dino 2 e Villa Luganese. Qualità elevata e creatività individuale saranno garantiti dalla novità più importante di tutto il progetto: l’invito a produrre personalmente quasi tutto, dagli gnocchi alla pasta della pizza, dal brodo ai dolci. Il pasto diventa così davvero un momento di educazione al gusto. Barbieri fa notare come questa sia stata una parte interessante della creazione del ricettario, perché si è dovuto tener conto della fattibilità delle pietanze. «Ma il risultato è una ristorazione genuina e di alta qualità che

Roberta Barbieri, a sinistra, con Isabella Charbon.

difficilmente si trova altrove, se non nei migliori ristoranti (e nemmeno sempre…). Capita che a casa i bambini mangino alimenti preconfezionati perché i genitori non hanno purtroppo sempre il tempo di cucinare». Per rendere possibile tutto ciò, negli scorsi mesi Barbieri ha collaborato con i vari cuochi per allineare la dotazione delle cucine con i necessari elettrodomestici e macchinari. Una particolare attenzione è data anche ai prodotti utilizzati. «Nell’ottica di promuovere le attività cittadine, ogni cucina fa capo anche, nel limite del possibile, a fornitori del quartiere o delle vicinanze per i prodotti alimentari. È un grande impegno perché è stato centralizzato un sistema che prevede di mantenere quasi trenta cucine e diversi fornitori. Questa forse è stata la parte più laboriosa del progetto, ma sono sicura che ne sia valsa la pena» è convinta Barbieri.

Lugano aveva anche aderito al progetto del Centro di Competenze Agroalimentari Ticino (CCAT), che mira a promuovere l’uso di prodotti locali nei menu scolastici. Un test è stato iniziato del 2019 in quattro sedi di Scuola dell’infanzia (Davesco-Soragno, Pazzallo, Viganello e Cassarate). «È un progetto che si ha il desiderio di consolidare inserendo quindi gradualmente un maggior numero di prodotti locali, laddove fattibile: il concetto di territorialità è fondamentale. Ma d’altra parte le dimensioni dell’Istituto scolastico luganese implicano una certa complessità organizzativa nell’attuazione pratica» fa presente Valsangiacomo. Il nuovo progetto è dunque partito per il primo anno: saranno ora i 1800 piccoli critici gastronomici a valutare qualità e gusto dei piatti preparati con cura e serviti ogni giorno dai loro cuochi personali. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 settembre 2019 • N. 37

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Idee e acquisti per la settimana

Riduzione permanente del prezzo dei pannolini Chi da poco è diventato genitore lo sa: nel primo periodo di vita per un bambino sono necessari tanti pannolini. Tantissimi. «Il nostro record è probabilmente stato di dodici cambi in un giorno», ci racconta Adrian Leemann (39). Lui e sua moglie Heidy Suter (39) sono diventati genitori a maggio. Per il figlio Max hanno scelto di utilizzare i pannolini Milette. «Abbiamo provato a utilizzarne anche altri. Ma il prezzo dei pannolini Milette è davvero corretto e la fibra dell’inserto è molto sottile e delicata. A Max non creano alcun problema»

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Molto soddisfatti di Milette: Heidy Suter e Adrian Leemann con Max.


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Riduzioni di prezzo permanenti I prodotti preferiti sono più convenienti Recentemente il prezzo di molti dei prodotti preferiti dai clienti Migros, vale a dire i prodotti più venduti, è diventato più conveniente. Tra questi anche i pannolini dal marchio Milette. Settimanalmente se ne aggiungono altri. L’aspetto più interessante: non si tratta semplicemente di promozioni, bensì di riduzioni di prezzo permanenti. Facilmente riconoscibili Grazie al logo sotto illustrato, nei prossimi mesi sarà facile riconoscere a colpo d’occhio i sempre più numerosi prodotti preferiti che hanno beneficiato di una riduzione di prezzo permanente.

«Siamo da sempre fedeli clienti Migros. Era chiaro che anche i pannolini per Max li avremmo acquistati alla Migros». Heidy Suter

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Società e Territorio

Prove pratiche in galleria

Intervista È prevista tra un anno l’apertura del nuovo traforo del Monte Ceneri, ne abbiamo parlato

con Dieter Schwank, presidente della direzione di AlpTransit San Gottardo SA Nicola Mazzi A un anno dall’apertura della galleria del Monte Ceneri si respira già un profumo di festa. I visi delle autorità sono soddisfatti e sicuri che il tutto procederà nel migliore dei modi. Certo, il lavoro non è ancora terminato, ma il grosso ce lo siamo lasciati alle spalle. Nei giorni scorsi, è scesa da Berna a Camorino, la consigliera federale Simonetta Sommaruga, responsabile del Datec (Dipartimento federale dei trasporti, dell’energia e delle comunicazioni). Un momento importante per fare il punto della situazione e per incontrare le autorità cantonali nel cuore del cantiere del secolo. Un progetto approvato dal popolo nel lontano 1992 e che ha gli obiettivi di velocizzare il trasporto delle persone e di agevolare il trasferimento delle merci dalla strada alla ferrovia. Ricordiamo, infatti, che finora i passaggi dei camion, attraverso le Alpi, sono diminuiti da 1,4 milioni a 941mila. Certo, l’asticella iniziale era posta ancora più in basso (a 650mila transiti), ma la strada imboccata è quella. Non si scappa. Anche per quanto riguarda l’impatto ambientale (sia atmosferico sia acustico) la via è tracciata e sta portando i frutti sperati. Da un recente monitoraggio è stato confermato che il trasferimento delle merci da gomma a rotaia sta provocando un calo sensibile dei vari inquinanti. Dopo l’apertura della galleria del Lötschberg nel 2007 e di quella del San Gottardo, inaugurata alla fine del 2016, ora tocca al terzo traforo: il Monte Ceneri. Un tunnel lungo 15,4 km che parte (venendo da nord), da Camorino, per sbucare a Vezia. Un’opera fondamentale soprattutto per la Svizzera italiana. E lo ha ricordato la stessa consigliera federale Sommaruga quando ha spiegato che il tunnel del Monte Ceneri: «sarà una metropolitana che collegherà il Nord al Sud dell’Europa, ma soprattutto aiuterà il Ticino a risolvere alcuni problemi di traffico». Ha infatti ricordato che i tempi di percorrenza si dimezzeranno (passando da 58 min a 30 min tra Lugano e Locarno e da 30 a 15 minuti tra Bellinzona e Lugano) rendendo quindi più attrattivo il treno. E se a questo aspetto, le FFS aggiungeranno anche prezzi più bassi il mezzo pubblico diventerà ancora più interessante. Da parte sua il consigliere di Stato Christian Vitta ha colto l’occasione per annunciare una novità. «Amplieremo il Ticino Ticket agli eventi culturali. Chi pernotterà in Ticino potrà usufruire di sconti alle manifestazioni culturali sul territorio e quindi vedere il nostro Cantone sotto un’altra ottica». L’evento organizzato a Camorino è stata anche l’occasione per avvicinare il presidente della Direzione di AlpTransit San Gottardo SA (ATG) Dieter Schwank, in carica dal 1. luglio 2017. Con lui abbiamo voluto approfondire alcuni aspetti tecnici del cantiere, ma non solo. Presidente Schwank si ritiene soddisfatto di quanto realizzato al Monte Ceneri?

Sono molto soddisfatto. Ora stiamo terminando le ultime installazioni che saranno messe a punto in questi giorni. Nel mese di settembre iniziamo con una serie di test che dureranno fino alla fine di febbraio. In seguito, entreremo nella fase di prove pratiche con i treni. E continueremo così fino alla fine di agosto del prossimo anno. Quindi, il 1. settembre del 2020, trasferiamo l’opera dalla nostra società alle FFS. Un modus operandi uguale a quello realizzato con la galleria del San Gottardo. Speriamo che tutto vada come da programma e che anche i collaboratori siano ancora presenti e concentrati in questi ultimi mesi di lavoro. È molto importante che si riesca a terminare il

Dieter Schwank con la Consigliera federale Simonetta Sommaruga durante la visita della nuova galleria del Ceneri. (Ti-Press)

tutto nel miglior modo possibile e che, soprattutto, non ci siano incidenti. È sempre questo il rischio maggiore in un cantiere grande come il nostro. Ma devo dire che anche sotto l’aspetto delle sicurezza siamo molto soddisfatti. Quali difficoltà avete avuto con il cantiere del Monte Ceneri?

In generale ci siamo trovati davanti a difficoltà simili a quelle vissute con il San Gottardo. Ci sono state alcune differenze tecniche come il sistema di approvvigionamento energetico. Inoltre, ogni cantiere comporta difficoltà geologiche diverse, un aspetto inevitabile quando ci si trova davanti a una costruzione di tali dimensioni, ma devo dire che in generale non abbiamo avuto particolari problemi. Non dimentichiamo, comunque, che il cantiere è durato 20 anni e la tecnologia, in questo lasso di tempo, è evoluta. Quindi anche, per esempio, gli aspetti legati alla sicurezza, sono cambiati nel tempo. Così come quelli informatici.

il mandato che abbiamo ricevuto. E siamo fieri di essere stati scelti quali responsabili di questa grande opera. Personalmente credo che mi emozionerò nel vedere il risultato finale. Saranno tutti invitati: autorità e persone comuni. Dovrà infatti essere una festa popolare perché l’opera appartiene alla gente. I cittadini sono coloro che l’hanno finanziata, non dimentichiamolo, e

che poi hanno sempre seguito i lavori con grande interesse e partecipazione. Un aspetto che mi è sempre piaciuto e del quale sono orgoglioso. Collegandoci a quanto detto dal presidente di Alptransit è utile ricordare alcune date da segnare sul calendario. Il 3 settembre del 2020 si terrà una conferenza dei ministri dei trasporti

europei a Locarno. Il 4 settembre sarà organizzata la cerimonia ufficiale di apertura della galleria con le varie autorità. Ma soprattutto, il 12 e il 13 dicembre, ci saranno le cerimonie delle FFS per l’entrata in servizio della galleria di base del Monte Ceneri con feste popolari a Bellinzona, Lugano e Locarno. E allora sì che il profumo della festa diverrà tangibile. Annuncio pubblicitario

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Siete riusciti a restare nei tempi previsti e nel budget a disposizione?

Certo. Oggi posso confermarlo. I tempi e i costi sono rimasti sempre sotto controllo durante questo lungo lasso di tempo. Sull’intero asse Nord-Sud e quindi comprendendo anche il tunnel del San Gottardo posso per esempio affermare che le ultime stime prevedono una spesa totale di 12,1 miliardi di franchi. Quindi ben inferiore rispetto al budget approvato dal Parlamento federale che era, invece, di 13,1 miliardi. Il cantiere, tengo a precisare, non è ancora terminato. Ci sono per esempio delle questioni aperte come alcune remunerazioni di imprenditori o altre problematiche più tecniche da sistemare, ma siamo sicuri che il tutto sarà risolto per il meglio e senza superare quell’importo.

Una volta terminato il cantiere la conoscenza che si è sviluppata in questi decenni come potrà essere utilizzata in futuro?

A livello pratico esiste una documentazione già disponibile su internet e relativa alla progettazione del cantiere e all’intera storia del progetto. Abbiamo creato una banca dati dove abbiamo inserito una grande mole di documenti. Naturalmente resta anche la conoscenza di chi ha lavorato, in questi anni, su questa grande opera. Da parte nostra speriamo che queste persone possano portare quanto hanno appreso nel loro bagaglio lavorativo e lo possano poi immettere in altri grandi progetti. È questo l’augurio che faccio loro. Alla popolazione che attende questo evento che vuole dire?

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Società e Territorio

Come una seconda casa

Anziani Il centro diurno socio-assistenziale aperto da Pro Senectute a Maggia mira a diventare

un punto d’incontro per gli anziani della valle

Stefania Hubmann Per rimanere attivi ed evitare la solitudine quando si diventa anziani, il centro diurno è un punto d’incontro stimolante che può trasformarsi in una seconda casa. È quanto avvenuto per la prima signora che lo scorso giugno si è recata nel nuovo centro aperto da Pro Senectute Ticino e Moesano nel Comune di Maggia. La struttura, una novità per la Vallemaggia, è la sesta dal 2014 gestita dall’organizzazione con il sostegno del Dipartimento della sanità e della socialità. Il Cantone punta infatti a promuovere una prevenzione attiva per cercare di mantenere il più a lungo possibile le persone anziane al proprio domicilio. Ne va della loro qualità di vita e dei costi della salute legati all’invecchiamento della popolazione. Ogni centro diurno socio-assistenziale cresce nel contesto territoriale nel quale è inserito e quello appena inaugurato a Maggia presenta tutta una serie di prerogative alle quali gli anziani residenti nella valle non resteranno indifferenti. Innanzitutto nei luminosi spazi del nuovo punto d’incontro, inserito in una palazzina residenziale appena ultimata in prossimità di diversi servizi, ci accoglie con simpatia ed entusiasmo Valentina Gnesa, la giovane coordinatrice. Educatrice formatasi alla SUPSI, Valentina ha lavorato per 3 anni nel centro diurno comunale di Riva San Vitale prima di raccogliere la sfida di gestire la nuova struttura di Pro Senectute. «In collaborazione con il collega Alessandro Ligato, ancora in formazione e che mi affianca al 70 per cento, ho visitato la valle e diffuso volantini in modo da conoscere la regione e informare popolazione ed enti locali sulle nostre attività. Ora si tratta di plasmare e sviluppare il centro, da un lato basato su criteri di gestione comuni a tutte le strutture di questo tipo e dall’altro caratterizzato da una vita propria legata al contesto nel quale si trova e alle persone che lo frequentano. Queste ultime sono per ora una quindicina nei momenti ricreativi più seguiti come le tombole e gli incontri animati da un musicista. Con i primi utenti stiamo ultimando piccoli lavori di arredamento e approfondendo necessità e aspettative». La posizione centrale facilita l’accesso degli anziani che in questi primi mesi in alcuni casi arrivano magari solo per curiosare, per capire cosa succede nel bar dell’entrata e nel grande salone affacciato sul verde. Prosegue la coordi-

Il team del centro diurno di Maggia: Marisa Bellini, Valentina Gnesa, Beatrice Meneghelli e Alessandro Ligato.

natrice: «Il centro è aperto dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 17. L’entrata è libera e senza necessità di iscrizione. Solo per i pasti e le gite chiediamo di annunciarsi e un modesto contributo finanziario. Chi non riesce a raggiungerci in modo autonomo, può beneficiare di un servizio di trasporto gratuito. Più avanti verrà inoltre proposta un’apertura al sabato mattina con l’aggiunta del pranzo, in modo da coprire una parte del weekend come già avviene negli altri centri diurni e come richiesto dal progetto cantonale». Tutto è quindi facilitato per invogliare gli anziani soli a ritrovarsi e i familiari a beneficiare di uno sgravio del loro impegno quali curanti. Anziani che si riuniscono senza però rimanere confinati fra loro. Negli appartamenti della Residenza Parco Maggia stanno infatti arrivando i primi inquilini, mentre al piano terreno sono previsti un ristorante e alcuni commerci. La corte centrale, resa accogliente da una fontana, due ulivi e alcune aiuole con erbe aromatiche, diventerà un ambiente vivace e multigenerazionale dal quale si accede al centro di Pro Senectute. L’inserimento del centro diurno socio-assistenziale in un contesto abitativo è molto favorevole per raggiungere

gli obiettivi perseguiti con la sua apertura. Lo conferma anche Laura Tarchini, responsabile della comunicazione di Pro Senectute Ticino e Moesano. «La presenza di appartamenti, magari in parte concepiti proprio per le esigenze delle persone anziane, facilita il contatto. Il centro diurno socio-assistenziale deve inoltre costituire un ambiente familiare dove le persone si recano con piacere e regolarità. La frequenza costante di 25-30 ospiti viene in genere raggiunta a un anno dall’apertura. Bisogna infatti lasciare agli interessati il tempo necessario per cambiare abitudini». Per alcuni, come la signora che abbiamo incontrato a Maggia, ciò avviene in modo naturale. Spostatasi dal Comune dove aveva vissuto per trent’anni, si è ritrovata vicina alla figlia ma lontana dalla sua cerchia di conoscenze. Nel centro diurno ha trovato accoglienza, compagnia, divertimento e la possibilità di essere utile, partecipando a lavori manuali e cucinando. «Il programma delle attività – precisa Valentina Gnesa – è allestito e diffuso mensilmente. Comprende appunto lavori manuali e cucina, oltre a giochi che stimolano la memoria (carte, cruciverba), canti, balli, cinema e uscite. Queste ultime

sono molto apprezzate, perché offrono l’opportunità di tornare in luoghi sovente già visitati ma non più di facile accesso a causa della ridotta mobilità. I momenti conviviali sono pure sempre ben frequentati come è stato il caso della grigliata organizzata lo scorso agosto. Ha riunito gli ospiti di tre centri diurni: Maggia, Massagno e Riva San Vitale. Si tratta di preziose occasioni di scambio, sia per gli ospiti, sia per i collaboratori». Questi ultimi includono i volontari, tassello indispensabile per un buon funzionamento di ogni centro diurno. Accanto all’impegno dei professionisti del settore socio-sanitario – sottolineano le due rappresentanti di Pro Senectute Ticino e Moesano – è necessario poter contare sui volontari locali per riuscire a gestire il gruppo nelle diverse attività ricreative e nelle visite esterne. A Maggia si è solo all’inizio e quindi ogni partecipazione di questo tipo è più che mai gradita. Aggiunge Valentina Gnesa: «La collaborazione è molto importante a tutti i livelli. Per questo motivo, oltre al proficuo coinvolgimento del Comune e delle associazioni presenti in valle, si lavora a stretto contatto con gli altri centri diurni di Pro Senectute (in ordine di apertura Lamone, Faido, Massagno, Tenero, Bellinzona e Maggia), con le

analoghe strutture gestite da altri enti e con l’intera rete di servizi che opera a favore degli anziani». Da rilevare, che Pro Senectute Ticino e Moesano gestisce anche cinque centri diurni terapeutici riservati a persone affette da malattia di Alzheimer o da patologie correlate, che vivono ancora al proprio domicilio. I centri diurni socio-assistenziali fungono invece solitamente da primo contatto per le persone fragili. Sono destinati a chi, ancora autonomo o con un lieve bisogno di assistenza, vive a casa propria. Offrono però anche un accompagnamento che individua i disagi emergenti indirizzando gli utenti verso aiuti mirati. Nel corso degli ultimi anni hanno conosciuto una progressiva diffusione dapprima nei centri urbani e poi nelle valli. Anche la popolazione della Vallemaggia ha ora il suo punto di riferimento, concepito per gli anziani ma anche da loro medesimi in quanto invitati a partecipare attivamente alla scelta delle animazioni. Informazioni

Centro diurno socio-assistenziale di Maggia, tel. 091 760 91 63. www.prosenectute.ch, tel. 091 912 17 17

Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Garret Weyr, La forma della magia, De Agostini. Da 9 anni Questo libro parla della magia, quella «che esiste ancora», quella «visibile solo a un occhio attento», quella che, «anche quando non riuscite a vederla, è sempre lì». E in effetti la magia che ci narra – sotto forma di draghi, incantesimi e metamorfosi – convive con il corso degli eventi storici in Europa, dall’Ottocento al Novecento. C’è un drago (Benevolentia Gaudium, detto Grisha), che con i suoi cinquecento anni di aspettativa di vita, ha tutto il tempo per attraversarli tutti, questi eventi. Solo che non lo farà sempre nelle sue spoglie di drago, ma per un certo periodo (raccontato nella prima, e più bella, parte del romanzo), lo farà sotto ben altre spoglie: trasformato in teiera da un malvagio stregone, finirà alla corte di Francesco Giuseppe, proprio negli appartamenti dell’imperatore. Sotto l’oro e i rubini che impreziosivano quella piccola teiera, pulsava l’anima di Grisha, che – pur prigioniero nell’og-

getto – vedeva e viveva tutto. Alla morte dell’imperatore, la teiera passò nelle mani di Yakov Merdinger, un banchiere ebreo di Budapest, un uomo illuminato e mite, di quelli in grado di intuire la magia nel quotidiano. Grisha visse, pur malinconicamente sotto forma di teiera, momenti sereni con Yakov, e poi anche con la dolce moglie musicista, Esther, e le figliolette, fino al giorno in cui, riprese le sue sembianze, poté volare via. Da qui si dipanerà un viaggio tra le capitali europee, soprat-

tutto Londra e Vienna, dove cruciale sarà l’ incontro con una ragazzina, Maggie. A questo punto i protagonisti del romanzo saranno due, il drago e la bambina, legati da un’amicizia profonda e generosa, che li porterà a voler scoprire cos’è successo agli altri draghi che popolavano le foreste. Un’avventura in cui ad entrambi saranno richiesti tanto coraggio e tanto amore, quell’amore che a volte funziona persino meglio della magia: «Grisha era colpito da quanto spesso lei gli leggesse nel pensiero senza entrargli nella mente». Un romanzo molto europeo, nonostante sia stato scritto da un’autrice americana, che inserisce, in questo contesto di draghi, personaggi storici interessanti e meno noti (ad esempio la musicista Nadia Boulanger), o locali tipici, come il Sacher di Vienna; e che ci fa riflettere su come sia importante non solo guardare il mondo, ma anche prendersi il tempo di fermarsi per vedere ciò che non va. E provare a cambiarlo.

Lilith Moscon-Francesco Chiacchio, Monsieur Magritte, LibriVolanti. Da 4 anni Si comincia dalla copertina, ad ammirare questo delizioso libro. La copertina, e il retro di copertina, e anche i risguardi: davanti un signore che dalla notte si affaccia sul giorno, dietro una signora che dal giorno si affaccia sulla notte. Cielo azzurro, nuvole bianche, e blu scuro della notte. Gli adulti andranno subito col pensiero a Magritte, al suo celebre Impero delle luci, con la casa notturna sotto un cielo chiaro, o alle sue colombe fatte di nuvole; i bambini

conosceranno Magritte, e alcuni suoi quadri, solo alla fine di questo libro, ma avranno vissuto una bella storia, che li condurrà con leggerezza, senza forzature, nell’universo del pittore. E in quello di Georgette Berger, sua moglie, conosciuta giovanissima, che condivise con lui tutta la vita. Nel racconto di Lilith Moscon, così ben illustrato da Francesco Chiacchio, loro sono il Signor Blu e la Signora Azzurra: lui vive nella notte, lei nel giorno, ma si incontreranno, mentre cercano i rispettivi piccioni viaggiatori, sulla linea di confine che si chiama «cielo». È una favola poetica e surreale, in stile Magritte, che racconta una storia d’amore e una storia di confini, dove le cose possono essere viste da prospettive diverse, dove il mondo si può scomporre e riassemblare in modi nuovi e non scontati. La seconda parte del libro, che fa parte della collana Librarte di LibriVolanti, presenta i quadri che hanno ispirato il racconto, con un invito ai lettori: quali storie suggeriscono a voi?


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 settembre 2019 • N. 37

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Società e Territorio Rubriche

L’altropologo di Cesare Poppi Sul sentiero di Teutoburgo Narra Svetonio in Le Vite dei Cesari che, nell’udire la notizia del massacro di Teutoburgo, l’imperatore Augusto fosse preso da un accesso d’ira: sbattendo la testa contro i muri del suo palazzo ripeteva furibondo: «Quintili Vare, legiones redde!»(Quintilio Varo, ridammi le mie legioni!). Publio Quintilio Varo, ahimè, scagliatosi sulla propria daga come voleva il codice d’onore dei legionari di una Roma d’altri tempi, giaceva cadavere suicida da qualche parte della densa foresta di Teutoburgo, nella provincia di Osnabrueck, nell’odierna Sassonia Meridionale. Assieme a lui i corpi di un numero stimato fra i 16 e i 20’000 legionari romani e auxiliarii germanici loro alleati – tutti caduti in quello che gli storici concordano essere stato il più grave disastro militare della storia di Roma, ricco di conseguenze per la storia successiva e non privo di una certa aura fatale anche per l’epoca contemporanea. L’annientamento delle legioni XVII, XVIII e XIX in quel fatale 9 settembre del 9 DC ha il sapore di un disastro annunciato.

Tutto era cominciato una ventina di anni prima con le vittorie di Druso contro le tribù germaniche guidate da Sigimero il Conquistatore, re dei Cheruschi. Così come era ormai costume di un Impero sicuro della propria forza morale, civile e militare, allo sconfitto erano stati imposti termini e condizioni di resa onorevoli. Questi comportavano l’affido in ostaggio ai romani dei due giovani principi germanici, figli di Sigimero, Flavo ed Arminio, in veste di garanti della pace raggiunta. A Roma i due fratelli furono educati nello studio del diritto romano secondo gli standard dovuti al loro rango per essere poi avviati alla carriera militare. Flavo diverrà uno dei più brillanti condottieri dell’esercito romano, convinto sostenitore quale era del modello politico e culturale globale dell’Impero. Al contrario, suo fratello Arminio, pur militando con successo come ufficiale dell’esercito romano, mai abbandonò progetti revanchisti a favore del suo popolo d’origine. Al termine delle campagne di Tiberio contro i Germani,

Publio Quintilio Varo, un esperto amministratore imparentato alla famiglia imperiale, fu incaricato da Tiberio di subentrare ai condottieri militari Gaio Senzio Saturnino e Marco Emilio Lepido per concludere la pacificazione ed organizzare l’amministrazione della nuova Provincia Germania. Alla notizia dello scoppio di una minacciosa rivolta in Illiria (Dalmazia) Tiberio fu costretto ad abbandonare la Germania portando con sé il grosso dell’esercito lasciando così al comando di Varo soltanto tre legioni. Fu a questo punto che Arminio, che mai aveva smesso di fare segretamente da coordinatore delle tribù germaniche ostili ai romani, decise di agire. Cheruschi, Marsi, Ciatti, Bructeri, Ciausi, Sicambri e Svebi – tutti avevano abbandonato le tradizionali inimicizie per allearsi contro Varo, peraltro noto per la sua crudeltà nel reprimere qualsiasi forma di dissenso all’Impero. Arminio si trovava allora in una posizione ideale: era infatti consigliere fidato di Varo che, inesperto della regione, si affidava

ai suoi consigli. Fu così che durante la marcia delle tre legioni rimanenti del presidio germanico verso gli accampamenti invernali sul Reno, Arminio fece circolare la fake news di una rivolta locale non tanto lontano dal tragitto di marcia delle legioni. Varo gli affidò il compito di trovare una rotta nel fitto della foresta di Teutoburgo che potesse far piombare i Romani addosso ai rivoltosi per annientarli. Arminio avviò la marcia più disperata dell’Impero prima di farsi di nebbia e unirsi ai suoi per dirigere il macello. Disciolte le compatte formazioni di marcia, le legioni si trovarono infatti sgranate in fila lungo 25 chilometri lungo un sentiero mal tracciato che la pioggia rendeva poi impossibile mano a mano che fango e melma crescevano al passaggio di cavalli e carriaggi. Archi messi fuori uso per l’umidità, cavalleria impossibilitata a manovrare, linee di comunicazione saltate, caos: il dio nemico peggiore dei romani di allora… Fra il 9 e l’11 settembre di attacchi diuturni, incessanti mordi e fuggi e malgrado i

tentativi di spezzare l’assedio, la XVII, XVIII e XIX legione furono fatte a spezzatino ed annientate. Pare non vi sia ragione per dubitare dei cronisti che riportano come gli ufficiali romani furono ritualmente torturati, i loro corpi fatti a pezzi e bolliti per ricavarne le ossa con le quali confezionare potenti amuleti. Teutoburgo fermò l’espansione dell’Impero verso Est, creando de iure le Due Germanie – critica giuntura ancor oggi de facto non risolta. Sarà la sorte di Germanico, nipote di Druso, raddrizzare le sorti dell’Impero nelle campagne fra il 14 e il 16. Recuperate due delle insegne delle legioni di Druso occorrerà ancora attendere per il recupero della terza. E Arminio? Arminio finirà assassinato dai suoi, gelosi del suo potere. All’offerta di un congiurato di avvelenare un Arminio ormai inviso, il Senato romano ribattè che il popolo Romano si vendicava dei suoi nemici né col veleno né col denaro, ma apertamente sul campo con l’onore delle armi. Capita l’antifona, i Germani fecero da sé. Altri tempi, altre congiure.

per condividere un film. Il pericolo è sempre quello: che si crei una coppia dominante che sottomette le altre sino ad allontanarle. Ma forse la pretesa dell’esclusività sta tramontando a favore di un’amicizia femminile più duttile e aperta. Quanto ai ragazzi suppongo, cara Lisa, che alcuni non siano rimasti indifferenti al tuo arrivo e che, a distanza, ti stiano osservando con interesse. È probabile che, timidi e insicuri, non sappiano come farsi avanti. Le poesie del Dolce stil novo insegnano che l’oggetto d’amore è sempre unico, sfuggente, impareggiabile, arduo da conquistare. L’importante è il modo con cui ti presenti. Se assumi un aspetto irritato, cupo e risentito non farai che confermare il tuo isolamento. Sii te stessa, mostra il tuo lato più vero senza sentirti diversa, senza compiangerti né indossare una corazza di superiorità. Siamo tutti diversi, siamo tutti unici e soltanto la paura di non essere accettati ci fa adottare atteggiamenti conformisti. Oppure anticonformisti ma solo

apparentemente ribelli perché dietro i gesti più provocatori si cela sempre una richiesta di riconoscimento e di amore. Confessi di stordirti col nuoto e credo che lo stratagemma funzioni perché tutto può diventare una droga. Ma anche il nuoto, come ogni altro sport, si presta a diventare una occasione di socializzazione: entrando a far parte di una Società sportiva, partecipando a qualche competizione. Il segreto, nel tuo caso, è vincere l’impazienza della gioventù, sottrarti al ricatto esistenziale: ora o mai più. Spetta a te vivere e narrare la tua storia, compresi gli intervalli, tenendo presente che non si tratta di uno spot ma di un romanzo a sorpresa.

grigiore ? Se lo chiedono i tanti delusi, di fronte alle fotografie di un premier che, a Bruxelles, dialoga con i suoi omologhi, stravaccato, le gambe sulla scrivania o, esce dal 10 di Dowing Street, leccando un gelato, in cui è infilzata la bandierina inglese. Inevitabili, in proposito, le allusioni alla somiglianza con Trump: non soltanto, per una questione di chioma gialla, ma per una rozzezza di stampo americano. Del resto, Boris è nato a New York. Tuttavia, fra i due una differenza c’è, e come. Ha tenuto a sottolinearla, John Burnside, docente universitario, sul «Guardian»: «Johnson scrive importanti libri di storia, Trump i libri neppure li legge». Proprio in questo clima, saturo di esibizioni, si giustifica la nostalgia per il grigio, colore assente, o quasi, dalla tavolozza politica. Fu scelto, alla metà dell’800, dal tedesco Paul de

Lagarde, quale simbolo di un partito liberale, subito scomparso. Mentre, nel frattempo, la realtà politica si tingeva di rosso, di nero, di bruno, simboli di successi con effetti rovinosi. Di fronte ai quali, un colore non primario, un’irrilevante sfumatura sembra contrassegnare buon senso e sicurezza. Ora, di questa condizione, la Svizzera è spesso considerata un emblema. Non senza qualche ironia. Secondo un’indagine USA, il parlamento elvetico sarebbe il più noioso del mondo, contrassegnato proprio dal grigiore. Un grigiore dignitoso e ben funzionante che, però, non mette al riparo da cadute di stile. Sto pensando a un manifesto, vivacemente colorato: una mela rossa intaccata da vermi allusivi. Fa discutere: come vuole il cosiddetto bello della democrazia. Poco bello, in verità.

La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi La capacità di essere se stessi Cara Professoressa, ho quindici anni e, per ragioni che non le sto a raccontare, sono giunta in una seconda Liceo dove non conosco nessuno. I miei nuovi compagni, avendo già trascorso un anno insieme, hanno formato gruppi e coppie ormai stabili. Invece io sono rimasta sola e temo di essere destinata a rimanere tale perché nessuno sembra accorgersi di me. Forse sono trasparente. Mi sono messa all’ultimo banco e quello accanto è rimasto vuoto per cui è difficile attaccare discorso. Le ragazze chiacchierano tra di loro e, dopo un rapido saluto, non mi chiedono niente. Cerco di non deprimermi ma le confesso che mi sento brutta e stupida. Le amiche di mia mamma dicono che sono carina ma come crederci? Mentalmente mi racconto molte storie ma di fatto resto immobile. So che alla mia età molti fanno già sesso ma a me interessa l’amore. Mentre le invio questa lettera mi viene il dubbio di cercare qualcuno che si accorga di me e mi scriva. Ma a chi può interessare una ragazza banale, una

come tante che non brilla né per l’aspetto fisico né per la spigliatezza? Per sopravvivere mi stordisco nuotando – ogni giorno ore in piscina – ma anche lì sono tutti più bravi di me. Come uscire dal vuoto in cui galleggio? Quale futuro mi attende? Troverò l’amore? Mi sposerò? Avrò dei figli? O mi limiterò a diventare vecchia e grassa? / Lisa Cara Lisa, nonostante cinema e televisione raccontino preferibilmente storie di ragazze spregiudicate e perverse, la maggior parte delle adolescenti sono come te – idealiste, timide e spaventate – soltanto che non fate notizia. Siete tante a sognare, non il sesso ma l’amore, a preferire la solitudine piuttosto che l’inserimento in gruppi di ragazzi superficiali e spavaldi, ad attendere una storia vera piuttosto che un flirt senza domani. Quella che ti sembra una condanna è piuttosto una scelta di libertà, un rifiuto del conformismo. Purtroppo non essere come gli altri comporta sempre

una certa sofferenza ma si tratta di un dolore costruttivo, che alimenta la vita interiore, affina i sentimenti, promuove l’empatia, la capacità di sentire come propri i sentimenti e le emozioni altrui. Spesso, anche se non sempre, un’adolescenza spensierata e superficiale, priva di riflessione e di introspezione, sfocia in una maturità senza spessore, in una personalità narcisistica che si trova ad affrontare poi i problemi evitati prima. Interrogativi quali: «chi sono io?», «come voglio divenire?», «quale sarà il mio futuro?» costituiscono le radici dell’identità e le ali del destino. Nel tuo caso, resta da affrontare per prima cosa il rapporto con le amiche, mai facilissimo. Di solito le quindicenni preferiscono legarsi all’amica del cuore piuttosto che fare gruppo come i coetanei, anche se mi sembra stiano avvenendo in proposito dei cambiamenti. Vedo sempre più frequentemente tre o quattro compagne di scuola che si trovano in un caffè per studiare, in pizzeria per cenare insieme, al cinema

Informazioni

Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch

Mode e modi di Luciana Caglio Il grigio in politica: frainteso e rimpianto Per sua fortuna, l’Italia, politicamente malmessa, può sempre contare sulla risorsa di comici che, a ogni cambio di guardia, riescono a cogliere le caratteristiche dei nuovi governanti per tradurle in battute e sketch, che divertono, e non soltanto. Del resto, da Berlusconi a Renzi, a Salvini non è mancata la materia prima. Con un’eccezione, però, nel novembre del 2011, quando Montecitorio accolse una compagine insolita: un governo cosiddetto tecnico, presieduto da Mario Monti, professore di alto prestigio, e composto da affermati specialisti in giurisprudenza, statistica, demografia, finanza tributaria. Insomma, ambiti e persone con cui c’era poco da scherzare. Tuttavia, Rosario Fiorello ci provò, cavandosela con successo anche in quell’occasione. Commentando, in televisione, l’arrivo di una squadra ministeriale, tanto severa

e meritevole, uscì con una battuta ormai storica: «La fotografia ufficiale del nuovo governo doveva essere a colori: ma, in pratica, è uscita in bianco e nero. Grigia». E quel giudizio, spassoso e calzante, che ritraeva la politica del momento, a otto anni di distanza, ha finito per assumere l’inatteso significato di un rimpianto e persino di un riscatto. Cioè, il grigio, escluso dalla tavolozza politica, perché scialbo emblema di piattezza e insipienza, si ripropone, adesso, come un’auspicabile alternativa virtuosa. In questa lunga stagione, che ha visto il sopravvento di governi e personaggi più che mai coloriti, anzi sgargianti, sta crescendo spontaneamente l’insofferenza per gli arlecchini al potere. Basta, insomma, con Salvini che confonde spiaggia e parlamento. Ma non è il solo impegnato a conquistare l’elettorato, divertendolo.

Certo, per noi ticinesi, lo sguardo è puntato, con una sorta di «Schadenfreude», sui guai dei vicini di casa, coinvolti però in un fenomeno generalizzato, che non concerne più soltanto gli instabili paesi mediterranei, è ormai di dimensioni mondiali. La politica-spettacolo, indispensabile nell’era della comunicazione, doveva creare personaggi ad hoc, su scenari insospettabili. Intaccando addirittura l’immagine, sin qui idealizzata, della Gran Bretagna. E la folta schiera degli anglomani, cui appartengo, sta subendo i dolorosi contraccolpi dell’avvento di Boris Johnson, personaggio bifronte. Da un lato, capace di abbinare cultura e originalità, dall’altro un confusionario sedotto dal potere. Tanto da mettere in pericolo l’attività parlamentare. Dov’è finito il leggendario «British Style», fatto di compostezza e


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Ambiente e Benessere Una giornata nell’orto bio L’iniziativa didattica che vuole avvicinare i bambini alla cura e alla conoscenza della natura

La terra di Lawrence of Arabia La bellezza del Wadi Rum fu pubblicizzata nel resto del mondo dal film del 1962, e da allora attira ondate di turisti e un numero crescente di troupe cinematografiche

Una Cuba oltre i sigari Il prossimo viaggio organizzato da Hotelplan porterà i lettori di «Azione» a tuffarsi nei Caraibi

Trasporto per urgenze SOS Barry III, questo il nome del veicolo della SPAB per il pronto soccorso degli animali

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pagina 27 Quel che resta di una porzione di Amazzonia. (AFP)

Il problema (e la soluzione) siamo noi Crisi ecologica Non arde solo l’Amazzonia, ma ci sono ampi incendi anche in Canada e in Siberia Loris Fedele Nelle scorse settimane la più estesa foresta tropicale del mondo si è trovata avvolta nei fumi di una crisi ecologica oltre che politica. In questo articolo tratteremo solo il discorso ecologico-scientifico. Nel mondo non mancano certo i momenti di crisi per le foreste. Quello dell’Amazzonia è solo uno dei grandi roghi di foreste nel corso di quest’anno. Ardono anche l’Indonesia e varie zone dell’Africa. Pure nell’area boreale le foreste stanno bruciando a un ritmo allarmante. Sono in fiamme il Canada e in particolare la Siberia dove, a partire dal giugno scorso, in due mesi si è persa una superficie di foresta estesa quanto il Belgio. Il fatto ha riversato nell’atmosfera una quantità di CO2, l’anidride carbonica che alimenta l’effetto serra, stimata a cento milioni di tonnellate. Le immagini dei satelliti Sentinel dell’Agenzia spaziale Europea hanno registrato il fenomeno: per quanto attiene alla Siberia, ad esempio, l’incendio è stato solo monitorato e non contrastato in quanto i roghi sono molto lontani dai centri abitati e il governo russo ha considerato «antieconomico»

andare a raggiungerli per spegnerli. Secondo Greenpeace Russia quest’anno sono bruciati dodici milioni di ettari di terreno nelle regioni polari, riducendo fortemente la capacità delle foreste di assorbire l’anidride carbonica. Come si sa, l’albero vive e cresce utilizzando elementi naturali: l’acqua, l’energia del sole, i nutrienti della terra e l’anidride carbonica (CO2) che sottrae all’atmosfera attraverso il processo della fotosintesi. Quando assorbe più CO2 di quello che rilascia, un albero viene definito «pozzo di carbonio». Il famoso Protocollo di Kyoto prevede espressamente l’assorbimento forestale quale attività di mitigazione climatica, cosa oggi fondamentale di fronte a un accertato riscaldamento globale e all’aumento dell’effetto serra al quale l’attività umana non è estranea. Quanta CO2 assorbe e sequestra un albero? La risposta più corretta è «dipende», perché sono tanti e variegati i fattori che influenzano il processo di assorbimento del CO2 nel complicato ciclo del carbonio. Bisogna innanzitutto fare una distinzione di base riguardo alla pianta: albero o arbusto, ad alto fusto o basso. Poi vedere l’ambiente nel

quale vive, nel clima temperato o tropicale, se è in natura o in un contesto urbano, se gode di una manutenzione oppure no. Sono tutti fattori e variabili rilevanti per la crescita dell’albero e della sua capacità di assorbimento dell’anidride carbonica. Per cui ha poco senso un’affermazione come quella che circolava qualche tempo fa e diceva che «se piantassimo tremila miliardi di alberi cancelleremmo dieci anni di emissioni nocive nell’aria». Tuttavia l’indicazione non è peregrina e ci dà da pensare. Diciamo pure che più alberi ci sono al mondo e meglio è. Uno studio dell’Università del Maryland, apparso quest’anno su «Nature», ha reso noto che dal 1982 al 2016 la superficie mondiale coperta da vegetazione è aumentata del 7,1%. Però a fronte di certe zone che hanno avuto più alberi ce ne sono state altre che ne hanno persi, e sono proprio le più importanti, quelle delle aree tropicali: le foreste umide, le foreste pluviali, le foreste secche. Tornando alla deforestazione amazzonica, l’Università di Rio ha registrato in un anno, dall’agosto 2017 al luglio 2018, l’abbattimento di 7900

kmq di foresta, il 13,7% in più dell’anno precedente. Di fatto, e questo è un altro dato ufficiale del Centro mondiale di ricerca sulle foreste (CIFOR), dal 1990 al mondo si è persa una copertura forestale pari a tre volte la superficie dell’intera California: un’enormità. Tutto ciò è il risultato di molti fattori, incluso il fuoco, ma anche del disboscamento selvaggio, del cambiamento climatico, delle pratiche agricole non appropriate, delle malattie e delle pesti che sorgono nelle aree forestali convertite in terre agricole, cosa che nell’Amazzonia accade spesso. Anche il proliferare delle coltivazioni di palme da olio, che non può essere considerato un rimboschimento, sta creando diversi danni alla qualità dei suoli. Proprio in Brasile un dato accerta che i danni maggiori si riscontrano nella foresta secca, come quella della vastissima savana tropicale denominata Cerrado. Sono quasi due milioni di kmq, un’enorme eco-regione non protetta dalla legge, minacciata pesantemente da scriteriate politiche agricole, da incendi dolosi, oltre che dalla pressione antropica. In questa zona importanti orga-

nizzazioni non governative effettuano studi e interventi per rendere la foresta resiliente. La duplice strategia adottata mira a combattere il cambiamento climatico e a investire sul ripristino della foresta. Si sa come evitare i catastrofici fuochi nelle foreste tropicali: invece di focalizzare l’attenzione sui fuochi ormai esistenti si invita a prestare maggiore attenzione alla prevenzione. Gli scienziati denunciano anche che allo stato attuale si sta spingendo la foresta amazzonica verso un punto di squilibrio nel quale potrebbe gradualmente trasformarsi in foresta secca, in una savana che l’uomo non saprebbe più recuperare. Raggiunto un certo livello di degrado, la foresta perderebbe la capacità di generare le proprie piogge, che oggi la salvano e la rendono vitale. L’ecosistema cambierebbe caratteristica: invece di una foresta di latifoglie, ricca di flora e di fauna selvatica, muterebbe in una desolata distesa cespugliosa. «Il pessimismo non ha mai portato da nessuna parte», afferma il CEO della Conservation International di Washington M. Sanjayan. «Noi tutti siamo parte del problema, ma noi possiamo anche essere parte della soluzione».


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Ambiente e Benessere

Alleanze sempre più globali Motori A riunire le forze ora sono la Ford Motor Company e il Gruppo Volkswagen

Mario Alberto Cucchi Periodo di alleanze nel mondo delle quattro ruote. Lo scopo, spesso, è la condivisione di conoscenze in modo da ridurre le tempistiche necessarie per mettere a disposizione dei clienti le ultime tecnologie. E dato che l’appetito vien mangiando, ecco che alcuni costruttori condividono i pianali delle auto e alcuni anche i propulsori. Alla fine, non sarà dunque da escludere che ci si possa ritrovare al volante di una Mercedes che monta un motore Renault.

La forza dei due costruttori permette alla piattaforma di Argo AI il maggior potenziale di diffusione geografica D’altra parte la condivisione, lo sharing, oggi la fa da padrone in molti campi. Questa volta è il turno di Ford Motor Company e del Gruppo Volkswagen che annunciano l’ampliamento della loro alleanza globale; un’alleanza che include i veicoli elettrici. In altre parole, la collaborazione si allarga inglobando anche Argo AI per introdurre la tecnologia della guida autonoma negli Stati Uniti e in Europa. Ma chi è Argo AI? Si tratta di un’azienda di piattaforme per mezzi a guida autonoma con una valutazione di oltre sette miliardi di dollari.

L’obiettivo di Argo AI è la creazione di un sistema di guida autonoma di Livello 4 idoneo per l’utilizzo nel ride sharing e per servizi di consegna merci in aree urbane ad alta densità. «Mentre Ford e il Gruppo Volkswagen rimangono indipendenti ed estremamente competitivi sul mercato, fare squadra e collaborare con Argo AI su questa importante tecnologia ci consente di ottenere capacità, scalabilità e diffusione geografica senza pari» ha affermato Jim Hackett, Presidente e CEO di Ford. «Realizzare sinergie in questi ambiti ci permette di mostrare la forza della nostra alleanza globale nell’era dei veicoli intelligenti per un mondo intelligente». La possibilità di sfruttare la presenza globale dei due costruttori fa sì che ad oggi la piattaforma di Argo AI abbia il maggior potenziale di diffusione geografica rispetto ad ogni altra tecnologia di guida autonoma. I Ceo delle due società hanno anche annunciato che Ford diventerà il primo costruttore esterno a utilizzare la piattaforma MEB del Gruppo Volkswagen e l’architettura specifica per i veicoli elettrici. Produrrà un modello di grande diffusione a zero emissioni in Europa a partire dal 2023. Ford prevede di consegnare nel vecchio continente più di 600mila veicoli basati sulla piattaforma MEB in sei anni. Il Gruppo Volkswagen è molto impegnato anche sul fronte cinese dove vuole diventare leader nella mobilità elettrica. Lo ha dichiarato il Ceo di Volkswagen Herbert Diess al primo

Argo è un’azienda di piattaforme per mezzi a guida autonoma con una valutazione di oltre sette miliardi di dollari.

World New Energy Vehicle Congress (WNEVC) svoltosi nella città cinese meridionale di Boao. Il mercato cinese rientra inoltre nella strategia di decarbonizzazione del Gruppo Volkswagen. Quest’anno offrirà 14 modelli elettrificati ai clienti cinesi. Entro il 2028 oltre

la metà dei 22 milioni di automobili elettriche previste dal Gruppo saranno prodotte in Cina. Allo stesso tempo, Volkswagen sta rafforzando la sua attività di ricerca e sviluppo locale. Più di 4500 ingegneri lavorano sulle future tecnologie nel Paese orientale. L’im-

pronta ecologica sarà ulteriormente migliorata in tutti i 33 impianti di produzione cinesi di Volkswagen e dei suoi partner. Solo nell’ultimo anno le emissioni degli impianti sono state ridotte del 13 per cento, risparmiando 390mila tonnellate di CO2. Annuncio pubblicitario

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Ambiente e Benessere

Un successo per i Giardinieri in erba

Dall’Oriente un bambù sacro Mondoverde Bella, resistente, facile

Didattica Una mattinata con il progetto sostenuto da Migros Ticino

per condividere con i bambini le esperienze nell’orto

da curare, la Nandina è un sempreverde dalle sfumature rosse

Elia Stampanoni

Anita Negretti

È un sabato mattina soleggiato a Lortobio di Gudo. I colori vivaci dei fiori e delle colture rendono subito raggiante l’ambiente, dove è un viavai di bambini che si adoperano nei lavori dell’orto, trasportando carriole di terra, fieno o ortaggi raccolti. Altri strappano erbacce, ma di certo uno tra i compiti più ambiti è quello di azionare la pompa a pedali per attingere acqua di falda. I collaboratori e gli animatori sono un valido sostegno e nel gruppo s’instaurano anche delle belle amicizie. Lo si capisce dalle voci allegre che fanno da sottofondo ai lavori presso l’orto biologico collettivo di Gudo, dove ogni primo sabato mattina del mese, a partire dallo scorso maggio e fino al prossimo ottobre, è previsto l’incontro del progetto «Giardinieri in erba», un’iniziativa promossa da Bioterra e sostenuta da Migros Ticino. Il programma coinvolge i bambini dai 5 ai 10 anni in un’esperienza a diretto contatto con la terra e con la natura (vedi presentazione su «Azione 18» del 30 aprile 2019) e ogni primo sabato del mese sono tra 10 e 25 i ragazzi che si annunciano e si presentano per trascorrere una mattinata di lavoro e condivisione sotto la conduzione di Chiara Buletti ed Elena Camponovo, coordinatrici del progetto. «L’iniziativa sta avendo un bel successo con sempre tanti bambini entusiasti di partecipare, coinvolgendo infine anche i genitori, che s’interessano e s’appassionano a temi quali l’orto famigliare, l’agricoltura biologica, le risorse ambientali e lo scambio di momenti a contatto e in rispetto della natura» racconta Elena. I bambini, alcuni dei quali si ripresentano da un sabato all’altro, si stanno divertendo con tutte le attività necessarie al mantenimento dell’orto. «È bello che i bambini tornino, così riescono a seguire i lavori e vedere cos’è successo in un mese. Nel frattempo alcuni mettono persino in pratica nell’orto di casa alcuni dei consigli appresi», racconta Chiara Il sole si fa sempre più caldo e qual-

È un arbusto sempreverde, molto ornamentale e di poche cure, ma soprattutto risulta attrattivo durante tutte e quattro le stagioni. Il suo nome scientifico è: Nandina domestica, sebbene sia comunemente chiamata anche solo Nandina o bambù sacro. Si tratta di una pianta originaria della Cina e del Giappone. Appartenente alla famiglia delle Berberidaceae, cresce rigogliosa nelle zone con climi temperati, arrivando a un massimo di altezza di due metri. Giunta in Inghilterra nei primi anni del 1800 e coltivata erroneamente per decenni solo in serre calde, questo arbusto si presenta con fusti eretti e piccole foglie tripennate e appuntite che danno alla pianta un aspetto arioso. In primavera le foglie lanceolate sono di un verde intenso, mentre tra giugno e luglio si sviluppano delle infiorescenze formate da minuscoli fiori bianchi a forma di stella, raggruppati in spighe lunghe 20-25 centimetri. Sempre durante i mesi estivi le foglie apicali cambiano colore, assumendo una bella e ricca colorazione rosso violaceo. Da metà settembre compariranno invece delle bacche, numerose, di un bel rosso vivace che restano per mesi interi sulla pianta. Molto rustica e resistente, si adatta bene anche alla vita in vaso e ad esser coltivata su terrazzi e balconi assolati.

che goccia di sudore comincia ad intravvedersi sui volti degli animatori, ma anche sul viso felice dei partecipanti. È l’ora di una pausa, una merenda con prodotti biologici offerti da Migros Ticino e con frutta o legumi dell’orto, consumata all’ombra degli alberi. Un attimo di riposo e condivisione, dove Chiara ed Elena invitano e invogliano i bambini a raccontare quanto hanno fatto, ad esprimere e condividere le proprie esperienze. «Io ho fatto i semi!», «Io ho lavorato con la terra e abbiamo anche trovato tre lumaconi!», «Abbiamo raccolto l’erba con il rastrello e abbiamo messo il fieno per fare la pacciamatura!», queste sono alcune delle esclamazioni dei giovani partecipanti che, terminato lo spuntino, sono subito pronti per dedicarsi a un’altra attività. Vengono date alcune informazioni pratiche e utili ragguagli per creare di seguito dei piccoli gruppi, ognuno con un collaboratore o animatore. Con le indicazioni di Chiara ed Elena si prosegue con i lavori nell’orto biologico di Gudo, un campo coltivato con erbe aromatiche e medicinali, ortaggi, legumi, ma anche fiori e bacche. Il tutto completato da un prato magro, alberi da frutta, la pompa per l’acqua, un fienile e una cascina adibita in parte a deposito e in parte a luogo d’incontro.

Come ci avevano anticipato in primavera le coordinatrici del progetto, non si tratta di una lezione all’aria aperta, ma più di momenti che riescono a coinvolgere i bambini attivando in loro nuove sensazioni. «C’è un vero contatto con la natura e i bambini possono provare a fare di tutto, scegliendo tra le attività che proponiamo e che sono veramente molte: nell’orto c’è sempre qualcosa di nuovo e di diverso», aggiunge Chiara. Verso le 12.30 è l’ora del congedo. I genitori raggiungono i loro bambini e tutti ringraziano per la bella giornata trascorsa, portandosi a casa delle belle esperienze, ma anche qualche frutto o qualche fiore dell’orto di Gudo. Per alcune famiglie, che arrivano da tutto il cantone, la giornata è stata anche l’occasione per conoscere luoghi nuovi, come il Piano di Magadino sotto un altro punto di vista, oppure per avvicinarsi all’affascinante mondo dell’orto. Sabato 5 ottobre ci sarà l’ultimo incontro annuale inserito nel progetto «Giardinieri in erba» destinato ai ragazzi dai 5 ai 10 anni (che verrà riproposto a partire da aprile del 2020) e per il quale è ancora possibile iscriversi o avere informazioni contattando Lortobio: info@lortobio.ch oppure telefonando allo 078 823 71 49.

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Aperte le iscrizioni per l’ultimo appuntamento del 5 ottobre. (lortobio.ch)

Sia in contenitore sia in piena terra, la Nandina predilige un’esposizione soleggiata per garantirle foglie intensamente colorate, un terreno sempre leggermente inumidito ma ben drenato e ricco di sostanza organica. In primavera si distribuisce alla base qualche manciata di un prodotto a lenta cessione, ricco di fosforo e di potassio, oppure ogni 15-20 giorni si aggiunge un concime liquido nell’acqua delle innaffiature. Non richiede potature, se non quella di contenimento, che consiste nell’eliminare i rami più vecchi e quelli fragili dopo la fioritura estiva. Oltre alla classica Nandina domestica, vi sono specie e varietà molto decorative e facilmente reperibili nei vivai. Nandina domestica «Alba» ha bacche color bianco crema e foglie verde lucido, «Fire Power» ha una crescita più compatta e una forma globosa, raggiungendo solo i 60 centimetri di altezza, con foglie dall’intensa colorazione rossa. «Filamentosa» è invece una varietà molto inusuale, quasi una rarità, e ha foglie strettissime: assomiglia a un bambù dal colore porpora in autunno, ma incapace di regalarci una bella fioritura. Tra le varietà a forma ridotta troviamo «Harbour Dwarf» di un solo metro d’altezza oppure «Atropurpurea Nana» che è bassa e molto compatta, ideale per creare cespuglietti di delimitazione delle aiuole.

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Ambiente e Benessere

Il bianco e il rosa del Wadi Rum Reportage Il deserto reso famoso dal film Lawrence D’Arabia, al quale è stata «dedicata» una duna;

tra antiche iscrizioni di epoca nabatea, oasi, canyon e addirittura una stazione ferroviaria

L’Um Fruth Rock Bridge; sul sito www.azione.ch si trova una galleria fotografica più ampia.

Simona Dalla Valle, testo e foto Una visita al Wadi Rum è un viaggio attraverso l’evoluzione geologica della Terra; massicce formazioni rocciose spuntano dal mare di sabbia, risultato di un movimento tettonico primordiale che ha spaccato la roccia prima di innalzarla sopra il suolo desertico. Sabbia, vento e inondazioni hanno levigato valli e gole, modellando l’arenaria in torri naturali e archi ricurvi. Il granito più duro e più vecchio forma il substrato del Wadi Rum ed è visibile tra gli strati di base delle montagne – in arabo, jebel – più alte.

Quasi tutti gli abitanti del Wadi Rum sono beduini che hanno però perso quasi totalmente la loro tradizione nomade Il villaggio di Rum si trova a circa un chilometro sopra il livello del mare, e l’area protetta circostante ospita il punto più alto della Giordania, il Jebel Umm ad-Dami (1854 m s.l.m.). All’interno del Wadi Rum sono stati documentati oltre ventimila petroglifi e iscrizioni, che fanno risalire la presenza umana in questo luogo a circa dodicimila anni or sono. Abitato nel corso della storia da cacciatori, pastori, agricoltori e commercianti, il deserto

del Wadi Rum fu occupato inizialmente dai Nabatei, i quali lasciarono dietro di sé diverse tracce della loro presenza. La bellezza del Wadi Rum fu introdotta nel resto del mondo dal film Lawrence of Arabia del 1962, attirando ondate di turisti e un numero crescente di troupe cinematografiche. Le gesta di Lawrence sono entrate a far parte del folklore locale, e alcuni siti turistici popolari prendono il suo nome. Al giorno d’oggi, quasi tutti gli abitanti del Wadi Rum sono beduini. Le antiche tribù erano nomadi e facevano pascolare capre e pecore nel deserto, creando insediamenti temporanei man mano che si spostavano. Dei sette gruppi tribali che risiedono nel deserto, il principale è quello degli Zalabia, a cui appartiene la maggior parte degli abitanti del villaggio di Rum; essendo questo l’unico villaggio all’interno dell’area protetta, la tribù Zalabia è in gran parte responsabile dei servizi turistici. La maggior parte di loro vive in modo permanente nel villaggio – l’unico insediamento dell’area protetta – ed è coinvolta nell’industria turistica della zona. Molti elementi della vita beduina, come la tradizione dello zarb, una sorta di barbecue sotto la sabbia, rimangono onnipresenti nel Wadi Rum, permettendo ai visitatori di godere di un’autentica esperienza culturale. I beduini allevano tuttora mandrie di capre per il latte, la carne e lo jameed, un tipo di yogurt. In alcuni momenti dell’anno alcune famiglie o membri

Cammelli alla sorgente di Lawrence, così chiamata in onore di Lawrence d’Arabia.

della famiglia tornano a un’esistenza errante con le loro greggi. Pochi, tuttavia, sono in grado di continuare un’esistenza interamente nomade e lo stile di vita tradizionale beduino sta rapidamente scomparendo. Riconoscendone la storia naturale e culturale unica e l’importanza vitale del turismo per l’economia locale, nel 1998 il governo giordano ha dichiarato il Wadi Rum un’area protetta. I visitatori devono pagare una tassa di ingresso e registrarsi presso il centro visitatori istituito all’ingresso dell’area di fronte al Jabal Al-Mazmar, la montagna soprannominata «Sette Pilastri della Sapienza». Il deserto presenta una vasta area di dune di sabbia accatastate contro le

montagne, dalle quali si ha una vista mozzafiato sul deserto sottostante, e spettacolari archi naturali in roccia. Con i suoi 80 metri di altezza, il Burdah Rock Bridge è il ponte di roccia naturale più alto del Wadi Rum, mentre l’Um Frouth Rock Bridge è alto quindici metri ed è uno dei punti di riferimento più fotografati della zona. La sorgente di Lawrence è il luogo dove Lawrence d’Arabia si sarebbe lavato durante la Rivolta Araba, ed è contrassegnata da un serbatoio d’acqua vicino all’ingresso di Wadi Shallalah. Il nome ufficiale della sorgente è Ain Abu Aineh, e presenta iscrizioni di roccia sulle pareti vicine. In tutta l’area del Wadi Rum sono comuni iscrizioni talmudiche e nabatee raffiguranti carovane di cammelli,

Le iscrizioni antiche all’interno del canyon che taglia il Jebel Khazali.

La locomotiva storica sulla linea ferroviaria dell’Hegiaz.

guerrieri di caccia e animali vari. Le iscrizioni di Alameleh sono tra le più complete e meglio conservate. Esse raffigurano cammelli e fauna selvatica. Altri petroglifi sono stati ritrovati nella stretta fessura che taglia il Jebel Khazali; è possibile esplorare il siq a piedi per circa 150 metri, abbastanza lontano per vedere l’impressionante numero di iscrizioni sulle pareti rocciose, come disegni di struzzi, coppie di piedi e una partoriente. Nell’area protetta sono in corso numerosi progetti di conservazione per salvaguardare il paesaggio e sensibilizzare la popolazione locale e i visitatori. Sono state effettuate anche indagini ecologiche per monitorare le popolazioni di animali in via di estinzione come il lupo grigio e la capra nubiana. Pattuglie di ranger contribuiscono a far rispettare le norme dell’area protetta e a ridurre la caccia illegale, e le piste principali attraverso il deserto sono state classificate per ridurre i danni causati da una guida non regolamentata. Sono inoltre in corso di attuazione programmi di sensibilizzazione per promuovere l’importanza dell’area protetta e incoraggiare comunità locali e visitatori a partecipare alla sua conservazione. In pochi sanno che nel deserto del Wadi Rum vi è anche una stazione ferroviaria; la linea ferroviaria dell’Hegiaz fu costruita a partire dal 1900. Nel 1916 gran parte del mondo arabo era controllato dall’impero turco ottomano e gli alleati cercarono di costringere i turchi a lasciare la regione, esortando gli arabi a prendere le armi contro di loro in cambio dell’indipendenza. Nel corso dei due anni successivi, gli arabi aiutarono a sconfiggere i turchi in un grande sforzo bellico. Sotto la guida del principe Faisal, e con l’aiuto dell’illustre T.E. Lawrence, per l’appunto famoso con il nome di Lawrence d’Arabia, gli arabi riuscirono a interrompere il passaggio dei treni sulla ferrovia dell’Hegiaz: questi attacchi ai sistemi di trasporto contribuirono a sconfiggere i turchi e a porre fine alla Grande Guerra. Nonostante la linea ferroviaria sia stata in gran parte smantellata, la locomotiva restaurata nei pressi del Wadi Rum mantiene vivo il ricordo del conflitto che ha contribuito a plasmare il moderno Medio Oriente.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 settembre 2019 • N. 37

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Ambiente e Benessere

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5. L’Avana – Playa Giron – Cienfuegos. Tasferimento verso Cienfuegos. Durante il tragitto soste a la Fiesta Campesina, Montemar, La Boca e Playa Giron, la celebre Baia dei porci. Pranzo in corso di escursione. Verso sera, arrivo a Cienfuegos. 6. Cienfuegos. Visita di una fabbrica di sigari e della città. Pranzo in ristorante e a seguire cocktail (incluso) sulla terrazza del Palacio de Valle. 7. Cienfuegos – Parco El Cubano – Trinidad. Partenza per il parco nazionale El Cubano. Pranzo in corso d’escursione. Si prosegue verso Trinidad e all’arrivo sistemazione in casa particular. 8. Trinidad. Visita della meravigliosa città coloniale dichiarata patrimonio mondiale dell’umanità dall’UNESCO. In serata aperitivo nel famoso locale La Canchanchara.

9. Trinidad. Giornata a disposizione per visite individuali e pranzo libero. Cena in casa particular. 10. Trinidad – Valle de los Ingenios – Santa Clara – Cayo Santa Maria. Partenza verso la valle de «Los Ingenios». Si prosegue per Santa Clara alla scoperta dei siti più emblematici di questa cittadina. 11-13. Cayo Santa Maria. Soggiorno balneare libero in resort 5* che regalerà giornate all’insegna del sole e del relax. Pernottamento in hotel in formula all inclusive. 14. Cayo Santa Maria – L’Avana. Trasferimento a l’Avana con cena tipica cubana. 15. L’Avana – Ticino. Nel pomeriggio trasferimento in aeroporto per l’imbarco del volo Edelweiss Air verso Zurigo. Arrivo in Svizzera il giorno seguente e rientro in pullman in Ticino.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 settembre 2019 • N. 37

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Ambiente e Benessere

I vini della Valle della Loira

Scelto per voi

Bacco giramondo Grazie ai numerosi corsi d’acqua e al microclima, questa è una

delle più generose regioni vitivinicole della Francia Davide Comoli Dalle alture ai confini della Bretagna sino ai meravigliosi giardini della Turenna: questi i confini di una regione francese della Loira che presenta un’impressionante diversità di vitigni e di vini. Sono preservati sia dalle tradizioni locali che ne privilegiano l’autenticità, sia dai terroir che beneficiano dei microclimi creati dai numerosi corsi d’acqua. Tutti questi vitigni condividono caratteristiche comuni: situati sulla stessa latitudine, i vini prodotti grazie a essi godono delle tonalità nordiche, sono molto freschi e soprattutto dominati dall’influenza del fiume Loira, onnipresente e grande via di comunicazione. Fiume selvaggio, la Loira è generosa verso le vigne che crescono lungo tutto il suo corso, accompagnandole come delle guardie d’onore. Sulle coste e sulle terrazze delle sue rive, i ceppi di vite godono della sua luce e della dolcezza del suo clima. La storia dei vini di questa regione è legata direttamente alla storia della Francia. I romani furono i primi a piantare la vigna sui bordi della costa atlantica, ma è ai vari monarchi, principi e

prelati susseguitisi nel corso dei secoli, che la vigna di questa regione deve il suo sviluppo e la sua diversità. Dalla sua sorgente al suo estuario, il fiume più lungo della Francia scende attraverso un passaggio di dolci colline, di campi verdi e naturalmente di vigne, lambendo dei magnifici castelli e dimore signorili. La Loira, larga e lenta, è alimentata dai suoi rifluenti (il Cher, l’Indre, l’Allier e la Vienne), i quali danno il nome ai vari dipartimenti, la stessa cosa fanno gli affluenti meno importanti come: l’Aubance, il Layon, la Sèvre Nantaise e la Maine, creando dei microclimi particolari. La Loira nasce a sud del Massiccio Centrale e, a metà del suo percorso, vira verso ovest creando la prima delle tre grandi regioni vitivinicole: Sancerre e Pouilly, dove si producono vini bianchi fruttati ed erbacei, grazie al vitigno Sauvignon Blanc, la cui popolarità ha conquistato il mondo. La seconda regione vitivinicola è contraddistinta da vaste distese di vigneti: la Turenna e l’Angiò, in cui ha origine tutta una famiglia di vini bianchi fermi o pétillants prodotti con il vitigno Chenin Blanc, ma è anche la regione più importante per la produzione

dei vini rossi, con il vitigno Cabernet Franc, chiamato anticamente Bretonne. La terza regione è costituita dalla bassa Loira, che si differenzia molto dalle altre. Questa regione è il reame incontrastato del Muscadet (chiamato anche Melon de Bourgogne), vino bianco leggero e fruttato, che evoca i profumi del mare; l’oceano, infatti, non è troppo lontano, come dimostra la pluviometria abbondante dei Pays Nantais. Il clima di questa regione varia in modo molto sensibile: dalla sorgente all’estuario della Loira – a dipendenza dell’influenza più o meno marcata dell’Oceano Atlantico e le annate vinicole – il risultato della vinificazione dipende molto da questo fattore sia in qualità sia in quantità. Tornando ai Pays Nantais, il Muscadet e il Gros-Plant, sono dei vini semplici nel caleidoscopio dei vini francesi. Essi hanno un gusto inimitabile, per secoli sono rimasti dei prodotti a uso locale, ma dopo gli anni Settanta sono divenuti, per gli amatori dei vini semplici, l’accompagnamento ai piatti composti da frutti di mare e ciò è stato la loro fortuna. Risalendo poi il fiume verso ovest, troviamo le due province più belle della

Vista di Sancerre, Francia. (Rolsav)

Francia, l’Angiò e la Turenna, regioni dove per secoli uomini e natura hanno lavorato in armonia. Ad Angiò e a Saumur, troviamo molte varietà di vini dagli stili differenti e molti vitigni. Troviamo bianchi dolci e voluttuosi a Quarts-de-Chaume e Bonnezeaux, molto secchi a Savennières, prodotti con lo Chenin Blanc, così come i «mousseux» di Saumur e i rossi e rosati di Saumur-Champigny, dai vitigni Grolleau-Noir e Gris e Gamay. Nella Turenna, non si può non fermarsi a Chinon, città ricca di storia, dove il Cabernet Franc la fa da padrone e oseremmo dire, forse, solo secondo a quello prodotto a St. Emilion (Bordeaux), mentre sull’altro versante del fiume lo Chenin Blanc trova il suo apogeo nei vini del Vouvray e Montlouis, senza dimenticare i famosi villaggi e relativi castelli di Amboise e Azay-le-Rideau. Quasi all’altezza di Orleans, risalendo, la Loira scorre da nord a sud, fa una curva e si orienta ovest-est e a qualche chilometro si scorgono le alture che affiorano, costituendo una piana molto propizia per la viticoltura. Sulla riva ovest troviamo la città fortificata di Sancerre che domina l’insieme dei vigneti circostanti, la cui forma vista dall’alto, ricorda quella di un «croissant»: è uno dei siti francesi con la più alta densità di vigne. Dall’altro lato del fiume, troviamo il villaggio di Pouilly-sur-Loire, con i suoi vigneti impiantati su terreni calcarei. Forse molti non lo sanno, ma è in queste due «enclave» che il Sauvignon Blanc è servito da modello per i vini bianchi emulati in tutto il mondo. I vini prodotti dal Sauvignon Blanc sono delicati, da bere con una «tartare di pesce» o con «formaggi caprini giovani», ma anche con una «choucrôute alsaziana», magari nella versione Pouilly-Fumé, con la sua acidità vibrante e il gusto che ricorda il ribes maturo, che dà una squisita sensazione di freschezza. Non bisogna comunque dimenticare in questa zona i vini prodotti con il Pinot Nero, anche in versione «rosés», molto piacevoli nella stagione calda.

Pouilly-Fumé Ladoucette

Conosciuto anche con il nome: «Fumé de Pouilly», il vino è prodotto con solo uve Sauvignon Blanc, che maturano sul territorio di 3 comuni situati sulle collinette di Saint-Aindelain (Loira). De Ladoucette è uno dei produttori più noti a Pouilly-surLoire: vinificato esclusivamente in vasche d’acciaio con affinamento sui lieviti per sei mesi, il suo Pouilly-Fumé è un vino molto particolare. Le uve maturano su terreni che sono testimoni dell’opera del tempo e della natura. Il quarzo, le marne calcaree, ma soprattutto il silicio, che si trova sotto forma di composti sulla crosta terrestre di questa zona, regala ai vini sentori minerali e un gusto «fumé» che si sviluppa molto bene dopo qualche anno di permanenza del vino in bottiglia. Con il tempo infatti si libera un bouquet più fine, altalenando profumi vegetali e minerali con speziate note esotiche, ma soprattutto l’intensa mineralità della «pietra focaia». Da servire tra gli 8°/10°, può restare in cantina tra i 2/5 anni, ottimo con il cocktail di gamberetti, le ostriche, pesce con salsa al burro e formaggi caprini di media stagionatura. / DC Trovate questo vino nei negozi Vinarte al prezzo di Fr. 38–. Annuncio pubblicitario

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Un rombo nel piatto

Ambiente e Benessere

Se mi chiedono qual è il pesce che preferisco, non mi è facile rispondere: ma alla fine scelgo sempre di eleggere il rombo, detto anche soaso (in francese si chiama turbot). Il motivo per cui scelgo questo pesce a dirla tutta non lo so. Credo dipenda dal fatto che il rombo ha una carne generalmente più soda di tanti altri pesci, e questo mi piace perché amo «masticare» quello che mangio: sia chiaro, non è soda come la carne bovina ma… Vediamo di conoscerlo meglio. Con il termine «rombo» si indicano diverse specie di pesci di mare, accomunati dalla forma piatta e romboidale. Di colore scuro sul dorso e bianco sul ventre, ha testa rivolta verso sinistra (contrariamente alla sogliola, quindi). Tre le varietà più diffuse e apprezzate in cucina, il rombo liscio (il cui nome scientifico è Scophthalmus rhombus), presente nel Mediterraneo, che è di colore più chiaro. Il rombo chiodato (Psetta maxima) è caratterizzato da macchioline nere e bianche e da peculiari protuberanze ossee sul dorso. E il rombo di rena (Bothus podas), di dimensioni minori, fino a venti centimetri, con gli occhi molto distanti fra loro, si dice essere meno pregiato dei precedenti, anche se a me piace altrettanto.

Per sfilettarlo bisogna privarlo della testa e dividerlo in due parti lungo la lisca centrale, prima di procedere Molto apprezzato in Francia – dove è stata persino creata una pentola dalla particolare forma romboidale per la sua cottura, si chiama turbotière –, si pulisce come gli altri pesci piatti ma si sfiletta in modo leggermente differente: bisogna privarlo della testa e dividerlo in due parti lungo la lisca centra-

le, prima di procedere alla sfilettatura vera e propria. Le carni del rombo, soprattutto quelle del rombo chiodato, sono ottime perché magre e saporite, ma non vanno cotte troppo a lungo, altrimenti si sfaldano. Si può cucinare al forno, al vapore e si usa per preparare delicati involtini; quello di rena, invece, di solito si cucina fritto. Ecco due ricette ultra-basilari: così facili da preparare che di più non si può… Rombo ai funghi. Ingredienti per 4 persone. Mondate 80 o più grammi di funghi freschi a piacere, se grossi affettateli. Versate un filo d’olio in un tegame con uno spicchio d’aglio mondato e leggermente schiacciato, aggiungete i funghi, e fateli rosolare e cuocere a fuoco allegro ma non troppo finché non avranno espulso tutta la loro acqua. Regolate di sale e di pepe, profumate con prezzemolo tritato e tenete in caldo. Ungete di olio una pirofila e disponete 4 filetti di rombo spennellati di olio, versate un bicchierino di vino bianco secco sobbollito per 3’, coprite con un foglio di carta di alluminio e cuocete in forno a 200° per 6’. Servite i filetti di rombo con i funghi, nappando col fondo di cottura dei pesci. Rombo con le mele. Per 4 persone. Sbucciate, private del torsolo e tagliate 2 mele a dadini, spruzzandoli subito con succo di limone o gettandoli in acqua acidulata col limone per non farli annerire. Fate ammollare 40 g di uvetta in acqua tiepida per 20’, scolatela e strizzatela. Cuocete 2’ per parte 4 filetti di rombo da 150 g l’uno in una padella unta con poco olio e uno spicchio d’aglio. Scolateli e teneteli in caldo. Deglassate la padella con un bicchiere di vino bianco secco, unite 4 cucchiaiate di soffritto di cipolle, i dadini di mela, il succo filtrato di mezzo limone e l’uvetta strizzata, quindi cuocete per 5’. Aggiungete il pesce e portate a termine la cottura per 4’. Regolate di sale e di pepe e servite. Al posto delle mele potete utilizzare qualsiasi altra frutta.

CSF (come si fa)

Gangulybiswarup

Allan Bay

Pxhere.com

Gastronomia Varietà dalla carne soda, questo pesce è molto apprezzato in Francia

Ci sono tantissime ricette dedicate a Gioacchino Rossini. Celebre, oltre che per la sua inesauribile vena musicale, per la sua «buona forchetta», il grande musicista marchigiano conobbe e fu amico di alcuni tra i più grandi chef parigini, tra cui Marie-Antoine Carême, ovvero colui che fu l’ultimo aedo della cucina reale e nobile del Settecento, che poi sarebbe stata spazzata via da Escoffier e da tanti altri,

trasformandola nella grande cucina borghese che è durata fino al 1960. Diverse ricette, a base di uova, funghi, fegato grasso e tartufi, vengono oggi definite alla Rossini, anche se per pura analogia con il gusto raffinato di un’epoca. Poche, infatti, sono le preparazioni realmente ispirate dal maestro, come i tournedos Rossini, di cui Rossini aveva suggerito la ricetta al proprietario del famoso Café Anglais, le sogliole alla Rossini e le uova in camicia alla Rossini. La ricetta dei tournedos ve l’ho già data, tempo fa. Vediamo come si fanno le altre due ricette che sono state veramente ispirate da Rossini. Filetti di sogliola alla Rossini. Ingredienti per 4 persone. Infarinate leggermente 4 filetti di sogliola. Fate fondere 40 g di burro in una padella e, quando

è ben caldo, aggiungete i filetti. Fateli dorare da entrambe le parti. Regolate di sale e di pepe. Spruzzateli con qualche cucchiaio di vino bianco, che farete evaporare. Quando sono quasi cotti spalmateli con qualche cucchiaio di fegato d’oca e proseguite la cottura brevemente. Guarniteli con fettine di tartufo bianco e serviteli nappati col fondo. Se avete tartufo nero, che si mangia da cotto, aggiungetelo a fette quando sfumate col vino. Uova in camicia alla Rossini. Per 4 persone. Fate 8 uova in camicia e tenetele in caldo. Saltate in padella con abbondante burro 4 fette di fegato grasso e un po’ di fettine di tartufo nero. Mettete su piatti caldi le fette di fegato grasso, adagiate sopra le uova in camicia, aggiungere il tartufo e nappate con salsa demi-glace (o altra salsa a piacere).

Ballando coi gusti Oggi due semplicissimi e classici piatti di carne: il roastbeef, ricetta internazionale, e il vitello al pomodoro, ricetta italiana.

Roastbeef

Vitello al pomodoro

Ingredienti per 4 persone: 1 kg di roastbeef di manzo · burro · sale di Maldon.

Ingredienti per 4 persone: 600 g di magatello di vitello · 400 g di pomodori maturi ·

Sciogliete abbondante burro in una casseruola, adagiate il roastbeef, rosolatelo e continuate a cuocere per 18’: esattamente sono 18’ per ogni kg di carne, quindi se pesa un po’ di più o un po’ di meno cambiate il tempo di cottura. Mentre cuoce, rigiratelo con due cucchiai di legno per non bucare la carne. Levatelo, affettatelo, salatelo con il sale Maldon e servitelo accompagnate col fondo di cottura.

100 g di pancetta · aglio · 1 cipolla · 1 carota · 1 gambo di sedano · vino bianco · brodo di vitello o vegetale · burro · sale e peperoncino. Legate la carne con spago da cucina. In una casseruola sciogliete un’abbondante noce di burro con 1 spicchio di aglio e fate rosolare ben bene la carne. Sfumate con 1 bicchiere di vino, unite i pomodori sbollentati, sbucciati e ridotti in dadolata e cipolla, carota e sedano tagliati a dadini. Versate 1 mestolo di brodo nella casseruola, coprite e lasciate cuocere a fuoco moderato per circa 2 ore, aggiungendo altro brodo se fosse necessario. Negli ultimi minuti levate il coperchio e fate addensare, se necessario, il sugo. Regolate di sale e di peperoncino. Servite il magatello in fette non troppo sottili, nappato col fondo.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 settembre 2019 • N. 37

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Ambiente e Benessere

Un’ambulanza per gli animali

Mondoanimale In emergenza, il trasporto di animali richiede mezzi adeguati e competenze nate brusche l’animale non deve farsi male o far male ad altri». Un valore aggiunto, definito fondamentale dal nostro interlocutore, sta nel fatto che il proprietario può viaggiare seduto accanto al proprio animale («questo è un punto speciale!»). Fatto definito: «determinante per un trasporto in piena sicurezza e per tenere l’animale tranquillo e rilassato». Inoltre, «dobbiamo disporre di sufficiente spazio per poter eventualmente operare sull’animale: parliamo di un’adeguata illuminazione, fissaggi solidi per flebo, macchinari e un impianto per l’ossigeno». Molta strada si è dunque fatta da quell’episodio del Golden Retriever e oggi la Spab esegue anche trasporti per le persone che non possono portare personalmente il proprio animale domestico dal veterinario: «Offriamo un servizio Taxi anche per quei casi non gravi o urgenti, a chi non ha un’automobile o non può per altri motivi trasportare l’animale». Quest’ultimo è un servizio normalmente offerto con i normali veicoli di soccorso. Anche gli animali di grossa taglia non sono dimenticati: «Con il nostro rimorchio attrezzato per il trasporto di due cavalli per volta, possiamo trasportare mucche o cavalli verso cliniche oltre Gottardo». Un servizio che naturalmente ha dei costi che Besomi definisce moderati: «Siamo tutti volontari e la Spab non ha scopo di lucro, dunque i prezzi sono contenuti e coprono le spese del veicolo, di due persone della Spab e del carburante». Nulla più, almeno di quanto è prevedibile e programmabile, dev’essere lasciato al caso nel trasporto urgente di animali che necessitano cure speciali.

«Un Golden Retriever abbassò accidentalmente, fino a fargli toccare terra, un legno che teneva nella bocca mentre correva allegramente lungo l’argine del fiume; così gli si è all’improvviso conficcato nel palato. Seguì una corsa disperata verso lo studio del veterinario più vicino e poi fu avvisata la nostra Società (ndr: Spab) per un urgentissimo trasporto verso la clinica universitaria veterinaria di Zurigo. L’animale, sedato e attaccato a un tubo che gli permetteva di respirare, fu caricato su uno dei furgoni che avevamo in dotazione, preparato in tutta velocità per far fronte a quest’urgenza. Durante il viaggio, proprio all’interno del tunnel del San Gottardo, ricordo che il cane ebbe degli spasmi e strappò il tubo che gli permetteva di respirare. L’assistente veterinaria che ci accompagnava fece l’impossibile per ripristinare la situazione, ma la scarsa illuminazione e lo spazio angusto non le permisero di salvare l’animale». Il presidente della Società Protezione Animali Bellinzona e Valli (Spab) Emanuele Besomi ricorda questo evento dal triste epilogo, ma che ha avuto il pregio di far riflettere la Spab sul tema del trasporto degli animali. «Da quell’episodio è nata l’idea di acquistare un veicolo apposito per trasportare adeguatamente gli animali nelle emergenze e oggi siamo già al SOS Barry III». La Spab ha dunque ben compreso che quando, per i motivi più disparati, un animale non riesce a deambulare autonomamente («ad esempio a causa di ferite o di malattia, dopo un intervento chirurgico o dove la sua stazza

SPAB

Maria Grazia Buletti

non permette di prenderlo in braccio»), allora si rende necessario trasportarlo, a patto che il mezzo sia adeguato all’evenienza. Besomi spiega che «normalmente il trasporto avviene da casa o dal luogo dell’incidente, verso il veterinario più prossimo, verso le cliniche universitarie o i centri specializzati in Italia o in Svizzera Interna». Sono trasferte delicate nelle quali bisogna considerare parecchie variabili: «L’animale deve essere spostato in barella e rimane collegato a delle flebo, all’ossigeno o ad apparecchiature speciali». Infatti, il primo intervento effettuato con il nuovo SOS Barry III, attrezzato come si deve, seppur con qualche simpatica difficoltà, ha avuto un epilogo tutto diverso: «Abbiamo recuperato un Pastore Tedesco di oltre 45

chili che si trovava al secondo piano di una casa. Giunti sul posto, il mio collega e io eravamo così presi dalla foga di usare la nuova barella, che l’abbiamo smontata dal carrello e siamo saliti per le scale senza renderci conto del peso che quest’ultima avrebbe avuto con sopra il cane, né delle dimensioni della scala». Così, i due hanno caricato l’animale e hanno iniziato la discesa: «…scalino dopo scalino, dovendo inclinare la barella in mille modi per farla passare per le scale. Il tutto ci ha talmente stremato che quasi quasi dovevamo chiamare l’ambulanza per noi». Il presidente sorride al ricordo, fiero del buon esito del trasporto e del riuscito intervento sul Pastore Tedesco. Oggi il sodalizio dispone di un veicolo speciale SOS Barry, due persone

Giochi Cruciverba

Questa frase di Benjamin Franklin invita a riflettere: «I guai bussano alla porta ma…». Trova il resto della frase a cruciverba ultimato leggendo le lettere evidenziate. (Frase: 8, 6, 2, 2, 5, 1, 5) ORIZZONTALI 1. Ci sono anche quelli di colpa 5. Una parte dell’intestino 9. Il domani di ieri 10. Sono qualità 11. Fanno rima con ma... 13. «Ut» per Guido d’Arezzo 14. Colmo 16. Cosa in latino 17. Sulle spese... in tempo di crisi 18. Momento caratteristico di un fenomeno 19. Un anagramma di arco 20. Nome maschile 22. Generi letterari 24. Se le dà il borioso 25. Attaccato a certi tronchi... 26. Un rivestimento di pregio 29. Difettuccio 30. Stato dell’Asia Occidentale 31. Le iniziali del pianista e compositore Allevi 32. Un anno a Parigi 33. Semplice, pura 34. Sovrani francesi Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch

formate («delle quali una bilingue per i trasporti Oltralpe») e se il trasporto è richiesto da un veterinario per raggiungere una clinica «possiamo offrire anche un posto per un assistente veterinario a dipendenza della gravità del paziente: tutto è sempre coordinato tra veterinario richiedente e Spab». Abbiamo parlato di veicoli attrezzati al meglio, ma bisogna valutare altresì gli accorgimenti che un animale necessita nel trasportarlo e le condizioni necessarie a non metterne in pericolo la vita, salvaguardando nel contempo l’incolumità degli umani: «Innanzitutto il conducente non deve essere in nessun modo intralciato durante la guida, quindi è imperativa una separazione fisica tra animale e chi conduce il furgone». Besomi racconta che il «paziente» deve essere ben fissato: «In caso di fre-

Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku 1

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Scoprire i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.

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I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.

Partecipazione online: inserire la

soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-

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15. Il nome di Stravinskij 16. Osso del braccio 17. Garbo, accortezza 18. Sottoscrivere 19. Parte immersa della nave 21. Differenti, diversi 22. Integra 23. Nobile musulmano 27. Pappagallo americano 28. Si arriccia senza toccarlo 30. Si anima girando... 31. In molti cocktail 33. Pronome personale 35. Un no al contrario

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36. Non fa il monaco... 37. Avvedutezza, buon senso VERTICALI 1. Compatte, dure 2. Prima persona latina 3. Le iniziali dell’attrice Grimaudo 4. Delimita il proscenio 5. Un testimone dei Promessi Sposi 6. Prefisso che vuol dire vino 7. Tredicesima lettera dell’alfabeto greco 8. Dicesi di opinioni assurde, insostenibili 10. Preposizione articolata 12. Il lago di questo... si chiama anche Sebino

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 settembre 2019 • N. 37

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Politica e Economia Presidenziali La Tunisia vota il 15 settembre per il successore di Essebsi: un test per la tenuta della primavera

In Colombia torna la violenza Assassinata insieme ad altre cinque persone la candidata sindaca di Suarez. Svanisce così la speranza che nel Paese torni la pace, speranza che l’accordo con le Farc aveva alimentato

Multinazionali nel mirino L’OCSE vuole tassare le multinazionali anche dove realizzano guadagni – per la Svizzera previsti minori incassi fiscali per svariati miliardi pagina 33

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Berlino non è più la stessa

Germania La fine dell’era Merkel si annuncia come un cambio al vertice del governo, ma soprattutto come una

rivoluzione nella struttura del sistema politico tedesco. Appena confermato dopo il voto in Sassonia e Brandeburgo Lucio Caracciolo Le recenti elezioni in Sassonia e nel Brandeburgo, già regioni della DDR, hanno confermato l’ascesa dei nazionalisti dell’Alternativa per la Germania (AfD), il relativo declino della CDU – che tiene ormai solo dove presenta candidati di centro-destra, antimerkeliani – e la desolata situazione della SPD. I Verdi all’Est non sfondano. I liberali restano forza minore, mentre la Sinistra (ex comunisti e qualche convertito del dopo-Muro) perde colpi, ma resta un partito che nell’ex Germania satellite dell’Urss può giocare qualche carta di rilievo. Trovandosi nella paradossale situazione di fronteggiare il partito nazionalista AfD che si presenta come erede e continuatore della Wende, della svolta post-Muro che avrebbe inteso salvare, riformandola, la Repubblica Democratica Tedesca. Questo il panorama politico che si sta disegnando in Germania, nel lungo tramonto dell’apparentemente intra-

montabile Angela Merkel. Non è dato stabilire se la cancelliera vorrà e potrà comunque rimanere al suo posto per quel paio d’anni che manca alla scadenza del mandato, o dovrà lasciare prima. Le sue non ottimali condizioni di salute, che la inducono a parlare sempre più da seduta e limitare lo stress, ma soprattutto la salute assai precaria del suo partito politico, inducono a considerare non assurda l’ipotesi di un cambio della guardia anticipato. La candidata scelta da Merkel per la successione, la pallida gaffeuse Annegret Kramp Karrenbauer, non pare all’altezza della situazione. Non solo per il suo profilo scolorito, per la scarsa esperienza al livello del governo federale (oggi in via di compensazione quale responsabile della Difesa, non proprio una poltrona invidiabile). Anche e forse soprattutto perché la CDU ha bisogno di svoltare a destra. Non per ragioni ideologiche, per necessità politica. Si tratta di occupare, almeno in parte, quel terreno tipicamente conservato-

re che la CDU pre-Merkel, in coproduzione con la CSU bavarese, gestiva brillantemente, tenendolo insieme alle correnti più aperte e progressiste del cattolicesimo democratico. L’alternativa è… che quegli elettori cristiano-democratici di destra finiscano per scegliere l’Alternativa per la Germania come patria politica surrogata. Sembra che il gruppo dirigente dell’AfD (Alternative für Deutschland), per quanto diviso e confusionario, abbia capito di potersi affermare sia all’Est sia in qualche misura anche all’Ovest come Volkspartei. Partito di massa. Operazione impossibile senza tagliare le unghie alle correnti più estreme, come la Flügel (Ala), particolarmente forte in Turingia e in altre regioni dell’Est, che ostenta posizioni ipernazionaliste, con qualche concessione al razzismo e al neonazismo. Se questa chirurgia riuscirà – non è facile – l’Alternativa per la Germania in versione relativamente moderata si affermerà come partito decisivo, in prospet-

tiva capace di formare una coalizione con la CDU, opportunamente riorientata a destra, ed eventualmente qualche forza minore. Un partito «popolare, comunitarista, identitario, liberale», nella formula cara all’ala conservatrice del partito. La fine dell’èra Merkel si annuncia quindi come un cambio al vertice del governo, ma soprattutto come una rivoluzione nella struttura del sistema politico tedesco. Con almeno cinque o sei partiti rilevanti, di cui però due (Sinistra e Alternativa per la Germania) ora non spendibili in una coalizione di governo. Ma un giorno forse lo saranno, e quel giorno potrebbe coincidere con il ritiro della cancelliera. La crisi politica si accompagna a una crisi economica altrettanto strutturale, anche se assai meno potente. Il modello tedesco, fondato sull’esportazione, è messo in difficoltà dalla guerra commerciale Cina-Usa e dal tendenziale calo dei consumi nei principali mercati mondiali. La Germania è in

recessione. Entro un anno potrebbe toccare all’America. Ma mentre quella statunitense sarebbe una classica crisi ciclica, quella tedesca si presenta come assai più profonda. Anche perché l’industria tedesca è in buona parte ancorata a settori, come quello automobilistico, che rappresentano la manifattura del Novecento. E che infatti Trump intende mettere nel mirino, nella sua campagna antitedesca che assume a tratti il carattere di una rivolta contro le sue origini bavaresi. Dazi incombono su Mercedes e BMW, come Trump ha avvertito durante il G7 di Biarritz. Per punire la Germania, che viaggia a sbafo sul treno della Nato e intanto continua a legarsi al produttore di gas russo. Molto lascia pensare che il bilancio di Angela Merkel, in prospettiva storica, si presenterà molto meno brillante di come poteva apparire solo un anno fa. E che la Germania non uscirà rapidamente dal tunnel di indecisione e di introversione imboccato da un paio d’anni.


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Politica e Economia

La fragile transizione tunisina Presidenziali Il Paese è chiamato alle urne per eleggere il successore di Essebsi, primo capo di Stato

democraticamente eletto dopo la rivolta popolare del 2011 che ha rovesciato Ben Ali

Marcella Emiliani Giornalisti e osservatori politici hanno ormai esaurito il vocabolario dei termini negativi con cui definire il bilancio delle Primavere arabe: si va dal generico «fallimento» all’apocalittico «inferno». In tutti i casi nessuno osa esprimere una qualche speranza per il futuro dei paesi arabi che le hanno sperimentate.

La scomparsa di Essebsi, che ha saputo tenere assieme le due anime del Paese, ha messo a nudo le debolezze della Tunisia In questo oceano in tempesta galleggia a fatica una sorta di zattera di Medusa che – come nel quadro di Théodore Géricault – spera di approdare a una riva serena: la Tunisia. Il 15 settembre, infatti, vi si svolgerà il primo turno delle elezioni presidenziali cui seguiranno il 6 ottobre le legislative. Le presidenziali, in particolare, sono importanti perché esprimeranno il primo capo dello Stato eletto secondo il dettato della prima Costituzione democratica del dopo Ben Ali. Il clima nel Paese, però, è molto teso. Inutile negare che la situazione politica è entrata in fibrillazione il 25 luglio scorso, quando è morto il novantaduenne presidente Beji Caid Essebsi. Politico di lungo corso, Essebsi dal 2012 al 2018 ha saputo tenere assieme nello stesso governo le due anime della Tunisia, quella laica, occidentalizzata, rappresentata dal suo stesso partito Niida Tounes (Appello per la Tunisia), e l’anima musulmana incarnata in Ennahda (Movimento per la rinascita) guidato da Rachid Ghannouchi. Dopo i sanguinosi attentati dell’Isis a Tunisi e a Sousse del 2015, Essebsi è inoltre riuscito a contenere il terrorismo di alQaeda nel Maghreb e dello stesso Califfato al quale la Tunisia ha comunque fornito nel triennio 2014-2017 il maggior numero di foreign fighters (circa 6000). Nel 2018 però Ennahda è uscito dal governo per motivi ancor oggi poco chiari e all’interno dello stesso partito del presidente, Niida Tounes, si sono moltiplicate le tensioni per lo scontro tra il primo ministro Yussef al-Shahed – paladino del «nuovo che avanza» all’insegna della Primavera dei gelsomini – e il figlio di Essebsi, Hafedh Caid, identificato dai giovani come il simbolo del «vecchio che non vuol morire» cioè di quell’elite politico-economica già collusa col regime di Ben Ali, di cui peraltro faceva parte lo stesso presidente Essebsi. A lui viene infatti addebitata la paralisi politica del Paese dovuta al suo aver favorito troppi sostenitori del vecchio regime, talmente corrotti da impedire il decollo dell’economia col continuo saccheggio delle risorse pubbliche. Tutte queste convulsioni si sono svolte certamente in parlamento ma

Il presidente ad interim Mohamed Ennaceur in carica dopo la morte di Essebsi. (AFP)

soprattutto all’interno del partito di Essebsi, Niida Tounes, che tra il 2018 e il 2019 ha perso pezzi importanti della sua leadership e del suo seguito. Innanzitutto il primo ministro al-Shahed che nel 2019 ha creato un proprio partito, Tahya Tounes (Viva la Tunisia), e uno dei candidati alla presidenza più gettonati, Nabil Karoui, proprietario della principale rete privata del Paese, Nessma tv, anche lui divenuto leader di un suo partito: Qalb Tounes (Al cuore della Tunisia). Ebbene proprio Nabil Karoui il 23 agosto scorso è stato arrestato per frode fiscale e riciclaggio. Un caso di giustizia ad orologeria? Il dubbio resta. Ben prima la Commissione superiore indipendente per le elezioni (Isie) aveva ammesso alle presidenziali ben 26 candidati su 71 che si erano presentati, Karoui incluso; un numero altissimo che denuncia la frammentazione del quadro politico, la debolezza delle organizzazioni partitiche e un localismo a volte esasperato. Tutto questo potrebbe dar luogo ad un grado elevato di astensionismo e potrebbe anche finire per favorire quello che è già il partito più forte a livello nazionale: quell’Ennahda che presenta alle presidenziali Abdelfattah Mourou, uno dei suoi padri fondatori e attualmente vice-presidente del parlamento uscente. Per quanto «riuscita», dunque, la Primavera dei gelsomini è ancora ap-

pesa ad un filo di lana alquanto fragile. Nel panorama mediorientale allo stato attuale delle cose rappresenta comunque una speranza. Un rapido volo ad uccello sulla regione ce lo conferma. Restando nel Maghreb, dal fatidico 2011 la Libia – scomparso Gheddafi – è precipitata in una guerra civile che si è sviluppata per gradi sempre più incontrollabili di violenza fino ad arrivare nel 2019 all’aggressione delle truppe del generale Khalifa Haftar ai danni dell’esercito che fa capo al governo di unità nazionale di Fayez al-Sarraj, l’unico riconosciuto come legittimo a livello internazionale dall’Onu. In tutti casi Haftar – partito dalla Cirenaica e conquistato il Fezzan – ad oggi non è ancora riuscito a «sfondare» nella capitale, Tripoli, e il conflitto si è incancrenito in una guerra di posizione che somiglia tanto ad un cul-de-sac tanto per il generale quanto per il primo ministro. Haftar è sostenuto, oltre che dalla Russia, dall’Egitto del generale al-Sisi, l’affossatore della Primavera egiziana, dall’Arabia Saudita, dagli Emirati arabi uniti nonché dalla Francia che in maniera neanche troppo nascosta fa concorrenza all’Italia, che invece sostiene al-Sarraj assieme al Qatar e alla Turchia. In Algeria, proprio quest’anno le manifestazioni di piazza il 2 aprile sono riuscite a costringere alle dimissioni l’anziano presidente Abdelaziz Bouteflika, al potere dal 1999 e ormai ridot-

to sulla sedia a rotelle. Il 4 luglio scorso avrebbero dovuto svolgersi le presidenziali ma la cupola militare che controlla il Paese non ha ritenuto opportuno organizzarle. In pratica sono le divisioni all’interno dell’establishment militare a tenere bloccata la situazione politica in Algeria, così, venerdì dopo venerdì, dal 22 febbraio scorso la gente di tutte le età continua a scendere in strada per chiedere democrazia e maggior «giustizia economica» in un Paese ricco di petrolio, che non è in grado di garantire un livello di sopravvivenza decente alla maggioranza della sua popolazione.

Nel panorama meghrebino e mediorientale la Tunisia rappresenta comunque una speranza Un altro militare, il generale Abdel Fattah al-Sisi nel 2013 ha fatto abortire la Primavera egiziana mantenendo al potere le caserme, come è riuscito a restare in sella il dittatore della Siria, Bashar al-Assad, grazie all’aiuto di amici vecchi e nuovi. Tra i vecchi sodali vanno annoverati la Russia e l’Iran, affiancato dalle sue «creature»: gli Hezbollah libanesi e le Unità di mobilitazione popolare irachene

che – col pretesto della lotta al terrorismo islamico sunnita dell’Isis – hanno consentito proprio all’Iran di espandersi nella cosiddetta Mezzaluna sciita che ormai parte da Teheran e, via Baghdad-Damasco-Beirut, arriva fino al Mediterraneo, alla Striscia di Gaza, a ridosso dell’acerrimo nemico: Israele, che reagisce con raid sempre più frequenti contro gli alleati di Teheran. Tra i nuovi amici di Bashar va infine annoverato il presidentissimo turco, quell’Erdoğan che in realtà lo odia, ma ritiene sia meglio tenerselo ancora come alleato per impedire ai curdi siriani (e iracheni) di dar man forte ai curdi turchi pronti a rivendicare una propria autonomia da Ankara. Dietro tutto questo si consuma infine la vera guerra, diretta e/o per procura, destinata a straziare il Medio Oriente ancora per anni: quella tra l’Arabia Saudita, autoproclamatasi campionessa del sunnismo, e l’Iran che si ritiene invece il vaticano dello sciismo. Il loro scontro mortale sta letteralmente costando la vita ad un paese in particolare, lo Yemen, dove l’Iran sostiene i ribelli Houthi del Nord, mentre l’Arabia Saudita tiene in vita il governo del presidente Mansur Hadi che è nel mirino anche dei secessionisti dello Yemen del Sud, secessionisti appoggiati dagli Emirati arabi a dispetto dell’Arabia Saudita stessa. Ma questa è un’altra storia ancora. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia

La pace non ferma la violenza

Colombia La candidata sindaco Karina Garcìa Sierra è stata assassinata insieme ad altre cinque persone.

Secondo le prime ipotesi ci potrebbe essere la mano di un gruppo di dissidenti delle ex Farc diventati banditi

Angela Nocioni Un «omicidio cantado», si dice in Colombia. Una morte annunciata. «Mi vogliono uccidere. I miei manifesti elettorali sono da giorni sporcati di vernice rossa. È un avvertimento chiaro». Lo andava dicendo da settimane Karina García, 31 anni, candidata del partito liberale alla carica di sindaco nella città di Suarez, nella Colombia sudoccidentale, zona un tempo controllata dalla narcoguerriglia delle Farc e da tre anni diventata terra di nessuno contesa tra vari gruppi di narcotrafficanti. Aver dato l’allarme non le è servito a salvarsi.

Dopo la firma del difficilissimo accordo di pace nel 2016 non tutti i membri delle Farc, da decenni ormai solo un esercito di narcos, hanno consegnato le armi Karina Garcia è stata uccisa domenica primo settembre. L’auto blindata in cui viaggiava è stata crivellata di colpi con armi di grosso calibro e poi incendiata. Con lei sono morte altre cinque persone: sua madre, un candidato consigliere comunale del suo stesso partito e la scorta. Tutti uccisi, carbonizzati. Tranne un agente della scorta che si sarebbe salvato tuffandosi fuori dall’auto in corsa. Il padre della candidata uccisa, Orlando García, ha detto che negli ultimi giorni sua figlia aveva ricevuto minacce esplicite da sostenitori di altri candidati. Le autorità colombiane si sono dette certe, dopo tre giorni dal massacro, che i responsabili della strage siano al soldo di dissidenti delle ex Forze arma-

te rivoluzionarie della Colombia (Farc), il principale gruppo guerrigliero colombiano disciolto dopo la firma di un difficilissimo accordo di pace nel 2016. Non tutti i membri delle Farc hanno consegnato le armi. Non tutti hanno accettato la smobilitazione. Essenzialmente perché sono soldati dei narcos, spesso affamati, da anni vivono scappando nella selva, obbediscono ed uccidono e sanno fare solo quello. Le Farc, ben al di là della retorica ideologica di cui si sono ammantate usando un lessico da guerriglia rivoluzionaria, erano ormai da decenni quasi solo un esercito armato di narcotrafficanti, la cui base fa la fame e si arruola per una scodella di zuppa quotidiana. La maggior parte degli uomini e delle donne che componeva e compone ancora quell’esercito non ha capito nemmeno le parole usate nella trattativa politica dai loro comandanti, una trattativa assai complessa, durata anni e approdata, tra mille peripezie, ad un accordo di pace che è valso all’ex presidente colombiano Manuel Santos un (discusso) Nobel della Pace. La strage in cui è stata uccisa Karina García, chiunque l’abbia ordinata, è da inquadrare dentro la terribile guerra aperta dopo la firma del trattato di pace nelle zone prima controllate dalle Farc. Suarez è una zona indigena dentro il dipartimento di Cauca. Per ragioni geografiche è un corridoio fondamentale per molti traffici. Non solo di droga, anche di armi e di minerali estratti da miniere illegali. Ma è soprattutto un luogo cruciale per la produzione della pasta base da cui poi si ricava cocaina. Prima della firma dell’accordo di pace lì avvenivano soprusi e violenze atroci, con un controllo del territorio quasi interamente in mano alle Farc. Ora continuano ad avvenire soprusi e violenze aggravate e moltiplicate dal fatto che il territorio non ha più un potere unico che lo controlla, per quanto illegale, ma è diventato oggetto di contesa tra alme-

Il pianto di una parente della giovane candidata sindaco assassinata a Suarez nel dipartimento di Cauca. (AFP)

no tre eserciti irregolari: l’Esercito di liberazione nazionale (la seconda guerriglia colombiana) l’Esercito popolare di liberazione e vari gruppi sbandati, ma ugualmente feroci, delle ex Farc che si sono rifiutati di aderire alla smobilitazioni e di consegnare le armi. Tra loro quello più organizzato e meglio armato sarebbe la cosiddetta «colonna mobile Jaime Martínez» che raggruppa uomini di gruppi discioltisi, ma non estintisi. Nomi che in Europa non dicono nulla, ma in Colombia fanno paura a tutti: la Miller Perdono, la Jacobo Arenas e il fronte 30 delle ex Farc. Il governo colombiano, con una certezza di toni che denuncia chiaramente la necessità di fare propaganda poiché a tre giorni dalla strage non può

essere certo per nulla di un massacro in cui ogni traccia di prova è finita carbonizzata insieme all’auto incendiata, indica il responsabile in un ex guerrigliero dissidente di medio livello gerarchico nella vecchia struttura della guerriglia. Si tratterebbe di Leder Johay Noscué, noto con il nome di battaglia Mayimbù. È la stessa persona indicata come responsabile di spargere terrore nelle comunità indigene. Nella guerra per contendersi il controllo del territorio la capacità di incutere terrore nella popolazione locale è un fattore fondamentale. I tre contendenti cercano, ciascuno per suo conto, di esercitare un controllo sociale, di imporre regole di comportamento (insensate ed assurde, ma da

far percepire come comandamenti obbligatori), restrizioni alla libertà di movimento e una parvenza di amministrazione locale dell’economia e della giustizia. Come fanno? Attraverso omicidi considerati esemplari. Attraverso la affissione di manifesti, la distribuzione di fogli scritti. Lasciano spesso cartelli sui corpi delle persone che uccidono, al fine di terrorizzare i locali e avvisarli su quale sarà la loro fine se si rifiuteranno di accoglierli come nuovi padroni del territorio. Per questo Karina García aveva denunciato che il suo materiale di campagna elettorale era stato macchiato di vernice. Aveva capito che era un messaggio chiaro, una minaccia esplicita a lei e a chi la sosteneva.

E se bombardassimo gli uragani?

Follie trumpiane Questa l’imbarazzante domanda che il presidente americano avrebbe rivolto

ai capi della Sicurezza Nazionale allo scopo di neutralizzare le emergenze tropicali Christian Rocca Quando sembrava che le avessimo viste e sentite tutte, compreso il broncio nei confronti del Primo ministro danese perché si è rifiutato di vendere la Groenlandia, l’immaginifico presidente americano Donald Trump ne ha detta una che entra di diritto nella top ten delle sue imprese più fantasmagoriche. In più di un’occasione, secondo uno scoop del sito Axios, Trump avrebbe chiesto ai capi della Sicurezza Nazionale di valutare l’ipotesi di usare le testate atomiche per fermare gli uragani prima che si abbattano sulle coste degli Stati Uniti. «Ok, ho capito – avrebbe detto Trump durante un vertice con la Homeland Security sull’emergenza delle tempeste tropicali – ma perché non li bombardiamo con il nucleare?». La fonte di Axios, presente alla riunione, ha raccontato che Trump ha spiegato che gli uragani si formano sulle coste africane e da lì si muovono nell’Atlantico e, dunque, che la soluzione potrebbe essere quella di bombardare, con l’atomica, dentro l’occhio del ciclone in modo da fermarlo lì dove si è creato: «Perché non lo facciamo?». L’imbarazzo dei presenti, secondo la fonte di Axios, si tagliava a fette: «Sir, verifichiamo», gli hanno detto. A riunione fini-

ta, gli sconcertati partecipanti si sono chiesti come avrebbero dovuto affrontare la questione della folle proposta presidenziale e, come è successo in altre occasioni, si sono vicendevolmente rincuorati con la speranza che Trump non la sollevasse più. In una seconda conversazione, registrata in un memorandum del Consiglio della Sicurezza Nazionale del 2017, Trump ha chiesto ancora una volta se la sua Amministrazione avrebbe potuto bombardare gli uragani, ma grazie alla

Dorian, l’ultimo uragano che ha colpito le Bahamas e la costa est Usa. (AFP)

pazienza degli addetti alla sicurezza nazionale l’idea non è mai stata davvero esplorata. La Casa Bianca non ha voluto commentare lo scoop, anche se un importante funzionario dell’Amministrazione, sentito da Axios, ha provato a difendere l’idea, precisando che l’obiettivo del presidente, quello di evitare le catastrofi naturali, non è sbagliato. Qualche giorno dopo, Trump ha smentito dal G7 in Francia, naturalmente via Twitter, accusando i media americani di diffondere fake news, cosa che in teoria avrebbe dovuto chiudere la questione, ma non nella pratica di un presidente come Trump che ha più volte negato e smentito cose che hanno visto o sentito milioni di persone in diretta televisiva o sui video che circolano sulla rete. Di certo, la teoria di bombardare gli uragani con l’atomica irrobustisce la tesi sulla follia di Trump che da tempo a molti editorialisti e osservatori fa invocare l’applicazione del 25esimo emendamento della Costituzione americana, quella sulla rimozione del presidente per l’incapacità di svolgere la sua funzione. I paladini di Trump, invece, provano a giustificare anche questa sparata del loro beniamino, spiegando che l’idea di far detonare una bomba nu-

cleare per fermare gli uragani risale ai tempi di Eisenhower, così come quella di comprare la Groenlandia risale a Truman. Ma oltre al fatto che gli scienziati già allora spiegarono che bombardare non avrebbe funzionato, quella era un’epoca in cui i materiali radioattivi non erano considerati così pericolosi, al punto che venivano usati sui cosmetici, sui dentifrici, sui profilattici e su altri prodotti di largo consumo. Il National Oceanic and Atmospheric Administration, l’agenzia governativa americana che studia cause ed effetti degli uragani, da tempo ospita sul suo sito una pagina per sfatare il mito secondo cui i cicloni tropicali possano essere fermati bombardandoli con l’arma nucleare: «A parte il fatto che non è detto che il bombardamento alteri la tempesta, questo approccio non tiene conto del problema che il materiale radioattivo rilasciato dalla bomba molto probabilmente si muoverebbe velocemente con gli alisei fino a impattare a terra e a causare devastanti problemi ambientali. Non ci sarebbe nemmeno bisogno di dirlo, ma questa non è una buona idea». Secondo il «National Geographic», che ha pubblicato un lungo articolo dal titolo Atomica contro gli uragani: la sorprendente storia di un’idea davvero

sbagliata, bombardare i cicloni con il nucleare sarebbe anche vietato dal trattato nucleare siglato da Washington e Mosca. Gli aspetti grotteschi non finiscono qui. Trump crede che i cambiamenti climatici siano una bufala creata ad arte dai cinesi, diserta i vertici del G7 sull’emergenza in Amazzonia ed esce unilateralmente dagli accordi di Parigi sul clima, ma nonostante ciò vuole bombardare il numero crescente uragani causati dal surriscaldamento dell’atmosfera e vuole acquistare la Groenlandia dalla Danimarca perché pensa che grazie allo scioglimento dei poli, provocato dall’innalzamento delle temperature globali, si possano aprire grandi opportunità per nuove rotte commerciali e per sfruttare le risorse artiche. L’incoerenza logica dei ragionamenti trumpiani è proverbiale, ma l’uno-due Groenlandia-bombardare gli uragani fa tornare in mente la profezia del febbraio 2016 del senatore Ted Cruz, allora avversario di Trump alle primarie repubblicane: «Non conosco nessuno che possa sentirsi a proprio agio con qualcuno che, con il dito sul bottone, si comporta in questo modo. Rischiamo di svegliarci un giorno con Donald, se fosse presidente, pronto a usare l’atomica contro la Danimarca».


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Idee e acquisti per la settimana

Qualità svizzera in tutto e per tutto Se si guardano i giovani polli dell’allevamento di Lina e Peter Kramer a Galmiz, FR, si potranno vedere animali sani, che hanno sufficiente spazio per razzolare, becchettare, muoversi o riposare. Gli animali possono accedere al giardino d’inverno a partire dal loro 21° giorno di vita. Questo è ciò che prevede il regolamento «Stabulazione particolarmente rispettosa degli animali» (SSRA). Sono tra gli 8000 e i 12 000 i pulcini svizzeri allevati dai Kramer per il marchio Optigal. «Le regole d’allevamento di Optigal vanno oltre le severe linee guida SSRA. Per esempio, nel giardino d’inverno abbiamo un maggior numero di distributori di acqua», racconta Lina Kramer.

Foto: Guy Jost

Qualità da oltre 50 anni

L’apprezzato marchio del pollame Migros è sinonimo di un allevamento particolarmente rispettoso degli animali.

Allevamento particolarmente rispettoso degli animali Chi acquista pollo Optigal sceglie carne che proviene esclusivamente da allevamenti a conduzione famigliare. Allevamento esemplare dei pulcini Optigal è pioniere nell’allevamento a condizioni particolarmente rispettose di animali riproduttivi e di pulcini. Con una struttura in Vallese dedicata alla riproduzione e una nuova sede ad Avenches dove si trovano le incubatrici per i pulcini, il benessere degli animali è stato portato a un nuovo e più alto livello. I pulcini ricevono foraggio di origine vegetale composto da semi di girasole macinati, piselli, soia, sali minerali e vitamine. Queste pregiate materie prime provengono per la metà da paesi esteri vicini – come per esempio la soia, dal Nord Italia – e non contengono organismi geneticamente modificati. Tracciabile al 100 per cento Dalla covata, passando dall’allevamento e fino alla vendita, l’intera filiera si svolge in Svizzera. Per la gran parte dei prodotti Optigal, come per esempio il petto di pollo, sull’etichetta è indicato da quale allevamento proviene l’animale.


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Politica e Economia

Multinazionali: la riforma OCSE costerà miliardi alla Svizzera

Fiscalità Il G-20 e anche il G7 fanno pressioni affinché l’OCSE elabori un nuovo sistema fiscale per le multinazionali:

dovrebbero pagare le imposte laddove realizzano la cifra d’affari e non solo nel luogo dove hanno la sede principale

Ignazio Bonoli Tutto è cominciato con gli attacchi al segreto bancario svizzero da parte americana, preceduti comunque dalla faccenda degli averi ebrei in Svizzera senza legittimo proprietario, seguiti poi dall’ondata di richieste di risarcimento, culminata con la recente sentenza del Tribunale federale contro l’UBS, marcati ogni volta da puntuali cedimenti sia da parte delle banche, sia soprattutto dall’autorità politica. Ora stiamo però per scrivere un nuovo capitolo di questa storia: l’accordo internazionale per la tassazione delle multinazionali. La vicenda nasce durante il G-20, il gruppo che riunisce venti paesi, ma in realtà è dominato dalle grandi potenze economiche e politiche mondiali. Proprio loro hanno voluto, già lo scorso mese di marzo, riunire 400 esperti nell’ambito dell’OCSE a Parigi, per definire nuove regole sulla tassazione delle imprese multinazionali. Regole di cui la Svizzera, che è pure membro dell’OCSE, è chiamata ad assumersi la maggior parte dei costi. La nuova impostazione prende avvio da una generale informatizzazione dei vari sistemi fiscali, il cui scopo finale è quello di mettere in atto una nuova ripartizione dei proventi fiscali provenienti dalle multinazionali. Queste im-

prese pagano oggi la maggior parte delle loro imposte nei paesi dove si trova la sede principale. Di regola questa è scelta anche per ragioni fiscali ed esistono molte vie per deviare gli utili delle varie società componenti il gruppo verso la sede principale. Ora, le future regole prevedranno che le imposte siano pagate nei paesi in cui il gruppo realizza la maggiore cifra d’affari. Dietro questa richiesta vi è anche la riflessione che, proprio in un mondo sempre più informatizzato, molti affari possono essere realizzati anche senza essere presenti in loco, via Internet. Si vedono per ora tre possibilità. Per gli inglesi si vorrebbero colpire direttamente sia la piattaforma di «social media», sia il commercio «on line». Gli americani sostengono però un metodo che prevede una ripartizione internazionale degli utili realizzati, compresi quelli immateriali, come per esempio il «marketing». I grandi paesi come l’India o il Brasile vorrebbero che si tassassero le società sulla base di una loro presenza economica significativa nel paese interessato. Paesi come la Germania o la Francia sostengono invece la tesi dell’imposta minima a cui assoggettare ogni multinazionale. Se un paese non dovesse raggiungere questo minimo, la differenza verrà colmata dagli altri paesi. Come si può vedere, l’applicazione

Novartis, con sede a Basilea, paga oggi 700 milioni di imposte all’anno in Svizzera, in futuro la cifra potrebbe ridursi a 39 milioni o ancora meno. (Keystone)

di questi principi non è cosa facile, ma il G-20 preme sull’OCSE affinché applichi una strategia accettata da tutti entro breve termine. Entro il 2020 si chiede l’elaborazione dei principi che raccolgano un consenso generale. In sostanza siamo alla vigilia della creazione da parte dell’OCSE di nuovi «standard» che tutti dovranno applicare. La spinta verso una soluzione del problema viene soprattutto dai grandi paesi, mentre per i piccoli si prospettano forti perdite di entrate fiscali.

La Svizzera si è accorta per tempo della piega che stanno prendendo le discussioni in seno all’OCSE, al G-20 e, ultimamente anche al G-7, il quale già a metà luglio ha chiesto la creazione di un nuovo sistema fiscale internazionale. Non a caso, quindi, il ministro elvetico delle finanze Ueli Maurer, nel contempo anche presidente della Confederazione, sta stringendo contatti con i rappresentanti politici dei piccoli paesi, per creare un fronte che possa opporsi allo strapotere dei grandi. Que-

sta volta la Svizzera non dovrà soltanto adattarsi, ma partecipare alle discussioni. Comunque per la Svizzera, paese molto legato al commercio internazionale, il rischio è grosso. Il principio non si applica solo alle multinazionali di origine estera, ma anche a quelle locali. Per esempio la Novartis che realizza a livello mondiale una cifra d’affari di circa 51 miliardi di franchi, di cui solo il 2% in Svizzera, dove però paga il 39% sull’utile di 1,8 miliardi di franchi, non lo farà più. Ipoteticamente i 700 milioni di franchi di imposte in Svizzera scenderanno a 39 milioni. Probabilmente la logica radicale dei mercati di vendita non verrà applicata integralmente, ma gli stessi esperti dell’OCSE valutano come molto serie le conseguenze per la Svizzera. Qualcuno giudica persino questo progetto come il più serio attacco internazionale contro la Svizzera, più costoso di quello dovuto alla caduta del segreto bancario e alla soppressione dei regimi fiscali cantonali. Lo stesso Ueli Maurer valuta tra 1 e 5 miliardi di franchi le perdite fiscali. La stima sembra però troppo prudente e potrebbe raggiungere per Confederazione, Cantoni e Comuni i 10 miliardi di franchi. Ai vistosi ammanchi nelle entrate fiscali bisognerà in futuro cercare delle compensazioni. Annuncio pubblicitario

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Idee e acquisti per la settimana

Le agende 2020 sono arrivate

Anche nell’era digitale un’agenda cartacea offre molti vantaggi: al contrario di uno smartphone non si scarica mai e gli appuntamenti possono essere segnati in modo personalizzato, anche per quel che riguarda lo stile. L’assortimento Papeteria propone la giusta agenda per ogni esigenza: formato orizzontale o verticale, differenti dimensioni e design in colori di tendenza. Tutti i calendari e le agende sono certificati con il label FSC; la carta proviene da una gestione sostenibile delle risorse forestali.

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Dall’accordo di libero scambio all’unione economica e ritorno Un paio di settimane fa ha fatto i titoli dei giornali svizzeri (solo per un giorno però) la notizia stando alla quale il nostro ministro dell’economia Guy Parmelin sarebbe stato intenzionato a proporre al primo ministro inglese Johnson di riportare l’Inghilterra in seno alla Associazione europea di libero scambio (AELS). La Gran Bretagna, sarà bene ricordarlo, è stata, nel 1960, uno degli Stati fondatori dell’AELS. Ma era uscita dalla stessa nel 1972 per aderire a quella che allora era la Comunità economica europea e che, più tardi, doveva diventare l’Unione europea. Con lei, e per la stessa ragione, aveva lasciato l’AELS anche la Danimarca. Il Portogallo doveva poi abbandonare l’AELS nel 1985 mentre Svezia, Austria e Finlandia l’avrebbero fatto nel 1995. Degli Stati fondatori o di quelli che l’avevano integrata fino al 1991, a

fine secolo, non restavano nell’AELS che la Svizzera e la Norvegia. Ad essi erano venuti ad aggiungersi l’Islanda, nel 1970, e il Liechtenstein, nel 1991. Gli scopi dell’AELS sono abbastanza simili a quelli dell’UE. L’associazione vuole promuovere il libero scambio e l’integrazione economica tra gli Stati membri. Ovviamente il fatto che sia stata creata in parallelo con la Comunità europea (il trattato di Roma che la creò è del 1965) significa tuttavia che differenze debbano esistere tra la visione dell’AELS e quella della CEE, rispettivamente dell’UE in materia di libero scambio e integrazione. È raro che i media parlino di queste differenze. Ci sembra tuttavia interessante, proprio perché oggi la Svizzera invita la Gran Bretagna a ritornare sui suoi passi, esaminare un po’ più da vicino di che cosa si tratti. Le esperienze disponibili

in materia di integrazione economica tra le nazioni consentono di stabilire una gerarchia del tipo di accordi, da quello che richiede meno rinunce alla sovranità nazionale a quello che impone più obblighi agli Stati aderenti. Alla base di questa piramide ci sono gli accordi preferenziali con i quali gli Stati si concedono reciprocamente, normalmente in base a trattati bilaterali, preferenze di trattamento doganale e basta. Viene poi , per l’appunto, la zona di libero scambio come quella dell’accordo AELS con soppressione totale degli ostacoli al commercio e protezione verso l’esterno fissata liberamente da ciascun membro. Segue, nella progressione dell’integrazione, l’unione doganale, come lo Zollverein che, nella seconda metà dell’Ottocento, stabilì praticamente un mercato integrato all’interno degli Stati tedeschi.

La caratteristica dell’unione doganale è che la protezione verso l’esterno è unica e viene applicata in comune da tutti i membri. Con il mercato comune si fa un passo in più nella direzione di una maggiore integrazione. Alle regole già ricordate, il mercato comune aggiunge la libera circolazione dei fattori di produzione (capitale e lavoro) all’interno dell’area integrata. Ma la progressione verso l’integrazione completa non finisce qui. Dopo il mercato comune viene il mercato unico che sopprime praticamente ogni e qualsiasi barriera fisica, tecnica o fiscale, tra gli Stati membri. Dal mercato unico si sale all’unione monetaria che presuppone naturalmente l’adozione di moneta e politica monetaria uniche. Da qui si può solo salire ancora verso l’unione economica piena se gli Stati membri adottano una politica economica comune. Il grado di

integrazione dei mercati sale continuamente, dagli accordi con clausole preferenziali all’unione economica. La Gran Bretagna che ha sicuramente interesse a mantenere, in un certo grado, il libero scambio, potrebbe essere interessata da ogni proposta che le consenta di ottenere questo obiettivo senza dover accettare anche la libera circolazione dei fattori di produzione. È sicuro che, indipendentemente da come la Brexit sarà regolata, il governo inglese si metterà al lavoro per concludere alleanze libero-scambiste con le economie che maggiormente lo interessano, in primis naturalmente quella degli Stati Uniti. Vista la debole consistenza dell’associazione è invece molto dubbio invece che la proposta di Parmelin di ritornare nell’AELS possa figurare presto nella lista delle sue priorità.

governo senza i suoi leader. Non c’è il segretario Zingaretti, non ci sono gli ex premier Letta, Renzi, Gentiloni. Non ci sono neanche i numeri 2, gli Orlando e le Boschi. Siamo quindi alle terze file. È una scelta: puntare su nomi nuovi, che non abbiano sedimentato il livore dei social. Al tempo della rete, avere una storia, un curriculum, un percorso diventa un handicap e non un vantaggio. Il discorso vale a maggior ragione per i Cinque Stelle. Un tempo si diventava ministri del Lavoro dopo aver diretto confederazioni sindacali da milioni di iscritti, come accadde a Franco Marini. Faccio il giornalista da trent’anni, ma la nuova ministra del Lavoro, Nunzia Catalfo, non l’avevo mai sentita nominare. Senza gettare la croce addosso a nessuno, molti ministri del secondo governo Conte sono del tutto sconosciuti all’opinione pubblica. E anche il presidente del Consiglio resta una sorta di mistero. Quando entrò a Palazzo Chigi per la prima volta, nessun italiano conosceva il suo volto o aveva mai sentito la sua

voce. In questi mesi molti hanno imparato ad apprezzarlo (confesso di non essere tra questi, non amando né il suo stile che Giampaolo Pansa ha definito da gagà né il suo linguaggio involuto da azzeccagarbugli). Comunque l’uomo ha dimostrato di avere diverse qualità. Ambizione. E mediazione. È riuscito a restare in piedi stretto nella tenaglia populista Salvini-Di Maio, evitando all’Italia due procedure di infrazione (con l’aiuto del ministro dell’Economia Tria), e ponendosi in Europa come l’argine a guai peggiori. Nessuno può più considerarlo premier per caso. Ora però non si presenta più come mediatore, ma come leader. Sarà ancora più difficile. Mi ha colpito come, elencando i ministri, ha messo davanti se stesso: «Sarò affiancato da…» Come a dire: il governo sono io. Ed è abbastanza vero. Con il Pd che si affida a personaggi di secondo e terzo piano, con Di Maio oggettivamente ridimensionato – ma non fuori gioco –, con Mattarella che ha piena fiducia in lui, è

evidente che le sorti del governo sono innanzitutto nelle mani del premier. Resta da capire cosa farà Matteo Renzi. L’intervista con cui ha aperto al governo istituzionale – divenuto rapidamente l’unico governo possibile: un’alleanza tra Pd e Cinque Stelle – ha spiazzato tutti. Di sicuro Renzi voleva evitare le elezioni subito: avrebbe perso il controllo dei gruppi parlamentari del partito democratico, e non avrebbe avuto il tempo di farsi il suo, di partito. Tre ministri appartengono alla sua area, ma non alla sua cerchia più stretta. Sarà fedele e leale a Conte, di cui non è un estimatore? O non rinuncerà a giocare la sua partita in proprio, magari proprio preparando la scissione? Resto convinto che Renzi intenda riprendersi il Partito democratico, piuttosto che lanciarsi nell’avventura di un nuovo movimento. Ma dopo questa crisi di governo, dopo l’autogol clamoroso di Salvini, dopo il ribaltamento di assetti e rapporti cristallizzati da anni, dopo tutto questo non possiamo più stupirci di nulla.

condizioni etiche, sociali e ambientali che invece sembrano ora decise a prendere il sopravvento. Il documento ha comunque un punto di non ritorno: impedire gli eccessi legati alla ricerca di profitti a corto termine. La domanda da porsi oggi è però un’altra: politica e governi tenderanno una mano alle imprese per favorire maggiore dignità verso i dipendenti, rapporti corretti con i produttori, rispetto dei consumatori e, non da ultimo, controllo dell’impatto sull’ambiente? Senza dimenticare che il cambiamento susciterà reazioni e contromosse di altri governi, notoriamente impegnati in varianti nazionali dell’economia di mercato (si pensi alla Cina) e non così aperti per quel che riguarda il rispetto di valori etici in campo sociale, economico e anche politico. Confesso che sulle prime il fatto di vedere le alte sfere del gigante Black Rock, con in prima fila ex-banchieri centrali (tra cui anche il nostro Philipp Hildebrand), monopolizzare subito l’informazione mondiale con bordate contro le attuali politiche monetarie, aveva

fatto aumentare il mio scetticismo. Poi però, constatando che un economista nemico del neoliberismo come il Nobel Joseph Stiglitz aveva deciso di schierarsi, sia pure indirettamente, in favore del cambiamento annunciato («Come dice la Bibbia non c’è nulla di nuovo sotto il sole, ma il contesto è decisamente nuovo»), mi sono convinto a riproporre l’idea-speranza ricordata da Dahrendorf e proposta oltre 40 anni fa dal sociologo americano Daniel Bell nel suo Cultural Contradictions of Capitalism: «Non torneremo al capitalismo di risparmio, ma a un ordine in cui il soddisfacimento dei bisogni è coperto dal necessario valore aggiunto. Il capitalismo di debito deve essere ricondotto a una misura sopportabile. È necessario qualcosa come un “capitalismo responsabile”, in cui risuoni soprattutto la prospettiva di medio periodo, ovvero quella di un nuovo rapporto col tempo». Come sosteneva dieci anni fa Dahrendorf, per uscire dalla crisi e rigenerare il capitalismo è da lì che occorre ripartire.

In&outlet di Aldo Cazzullo Conte 2, non per caso A mia memoria, non ricordo un governo più modesto del Conte-2. Forse solo il Conte-1. Non c’è dubbio che la selezione della classe dirigente sia una delle grandi questioni italiane. Vale per la politica, e non solo. Nel 1996, quando si affacciò per la prima volta al governo, la sinistra italiana portò Beniamino Andreatta alla Difesa, Giorgio Napolitano agli Interni, Carlo Azeglio Ciampi all’Economia. Erano persone ben conosciute

agli italiani, che venivano da lontano. Potevano non piacere; ma almeno si sapeva chi erano. Ministro degli Esteri era il premier uscente, Lamberto Dini. Il presidente del Consiglio era stato ministro con Andreotti quasi vent’anni prima e aveva presieduto per due volte l’Iri. Il vice era Walter Veltroni, alle Telecomunicazioni c’era Antonio Maccanico che era stato segretario generale del Quirinale con Pertini. Oggi il partito democratico torna al

Il Presidente del consiglio italiano Giuseppe Conte.

Zig-Zag di Ovidio Biffi Una tavola rotonda farà quadrare il cerchio? Poche settimane prima della sua morte (giugno del 2009), l’economista e filosofo Ralph Dahrendorf, in una delle sue ultime interviste aveva dichiarato che alla fine della crisi lo standard di vita si sarebbe ridotto, cioè saremmo tornati ai livelli di vita degli anni Settanta «con molta più tecnologia ma senza l’ottimismo di quei decenni» e che ne saremmo usciti solo abbandonando e condannando le regole di quella cultura del debito «per la quale mettevi lì cinquanta euro e ti pareva normale che ti dessero un’automobile o una casa». Qualche settimana fa ho cercato e riletto quell’intervista, subito dopo aver appreso la notizia che oltre duecento proprietari e amministratori di imprese statunitensi – dalle più vecchie JP Morgan e General Motors, sino ai giganti «novissimi» come Amazon, Apple o il fondo finanziario Black Rock – hanno pattuito, come membri della «Business Roundtable» (letteralmente «Tavola rotonda degli affari»), l’impegno a compiere una decisa virata nel comportamento etico delle loro

aziende. Sul momento ho pensato: il Dahrendorf filosofo politico, oltre che eccellente economista, aveva ragione: occorre abbandonare la rotta indicata da Milton Friedman, avviata da Ronald Reagan e Margaret Thatcher e rimasta in auge per quasi mezzo secolo, nonostante una serie di sbandamenti che hanno avuto origine sia dal monetarismo più sfrenato sia da una non facile globalizzazione realizzata dai mercati più che dalle politiche economiche nazionali. Dopo dieci anni anche i potenti del mondo economico occidentale, cioè i capi delle più potenti industrie americane e del mondo, si trovano d’accordo e sembrano finalmente decisi a lasciare i sentieri sinora battuti e a virare verso nuovi orizzonti. Come amano fare gli americani, il cambiamento sarà contrassegnato dal passaggio da una formula all’altra. Quella da abbandonare, predicata da Friedman, era etichettata da una sorta di mantra: «The business of business is business». Molto più prosaicamente l’emblema del mutamento parla di abbandono dello «shareholder

value» e di un passaggio allo «stakeholder value». Quindi si punta al varo di un capitalismo più responsabile che, senza tradire i fondamentali tracciati da Adam Smith, sappia indirizzare le attività delle multinazionali verso la «dignità e il rispetto», attivando così un impegno crescente verso le nuove generazioni. Nessuno oggi conosce le mappe e gli strumenti che occorrerà approntare per attivare la virata e mettere in pratica i nuovi orientamenti. Merita comunque segnalazione il fatto che, in quella che mi è sembrata l’analisi più approfondita dell’intesa annunciata dalla «Business Roundtable», il quotidiano britannico «Financial Times» abbia sottolineato come l’iniziativa sia anche una risposta politica (e non v’è dubbio che in America il messaggio è rivolto non solo a Trump, ma anche al partito democratico che lo avversa) alla crescita dei movimenti populisti e sovranisti che hanno attecchito puntando sul fatto che i governi hanno lasciato mano libera ai profitti aziendali a discapito delle


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Cultura e Spettacoli L’arte di Kentridge a Basilea Difficile descrivere a parole le dense e complesse opere del grande artista sudafricano

Una lunga strada per le donne A colloquio con l’irachena Zarhaa Ghandour, protagonista di Baghdad in my Shadow, che ha scelto di rimanere nel suo paese natale nonostante sia una donna e un’artista

I film della Laguna Un Joker inedito e un J’accuse d’antan fra le opere più apprezzate di Venezia pagina 41

La lingua che non c’è A colloquio con Paolo Albani, che parteciperà all’imminente nuova edizione di Babel

pagina 40 pagina 42

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Opere di luce Mostre Milano omaggia Nanda Vigo

con una rassegna a Palazzo Reale

Alessia Brughera Quella che Milano dedica a Nanda Vigo è una mostra che l’artista stessa attendeva da tempo, consapevole di aver dato tanto alla città meneghina eleggendola luogo prediletto per elaborare la propria multiforme e avanguardistica produzione. Nata nel capoluogo lombardo nel 1936, dopo la laurea al Politecnico di Losanna la Vigo parte alla volta degli Stati Uniti per lavorare in Arizona nell’entourage di Frank Lloyd Wright; una breve esperienza, questa, che seppur scaturita dalle più entusiastiche intenzioni, si rivela piuttosto deludente. Ecco allora che il ritorno negli anni Sessanta a Milano, centro brulicante di creatività e teatro di continue sperimentazioni, fa capire alla Vigo che quello che sta cercando è proprio lì, sotto i suoi occhi: in quel periodo vivace e innovativo l’artista trova nella sua città natale il terreno fertile per dare avvio alla propria indagine incentrata sul rapporto fra luce, spazio e forma, all’insegna dell’integrazione tra le arti. Non è difatti facile dare della Vigo una definizione precisa. La sua attività si muove tra arte, architettura e design, ambiti ancora oggi da lei esplorati con il piglio radicale che ha da sempre contraddistinto il suo lavoro. A contribuire alla sua visione versatile e globale dell’arte sono i molteplici incontri con figure di primo piano avvenuti proprio nel fervido contesto culturale milanese degli anni Sessanta. C’è, in primis, quello con Lucio Fontana, maestro da cui la Vigo impara a sondare le potenzialità dello spazio e a cui si affianca nell’esecuzione di alcuni «ambienti»; ci sono quelli con Enrico Castellani e Piero Manzoni, quest’ultimo suo compagno di vita fino alla tragica morte per infarto non ancora trentenne; c’è quello con Gio Ponti, con cui collabora lavorando agli interni della famosa casa Lo scarabeo sotto la foglia, a Malo. La Vigo realizza opere d’arte, pro-

getta edifici e produce oggetti (alcuni dei quali divenuti delle vere e proprie icone, come la lampada Golden Gate, di cui acquista il LED nel 1972 direttamente dalla NASA perché in quegli anni solo lì lo si poteva trovare): arte, architettura e design si fondono così in un unico processo creativo caratterizzato soprattutto dalla sperimentazione delle possibilità offerte dalla luce. Non è quindi un caso che la mostra milanese ospitata nelle sale di Palazzo Reale, prima retrospettiva antologica che un’istituzione museale italiana dedica alla Vigo, sia intitolata Light Project, a sottolineare come nella lunga attività dell’artista il medium luminoso abbia assunto il ruolo di protagonista della sua ricerca. La rassegna raccoglie un’ottantina di lavori – tra progetti, sculture e installazioni – eseguite dalla fine degli anni Cinquanta a oggi, testimonianza delle diverse tappe del prolifico percorso della Vigo orientato allo studio della luce e della trasparenza attraverso il pionieristico impiego di materiali (dal neon al vetro, dal metallo alla plastica) che nei primi anni Sessanta erano ancora poco utilizzati in campo artistico. Opera tra le più significative in mostra è la Global Chronotopic Experience, un ambiente immersivo in cui il visitatore può vivere l’esperienza di uno spazio invaso da una luminosità pura e assoluta. Allestito nella Sala degli Specchi, questo lavoro costituisce il naturale approdo dell’evoluzione della Vigo e la summa del suo credo artistico, essendo piena espressione di quel concetto di incorporeità della luce che l’artista ha sempre inseguito allo scopo di raggiungere una smaterializzazione che non fosse solo fisica ma anche, e forse soprattutto, mentale, un’esortazione per lo spirito ad andare oltre la mera contingenza. Il cammino per giungere a questo tipo di opere parte dal 1962, quando la Vigo incomincia a realizzare i primi «cronotopi» (termine coniato dall’artista stessa associando le parole cronos

Nanda Vigo, Deep space, Palazzo Reale, Milano, 2019. (Photo Credit Marco Poma Courtesy Archivio Nanda Vigo)

e topos), creazioni dalle forme semplici e dinamiche, concepite in alluminio e vetro, capaci di filtrare e modulare la luce artificiale alterando nell’osservatore la sensazione spazio-temporale. Seppur frutto di un’indagine sviluppata in maniera personale, questi lavori si avvicinano alle esperienze portate avanti dal Movimento Zero, gruppo di respiro internazionale fondato nel 1957 a Düsseldorf da Otto Piene e Heinz Mack, con cui la Vigo si sente in sintonia per la medesima visione di un’arte allargata che ridefinisce completamente lo spazio facendovi

confluire elementi sino a quel momento inusuali. Un’arte che, rientrando nell’ambito delle tendenze ottico-cinetiche, muove dalla consapevolezza che la percezione della realtà, come la tecnica e la scienza stanno teorizzando in quel periodo, sia sempre più fluida e mutevole. Da quei primi «cronotopi», passando per le «piramidi» degli anni Settanta, per le opere postmoderne del decennio successivo e per le Light Progressions degli anni Novanta fino ad arrivare agli esiti più recenti, la Vigo ha percorso una traiettoria peculiare

in cui la luce è diventata metafora della leggerezza, della purezza e della spiritualità, «dando l’idea di uno spazio», come ama sottolineare la stessa artista, «che continua all’infinito, anche dentro noi stessi». Dove e quando

Nanda Vigo. Light Project. Palazzo Reale, Milano. Fino al 29 settembre 2019. Orari: lu 14.30-19.30; ma, me, ve e do 9.30-19.30; gio e sa 9.30-22.30. Ingresso gratuito. www.palazzorealemilano.it


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Idee e acquisti per la settimana

Avventure con gli animali per la gioia dei bambini 1

Trekking con i somarelli

Non capita spesso di passare da Cumiasca. Bisogna avere proprio l’intenzione di andarci. Da Acquarossa la strada sale ripida lungo il pendio della montagna. A ogni curva il cielo si apre un po’ di più e la natura diventa più selvaggia. Arrivati in cima sul plateau è come essere giunti in un altro mondo. Ma siamo davvero nel XXI secolo? Dov’è finita tutta la frenesia della città? Lontano dai rumori cittadini, asini e muli brucano serenamente all’ombra delle piante. Gli alpaca interrompono il pasto e sollevano incuriositi la testa. Il gatto «Herr König» attraversa il cortile, mentre il cane Filou e il suo miglior amico Willi accolgono allegramente gli ospiti. Qui nella valle del sole, come viene anche chiamata la valle di Blenio, anche i più recalcitranti si entusiasmano per le gite. Soprattutto se si opta per un trekking con gli animali Somarelli!

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Bellissimi husky nella Muotathal

Hanno una pelliccia morbidissima, giocano volentieri all’aperto e scoppiano di energia: stiamo ovviamente parlando dei bellissimi husky. Un sogno divenuto realtà: «Husky-Traum» ti permette di giocare, passeggiare e dare da mangiare ai tenerissimi husky per circa 2 ore. Questi cani simili ai lupi con luminosi occhi blu e orecchie appuntite sono originari della Siberia ma, se tenuti correttamente, possono stare bene anche da noi. Nella romantica Muotathal nel Cantone di Svitto, ad esempio, circa 30 dolcissimi husky hanno trovato una splendida casa dove vivere ogni giorno nuove avventure. Per gli husky è importante essere sempre in movimento, magari facendo lunghe passeggiate tra le montagne o, in inverno, trainando le slitte nella valle innevata.

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Nutrire gli scoiattoli ad Arosa

Gli scoiattoli di Arosa sono così mansueti che mangiano le noccioline direttamente dalle mani dei piccoli e grandi visitatori. Perciò, la passeggiata su questo sentiero tematico molto apprezzato è un’esperienza indimenticabile soprattutto per i bambini. Il sentiero degli scoiattoli inizia direttamente dietro la stazione di Arosa. Davanti all’hotel «BelArosa» si trova il primo grande scoiattolo. Dopo una breve salita ripida, che si può affrontare senza problemi anche con il passeggino, ci si immerge nel mondo degli scoiattoli, che spuntano dappertutto, si arrampicano fino ai loro nidi e sembrano davvero divertirsi con i piccoli visitatori. Oltre agli scoiattoli, nel bosco ci sono anche numerosi uccelli che si lasciano osservare da molto vicino e beccano il cibo direttamente dalle mani dei visitatori.

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Queste e tante altre escursioni le trovate su: famigros.ch/escursione

Zoo al Maglio Lo zoo ticinese al Maglio ospita più di cento animali di tutto il mondo. Puoi osservare leoni dal portamento fiero e un bellissimo leopardo delle nevi, scoprire diverse specie di uccelli affascinanti e guardare da vicino come mangiano, giocano, dormono e trascorrono la giornata i graziosi orsetti lavatori e le buffe scimmie cappuccine. L’area picnic ombreggiata è perfetta per riposarsi e rinvigorirsi prima di partire per altre avvincenti avventure. Lo zoo al Maglio, una struttura a misura di famiglia, offre anche un parco giochi e visite guidate in cui si può dar da mangiare agli animali e scoprire di più sullo zoo e i suoi abitanti. C’è anche la possibilità di festeggiare i compleanni dei bambini e altri eventi circondati da animali esotici. Per le feste più grandi con tutta la famiglia (fino a 50 persone) lo zoo al Maglio mette a disposizione un tendone direttamente al fiume Magliasina.


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Cultura e Spettacoli

Kentridge, la processione della storia

Tranquilli, raga, passerà (speriamo)

La lingua batte La diffidenza di fronte Mostre Una retrospettiva dedicata all’artista e performer sudafricano al gergo giovanile è mal riposta Laila Meroni Petrantoni

What Will Come (Has Already Come) di William Kentridge, 2007. (© the artist)

Emanuela Burgazzoli William Kentridge è uno di quegli artisti che ti trascina in un nuovo universo, che evoca la molteplicità del romanzo contemporaneo di cui parla Italo Calvino: anche l’opera dell’artista e regista sudafricano appare come una «rete di connessione tra i fatti, tra le persone, tra le cose del mondo». Anche per Kentridge si tratta di rappresentare e conoscere il mondo nella sua complessità, ricorrendo agli elementi più eterogenei e seguendo un metodo transdisciplinare che intreccia cinema, pittura, teatro e musica, cercando di conciliare – come in Georges Perec – il «progetto strutturale e l’imponderabile della poesia». Entrare nell’arte di Kentridge significa prima di tutto viaggiare nel tempo della Storia, quella ambivalente del Sudafrica dell’Apartheid, dei colonialismi, ma anche dell’intero continente africano per capirne il ruolo in momenti di crisi come la Prima guerra mondiale, ma anche per riflettere sulle conseguenze sociali ed economiche dello sfruttamento nelle miniere o delle epidemie di Aids e di ebola. Eppure Kentridge non si definisce «artista politico», ma artista che cerca di restituire un senso al mondo, o mondi, che entrano nel suo atelier per essere de-costruiti e ricostruiti. Un mondo in cui ha un ruolo importante la sua storia personale. Nato a Johannesburg nel 1955, Kentridge è figlio di genitori avvocati, difensori dei diritti civili; il padre è Sidney Kentridge coinvolto in famosi processi politici, come il «treason trial» che vede Mandela fra gli imputati nel 1956 (al quale è dedicata la serie di litografie Remembering the Treason Trial del 2013), in seguito sarà il rappresentante della famiglia Biko. Il giovane William studia scienze politiche e arte drammatica, fonda una propria com-

pagnia teatrale nella sua città natale: negli anni Ottanta realizza i primi film d’animazione (esposto anche il primo, Festa galante del 1985), con l’invenzione di una nuova tecnica (la «poor man’s animation») che si basa sulla proiezione di fotografie e di disegni, poi i documentari e la prima mostra monografica a Londra; nel decennio successivo la consacrazione internazionale, grazie alla Biennale di Johannesburg e alla prima partecipazione a Documenta di Kassel. Difficile andare con ordine, perché nell’opera di K. tutto scorre in modo non lineare e molto rapidamente; emblematico il titolo What Will Come (Has Already Come) (2007), opera in cui le sagome di figure umane sono proiettate in movimento su un cilindro posto al centro di una tavola con un commento musicale. L’allusione è alla guerra in Abissinia, ma anche alla carestia degli anni Ottanta in Etiopia: drammatici esodi e fughe che si ripetono nel tempo. Alla sistematica distruzione della multietnica Sophiatown rimandano i disegni realizzati per la scenografia dell’omonima pièce teatrale. Al tema del ruolo misconosciuto dell’Africa durante la Prima guerra mondiale è dedicata l’installazione di The Head and the Load (2018), qui a Basilea scomposta nelle sue componenti grafiche e video. Nessuna ombra di utopia in questo mondo in bianco e nero, fatto di paesaggi desolanti, sfondi su cui si alternano interni cittadini – come l’emblematico Ballo dei conservatori, un trittico in bianco e nero nei primi disegni, che richiama atmosfere di precipizio morale di certo espressionismo tedesco. In questo caso scene di colonialismo europeo che rivela i propri «sogni di crudeltà». Parallelamente alla vena politica, Kentridge sviluppa una meta-riflessione sull’arte e sulla propria pratica esteti-

ca, come nel più recente episodio delle Drawing Lessons, intitolato It’s Not True (2019) che è anche riflessione sul tempo; sullo schermo scorrono infatti le linee che si fanno disegni, ma anche frasi, quasi moniti fra l’ironia e l’angoscia: «The moment has gone» o «Your days will become years». Ironico è il tono del filmato in cui l’artista si sdoppia per mettere in scena il doppio ruolo di creatore e spettatore. Lo «studio room» invece dà accesso non tanto alla copia realistica del suo atelier, bensì a un’estensione dell’immaginario e del pensiero dell’artista, una Tummelplatz o anche «a safe space for stupidity», dove poter liberamente osservare, sbagliare e imparare da ciò che non si capisce. Nella cosmologia di Kentridge si colgono le suggestioni di certo surrealismo – da Jarry a Buñuel – ma anche l’interesse per Picasso, il movimento Dada e Georges Méliès. Un mondo in cui le categorie fondamentali sono l’incertezza, il dubbio, la materialità del fare artistico – che è prima di tutto pratica – la provvisorietà della condizione umana. L’artista di Johannesburg non cede mai all’utopia di una convivenza pacifica fra gli uomini, pur celebrando la vita in installazioni come More Sweetly Play the Dance (2015), grandiosa processione in cui si avvicendano malati e infermieri, musicisti e contadini, ma anche figure allegoriche. La processione è motivo prediletto da Kentridge fin dai suoi esordi che rimanda alla tradizione medievale della «danza macabra», antica forma di esorcismo della morte.

Il tempo che passa si misura anche in «spacca di brutto, bro, bella zio» (dove «bro» – «brother» – sta per «fratello», e «zio» resta un mistero). Queste espressioni rientrano nel vostro quotidiano? Oppure vi scaraventano sul pianeta dei matusa, facciamo sopra i 40 anni di età? Prendete un TILO Chiasso-Bellinzona presto la mattina fra settembre e giugno, e origliate gli scambi di battute fra adolescenti semisvegli (nel senso di ormai fuori dal letto), in viaggio verso la scuola. Il tono è soprattutto mòno-tono, a volte monò-tono, modello tipo rap o trap, con guizzi e spruzzi di risate, perlopiù femminili, da farti sobbalzare sul sedile. Anche se siete dei matusa riuscite comunque a seguire il discorso e a coglierne il senso (o forse il controsenso, ma tant’è). C’è da scommettere però che inciamperete su un sinistro «non parlo con gli snitch» (che è? qualcosa del tipo «non parlo con gli infami»); vi sentirete del branco invece cogliendo il senso pieno di «whatsappami ‘sta foto», perché anche voi smanettate con l’applicazione tanto celebre quanto fortunata, che riesce a mettere in comunicazione (o in certa spiccia forma) nipoti affettuosi e nonni molto avanti (di vedute). Da che mondo è mondo, i giovani hanno sempre avuto un loro gergo, un codice legato alle generazioni. I matusa non dovrebbero storcere il naso, perché dai 16 anni ci siamo passati tutti. Magari dovrebbero essere un po’ indulgenti, notando poi che certe espressioni come «ci sei o ci fai?» iniziavano a circolare già ai loro tempi e cocciutamente sembrano sopravvivere.

Il modo in cui i ragazzi comunicano fra di loro fa molto parlare gli adulti: il genitore, il docente, il linguista, il sociologo. Qualche espressione a volte ce la fa a superare il posto di blocco e a diventare maggiorenne. Del resto la lingua cresce, proprio come i ragazzi. Forse non piacerà tutto, ma che ogni generazione sperimenti con le parole deriva proprio dal fatto che la lingua stessa è viva. In fondo le parole nuove – i neologismi – nascono per rispondere a un’esigenza comunicativa, che se persistente può anche riuscire a guadagnarsi un posto nel dizionario. Ben vengano dunque certe espressioni, tranquilli raga, ci sta. A un patto, però. Cari adolescenti: sbizzarritevi pure oggi, ma dovrà venire il momento in cui dovrete ripigliarvi anche voi. Una lingua è fra le più belle creazioni dell’uomo: in origine l’italiano era solo «il volgare», la parlata del popolo che il volgo sentiva tutta sua, oltre il colto latino. Cari ragazzi: quel volgare ci ha dato Petrarca, Dante, poi Leopardi e Manzoni, ma anche Plinio Martini, Gianni Rodari, Andrea Camilleri. Whatsappatevi pure senza freni oggi, ma verrà il giorno della folgorazione, quando capirete che la lingua è arte, è musica, è armonia, è veicolo di storia pensieri emozioni. Salutatevi pure con «ciao fratello», «ciao sorella», se la parentela fittizia vi è utile per esaltare l’amicizia. Ma ricordate (qui non mi maledicano i puristi, mi si conceda un azzardo pedagogico): fra i testi più commoventi che l’italiano delle origini può vantare vi è quello che inneggia a Fratello Sole e Sorella Luna.

Dove e quando

William Kentridge. A Pthat is Not Our Own. Basilea, Kunstmuseum. Fino al 13 ottobre 2019. www.kunstmuseumbasel.ch

Bella zio. Per sentire i nuovi trend linguistici dei giovani basta prendere il TILO. (Ti-Press) Annuncio pubblicitario


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Cultura e Spettacoli

La scelta di Zahraa

Incontri A colloquio con l’attrice, produttrice, regista e attivista irachena Zahraa Ghandour, protagonista del film

Baghdad in my Shadow del regista Samir, presentato a Locarno

Dove trovi la forza di rimanere in Iraq?

Giorgia Del Don Scegliendo l’attrice, produttrice, regista e attivista irachena Zahraa Ghandour come protagonista femminile del suo ultimo film Baghdad in my Shadow (presentato Fuori concorso all’ultima edizione del Locarno Festival), Samir non ha solo dato vita a un personaggio complesso, ma ha anche e soprattutto dato voce a un’artista coraggiosa e magnetica che si batte in difesa dei diritti delle donne in una società che le vorrebbe invisibili. Già a ventidue anni Zahraa Ghandour conduceva il proprio show televisivo settimanale. Un appuntamento importante che, con uno stile documentaristico, si concentrava sulle questioni sociali, e di conseguenza delicate, che toccano l’Iraq. Presente su tutti i fronti: dai media online alla radio, passando per la televisione e il cinema, la giovane protagonista di Baghdad in my Shadow dice forte e chiaro quello che molti non osano nemmeno pensare. Non è quindi un caso che il ruolo di Amal le calzi a pennello: «Amal si è nutrita della mia storia e io della sua, siamo diventate una cosa sola», ammette Zahraa. Baghdad in my Shadow racconta la storia di una piccola comunità di emigrati iracheni a Londra che si ritrovano nell’emblematico Café Abu Nawas dove i punti di vista a volte divergenti, così come i segreti di ognuno, si incontrano e scontrano. Ad accomunare questo colorito gruppo di personaggi è la complessa e multisfaccettata condizione di immigrato di religione islamica con i suoi numerosi cliché. Deciso a trasformare il semplicismo in dibattito, Samir ha scelto di mettere in scena personaggi complessi che incarnano tre fa i maggiori tabù del mondo islamico: l’ateismo, rappresentato dal poeta comunista Taufiq, l’adulterio con i diritti delle donne, che la giovane architetta Amal – arrivata a Londra per sfuggire a un marito violento fingendosi una cristiana perseguitata – difende non senza temere le reazioni dei suoi compatrioti, e l’omosessualità, che ha fatto fuggire dall’Iraq il giovane informatico Muhanad. Temi scottanti e scomodi che Zahraa Ghandour ha deciso di difendere

Non voglio andarmene, non voglio essere un’emigrata. Adoro viaggiare, lavorare, vedere il mondo e imparare cose nuove ma non voglio emigrare come molti amici e membri della mia famiglia. Mi sono detta: ok, passerò dei momenti difficili ma amo davvero Baghdad e nessuno ha il diritto di portarmi via questo. Baghdad ha la sua propria magia e l’energia che trovo in questa città non potrei trovarla altrove, questa è la mia città. Ho una sola vita e non so come andrà a finire, ma voglio viverla a modo mio. Cosa ti auguri per le donne in Iraq e cosa ci possiamo aspettare dal futuro secondo te?

Zahraa Ghandour è nata nel 1971 a Baghdad. (Samuel Golay)

rischiando grosso. Per lei che vive e lavora tuttora a Baghdad una tale libertà può costare caro. È quindi impressionante vedere con che semplicità e determinazione risponde alle nostre domande, un po’ come se la vita avesse per lei un significato ancora più profondo. Una vita da difendere con le unghie che Zahraa Ghandour ha deciso di vivere alla luce del sole, con grande coraggio. Puoi descrivere con parole tue il personaggio di Amal? Che sentimenti provi nei suoi confronti?

Amal e io abbiamo molto in comune. Entrambe scegliamo di frequentare chi vogliamo e passiamo spesso dei momenti difficili perché cerchiamo di evitare discussioni inutili sulle nostre scelte. Mi sento profondamente legata a lei e al fatto che non era ancora pronta a parlare della sua relazione (con Martin, interpretato da Andrew Buchanan, l’architetto inglese che frequenta di nascosto). Non è facile, a volte ci vuole tempo per esprimersi. Ci vuole molto prima di aprire la bocca quando si è abituati da tempo a doverla tenere chiusa. Amal e io abbiamo indubbiamente in comune la nostra passione per l’arte, ed entrambe prendiamo seriamente in

considerazione il nostro piacere personale, le nostre necessità.

Cosa pensi dell’idea di Samir di introdurre nel suo film temi sensibili in Iraq come i diritti delle donne, l’omosessualità, la laicità e la politica?

Credo sia stata una scelta molto coraggiosa perché potrebbe compromettere il suo lavoro futuro in Iraq, il luogo dove ha sempre voluto lavorare e dove vive ancora una parte della sua famiglia. È una grande sfida perché rimette davvero tutto in questione. Non molti sostengono i film prodotti in Iraq se non sono i tipici film sulla guerra. Però questi film non trattano di questioni sociali che è ciò che conta di più. I temi trattati nel film di Samir sono davvero delicati. Il cattivo del film (Ahmed, il marito violento dal quale Amal è scappata e che si rivela aver lavorato per i servizi segreti di Saddam Hussein) mostra che ci sono delle persone corrotte all’interno del governo, ed è vero: soffriamo della corruzione. La questione dei diritti delle donne, di dare alle donne la libertà di essere se stesse, è un tabù enorme in Iraq, dove le donne devono semplicemente soddisfare i desideri dei loro mariti. L’omosessualità rimane però il tabù più grande, quello che porta alla morte.

Cosa significa per te essere una donna e un’artista in Iraq?

Essere semplicemente una persona in Iraq è già di per sé una sfida. Certo si può «vivere» ma la situazione non è per niente facile. Le condizioni di vita sono pessime. La sicurezza è un problema, abbiamo militari ovunque, in qualsiasi momento potremmo essere feriti o addirittura uccisi. Parliamo spesso di chi è stato assassinato poiché è cosa comune, il che è pazzesco. Essere una donna è tremendo, non è nemmeno comparabile alla vita degli uomini. Abbiamo delle aree, delle vie, e degli orari specifici in cui possiamo passeggiare liberamente. La libertà delle donne è limitata da un’infinità di condizionamenti. La cosa peggiore è che la maggior parte delle donne non se ne rende nemmeno più conto. Inoltre io sono anche un’artista, un’attrice, il che rima con cattiva reputazione a vita. Le donne e il mondo dell’arte sono incompatibili. Personalmente ho diretto per anni uno show-documentario e quando ho cominciato a recitare tutti mi hanno chiesto se fossi pazza: perché vuoi fare una cosa del genere? Prima di tutto non abbiamo un’industria cinematografica in Iraq, ribattevano, e secondariamente chi ti sposerà se diventi un’attrice?

Quello che mi auguro veramente è che le donne si rendano conto che hanno dei diritti. La maggior parte non sa di avere gli stessi diritti di tutti gli altri esseri umani. Questo perché tutto è impostato in modo tale che le limitazioni sono diventate la norma. Tuo padre, i tuoi fratelli, tuo marito, tutti ti fanno capire che è normale essere trattata in modo diverso. Sono sicura che la maggior parte delle donne creda che è l’unico modo di esistere. Quindi mi auguro davvero che a un certo punto le donne, tutte le donne, conoscano almeno i loro diritti di base. Spero sinceramente che si cominci a lavorare su questo con le nuove generazioni. Per quello che riguarda il futuro non mi aspetto dei cambiamenti nell’immediato, o per lo meno io non assisterò a questi cambiamenti. Ci vorrà ancora molto tempo. Da dove viene il tuo spirito libero?

Sono stata fortunata perché mia madre è fantastica. Una madre single che mi ha fatto sentire semplicemente come una persona. Io e mio fratello siamo stati cresciuti nello stesso modo. Mia madre è anche una lettrice accanita e mi ha stimolato a fare lo stesso. Mi ha aperto la mente e incitato a leggere e ciò mi ha spinto in qualche modo fuori dal sistema. Ho scoperto attraverso la lettura quello che c’era al di fuori del mio mondo. Mia madre è la ragione principale della mia apertura mentale, ma a un certo punto non è più riuscita a starmi dietro. Anche se non le piace vedermi recitare, è contenta di sapermi felice. Di questo sono sicura.

Chernobyl, la verità sullo schermo Serie tv Un capolavoro per chi trova il coraggio di vederlo Alessandro Panelli Chernobyl, miniserie televisiva composta da cinque episodi scritti da Craig Mazin (Una notte da leoni, Scary Movie) e diretta da Johan Renck (Breaking Bad, The Walking Dead, Vikings) è la nuova opera prodotta da HBO nel 2019 e narra le vicende dell’esplosione nella centrale nucleare di Chernobyl, avvenuta il 26 aprile 1986 nei pressi della cittadina di Pryp’jat’, in Ucraina. La serie ha il compito di mostrare l’orrore di quella notte, e sicuramente lo fa senza andarci piano. Ogni puntata è un vero e proprio pugno nello stomaco per lo spettatore, che dovrà confrontarsi con ambienti di lavoro tossici (ove la corruzione radicata nei piani alti della politica sovietica causerà la morte di migliaia di persone) e con l’ingenuità e l’inconsapevolezza della popolazione di Pryp’jat’ di fronte a una fine certa. Chernobyl non è uno show televisivo adatto a tutti, ma ritengo che chiunque debba trovare il coraggio per visionarlo. Ebbene sì, perché Johan Renck e Craig Mazin ci mostrano

senza alcun sconto le ripercussioni della strage, facendo leva sulla dannosa egemonia dettata dall’URSS sulla popolazione, ignara di ciò che stava accadendo, ma chiaramente coinvolta e pronta a intervenire per rimedia-

La locandina della serie prodotta da HBO.

re a un «errore» che le costerà la vita. Le riprese sono impressionanti e dominate da colori come un blu molto freddo, un verde che ricorda il senso di alienazione, un rosso che richiama il pericolo. L’immensa e colossale co-

lonna sonora di Hildur Guðnadóttir ci spinge in uno stato d’animo di angoscia, terrore, rabbia e misantropia. La trama si focalizza sull’importante rapporto fra il chimico sovietico Valerij Alekseevic Legasov (Jared Harris), che ha come obiettivo quello di scoprire la ragione dell’esplosione del reattore principale della centrale, e Boris Shcherbina (Stellan Skarsgard), capo dell’ufficio per il combustibile e l’energia, incaricato dal Cremlino di guidare la commissione governativa dopo il disastro. In questo modo nasce un conflitto tra chi è alla ricerca della pura verità e chi ha dovuto nascondere le cospirazioni e i dannosi segreti che quello che in realtà è un impero tiene nascosti ormai da molto tempo. All’interno del suo dramma storico Craig Mazin si è preso la libertà di inventare un personaggio: Ulana Khomyuk, interpretata da Emily Watson, è una scienziata nucleare bielorussa ben delineata e ben contestualizzata all’interno dell’opera che rappresenta tutta la serie di scienziati impegnati nel rendere pubblico il vero

motivo dell’esplosione… ma che purtroppo all’epoca furono messi quasi tutti a tacere. Chernobyl non è un prodotto d’intrattenimento ma piuttosto di autolesionismo. Durante le cinque ore di durata della fiction veniamo trafitti da una lama ghiacciata e affilata che ci lacera il corpo fino a suscitare le peggiori e più negative emozioni che riusciamo a provare davanti a uno schermo. Ma queste emozioni negative ci mostrano unicamente la realtà, rendendoci consapevoli del fatto che essa può essere anche più tragica della fiction. A distanza di più di trent’anni Chernobyl torna a far parlare di sé, e dopo la visione di questo capolavoro rimarrà una vicenda che non scorderemo mai, impiantata nei nostri ricordi. Al termine della visione siamo consapevoli di uno dei più grandi e gravi errori che causò la caduta dell’impero dittatoriale. Ciò che fa venire i brividi è che ancora la popolazione innocente e allora ignara paga il prezzo delle devastanti conseguenze del disastro nucleare passato alla storia.


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Cultura e Spettacoli

La rivincita di Venezia

Mostra del cinema Grandi nomi si sono dati appuntamento in Laguna

per un’edizione ricchissima ma senza film indimenticabili

Marina, ma li hai fatti, i compiti? Questo nuovo sound Da Sick Luke

alla classifica

Nicola Falcinella Lo spionaggio e le separazioni sono tra i temi che accomunano alcuni dei più significativi film visti alla 76esima Mostra del cinema di Venezia, conclusasi sabato. Una rassegna interessante e piuttosto varia sia nel concorso principale sia nelle sezioni collaterali, ma con pochi picchi e senza grandi scoperte. I due film che hanno messo più d’accordo addetti ai lavori e pubblico sono stati J’accuse di Roman Polanski e Joker di Todd Phillips. Nel primo, il grande regista polacco ha adattato il romanzo di Robert Harris sulla vicenda dell’ufficiale ebreo francese Alfred Dreyfus, che fu ingiustamente condannato per tradimento a fine ’800, più volte processato fino allo scagionamento. I fatti sono filtrati attraverso il tenente colonnello Picquart, capo di una sezione dei servizi segreti, che si trova in mano i documenti portati come prova e comincia a dubitare del lavoro delle spie, ben prima della celebre lettera pubblica dello scrittore Emile Zola. Il protagonista (il bravo Jean Dujardin) è un militare retto, fedele servitore dello Stato, che non basa la giustizia sui pregiudizi in un momento invece contraddistinto da opinione pubblica esacerbata, clima di caccia allo straniero e sentimenti anti-ebraici. Una sontuosa ricostruzione del passato per un film che parla molto dell’oggi.

Quest’anno Venezia è tornata agli antichi splendori, anche se non tutti i film sono imperdibili È un Joker senza Batman, con Bruce Wayne che si vede bambino, nella pellicola che immagina le origini del personaggio dei fumetti DC. Arthur Fleck lavora come clown, ma sogna di fare il comico, soprattutto è un uomo solo, che ha subito violenza ed è profondamente disturbato. Il regista dei tre Una

Tommaso Naccari

Joaquin Phoenix è il nuovo Joker, qui nella locandina del film.

notte da leoni realizza un lavoro cupo e dolente, un bel ritratto della malattia mentale, molto debitore al cinema anni ’70, soprattutto al Martin Scorsese diRe per una notte e Taxi Driver. Un raffinato e avvolgente bianco e nero dà la cifra del melodramma cinese Saturday Fiction di Lou Ye con una meravigliosa Gong Li che, nella Shanghai del dicembre 1941, è un’attrice implicata in un frenetico gioco di spie tra più parti: il compito è interpretare i messaggi in codice dei giapponesi, prima dell’attacco di Pearl Harbour. Esuli cubani in Florida sono protgonisti di Wasp Network del francese Olivier Assayas (Sils Maria, Personal Shopper), ben al di sotto dei suoi standard recenti. Spionaggio e controspionaggio in un thriller mal costruito, che spreca le sorprese, non lascia entrare in sintonia con i personaggi e non sfrutta né la componente di tensione né quella sentimentale. Ridendo e scherzando si va a caccia di paradisi fiscali e segreti della finanza in The Laundromat di Steven Soderber-

gh, che usa storie vere per un attacco al capitalismo tra dramma e grottesco. Un’anziana (Meryl Streep) perde il marito durante una gita in barca e scopre che la compagnia assicurativa fa parte di un sistema di scatole vuote che non fa capo a nessuno. Per ottenere l’indennizzo si mette a indagare per conto suo, scoprendo verità che non avrebbe immaginato. Raccontano storie molto simili, una separazione con figlio, in maniera che forse più diversa non si potrebbe Ema del cileno Pablo Larrain (conosciuto per Jackie e Neruda) e Marriage Story di Noah Baumbach con Adam Driver e Scarlett Johansson. Il primo è cinematograficamente ricercato, sperimentale, con un montaggio straniante e un personaggio vulcanico e letteralmente incendiario, la Ema del titolo, che prende l’iniziativa e reagisce in modo spiazzante. Baumbach scrive meticolosamente e dirige con cura la progressione di un litigio tra coniugi che iniziano scrivendosi lettere ancora quasi d’amore.

Trasferta parigina per il nipponico Kore-Eda Hirokazu, già Palma d’oro 2018 con Un affare di famiglia, con La verité, commedia amara con un’istrionica Catherine Deneuve che trova in Juliette Binoche una spalla di lusso. Un rapporto tormentato madre-figlia che hanno parecchio da rinfacciarsi, un omaggio al cinema congegnato con eleganza e una variazione sui temi familiari cari all’autore. Ancora dall’oriente arriva No. 7 Cherry Lane dell’altro cinese Yonfan, intrigante melodramma animato ambientato nella Hong Kong in trasformazione del 1967. Un sensuale triangolo amoroso alla Wong Kar-Wai tra uno studente universitario, la diciottenne cui dà lezioni di inglese e la madre di lei, con ancora tanti omaggi al cinema francese e uno sfondo politico interessante. Tra i film italiani, quello che ha colpito di più è Martin Eden di Pietro Marcello, che ha trasposto il romanzo di Jack London in maniera singolare in una Napoli fuori dal tempo.

Scatti due e stampi uno

Fotografia Non è uno slogan pubblicitario, bensì un escamotage del vulcanico Roberto

Donetta, riscoperto e attualizzato, un secolo dopo, da Roberto Pellegrini Giovanni Medolago Il progetto Donetta reloaded invita artisti contemporanei di diverse discipline a re/interpretare con sculture, dipinti, istallazioni video ecc. l’opera lasciataci da Roberto Donetta (18651932), partendo proprio dalle immagini di quest’ultimo, ormai prossime a festeggiare il secolo di vita. Dopo i tessuti di Caterina Foletti e le grandi stampe distribuite da Nina Haab nelle vicinanze della Casa Rotonda di Casserio, è il turno di Roberto Pellegrini. Il fotografo bellinzonese ha voluto intitolare la sua mostra Doppio istante, sintetizzando così un suo interesse di fondo: quel «doppio» che l’ha portato dapprima a Pieni&vuoti (2009, immagini di locali perfettamente arredati e poi immediatamente «ridotti» alle classiche e per una volta davvero spoglie quattro mura); quindi a Gemelli e infine a Dentro&fuori. Anche Roberto Donetta nutrì un certo interesse per il «doppio». Tuttavia, la sua fu un’attenzione dettata più da motivi economici che estetici/ artistici: impressionando la stessa lastra con due diverse immagini, riusciva a risparmiare sia sul consumo delle

Roberto Pellegrini, Celso. (© ProLitteris Zürich)

lastre, sia nel successivo procedimento di stampa. A distanza di un secolo e armato di un’apparecchiatura (leggi: digitale) certo molto più sofisticata di quella a suo tempo a disposizione del Donetta, Roberto Pellegrini escogita uno stratagemma semplice quanto originale per poter impressionare lo stesso file con due immagini diverse. Basta

– ma bisognava pensarci! – coprire la metà dell’obbiettivo con un cartoncino nero montato su un anello portafiltri, scattare la prima immagine, spostare il cartoncino sull’altra metà dell’obbiettivo e scattare la seconda immagine. Senza ulteriori manipolazioni, Pellegrini realizza così le opere attualmente esposte a Casserio. Sempre sull’esempio del

pioniere bleniese, il Roberto contemporaneo gioca con le doppie inquadrature passando dalla foto orizzontale a quella verticale, abbina ritratti singoli a quelli di coppia (come usava fare Donetta sperando così in un doppio potenziale acquirente) e dà particolare importanza allo sfondo, altro elemento fondamentale per Donetta, il quale amava sbizzarrirsi tra fondali improbabili, scenografie studiate quanto dettagliate e bucolici campi lunghi. Pellegrini approfitta sì della natura (la cascata d’edera che litiga con le felci), ma sembra interessato più a muri muretti e autentiche massicciate. Non manca infine di attualizzare il suo lavoro con le immagini di macchinone made in USA e due ruote solitamente cavalcate dagli Hell’s Angels. «Nice job, son» direbbe forse ul Ruberton, adattandosi all’inglese imperante nel suo Donetta reloaded.

Una delle numerosissime promesse non mantenute che me stesso ha ben pensato di fare a me medesimo è stata quella di tornare a viversi un’estate scolastica, nonostante quei tempi siano passati ormai da un po’ meno che un decennio. E sebbene io non sia riuscito a vestire costume e infradito da giugno a settembre – ma mi riprometto che il 2020 sarà nuovamente l’anno giusto per rivivere quelle emozioni – settembre sarà per me un ritorno ai compiti a casa. Se in questi giorni vi è capitato di passare da Roma, potrebbe esservi capitato anche di vedere una ragazza bionda in un contesto da annuario del college USA chiedervi se avete fatto i compiti a casa. Ecco, non è una delle campagne di sensibilizzazione della sindaca Virginia Raggi, grazie al cielo – anche se non vorrei mai essere uno studente romano in questi giorni, ricordando l’ansia del periodo – ma la promozione del nuovo nonché primo album di Marina. Marina altro non è che la fidanzata di Sick Luke, uno dei produttori più interessanti del genere. Ma davvero, definirla esclusivamente come «la fidanzata di» non è per nulla qualificante per lei e addirittura un tantino sminuente. Marina infatti è un’artista, una cantante, una di quelle voci che per sua sfortuna è troppo vicina al mondo del rap per essere considerata scevra da certi canoni, ma è troppo cantante per essere davvero apprezzata dal mondo del rap. Marina è una cantante, dicevamo, e la sua carriera artistica comincia quasi per caso – questo lo dico io ma magari verrò smentito – grazie a una partecipazione al pezzo Caramelle, uno dei primi brani davvero commerciabili dell’ormai celeberrima Dark Polo Gang. Da lì il fatto di avere letteralmente la musica in casa, ha fatto sì che Marina si cimentasse sempre di più nel canto, fino a pubblicare una manciata di singoli che la portano al primo album. Il titolo? Compiti a casa, per l’appunto, uscito il 6 settembre. Ma in che modo questi compiti a casa diventano per me degli obblighi settembrini, di un settembre che fa sì che il termometro ti faccia sentire ancora a luglio? Martedì 10 settembre Marina, Sick Luke e io – all’incontro parteciperà anche Lola, art director – ci incontreremo all’Apple Store di Milano, in Duomo, per discutere di questo disco, ma non solo. Moderare un incontro è sempre una responsabilità molto grande, almeno per il sottoscritto: bisogna comparire senza essere protagonisti, davvero un compito (a casa) molto difficile. Ma il motivo per cui scrivo queste righe non è ovviamente l’auto-promozione – anche perché l’evento è sold-out da pochi minuti dopo l’annuncio. Il motivo è sfogare l’entusiasmo per l’immaginarsi la musica che arriva a babbani del genere. Assisterò a Sick Luke che insegna a produrre a dei ragazzini. Forse è stato un bene avere dei compiti a casa, dunque.

Dove e quando

Doppio istante, Fotografie di Roberto Pellegrini, Corzoneso-Casserio, Casa Donetta. Orari: sa-do 14.00-17.00. Fino al 3 novembre 2019.

Marina, in arte Marïna.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 settembre 2019 • N. 37

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Cultura e Spettacoli

Le lingue immaginate

Informa

Babel 2019 Al festival di letteratura, intitolato Non parlerai la mia

lingua, in programma a Bellinzona dal 12 al 15 settembre, parteciperà anche lo scrittore toscano Paolo Albani. Lo abbiamo intervistato

Novità Aperte le iscrizioni ai corsi 2019-2020 (sport e formazione) È possibile iscriversi a tutti i corsi e le attività in programma, per mantenere in forma corpo e spirito. Numerose le proposte in programma in tutto il Ticino e nel Moesano. > Telefono 091 912 17 17 creativ.center@prosenectute.org

Alessandro Zanoli Paolo Albani, vorrei farle alcune domande che prendono spunto dai titoli dei suoi libri, così magari invogliamo i lettori ad andarseli a cercare. La prima è un po’ provocatoria, bonariamente: secondo lei un festival di letteratura non è un po’ un’Istituzione anomala?

Bah, devo dire che io ho una buona opinione dei festival della letteratura perché anche se ormai c’è un festivalismo forse un po’ eccessivo, dilagante, queste occasioni sono sempre degli strumenti abbastanza utili per invogliare alla lettura. Per cui sì, li vedo abbastanza bene...

Festeggiamenti 40° anniversario Centro diurno di Massagno Nel 2019 il centro diurno compie 40 anni. Il centro, voluto dal Municipio di Massagno, è stato poi ripreso da Pro Senectute dal 2016. Venerdì 6 settembre sono iniziati i festeggiamenti che dureranno fino a fine mese. Maggiori informazioni sul sito internet. > www.prosenectute.org

Quindi, nel grande novero di cose inutili del mondo, i festival di letteratura non sono i peggiori?

Non sono i peggiori anche perché tutte le volte che ci sono stato ho visto partecipare anche un sacco di giovani e poi c’è questa cosa importante, ovvero, che a volte si paga per entrare, e quindi non è che si va a sbafo a sentire l’autore.

Attività e prestazioni

Visto dalla parte di voi autori è un’occasione interessante per avere un contatto reale con il vostro pubblico?

Corsi per l’utilizzo dello smartphone e del tablet Avete acquistato un nuovo smartphone o un tablet e volete imparare in sicurezza? I nostri corsi, impartiti da insegnanti competenti, vi aiutano ad imparare l’utilizzo di questi mezzi in piccoli gruppi. Corsi di 3 lezioni per principianti e a seguire corsi di approfondimento tematici. > Telefono 091 912 17 17

Assolutamente. C’è anche questo aspetto. Da un lato c’è l’aspetto positivo in cui conosci un sacco di gente, incontri amici e altri scrittori, si mangia si beve ecc. Però sì, ecco, ripeto, al festival della letteratura di Mantova sono stato un paio di volte e sono rimasto sempre un po’ scioccato dal fatto che a cinque minuti dal termine del tuo intervento la gente scappava perché doveva andare da un’altra parte. «C’è Dario Fo tra cinque minuti...» e quindi diventava una cosa elefantiaca e molto stressante anche, da certi punti di vista. Però, insomma...

Ginnastica in palestra In molti Comuni del Cantone e del Moesano riprende la ginnastica per «over 60». Per le persone con leggere difficoltà motorie, proponiamo i gruppi di ginnastica dolce. Partecipate alle lezioni di prova (2) gratuite! > Per informazioni richiedere il programma corsi 20192020.

Quindi Babel sarà un’ottima occasione per i lettori di conoscere la sua produzione letteraria, la sua personalità come autore. Una personalità di autore che trovo molto sistematica, da studioso di metaletteratura. Lei cioè si è occupato quasi più di libri che di letteratura. Le interessa l’oggetto librario in sé.

Volontariato Siamo sempre alla ricerca di volontari in vari settori della Fondazione, in particolare cerchiamo persone disponibili per l’accompagnamento a domicilio nel Bellinzonese. Si richiedono sensibilità, costanza, rispetto e discrezione. > Telefono 091 912 17 17 volontariato@prosenectute.org

Si è vero, anche perché amo il libro anche come oggetto. Ho fatto anche dei libri d’artista e continuo a farli, quindi mi piace proprio nella sua concretezza... La forma del libro poi secondo me è importantissima. Ci sono delle forme molto strane. Ultimamente ho visto che Il Saggiatore fa dei libri non belli ma bellissimi. Ha fatto una Storia del buio che è un libro tutto nero: la copertina nera, i bordi neri... Ha fatto una cosa su Pagliarani, Tutte le poesie, di un formato enorme. L’ultimo che ho comprato è Il colore perfetto, la storia di questo amministratore delegato di una fabbrica di colori. Il libro ha una prefazione nientemeno che di Luigi Serafini. Io l’ho comprato per vedere la prefazione di Serafini e che cos’è ? È una prefazione nello stile di Serafini quindi con tutta la sua scrittura completamente inventata, grafica, bellissima. E c’è nella copertina un affare che gira, che cambia colore con una rondella. Bellissimo. Sono impazziti probabilmente, perché quelle cose costano moltissimo.

Pasti a domicilio in tutto il cantone Per un’alimentazione sana ed equilibrata a casa propria. Il nostro centro di produzione pasti di Lugano-Besso è disponibile per organizzare catering a enti, scuole e privati, con servizio regolare oppure per eventi particolari.

Contatto Pro Senectute Ticino e Moesano, Lugano Via Vanoni 8/10, 6904 Lugano Telefono 091 912 17 17, info@prosenectute.org Le nostre sedi regionali si trovano anche a: Balerna, Bellinzona, Biasca e Muralto

Allora parliamo pure di Serafini. Lei lo incontrerà a Bellinzona, al Teatro Sociale sabato 14, alle 14.00. Può darci un’anticipazione sul vostro incontro?

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www.prosenectute.org

Allora se vuole la verità, la dico alla Bartezzaghi: Non ho la più pallida idea di quello che faremo! Improvviseremo, immagino. Parleremo di invenzione linguistica... Lui parlerà del Codex Seraphinianus, io parlerò un po’ più in

Scrittore, poeta e performer, è nato a Marina di Massa nel 1946. (babelfestival.ch)

generale delle lingue inventate e poi, non lo so, pensavo di fare anche dei riferimenti al tema del festival, cioè alla traduzione delle lingue inventate, che, insomma, è un tema importante. Terrò al proposito un laboratorio con Camille Luscher, domenica 15 alle 10.00, sempre al Sociale.

Vista questa vostra vicinanza vorrei chiederle di rivelarmi un segreto: ma esiste un senso dietro ai testi del Codex di Serafini?

No, assolutamente no. E le confido anche che sono contentissimo di questo incontro perché non lo conosco personalmente, è la prima volta che ci vediamo. Oltre a questo sono emozionatissimo per la presenza a Bellinzona di Irvine Welsh. Ho visto i suoi due film... Poi c’è Fabio Pedone, che è un carissimo amico, quello che ha tradotto Finnegans Wake di Joyce. Son ben contento, poi parlare di lingue immaginarie, di lingue inventate è sempre interessante...

Ieri sono andato in biblioteca qui a Lugano, a cercare il suo Aga magéra difúra. Dizionario delle lingue immaginarie. Qualcuno ha annotato nel frontespizio del libro che mancano due lingue... Vuole sapere quali?

Ma ne mancheranno ben più di due... io ne tengo un file aggiornato.... Ho continuato ad aggiornarlo perché il libro è del 1999 quindi le cose cambiano... Comunque bisogna dire che con Berlinghiero Buonarroti non abbiamo usato limiti cronologici né di campo, quindi abbiamo spaziato dalle lingue internazionali ausiliari di comunicazione, tipo Esperanto, ecc., fino a tutte le altre usate in letteratura, teatro, musica...

Avete realizzato una tassonomia molto ben chiara, ben illustrata e estremamente interessante... e piacevolissima da leggere, tra l’altro. È molto bello anche Mirabiblia. Catalogo ragionato di libri introvabili, perché per un amante dei libri è un tuffo nella follia letteraria.

Sì... Ermanno Cavazzoni una volta mi ha detto: «Ah, Paolo, i tuoi libri mi piacciono moltissimo perché non parlano di nulla. Cioè dell’inesistente». Insomma, è per me un grandissimo complimento. Anche perché mi fa venire in mente una frase di Manganelli: in una quarta di copertina, non mi ricordo più in che libro, diceva «io sono un esperto di cose che non esistono». Questo è uno spirito che accomuna un po’ tutti voi tutti che scrivete per Quodlibet: un gusto per la ricerca del nonsenso, dell’umorismo, della metacomunicazione sui libri.

Sì, direi di sì. La cosa bella è poi che non è una collana specificatamente letteraria. Ci sono repertori, dizionari, cose strane, enciclopedie. Adesso Graziano

Graziani ha fatto quello sulle religioni nuovissime. Quindi, insomma, sì, è una collana... io non dovrei dirlo perché sono un autore e quindi può sembrare autoelogiativo, ma secondo me è una collana unica in Italia, molto bella, anche graficamente. In fondo è però anche un modo per scongiurare la seriosità che gira attorno al mondo della letteratura. Pensando anche a Umberto Eco: quando smetteva di essere professore aveva una vena goliardica che è simile alla vostra...

Assolutamente. A parte che l’Eco che adoro più di tutti è l’Eco delle Bustine di Minerva, dei piccoli interventi. Nei romanzi devo dire è un po’ troppo professoraccio... pieno di riferimenti dotti. Scrive ultra bene, anche troppo bene. Tra l’altro Eco ha sempre ammesso che scriveva i romanzi perché gli piaceva fare ricerca. Per scrivere Il nome della rosa ha dovuto contare i passi che un frate doveva percorrere per raggiungere la cella, perché tutto doveva essere plausibile... Il suo caso è particolare, perché piacendogli molto la ricerca questo si tramuta in romanzi che sono spesso un po’ pedanti. In collaborazione con

Gli ospiti dell’edizione 2019 di Babel Saleh Addonia Eraldo Affinati Paolo Albani Alan Alpenfelt Mariapia Borgnini Franca Cavagnoli Claudia Durastanti Michael Fehr Roberto Francavilla Roberta Gado Moshe Kahn Nunzio La Fauci Valeria Luiselli Camille Luscher Franco Nasi None of Them Fabio Pedone Luigi Serafini Elena Stancanelli Irvine Welsh Cristina Zamboni Christian Zehnder Giuliana Zeuli Info e programma completo

www.babelfestival.com


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 settembre 2019 • N. 37

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Cultura e Spettacoli Rubriche

In fin della fiera di Bruno Gambarotta Il professore e la tibia Torino città magica? Uno dei vertici del triangolo della magia nera, con Lione e Praga? Per vincere il mio scetticismo una cara amica mi gira pagine di giornale che raccontano una vicenda lontana nel tempo. È il 21 maggio 1946. «La Stampa», per poter riprendere le pubblicazioni, ha dovuto cambiare la testata, diventando «La Nuova Stampa». La seconda pagina è su nove colonne e le due di destra sono occupate dalle inserzioni pubblicitarie. Sulle rimanenti sette si trova di tutto: la cronaca locale, i cinema, il programma della radio, i necrologi, le cronache sportive. Sotto la sezione «cronaca cittadina» notiamo due articoli che fanno al caso nostro. Il primo, su una colonna, titola Incontro con l’impiccato nel buio della cantina. Gli abitanti di una casa in via Digione, allarmati da un urlo proveniente dalla cantina, accorrono e trovano una donna semi svenuta a terra, ai piedi di una trave da cui pende il corpo di un impiccato. Lei stava inseguendo un pulcino che si

era rifugiato nella cantina e lì, guardando a terra, era andata a sbattere contro il cadavere penzolante di un quarantenne che si era tolto la vita dopo avere appreso di essere affetto da un male incurabile. Ma il servizio destinato ad attrarre l’attenzione del lettore si trova al centro della pagina ed è sviluppato su tre colonne. Titolo: Il morto è venuto a riprendere le sue ossa. Nel testo si narra la disavventura di un «noto professore, un emerito studioso che da tempo vive a Torino». Vive da solo con una vecchia fantesca, con lui da più di 30 anni. Ignoriamo quale materia insegni né se sia vedovo o rimasto signorino. Tutto ha inizio nel 1920, la Prima guerra mondiale è terminata da due anni. Il professore in vacanza si trova sull’altipiano di Asiago dove combattendo sono morti migliaia di soldati. Passeggiando sotto la pioggia in un camminamento scorge nel fango una tibia umana. Dal dizionario: «tibia, osso lungo della gamba che, insieme alla fibula, ne costituisce

la struttura scheletrica». Il professore raccoglie la tibia e, invece di depositarla al cimitero più vicino, la porta a casa, a Torino. Per custodirla fa costruire da un artigiano un supporto d’oro con piedistallo d’argento e colloca il trofeo sullo scrittoio, accanto alla lampada, per avere sotto gli occhi, sostiene, «un costante richiamo alla fragilità umana». Facciamo un salto di 26 anni e arriviamo a domenica 19 maggio 1946. È sera e il professore ha riunito nel suo studio alcuni colleghi per parlare dei problemi della scuola. Quel singolare trofeo non manca di suscitare la curiosità nei presenti e il professore è felice di spiegarne l’origine e il messaggio. Alle 23 i colleghi si congedano e il professore, abitudinario come sempre, lavora nello studio fino allo scoccare della mezzanotte, segnale per lui che è ora di mettersi a letto, mentre la fantesca già da tempo si è rifugiata nella sua cameretta in fondo al corridoio. Il professore, senza un preciso motivo, è inquieto e stenta ad

addormentarsi e quando finalmente ci riesce piomba in terribile incubo. Sogna di essere ancora nel suo studio, in piedi accanto alla finestra sta guardando fuori dai vetri quando il cigolio della porta che si apre lentamente lo costringe a voltarsi. Nel vano uno scheletro umano gli sbarra la strada. Vorrebbe gridare ma nessun suono esce dalla sua bocca. Ha modo di notare che alla gamba sinistra dello scheletro manca la tibia e le ossa sono tenute insieme da una larga benda. Lo scheletro entra, si avvicina alla scrivania, afferra il trofeo, ne estrae la tibia, se la sistema addosso sul suo corpo e scompare, abbandonando sulla scrivania la benda che teneva insieme le sue ossa. Il sogno termina, sono le sette del mattino. Il professore si sveglia, è ansante, pallido, sudato. China su di lui, con aria preoccupata, la fantesca domanda: «Si sente bene professore? L’ho sentita gridare e ansimare nel sonno». «Non è niente, ho fatto solo un brutto sogno». Il professore si alza, indossa la

vestaglia e va nello studio. E lì lancia un urlo. Dalla scrivania è scomparsa la tibia con il suo sostegno e al suo posto c’è un largo cerotto. Riavutosi, il professore va a denunciare il furto al commissariato di zona. La polizia inizia a indagare ma senza risultati, non ci sono segni di effrazione alla porta dell’appartamento e la vecchia fantesca è al di sopra di ogni sospetto. La fine della storia l’apprendiamo dalla «Nuova Stampa» del 23 maggio. Titolo: Lo scheletro s’è tenuto la tibia e ha restituito il prezioso supporto. Verso le 12 e 30 del giorno prima la portinaia di via Carlo Alberto ha trovato sul tavolino accanto alla porta d’ingresso una piccola scatola di cartone recante nome e indirizzo del professore. Il quale, dopo averla aperta con comprensibile agitazione, ritrova il supporto della tiara e un biglietto: «Vi restituisco l’oro e l’argento che non interessano. La tibia è ritornata allo scheletro cui apparteneva e giace con le altre ossa, sotto terra, in un riposo eterno».

cuno forza la porta, arriva un infarto e chiamiamo i soccorsi. Non è difficile: cara nonna – ecco la pendola amata dal defunto nonno; non possiamo vivere col terrore che ti accada qualcosa di brutto – per esempio un malvivente che entra da questo balcone; siamo tutti molto impegnati – come dimostra questo tavolo pieno di carte, fossero anche dei «gratta e vinci»; facci questo piacere – buono come il rosolio che è sul tavolo; accetta di aver bisogno di aiuto – guarda il gatto che cerca attenzioni. Facile, no? Per quanto distratti, possiamo serenamente parlare alla nonna. L’esempio però non è calzante, troppo facile pensare a «cose» che somigliano a ciò che si vuole dire. La retorica imponeva invece un balzo verso l’astrazione. Ogni idea, ma anche ogni interiezione, ogni emozione, poteva essere associata a «cose» che occupano spazio fisico, aiutando quello mentale. Cara nonna, e penso al cancello della tua villetta (non è quella stordita della

nonna di Cappuccetto Rosso); abbiamo paura per te, una paura diffusa come le pietre del vialetto; i cattivi esistono, gli sfruttatori di nonne, e questo vorrei associarlo alla casella della posta, alla fine del vialetto. Siamo impegnati dalle richieste della vita, lavoro, famiglia, e questo pensiero lo associo al lampione, non c’entra nulla, ma mi aiuterà a ricordare. Cara nonna, non ci far preoccupare, questo lo collego alla porta di casa, perché viene dopo il lampione, senza altri motivi. Immaginiamo questo gioco applicato alla difesa o all’accusa nei processi. Oppure a qualunque genere di discorso astratto che si voglia ricordare. Non esiste idea senza una sua visualizzazione. I platonici erano disturbati da questa incapacità dell’umano per l’astrazione pura. Gli schiavi della Repubblica, anche se liberati dalle catene della caverna, potranno raggiungere e guardare il vero solo passando attraverso questa strana, ma geniale

soluzione. In cima alla buia caverna, un fuoco gioca con oggetti portati in spalle da uomini o insomma da personaggi che hanno solo questa funzione, avere sulle spalle oggetti la cui ombra raggiunge lontanamente gli schiavi incatenati laggiù, si fa più evidente a chi osa liberarsi dalle catene e faticosamente risalire. Verso la luce? No, non subito almeno, verso il sole. Piuttosto verso le ombre di questi oggetti. Spesso questo, diciamo così, intermezzo, disturba l’esegesi. Invece, per quanto stiamo dicendo, è importante ricordare che la nostra conoscenza e la memoria di questa ha bisogno di «cose». Andrà come andrà, questo mondo virtuale, ma è chiara la necessità di vedere, toccare, assaggiare per ricordare. Almeno per noi antichi, auguri a chi non potrà usare cose per pensare, perché, le news, l’agenda, le mail, sono abbastanza uguali tra loro. Poi se qualcuno nel web trova i miei libri, potrebbero essere utili.

tualmente da deridere, un po’ anche da compatire, se si può da eliminare. Vedi a questo proposito il romanzo di Giacomo Papi Il censimento dei radical chic (Feltrinelli, 5+), il cui incipit la dice lunga: «Il primo lo ammazzarono a bastonate perché aveva citato Spinoza durante un talk show». È vero che gli esperti a volte non mancano di parlare ex cathedra con tono presuntuoso, ma ormai è di gran lunga più frequente la presunzione degli incompetenti. Da buon radical chic qual è, Serra scriveva, a sostegno di Michela Murgia (e di sé stesso) parole sacrosante: «Ma leggere è fatica e lavoro, scrivere è fatica e lavoro, imparare è fatica e lavoro, la cultura è fatica e lavoro, migliorarsi è fatica e lavoro, emendarsi da quella bestia che siamo è fatica e lavoro. È ora di rivendicare i libri letti come i calli sulle mani, smettendola di farsi carico del complesso di inferiorità degli ignoranti come se l’ignoranza fosse un problema di chi ha letto, non un problema di chi non ha letto. Hanno avuto il tempo e la ma-

niera per diventare più bravi, più colti e perfino più snob». Senonché diceva quelle parole sulla «Repubblica», lo stesso quotidiano che adesso promette agli incompetenti di assurgere al rango di critici letterari, qualifica prestigiosa che un tempo costava fatica, letture, analisi, studio, cultura, lavoro, autorevolezza. Anche questo, purtroppo, è populismo, la stessa falsa democrazia diretta della Piattaforma Rousseau. E non è affatto detto che il populismo culturale sia meno nocivo del populismo politico dei 5 Stelle o di quello pseudoscientifico dei No-Vax. Per esempio, ecco la pletora di libri dei blogger e youtuber, meglio se adolescenti o appena pre- o appena postadolescenti, come la diciannovenne Sofia Viscardi seguita su Youtube da 750 mila adepti, su Facebook da oltre 100 mila, su Twitter da più di 300 mila followers, su Instagram da un milione e mezzo di seguaci: il suo primo libro, intitolato Succede (Mondadori) ha venduto 100 mila copie. Si dirà: è sempre accaduto che il suc-

cesso della soubrette, dell’attore, del calciatore, del cantante, del politico venga sfruttato per un potenziale successo editoriale. Quanti attoriscrittori, comici-scrittori, balleriniscrittori, cantanti-scrittori, sportiviscrittori, politici-scrittori hanno sempre popolato le classifiche dei libri da che mondo è mondo e da che classifica è classifica. Già, ma quel che non accadeva prima e accade adesso è che il successo non viene misurato sulla qualità: il successo è già in sé ritenuto qualità, in assenza di una critica che si prenda la responsabilità di distinguere. E anche se quel tipo di critica ci fosse, sarebbe subito accusata di avere la puzza sotto il naso, di essere l’espressione del salotto radical chic. Molto meglio la spontaneità dei critici letterari improvvisati chiamati a raccolta sulla pubblica piazza. O convocati a fare clic sulla piattaforma digitale. Ora tocca ai critici cinematografici, teatrali, musicali, gastronomici… Che i giornali diventino concorrenti di TripAdvisor? Grande idea (2).

Postille filosofiche di Maria Bettetini L’ordine (disordinato) dei pensieri Infine è successo: con due magici clic ho cancellato tutto lo storico delle mail. Poi, nel giro di poche ore, zelante ho fatto un backup, nel computer imprestato perché il mio si è rifiutato di accendersi (forse scandalizzato dai miei clic). Ho salvato i dati di colui che ha fatto il prestito, ho perso tutto quello che io avevo scritto e salvato per anni. Mi viene da piangere? No, perché perdere tutto è un modo per ricominciare, e poi qui e lì qualcosa ritroverò. I miei libri non esistono perché sono in una cartella, ma perché qualcuno li sfoglia e legge. Gli articoli, per «Azione» o per altri giornali: se vi piacciono, li ritagliate, lo so. Quando insegnavo a Ca’ Foscari, ho fatto un viaggio con una coppia di simpatici, e attempati, ticinesi, per caso. Stavano appunto ritagliando qualcuno dei nostri lavori. Le relazioni mi interessano vive, occhi negli occhi. L’agenda? Se non scrivo con penna o matita non ricordo alcunché. Cielo, come sono antica, retrograda. Ma

credo di essere in buona compagnia. Gli antichi definivano la memoria come una città, un palazzo, dove ogni cosa aveva un suo posto «fisico». La retorica, in questo l’avvocato Cicerone fu un grande maestro, insegnava a dare un nome e un volto alle idee. Consigliava, senza inventare nulla, ma rendendo l’idea ben chiara, consigliava dunque di immaginarsi dentro una stanza, oppure di percorrere una strada nota. Se si fosse riusciti a dare alle cose l’ordine dei pensieri, il discorso sarebbe stato ordinato e convincente. Mettiamo in pratica l’esercizio, senza fatica utilizziamo l’ambiente dove ci troviamo. È la nostra stanza, lo studio, il giardino, oppure la via che percorriamo per andare in ufficio, la solita. Poi mettiamo insieme alcune idee. Per esempio, vogliamo convincere la nonna dell’utilità di avere un salvavita, un apparecchietto che permette di dare l’allarme per problemi di salute o di delinquenza, entra un ladro, qual-

Voti d’aria di Paolo Di Stefano L’onta del radical chic È uscito sulla «Repubblica» un «Avviso (invito) per chi ama leggere» che annuncia: «Vogliamo fare recensire i libri di cui si parla (e anche quelli di cui non si parla) direttamente a te». L’obiettivo è far diventare critico letterario il lettore comune. Il giornale che più di qualunque altro ha giustamente inveito contro l’incompetenza al potere e l’improvvisazione in politica, deridendo le numerose gaffe di certi ministri e sottosegretari, apre una sorta di Piattaforma Rousseau per la letteratura. Come se la letteratura non richiedesse, per un giornale che ne scrive, la stessa competenza che richiedono la politica o la scienza. Viviamo, come scriveva nella sua «Amaca» (6–) Michele Serra pochi mesi fa, «in tempi di tramonto delle élite e di cattedre traballanti». È un’epoca in cui l’autorevolezza degli esperti è in crisi e l’arroganza degli ignoranti trionfa. Lo stesso Serra, in una memorabile puntata della sua rubrica, riprendeva una risposta della scrittrice Michela Murgia a Salvini che la accusava di essere una radical chic,

epiteto che viene affibbiato non di rado a chi non si vergogna di leggere, magari di studiare, magari di scrivere dei libri, magari di presentarsi come un intellettuale, cadendo così nel fatale sospetto di essere di sinistra. Non c’è calunnia più infangante. Disonesto? No, peggio, radical chic. Depravato? No, peggio, radical chic. Evasore fiscale? No, peggio, radical chic. Mascalzone bugiardo? No, peggio, radical chic. Assassino? No, peggio, radical chic. Naturalmente esagero, ma è per dare l’idea della gravità dell’accusa, forse pari soltanto all’improperio degli improperi, cioè l’onta del «buonismo». Il radical chic (formula coniata dallo scrittore americano Tom Wolfe nel 1970) sarebbe, secondo i suoi detrattori, colui il quale fa il rivoluzionario da salotto senza sporcarsi le mani, guarda dall’alto le masse e prende posizioni snob e moralistiche senza capire gli umori del popolo. Dal momento in cui sei stato colpito dall’infamia di essere un radical chic diventi un untore da tenere a opportuna distanza, even-


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