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Società e Territorio Il fisico e specialista dei sistemi complessi Alessandro Vespignani nel suo ultimo libro spiega il potere degli algoritmi
Ambiente e Benessere Il cardiologo Alessandro Del Bufalo prende spunto dal XXI Simposio di cardiologia della Regio Insubrica «Il vino per il nostro cuore» che si svolgerà il 16 ottobre a Lugano, per spiegare pregi e rischi di questa bevanda alcolica
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXII 14 ottobre 2019
Azione 42 Politica e Economia Ecuador, tumulti contro l’austerity. Il popolo si sente tradito dalla sinistra di Moreno
Cultura e Spettacoli Al Palazzo Reale di Milano si celebra l’artista «divisivo» Giorgio de Chirico
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di Caracciolo, Rampini, Marino pp. 29, 30, 31
AFP
Erdogan marcia in Siria
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Ora la crisi è istituzionale di Peter Schiesser L’inchiesta preliminare per un eventuale impeachment del presidente americano ha assunto la settimana scorsa nuove dimensioni: il braccio di ferro politico tra Donald Trump la Camera dei rappresentanti, in cui i democratici hanno la maggioranza, si è trasformato in crisi istituzionale. La Casa Bianca ha ordinato a Gordon Sondland, ambasciatore USA presso l’UE e personaggio chiave nella vicenda delle pressioni di Trump sul presidente ucraino Zelensky affinché indaghi sul suo concorrente alle presidenziali Joe Biden, di non testimoniare davanti alle commissioni del Congresso e ha annunciato che non collaborerà nell’inchiesta. Così facendo l’Amministrazione Trump lede il diritto del Congresso a indagare sulle azioni del presidente, un potere riconosciutogli dalla Costituzione. La questione – e per questo i giuristi negli Stati Uniti parlano di crisi istituzionale – è che «la Costituzione non fornisce una risposta definitiva a questo problema di fondo di governance» (così il professore di diritto costituzionale americano Noah Feldman sul «New York Times»), e il Congresso non ha gli strumenti concreti per imporre a Trump di
collaborare, non può inviare degli agenti per arrestare il presidente. La Camera dei rappresentanti, scrive ancora Feldman, ha una sola arma: aprire formalmente un’inchiesta per impeachment, ma anche in quel caso è dubbio che la Casa Bianca decida di collaborare. L’unica istanza che può dirimere la questione è la Corte suprema, dove c’è una lieve maggioranza di giudici di fede repubblicana, ma per evitare un verdetto partigiano in favore di Trump i giudici potrebbero decidere di non decidere. Si resterebbe nell’impasse, o nel caso peggiore avremmo una sentenza non al di sopra delle parti. La Casa Bianca rifiuta di collaborare perché le commissioni del Congresso non intendono invitare testimoni a favore di Trump, ritiene quindi che l’inchiesta preliminare sia anticostituzionale. Ma secondo i giuristi americani questa motivazione non tiene, poiché la legge lascia libera scelta al Congresso su chi ascoltare. Piuttosto, la convinzione diffusa è che questa di Trump è una precisa scelta: di portare il conflitto fuori dalle aule del potere e farne un elemento della sua campagna per la rielezione a presidente (si vota nel novembre 2020). Nel ruolo di vittima che però non si arrende, il presidente può serrare le fila e galvanizzare i suoi, mantenendo al contempo
sulla sua linea i deputati repubblicani al Congresso e intimorendo i deputati democratici più tiepidi sull’impeachment che l’anno prossimo a novembre vogliono essere rieletti, candidati in giurisdizioni che quattro anni fa votarono per Trump. Vista anche l’insistenza della Casa Bianca di voler trovare informazioni compromettenti sul figlio di Joe Biden, in base a teorie che in passato erano emerse solo in frange complottistiche, senza alcuna base di credibilità, possiamo prevedere che lo scontro con la Camera dei rappresentanti e la battaglia elettorale saranno condotti senza esclusioni di colpi, con vagonate di fango, incuranti degli equilibri istituzionali che sostengono lo stato di diritto americano. Se anche Trump dovesse risultare perdente, i danni non saranno solo momentanei, ne soffrirà la credibilità del sistema democratico statunitense e questo potrebbe spalancare le porte a futuri presidenti ancora più disruptive di Trump. Ma anche i suoi avversari non stanno fermi: venerdì sono stati arrestati tre personaggi legati all’Ucraina e vicini all’avvocato di Trump Rudolph Giuliani, vero regista della vicenda USA-Ucraina, per violazioni della legge sui finanziamenti elettorali – un pretesto per poterli poi interrogare sul Kievgate?
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 14 ottobre 2019 • N. 42
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Società e Territorio Un interlocutore virtuale Gli assistenti vocali come Alexa e Siri sono sempre più popolari e più evoluti
La voce della musica popolare La Vox Blenii festeggia 35 anni di vita, un’occasione per sottolineare il grande lavoro di ricerca e di salvaguardia del canto popolare
Giornalismo o comunicazione Quella del giornalista è una professione sempre meno attraente in Svizzera e in molti l’abbandonano per dedicarsi ai servizi di comunicazione pubblici o privati
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Il potere degli algoritmi Tecnologia 1 Siamo costantemente
accompagnati da applicazioni che riescono a leggere nella nostra mente e a guidare quello che facciamo. Il fisico e guru dei sistemi complessi Alessandro Vespignani spiega perché queste formule ci riguardano da vicino
Stefania Prandi Dal navigatore quando siamo alla guida di un’automobile, alle piattaforme di musica e di film, alle pratiche che inoltriamo per chiedere un’ipoteca, le nostre vite sono governate dagli algoritmi. La parola in sé può lasciarci indifferenti oppure suscitare ritrosia e invece dovremmo imparare a considerarla nel dettaglio. Dovremmo sforzarci di guardare da vicino gli algoritmi, cioè «le regole che definiscono una sequenza di operazioni che usiamo per identificare tendenze, trovare associazioni, estrarre le leggi e le dinamiche alla base di fenomeni sociali». Un primo passo può essere quello di leggere L’algoritmo e l’oracolo (Il Saggiatore) del fisico italiano Alessandro Vespignani, professore alla Northeastern University di Boston, negli Stati Uniti, e guru dei sistemi complessi. Il libro permette di addentrarsi nell’identificazione di tutte le definizioni che siamo abituati ad ascoltare senza soffermarci, da machine learning (l’uso di algoritmi in grado di ricevere una serie di dati e di apprendere da soli, modificando le formule man mano che trovano schemi e associano dati) a neural network (algoritmi basati su un modello semplificato del cervello umano). E fornisce le nozioni base per capire quanto la tecnologia ci stia governando e condizionando. «Siamo costantemente accompagnati da un mondo di applicazioni che riescono a leggere nella nostra mente e a guidare quello che facciamo. A chi è giovane abbastanza da essere sempre stato in possesso di uno smartphone può sembrare scontato che ci siano così tanti strumenti pronti per aiutarci: tutto questo è innegabilmente comodo. Dobbiamo però constatare che siamo di fronte a sistemi che possono portare a distorsioni inevitabili. E soprattutto dobbiamo pensare che chi possiede la conoscenza per creare algoritmi capaci di influenzare milioni di persone, come già avviene,
attraverso piattaforme culturali, commerciali e di socializzazione, ha un enorme potere». Così spiega Vespignani, raggiunto via Skype da «Azione» nel suo laboratorio negli Stati Uniti, un grande open space di pareti di vetro dove lavora col suo gruppo di ricerca. Scienziati, politici, fisici, matematici, economisti, informatici di nazionalità diverse che si incontrano quotidianamente per discutere di problemi relativi a dati, reti, sistemi biologici e sociali e predittivi (sono gli oracoli della nostra era): dalle diffusioni di epidemie come quella di Zika in America Latina alle copie che venderà un libro appena pubblicato. Questo tipo di previsioni, possibili grazie agli algoritmi, sono utilizzate non soltanto dai governi, nel caso delle pandemie, o dalle case editrici, per romanzi e saggi, ma anche dai giudici americani (lo scandalo del sistema COMPAS, uno dei tanti algoritmi usati per prevedere il rischio che un imputato commetta nuovamente un reato, è diventato negli anni scorsi di dominio pubblico dopo l’inchiesta dell’associazione di giornalismo investigativo «ProPublica») e dalle squadre sportive. Vespignani racconta che nel calcio l’intelligenza artificiale viene usata per scremare la lista dei candidati ideali a ricoprire un determinato ruolo e per evitare infortuni muscolari durante l’allenamento, avvisando il mister prima che sia troppo tardi ed evitando perdite milionarie. Al Barcellona, da 2 anni, lavora un gruppo di data scientists che aiuta la squadra a elaborare le tattiche giuste per ogni partita. Anche nell’arte si fanno previsioni. Si vaticinano le carriere degli artisti. Attraverso l’analisi di quasi 500mila mostre in 16mila gallerie e una serie di altri dati che includono compravendite, aste, musei in 146 paesi del mondo nel corso di 36 anni di storia, sono stati stabiliti i parametri che indicano se un artista avrà successo e in quanto tempo. Secondo questi parametri, chi ha avuto la possibilità di debuttare nel 20 per
Siamo accompagnati da un mondo di applicazioni: tanti comodi strumenti ma le distorsioni sono inevitabili. (Marka)
cento delle istituzioni più prestigiose a livello internazionale avrà vita facile, mentre chi ha iniziato in musei o gallerie di serie B e dopo 10 anni non ha ancora sfondato è da considerarsi fuori dai giochi. Soltanto 240 artisti presi in esame, lo 0,048 per cento del campione (meno di uno su 10mila), sono riusciti a emergere dal basso. Ma è davvero una consuetudine che per puntare su un artista, uno scrittore, un calciatore ci si basi sugli algoritmi? «Certamente, questa è la realtà che stiamo vivendo» dice Vespignani senza la minima esitazione. «È chiaro, pensando ad esempio ai libri, che se una casa editrice punta molto denaro su un certo romanzo, investendo nella promozione, mette in atto il meccanismo della profezia che si auto-avvera. E così facendo scarta una serie di altre
possibilità che magari avrebbero potuto comunque essere valide». Secondo il ricercatore «non c’è modo di sottrarsi a questo sistema, ormai è impossibile» e quindi non ci resta che regolarlo. «La tecnologia, dal mio punto di vista, non rappresenta una deriva inarrestabile che ci porterà alla distruzione. Questo tipo di sospetto c’è sempre stato davanti a ogni grande rivoluzione tecnologica». Si pensi ad esempio all’invenzione della stampa di Gutenberg (nel 1455 uscì il primo libro stampato). I tradizionalisti credevano che la divulgazione di testi accessibili a fasce più ampie di popolazione avrebbe avuto conseguenze nefaste. Al di là delle opinioni individuali, è un dato di fatto che usando computer e smartphone interagiamo continuamente con la rete e produciamo una
serie di informazioni che ci riguardano. Per avere un’idea, si stima che ogni giorno vengano creati due Exabyte e mezzo di dati, equivalenti a una torre di oltre mezzo milione di dvd uno sopra l’altro. Cercare di non lasciare tracce in rete è praticamente impossibile a meno di decidere di andare a vivere in una delle pochissime aree remote rimaste sulla terra, senza contatti con l’esterno. «Invece di ragionare con una mentalità novecentesca, bisogna informarsi per capire cosa si può fare per controllare e regolamentare il sistema, senza lasciare agli esperti del settore decisioni che hanno un impatto incredibile sulle nostre vite. Tutti devono entrare nel merito di questi temi, non occorre essere degli scienziati per riuscirci. La consapevolezza è la vera arma a nostra disposizione».
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 14 ottobre 2019 • N. 42
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Idee e acquisti per la settimana
Il buon pane ticinese
Attualità Il Pane Passione Classico è prodotto con cereali ticinesi al 100%.
Abbiamo incontrato il panettiere Mauro Pizzagalli, che ogni giorno produce questa croccante delizia presso la panetteria della casa di S. Antonino come pure una lenta lievitazione permettono infine di valorizzare al meglio il prodotto, ottenendo un pane di qualità.
Mauro Pizzagalli di fronte alla panetteria della casa di S. antonino con alcune pagnotte di Pane Passione Classico appena sfornate. (Vincenzo Cammarata)
Il Pane Passione Classico è un pane a base di farina chiara, panificato a partire esclusivamente da cereali ticinesi coltivati secondo i criteri di IP-Suisse sul Piano di Magadino e nel Mendrisiotto. La macinatura del frumento è effettuata presso il Mulino di Maroggia. La lavorazione è infine affidata alle abili mani dei panettieri Jowa che assicurano un risultato finale ottimale: un pane genuino e dal sapore caratteristico. Abbiamo fatto quattro chiacchiere con uno di loro. Mauro Pizzagalli, perché ha scelto la professione di panettiere?
Quali sono i suoi segni distintivi?
Già da bambino appena entravo nella panetteria vicino a casa restavo catturato dal profumo di pane fresco e dalla scelta di bontà appena uscite dal forno. Dopo le scuole dell’obbligo non ho avuto dubbi nel scegliere questo mestiere che giorno dopo giorno mi regala sempre molte soddisfazioni. Come si ottiene un buon Pane Passione?
Innanzitutto con l’impiego di ottime materie prime, come di fatto lo sono quelle provenienti dal nostro territorio. Una lavorazione della pasta attenta e scrupolosa, fatta perlopiù a mano,
Il Pane Passione Classico è un pane che si distingue per il suo carattere rustico, la crosta croccante e la mollica ben porosa. Il suo sapore pronunciato, ma al contempo delicato, ne fa un prodotto molto versatile per il consumo quotidiano. Gli abbinamenti più azzeccati?
Il Pane Passione è un prodotto molto versatile che può essere consumato quotidianamente con una miriade di ingredienti, sia dolci che salati. In questo periodo è per esempio perfetto per accompagnare una fumante zuppa di zucca, un minestrone di verdure alla ticinese oppure un bel pezzo di formaggio dei nostri alpeggi. Quali sono i suoi pani preferiti?
Sicuramente il Pane Passione Classico figura spesso tra le mie scelte, tuttavia ho anche una particolare predilezione per il pane Val Morobbia.
Marchio Ticino regio.garantie: una garanzia di sicurezza e genuinità per tutti Perché il ruolo del consumatore è fondamentale?
Le settimane dei Nostrani Fino al 28 ottobre i prodotti locali saranno protagonisti nei supermercati Migros con diverse azioni e degustazioni speciali
Pane Passione Classico 420 g Fr. 3.– invece di 3.80 Azione dal 15 al 21.10
Che cosa rappresenta il Marchio Ticino regio.garantie?
Il Marchio Ticino regio.garantie è l’unica certificazione in Ticino controllata e riconosciuta a livello federale che attesta la provenienza di territorialità dei prodotti. Questa certificazione, richiesta per ogni singolo articolo dell’assortimento «Nostrani del Ticino», la possono ottenere unicamente quei prodotti che sottostanno a specifici e severi controlli aziendali* che ne attestano così anche la tracciabilità.
Il Marchio Ticino regio.garantie, di proprietà del cantone e gestito dall’Unione Contadini Ticinesi, oltre a certificare i prodotti e la filiera di produzione, è ambasciatore anche di un’economia eco-sostenibile e socialmente attenta alle necessità di tutti coloro che nel territorio vivono e operano. Preferire i prodotti a Marchio Ticino regio.garantie significa mangiare sicuramente sano, e con gusto, garantire occupazione, ridurre l’emissione di CO2, salvaguardare la biodiversità, oltre che le nostre tradizioni e la cura del paesaggio. Ecco perché scegliendo un prodotto stagionale e regionale, come quelli dei «Nostrani del Ticino», possiamo essere sicuri di fare la scelta giusta.
Dove possiamo trovare i prodotti a Marchio Ticino regio.garantie?
Oggi troviamo facilmente i prodotti a Marchio Ticino regio.garantie nelle filiali di Migros Ticino che, con oltre 300 prodotti, dispone del più ampio assortimento di tipicità della nostra regione. www.marchioticino.ch * =Il prodotto non composto (es. la verdura) deve essere interamente a base di materie prime ticinesi, mentre per il prodotto composto (es. lo yogurt) la percentuale degli ingredienti deve essere di almeno l’80% del peso. Inoltre, per la produzione o la trasformazione dello stesso, almeno 2/3 del valore aggiunto deve essere generato in Ticino. La certificazione è assicurata da alpinavera (organizzazione riconosciuta a livello nazionale, che promuove e favorisce lo smercio di prodotti regionali).
La raclette del Gottardo
Attualità Gli amanti di uno dei piatti
nazionali per eccellenza trovano la versione locale della specialità
Dopo il successo fatto riscontrare presso la clientela lo scorso inverno, i reparti formaggio di Migros Ticino hanno reintrodotto anche quest’anno la raclette nostrana. L’aromatica specialità è prodotta dal Caseificio Dimostrativo del Gottardo ad Airolo, a oltre 1100 metri di altezza, ispirandosi alla grande tradizione dei vicini vallesani, ma con un tocco tutto ticinese. Per produrre il formaggio viene utilizzato latte vaccino di montagna pastorizzato della regione Leventina. Dopo un’attenta cura nella lavorazione della cagliata, il formaggio
viene posto a maturare per almeno 5 mesi in locali appositi, ben aerati e ad una temperatura e un’umidità costanti. Questo formaggio completa alla perfezione un vassoio di formaggi misti svizzeri da raclette e, come da tradizione, si serve con contorni quali patate lesse con la buccia, cetriolini, cipolline, pannocchiette di mais, affettati misti e altre guarnizioni a piacere. Raclette del Gottardo 100 g Fr. 3.– In vendita presso le maggiori filiali sia al banco casaro che a libero servizio
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 14 ottobre 2019 • N. 42
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Idee e acquisti per la settimana
La sella di capriolo
Attualità Un gustosissimo piatto che non lascia nessuno indifferente
Se l’appetito di carne di selvaggina vien con l’autunno, i buongustai sanno che rivolgendosi alla Migros possono arricchire le proprie tavole con tante specialità stagionali di cervo, capriolo e cinghiale. Una di queste si distingue per la sua straordinaria gustosità e tenerezza, come pure per il modo con cui viene servita accompagnata dai suoi classici contorni: la sella di capriolo alla Baden-Baden. Questa città termale tedesca è situata nella Foresta Nera, regione celebre per i suoi paesaggi sempreverdi e per la ricchezza della sua cucina, considerata una delle migliori della Germania, dove predominano bontà a base di prodotti della foresta quali funghi, frutti di bosco, verdure, pesce fresco… e appunto cacciagione. La sella di capriolo è diventata un grande classico autunnale anche nella nostra regione, dove per trovare un tavolo nei ristoranti che la propongono bisogna spesso prenotare con largo anticipo. E allora perché non provare a prepararla a casa propria, approfittando dell’azione speciale di cui è oggetto questa settimana nelle nostre filiali? Servita con i suoi tradizionali e irrinunciabili contorni quali pere al vino rosso, confettura di ribes, spätzli, castagne caramellate, cavolo rosso, cavolini di Bruxelles… sarà come essere nel migliore dei ristoranti.
La ricetta Azione 20%
sulla Sella di capriolo, Austria, al banco a servizio, 100 g Fr 3.75 invece di 4.70 dal 15 al 21.10
Sella di capriolo Ricetta per 4-6 persone 1 sella di capriolo di ca. 2 kg Preparazione 1. Togliere accuratamente la membrana fibrosa dai controfiletti della sella. Separare gli stessi dall’osso centrale, condirli con sale, pepe e erbette (timo, rosmarino) anche all’interno e legarli con uno spago in più punti. 2. Rosolare la sella rapidamente da tutti i lati in una padella con olio e mettere nel forno preriscaldato a 200-220° per 10-12 minuti. Nel frattempo sciogliere 50 grammi di burro in un padellino, con aggiunta di timo, rosmarino e qualche bacca di ginepro schiacciata. 3. Togliere la sella dal forno, tagliare lo spago e irrorarla con il burro condito con le erbette. Rimettere la sella nel forno spento e con la porta semiaperta per circa 10 minuti. Staccare completamente la carne dall’osso, tagliarla a fettine e disporre su piatti preriscaldati. 4. Per il contorno le possibilità sono molte: dagli spätzli fatti in casa, magari con l’aggiunta di farina di castagne, alle crocchette di polenta, al gratin di patate e mele, alla purea di patate e zucca, o tagliatelle. Infine guarnire con cavolo rosso in umido, castagne caramellate, mezze mele o pere sbollentate e confettura di ribes, ecc. Per la salsa, va bene una salsa ai funghi, il fondo di cottura affinato, oppure semplicemente un filo di burro fuso.
la sella di capriolo con i suoi classici contorni. (Flavia Leuenberger Ceppi)
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Società e Territorio
Un compagno virtuale per la vita
Notizie brevi
Tecnologia 2 Gli assistenti vocali come Alexa e Siri hanno fatto la loro apparizione
nelle nostre vite alcuni anni fa. Oggi sono sempre più popolari e «umani»
Stefano Castelanelli Lymington, Inghilterra. L’estate sta volgendo al termine. Nella città portuale britannica, due ore d’auto a sud-ovest di Londra, gli ultimi turisti passeggiano tra gli edifici georgiani e le strade acciottolate della città vecchia. Al molo i pescherecci scaricano il pescato del giorno. Anna Hector è appena tornata a casa dalle vacanze. Ha visitato una sua cara amica in Ticino. Era la prima volta che viaggiava in Svizzera. Le è piaciuta molto. Ha adorato in particolare le escursioni in montagna e l’atmosfera accogliente delle serate al Film Festival di Locarno. Dopo aver disfatto le valigie, le è venuta fame. Si dirige in cucina a preparare qualcosa per cena. Suo figlio Eden è di sopra nella sua stanza a giocare al computer. «Alexa – dice Anna a voce bassa – suonami un po’ di musica rilassante». «Ho la musica giusta per te» risponde Alexa e fa partire una playlist che crea un’atmosfera piacevole nella stanza. Anna ama cucinare con un po’ di musica rilassante in sottofondo e Alexa trova sempre la musica giusta. Quando la cena è pronta, Anna estrae il cellulare e scrive un annuncio a suo figlio di scendere per cena. Sopra in stanza del figlio l’Echo dot si attiva. «Hai un annuncio di Anna – dice ad Eden – Vieni giù. La cena è pronta». Eden spegne il computer e scende in cucina. Anna e Eden non sono gli unici a comunicare con Alexa. Decine di milioni di persone in tutto il mondo interagiscono ogni giorno con lei. Alexa, l’assistente vocale sviluppato da Amazon, e Echo dot, lo speaker che supporta Alexa, sono apparsi sul mercato più di quattro anni fa. L’intento di Amazon era di rendere la vita un po’ più semplice grazie ai comandi vocali. E sembra che le persone ci credano. Finora Amazon ha venduto oltre 100 milioni di dispositivi con installato Alexa in tutto il mondo. E le vendite aumentano di anno in anno. Proprio l’anno scorso il numero di utenti di Alexa è raddoppiato. «Abbiamo ottenuto il primo Echo dot gratuitamente – racconta Anna – Hanno installato una nuova caldaia in casa ed è arrivata con un sistema intelligente per controllare il riscaldamento e l’acqua calda in modo remoto che era compatibile con Alexa e ci hanno regalato un Echo dot». Suo figlio ha subito adorato Alexa. Le chiede di raccontargli barzellette, le fa dire «Miao» come un gatto e le porge ogni tipo di domanda. Ma cosa può fare un assistente vocale come Alexa? Molte cose. Esistono oltre 70’000 funzionalità per Alexa. Secondo un sondaggio condotto negli Stati Uniti e pubblicato a gennaio, le funzionalità più utilizzate sono l’ascolto di musica, il controllo della meteo e la richiesta di informazioni. «Uso Alexa principalmente per ascoltare musica – dice Anna – Mi piace musica differente per situazioni diverse e con Alexa puoi semplicemente chiedere la musica che vuoi ascoltare e lei trova la playlist giusta». E quando Anna sente una canzone che le piace, dice semplicemente ad Alexa «Mi piace questa canzone» e Alexa la memorizza nei suoi preferiti. Secondo il sondaggio Alexa viene utilizzata an-
Azione
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
gli smart speaker sono i dispositivi che supportano gli assistenti vocali, le loro vendite sono in costante aumento.
che per altre funzioni come raccontare barzellette, ricordare informazioni importanti come compleanni e anniversari, ascoltare notizie e risultati sportivi, fare shopping o gestire i sistemi di casa intelligente. Alexa oggi è ovunque. È visiva grazie a Echo Show, il display con su Alexa. È presente in auto con Echo Auto. Puoi incontrarla al lavoro con Alexa for Business. E se sei in vacanza, potresti imbatterti in lei nel tuo hotel grazie ad Alexa for Hospitality. Oltre ai prodotti di Amazon, un numero crescente di altri produttori di dispositivi ha integrato Alexa nei propri prodotti. Ora includono tutto, da computer e cuffie, a dispositivi indossabili e dispositivi domestici intelligenti. Anche Anna ha diversi dispositivi con Alexa integrata. «Ora abbiamo due Echo dot, uno per me e uno per mio figlio, un plug-in per l’auto, l’app per smartphone e Amazon Firestick per la TV» racconta Anna. Alexa non solo ci aiuta nelle attività quotidiane ma, secondo il sondaggio statunitense, i dispositivi di assistenza vocale come Alexa stanno cambiando il nostro comportamento. Oltre il 65 per cento degli intervistati ha infatti indicato che i dispositivi hanno cambiato il loro comportamento o le loro routine quotidiane. Per la metà degli intervistati l’assistente vocale è diventato parte integrante della loro vita e lo usano più volte al giorno. Gli utenti tendono ad essere generalmente soddisfatti del prodotto e lo raccomandano caldamente. Anche Anna è soddisfatta. «Sono davvero contenta del servizio – dice Anna – A volte devi ripetere ciò che dici ma di solito funziona e puoi parlare anche da lontano». Ma Alexa non è l’unica ad ascoltare. In un articolo pubblicato da Bloomberg in aprile è stato rivelato che un team di Amazon ascolta ciò che dici ad Alexa nel tentativo di migliorare il servizio e aiutare l’assistente vocale a rispondere meglio ai comandi. Le preoccupazione di
privacy sono la barriera più importante per quei consumatori che sono riluttanti a portare in casa gli assistenti vocali e i loro potenti microfoni. Anna ha una visione più pragmatica. «Non sono preoccupata per la mia privacy – dice Anna – È solo un altro dispositivo che raccoglie informazioni ma non dico nulla di compromettente. E se non vuoi che Alexa ascolti, puoi spegnere il dispositivo». Non solo Alexa, il mercato degli assistenti virtuali sta crescendo rapidamente con sempre più fornitori e tipi di dispositivi. Gartner, la società di consulenza e ricerca leader a livello mondiale, prevede che consumatori e aziende spenderanno in assistenti virtuali più di 3,5 miliardi di dollari nel 2021. Secondo uno studio di Deloitte di marzo, gli assistenti virtuali hanno vari gradi di intelligenza. I sistemi più semplici sono le chatbot. Molti le hanno già incontrate navigando sui siti internet di aziende ed enti governativi. Sono quelle chat che sbucano fuori e ci chiedono se possono aiutarci a trovare quello che cerchiamo. Questi sistemi danno risposte predefinite in modo rapido alle domande più frequenti dei clienti. Un gradino più specializzati sono gli assistenti virtuali come Alexa o Siri. Questi sistemi possono eseguire azioni di base come la pianificazione di riunioni. Il prossimo livello d’intelligenza è rappresentato dagli agenti virtuali. Questi sistemi sono in grado di gestire processi complessi come accompagnare un cliente a svolgere una transazione bancaria online. L’ultimo livello di intelligenza è rappresentato da un consulente umanizzato come Samantha nel film Her. Questi sistemi sono basati sull’intelligenza artificiale di livello umano, in grado di comprendere e ragionare come un essere umano ma al momento esistono ancora solo nei film. Per essere umani gli agenti virtuali devono comprendere e trasmettere emozioni. In ambito informatico esistono quattro modi in cui i compu-
ter possono leggere i sentimenti degli umani: attraverso immagini/video, dati audio, testi e dati fisiologici come il battito cardiaco o la temperatura corporea. Ebbene, diverse aziende stanno già lavorando per dare ai computer emozioni umane. La startup Affectiva di New York è leader mondiale in questo campo e ha sviluppato una tecnologia che tramite l’analisi della voce e delle espressioni facciali non solo comprende le emozioni umane ma capisce anche gli stati cognitivi delle persone come l’essere distratti. La tecnologia di Affectiva è utilizzata da oltre 1400 marchi globali. Non solo emozioni e stati d’animo, gli assistenti virtuali oggi possono conoscerci meglio di quanto ci conosciamo noi stessi. La startup Juji con sede nella Silicon Valley offre assistenti virtuali sensibili ed empatici che possono svolgere i compiti più diversi: dall’intrattenere i visitatori dei siti web, al condurre interviste fino ad introdurre i nuovi impiegati. Ebbene, gli assistenti virtuali sviluppati da Juji non solo comprendono le emozioni dai testi degli utenti, ma attraverso semplici domande sono in grado di determinare la personalità dell’utente e rispondere di conseguenza. Ad esempio se dopo alcune domande questi assistenti virtuali arrivano alla conclusione che l’utente è una persona ambiziosa e determinata risponderanno con frasi come «Concentriamoci sullo specifico» o «I fatti parlano sempre da soli». Mentre se l’utente è una persona pensierosa e cauta gli assistenti virtuali di Juji risponderanno con frasi come «Vorrei sapere cosa ne pensi tu». Si adattano quindi al tipo di personalità degli utenti. Questi sviluppi sono sorprendenti. In un futuro non troppo lontano, forse, avremo tutti la nostra Samantha, la compagna virtuale di Theodore nel film Her, che ci terrà compagnia durante le nostre giornate, ci consiglierà quali scelte prendere nella nostra vita, e soprattutto ci farà sentire amati.
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AvaEva a convegno Si parlerà di «Autodeterminazione e dipendenza» nel settimo convegno del Movimento AvaEva previsto lunedì 21 ottobre presso l’hotel Pestalozzi di Lugano (dalle 9.00 alle 17.00). La giornata di incontro e approfondimento è dedicata a temi quali la qualità della vita durante il processo di invecchiamento, il desiderio di determinare le scelte e le decisioni riguardanti la propria vita, il bisogno di riconoscersi fedeli a sé stesse nel corso della propria storia biografica (coerenza identitaria) e il desiderio di essere percepite dagli altri come persone degne di rispetto e competenti. Il convegno inizierà con la relazione della professoressa Maria Grazia Bedin e presenterà poi un’indagine compiuta dalle donne della GrossmütterRevolution proprio sui rapporti fra autonomia e dipendenza nella terza e quarta età. Iscrizioni (entro il 16 ottobre) allo 076 679 07 78 oppure v.pallucca@ avaeva.ch. Informazioni: www.avaeva.ch La memoria di Möbius La ventitreesima edizione del Premio Möbius Multimedia Lugano sarà dedicata a esplorare il rapporto tra il digitale e la memoria e si svolgerà per la prima volta negli spazi dell’Università della Svizzera Italiana, il venerdì 18 (Auditorium) e il sabato 19 ottobre (Aula magna), nell’ambito della prima edizione del Media Tech Day, organizzato dalla RSI (Radiotelevisione svizzera) e dal DFE (Dipartimento delle finanze e dell’economia) del Canton Ticino. Tra le novità previste nel programma di quest’anno ci sarà il coinvolgimento di gruppi di studenti che venerdì 18 ottobre, dalle ore 11:00 alle 12:30, nell’Auditorium USI Lugano, approfondiranno, nella forma delle dispute scolastiche in uso nelle grandi università medievali, temi selezionati della cultura digitale (Questiones disputatae de digitale). Le discussioni avverranno, alla presenza di personalità di eccezione tra cui Massimo Bray, direttore generale dell’Istituto dell’Enciclopedia Treccani e già Ministro italiano dei beni culturali. Da segnalare inoltre il simposio «Digitale e memoria», condotto da Alessio Petralli, direttore della Fondazione Möbius. L’incontro prevede gli interventi di Derrick de Kerckhove, Nicla Borioli, Mauro dell’Ambrogio, Gabriele Balbi e Milena Folletti (venerdì 18 ottobre, ore 16.30-18.15 all’Auditorium USI Lugano). Come ogni anno durante la manifestazione sarà assegnato il premio all’editoria mutante (in programma venerdì 18, alle ore 14.00), un riconoscimento che va alle migliori pubblicazioni che si sono distinte per il loro uso delle nuove tecnologie. Altro momento importante della due giorni luganese sarà rappresentato dalla proiezione delle presentazioni video realizzate dagli studenti del Corso di comunicazione visiva della SUPSI. Il tema proposto quest’anno come spunto per la creazione di narrazioni in video «virali», era legato all’opera del pittore Mario Comensoli, che gli studenti hanno riletto con vari approcci creativi. Informazioni e programma di dettaglio su: www.moebiuslugano.ch. Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 14 ottobre 2019 • N. 42
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Società e Territorio
Trentacinque anni di canto popolare Anniversari I canti della Vox Blenii sono il risultato di un meticoloso lavoro di ricerca e salvaguardia
Mara Zanetti Maestrani Cominciamo dal nome; perché Vox Blenii? Tutto risale a un’allegra e spensierata serata a Ponto Valentino, nel locale salone parrocchiale, 35 anni fa. Era il 4 marzo del 1984 ed era tempo di carnevale. Un carnevale che a Ponto era ed è ancora molto sentito. Proprio in questa occasione, tra una battuta e una risata, tra il serio e il faceto, nacque tra gli allora giovani componenti del gruppo l’idea di chiamarsi Vox Blenii, come allusione ironica e in lingua latina, al mensile «Voce di Blenio» che già allora si leggeva in valle e ne riportava le notizie minute. Ora, e da decenni, il gruppo è composto dagli inossidabili Aurelio Beretta (fisarmonica, percussioni e voce), Remo Gandolfi (violino, viola, chitarra, mandolino e voce), Gianni Guidicelli (chitarra e voce), Luisa Poggi (voce e percussioni) e Francesco Toschini (contrabbasso e voce), mentre nei primi sette anni ne facevano parte anche Antonio Cima e Ivano Lanzetti. La Vox Blenii nel corso dei suoi 35 anni di vita, si è guadagnata un posto di tutto rispetto tra i gruppi di musica popolare dell’area sudalpina ed è oggi ritenuta una vera cultrice del canto «della gente comune». L’anniversario che compie la trova in piena forma, con alle spalle sette CD (con un centinaio di pezzi in totale) di cui l’ultimo, presentato 5 anni fa in occasione del 30esimo anniversario, è intitolato E la mi manda. In più di tre decenni di meticolosa ricerca di canzoni popolari (dal 1985 al 2015), il gruppo ha registrato 150 musi-
cassette, tutte rigorosamente archiviate e digitalizzate da Aurelio, comprendenti oltre 200 ore di incisioni, successivamente selezionate per un totale di ben 1600 canti, filastrocche e storie. È a questo archivio che la Vox Blenii attinge per la riproposta dei canti. La prima importante cantora-informatrice fu Rosina Prospero di Malvaglia (19101995), registrata dal gruppo nel l988, nata e vissuta nella «villa» di Anzano in Valle Malvaglia. La Vox Blenii è quindi depositaria di un grosso patrimonio di canti tradizionali popolari orali, che col passare del tempo, rischierebbe di andare irrimediabilmente perso. Basti pensare che alcune testimonianze raccolte dagli informatori – quasi un centinaio, tutti pressoché ultraottantenni e molti dei quali nel frattempo purtroppo deceduti – sono addirittura uniche. Ma a cosa è dovuto l’intramontabile successo della Vox Blenii, gruppo tutto sommato molto spontaneo che canta e suona senza l’ausilio di amplificazioni e i cui componenti non leggono la musica? Molto probabilmente è proprio la somma di tutto questo, ossia è l’autenticità, il fattore vincente di questa particolare formazione musicale. Nel corso di un’intervista che feci al fisarmonicista e principale ricercatore dei canti, Aurelio Beretta, in occasione del 30simo del gruppo, egli mi disse che «la gente sente che non cantiamo canzoni d’autore o commerciali, bensì canti che raccontano in modo diretto e veritiero storie di tutti i giorni della gente comune di un tempo. Canzoni che con pochi accorgimenti potrebbero essere «molto attuali» e traslate nella
vita odierna. Storie di vita, di nascita, di morte, di lavoro e di grandi passioni, di disgrazie e di tradimenti. Storie che la gente sente essere state tramandate per anni, da generazione a generazione. Si tratta di vicende che coinvolgono gli affetti e che riescono ancora a toccare delle corde profonde in ogni persona, proposte diversamente da quanto oggi magari fanno i moderni mezzi di comunicazione». Oltre a questi fattori, quel che appare subito evidente all’occhio del pubblico che ascolta e vede la Vox Blenii, è anche la sua maniera semplice e schietta di porsi e l’esecuzione dei brani fatta in modo il più possibile rispettoso della versione originale. E anche la voce di Luisa: è una di quelle che non si dimenticano facilmente. Ti entra dritta nel cuore, lo fa vibrare e vi lascia un indelebile segno… Nel ricco repertorio della Vox ci sono anche delle ballate arcaiche segnalate in Italia e tutta Europa già nel 1500 e arrivate poi in Ticino e nelle sue vallate portate da viandanti, pellegrini, mercanti o soldati, con le inevitabili trasformazioni e varianti locali. Un esempio di queste ballate medioevali è L’inglesa, la cui informatrice è stata Rosa MandioniMaestrani di Prugiasco (1912-2006). Poi ci sono i canti popolari, che risalgono più o meno alla fine del 1800 inizio 1900 cantati e raccolti dal gruppo nelle Tre Valli Ambrosiane (Riviera, Leventina e Blenio), in Valle Calanca e in altri luoghi del Ticino e del Grigioni italiano. Tante di queste testimonianze erano trasmesse dai braccianti, artigiani, boscaioli e pastori presenti numerosi nelle nostre vallate. L’influsso proveniva spe-
remo gandolfi, luisa Poggi, aurelio beretta, gianni guidicelli, Francesco toschini.
cialmente dalla Valle d’Intelvi, da Bergamo e da Brescia. L’impegnativo, ma anche piacevole, lavoro di raccolta della versione originale di un canto viene solitamente svolto da Aurelio e Luisa che si recano da persone da loro conosciute perché hanno già fornito delle canzoni o altrimenti su segnalazione di amici e parenti. Parlando così a ruota libera con l’informatore, egli racconta e rievoca ricordi d’infanzia e gioventù. E allora si portano alla luce tracce di melodie e di parole. Canti che sono arrivati a noi come ultimi frammenti di una civiltà e di una cultura contadina e operaia ormai estinta. Dall’ascolto diretto dei cantori e dal successivo ascolto con tutto il gruppo di queste prime fonti orali, inizia il lavoro vero e proprio: si «improvvisa» e si fanno arrangiamenti ricostruendo il più fedelmente
possibile il testo e la melodia del brano. L’interpretazione musicale che ne segue è molto semplice, essenziale, e forse per questo riesce a coinvolgere facilmente chi ascolta. Ogni anno la Vox Blenii tiene una decina di intrattenimenti e concerti, sia in Ticino che nella Svizzera tedesca; più sporadicamente all’estero. Per otre 20 anni, ad Acquarossa, ha inoltre organizzato la Tre Giorni di Musica popolare, un bellissimo capitolo della vita culturale della Valle di Blenio. Informazioni
Per i suoi 35 anni la Vox Blenii organizza una serata di festa sabato 16 novembre alle 20.30 presso il Cinema Blenio di Acquarossa. Riservazioni da lunedì 4 novembre allo 091 871 28 84. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 14 ottobre 2019 • N. 42
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Società e Territorio
Una professione in crisi
Media Il giornalismo è sempre meno attraente in Svizzera: da una parte diminuiscono gli iscritti alle scuole
di giornalismo dall’altra molti professionisti scelgono di dedicarsi ai servizi di comunicazione pubblici o privati
Enrico Morresi La prima iniziativa di David Sieber – giornalista di lungo corso: 56 anni, trenta di professione, nuovo direttore del periodico «Schweizer Journalist» – è stata quella di dedicare molte pagine del periodico (4/2019) a chi lascia una redazione per mettersi al servizio della comunicazione di un’azienda, pubblica o privata. Scrive: «Mi arrabbiavo di brutto quando dei giovani giornalisti si dicevano disposti a passare alle pubbliche relazioni: mi pareva che si apprestassero a tradire la professione, non ne ho mai assunto uno che dicesse “per me è la stessa cosa”». Il periodico pubblica le confessioni di molti che il passo l’hanno fatto, in generale il loro giudizio è positivo. Anche «Edito», periodico delle organizzazioni professionali dei giornalisti, se ne occupa con un inserto: La tentation du changement. Ils étaient journalistes, ils sont attachés de presse (2/2019). Anche lì tutti gli intervistati rispondono positivamente alla domanda se, vista retrospettivamente, sia stata una buona decisione. Alcuni casi li conosciamo anche in Ticino. Il più illustre è quello di Marco Cameroni, giornalista e presentatore della TSI fino al 1990, entrato alle dipendenze della Confederazione come portavoce di René Felber, dal 1999 al 2005 console generale svizzero a Mi-
lano e fino al 2007 capo del Centro di competenza per la politica estera culturale. Anche Saverio Snider, dal 1983 al 1989 direttore del «Popolo e Libertà», in seguito redattore culturale del «Corriere del Ticino», è stato dal 2008 al 2011 collaboratore personale del consigliere di Stato Luigi Pedrazzini, in seguito fino a quest’anno portavoce del Ministero pubblico del Canton Ticino. Snider aveva presieduto l’Associazione ticinese dei giornalisti (ATG) nel 1993. Come lui presidente dei giornalisti dal 1988 al 1992, Aldo Bertagni è passato dal giornalismo attivo svolto al «Giornale del Popolo» e poi alla «Regione» (dove era vicedirettore) alla funzione di responsabile della comunicazione del Dipartimento cantonale della Pubblica Educazione. Non conosco i dati della Facoltà di Scienze della Comunicazione di Lugano (ma l’istituto ha molti iscritti non-svizzeri e non-ticinesi, che logicamente avrebbero potuto voler lasciare la Svizzera dopo il master). Ho però quelli – pubblicati da «Schweizer Journalist» (4/2019) – dell’Alta Scuola di Scienze Applicate (ZHAW) di Winterthur e del Medien-AusbildungsZentrum (MAZ) di Lucerna. Al MAZ, che forma solo giornalisti, si registra una diminuzione complessiva dei nuovi iscritti: da una media annua di 42 a 34. A Winterthur, che offre due curri-
la scuola di lucerna offre corsi di giornalismo e di comunicazione. (Keystone)
culi paralleli – giornalismo/comunicazione – il rapporto è rimasto in pari fin verso il 2014, ora (2018) risulta che 68 studenti hanno scelto comunicazione e solo 29 giornalismo. Al «TagesAnzeiger» di Zurigo i candidati che si annunciano per iniziare il biennio di formazione erano un centinaio ogni
Il cronista ingenuo, i colleghi cattivi Le paghe erano basse per i giornalisti negli anni Cinquanta del Novecento. Tra i documenti consultati per scrivere la storia del giornalismo nella Svizzera italiana ho trovato copie di estratti di carenza di beni allegate a lettere all’editore per chiedere un aumento di poche decine di franchi al mese. L’avvento dei contratti collettivi, a partire dai primi anni Settanta, pose termine a quell’indigenza, la radio e la televisione avevano già impostato i rapporti contrattuali in modo corretto. Finiva una stagione di povertà e di umiliazioni di cui è indicativo l’episodio che per la prima volta, dopo qualche esitazione, affido allo scritto.
L’uomo era di mezza età, semplice e buono. Redigeva verbali e citazioni per un ufficio governativo con sede a Lugano e si dilettava di giornalismo. Teneva i contatti con i cronisti delle testate cittadine (erano più di una, allora) e si faceva indicare da chi e quando e dove si invitassero i giornalisti a pranzo dopo le «conferenze stampa» che le aziende e i club organizzavano con una certa frequenza. Usava mettersi all’ultimo posto della tavola, non faceva mai domande, dopo aver dato un’occhiata intorno si qualificava come rappresentante di una testata che vedeva non essere rappresentata. Nel pomeriggio avrebbe portato dieci righe al giornale
del quale si era spacciato come inviato. Quel pomeriggio, al termine del pranzo che ci era stato offerto, si uscì insieme con lui in Piazza Dante. Due miei colleghi finsero sorpresa: «Ma guarda, che signori!», e tenevano in mano una banconota da cento franchi che avevano proditoriamente infilato tra la documentazione ricevuta. Quel buon uomo si stupì di non trovarli, i cento franchi, nella sua cartella. Perfidamente, gli altri due lo convinsero a tornare nel locale per chiederne ragione. All’uscita il poveraccio non trovò nessuno da coprire di insulti. Gli fu detto di prenderla sul ridere, così accadde, e di fatto non se ne parlò più. / EM
anno fino al 2012; l’ultimo anno sono stati 29. A Lucerna fino al 2013 il livello scolastico raggiunto da tre quarti degli iscritti era il certificato di maturità: ora i due terzi. Il responsabile dichiara: «L’immagine, il salario, le condizioni di lavoro, le prospettive di carriera sono peggiorate. Chi ha un titolo universitario in tasca ci pensa due volte prima di scegliere il giornalismo». E «solo pochi contano di starci fino alla pensione» (è un titolo del periodico di Sieber). Del cambiamento di prospettive terrà conto la nuova edizione dei corsi di giornalismo in Ticino. Ai moduli classici dedicati ai giornalisti in formazione verrà affiancato un nuovo curricolo che si concentrerà sulle professioni che offrono alternative al giornalismo tradizionale. Rimane da sperare che, nella scelta, a decidere sia sempre la convinzione e non la costrizione (basterebbe domandare ai redattori del defunto «Giornale del Popolo» se sia stato per libera scelta che hanno cambiato mestiere...). Qualcuno potrebbe anche solo provare a tirare il fiato dopo aver fatto un’esperienza di molti anni in una redazione. Ma so di guardare alla scena che cambia anche con qualche
pregiudizio. Nella cassetta delle lettere ci vengono recapitate ogni settimana decine di pubblicazioni para-giornalistiche, che cioè adottano le forme più efficaci per informare su cose, fatti, programmi, prospettive e vantaggi proposti da enti pubblici e privati. Il mio Comune, settemila abitanti, ha un addetto alle pubbliche relazioni a tempo pieno! Compagnie di assicurazione, casse malati, fondi di previdenza, ong come Amnesty International… enti che hanno da vendere idee e non solo e prodotti di consumo ci recapitano stampati di buona fattura tipografica, bene illustrati, scritti correttamente (non tutti, per la verità, in un Paese tri/ quadrilingue come il nostro). Chi promuove tale comunicazione dovrebbe aver fatto bene i calcoli, vedere che l’esercizio, in definitiva, rende. Ma la raccolta della carta da riciclare non ha mai raggiunto un tale volume. Metto le mani avanti e chiedo scusa se qualcuno si sente offeso. E so distinguere chi fa comunicazione per la Polizia e chi per vendere prodotti di bellezza. Ma di sicuro Thomas Jefferson pensava a qualcosa d’altro quando scriveva di preferire una società senza governo a una società senza giornali.
Liberiamo le api della regina Phoebee Videogiochi Le divertenti avventure di Yooka, il camaleonte, e Laylee, la pipistrellina Davide Canavesi Nel mondo dei videogiochi ci sono le mode, esattamente come nel cinema e nella televisione. I generi vanno e vengono, seguendo le preferenze del momento. Basta che un titolo ottenga successo che molti altri studi e sviluppatori cerchino di seguire la corrente per accaparrarsi i giocatori, sperando di trasformare la propria creatura in una moda e, con un po’ di fortuna, in un esport. Ci sono però coloro che preferiscono seguire una strada diversa, lasciando da parte i trend momentanei per concentrarsi su qualcosa di forse meno popolare ma non per questo meno meritevole d’attenzione. Uno di questi gruppi è senza dubbio Playtonic Games, studio di sviluppo britannico che ha appena rilasciato un gioco d’avventura in due dimensioni chiamato Yooka-Laylee and the Impossible Lair. Dopo aver proposto un platform 3D nel 2017, hanno pensato bene di dedicarsi a quelli a due dimensioni. Il genere platform è vecchio quasi quanto i videogiochi stessi: l’eroe deve affrontare diversi livelli, attraversandoli soli-
tamente da sinistra verso destra, schivando e sconfiggendo orde di nemici e risolvendo qualche enigma. Una delle serie più famose è sicuramente quella di Super Mario ma non dimentichiamo nemmeno Sonic the Hedgehog, Rayman o Donkey Kong. Un genere che forse non va più di moda ma che certamente ha ancora molto da offrire ai giocatori, sia vecchi che giovani. Yooka-Laylee and the Impossible Lair è un gioco delizioso in cui i due protagonisti, il camaleonte Yooka e la pipistrellina Laylee, partono per una missione importante: liberare le api della regina Phoebee dal controllo per malvagio Capital B. Una storia dalle premesse semplicissime, un mero pretesto per spedire i giocatori all’avventura. Il gioco inizia con una sonora sconfitta per i due protagonisti: privati della protezione dei reggimenti di api della regina Phoebee non possono superare indenni il covo impossibile di Capital B. L’unica soluzione è quella di salvare quante più api possibile attraversando il gran quantitativo di livelli disponibili per ritentare ancora una volta.
La struttura del gioco è ibrida: il giocatore esplora infatti il terreno di gioco in un ambiente tridimensionale, cercando l’entrata nei vari livelli. In questa zona di collegamento saremo chiamati a cercare segreti e risolvere puzzle ma anche ad interagire con i vari personaggi secondari della serie. Alcuni sono alleati, altri decisamente più fastidiosi ma tutti servono allo scopo: motivare il giocatore ad andare avanti. Una volta che ci saremo avventurati nei livelli bidimensionali saremo davanti alla vera sfida del gioco. Vestiremo i panni di Yooka, saltando e superando ostacoli, fosse, liane, palle di neve e strani mostriciattoli. Laylee invece è una sorta di polizza assicurativa: ogni volta che saremo feriti la pipistrellina incasserà il colpo per noi, svolazzando poi spaventata. Il nostro compito sarà quello di riportarla da noi per poter continuare il gioco insieme. Una meccanica non particolarmente innovativa ma ben integrata nell’avventura. Nel gioco troveremo anche un nutrito numero di tonici, ovvero speciali poteri per i protagonisti o modificatori per il gio-
co. Grazie ai tonici potremo ottenere più ricompense, correre più velocemente o essere più resistenti ai danni ma anche cambiare l’aspetto visivo dell’avventura applicando filtri che lo rendono simile ad un gioco per Game Boy oppure ad un cartone animato registrato su una cassetta VHS. Dove Yooka-Laylee si discosta da altri giochi è nella possibilità di modificare i vari mondi di gioco. Già il primo titolo integrava un’idea simile ma in questo seguito ha un sapore tutto suo. Ci sono livelli in cui possiamo congelare l’acqua, aprendo nuove strade e offrendo nuovi gradi di sfida. Oppure potremo allagare altre ambientazioni, cambiando drasticamente l’aspetto e la strategia per affrontare il livello. È decisamente più di un trucchetto per allungare il gioco in modo artificioso: gli sviluppatori hanno usato saggiamente questo stratagemma per sovvertire le aspettative del giocatore, offrendo maggiori contenuti e stuzzicando la nostra vena competitiva. Sì, perché Yooka-Laylee and the Impossible Lair è un gioco accessibile a tutti ma è anche piuttosto difficile se
Yooka-Laylee and the Impossible Lair è sviluppato da Playtonic games.
vogliamo trovare ogni segreto e oggetto collezionabile. Terminare il gioco al 100% sarà una bella sfida per i giocatori su console o PC. Visivamente parlando, ha uno stile molto cartoonesco, con mondi luminosi, colorati e zeppi di animazioni buffe. È un gioco spassoso, ben realizzato e longevo. Non passerà probabilmente alla storia come pietra miliare ma di sicuro offre parecchie ore di divertimento. Purtroppo, non è stato tradotto in italiano ma il testo da leggere è davvero poco.
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Società e Territorio Rubriche
Lo specchio dei tempi di Franco Zambelloni La cavalcata delle Walkirie Si avvicinano le elezioni federali e uno dei dati che fa più clamore è l’aumento considerevole di candidate rispetto al passato: il 40,3% delle liste per il Consiglio nazionale è costituito da donne, con una crescita del 5,8% rispetto al 2015. L’aumento è dunque considerevole, tenendo conto del fatto che sono passati solo quattro anni da quel precedente appuntamento elettorale e che la mentalità e i modi di vita non sono cambiati molto in questo breve periodo: sembra quasi di assistere a un’onda che cresce in altezza via via che si precipita verso la riva. Lasciandoci alle spalle una tradizione millenaria siamo giunti a riconoscere l’uguale dignità dei sessi e, conseguentemente, l’eguaglianza giuridica che deve sancirla; dunque, la richiesta di un numero di donne in Parlamento uguale (o magari superiore) a quello dei maschi può anche sembrare superflua: l’uguaglianza è data dai diritti,
non da una parità numerica; e il diritto ad essere elette le donne svizzere ce l’hanno. Le statistiche demografiche dicono poi che le elettrici sono più numerose degli elettori: perciò, se le cittadine svizzere lo volessero, potremmo avere un parlamento solo femminile. Ma, soprattutto, è dubbio che il sesso sia un requisito importante in un rappresentante del popolo: a mio avviso, per le funzioni e i compiti che i politici sono chiamati ad esercitare, la testa conta ben più di altri attributi. È comprensibile, peraltro, che si voglia aumentare la rappresentanza femminile negli organi legislativi per accelerare il processo della parificazione di fatto dei diritti tra uomo e donna: ci sono diseguaglianze che ancora perdurano e che vanno annullate. Ma questo è un compito che un parlamento, anche se fosse solo maschile, avrebbe il dovere di perseguire, perché la tutela dei diritti è compito primario
di chi rappresenta il popolo, indipendentemente dal suo sesso. E in effetti, il 7 febbraio 1971, quando le donne svizzere ottennero il diritto di voto e di eleggibilità a livello federale, furono gli uomini (che ancora erano gli unici votanti) ad approvare questo diritto con una maggioranza del 65,7%. Ma è pur vero che il riconoscimento di questo diritto avveniva 123 anni dopo che i cittadini maschi avevano acquisito il diritto di voto. Come annota Lotti Ruckstuhl nel suo libro Sul suffragio femminile in Svizzera, «la data del 7 febbraio 1971 segna la trasformazione strutturale più importante nella Confederazione a partire dalla fondazione dello Stato federale. Dopo 123 anni di dominazione maschile, le donne sono divenute cittadine a parità di diritti». Da allora, l’avanzata del riconoscimento dei diritti per le donne è proceduta senza sosta: nel 1975 fu celebrato l’Anno
internazionale della donna e il quarto Congresso svizzero delle donne decise di far introdurre nella Costituzione il principio della parità dei sessi; e poi, su questa base, si giunse alla legge federale, entrata in vigore nel 1996, come misura contro la discriminazione delle donne nell’attività professionale. Dunque, parità a pieno diritto; oppure, a volte, anche a diritto più che pieno: l’AVS, in Svizzera, fu introdotta con un’età di pensionamento uniforme, per uomini e donne, a 65 anni; ma due revisioni (nel 1957 e nel 1964) ridussero per le sole donne l’età di pensionamento, prima a 63 e poi a 62 anni; successivamente si passò a 64 anni. Insomma, sembra ormai tramontata, e forse per sempre, la convinzione dominante nei tempi passati dell’inferiorità della donna rispetto all’uomo, del suo dovere di sottomissione, della sua incapacità di prendere decisioni razionali. Ora, in regimi democratici,
ci sono donne di potere come Angela Merkel, Theresa May o Marine Le Pen; l’avanzata delle donne sembra accelerare impetuosamente, come al ritmo della wagneriana cavalcata delle Walkirie. Lo scorso giugno migliaia di manifestanti sono scese nelle piazze elvetiche per rivendicare la parità dei sessi: chissà, forse si avvicina il tempo in cui la presenza politica femminile supererà, negli organi istituzionali, quella maschile. E allora cosa succederà? Gli uomini scenderanno in piazza per rivendicare pari diritti? Quando, nel 1991, a seguito di uno sciopero delle donne furono presentati diversi atti parlamentari richiedenti l’introduzione di un sistema proporzionale anche per i sessi, sarebbe stato forse opportuno che si accettasse la strategia delle quote: così sarebbe stata garantita, anche in futuro, la presenza maschile in Parlamento.
essere un po’ feticisti per fare cinque ore di treno con lo scopo di osservare una piccola macchia d’inchiostro». Identificandomi non poco, ora, in queste parole, visto che ho fatto, per l’esattezza, quattro ore e cinquanta minuti di treno. Fuori strada, invece, il reporter, quando evoca a sproposito la penna, appoggiata qui dove c’è la macchiolina, e dalla quale si sarebbero originate le due sorelle di Lolita: Ada e Laura. Ada (1969) e L’originale di Laura (2009) – opera postuma e incompiuta destinata alle fiamme secondo le volontà di Nabokov – oltre a Fuoco pallido (1962) e Guarda gli arlecchini! (1974), sono in effetti libri nati qui, a questa scrivania esile di legno chiaro. Solo che in verità tutte queste opere sono state scritte a matita. Delle «matite non troppo dure, ben appuntite, con la gomma a una estremità» come quelle che si vedono, se si aguzza la vista, su una delle foto in bianco e nero appese alle pareti. Il tutto rigorosamente scritto su schede a righe di cartoncino Bristol formato undici per quindici, per poi essere battuto a macchina da Véra.
Unica dedicataria di tutti i suoi libri che ha anche scarrozzato il marito in macchina per l’America – tenendo sempre nel cruscotto la sua browning calibro trentotto – a caccia di lepidotteri. I meravigliosi motel lolitiani sono frutto di quegli amorevoli viaggi. Lemanica è invece la vista dal balconcino di questo grandhotel cinque stelle con duecentotrentasei camere, classificato oggi come bene culturale d’importanza nazionale. È su questo tavolino in ferro battuto che Nabokov e Véra, per sedici anni, amavano giocare a scacchi. Butto un occhio nel bagno e non è a scacchi. Nel viaggio di ritorno, Edmée mi mostra dei dipinti di Marcel de Chollet, appena sotto il soffitto, ispirati dalle favole di Grimm come il principe ranocchio per esempio, raffigurato lì in cima. Mentre incorniciato e sottovetro, bevendo un espresso al bar, un cimelio di Claude Nobs – creatore del Montreux Jazz Festival nel 1967 al quale hanno anche dedicato la strada qui davanti – ci tiene compagnia come una gigantesca falena. È il kimono di Freddie Mercury.
e ha deciso di smettere con le news, le informazioni brevi 24 ore su 24 perché nel darti l’illusione di essere informato e di avere sotto controllo ciò che accade in verità ti rubano tempo e attenzione. Significa che il sistema con il quale per anni hanno funzionato moltissimi siti di news e di testate secondo cui i lettori hanno bisogno di essere aggiornati costantemente è nocivo per la nostra salute. «Negli ultimi 20 anni con l’affermarsi di internet e degli smartphone la ricerca delle news si è trasformata in una pericolosa dipendenza. Le news sono per lo spirito ciò che lo zucchero è per il nostro corpo». Cosa fare allora? Se volete sapere cosa accade nel mondo leggete «The world this Week» dell’«Economist», dice Dobelli. Leggete i giornali e i libri che non temono di confrontarsi con la complessità del mondo e hanno le risorse per farlo e cita «The New Yorker» e la «MIT Technology Review»; date un’opportunità alle testate native digitali come «Die Republik»
e «De Correspondent» e al long-form journalism. Selezionate con attenzione le firme giornalistiche che volete seguire. Distinguete quali sono i media di qualità. Scegliete un giornalismo che contestualizza e spiega i fatti. E poi nell’ottica di un’economia del tempo e della qualità suggerisce i News Lunch che potrebbero organizzare i ristoranti o le aziende mediatiche. Si condivide il pranzo con un collega scegliendo un tema di discussione relativo ad un articolo uscito sul giornale quel giorno. Ognuno ha quindici minuti per esporre il suo punto di vista e poi ci si confronta. Personalmente non amo le diete drastiche e dunque non condivido il Dobelli pensiero ma riconosco un fondo di verità importante. La rincorsa alle news e agli ultimi aggiornamenti ci è sfuggita di mano. È importante che nella modalità e nei tempi di utilizzo della Rete così come nel consumo e nella produzione di notizie troviamo una misura sostenibile.
A due passi di Oliver Scharpf La suite Nabokov del Palace a Montreux Imponente, camminando sul lungolago, il Montreux Palace si staglia contro lo sfondo di cielo azzurro, nuvole, alture boschive. Stile belle époque, inaugurato nel 1906, Eugène Jost l’architetto. Tende giallo girasole sopra le centinaia di finestre vista lago. Al sesto piano dell’ala est, dal 1961 al 1977, ha vissuto Vladimir Nabokov (1899-1977) con sua moglie Véra. E Véra Nabokov (1902-1991), dopo la morte dello scrittore e lepidotterologo russo naturalizzato americano, è rimasta a vivere lassù in quelle stanze fino alla fine dei suoi giorni, avvenuta un sette aprile. Un bel primo pomeriggio d’ottobre inoltrato, come un cacciatore di farfalle pronto ad acchiapparne una con il retino, cerco così di immaginare su quale balconcino di preciso, la coppia, simbiotica da quando si sono conosciuti negli anni venti a Berlino, giocava a scacchi. Passione risaputa, oltre alle farfalle, di Nabokov, al punto che al riguardo girava una storia, riproposta in apertura di un articolo a tutta pagina di Irene Bignardi uscito su «la Repubblica» diciannove anni fa
e ritrovato l’altro giorno, piegato in sei. Si racconta che Nabokov avesse chiesto capricciosamente di farsi ripiastrellare il bagno in bianco e nero, così da poter studiare, a tempo perso, le composizioni scacchistiche predilette. Tutta l’aria di una leggenda metropolitana, ma lo scoprirò presto, ho appuntamento alle due con Edmée Romegialli, sorridente e premurosa assistente di direzione che mi accompagna a visitare la suite Nabokov. Oggi libera, è richiesta «soprattutto da una clientela russa» mi dice Edmée sulle scale, mentre andiamo verso l’aile du Cygne. Chiamata così per via dell’ex Hotel du Cygne, accorpato al Palace e risalente al 1837. Anno della morte per duello di Pushkin, poeta russo amato da Nabokov che ha tradotto in inglese e commentato il romanzo in versi Eugene Onegin (1833), lavoro minuzioso uscito in edizione di quattro volumi nel 1964, quando dunque Nabokov viveva e lavorava qui. Al sesto piano, dove scendiamo adesso dall’ascensore. Svoltiamo in un corridoio a sinistra. Tutto il corridoio, le cui porte
d’entrata alle stanze sono tra il grigio pastello e il verde pistacchio, era la parte d’hotel dove Nabokov e la moglie Véra – dopo l’enorme successo di Lolita (1955) – avevano scelto di rifugiarsi. Luogo strategico per via della sorella di Nabokov che abitava a Ginevra e il figlio Dmitri a Milano, individuato su consiglio dell’attore Peter Ustinov, regista tra l’altro di Lady L (1965), film con Sophia Loren e Paul Newman ambientato tra queste mura. Sessantacinque si legge sulla porta, aperta ora con carta magnetica. Ed eccomi allora mettere piede sulla moquette bordò a pois bianchi della suite Nabokov del Palace a Montreux (415 m). La scrivania, innanzitutto, detta l’itinerario. Edmée apre il cassetto sinistro e mi mostra una macchia d’inchiostro. Seppure molto nabokoviana come attrazione, non rimango a bocca aperta per questa macchia d’inchiostro involontariamente floreale o nuvolosa. Perché l’ho già incontrata all’inizio di un reportage di nove anni fa del settimanale francese «L’Express» dove il giornalista sosteneva che «bisognava
La società connessa di Natascha Fioretti Le news sono come lo zucchero Seduta in un piccolo Starbucks al secondo piano della libreria Orell Fussli nella Füsslistrasse 4 di Zurigo osservo quattro ragazzine adolescenti e mi chiedo cosa ci fanno qui alle 9.30
del mattino, non dovrebbero essere a scuola? Si riconosce subito la leader del gruppo. Spavalda, vestita con una tuta nera, il giacchettino mezzo aperto che le cade dalle spalle, i capelli chiari raccolti in due strette treccine laterali, un paio di occhiali con una montatura dorata. Una piccola rapper. Lei e l’amica a fianco sono le più scatenate. In una mano tengono lo shake con la cannuccia, nell’altra il cellulare sul quale digitano e smanettano frenetiche. A vederle sembrerebbe che il cellulare sia già diventato un prolungamento del corpo. Il modo in cui lo tengono, lo agitano, non lo posano mai. Nel frattempo chiacchierano, sorseggiano e si mostrano i display a vicenda. Al solo guardarle mi agito anch’io e mi chiedo se Leonard Kleinrock, scienziato e pioniere della Rete, non esageri quando in un’intervista a «Repubblica» dice «i nostri figli sapranno sconfiggere il lato oscuro della Rete» perché prima di arrivare a tanto dovrebbero impa-
rare a farne un utilizzo consapevole e moderato. E non soltanto loro, anche noi adulti. In proposito cade a pennello il saggio Die Kunst des digitalen Lebens (L’arte della vita digitale) che ho scoperto quella stessa mattina pellegrinando tra gli scaffali della libreria, nel quale l’autore Rolf Dobelli propone una dieta mediatica drastica per migliorare la nostra qualità di vita. Sin da giovane Rolf Dobelli è sempre stato un attento e assiduo lettore di giornali e consumatore di notizie. Leggeva regolarmente l’edizione cartacea della «Neue Zürcher Zeitung», del giornale locale «Luzerner Neueste Nachrichten», lo «Spiegel», con l’avvento di internet si è abbonato alle Newsletter e ai RSS-Feed del «New York Times», del «Financial Times» e del «Wall Street Journal». Tenersi costantemente informato gli dava la sensazione di «illuminare il mondo in tutte le sue sfaccettature». Finché un giorno si è reso conto di non poter digerire questo enorme carico informativo
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Preparazione Per la pasta, versate la farina, il sale e lo zucchero in una scodella e formate un incavo al centro. Aggiungete il lievito fresco spezzettato. Fate intiepidire il latte e il burro e versateli nell’incavo. Mescolate tutto fino a ottenere una pasta liscia e omogenea. Coprite con un telo umido e lasciate lievitare per ca. 1 ora, finché la pasta raddoppia di volume. Per la farcia, tritate grossolanamente 1 cucchiaio di noci e mettetele da parte. Tritate finemente il resto delle noci con un tritatutto, poi versatele in una scodella e aggiungete lo yogurt e il miele. Unite la scorza di limetta grattugiata finemente e mescolate bene. Spianate la pasta sul piano leggermente infarinato e formate un rettangolo di 40 x 30 cm. Spalmate la farcia sulla pasta, lasciando libero un bordo di ca. 3 cm su uno dei due lati più lunghi. Arrotolate la pasta partendo dal lato più lungo senza bordo. Dividete il rotolo a metà per il lungo e intrecciate le due strisce di pasta, mantenendo la superficie di taglio verso l’alto. Accomodate la treccia su una teglia foderata con carta da forno e infornate al centro del forno. Accendete il forno a 180 °C e cuocete la treccia per ca. 40 minuti. Sfornate e lasciate raffreddare su una griglia. Spremete la limetta e mescolate ca. 1,5 cucchiai di succo con lo zucchero a velo. Irrorate la treccia con la glassa e cospargetela con il trito di noci messe da parte.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 14 ottobre 2019 • N. 42
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Ambiente e Benessere Le isole del deserto In Tunisia si cerca di salvare le oasi rilanciando la tutela del loro sistema tradizionale per migliorarne la biodiversità e garantire il ruolo delle donne
Onori dallo spazio Assegnato il Nobel per la Fisica a Mayor e Queloz per la scoperta nel 1995 del primo esopianeta pagina 21
Nostalgiche cartoline Al Museo della Comunicazione di Berlino, una mostra dedicata ai 150 anni del «mondo inviato»
Corse a ostacoli Le nuove frontiere del podismo trascinano i corridori nel fango
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Il vino per il cuore
Salute Un Simposio medico accende
i riflettori sul nettare di Bacco
Maria Grazia Buletti «Nunc est bibendum» è una locuzione latina tratta da un verso di Orazio che significa: «Ora bisogna bere». Abbiamo incontrato il cardiologo dottor Alessandro Del Bufalo con cui, in realtà, abbiamo convenuto che «ora bisogna parlare del bere vino e della sua relazione con la salute», più che brindare. Lo spunto è dato dal XXI Simposio di cardiologia della Regio Insubrica «Il vino per il nostro cuore» che si svolgerà mercoledì 16 ottobre dalle 14, all’Hotel Splendide Royal di Lugano e potrà fregiarsi di esimi relatori fra i quali la farmacologa Claudia Fragiacomo, alcuni medici dell’Università degli studi dell’Insubria, il neurologo Francesco Malucci (Neurocentro Svizzera italiana), il sergente Manuele Nalli (Polizia cantonale) e alcuni Sommelier professionisti. Fra tutti spiccano pure il professor Tiziano Moccetti e lo stesso cardiologo dottor Del Bufalo con cui ci addentriamo nella storia di una delle bevande più antiche che ci siano. «Il vino è una bevanda antica quasi come la vicenda dell’uomo stesso; la sua importanza ha spesso travalicato il suo comune uso gastronomico, toccando aspetti sociali e culturali di grande rilevanza» esordisce nell’elencarci i molteplici motivi che hanno spinto numerose popolazioni dell’antichità al suo processo di nobilitazione, fra i quali spiccano la difficoltà oggettiva della coltivazione dell’uva, la grande differenziazione dei vitigni e dei relativi risultati ottenibili, il valore meramente commerciale attribuito al vino dai primi scambi tra le popolazioni del Mediterraneo, ma non solo: «Non dimentichiamo il valore simbolico acquisito dal vino in numerose religioni, sviluppando un ruolo altamente significativo come elemento di rilevanza anche per quella cristiana ed ebraica». A questo proposito Del Bufalo ci invita a riflettere: «Nell’Ultima Cena sono altamente simbolici pane e vino. Nella cultura cristiana trascendono in un significato spirituale assoluto, che ancora si perpetua nella benedizione di ostia e vino durante la messa». Una cultura, la nostra, che deriva indubbia-
mente da quella millenaria nella quale «il vino si è sempre usato con moderazione nelle festività come pure nei riti religiosi. Inoltre, in tempi di carestia o di minore abbondanza alimentare, non dimentichiamo che proprio il vino assurgeva a vero e proprio alimento, che forniva calorie a basso costo per chi doveva lavorare nei campi». Il cardiologo si riferisce a quello che veniva definito «vino ausiliario»: «Diverso dal vino etilico dell’alcolizzato, da quello gastronomico e da quello meditativo atto all’apprezzamento del bicchiere». Abbiamo compreso che il dottore conosce profondamente l’argomento di cui stiamo discutendo e la domanda sui suoi effetti per il nostro organismo è d’obbligo. Ci invita a riflettere su una premessa: «Per la nostra salute sappiamo che, parlando di farmaci, tutti i medicamenti assunti in quantità eccessiva fanno male, tutti quelli assunti nella giusta quantità fanno bene». Per analogia, egli afferma che per il vino valgono le stesse regole: «Un fegato sano sarà in grado di digerire senza problemi di sorta un’equilibrata quantità di vino di qualità. Non solo, può essere allenato entro certi limiti: bere regolarmente una quantità moderata di vino permette al fegato di essere più efficiente nell’attivare le vie metaboliche per questa bevanda». La chiave sta proprio nella qualità del vino e nella moderazione con cui può essere gustato, e il beneficio non si ferma qui, perché il dottor Del Bufalo si rifà a studi accertati per affermare che «un consumo modesto e consapevole di vino rosso è scientificamente provato sia benefico in termini prognostici sulle malattie cardiovascolari: abbiamo a disposizione studi clinici che dimostrano una riduzione dell’incidenza delle patologie cardiovascolari (area mediterranea e francese) nelle persone che si permettono di consumare vino con moderazione e senza perdere il controllo di sé». Il nostro interlocutore puntualizza di non voler fomentare il consumo di vino a prescindere, piuttosto di puntare a favorirne un consumo consapevole: «Dopo 30 anni di carriera professionale posso affermare che, al di là del consumo di alcol, tutti gli eccessi
il cardiologo dottor alessandro Del bufalo. (Stefano Spinelli)
sono nocivi in ogni ambito; ciò che alla salute nuoce sul lungo periodo sono gli abusi, mentre uno stile di vita sano, votato all’equilibrio che comprende anche la convivialità, non può certo nuocere». D’altronde, rifacendosi agli antichi e al motto giunto fino a noi Mens sana in corpore sano, il cardiologo ci ricorda che vivere sani e in modo equilibrato corrisponde a: «Moderazione in ogni ambito, alimentazione corretta, attività sportiva consona, come pure concedersi gratificazioni enogastronomiche, sempre con un approccio di equilibrio e misura». Chiediamo di quantificare cosa si intende per consumo consapevole e moderato: «Gli inglesi – spiega Del Bufalo – dicono che esistono tre tipi di menzogne: quelle dette in buona fede, quelle in mala fede e le statistiche: dobbiamo quindi considerare che le
raccomandazioni ufficiali sulla quantità di alcol che si può consumare derivano da indagini effettuate su un gruppo molto eterogeneo e i risultati devono essere contestualizzati in modo più individuale». Allora: «Le dosi raccomandate quotidianamente sono: un bicchiere di vino per la donna e due per l’uomo, ma dicevo che non bisogna dimenticare di valutare che tipo di vino si beve, la salute del fegato e come metabolizza (sano? danneggiato da patologie soggiacenti?). La dose ottimale diviene dunque individuale entro certi limiti, senza superare le raccomandazioni». Una conversazione che, tra uso, abuso e bere consapevole, propende per quest’ultima soluzione. E come dicevano gli antichi: «In medio stat virtus» che significa: «La virtù sta nel mezzo», al di fuori di ogni esagerazione. Senza però dimenticare che non dobbiamo sotto-
valutare la qualità della composizione del vino: «Coloranti e anidride solforosa sono aggiunte consentite nella vinificazione e, sebbene non disponiamo di studi scientificamente validati sugli effetti di tutte queste contaminazioni alimentari, posso dire che non si dovrebbero bere vini manomessi». Del Bufalo afferma che nel vino di qualità non dovrebbero esserci tracce di queste sostanze e terminiamo allora con un’ultima citazione cara ai nostri vecchi, tratta dalla Cavalleria Rusticana di Pietro Mascagni: «Viva il vino ch’è sincero, che ci allieta ogni pensiero e che affoga l’umor nero». Proprio come ci ha spiegato il dottor Alessandro Del Bufalo anticipando il filo conduttore del Simposio del 16 ottobre: «Bere con moderazione fa bene al cuore e all’anima, ma soprattutto bere vino genuino e di qualità».
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 14 ottobre 2019 • N. 42
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Ambiente e Benessere
New York Marathon Il «TCS New York City Marathon» è considerato l’evento Numero Uno dell’anno a New York; detto altrimenti è diventato un «must». Tourisme Pour Tous, in qualità di agenzia ufficiale da vent’anni, ha creato un’offerta per vivere il mito della maratona podistica più incredibile di tutte le maratone, e Hotelplan Ticino a sua volta ha deciso di proporlo ai lettori di «Azione». L’obiettivo è organizzare un gruppetto di corridori che prenda il volo per la «grande
maratona» dal Ticino. Un’esperienza che può essere vissuta però anche dai famigliari e amici, per cui le iscrizioni sono aperte anche per loro. Vale la pena di ricordare che l’evento leggendario riunisce circa 50mila corridori, 2 milioni di spettatori, e coinvolge 15mila volontari. Al passo di corsa, si attraversano i ponti più fotografati al mondo, le vie incredibili da Brooklyn al Queens passando da Harlem e Manhattan, fino al cuore del Central Park
dove si alzeranno le braccia al cielo in segno di vittoria.
Prezzo a persona
Pre-Iscrizioni
In camera doppia: CHF 3790.–* Supplemento camera singola: CHF 1070.– Pettorale Maratona CHF 600.– Spese agenzia Hotelplan: CHF 70.– *Riconferma del programma e del prezzo a dicembre 2019.
La pre-iscrizione va effettuata entro il 18 ottobre 2019 versando anche una cauzione non rimborsabile di CHF 200.– per ogni corridore. Una serata informativa per i corridori e interessati sarà organizzata entro fine 2019 e offerta da Hotelplan Ticino in collaborazione con il partner Tourisme Pour Tous.
Il programma di viaggio 29 ottobre: Ticino – Zurigo – New York Trasferimento dal Ticino per l’aeroporto di Zurigo. Volo intercontinentale. Arrivo al JFK in serata. Cena libera. 30 ottobre: New York Footing mattutino (facoltativo) in compagnia della «guida-maratoneta». Scoperta della fine del percorso di domenica nell’aria autunnale del Central Park. Rientro per la seduta informativa e ritiro del pettorale presso l’Expo. Fine giornata libera oppure escursione facoltativa «shopping all’outlet di Woodbury». Pasti liberi.
31 ottobre: New York Al mattino, visita guidata di Manhattan o di Brooklin (facoltativa, con supplemento). O possibilità di partecipare alla «Dash to the finish line», jogging di 5km tra le Nazioni Unite e Central Park (con supplemento). Pomeriggio e pasti liberi. 1. novembre: New York Marathon (ore 06.00) Trasferimento dall’hotel al luogo di partenza della maratona, al Ponte Verrazano. 4 linee di partenza permetteranno di raggiungere Central Park dopo 42,195 km. Rientro in hotel individualmente. In serata, Cocktail post
corsa offerto dal nostro partner Tourisme Pour Tous. Pasti liberi. 2 novembre: New York Giornata libera completa a disposizione per scoprire le attrazioni della Grande Mela con escursioni organizzate in loco (facoltative). Pasti liberi. 3 novembre: New York – Zurigo Mattinata libera. Nel pomeriggio trasferimento in bus all’aeroporto per il volo intercontinentale per Zurigo. Pasti e pernottamento a bordo. 4 novembre: Zurigo – Ticino Arrivo a Zurigo in mattinata, rientro in Ticino.
Bellinzona
Lugano
Lugano
Viale Stazione 8a 6500 – Bellinzona T +41 91 820 25 25 bellinzona@hotelplan.ch
Via Pietro Peri 6 6900 – Lugano T +41 91 910 47 27 lugano@hotelplan.ch
Via Emilio Bossi 1 6900 – Lugano T +41 91 913 84 80 lugano-viabossi@hotelplan.ch
La quota comprende Trasferta all’aeroporto di Zurigo e ritorno; voli di linea in classe economica; tasse aeroportuali; trasferimento dall’aeroporto di New York fino all’hotel in centro a Times Square; 5 pernottamenti in hotel 3*** con servizi privati; senza pasti; assistenza di lingua italiana per i corridori dalla Svizzera; visto ESTA; serata informativa. Incluso nel pacco gara Trasferimenti ai vari appuntamenti; seduta informativa in lingua francese; t-shirt souvenir; documentazione completa sulla maratona; cocktail dopo gara. La quota non comprende Adeguamento carburante; pasti e bevande; eventuali prenotazione posti a sedere sul volo intercontinentale; extra in genere; assicurazione viaggio da 65.–. IMPORTANTE: ogni partecipante alla maratona deve avere una copertura sanitaria adatta alla prestazione. Obbligatorio passaporto con almeno 6 mesi di validità dalla data di rientro e Visto ESTA.
Martineric
Viaggio Per i lettori di «Azione», Hotelplan organizza un viaggio di gruppo dal 29.10 al 4.11.2020
Tagliando di prenotazione Desidero iscrivermi alla Maratona di New York Nome Cognome Via NAP Località Telefono e-mail
Sarò accompagnato da … adulti e … bambini (0-11 anni). Cerchiare se è il caso: Sistemazione singola?
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Ambiente e Benessere
Oasi per un futuro migliore
Sostenibilità La Tunisia cerca il rilancio puntando sulla tutela e sullo sviluppo del sistema tradizionale delle sue oasi,
con una maggiore attenzione alla biodiversità e al ruolo delle donne
Amanda Ronzoni, testo e foto Le oasi tunisine hanno una lunga, lunghissima storia alle spalle. Sin dalla preistoria hanno ospitato e visto passare numerose civiltà, e sono state un importante trait d’union tra due mondi e due ecosistemi totalmente diversi tra loro: il mar Mediterraneo e il deserto del Sahara. Hanno reso possibili scambi commerciali, ma anche culturali, tra due regioni lontane e i popoli che le abitavano. Sono state degli incubatori fondamentali per saperi, tradizioni e conoscenze, ma anche un vero e proprio rifugio per uomini, piante e animali, in un territorio difficile e inospitale. La biodiversità che prospera nelle oasi è straordinaria per due motivi: la sua ricchezza (sono state recensite nel 2005 circa 260 varietà solo di palme da dattero, ma ci sono numerose specie di alberi da frutta, piante aromatiche e medicinali, cereali…) e una straordinaria capacità di adattamento a condizioni difficili, alla salinità, alla scarsità d’acqua, ai cambiamenti climatici stessi. Insomma un grande patrimonio e una ricchezza per il futuro. Eppure… Eppure, nel corso degli anni, il sistema di gestione, basato sull’autodeterminazione comunitaria delle risorse, dell’acqua in primis, è stato pesantemente modificato. Il diritto di accesso gratuito a queste risorse, visto come inalienabile e rispettato da tutti i membri delle comunità locali, ha ceduto il passo a modelli di sfruttamento organizzato e regolato da un apparato amministrativo esterno. L’assimilazione delle oasi ai campi irrigati e metodi di coltivazione intensivi in molti casi hanno causato un rapido esaurimento delle risorse naturali e delle falde acquifere, mentre una gestione orientata solo alla capacità produttiva e alla redditività ha portato con sé una tendenza alla monocoltura e a casi di speculazione terriera. Il sistema oasi ha perso così molte delle sue particolarità e funzioni
esempio di architettura tradizionale tipica delle oasi.
sociali e culturali, oltre che ambientali ed ecologiche. Impoverimento delle risorse idriche, desertificazione e aumentata sensibilità ai cambiamenti climatici sono solo alcune delle conseguenze, che ovviamente non ricadono solo sulla natura, con perdita di biodiversità, ma
verso la diversificazione delle attività e delle fonti di reddito, il consolidamento e ottimizzazione della filiera dei prodotti tipici, lo sviluppo di filiere innovative e sostenibili. Dando stimolo ad altre attività collaterali come il turismo e il settore agro-alimentare, si punta alla creazione di nuovi posti di lavoro, e quindi anche a una formazione specifica e soprattutto alla realizzazione di un sistema partecipativo aperto e dinamico, con il sostegno a micro-progetti associativi e di cooperazione.
le oasi sono fondamentali anche nella lotta contro la desertificazione.
anche sugli uomini. A questo si agganciano fattori socio-economici come l’esodo dalle zone agricole alle città, industrializzazione, degrado ambientale. Una catena pericolosa. Da spezzare. Distribuite su una superficie di 40’800 ettari, le oasi tunisine oggi sono parte dei quattro governatorati di Gafsa, Tozeur, Kébili e Gabès, che occupano la parte settentrionale del sud del paese. Qui si trova circa il 10% della popolazione. Distinte a seconda della loro posizione geografica in oasi del Sahara (76,8%), litoranee (17,3%) e montane (5,8%), sono invece classificate in base al sistema produttivo in tradizionali e moderne. Per la loro salvaguardia la Banca Mondiale ha dato il proprio sostegno finanziario attraverso il suo programma PROFOR (Program on Forests), in modo da supportare il governo tunisino nel quadro del piano per la Gestione sostenibile degli ecosistemi delle oasi (GDEO – http://www.oasys. tn e http://projects.banquemondiale. org/P132157/tn-oases-ecosystems-livelihoods-project?lang=fr). Ci si muove su diversi piani: quello del recupero e della riabilitazione delle funzioni produttive tradizionali, attra-
la biodiversità che prospera nelle oasi è straordinaria.
Verdure e frutta colorano il mercato di Dous.
Le oasi si distinguono in oasi del Sahara (76,8%), montane (5,8%) e litoranee (17,3%), tradizionali e moderne Le oasi tradizionali, in particolare, visto il loro patrimonio storico e culturale, ma anche il valore paesaggistico e ambientale, si candidano naturalmente a ospitare iniziative per un incremento del turismo. Rilancio di attività artigianali di qualità, recupero di materia-
le etnografico e fotografico che possa confluire in piccoli musei diffusi sul territorio, creazione di attività di pubblico interesse come festival, maratone ed eventi folkloristici, ripristino di vecchie vie e creazione di sentieri escursionistici dedicati all’ecoturismo. Attualmente, il piano messo in atto, che si concluderà a novembre di quest’anno, ha già avuto ricadute positive per circa 18mila persone sul territorio, di cui circa un terzo donne. Considerata la posizione delle oasi, a ridosso del Sahara, e l’attuale sfida posta dai cambiamenti climatici, il piano prevede anche delle strategie di adattamento per affrontare e possibilmente mitigare gli effetti di eventi estremi che si fanno sempre più frequenti nella regione. Secondo dati e statistiche, rispetto al periodo di riferimento 19611990, si prevede un innalzamento delle temperature di 1,88°C entro il 2030 e di 2,8°C entro il 2050. L’effetto di questa tendenza si sta già facendo sentire con un aumento dell’intensità dell’irraggiamento solare d’estate e l’intensificarsi delle piogge, prevalentemente in autunno. Le inondazioni, sempre più frequenti, specie nelle oasi di montagna, mettono a rischio le infrastrutture e i sistemi produttivi. Nelle oasi costiere, invece, questi cambiamenti, uniti allo sfruttamento intensivo delle falde idriche – che svuotate sono a rischio di infiltrazioni dal mare, con conseguente salinizzazione delle acque – espongono la regione a un maggior rischio di desertificazione. Nel piano di gestione sostenibile per le oasi, il governo tunisino infine ha predisposto uno studio dell’impatto dei cambiamenti climatici su questo ecosistema tanto importante quanto delicato, con piani d’intervento per rispondere alle emergenze, ma anche per prevenire. Una sfida, quella per garantire il futuro alle isole nel deserto, che su piccola scala rappresenta ciò che ogni comunità, ogni paese, più o meno grande, non può più ignorare.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 14 ottobre 2019 • N. 42
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Premiati gli esploratori di nuovi mondi
Ambiente e Benessere
Esopianeti Agli svizzeri Michel Mayor e Didier Queloz, il Nobel per la fisica 2019
Loris Fedele «Dopo la nostra scoperta del primo esopianeta non siamo mai più tornati alla normalità». Sono queste alcune parole pronunciate a caldo da Michel Mayor dopo che l’Accademia delle Scienze svedese ha annunciato di avergli conferito il premio Nobel per la Fisica, a 24 anni da quella scoperta. Premiato con lui, il suo allievo e compagno d’avventura Didier Queloz. Nel 1995 i due astronomi svizzeri scoprirono il primo pianeta esterno al sistema solare, un esopianeta, cioè un pianeta che orbita attorno a una stella che non è il Sole. Si trova a una cinquantina di anni luce da noi, in orbita intorno a una stella denominata 51 Pegasi, per cui ha preso il nome di 51 Pegasi b. Questo esopianeta è un gigante gassoso simile a Giove, ma con una massa valutata la metà di quella del pianeta del sistema solare. Mayor e Queloz stavano effettuando le loro osservazioni e le misurazioni dall’Osservatorio dell’Alta Provenza, nel sud della Francia. Erano a 650 metri sul livello del mare con a disposizione un telescopio piuttosto piccolo. Annunciarono la scoperta il 6 ottobre 1995, accompagnandola con la pubblicazione sulla rivista «Nature». Pochi giorni dopo alcuni scienziati americani confermarono la scoperta. Mayor e Queloz li avevano coraggiosamente battuti sul tempo, infatti erano molti gli scienziati che stavano cercando la presenza di esopianeti adottando ciò che viene definito dalla scienza come «metodo della velocità radiale». In altre parole, si misura il movimento di una stella rilevando le piccole variazioni che avvengono sulle sue emissioni per l’influenza gravitazionale del pianeta che le orbita attorno. Il pianeta 51 Pegasi b, nella costellazione di Pegaso, orbita solo a sette milioni di chilometri dalla sua stella (poco, se si pensa che la Terra è a 150 milioni di chilometri dal Sole). Proprio l’aver cercato vicino alla stella, dove si pensava che questi esopianeti di grandi dimensioni non potessero esistere, è stata l’intuizione geniale e vincente dei ricercatori svizzeri. Ricorda ancora Mayor ripensando a quei tempi: «Nel 1995 nessuno sapeva con esattezza se gli esopianeti esistevano o no». All’inizio vi fu scetticismo verso questa scoperta, ci vollero quattro o cinque anni per superarlo. Poi, soprattutto con la spinta degli americani, si migliorarono le tecniche a disposizione della ricerca e si svilupparono nuovi strumenti. Tra l’altro Michel Mayor (nato nel 1942), pensionato dal 2007 dall’Università di Ginevra di cui è professore onorario e ancora molto attivo, ha contribuito alla progettazione e allo sviluppo dello spettrografo per velocità radiali HARPS, installato nel 2002 al grande e prestigioso Osservatorio Spaziale Europeo (ESO) di La Silla, in Cile, uno dei siti più privilegiati al mondo per le osservazioni astronomiche. Didier Queloz, nato nel 1966, è ancora professore all’Osservatorio dell’UNIGE e all’Università di Cambridge. Grazie alle ricerche dell’équipe guidata da Mayor e Queloz furono scoperti altri 250 esopianeti. Poi, con diversi telescopi sparsi per il mondo e con i telescopi spaziali americani come l’Hubble, il satellite Kepler e il telescopio TESS, tutti della NASA, si è verificata una vera esplosione di scoperte da parte dei cacciatori di pianeti. Siamo ormai arrivati a 4mila esopianeti confermati e catalogati. Molti di essi
i due svizzeri premiati con il Nobel per la fisica: Didier Queloz (sin.) e Michel Mayor. (Keystone)
sono giganti gassosi come 51 Pegasi b, ma stanno diventando sempre più numerosi i pianeti rocciosi simili alla Terra. Proprio questo fattore ha fatto riaffiorare l’eterna domanda: siamo soli nell’universo? La scoperta di Mayor e Queloz, veri esploratori dello spazio, ha quindi avuto un impatto filosofico oltre che scientifico. Si è aperta una nuova porta sull’universo, dando la prima prova scientificamente verificata che il nostro Sistema Solare non è unico e nemmeno un’eccezione nell’universo. Adesso si sa che moltissime stelle sono contornate da pianeti e che questo fatto non è una prerogativa solo nostra. Da allora c’è la consapevolezza che esistano altri mondi e molte domande hanno cercato risposte: come sono questi pianeti? Caldi e gassosi, freddi, rocciosi? Che composizione e che dimensioni hanno? Quanto potrebbero essere simili alla Terra? Per cercare risposte proprio la Svizzera sta per lanciare un suo satellite con l’aiuto dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA). Il satellite si chiama CHEOPS (CHaracterising Exoplanet Satellite) e porta nel suo nome la sigla CH oltre alla spiegazione del suo compito. Caratterizzare, e quindi capire, le dimensioni degli esopianeti. Finora per la maggior parte dei 4mila esopianeti scoperti sappiamo solo che esistono. A finire nel mirino di CHEOPS saranno stelle note con dimensioni comprese fra quelle della Terra e di Nettuno (da 1 a 6 volte il raggio terrestre) e con esopianeti. La stima del loro diametro avverrà sfruttando il metodo dei transiti. CHEOPS, guardandoli dalla sua orbita, saprà già quando passeranno davanti alla stella. Da buon cacciatore li aspetterà al varco così da poterne calcolare le dimensioni misurando di quanto la luminosità della stella si riduce a causa del parziale oscuramento dovuto al pianeta. Si confida di poter riuscire a misurare le dimensioni anche dei pianeti più piccoli, che potrebbero assomigliare alla Terra. La missione CHEOPS nasce dalla collaborazione dell’ESA con lo Swiss Space Office e l’Università di Berna, che ha sviluppato e gestisce il progetto. La costruzione materiale del satellite è stata affidata ad Airbus Defence and Space Spagna. Il lancio, come detto, è imminente. Avverrà dallo spazioporto europeo di Kourou nella Guyana francese, con un vettore russo Soyuz gestito da Arianespace. Il Nobel a Mayor e Queloz non poteva arrivare più a proposito per attirare l’attenzione su quelle attività
spaziali che l’opinione pubblica snobba non trovando più nelle stesse quella dimensione epica che ha fatto grande l’astronautica negli anni Sessanta del secolo scorso con lo sbarco sulla Luna. Eppure, le ricerche spaziali, umane e strumentali, vanno avanti, con finanziamenti pubblici e privati. Per curio-
sità ricorderò che il progetto TESS di ricerca degli esopianeti, preparato dal Massachussets Institute of Technology (MIT) di Boston, è stato largamente sponsorizzato da privati ed è partito nell’aprile 2018 da Cape Canaveral lanciato da un Falcon 9, uno dei lanciatori riutilizzabili della Space X, l’azienda
aerospaziale privata di Elon Musk. Il 31 luglio 2019, terminata la sua prima indagine riguardante l’emisfero sud celeste, TESS ha indicato 24 nuovi esopianeti confermati e 993 candidati a entrare nella lista. Finora tra gli esopianeti scoperti, una copia della Terra non è stata ancora trovata e, se pur la trovassimo, sarà molto difficile se non impossibile andarci fisicamente. Questo non vuol dire che dobbiamo abdicare alla ricerca della vita extraterrestre. Esistono centinaia di miliardi di galassie per ognuna delle centinaia di miliardi di stelle: come non pensare che in qualche parte dell’universo non possa esserci una vita come da noi? Per trovare la vita extraterrestre ci vorranno tempi lunghi e forse non la troveremo mai. La prova scientifica ancora non l’abbiamo e quindi dobbiamo astenerci da qualsiasi giudizio. Certo, come diceva il fisico Enrico Fermi, e lo diceva già un’ottantina d’anni fa scherzando: «Se ci sono queste vite aliene, perché non si fanno vedere?». E ancor più, come espresso dalla sottile ironia di uno scrittorescienziato come Carl Sagan, uno dei fondatori del progetto SETI per la ricerca di intelligenze extraterrestri: «Se fossimo soli ci sarebbe davvero un grande spreco di spazio!». Annuncio pubblicitario
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Ambiente e Benessere
Il mondo di carta
Dal virtuale alla carta
Viaggiatori d’Occidente Una mostra a Berlino racconta un secolo e mezzo di cartoline
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letture per viaggiare Claudio Visentin «Non capisco che / cosa intendi dire / quando dici che / quando dici che mi ami / che mi ami da morire / quando invece passi il tempo / a girare per il mondo / e non ti fermi mai. / Quando capirai / che l’amore mio / non può restare solo / non vive solamente / di parole / scritte sulle cartoline / che mi mandi ogni volta / che vai in giro per / le strade del mondo». Così Mina, in una celebre canzone del 1967 (Cartoline), si lamentava di un innamorato più interessato ai viaggi che a coltivare la loro relazione. Oggi probabilmente non riceverebbe più nemmeno quelle cartoline. Quando è stata l’ultima volta che avete comprato una cartolina? Forse era per la nonna, che ancora la tiene sulla porta del frigorifero fissata con una calamita. Sino a qualche anno fa era impensabile visitare una città senza mandare qualche cartolina, poi abbiamo perduto questa abitudine. La fine di una tradizione ce la mostra avvolta di nostalgia nella calda luce del tramonto: è con questo spirito che il Museo della Comunicazione di Berlino (www.mfkberlin.de) dedica una mostra (fino al 5 gennaio) proprio all’umile cartolina, in occasione dei centocinquant’anni dalla sua introduzione. La prima cartolina (Korrispondenz-Karte) fu inviata il 1. ottobre 1869 nell’Impero austro-ungarico; se ne attribuisce l’invenzione a Emanuel Alexander Herrmann, professore d’economia. L’idea originale era inviare brevi messaggi a un costo ridotto. Nel 1874 fu creata a Berna l’Unione Postale Universale e una delle sue prime decisioni fu proprio una tariffa dimezzata per le cartoline rispetto alle lettere. Il progetto era da tempo nell’aria (e qualcosa di simile era già stato sperimentato in Gran Bretagna e negli Stati Uniti), ma prima il pubblico dovette abituarsi all’idea che il messaggio fosse esposto agli sguardi di tutti, in mancanza della busta. Le prime cartoline erano semplici rettangoli color seppia: l’indirizzo di fronte, un breve messaggio dietro, non più di venti parole (qualcosa di simile ai 140 caratteri di Twitter). Poiché la posta veniva raccolta e distribuita anche più volte al giorno,
«La non-rivista diventa rivista. Dall’impalpabile universo del web a un materiale nuovo come la carta. Dal vuoto affollato delle dimensioni virtuali alla ruvidezza allegra di un mondo fatto di tatto e di odori (…) Erodoto è questo: un compagno di viaggio. Fate una fatica antica: mettetelo nel vostro zaino, anche se andate a piedi (potrete abbandonarlo in un hostal) e leggetelo a voce alta. La carta merita anche il suono della vostra voce. Leggetelo agli angoli delle strade, nei boschi, in riva al mare, mentre vi imbarcate su una nave…».
Nel 1889 a Parigi furono vendute migliaia di cartoline con la nuova torre eiffel. (Pxhere.com)
con uno scambio di cartoline si poteva anche fissare un appuntamento in giornata. A partire dagli anni Ottanta dell’Ottocento le cartoline furono stampate con un’immagine, dapprima in bianco e nero, poi a colori, lasciando uno spazio bianco per il messaggio. Nel 1889 per esempio a Parigi furono vendute migliaia di cartoline con la nuova Torre Eiffel. Nel 1902 il retro della cartolina fu diviso a metà tra lo spazio per il messaggio e quello per l’indirizzo; la parte frontale rimase così interamente a disposizione dell’immagine, sempre più importante. L’uso turistico divenne allora prevalente. Il pubblico accolse la proposta con entusiasmo. Nel 1913 in Svizzera soltanto se ne vendettero circa centododici milioni. Durante la Prima guerra mondiale dieci miliardi di cartoline furono inviate gratuitamente, specie quando mancava il tempo per scrivere più a lungo e si voleva rassicurare la famiglia sulla propria salute. Il formato sempre uguale incoraggiava i collezionisti e ancora oggi alcune rare carto-
line possono valere migliaia di euro. Nell’evoluzione della cartolina illustrata gli svizzeri giocarono un ruolo decisivo. Alla fine del XIX secolo il litografo zurighese Hans Jakob Schmid, al servizio della Orell Füssli, inventò il procedimento fotocromatico per la stampa a colori. L’azienda Photoglob AC di Zurigo (www.photoglob. ch), fondata centotrent’anni fa (1889), si è sempre più specializzata in questo campo, anche attraverso fusioni e acquisizioni. Nel nuovo millennio, l’uso delle cartoline è diminuito a vista d’occhio. L’anno scorso per esempio gli americani hanno spedito ancora circa seicentotrenta milioni di cartoline, ma si tratta di un minimo storico. Il racconto del viaggio è diventato immateriale e passa ora soprattutto attraverso i Social o WhatsApp. Si è annullato anche quell’intervallo di tempo prima che la cartolina giungesse nelle mani del destinatario. Tutto è più facile e veloce, eppure qualcuno rimpiange le piccole cerimonie del tempo andato: la scelta della cartolina, l’acquisto del franco-
bollo, la vana ricerca di un pensiero originale e divertente prima di affidarla alla buca delle lettere. Si è anche tentato di far rivivere la cartolina in digitale, grazie a un app, Postagram (https://sincerely.com/postagram): basta inviare una propria immagine con un messaggio e questa verrà trasformata in una cartolina spedita al destinatario, al ragionevole costo di tre dollari. La cartolina ha oggi ancora molti estimatori e se il suo utilizzo è senza dubbio minore, è tuttavia più creativo e consapevole, spesso con un risvolto ironico, postmoderno. Mandare una cartolina è una scelta, non una convenzione. Le cartoline sono utilizzate anche nella Mail Art, ovvero per l’invio di opere d’arte di piccole dimensioni attraverso il servizio postale. Per esempio, nel 2005 Frank Warren ha creato PostSecret (postsecret.com), un sito dove chiunque può mandare una cartolina nella quale racconta in forma anonima un segreto mai rivelato prima. Un piccolo segreto sotto gli occhi di tutti; non è forse questo il significato profondo della cartolina?
Se le cartoline illustrate migrano su Internet, in compenso, dopo otto anni e ventiquattro numeri in rete, la rivista di reportage «Erodoto108» (www. erodoto108.com) si propone in edizione cartacea. È un bel passo avanti, anche se per altri aspetti è un ritorno alla confortante familiarità della carta stampata. Negli ultimi anni il reportage di viaggio ha trovato spazio nelle più diverse testate; per esempio, lo trovate regolarmente anche qui su «Azione». Ma sfogliando il primo numero cartaceo di «Erodoto108», dedicato in larga parte all’India (con un’interessante divagazione sulla festa dei morti in Messico), si capisce meglio l’utilità di una rivista a questo interamente dedicata, con un’ottima qualità d’immagini e una bella pluralità di voci. Nel tempo della globalizzazione, i nostri orizzonti si sono estesi a dismisura. Terre un tempo esotiche e lontane ci appaiono ora a portata di mano, vicine, familiari. Ma nella nuova carta geografica del mondo restano numerosi spazi bianchi, anche perché il cambiamento è continuo, incessante, e quel che si è descritto una volta ha poi bisogno di essere nuovamente raccontato dal principio. E in questa prospettiva il classico reportage, con la sua combinazione di testo e immagini, si conferma uno strumento efficace, duttile, appassionante. Annuncio pubblicitario
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Idee e acquisti per la settimana
un piccolo che si distingue alla grande
Lo si riconosce subito al primo colpo d’occhio: ben protetto nel suo brillante manto rosso il Mini Babybel si può portare praticamente ovunque. Questo perché si conserva per qualche tempo anche senza refrigerazione. Inoltre il formaggio dolce semi-duro non contiene conservanti o coloranti, è naturalmente privo di lattosio ed è prodotto con caglio vegetariano. Siccome è così buono, il piccolo snack al formaggio si distingue alla grande anche durante le escursioni in montagna.
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Ambiente e Benessere Migusto La ricetta della settimana
Barbabietole con caprino e miele Antipasto Ingredienti per 4 persone: 600 g di barbabietole crude piccole · 4 c d’olio d’oliva · ¼ di mazzetto di timo · ½ arancia · fleur de sel · pepe · 4 caprini di 80 g · 2 c di miele di fiori d’arancia.
migusto.migros.ch/it/ricette Per diventare membro di Migusto non ci sono tasse d’iscrizione. Chiunque può farne parte, a condizione che un membro della sua famiglia possieda una Carta Cumulus.
1. Scaldate il forno a 200 °C. Dimezzate le barbabietole o tagliatele a spicchi a seconda delle dimensioni. Mettetele in una scodella con l’olio e le foglie di timo. 2. Prelevate delle striscioline di scorza d’arancia, mettetene da parte un po’ e aggiungete il resto alle barbabietole. Aggiungete il succo spremuto e condite le barbabietole con fleur de sel e pepe. Mescolate bene il tutto e distribuite in una teglia foderata con carta da forno. Cuocete nella metà del forno per circa 40 minuti. 3. Dimezzate i caprini in senso orizzontale e accomodateli nella teglia con le barbabietole. Conditeli con poco fleur de sel, pepe e le striscioline di scorza d’arancia messe da parte. Infornate ancora per circa 5 minuti nella metà superiore del forno. Sfornate, irrorate con il miele e servite subito. Preparazione: circa 20 minuti + cottura in forno circa 45 minuti. Per persona: circa 10 g di proteine, 12 g di grassi, 33 g di carboidrati, 340
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Ambiente e Benessere
Una sfida oltre i limiti tra fango e sudore
Tendenza Prendono piede anche in Ticino le corse a ostacoli che trasformano i podisti in guerrieri
Romina Borla Correre per chilometri e chilometri non basta. Bisogna superare palizzate sempre più alte, strisciare nel fango e sotto il filo spinato. Arrampicarsi su funi scivolose, affrontare rigide salite con tronchi sulle spalle. Fino a nuotare nell’acqua ghiacciata e saltare muri di fiamme. Le nuove frontiere del podismo si spingono sempre oltre e attirano un numero crescente di persone anche in Ticino. Di cosa stiamo parlando? Dell’OCR, acronimo di obstacle course racing (corsa ad ostacoli), una disciplina sportiva che combina la corsa a esercizi di forza e destrezza sviluppatasi dai primi anni 2000. Chi la pratica deve affrontare un tragitto di diversi chilometri superando ostacoli sia naturali sia artificiali, di cui prima della partenza sa poco o niente. Gli esperti sostengono che lo sport in questione si ispiri ai percorsi creati nell’antica Grecia per allenare i guerrieri al combattimento, da qui il nome della gara più conosciuta, la Spartan Race. «Ma vi sono centinaia di competizioni in tutta Europa e nel mondo», dice Nadia Brusorio, presidente dell’OCR Ticino (associazione fondata nel 2017) e vicepresidente della Swiss obstacle sports federation. Oltre ai campionati OCR, esistono infatti Inferno Run, Vikings Race, Ninja Warrior, Tough Mudder, Fisherman’s Friend Strongman Run, ecc. Gare dai nomi minacciosi diventate dei marchi che fanno cassa. L’iscrizione a una Spartan, ad esempio, costa oltre 70 euro e gli interessati possono acquistare abbigliamento sportivo e scarpe – ma pure gioielli e libri da cucina – col marchio del combattente bene in evidenza. Tra le bancarelle dei villaggi costruiti intorno agli eventi – siamo stati alla Spartan di Misano Adriatico (Emilia-Romagna) il 21 settembre scorso – trovi di tutto: dal giovane muscoloso col petto nudo al bambino orgoglioso della sua fascetta numerata (c’è un circuito studiato apposta per loro), dalla ragazza superfit alla signora in là con gli anni che però
un momento della gara Spartan Misano. (sportograf)
riesce ad arrampicarsi su barriere che voi umani… «Si avvicinano a questo sport uomini e sempre più donne di tutte le età», conferma Brusorio. «Alcuni studi sottolineano come chi lo pratica occupi di solito una buona posizione lavorativa. Si tratta infatti di una disciplina costosa: fino a qualche anno fa per raggiungere le gare dovevi viaggiare, magari prendere un aereo, prenotare un hotel». Ma ora il fenomeno è in espansione anche alle nostre latitudini. Il 14 settembre scorso si è tenuta la prima Spartan in Svizzera, a Verbier. In
Ticino le OCR sono arrivate un paio di anni fa con la Spartacus run a LuganoCanobbio. Mentre in agosto, a Tesserete, si è svolta la prima edizione della Hannibal’s crossing. L’OCR ha successo perché si svolge nella natura ed è uno sport completo, spiega la nostra interlocutrice. Richiede forza, resistenza, abilità, coordinazione ed equilibrio. «È una disciplina che ti costringe a uscire dalla tua comfort zone, a impegnarti per superare ostacoli che sono metafora delle difficoltà della vita». Inoltre è divertente – si percorre quello che sem-
bra un enorme parco giochi – e dà la possibilità di gareggiare in squadra, sostenendosi a vicenda. «La solidarietà che nasce tra persone diverse tra loro è meravigliosa». Nell’OCR c’è spazio per tutti, sottolinea l’intervistata, sono infatti previste tre categorie: open, age group (competitiva per classi di età) ed élite». Per quello che riguarda l’ultima, il Ticino vanta la presenza di atleti notevoli come Romina Sangiacomo, una delle giovani più promettenti in Europa. La «nostra» ha partecipato a diversi mondiali, classificandosi sempre nei
primi posti. Anche Mauro Sandrini di Camorino ha ottenuto buoni risultati e ricorda con particolare emozione i Campionati mondiali invernali Spartan in Islanda: ventiquattro ore di fatiche in team (2017) e in solitaria (2018). «Mi sono allenato molto, in montagna e di notte» racconta. «Il vento, la pioggia e la neve non mi fermavano. Ero pronto a tutto e in Islanda ce ne voleva di forza fisica e mentale, specie nell’affrontare gli ostacoli ghiacciati: toglievi i guanti, stringevi i denti e afferravi quel metallo gelido sperando che la pelle non rimanesse attaccata. Ci sono stati parecchi infortuni e tanti hanno abbandonato. Io sono andato avanti, conquistando un quinto posto nella mia categoria. Con 84 km percorsi, 150 ostacoli superati, 390 burpees (speciale esercizio ginnico, ndr.) e un dislivello spaventoso». Chi non si accontenta di correre, affrontando ostacoli nel fango o nella neve, può tentare sfide di resistenza di altro tipo. Ad esempio, Spartan offre degli «eventi basati sul lavoro di squadra» che possono durare dalle quattro alle sessanta ore: Hurricane heat (HH), HH12HR oppure Agoge. La 37enne di Cugnasco Fabiola Assuelli ha di recente sperimentato la HH insieme al marito. «Non è una gara ma una vera e propria missione di cui all’inizio sai poco», spiega. «Noi conoscevamo l’ora di partenza e la lista degli oggetti da portare: paracord (corda molto resistente, ndr.), nastro adesivo, indelebile, pile frontali, taniche da 10 o 15 litri, sacchi della spazzatura e così via. Ci siamo trovati alle tre del mattino. Eravamo in cinquanta. Abbiamo lavorato diverse ore per creare dei pozzi da riempire con l’acqua del mare. Ci aspettavano un percorso da superare e degli esercizi di forza da espletare. Faceva freddo ed era buio. Il sonno, la fatica e le attese erano difficili da gestire: c’era gente che usciva di testa. A me è piaciuto tanto. È meraviglioso lo spirito di gruppo che si crea in quelle situazioni. Come il fatto che, mentre tutti dormono, tu sei lì col tuo gruppo concentrato sul presente. Una sensazione impagabile». Annuncio pubblicitario
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Ambiente e Benessere
Va dove ti porta… il portafoglio
Sport La desertificazione dello sport avanza. I recenti Campionati mondiali di atletica leggera si sono svolti a Doha,
nel Qatar, in uno stadio semideserto
Federations) ha attribuito all’emirato l’organizzazione del suo evento principe. Le temperature e il tasso di umidità elevatissime hanno imposto la disputa delle maratone a notte fonda, per evitare danni fisici ai partecipanti. Tuttavia, subito il primo giorno, nella maratona femminile, ci sono stati 28 abbandoni e 2 ricoveri in ospedale. È vero, lo ammetto, ci sono situazioni più estreme. Penso, ad esempio, ad alcune Parigi-Roubaix corse con pioggia, freddo e vento sferzante. Sì, ma chi c’era può tranquillamente raccontare di aver partecipato a un evento epico, figlio di Pathos e Amore, con decine di migliaia di spettatori a bordo strada a condividere la sofferenza dei loro idoli. Lo stadio di Doha, in questi giorni? Semi-deserto. Mortificante. Mi sorgono delle perplessità. Dal 21 novembre al 18 dicembre del 2022 il Qatar ospiterà la fase finale della Coppa del Mondo di calcio. Sì, avete capito bene le date. Del resto gli appassionati le avranno già interiorizzate e segnate in agenda. Non più fra giugno e luglio, ma in tardo autunno. Chissà perché? La FIFA è l’autentica corazzata dello sport, quindi saprà trarre profitto anche da questa manifestazione. Se alla sua guida ci fosse ancora Joseph Blatter, sarebbe capace di smuovere il mondo verso Doha. Nulla mi porta a dubitare che anche Gianni Infantino e il suo Team sapranno fare altrettanto. È quanto meno un auspicio. Quello che viene considerato, a torto o a ragione, come il gioco più bello del mondo, non può prescindere dal colore, dal calore e dalla passione di chi riempie le tribune.
Giancarlo Dionisio «Cosa fanno? Che succede?» Erano le domande che ponevano spesso i turisti americani in occasione dei Campionati mondiali di sci alpino del 1999 a Vail-Beaver Creek. Una volta ricevuta la risposta, se ne andavano verso le loro piste, con sci o snowboard sulle spalle. Immagino che anche nelle altre edizioni svolte in quei siti il clima fosse il medesimo. E pensare che queste scene si svolgevano in luoghi dalla solida tradizione sciistica. Ci si chiede quindi come mai una federazione mondiale scelga di organizzare il suo appuntamento più importante in località in cui c’è scarso interesse per l’evento. Nel caso degli Stati Uniti la decisione della FIS si giustifica. Gli americani non saranno tifosi di sci come lo sono austriaci, svizzeri e francesi, ma sono senza dubbio degli amanti degli sport della neve. Quindi un evento come il Mondiale apre le porte a un interessantissimo mercato di potenziali consumatori. Inoltre gli organizzatori avevano predisposto delle tribune più piccole e meno capienti rispetto a quelle di Wengen, Kitzbühel, Garmisch e di altre stazioni europee. Rendendo così meno imbarazzante il compito di registi e cameraman, costretti a scovare scorci con tifoserie munite di bandiere, trombette e campanacci. Da alcuni anni lo sport soffre di qatarite. In poco tempo, l’Emirato del vicino Oriente ha ospitato e ospiterà alcuni fra gli eventi sportivi di maggior richiamo. Dal 1993, nella capitale Doha, si svolge un torneo ATP di tennis, un World Tour 250 series, che per
lo stadio Khalifa di Doha. (Oha)
tre volte ha visto trionfare il nostro Roger Federer. Fin qui tutto bene. Nel 2014 e nel 2016, la capitale del Qatar ha ospitato la finale della Supercoppa italiana di calcio, sì proprio quella che ha celebrato la sua ultima edizione in Cina, suscitando reazioni e polemiche di carattere politico ed etico. Siete legittimati a porvi delle domande e a manifestare le vostre perplessità. Dal 2002 l’Unione ciclistica internazionale ha lanciato il Giro del Qatar. Operazione legittima nell’ottica della mondializzazione del ciclismo. Ma da qui a concedere, pochi anni più tardi, l’organizzazione del Campionato del
Mondo, ce ne passa. Eppure, nel settembre del 2016, fra le oasi dell’Emirato, va in scena la corsa regina. Se la aggiudica lo slovacco Peter Sagan, in volata su Mark Cavendish e Tom Boonen, dopo che la scrematura più importante era avvenuta nella prima metà della corsa durante la lunga ed estenuante traversata del deserto. Deserto è la parola chiave. Le splendide immagini, dal profilo paesaggistico, mostrano incantevoli palmizi, ridenti dune pettinate dal vento, molti cammelli con relativi cammellieri. Stop. Il pubblico, anche nella zona del traguardo, è scarsissimo. Avvilente, per chi si è scirop-
pato 257 km in sella, frustato dal vento e prosciugato dal sole. Non credo che quell’evento abbia scatenato una tempesta di entusiasmo per il ciclismo nei ragazzini qatarioti. Si è trattato semplicemente di un’opportunità per promuovere nel mondo l’immagine di un piccolo e ricchissimo paese asiatico che viaggia a due velocità. Quella di chi ha moltissimo e quella di chi tira a campare. Passano tre anni e la scena si ripete. Luogo del «crimine» lo stadio Khalifa di Doha, teatro dei Campionati mondiali di atletica leggera. Con imperdonabile leggerezza la IAAF (International Association of Athletics
Giochi
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Cruciverba Scopri come si chiama la farfalla nello schema e qual è la sua caratteristica, risolvendo il cruciverba e leggendo le lettere evidenziate. (Frase: 10, 8, 2, 9)
ORIZZONTALI 1. Albero originario dell’Asia Minore 6. Preposizione articolata 11. Mitigare, addolcire 13. In coppia con Tizio 14. Lo è l’onagro 16. Isola del Mar d’Irlanda 17. Simbolo chimico del rutenio 19. Misure per guantoni da box 21. Città francese sul Rodano 23. Ripida, scoscesa 25. Due di coppe 27. Un giorno 29. La Venier 31. Le iniziali del «Perugino» 32. Aggettivo possessivo 33. Malvagia in poesia 34. Due vocali 35. Una cricca di amici VERTICALI 1. Nome femminile 2. Emme senza emme 3. Contiene informazioni genetiche 4. Liti con percosse 5. Si contano a scopa... 7. Le iniziali della Canalis 8. Cellula sessuale 9. Prima moglie di Giacobbe 10. Particelle cariche di elettricità 12. Prefisso che vuol dire vino 15. Primo cardinale inglese 18. La patria di Abramo 20. L’ultimo della covata 22. Quantità complessiva 24. Avevacorpod’uccelloevoltodidonna 26. Separati... ma insieme 28. Fu un terribile zar 30. Una nota 33. Le iniziali della conduttrice Lanfranchi
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I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.
Partecipazione online: inserire la
soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-
Sudoku Soluzione:
Scoprire i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.
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CURIOSITÀ D’ALTRI TEMPI – Lo sapevi che in Toscana… Resto della frase: … AI TEMPI DI COLLODI, PINOCCHIO SIGNIFICAVA PINOLO. A D O Z I O N E
L I T I V E T O I N L O L I V I F E S T T V N A P O
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T E M P C O L O D O S I P O C I C H R O S U O A G I O N S I O R B O N N A E L A P I L I G O N
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luzione, corredata da nome, cognome, indirizzo, email del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 14 ottobre 2019 • N. 42
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Politica e Economia Crisi in Ecuador Grandi proteste contro la decisione del presidente Moreno di revocare i decennali sussidi per la benzina pagina 31
Riconfermato Costa Vittoria dei socialisti del primo ministro António Costa. C’è ancora una sinistra che trionfa in un Paese senza grandi partiti populisti e anti-immigrazione. In controtendenza in Europa
Un’imposta da rivedere Il Consiglio federale progetta una revisione parziale dell’imposta preventiva
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Keystone
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Un richiamo all’antico Patto nazionale Invasione in Siria La Turchia riuscirà nell’intento di conquistare e difendere una fetta dell’ex impero ottomano
di grande valore strategico o resterà intrappolata nella mischia siriana? Lucio Caracciolo Il 9 ottobre truppe turche hanno cominciato ad avanzare in una fascia di territorio della Siria settentrionale oggi sotto controllo curdo. Obiettivi: spezzare il collegamento fra le milizie locali curde e quelle «sorelle» attive in Anatolia; creare una zona cuscinetto fra Turchia e ciò che resta della Siria, per la gran parte riconquistata dalle truppe di al-Asad con il contributo decisivo russo e iraniano; riallocarvi almeno un milione dei circa tre milioni e mezzo di rifugiati siriani ancora attendati nella Repubblica Turca; compattare il fronte interno attorno al proprio esercito e al presidente, in una fase critica per Erdogan (foto), con l’economia in pessimo stato di salute e la lira turca svalutata. Dal punto di vista geopolitico, l’operazione è implicitamente inquadrata da Ankara nel recupero del Patto Nazionale, un progetto approvato nel 1920 dall’ultimo parlamento ottomano, quando l’impero appariva moribondo,
sminuzzato dai vincitori della Prima guerra mondiale. Nel Patto era prevista, fra l’altro, la riconquista dei Kurdistan siriano e iracheno, da Aleppo a Mosul e a Kirkuk. L’impero ottomano è formalmente morto, ma non l’identità imperiale turco-ottomana che ha trovato in Erdogan un interprete particolarmente appassionato. Il presidente turco si considera erede dei grandi sultani del passato, neanche fosse parente di Solimano il Magnifico o Fatih il Conquistatore. Se non anche il restauratore del califfato islamico. È interessante notare che finora il richiamo imperial/nazionalista del presidente-sultano ha trovato una certa risonanza nell’opinione pubblica turca, anche in parte delle forze politiche di opposizione. Il patriottismo turco e la popolarità delle Forze armate restano costanti. L’avanzata delle truppe di Ankara nell’ex-Siria (ex perché la Siria di prima della guerra non esiste e non esisterà più) è stata preannunciata al mondo da
un tweet di Donald Trump. Riferendo di una sua telefonata con Erdogan, il presidente degli Stati Uniti, con il solito tono eccitato, riferiva di aver dato luce verde al collega di Ankara, avviando il ritiro delle truppe americane dalla zona. Vista però l’immediata alzata di scudi del Congresso, in particolare di alcuni molto autorevoli senatori repubblicani come Lindsey Graham, e degli apparati militari, diplomatici e di intelligence, che denunciavano il «tradimento» degli alleati curdi, decisivi nel combattere lo Stato Islamico, la Casa Bianca ha corretto il tiro. Dopo qualche ora Trump aveva già cambiato tono e comunicazione, avvertendo Erdogan che se si fosse spinto troppo oltre avrebbe subìto severe punizioni da parte americana. All’atto pratico, comunque, un centinaio di soldati americani attivi nella zona sono stati spostati verso aree sicure, portando con sé alcuni prigionieri dello Stato Islamico custoditi dai curdi delle milizie Ypg. Nelle aree cal-
de e attorno ad esse permane una poco visibile ma efficiente rete militare e di intelligence Usa. L’aspettativa del Pentagono e della Cia è che Erdogan finisca per impantanarsi in Siria. Ciò che a Washington sarebbe salutato con soddisfazione. Per quanto formalmente alleati, i rapporti fra Stati Uniti e Turchia sono ai minimi storici. La decisione di Ankara di acquistare missili antiaerei russi S400, a suggellare un clamoroso riavvicinamento con Mosca – nemico per eccellenza dell’impero ottomano e della Turchia, che durante la Guerra fredda presidiava il fronte sud-est della Nato – è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Il Congresso pretende oggi sanzioni contro la Turchia se non si ritirerà al più presto dai territori curdo-siriani. Ritiro al momento impensabile. L’attacco turco ha provocato le prevedibili reazioni delle potenze europee, con coro di accompagnamento delle autorità comunitarie. Naturalmente
gli appelli lasceranno il tempo che trovano. Parallelamente, in diversi paesi europei e occidentali le comunità curde hanno organizzato manifestazioni di protesta, anche esse prevedibilmente orientate a risolversi in testimonianza piuttosto che in efficace supporto dei combattenti curdo-siriani. A questo punto è probabile che fra miliziani curdi e governo di Damasco si stabilisca un certo grado di coordinamento per frenare la penetrazione delle Forze armate turche in territorio formalmente appartenente alla Siria. Così come si possono già notare le preoccupazioni di Teheran e di Mosca, che temono l’ingerenza turca negli affari locali, nei quali sono oggi parte determinante anche se non sempre consonante. Le prossime settimane saranno decisive per capire se la Turchia è in grado di conquistare e difendere una fetta dell’ex impero ottomano di speciale valore strategico. Oppure se nella mischia siriana i turchi finiranno intrappolati.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 14 ottobre 2019 • N. 42
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Politica e Economia
Trump tradisce il popolo curdo America First La decisione Usa di ritirare i soldati dalla Siria ha attirato accuse durissime. E solleva inquietanti
interrogativi: che cosa accadrebbe se gli Stati Uniti rinunciassero al loro ruolo e abbandonassero gli alleati?
Federico Rampini L’isolazionismo di Donald Trump rischia di infliggere un costo tremendo sul popolo curdo. Ma insieme ai curdi che lottano per la sopravvivenza, il mondo intero deve interrogarsi su quel che significa l’abbandono della Siria settentrionale da parte di Washington. È un atto che va visto con due prospettive distinte. Da una parte, per l’impatto che ha all’interno degli Stati Uniti in una campagna elettorale che si è complicata ulteriormente da quando è aperta la procedura d’impeachment alla Camera. D’altra parte bisogna chiedersi quale insegnamento la vicenda curda racchiude per la visione delle alleanze che distingue questa Casa Bianca. Un impero in declino, com’è chiaramente l’impero americano se osservato nei rapporti di forze relativi ad altre potenze, può rassegnarsi al proprio ridimensionamento o perfino accelerare la propria ritirata. Riducendo la propria presenza nel resto del mondo, taglia i costi e quindi tenta di premunirsi dal rischio di un «overstretching» (dilatazione eccessiva: è la fine per collasso economico da spese militari di cui morirono l’Impero romano e quello britannico, fra tanti). Al tempo stesso questa ritirata crea dei vuoti che altri riempiono: in certi casi a occupare gli spazi sarà la superpotenza rivale con ambizioni planetarie che è la Cina; in altri casi saranno delle sub-potenze regionali dal passato imperiale mai sopito, come la Turchia o la Russia, l’Iran o l’Arabia saudita o l’India. In quanto al risvolto interno nella campagna elettorale, bisogna essere lucidi: l’abbandono dei curdi ha creato negli Stati Uniti orrore e condanne tra le élite e l’establishment, sia di destra che di sinistra; ma probabilmente avrà un impatto minimo o perfino positivo sugli elettori. La politica estera ha raramente appassionato durante le campagne elettorali, salvo in quei periodi in cui l’America era impegnata in guerre costose e prolungate come Vietnam e Iraq. L’idea di riportare i soldati americani a casa, disimpegnarsi dalle guerre residue, raccoglie ampie consensi non solo nell’elettorato trumpiano ma anche nella base democratica. Attenti dunque a non scambiare gli editoriali del «New York Times» o i commenti della Cnn con quel che pensa la maggioranza dell’elettorato.
Trump vuole mantenere la promessa di chiudere ogni guerra e riportare a casa tutti i soldati e questo continua a fare presa sul suo elettorato e fra molti democratici «I curdi? Mica ci hanno aiutato nella Seconda guerra mondiale». Il video con questa frase di Donald Trump si fonde con le immagini tragiche dal fronte, dalla feroce offensiva militare turca contro quelli che furono alleati preziosi per l’America. Scaricati, abbandonati al loro terribile destino con una battuta surreale. Talmente sconcertante che qualcuno rilancia negli Stati Uniti il tema del 25esimo emendamento. Ovvero: non c’è bisogno di aspettare l’esito dell’impeachment, questo presidente va destituito prima, lo prevede la Costituzione in caso di «incapacità mentale» (è contemplato dal 25esimo emendamento, approvato dopo l’assassinio di John Kennedy, che per alcune ore prima di morire fu incapacitato da un proiettile al cervello; va ricordato
Donald trump: il suo linguaggio esprime appieno e coerentemente il suo pensiero . (AFP)
comunque che con la destituzione il potere passerebbe nelle mani del vicepresidente Mike Pence). L’accostamento tra i curdi e la seconda guerra mondiale sembra suggerire che il presidente degli Stati Uniti sia uno squilibrato. Di sicuro lo è se con questo alludiamo al suo carattere egomaniaco, narcisistico, privo di freni inibitori. Però per altri versi è nel possesso delle proprie facoltà mentali, anche quando usa un linguaggio provocatorio: con quella frase sulla Seconda guerra mondiale voleva irridere chi insiste sul ruolo essenziale dei curdi in una sfida decisiva per la sicurezza dell’America. Presa fuori dal suo contesto è un’uscita da manicomio. Ma il contesto è il Trump-pensiero espresso nel Trump-linguaggio, due universi con regole particolari. Trump ci ha abituati a un’escalation verbale che ha calpestato e travolto ogni regola. Dal galateo diplomatico alla buona educazione, i suoi tweet hanno trasformato la figura presidenziale, allo statista hanno sostituito l’urlatore da talkshow, l’aggressore esibizionista da reality-tv. Razzismo, sessismo, insulti alla sovranità di altri Stati: tutto sembra lecito. L’insulto ai poveri curdi se ascoltato con una mentalità tradizionale può sembrare ai limiti della salute mentale (che c’entrano, davvero, con lo sbarco in Normandia?) ma ha una sua logica perversa. Il tradimento dei curdi, che erano stati decisivi nella lotta contro un nemico mortale come i jihadisti dell’Isis, ha attirato accuse durissime su Trump. Non solo l’opposizione democratica, ma anche dei repubblicani trumpiani come il senatore Lindsay Graham o la sua ex amabasciatrice all’Onu Nikki Haley, e velatamente il Pentagono, han-
no denunciato un errore dalle conseguenze incalcolabili. Perché sdogana un massacro e assolve Erdogan cancellando le sue offese alla Nato. Perché può porre le premesse di un rafforzamento nell’area di Assad e dell’Iran, o addirittura di una rinascita dell’Isis (le milizie curde fungono anche da carcerieri per i campi di detenzione dove sono prigionieri migliaia di jihadisti). Infine il segnale lanciato urbi et orbi, dal Giappone all’Europa, è che quest’America non riconosce amicizie o alleanze, può tradire, calpestare impegni e trattati di mutua difesa. A queste accuse il «delirante» leader della massima superpotenza risponde con una serie di video e tweet che vanno collegati. Affermazioni come queste: «I curdi hanno combattuto al nostro fianco, ma noi li abbiamo strapagati per questo». «La guerra con l’Isis ormai l’abbiamo vinta». «Basta con le guerre interminabili e insensate». Tutto rinvia al contratto originario fra Trump e i suoi elettori. Parte integrante di America First (che si può tradurre con «America numero uno», ma in realtà sta per «Prima l’America») è l’idea che gli Stati Uniti debbano concentrarsi sui bisogni della propria popolazione, che sono tanti e a lungo trascurati. Fare il gendarme del mondo non ha dato benefici commisurati ai costi enormi di una presenza «imperiale» nei quattro continenti. Trump perciò vuole mantenere la promessa di chiudere ogni guerra e riportare a casa tutti i soldati, o quasi. In quanto agli alleati, sono fungibili, ciascuno di loro viene valutato in un bilancio dei costi e benefici. È il mondo nel quale bisogna attrezzarsi a sopravvivere: stiamo assistendo alle prove generali di un ritiro
dell’America dalla sua leadership – peraltro auspicato a lungo dai suoi tanti detrattori. C’è una coerenza nella follia di Trump, non basta fermarsi alla dimensione clinica. Ridicolizzare il linguaggio di Trump o interrogarsi sulla sua salute mentale sono diversivi, con cui si evita di affrontare temi scomodi. Per esempio: l’Europa ha un «piano B», per il giorno in cui dovesse ridursi drasticamente la protezione militare americana? Senza l’ombrello nucleare degli Stati Uniti, senza le flotte Usa che mantengono la libertà di navigazione nel Mediterraneo, nel Golfo Persico, nell’Oceano Indiano e nel Mare della Cina, come faranno gli europei a garantire la propria sicurezza nei confronti di eventuali minacce russe o iraniane o cinesi? Viene in mente l’estratto da una poesia di John Donne, che Ernest Hemingway usò come incipit del suo romanzo Per chi suona la campana. Quei versi suonano così: «Non chiedere mai per chi suona la campana: suona per te». In questo caso la campana a morto dei curdi suona anche per gli europei, che devono interrogarsi sugli scenari geostrategici dei prossimi decenni. Anche quando Trump sarà fuori gioco – per impeachment o disfatta elettorale o fine di un secondo mandato – non è affatto certo che i suoi successori democratici o repubblicani vogliano fare un «reset» totale, cancellando ogni eredità trumpiana, chiudendo la parentesi isolazionista, per tornare esattamente al punto di partenza. Del resto non sappiamo bene quale sarebbe il punto di partenza auspicabile. Nessuno ha nostalgia dell’America guidata dai neoconservatori, che spinsero Ge-
orge W. Bush all’invasione dell’Iraq: di fronte a quell’ultimo episodio delle avventure imperiali ci fu già uno strappo significativo nelle alleanze visto che la Germania di Gerhard Schroeder e la Francia di Jacques Chirac si dissociarono. L’America di Obama dava già segnali di ripiegamento. Di fronte ai bombardamenti chimici di Assad contro la popolazione prima Obama minacciò d’intervenire, poi perse credibilità rinunciando a colpire, perché convinto che il Congresso e l’opinione pubblica non lo avrebbero sostenuto. Il «momento unipolare» nella storia contemporanea è stato breve: gli studiosi di geopolitica designano con questa espressione la fase in cui l’America parve godere di una leadership solitaria, assoluta e incontrastabile: è la fase che comincia con la caduta del Muro di Berlino (1989) e la dissoluzione dell’Urss (1991). Non vi è una data certa per segnare la fine del «momento unipolare», ma indicativamente possiamo usare la crisi economica del 2008-2009 in quanto risveglia una visione imperiale in Cina e un complesso di superiorità di Pechino verso l’Occidente; forse anche l’annessione della Crimea da parte di Vladimir Putin nel 2014 in quanto segna una rottura traumatica degli equilibri europei. Ma all’interno della fase unipolare sappiamo bene che non regnava una stabilità assoluta: a cominciare dallo shock dell’11 settembre 2001 che mostrò quanto sia vulnerabile anche un impero solitario, se attaccato con metodi asimmetrici. È di quello shock che Trump trae a modo suo una lezione 18 anni dopo: stiamocene a casa nostra, ogni volta che abbiamo voluto mettere ordine nel mondo, il mondo si è vendicato contro di noi.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 14 ottobre 2019 • N. 42
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Politica e Economia
La guerra del Rojava
Indigeni infuriati contro Moreno
Storia di un popolo La regione autonoma nel nord-est della Siria è
stata attaccata dai turchi nell’intento di sradicare l’esperienza della rivoluzione democratica laica curda
Ecuador Il governo costretto a traslocare
a causa delle proteste per l’aumento dei prezzi
Francesca Marino
Angela Nocioni
specifico linguaggio, ma a un ceppo linguistico di varie lingue con la stessa radice. Sempre per semplificare di molto una storia complicata, la questione dei curdi comincia a sorgere alla nascita degli attuali Stati-nazione di cui è entrato a far parte l’altopiano del Kurdistan. Protagonista di una delle storie di repressione più brutale degli ultimi tempi, è la Turchia. La Turchia laica e nazionalista di Atatürk, che percepisce come minaccia all’unità dello Stato le istanze separatiste dei curdi, che si considerano non solo un gruppo etnico ma una nazione a parte. La repressione contro i «Turchi delle montagne» da parte dell’esercito di Ankara è stata brutale. Secondo alcuni analisti, ai tempi della Guerra fredda i separatisti curdi sono stati finanziati e armati dall’allora Unione Sovietica, ed è grazie agli sforzi russi che è nato il Pkk, il partito dei lavoratori curdi: metà entità politica, metà gruppo combattente. Il Pkk, secondo il governo turco, è un’organizzazione terroristca e il suo capo, Öcalan, è in galera dal 1999. Di certo, l’atteggiamento di Ankara non ha contribuito a placare gli animi né le voglie separatiste dei curdi: i militari turchi giocavano a pallone con le teste dei militanti del Pkk ammazzati, e, durante il terremoto che ha colpito la Turchia del 1999, le zone e le case abitate dai curdi venivano sistematicamente ignorate dai soccorritori. Il resto del mondo, pur essendo vagamente consapevole del genocidio nei confronti dei curdi, se ne infischiava più o meno allegramente. Fino al 2003 e all’invasione dell’Iraq, quando i curdi iracheni e le loro milizie peshmerga sono diventate fondamentali per gli americani. La distruzione del regime di Saddam Hussein creava nuovi equilibri e i curdi entravano a far parte del governo iracheno: messi politicamente all’angolo, però, e soprattutto senza nessun controllo sulle riserve petrolifere di cui erano titolari. E proprio le riserve petrolifere sono la chiave di tutti i giochi geopolitici e delle giravolte politiche degli ultimi tempi. Continuando a riassumere: nel 2005 la regione del Kurdistan iracheno diventa una regione autonoma. E i cur-
di praticamente stanno seduti sopra un mare di petrolio, che però non possono vendere autonomamente senza passare per le forche caudine del governo centrale dell’Iraq. L’unica via possibile, per vendere petrolio senza farlo passare per l’Iraq, è la Turchia: la stessa Turchia che massacra i curdi locali. Gli affari sono affari, però: e quindi succede che la famiglia del leader curdo-iracheno Massoud Barzani si allei fino a stringere legami familiari con il leader turco Erdogan e che i curdi iracheni smettano di collaborare col Pkk e l’Ypg. Che è intanto emerso dalla disintegrazione della Siria: disintegrazione che ha avuto, come effetto collaterale, anche la liberazione dei locali curdi. Che si rivelano di nuovo preziosi alleati per l’Occidente, e da questo vengono armati, contro l’Isis e il neonato califfato islamico. Semplificando ancora una volta: Erdogan è felice e contento, compra, raffina e vende sia il petrolio dell’Isis che quello dei curdi iracheni. Gli iracheni non collaborano più con il Pkk e nemmeno con l’Ypg che del Pkk è costola e alleato. E l’Ygp vince contro l’Isis e fonda Rojava, tra Siria e Turchia, con la benedizione degli americani. Ma la Turchia vede Rojava e l’Ygp come fumo negli occhi, e teme che le milizie della nuova repubblica comincino a combattere contro i turchi che, per ideologia e per storia recente, minacciano l’Ypg molto più dell’Isis. Rojava quindi non ha alleati: non soltanto è stretta tra Siria e Turchia senza alcuno sbocco esterno, ma sopravvive soltanto grazie alla protezione degli americani. Erdogan di risolvere la «questione curda» non ha intenzione: o meglio, continua a risolverla a suo modo, con le armi. I curdi iracheni, che fanno affari milionari con Erdogan, non hanno nessuna voglia di combatterlo. E gli americani, che anni fa hanno dichiarato il Pkk organizzazione terroristica internazionale, dalla Siria se ne vogliono andare al più presto. E anche se a questo punto per i curdi gli Usa non hanno che «simpatia», anche se Rojava si è guadagnata il supporto di tutto l’Occidente liberale per essere diventata un baluardo contro la cupa e mortifera ideologia degli integralisti sunniti, deve essere sacrificata a più vasti interessi geopolitici.
La crisi politica in Ecuador precipita nel confronto di piazza tra decine di migliaia di indigeni armati di pietre e i reparti antisommossa della polizia. Il governo del presidente Lenin Moreno è in bilico, il rischio che gli agenti aprano il fuoco sulla folla è alto. Martedì notte, dopo aver marciato attraverso il Paese incolonnati come un esercito civile appiedato, i manifestanti – ai quali si sono uniti molti gruppi studenteschi della capitale – sono arrivati a Quito da varie regioni dell’Ecuador e, a sorpresa, hanno sfondato i cordoni della sicurezza che circondavano il Parlamento. Sono entrati in Aula gridando «Fuori Moreno!». Sono stati sbattuti fuori dagli agenti, gli scontri sono durati per ore nelle strade del centro storico. È stato dichiarato il coprifuoco in città. Quattro i morti accertati. La mobilitazione contro il governo è nata in opposizione a un pacchetto di aumenti di cui è diventato simbolico l’aumento del prezzo della benzina, quasi raddoppiato. Le misure fanno parte dell’applicazione di un accordo firmato di recente tra Lenin Moreno e il Fondo monetario internazionale. I primi a scendere in sciopero sono stati i tassisti, i camionisti e alcuni sindacati dei trasporti privati. La settimana scorsa la loro protesta si è placata, lo sciopero è stato interrotto. Nel frattempo era però montata la protesta nelle comunità indigene e nelle università. Lì l’insofferenza verso il presidente Lenin Moreno, accusato di aver virato bruscamente a destra non appena arrivato al potere, con la repentina adozione di misure giudicate vessatorie dei ceti più poveri, è ormai esplosa. Chi era in piazza tra i manifestanti la notte dell’assalto al Parlamento, dopo la dichiarazione del coprifuoco, ha ascoltato molti dei leader indigeni arrivati a Quito assicurare che, da parte loro, la protesta continuerà finché il pacchetto di misure economiche non sarà revocato. La minaccia è considerata reale dal presidente Moreno, tanto che è scappato via dal suo ufficio scortato da militari e ha trasferito la sede del governo nella città costiera di Guayaquil, possibilità contemplata dalla Costituzione, ma attuabile sono di fronte a scenari di crisi gravissima. Moreno grida al golpe e accusa il suo predecessore Rafael Correa, suo ex mentore poi tradito, di essere il regista della attuale crisi. «Correa sta usando settori indigeni politicizzati per capo-
volgere i risultati elettorali e buttarci fuori dal governo» accusa Moreno. «Adesso chiamano noi golpisti – gli risponde Correa dal Belgio, dove si è rifugiato per sfuggire a un probabile arresto e a una decina di processi per corruzione che lui considera strumenti di una persecuzione politica ai suoi danni – quando per anni hanno preso a schiaffi la Costituzione e la democrazia». Correa, ex presidente filochavista che ha ambìto invano a diventare l’erede della leadership continentale della sinistra latinoamericana, chiede elezioni subito. Sa che il consenso attorno alla sua figura sta rimontando e che ora un candidato da lui appoggiato potrebbe probabilmente vincere se lanciato come suo delfino contro Moreno, il quale però non ha nessuna intenzione di andarsene. Anche perché è istituzionalmente protetto dalle conseguenze di una mossa politica abile e vincente ben piazzata da lui contro Correa nel febbraio dell’anno scorso, quando riuscì a convocare e a vincere un referendum messo a punto proprio per uscire dal cono d’ombra del suo ingombrante predecessore. I sette quesiti della consultazione (ristrutturazione delle istituzioni a partecipazione popolare create dai tre governi Correa, inasprimento delle sanzioni per i casi di corruzione, limiti alle estrazioni minerarie, riduzione delle aree amazzoniche riservate alla deforestazione, modifiche fiscali) piantavano un confronto personale tra i due leader, basato essenzialmente su un obiettivo: impedire la rielezione di Correa nel 2021, eliminare la possibilità della ricandidatura infinita per la carica di presidente, che non esisteva in origine nella Costituzione dell’Ecuador e che Correa aveva introdotto per potersi perpetuare al governo. Moreno è stato il vicepresidente del suo attuale nemico dal 2007 al 2013 ed è stato eletto al suo posto. Aveva giurato in campagna elettorale di voler portare avanti e approfondire quella che Correa chiama la «Rivoluzione cittadina», la rivisitazione in chiave filochavista delle istituzioni ecuadoregne. Poi, vista la situazione continentale, considerato il tramonto dei governi degli alleati del Venezuela chavista in America latina, Moreno ha deciso di riposizionarsi. Per far questo aveva bisogno innanzitutto di smarcarsi dal suo antico protettore. L’ha fatto. Sembrava esserci riuscito. Il precipitare della crisi di questi giorni sta rimescolando le carte.
AFP
AFP
Rojava, in curdo, significa «l’Occidente». Un occidente stretto dal 2014 tra Turchia e Siria che rischia adesso di scomparire per sempre inghiottito dalle strategie di Erdogan ma, soprattutto, di Trump. Che, come quasi tutti i suoi predecessori, sembra possedere un talento speciale per cancellare da Oriente e Medio Oriente qualunque tipo di regime laico o pro-occidentale. Rojava, difatti, è la regione conquistata dai guerriglieri curdo-siriani contro le truppe dell’Isis. È, ma forse tra poco adoperare il passato sarà d’obbligo, prima che una regione autonoma un vero e proprio esperimento politico e sociale di tipo democratico e di stampo marxista. Una repubblica parlamentare di tipo federalista, fondata sul multiculturalismo e con l’ecologia e il femminismo a fare da pilastri. A Rojava coabitano etnie e religioni diverse, ogni struttura pubblica e sociale, dalle amministrazioni regionali alle leadership di partito, è condivisa e mista: due sindaci, un uomo e una donna. Due capi di partito, un uomo e una donna. E anche l’esercito, formato in gran parte dai combattenti dell’Yekîneyên Parastina Gel (Ypg), l’Unità di protezione popolare, ha una controparte femminile: l’Ypj, l’Unità di protezione delle donne, che spesso e volentieri si è battuta contro l’Isis. E che, soprattutto, come il resto degli abitanti di Rojava, se ne infischia di proibizioni e divieti religiosi. Sembra banale ma non lo è, in quelle zone del mondo, che le donne dell’Ypj combattano a volto scoperto. Ma sono i gesti, i piccoli gesti, a cominciare le rivoluzioni. E i curdi, di rivoluzioni e di combattimenti, sono esperti da sempre. Figli di un Paese che è più un’aspirazione geo-ideologica che un luogo concreto da rivendicare, e di una definizione etnico-culturale poco unitaria. Esiste la «nazione» curda come entità culturale ed etnica, ma non esiste uno Stato del Kurdistan. Per riassumere una storia lunga e complicata, esiste una definizione geografica di Kurdistan, che è un altopiano attraversato dalle linee di confine di quattro Stati: Turchia, Siria, Iraq e Iran. E i curdi vivono difatti in quattro regioni parte di quei quattro Stati. Quattro regioni che si definiscono «Kurdistan» e che, secondo i nazionalisti curdi della diaspora, dovrebbero formare un’ideale Kurdistan politico. La cui unità politica non è però, sempre per riassumere una complicata storia di trattati geopolitici, mai davvero esistita nei termini sopradescritti. Nel corso dei secoli sono esistiti degli Stati, e nel 1946 anche una repubblica, definiti Kurdistan, ma mai il «grande Kurdistan» rivendicato dai nazionalisti curdi. Non esiste quindi, almeno secondo la maggior parte degli studiosi, una nazionalità curda ma esiste un’appartenenza etnica a uno specifico gruppo, e, in misura minore, un’appartenenza linguistica: non a uno
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Politica e Economia
L’eccezione portoghese
Vittoria socialista La riconferma del primo ministro António Costa nelle elezioni legislative rappresenta
una controtendenza in Europa. C’è ancora una sinistra che trionfa, in un Paese senza grandi partiti populisti e anti-immigrazione
Gabriele Lurati «Il potere logora chi non ce l’ha», sosteneva Giulio Andreotti. Il celebre aforisma del defunto politico italiano sintetizza bene il risultato elettorale emerso dal voto del 6 ottobre scorso in Portogallo. Gli elettori lusitani hanno infatti premiato il primo ministro António Costa per la sua gestione negli ultimi quattro anni di governo che hanno rafforzato la sua leadership a discapito dei partiti dell’opposizione, uscita fortemente indebolita dalla tornata elettorale. Il partito socialista è risultato il più votato alle elezioni legislative con il 36,7% dei voti (in aumento del 5%), mentre il centrodestra del Partito social-democratico (PSD) ha ottenuto solamente il 27,9%, con un netto calo (–10%) rispetto a quattro anni fa, perdendo così lo status di partito di maggioranza relativa. Per il premier Costa è stato un successo su tutta la linea. In barba a tutte le istituzioni internazionali (Ue e Fmi, in primis) che lo mettevano in guardia dall’applicare ricette ritenute troppo di sinistra e lontane dai dogmi dell’austerità economica, la «formula Costa» è riuscita in quattro anni a rimettere in carreggiata il Paese senza ricorrere a ulteriori tagli sociali come voleva la troika nel 2015. Spinto dagli investimenti internazionali, dal boom del turismo e del settore immobiliare, il Portogallo è uscito dalla crisi e ora viaggia a livelli di crescita del PIL (+2%) invidiati da molti Paesi europei, ha una bassa disoccupazione (scesa dal 12,6% al 6,2% in quattro anni) e un deficit sotto controllo. Insomma, nonostante il governo
La vera minaccia per il Paese e per il premier Costa sono le incerte prospettive economiche Costa sia stato sostenuto in Parlamento per quattro anni da partiti della sinistra radicale come il Blocco di Sinistra (che si è confermato stabile con il 9,7% dei voti) e dalla Coalizione Democratica Unitaria (Cdu, formata dall’alleanza di Comunisti e Verdi, scesi dall’8,2 al 6,5%), l’esecutivo di Lisbona si è guadagnato il rispetto di tutti i Paesi europei una volta scettici, al punto che l’ex ministro lusitano delle Finanze Mario Centeno è diventato il presidente dell’Eu-
Costa in quattro anni è riuscito a rimettere in carreggiata il Paese che lo ha premiato. (Keystone)
rogruppo da più di un anno. La «ricetta Costa», che inizialmente era stata paragonata a una macchina vecchia e mal funzionante tanto da essere stata definita dall’opposizione con il termine spregiativo di geringonça (un’accozzaglia che teneva assieme in maniera raffazzonata le varie anime della sinistra), si è rivelata adesso un modello vincente e invidiato da tutte le sinistre europee. Il successo elettorale della geringonça ha smentito tre luoghi comuni diffusi nella politica europea: il primo, che stare al governo a lungo finisce inevitabilmente per far perdere voti; il secondo, che la sinistra è in crisi e non più capace di vincere; il terzo: che l’estrema destra è in grande crescita in tutto il continente. Visto che niente di tutto questo si è realizzato in terra lusitana, si può fondatamentalmente parlare di «eccezione portoghese». Buona parte del merito del successo è dovuto all’abilità politica e dialettica del primo ministro. Il 58enne António Costa è un politico navigato che già negli anni 90 fu più volte ministro nei governi di António Guterres, attuale Segretario generale dell’Onu. Successivamente fu sindaco di Lisbona per otto anni dal
2007 al 2015 per poi lanciarsi alla conquista del governo nazionale. Le esperienze passate gli hanno conferito grandi doti di equilibrismo politico che sono state utili negli ultimi quattro anni e che gli hanno permesso di portare avanti un esecutivo di minoranza mediante accordi puntuali con i due partiti della sinistra che hanno sostenuto il suo governo (Bloco de Esquerda e Cdu). Grazie a Costa, il Partito socialista è diventato il primo partito in Parlamento (con 106 deputati su un totale di 230) in un’Assemblea della Repubblica con molti elementi di novità rispetto al passato. Il primo è quello della frammentazione politica, dopo l’ingresso di un cospicuo numero di nuovi partiti (4 su un totale di 9). Tra questi spicca il PAN, un partito ecologista che, sulla spinta di una nuova sensibilità ambientale mondiale, ha ottenuto il 3,3% e un gruppo parlamentare proprio (4 seggi). Questo piccolo partito potrebbe essere di utilità al premier Costa in caso di bisogno di un pugno di voti per raggiungere la maggioranza parlamentare in determinati frangenti, senza dover dipendere dai voti del Bloco de Esquerda (19 seggi) o dei Comunisti (12), sui
quali si appoggerà prevalentemente il premier per tutta la legislatura. Un’altra grande novità è l’ingresso in Parlamento anche in Portogallo di un partito di estrema destra populista chiamato «Chega» (letteralmente significa «basta»). Questa recente formazione ha però ottenuto un insignificante 1,3% dei voti e un solo deputato. Per contro sono ben tre le nuove deputate «afrodiscendenti», in un Paese abituato da sempre a ricevere gli immigrati dalle sue ex-colonie e a integrarli bene nel contesto sociale lusitano, ma che non aveva mai avuto una rappresentanza di donne di razza nera nel massimo organo legislativo. Lo stesso premier António Costa, seppur nato a Lisbona, è figlio di un indo-portoghese originario della città indiana di Goa, ex colonia portoghese. I discorsi razzisti e anti-immigrazione finora non hanno preso piede in Portogallo anche perché il governo di Costa non ha mai fatto compromessi su questo fronte. Più che una minaccia, gli stranieri in Portogallo sono visti come portatori di opportunità economiche in un Paese sempre più vecchio demograficamente e bisognoso di giovani
lavoratori che spesso provengono dalle sue ex colonie. La vera minaccia per il Paese e per António Costa sono le incerte prospettive economiche. Dopo aver beneficiato di quattro anni di crescita costante, grazie anche alla politica di esenzione fiscale che ha generato gli arrivi di decine di migliaia di pensionati europei che hanno scelto il Portogallo come luogo di residenza, ora il premier dovrà fare i conti con il rallentamento economico del Vecchio continente. In un Paese di poco più di 10 milioni di abitanti che fonda buona parte delle sue fortune sugli investimenti dall’estero, sull’export e sul turismo, la guerra dei dazi iniziata da Trump e le incertezze create dalla Brexit possono in poco tempo far ripiombare il Paese nell’instabilità economica. Se a questo aggiungiamo che il tipo di impiego creato in Portogallo è molto precario (soprattutto quello legato al turismo), che i salari sono bassi e che l’alloggio sta diventando un problema per molti portoghesi (affitti cresciuti a dismisura nei centri urbani a causa della gentrificazione), per Costa l’euforia del successo sarà breve perché i problemi lo aspettano dietro l’angolo. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 14 ottobre 2019 • N. 42
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Politica e Economia
Imposta preventiva, riforma in arrivo
Fiscalità Un progetto parziale del Consiglio federale dovrebbe migliorare la situazione per l’emissione di prestiti
in Svizzera. La riforma è prevista per la prossima primavera
Ignazio Bonoli Da tempo si discute in Svizzera della revisione (o della soppressione) dell’imposta preventiva. Come sa chiunque abbia un deposito rimunerato in una banca, l’imposta preventiva sugli interessi di questo deposito viene trattenuta dalla banca. Questo è però uno degli aspetti che fanno dire che, in sostanza, non si tratta di un’imposta. Lo potrebbe confermare un secondo aspetto e cioè che il contribuente che dichiara il capitale in deposito e gli interessi percepiti può chiedere la restituzione dell’imposta preventiva trattenuta. La banca non dà comunque informazioni sul cliente nel rispetto del segreto bancario. L’imposta preventiva venne introdotta nel 1944 con un tasso del 15% sui redditi di capitali e sulle vincite alle lotterie. Già nel 1945 il tasso venne portato al 25% e l’imposta estesa ad alcune prestazioni assicurative. Si basava su decreti del Consiglio federale fondati sui poteri straordinari introdotti a causa della seconda guerra mondiale. Solo nel 1958 venne inserita nel nuovo regime finanziario della Confederazione, ottenendo così una base costituzionale. Ma la legge sull’imposta preventiva venne emanata solo nel 1965. Il tasso d’imposta, già salito al 27% nel 1959, venne portato al 30% a seguito dell’abolizione del bollo del 3% sulle cedole. A partire dal 1976 si applica il tasso del 35%, con lo scopo di combattere più efficacemente la frode fiscale.
Saranno esentati dall’imposta preventiva i redditi di obbligazioni in Svizzera per investitori esteri e società. (Keystone)
In seguito si sono avute varie modifiche di procedura, soprattutto per adeguarsi ai cambiamenti dei regimi fiscali. Oggi si pensa però a una revisione di fondo, alla quale il Consiglio federale si avvicina a piccoli passi. Così lo scorso mese di giugno ha adottato alcuni principi, poi ampliati lo scorso settembre, sui quali si dovrà basare la riforma. Per molti esperti i problemi da risolvere concernono soprattutto alcuni effetti perversi del sistema attuale. Per esempio il fatto, ormai denunciato da più parti, che gli utili di un’azienda sono già tassati presso l’azienda stessa e poi una seconda volta quando
vengono distribuiti sotto forma di dividendi, che si aggiungono al reddito del contribuente e sono anche soggetti all’imposta preventiva (che può essere rimborsata solo più tardi e non nel caso di persone o società estere). Ne deriva così un danno per la piazza finanziaria svizzera. Gli investitori esteri sono comunque preoccupati del tasso elevato (35%) della ritenuta alla fonte sui loro dividendi in Svizzera. Di conseguenza i grandi gruppi internazionali preferiscono finanziare le loro attività con emissioni di capitali in paesi più favorevoli. Per parare i danni di queste attività, la Confederazione pensa perciò
di esentare dall’imposta preventiva i redditi di obbligazioni in Svizzera per investitori esteri e società, insieme con l’esenzione dal bollo di emissione e dalla tassa sulle negoziazioni. Per contro i privati residenti in Svizzera, che finora si vedevano ritenere l’imposta preventiva soltanto su titoli emessi in Svizzera, si vedranno assoggettati alla stessa anche sui redditi di prestiti emessi all’estero. Nel 2016 questi prestiti costituivano in media il 43% del portafoglio di investitori privati svizzeri. Le attuali quote esenti non dovrebbero aumentare e anche i redditi da investimenti collettivi (fondi) in
Svizzera e all’estero saranno soggetti all’imposta preventiva. Questo comporta un cambiamento notevole per le banche che dovranno assumere il ruolo di agente pagatore per il loro cliente, mentre prima era la stessa impresa emettitrice che incassava e versava l’imposta. La funzione può comunque essere delegata a terzi (per esempio il sistema borsistico SIX) e comunque remunerata. Il Consiglio federale prevede un progetto da mettere in consultazione nella prossima primavera. Lo scopo principale sarà quello di ravvivare il mercato svizzero dei capitali. Per il momento si prevedono minori entrate per 250 milioni di franchi, ma a lunga scadenza vi sarebbero effetti positivi per l’intera economia. Alcuni conoscitori del mercato denunciano però la parzialità e la lentezza della riforma. Uno studio del BAK di Basilea ha perfino valutato che una riforma completa dell’imposta preventiva, tra dieci anni, potrebbe procurare 28’000 posti di lavoro in più e provocare una crescita del PIL dell’1,4%. Le esitazioni di Berna sono probabilmente dovute al fatto che oggi l’imposta preventiva procura 32,6 miliardi di entrate, delle quali solo 24,3 miliardi sono rimborsati, per cui al netto rimangono nelle casse 7,7 miliardi di franchi, cioè l’11% delle entrate. Questo proprio perché l’imposta viene restituita solo in parte, e con elevate spese amministrative, agli investitori esteri e alle persone giuridiche. Annuncio pubblicitario
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Politica e Economia
Tassi d’interesse ipotecari bassi ancora a lungo La consulenza della Banca Migros Thomas Pentsy
Tassi medi in Svizzera per ipoteche con diverse durate (nuove stipulazioni) 2.5%
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mente negativo e/o il corso dell’euro dovesse puntare rapidamente verso la parità nei confronti del franco. Al momento, tuttavia, pochi indizi puntano in questa direzione. Si prevede che i tassi d’interesse nega-
tivi si protrarranno per anni, o almeno così fa supporre anche il comunicato della BNS. Per il momento non si sta comunque delineando una svolta dei tassi, anche se i tassi a lungo termine dovrebbero mostrare di nuovo una ten-
Fonte: BNS
06.2019
12.2018
06.2018
12.2017
06.2017
12.2016
06.2016
12.2015
06.2015
12.2014
06.2014
12.2013
06.2013
0.5%
12.2012
1.0%
06.2012
Thomas Pentsy è analista di mercato e dei prodotti presso la Banca Migros
Nonostante il calo dei tassi d’interesse negli Stati Uniti e nell’area dell’euro, durante l’incontro di settembre la Banca nazionale svizzera (BNS) ha mantenuto i tassi di riferimento invariati al –0,75%. In particolare, viene evitato il rischio che le banche applichino presto tassi d’interesse negativi su larga scala sui depositi di risparmio. Infatti, tassi ancora più bassi avrebbero rappresentato un grosso onere soprattutto per il settore finanziario. In generale, al momento il margine di manovra della BNS è molto limitato, tanto più che il franco si è già notevolmente apprezzato rispetto all’euro e i rischi congiunturali e geopolitici rimangono elevati. In considerazione della debolezza della crescita globale e del persistere del conflitto commerciale tra Stati Uniti e Cina, la BNS proseguirà fino a nuovo avviso la sua politica dei tassi ai minimi storici e degli interventi sul mercato dei cambi. Da un lato, intende mantenere il più basso possibile l’interesse sui valori patrimoniali in franchi svizzeri e, dall’altro, si oppone a un ulteriore apprezzamento del franco. Tuttavia, un eventuale allentamento dei tassi d’interesse non è del tutto escluso. Una riduzione del tasso di riferimento dovrebbe però essere presa in esame solo se il clima sui mercati finanziari dovesse risultare particolar-
denza al rialzo. Alla luce di questo scenario, si ritiene che nel prossimo futuro i tassi ipotecari non aumenteranno in modo significativo. Le ipoteche fisse e le ipoteche Libor rimangono dunque interessanti. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 14 ottobre 2019 • N. 42
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Idee e acquisti per la settimana
Fantastiche gite autunnali 1
Il Sentiero dell’olivo da Gandria a Castagnola
Il Sentiero dell’olivo inizia a Gandria, che già di per sé vale la pena visitare. Prima di avviarti a piedi con la tua famiglia lungo l’idilliaco e istruttivo sentiero in riva al lago, puoi fare una passeggiata attraverso le tortuose viuzze di questo pittoresco villaggio di pescatori. Qui stai con un piede in Italia non solo dal punto di vista geografico, ma anche da quello architettonico! Presso il parcheggio sulla strada cantonale al di sopra del paese inizia quindi il Sentiero dell’olivo. Per percorrere i 3,3 km fino a Castagnola devi calcolare un tempo di marcia di circa un’ora. Probabilmente sarai per strada un po’ più a lungo. Oltre alla fantastica vista sul lago di Lugano e sulle montagne, il Sentiero degli olivi infatti propone anche 18 tavole informative con testimonianze avvincenti sulla storia, la coltivazione, la botanica e i frutti dell’olivo nonché sul delizioso olio ricavato da questi ultimi. Passerai accanto a vecchi e nuovi uliveti e vedrai un vecchio torchio rimesso in sesto. In alcuni punti lo spettacolare sentiero è stato scolpito nelle rocce che si ergono quasi in linea verticale; piante d’agave, oleandri e palme si snodano lungo il tuo tragitto. Presso la cappella di San Domenico puoi salire al Parco degli Ulivi, dove avrai nuovamente una magnifica vista sul lago e sulle montagne. Infine giungi a Castagnola, da dove puoi partire alla scoperta delle molte altre bellezze del Ticino oppure ritornare a Gandria con il bus o il battello.
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La chiesa San Carlo di Negrentino
La piccola chiesa romanica, protetta a livello federale, sorge sui prati di Negrentino al di sopra di Prugiasco a 854 m slm, sul lato soleggiato dell’ampia Valle di Blenio. Fu edificata nell’XI secolo e originariamente dedicata a Sant’Ambrogio. Al suo interno si possono ammirare affreschi romanici e tardo-gotici. Colpisce per i meravigliosi affreschi della facciata e delle pareti interne, il più antico dei quali risale al 1.050 dopo Cristo. Oltre alle eccezionali opere d’arte ospitate al suo interno e alla posizione suggestiva, San Carlo di Negrentino è un simbolo dell’unità svizzera al di là delle differenze culturali e linguistiche. La chiesa romanica fu probabilmente edificata intorno all’anno 1.000 DC. Fu utilizzata principalmente dai viandanti come casa di preghiera.
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Escursione panoramica da Carona a Morcote
Partendo da Lugano con l’Autopostale si raggiunge in 25 minuti Carona sopra il Lago di Lugano. Già il viaggio in autobus è un esperienza particolare! Dopo aver percorso una strada tutta curve si può riprendere fiato facendo una passeggiata per i vicoli del grazioso villaggio degli artisti. Volendo si potrebbe anche fare uno spuntino alla Villa Corona. Ma attenzione! Il giardino è così tranquillo e invitante che si rischia di fermarsi lì per delle ore. Nel corso di questa bella escursione per famiglie c’è però ancora molto da vedere! Oltre alla fantastica vista sul lago e sulle montagne ci sono anche molte altre attrazioni ad attendere gli escursionisti. Già all’inizio del percorso vale ad esempio la pena visitare il Parco San Grato, un enorme giardino botanico con rododendri, azalee e conifere e con molti sentieri tematici. Sul sentiero della fiaba vicino al parco giochi i piccoli imparano, giocando, molte cose riguardo alle piante che crescono nel parco.
Queste e tante altre escursioni le trovate su: famigros.ch/escursione
Scopri i prati e i boschi dei Monti di Saurù Il Ticino è celebre per le sue valli selvagge e romantiche, per le acque chiare e fresche dei suoi fiumi e per i suoi incantevoli borghi. Ma da offrire ha anche meravigliose camminate in quota con grandiosi panorami sullo spettacolo delle Alpi. Camminando o pedalando nella regione dei Monti di Saurù potrai scoprire con la tua famiglia questo angolo poco noto del Ticino. Puoi raggiungere i Monti di Saurù con la funivia Pizzo di Claro, che in soli dodici minuti supererà i 1000 metri di dislivello che dividono il villaggio di Lumino dalla stazione a monte, a quota 1308 metri. Improvvisamente ti ritroverai in uno scenario alpino a respirare aria superbamente fresca, con davanti agli occhi un panorama da sogno, e potrai gustarti le squisitezze locali in uno dei vari ristoranti alpini. Poco importa se preferisci montare in sella alla mountain bike o indossare delle scarpe da escursionismo: comunque tu li voglia vivere, a questi percorsi coinvolgenti e sempre diversi non manca proprio nulla. Ad attenderti c’è poi una sorpresa speciale: il sentiero dei pianeti.
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Nuove strade per lo shopping in centro Per molto tempo, il commercio si è fatto per strada. Ce lo ricordano le molte strade o piazze del mercato nelle città di tutta Europa. Ce lo ricordano anche i molti mercati settimanali che si tengono nelle piazze centrali delle nostre città. Ma anche quando il commercio dagli spazi all’aria aperta si trasferì nei negozi e, più tardi negli empori che sorsero sulle strade che portavano alle stazioni ferroviarie a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, la strada, e quindi il centro città, continuarono ad essere importanti perché sulla strada davano le vetrine dei negozi. Anche le case di distribuzione più grandi non avrebbero sviluppato i loro affari, nella prima metà del secolo ventesimo, se non si fosse diffusa l’abitudine di passeggiare in centro città per ammirare le vetrine dei negozi. È l’esposizione del prodotto che attira la clientela. Oggi quando si parla di «shopping» si intende, anche
alle nostre latitudini, questo passeggiare nel centro cittadino, non sempre con intenzioni di compera precise, per ammirare le vetrine dei negozi e farsi un’idea di che cosa offrono i commercianti locali. Dopo la seconda guerra mondiale lo «shopping» in centro aveva ricevuto una prima minaccia dalle società di vendite per corrispondenza (come, per esempio, Veillon, Ackermann, Jelmoli, ecc.) che offrivano i loro prodotti inviando gratuitamente il loro catalogo a tutte le economie domestiche. La seconda minaccia, questa volta anche maggiore della prima, si ebbe, negli ultimi tre decenni dello scorso secolo, con lo svilupparsi dei centri commerciali in periferia di agglomerato urbano. La passeggiata a piedi settimanale in centro, per vedere le vetrine dei negozi, fu sostituita dallo spostamento in automobile verso le zone commerciali della periferia
urbana alle quali si poteva accedere anche più facilmente con l’automobile e nelle quali veniva offerta, su una superficie ben più grande di quella del vecchio nucleo cittadino, una gamma di prodotti e servizi molto più ampia. Ma i negozi del centro resistettero anche a questo tipo di concorrenza trasformando ovviamente le loro offerte e, molte volte, specializzandosi in prodotti rari o di lusso. Nel corso degli ultimi due decenni ha fatto però la sua apparizione un nuovo pericolo: l’«ecommerce». La concorrenza dell’«ecommerce» è forte e si fa, di anno in anno, più intensa. I commercianti del centro sono alla ricerca di rimedi che consentano loro di opporvisi con successo. Qualche mese fa, per fare un solo esempio, i commercianti di Via Nassa a Lugano hanno dato l’incarico a degli specialisti zurighesi di studiare provvedimenti che si potrebbero
prendere per frenare la decadenza della strada. Certo il caso di Via Nassa ha caratteristiche uniche, in particolare per la posizione di Lugano al confine con l’Italia che, in tempi in cui il franco non era ancora forte come lo è oggi, aveva attirato in via Nassa una clientela pregiata. Ma in buona parte non è che un ulteriore esempio della decadenza delle attività commerciali nei nuclei cittadini tradizionali, in Ticino e in Svizzera, come nel resto dell’Europa. Non sembra che ci siano molti rimedi contro questa tendenza. Quel che è certo è che allungare l’orario di apertura e creare nuove possibilità di parcheggio non bastano per rilanciare il commercio del centro cittadino. Una strada che è seguita da molti è quella di inserire nei negozi attività di diverso tipo. La libreria-caffè, ristorante è forse l’esempio più noto. Ma ci sono moltissimi altri esempi di diversificazione dell’offer-
ta. Di recente ho visto per esempio un negozio di fotografo che offriva sedute di massaggi. Una seconda via potrebbe essere quella di ridurre l’attività del negozio all’esposizione dei prodotti che il cliente potrebbe provare, o assaggiare, per poi ordinarli via internet. Quando la fotocopiatrice in 3D sarà diffusa non si vede perché debbano ancora esserci dei depositi di prodotti presso i negozi, al di là delle finalità espositive. Altri specialisti del commercio al minuto pensano che le attività di vendita attuali saranno in futuro sostituite da centri che offrono servizi al pubblico, dalla custodia dei bambini piccoli alla consulenza medica, dai corsi di cucina alle lezioni di yoga e, soprattutto, nuove possibilità di ristorazione. La decadenza dei commerci tradizionali potrebbe insomma essere frenata dall’apparizione di nuove attività di vendita o da nuovi servizi.
ra: il senatore del Vermont ha avuto un malore, è stato ricoverato e operato al cuore, e nel frattempo è morta sua nuora (di 46 anni, per un tumore). Sanders ha interrotto la campagna elettorale e ora che riparte dice che il suo approccio sarà differente, ma molti sostengono che il problema dell’ex candidato-idolo del 2016 sia un altro, e non è temporaneo: ha perso il fuoco che aveva allora, e forse non lo trova più. Che questo sia un passaggio momentaneo o un punto di svolta, la Warren ha intenzione di goderselo. Nell’ultimo trimestre, ha raccolto 24,6 milioni di dollari di contributi, ben di più dei 15 e rotti di Biden, e poco meno dei 25,3 di Sanders, che è considerato la macchina da soldi di questa prima fase della contesa. La Warren evita le grandi cene per raccogliere fondi e invece si butta tra la gente, secondo quel modello imposto da Barack Obama e applicato anche da Sanders che favorisce tanti e piccoli contributi e diventa mobilitazione. Sono ormai diventate famose le file per i selfie che lo staff della Warren organizza a ogni incontro: lei si fa fotografare, poi condivide i selfie sui social, così ognuno si sente considera-
to e importante. La rivoluzione «una faccia alla volta», dice la sua portavoce. C’è da dire anche che le grandi aziende non sono molto fiduciose nei confronti della Warren che ha impostato la sua carriera politica sulla lotta ai grandi accentramenti di finanze e di potere. Wall Street fa trapelare di continuo la sua diffidenza, arrivando anche a dire che, in caso di scontro tra la Warren e Trump, finirebbe per sostenere quest’ultimo. La Silicon Valley è ancora più agitata: è stata resa pubblica una conversazione privata di Mark Zuckerberg, patron di Facebook, in cui dice che l’ascesa della Warren è una grande preoccupazione (lei ha risposto per le rime: la preoccupazione è il ruolo di Facebook nel business delle fake news, non io). Gli imprenditori della Valley cercano di avvicinarsi alla senatrice, provano a organizzare incontri ma per ora lei si nega, e loro si innervosiscono ancora di più. La Warren si nutre di questa ostilità: è per lei la migliore dimostrazione del fatto che una sua presidenza sarebbe davvero dalla parte e in difesa del popolo. E infatti l’ala più radicale del Partito democratico si sta avvicinando
a lei: se si guardano le interazioni sui social, il corteggiamento reciproco è piuttosto evidente, anche se non ci sono endorsement ufficiali nei confronti della senatrice. Lo scontro interno ai democratici non è risolto: nemmeno l’impeachment, che pure ha riportato una certa unità, può condurre a una ricomposizione. E Biden, che guida il fronte dei moderati, non si dà per vinto: la battaglia delle primarie si giocherà soprattutto al sud, dove ci sono gli Stati considerati più centristi e dove il voto afroamericano è rilevante. La prossima battaglia della Warren è proprio convincere questa parte dell’elettorato, anche se per il momento la senatrice è ancora alle prese con la sua biografia: dopo la querelle sulle sue origini indiane – che le è guadagnato il soprannome trumpiano «Pocahontas» – ora c’è quella sul lavoro perso quando era giovane e incinta. All’inizio aveva raccontato di aver lasciato il lavoro spontaneamente, oggi dice che invece non aveva avuto scelta: il suo capo le «aveva mostrato la porta» quando la sua pancia era diventata visibile. Ancora non è certo come sia andata per davvero.
iniziarono pure a circolare i romanzi di Johanna Spyri con le avventure di Heidi, colme di rimpianti per un mondo incontaminato e innocente insidiato dai guasti provocati da una modernità sferragliante. La seconda ondata di protesta prese avvio nel secondo dopoguerra, come reazione all’affacciarsi di progetti faraonici nel campo idroelettrico. Una vasta campagna cercò di impedire la costruzione di una centrale a Rheinau per sfruttare le acque del Reno. Il popolo, chiamato alle urne, non condivise però le ragioni degli oppositori e l’impianto si fece. Invece altre iniziative andarono a buon fine, come nel comprensorio della Greina, che si voleva sommergere, e come nell’alta Engadina minacciata da uno sbarramento artificiale. In seguito irruppe la questione nucleare: Kaiseraugst divenne il simbolo di
una estenuante battaglia, culminata nell’abbandono del progetto. I ticinesi ricordano ancora l’insano proposito di stivare le scorie radioattive nella geologicamente instabile Val Canaria. In quel giro d’anni, sempre nel Nord d’Europa, nascono i primi partiti ecologisti. L’ambiente entra nei programmi politici come idea-guida. I timori che la «surchauffe» economica divori le risorse naturali senza rigenerarle fanno breccia anche tra gli scettici. Nel 1972 il rapporto del Club di Roma sui limiti dello sviluppo permette di sostanziare le ansie galoppanti con i dati raccolti dalla comunità scientifica. C’è anche chi sbaglia bersaglio, individuando nell’eccessiva presenza di stranieri – nella Überfremdung – e non nel modello produttivo dominante la causa dell’alterazione del territorio e dei costumi nazionali. Nel 1985 il Consiglio federale propose un
indirizzo strategico promettente: la «crescita qualitativa». Piogge acide e moria dei boschi avevano gettato l’opinione pubblica nello sconforto. La via indicata era giusta, ma purtroppo i provvedimenti varati in quell’occasione rimasero settoriali e non intaccarono la logica soggiacente al mondo della produzione e del consumo. Dopo anni di controversie sulle fonti d’inquinamento e sui metodi migliori per combatterle, scienza e folle giovanili paiono oggi condividere una concezione olistica della società e quindi la necessità di ragionare tenendo conto dell’incidenza di tutte le variabili di maggior impatto, dal traffico alle emissioni mefitiche, dai rifiuti all’invasione delle plastiche. Resta da vedere come queste istanze finiranno nell’agenda dei politici, memento di una preoccupazione costante anche dopo aver archiviato le campagne elettorali.
Affari Esteri di Paola Peduzzi Fra i due litiganti, gode la Warren Questa settimana, per la prima volta, Elizabeth Warren risulta in testa nei sondaggi per le primarie del Partito democratico per la corsa presidenziale americana del 2020. La senatrice del Massachussetts, terrore di Wall Street e della Silicon Valley, approfitta per lo più della crisi dei suoi principali avversari: Joe Biden, l’ex vicepresidente che finora era il favorito, è al centro del caso politico che ha convinto i democratici ad avviarsi sulla strada dell’impeachement contro Donald Trump. Il presidente americano ha contattato un
leader straniero – dell’Ucraina – per ottenere materiale compromettente su Biden e su suo figlio Hunter e così, incastrato nella lotta istituzional-politica tra la Casa Bianca e il Congresso, Biden si è ritrovato schiacciato dalle accuse di corruzione e favoreggiamento. Si tratta di accuse senza prove, ma sappiamo come funziona la propaganda: Biden si deve difendere, e in questa postura – sulla difensiva, appunto – piace meno agli elettori democratici. Il temporaneo stallo dell’altro avversario della Warren, Bernie Sanders, è di tutt’altra natu-
la senatrice del Massachussetts elizabeth Warren.
Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti L’ambiente da Heidi a Greta La piccola Greta ha fatto diventare tutti verdi. Quasi tutti. Qualcuno l’ha insultata e derisa, verde anche lui ma di rabbia, come se lo scricciolo svedese avesse toccato un nervo scoperto. Chissà che interessi nasconde, si è insinuato, e quali sono i burattinai che la muovono dietro le quinte. Anche una cospicua quota di giovani elvetici segue le sue gesta, ed è un bene. Per una volta non volano sampietrini e la polizia non spara pallottole di gomma. I cortei sono pacifici, l’unica arma che brandiscono è quella dell’ironia, e speriamo (verde-speranza) che continuino così. Il tempo dirà se la protesta proseguirà o si rivelerà un fuoco di paglia, frutto di quello spirito gregario cui soccombono spesso gli adolescenti, come da più parti si sostiene. Purtroppo il cambiamento climatico non è fenomeno passeggero, ma un dato di fatto,
confermato da una messe di ricerche scientifiche. La contrazione dei ghiacciai è continua, il raffronto fotografico tra le epoche è, questo sì, raggelante. Lingue un tempo maestose sono ormai ridotte a rivoli melmosi. Dal clima all’ambiente il passo è breve, sono due facce di un poliedro dai tratti vieppiù emergenziali. Ma la Svizzera, nel solco dei paesi nordici, non arriva ultima nella riflessione sui rischi ambientali; anzi, i primi segnali d’allarme furono lanciati al principio del Novecento. Cerchie borghesi illuminate si proposero di «proteggere la patria» (Heimatschutz) dall’assalto della speculazione e di progetti megalomani al servizio dell’«industria dei forestieri», com’era allora chiamato il turismo. Solo una vasta mobilitazione riuscì ad impedire la costruzione di una ferrovia ai piedi del Cervino. In quegli anni – alle soglie della «belle époque» –
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Cultura e Spettacoli Pensare con le donne Per i 50 anni del suffragio femminile in Ticino, Lugano ospita la mostra di Ciriaca+Erre
Piemontesi a Berna e a Zurigo Nell’ambito dei Percento-culturale-MigrosClassics il pianista ticinese Francesco Piemontesi si esibirà in un doppio concerto con l’Orchestra dell’Accademia nazionale della Scala
Un doppio Nobel Dopo i gravi scandali, quest’anno la letteratura è stata premiata due volte
La Vienna che fu Ritorna l’ispettore Emmerich, nato dalla penna sapiente della scrittrice austriaca Alex Beer pagina 55
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Pictor Optimus
Mostre De Chirico a Palazzo Reale
di Milano
Gianluigi Bellei Giorgio de Chirico (1888-1978) è un artista divisivo, per usare un termine in voga oggi. Anche per la critica. Roberto Longhi nel 1919 scrive: «Se già fosse chiaro che tale atroce strambo illustrazionismo non può che smemorarsi della pittura, verrebbe la voglia di chiedere come dipinga di grazia Giorgio de Chirico». Per Maurizio Fagiolo Dell’Arco al contrario «il vedente si trasforma in veggente, per far scoccare quella misteriosa scintilla che definiamo arte». Per Giulio Carlo Argan è un antirivoluzionario che con i suoi dipinti «non rappresenta, né interpreta, né muta la realtà: si pone come un’altra realtà, metafisica e metastorica». Con lui si parla di ritorno all’ordine, che all’inizio del secolo scorso, tra il 1919 e il 1925, ha il suo momento d’oro. In Francia, fra gli altri, troviamo, oltre Picasso, gli ex Nabis e gli ex fauves; in Spagna Miró, Dali; in Svizzera Vallotton; in Cecoslovacchia Gutfreund; nei Paesi Bassi Albert; in Inghilterra Bell; in Italia Sironi, Funi e, appunto, de Chirico. Insomma un generale ritorno all’antico o rappel à l’ordre, come scrive per primo André Lhote su la «Nouvelle Revue Française» del 1919. Proprio in quegli anni de Chirico scrive a Soffici che «bisogna tornare al classico, alla figura umana, alla divina pasta degli antichi e lavorare non meno di 8 ore al giorno». In dicembre sulle pagine di «Valori Plastici» si definisce Pictor classicus. Beh, visto che l’argomento è questo, l’appellativo che gli si dà a volte è Pictor Optimus. Apriamo una parentesi che è prettamente tecnica. Lo so, rischia di diventare noiosa e pertanto sarà breve. Abbiamo capito
che de Chirico pensa di essere il miglior pittore in circolazione e di conseguenza tutti gli credono. Qui, per non scrivere un saggio di pittura, facciamo solo due osservazioni. La prima si basa sul suo Piccolo trattato di tecnica pittorica del 1928. Scrive l’artista: «Il bianco, base della tavolozza, può servire usato puro o in fregature e velature…». E poi: «Bisogna sempre evitare di velare o sfregare con colori puri (eccetto il bianco)… bisogna sempre aggiungere a questi colori un po’ di bianco». Tutti sappiamo che per lui il bianco è il colore metafisico per eccellenza, ma per un trattato generale questa affermazione è palesemente falsa. Per le velature infatti si usano colori trasparenti e il bianco non lo è. Si usano colori più scuri di quelli sottostanti e il bitume per esempio è eccellente per le velature finali e si usa rigorosamente da solo. Infine, un aspetto sicuramente non secondario per un artista che si rifà agli antichi è l’uso del colore. Qualsiasi mediocre insegnante d’arte vi dirà che le forme non sono delimitate da delle righe bensì da toni o colori diversi. Per dipingere un cubo, per esempio, è sbagliato tratteggiare i bordi con delle righe ma ogni facciata deve essere delimitata unicamente dai toni diversi così come tutto l’insieme. Osservando le tele di de Chirico, soprattutto del primo periodo, si nota che ogni oggetto o figura, nella maggior parte dei casi, sono contornati di nero. Lo si può verificare nell’Autoritratto del 1912-13, nel Ritratto della madre e ne l’Incertezza dei poeti del 1913. Negli anni questo aspetto diventa meno usuale, e qui parliamo del periodo neobarocco, ma poi ritorna costantemente.
giorgio de Chirico, Autoritratto in costume da torero,1940. (Roma, Fondazione Giorgio e Isa de Chirico © Giorgio de Chirico by SIAE 2019)
Magari, direte voi, il trattato è stato scritto nel 1928 e qui si citano lavori di 15 anni prima, ma il risultato non cambia visto che lo scontornamento è ricorrente nel tempo e la sua teoria delle velature con il bianco una vera follia. In più nel 1945 Palma Bucarelli ne L’Indipendente scrive che «Il suo disegno è incerto e approssimativo… è così goffo e manchevole che non avrebbe interessato nemmeno la buonanima del Vasari. Quasi quasi pensiamo che quel mattacchione di de Chirico abbia voluto farci uno scherzo. Ma, intanto, è uno scherzo che dura da troppo tempo». Insomma in anni di ri/flusso politico si ri/scoprono personaggi caduti per vari motivi nel cono d’ombra della storia, e allora tutto diventa eccelso e quindi il passo dai governi bellissimi a quello degli artisti bellissimi è molto breve.
Per chi voglia farsi un’idea personale, almeno su questo particolare tema, può andare a Milano a vedere l’esposizione dedicata appunto a de Chirico aperta a Palazzo Reale fino al 19 gennaio. La mostra è organizzata per temi e suddivisa in otto stanze; a dire il vero un tantino anguste e arzigogolate. Con i dipinti mal illuminati. Qui vengono affrontati i principali temi cari all’artista: le piazze, l’enigma della metafisica, il quadro nel quadro, il mito, i manichini, le stanze, i gladiatori sino agli autoritratti. Alcune opere provengono da importanti istituzioni museali ma molte sono di collezioni private. Il che, di solito, non è molto confortante. Da segnalare il Centauro morente del 1909 e Le muse inquietanti del 1918. L’artista annuncia a Carrà di averlo terminato scrivendo: «Siamo i nuovi Ve-
spucci, i nuovi Colombo. Portiamo in noi le tristezze e le speranze delle spedizioni lontane». Qui osserviamo tre statue-manichini. Uno in disparte in ombra, uno ritto in piedi su di un piedistallo e il terzo seduto con le braccia conserte e la testa appoggiata ai piedi in segno di estraneità. Sullo sfondo un castello, forse quello di Ferrara. Poi il magniloquente Autoritratto nel parco del 1959 e infine Le bagnanti sopra una spiaggia del 1934. Fra metafisica, surrealismo e neobarocco si consuma il percorso di un artista problematico ed eccessivo, amato o odiato. Tutto da vedere. Dove e quando
De Chirico. A cura di Luca Massimo Barbero. Palazzo Reale, Milano. Fino al 19 gennaio. www.dechiricomilano.it
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Cultura e Spettacoli
Lugano è donna
Mostre La città accoglie un’installazione di Ciriaca+Erre per il 50esimo anniversario
del suffragio femminile in Ticino
Alessia Brughera Era il 19 ottobre 1969 quando gli uomini ticinesi vennero chiamati a esprimersi in consultazione referendaria sull’introduzione del suffragio femminile in materia cantonale: il 63% di loro si pronunciò a favore riconoscendo finalmente il diritto di voto anche alle donne. Il risultato fu un successo se si pensa che, solo tre anni prima, la chiamata alle urne sul medesimo tema aveva dato esito negativo. Il Ticino diventava così il quinto cantone, dopo Vaud, Neuchâtel, Ginevra, Basilea Città e Basilea Campagna, a introdurre la parità dei sessi in politica, confermando quella mentalità più aperta e moderna, rispetto a molti altri territori della confederazione, che già lo aveva portato nel 1919 a essere il primo in Svizzera a concedere alle donne capofamiglia il voto nelle Assemblee Patriziali. L’importante obiettivo raggiunto in Ticino arrivò inoltre con due anni di anticipo rispetto alla Confederazione elvetica, dove solo nel 1971 (con molto ritardo se si fa il confronto ad esempio con la Germania che lo aveva fatto più di mezzo secolo prima) veniva concesso il suffragio alle donne sul piano federale, nonostante le associazioni femminili di tutto il paese si fossero battute sin dall’inizio del Novecento per ottenere tale diritto.
In Ticino le donne furono ammesse al voto nel 1969, in anticipo di due anni rispetto alla Confederazione Da quell’ottobre 1969 sono trascorsi cinquant’anni e per celebrare questa data di grande valore sociale per il nostro cantone l’artista Ciriaca+Erre, nata a Matera e attiva tra il Ticino e Londra, ha concepito un progetto che si dipana nel tessuto cittadino di Lugano, con l’intento di condurre lo spettatore a meditare in maniera più profonda sui mutamenti che hanno interessato il ruolo della donna negli ultimi decenni. È questa una delle tematiche particolarmente care all’artista italiana, che nell’approccio interdisciplinare alla creazione spazia dal video alla performance, dalla pittura alla scultura, dalla fotografia all’installazione al fine di esplorare la complessità e le contraddizioni della natura umana nonché la difficile conquista da parte dell’individuo di una posizione nel mondo che rispetti le sue peculiarità. Partendo dall’esistenza quotidiana, l’arte di Ciriaca+Erre sfocia in una dimensione
Ciriaca+erre «What about herstory?», 2019, visione rendering. (Courtesy dell’artista)
Ciriaca+erre «What about herstory?», 2019, visione rendering. (Courtesy dell’artista)
più ampia che tocca la spiritualità, il rapporto con l’universo e le sue leggi, i diritti umani. L’artista semina idee, scuote gli animi, sprona alla riflessione, mobilita una coscienza collettiva su questioni importanti che spesso non vengono percepite e considerate nella loro urgenza. E lo fa senza mezzi termini, senza nascondere o attenuare nulla, mostrando all’uomo ciò che deriva dal suo pensiero, dal suo operato, dai suoi trionfi e dai suoi fallimenti. È quello che accade anche nell’installazione urbana pensata in occasione del 50esimo anniversario del suffragio femminile (progetto che ha avuto il patrocinio della Città di Lugano e che è stato organizzato in collaborazione con la Commissione consultiva per le pari opportunità fra i sessi) in cui con immagini di grande impatto visivo ed emotivo Ciriaca+Erre ripercorre il lungo cammino della donna per affermare la propria dignità. Interessante è il titolo dato al progetto: «What about herstory?», una domanda aperta sulla storia al femminile che utilizza un termine coniato negli anni Settanta per ribaltare concettualmente la parola «History» (come se fosse composta dal pronome possessivo maschile «his» e da «story») facendola diventare un vocabolo legato alle donne per raccontare le loro vicende troppo spesso relegate in secondo piano. Ciriaca+Erre rappresenta lo sviluppo dell’identità femminile attraverso una serie di manifesti collocati in alcune delle aree strategiche di Lugano (dal lungolago all’autosilo LAC, da Viale Cattaneo a Piazza dell’Indipendenza, da Corso Pestalozzi alla Stazione FFS), luoghi molto frequentati in cui i lavori dell’artista si pongono a diretto contatto con lo sguardo dei passanti. Si tratta di un’invasione nel cuore della città per portare l’arte negli affollati spazi dell’ordinario, fuori da musei e gallerie, in un territorio neutro dove il confronto tra opera e osservatore si fa più immediato e spontaneo. Le diverse affissioni, come fossero tappe di un unico percorso visivo fatto di immagini ora dal contenuto esplicito ora evocativo, presentano alcuni frame tratti da due opere video realizzate dall’artista nel 2016 e nel 2017, intitolate rispettivamente Suspended Woman e Suspended Witches. Ecco allora comparire alcuni degli spot più marcatamente sessisti che hanno visto la luce tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta, tra cui la nota pubblicità in cui una «donna-tappeto» viene calpestata da un uomo che
indossa fiero i suoi nuovi pantaloni della marca Mr. Leggs o, ancora, quella in cui una donna nuda stesa sul pavimento ammira un paio di scarpe maschili della Weyenberg Massagic come fosse un oggetto da venerare. A questi si avvicendano manifesti con fotografie d’archivio raffiguranti le lotte delle suffragette, frutto di
un’accurata ricerca iconografica sul passato, e immagini contemporanee nate da esperienze vissute in prima persona dall’artista, come quelle in cui compaiono le donne africane ancora oggi bandite dalle loro comunità perché accusate di stregoneria. Personefantasma, queste, che Ciriaca+Erre ha incontrato durante il suo viaggio nei
remoti villaggi nel nord del Ghana e che ha poi scelto di presentare nell’installazione luganese perché il tema delle streghe ha un legame particolare con la storia della Svizzera, ultimo paese, nel 1782, in pieno secolo dei lumi, a condannare a morte una donna per stregoneria, e primo governo al mondo, nel 2008, ad annullare tale condanna riconoscendo la malcapitata come vittima di un assassino giudiziario. Particolarmente significativa, poi, è l’affissione su cui compaiono alcuni riferimenti al «Malleus Maleficarum», testo scritto nel 1487 da due frati domenicani tedeschi allo scopo di reprimere l’eresia, il paganesimo e la stregoneria in Germania. Il volume, che venne ristampato ben quattordici volte e che non venne mai inserito dalla Chiesa cattolica nell’indice dei libri proibiti, è la funesta summa dei peggiori pregiudizi sulla donna, definita come creatura inferiore e spontaneamente incline al peccato. Seppur riferita a un lontano passato, è un’immagine che funge da monito e che solleva quesiti sulle forme di oscurantismo e di fanatismo che ancora oggi permangono, assumendo solo modalità più subdole e in apparenza più innocue. Dove e quando
Ciriaca+Erre. «What about herstory?». A cura di Paola Ugolini. Installazione urbana dislocata nella Città di Lugano. Fino al 7 novembre 2019. Annuncio pubblicitario
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Cultura e Spettacoli
Nuove prospettive teatrali per raccontare la storia
In scena Stimolanti, ispiranti e visionari: quest’anno gli spettacoli del Festival internazionale di teatro (FIT)
hanno lasciato il segno
Giorgio Thoeni Quella che è stata archiviata la scorsa settimana può contare su un bilancio più che positivo: pubblico numeroso, competente e curioso, spettacoli di livello, all’altezza delle aspettative. In effetti, la 28esima è stata una delle edizioni più originali del FIT che in qualche modo hanno saputo raccontare la scena contemporanea. Un festival internazionale si legittima se crea l’opportunità di passare in rassegna quanto c’è di meglio, informando così il pubblico su nuove tendenze. Quelle che andranno a incidere maggiormente fuori dai circuiti più blasonati e che poi finiranno per far scuola anche da noi. Possiamo ritenerci fortunati se FIT e LAC riescono a dare continuità a una rassegna dalla quale nascono stimoli e discussioni grazie a proposte che quest’anno hanno spaziato dal teatro documentario come con Rimini Protokoll, Lola Arias o Milo Rau, a storie individuali che sono riuscite a creare un ponte con la storia come con Jaha Koo, Winter Family, Rudi Van der Merwe e altri. Non possiamo commentare tutti gli spettacoli, ma alcuni di essi meritano di essere visti più da vicino, se non altro come sorta di confronto di opposte teatralità. Come il ritorno al FIT di Boris Nikitin con Attempt On Dying (Tentativo di morire). Spiazzante e in un certo
senso antiteatrale, l’artista basilese si è presentato al centro del palco del Teatro Foce seduto su una sedia con un mazzo di fogli in mano per una solitaria sequenza con pochi elementi. Una lettura di un’ora con misurate e meditate pause, sguardi sulla platea, una leggera correzione di luce, gestualità misuratissima, quasi assente, una tensione che conquista: per tutto il tempo non vola una mosca. La lingua scelta è l’inglese. Il testo è autobiografico e descrive un doppio coming out: la sua ammissione di essere gay e la sofferenza per l’inesorabile SLA che affligge il padre che opta per un suicidio assistito ma poi, ironia del destino, muore a causa di un’infezione. Fatti che assumono una dimensione conflittuale, fra interrogativi reali e simulazione della verità attraverso un testo intenso, profondo, lineare ma controverso, dove la storia personale si tuffa in un mondo interiore abbracciando la filosofia dell’essere e del divenire, un’immersione nei meandri dell’individuo, della paura di dover nascondere o celarsi dietro apparenze. Un’eterna battaglia fra amore e morte, fra Realität e Wirklichkeit in un vulnerabile equilibrio. Nikitin gioca anche con l’inglese con vulnerability che trasforma in ability for vulner: criptonite difficile da digerire. Un imbarazzo reso ancor più significativo dal canonico scambio finale con le domande all’artista, una breve giostra di risposte
un momento della pièce 2H-Hebron.
fra profondità esistenzialiste e dubbi sulla teatralità della performance che non hanno del tutto convinto. Decisamente più efficace la dirompente zampata di taglio cinematografico di Proton Theatre con Imitation of Life del regista ungherese Kornél Mundruczó: fasci di luce suggestivi, sonorità inquietanti, uso della videocamera per metaproiezioni evanescenti e la scenografia di un interno casalingo distribuito in un gigantesco cubo rotante. Senza dimenticare l’ottima prova
recitativa, a cominciare dalla strepitosa Lili Monori con un iniziale impatto, efficace e dal taglio realistico. Il tutto a conferma del valore di un’opera che ha collezionato ovunque riconoscimenti e critiche entusiaste. La trama si ispira a un fatto di sangue fra due rom avvenuto a Budapest nel 2015 che ha sconvolto l’opinione pubblica. La storia immaginata dal regista ruota attorno a una dimensione barbara, primaria, spesso disperata, relegata al più basso gradino della scala sociale. Mundruczó ne
approfitta per creare una metafora kafkiana su quesiti attorno a un’umanità intrisa di disarmante squallore. Di tutt’altra natura la Winter Family con 2H-Hebron, un’ora tutto d’un fiato, un’apnea senza empatia o ricerca di emozioni di Ruth Rosenthal nella ricostruzione per modellini della dimensione sconcertante di Hebron. Una visita guidata nella città palestinese murata, luogo di incomprensione, una realtà verso la quale sembriamo spettatori insensibili e impotenti. Annuncio pubblicitario
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Cultura e Spettacoli
Nel nome di Chopin, insieme a Martha Concerti A colloquio con il pianista Francesco Piemontesi
che in novembre si esibirà a Berna e a Zurigo
Enrico Parola «Che cosa posso dire del Primo Concerto di Chopin? Lo sto ancora scoprendo! Non l’avevo mai studiato, l’ho aggiunto al mio repertorio solo qualche mese fa; e le confesso che è stato proprio Tony Pappano a insistere affinché lo suonassi». È dunque un debutto quello che attende Francesco Piemontesi a novembre: il 5 a Berna e l’8 a Zurigo affronterà per la prima volta in carriera il Concerto in mi minore di Chopin, solista nella tournée elvetica che Pappano e l’orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia
Concorso «Azione» mette in palio 2 biglietti per il concerto di Migros-Percentoculturale-Classics (il 5.11 al Casino di Berna e il 8.11 alla Tonhalle Maag di Zurigo) con l’Orchestra dell’Accademia nazionale della Scala (direzione di Antonio Pappano, al pianoforte Francesco Piemontesi). Per partecipare all’estrazione, seguire le istruzioni contenute nella pagina web www.azione.ch/concorsi.
terranno toccando anche Ginevra e Lucerna; qui però, pur con lo stesso brano, al pianoforte siederà Martha Argerich, L’alternanza tra la grande pianista argentina e il trentaseienne locarnese non è una scelta dettata dalla volontà di presentare un enfant du pays: Piemontesi è una figura nota e apprezzata nel panorama concertistico internazionale, nelle ultime stagioni non solo come esecutore ma anche come direttore artistico delle Settimane Musicali di Ascona. Non più un enfant, dunque, sebbene lui si senta ancora «quel bambino curioso che a due anni prendeva in mano dei sassolini e li picchiava contro qualsiasi oggetto per farlo suonare, che dopo qualche lezione di violino chiese all’insegnante di provare a schiacciare qualche tasto sul pianoforte che stava accanto e da lì non ebbe più dubbi; mi sento ancora un bambino curioso che mette le mani sul pianoforte e cerca delle sonorità, certo con qualche anno in più di esperienza e di maturità». Maturità vuol dire aver fatto «molti passi in avanti nella gestione della tensione: mi ricordo i primi concerti, la paura di sbagliare, il sentirsi solo sul palco, i primi commenti negativi sul mio modo di suonare. Tutto quello che ho vissuto mi ha aiutato a crescere e a diventare quello che sono». Maturità, esperienze e una carriera ormai blasonata non rappresentano però un punto
d’arrivo: «Non mi sono mai sentito e credo che mai mi sentirò arrivato: ogni giorno tento di imparare qualcosa di nuovo sia dal punto di vista musicale sia da quello tecnico. Mi pongo tutti i giorni le stesse domande alle quali cerco di dare una risposta più completa del giorno prima; ad esempio: come riesco a comunicare al meglio le intenzioni di un compositore verso il pubblico? Mentre suono, sono pienamente nella musica o c’è ancora un qualche blocco che non mi permette di “entrare” perfettamente nel pezzo? Con questo tipo di lavoro la ricerca non ha mai fine». Tra gli incontri che hanno segnato la carriera e la maturazione artistica di Piemontesi vi è senza dubbio quello con la Argerich: è quasi la chiusura di un cerchio il condividere proprio con lei la tournée di Pappano e Santa Cecilia. «Ho conosciuto Martha in Giappone nel 2003 e ho avuto un rapporto particolarmente intenso con lei soprattutto nel 2007: durante il concorso Regina Elisabetta di Bruxelles fui ospite a casa sua per diverse settimane. Fu davvero un bel momento, pieno di ispirazione, di nuove idee ma anche di umanità: per questo motivo per un certo periodo pensai anche di trasferirmi in Belgio». È noto come la Argerich non abbia mai voluto avere allievi e tenere corsi: «Già, Martha si rifiuta di far lezione a chiunque; però abbiamo ascoltato tan-
il ticinese sarà di scena il 5 e l’8 novembre. (Marc Borggreve)
ta musica insieme e ho anche assistito ai suoi primi passi con la Rapsodia di Rachmaninoff, un brano che purtroppo decise più tardi di non suonare in pubblico». Sebbene non fossero lezioni, quei momenti furono una grande lezione di stile e di metodo: «Imparai un nuovo approccio basato sul suono, sull’ispirazione del momento e sulla libertà di espressione, un modo di lavorare fino ad allora praticamente inconcepibile per me». Esperienza e maturità hanno aiutato Piemontesi anche nel suo percorso come direttore artistico. «Come pianista mi trovo sempre sul palco, da direttore artistico mi trovo spesso a osservare le cose da dietro le quinte. Ma non cambia l’amore per la musica e la fissazione per la qualità di un concerto: invito artisti che conosco personalmente, in molti casi con cui ho anche suonato, quindi ho un’idea ben precisa del loro modo di fare musica e delle loro qualità. Non è un dettaglio in un mondo musicale mediatizzato
in cui talvolta non si riesce più a capire con quali criteri vengano scelti artisti e sostenute carriere. Credo che il pubblico possa confermarlo: da più di sei anni mi occupo delle Settimane Musicali di Ascona e di performance di scarsa qualità ne ho ascoltate solo un paio, tra l’altro tutte provenienti da grandi nomi. I giovani in cartellone non mi hanno mai deluso!» Non poche sono invece le serate memorabili vissute: «Mi ricordo ancora l’emozione provata quando l’orchestra di Birmingham con Andris Nelsons sul podio attaccò le prime note: era il mio primo concerto da direttore artistico! Forse il vertice assoluto fu quando Jérémie Rhorer diresse Cercle de l’Harmonie nelle tre ultime sinfonie di Mozart. Di quest’anno mi rimarranno nel cuore l’integrale del Catalogue d’oiseaux di Messiaen con Pierre-Laurent Aimard e il Primo Concerto di Beethoven con la Argerich». A novembre le loro strade torneranno a incrociarsi; per la prima volta, nel nome di Chopin.
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Cultura e Spettacoli
Makropulos, non morire mai Opera All’Opernhaus di Zurigo, «Best Opera Theatre 2019», apertura della stagione
con L’affare Makropulos di Janacek e con una grande Evelyn Herlitzius
Rassegna «Effetto voce», quarta edizione Musica corale A
Bioggio il 20 ottobre tre formazioni musicali in concerto
una scena di Die Sache Makropulos. (Monika Rittershaus)
Marinella Polli È una strepitosa Evelyn Herlitzius a dominare la scena di questa nuova produzione zurighese – la prima della stagione 2019/20 – dell’Affare Makropulos di Leos Janacek. Il soprano tedesco si distingue infatti per carisma, intensità e padronanza vocale e scenica, sin dal suo primo apparire nell’opera in tre atti sull’omonima commedia distopica di Karel Capek. Un ruolo tosto, il suo, ovvero quello della cantante Emilia Marty che, grazie a un fenomenale elisir, vive da ben 337 anni un’allucinante, complicata odissea fra un’identità e l’altra, in un corpo eternamente giovane e che imprigiona tuttavia il vuoto morale di un’anima annoiata, arida e oramai insensibile. La coerente lettura di Dmitri Tcherniakov (sua anche la scenografia ad ambiente unico, costumi sobri di Elena Zaytseva, puntuale Light Design di Gleb Filshtinsky, Video Design di Tieni Burkhalter) punta tutto su di lei. E ciò a partire dal video iniziale che ne descrive la grave malattia all’ultimo stadio e sino allo splendido
coup de théâtre (anzi, di théâtre dans le théâtre) del finale. Sul versante musicale, Jakub Hrúsa alla testa di una precisa e ispirata Philarmonia Zürich suscita grande emozione, evidenziando con chiarezza le numerose sfumature della densa partitura, nonché l’ostinata tensione generata dall’alternarsi di momenti di acuminato lirismo e toni più distaccati. Accanto alla straordinaria Herlitzius, tutti bravi e sicuri nei loro ruoli anche gli altri cantanti, a cominciare da Scott Hendricks nei panni del cinico e disumano Jaroslav Prus, Sam Furness in quelli di Albert Gregor, Spencer Lang nella parte del sentimentale e patetico Janek, il figlio di Prus che per Emilia si ucciderà, e Kevin Conners in quella di Vitek, tutti infatuati, nel presente o nel passato, della donna: nello stesso modo e per gli stessi inconsistenti motivi, e perciò caricature. Buona anche la prestazione del coro preparato da Ernst Raffelsberger. Scroscianti gli applausi del pubblico della première. Le repliche, in lingua ceca e con sopratitoli in tedesco e inglese, si protrarranno sino alla fine di ottobre.
La stagione 2019/20 dell’Opernhaus di Zurigo prevede numerose altre chicche. Dall’oratorio di Händel Belshazzar con lo specialista Laurence Cummings a dirigere l’«Orchestra La Scintilla» all’opera per famiglie Coraline di Marc-Anthony Turnage in novembre. E poi Don Pasquale di Donizetti, una nuova produzione dell’Ifigenia in Tauride di Gluck, con Cecilia Bartoli come protagonista, Arabella, l’ultima collaborazione del geniale duo Richard Strauss/ Hugo von Hofmannsthal nei mesi successivi. Seguiranno Il Mondo della Luna di Haydn, con i giovani dello Studio Operistico Internazionale, e il varo di The Girl with the Pearl Earring, commissionata al compositore svizzero Stefan Wirth e ovviamente basata sul capolavoro di Jan Vermeer’s, cui già si ispirano il bestseller di Tracy Chevalier e il film con Scarlett Johansson and Colin Firth. In occasione dei «Festspiele Zürich» Fabio Luisi affiancherà per la prima volta l’enfant terrible Calixto Bieito per dirigere I Vespri Siciliani di Verdi. Non mancherà l’operetta, Csardasfürstin di Kálmán in aprile e un
Il Gruppo Corale Vox Nova, diretto da Roberta Mangiacavalli, propone ed organizza per il quarto anno consecutivo una rassegna corale, attraverso la quale promuovere la cultura del canto d’assieme nelle sue più varie declinazioni e forme. La rassegna si terrà il prossimo 20 ottobre 2019, alle ore 17.00 nella Chiesa Parrocchiale San Maurizio a Bioggio. L’obiettivo della manifestazione è quello di promuovere e divulgare la pratica del canto corale a cappella, dando spazio a formazioni che si impegnano in particolari direzioni stilistiche ed espressive. A fianco della corale «di casa», saranno infatti invitati il Quintetto Nigra di Torino e l’ensemble vocale Calycanthus di Milano. I primi presenteranno estratti dal loro repertorio legato al patrimonio della musica popolare piemontese. I secondi sono una formazione pluripremiata nell’ambito del canto corale, che ama misurarsi con brani di varia ispirazione e stile.
Gala dell’operetta diretto da Fabio Luisi e con il celebre tenore Piotr Beczała in giugno. E non dimentichiamo il balletto: da La Piccola Fiammiferaia in prima svizzera, coreografata dal direttore del Ballett Zürich Christian Spuck sulla fiaba di Andersen e con musica di Helmut Lachenmann, alla serata interamente dedicata a coreografie di William Forsythe, a Walking Mad di Hans van Manen. Ricordiamo ancora che il Teatro dell’Opera di Zurigo è stato nominato da una giuria internazionale di specialisti «Best Opera House 2019». Fra le motivazioni, l’ampio spettro di proposte eguagliato da pochi altri teatri al mondo, il gran numero di produzioni coraggiose, il fiuto di un sovrintendente aperto anche al nuovo e l’eccellenza di interpreti, maestri e registi convocati a Zurigo dal padrone di casa Andreas Homoki.
www.voxnova.ch/2019
Dove e quando
In collaborazione con
Die Sache Makropulos, Zurigo, Opernhaus. Fino al 22 ottobre 2019. opernhaus.ch
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Cultura e Spettacoli
Europei, intellettuali, premiati
Letteratura Dopo l’annus horribilis 2018 il doppio Nobel 2019 per la letteratura va alla polacca Olga Tokarczuk
e all’austriaco Peter Handke
Paolo Di Stefano Promesse mantenute solo in parte. Doveva essere il Nobel femminile ed extraeuropeo. È andato a una donna, Olga Tokarczuk, e a un uomo, Peter Handke, polacca la prima, austriaco il secondo. Viene sempre voglia di fare qualche statistica, quando si pronunciano gli accademici svedesi. Il nome di Olga Tokarczuk, arcinoto in patria, non ha avuto grande circolazione tra i favoriti della vigilia: ma si sa che la giuria ama stupire e in effetti la scelta ha stupito alquanto. Tokarczuk è la quinta laureata della Polonia e viene dopo Wislawa Szymborska, sconosciutissima da noi quando venne premiata, nel 1996. In Italia le sue poesie erano state pubblicate da Vanni Scheiwiller e tradotte da Pietro Marchesani, ma non c’è voluto molto tempo perché fosse letta e amata da cultori fedeli (e ripubblicata in toto da un grande editore come Adelphi). Olga Tokarczuk ha avuto più fortuna: in Italia è stata tradotta dalla piccola (e lungimirante) Nottetempo, la casa editrice fondata nel 2002 da Ginevra Bompiani (figlia di Valentino) e da Roberta Einaudi (nipote di Giulio). I titoli sono Guida il tuo carro sulle ossa dei morti (2009) e Nella quiete del tempo (2013, già proposto con altro titolo da e/o). Prima ancora, era uscita in Italia per iniziativa di minuscoli editori come Forum e Fahrenheit 451. Quest’anno Bompiani ha pubblicato in sordina il suo libro più famoso, I vagabondi (Bieguni del 2007), una narrazione ibrida che mescola il racconto con il saggio e affronta il tema più ricorrente nell’immaginario della Tokarczuk, quello dei confini (non solo fisici), inseguendo e incrociando un centinaio di storie di frontiera, personaggi in viaggio non solo per necessità ma anche per desiderio (migrazione non è soltanto urgenza drammatica). In realtà i «bieguni» sono i membri di una setta slava convinta che per sfuggire all’Anticristo bisogna mettersi in moto: e questo come altri elementi ci ricordano che Tokarczuk è psicologa di forma-
olga tokarczuk è una scrittrice polacca, classe 1962. (Keystone)
Peter Handke, austriaco, 1942, è noto anche alle nostre latitudini. (Keystone)
zione junghiana, sicché i suoi racconti tendono verso la favola archetipica. Ma sposare il movimento significa anche stare dentro la contemporaneità (della rete, per esempio), oltre che rivendicare il diritto umano di attraversare i territori al di là degli steccati imposti da certe politiche. «Quando scrivo – dice Olga Tokarczuk – sono presa da una sorta di follia, di ossessione alla quale devo dare un ordine». Si capisce, leggendo le sue pagine, che si lascia possedere e trascinare da questa follia-ossessione, come accade agli scrittori migliori. Letteratura europea. Sicuramente letteratura ardua e di qualità, mista e mai appagata di sé. Sia Tokarczuk sia Peter Handke risultano quasi in controtendenza rispetto agli ultimi due premiati, Kazuo Ishiguro (2017) e soprattutto Bob Dylan (2016). Grazie al cielo, i Nobel non hanno fondato un canone: ci sono tanti di quei vincitori completamente dimenticati… E
non sono mai una sola cosa: racconto, saggio, poesia, filosofia, teatro, cinema anche nella scrittura e non solo sul set, che Handke ha praticato con Wenders (Il cielo sopra Berlino in primis). Maestro di titoli: Saggio sul luogo tranquillo, Lento ritorno a casa, Saggio sul cercatore di funghi (che certo non sarà sfuggito a Giorgio Orelli, sensibile ai cercatori di funghi), Handke è autore de Il Canto della durata, del 1986, che può esser letto come un suo manifesto in versi. Una passeggiata in cui il poeta-narratore riflette su ciò che vede e su ciò che sente riferendone con tono confidenziale e divagante: «Singolare è il sentimento della durata / anche alla vista di certe piccole cose / quanto meno appariscenti, tanto più toccanti: un cucchiaio / che mi ha accompagnato in tutti i traslochi / un asciugamano / appeso nella stanze da bagno più diverse». Due Nobel della Letteratura nello stesso anno non si vedevano da 50 anni.
ci sono tanti di quei nomi ignorati dai professori di Stoccolma: ultimi Philip Roth e Amos Oz. Per fortuna non sarà tra questi Peter Handke, al quale si devono libri memorabili, quasi tutti proposti in Italia, dove giovanissimo fu «adottato» dalla Feltrinelli e tradotto anche da Enrico Filippini con la sua opera più trasgressiva e provocatoria, il testo teatrale Insulti al pubblico, 1968. Austriaco come Musil e Bernhard (che avrebbero meritato l’alloro molto più della connazionale Elfriede Jelinek), Handke è scrittore sperimentale ancora oggi che si avvicina agli ottanta. Sperimentale sin dagli inizi, quando proponeva La paura del portiere prima del calcio di rigore (diventato un film di Wim Wenders), un noir psicologico centrato su un omicidio senza ragione e su un vagabondaggio joyciano per i quartieri di Vienna. Se Infelicità senza desideri (1972) è una sorta di biografia della madre, suicida, i suoi libri
Ci si aspettavano voci extraeuropee come le gettonatissime (alla vigilia) Maryse Condé, francese originaria delle Guadalupe, e la canadese Margaret Atwood. Nell’anno che segue gli scandali giganteschi (finanziari e sessuali) che hanno sconvolto l’Accademia, sono arrivati invece due narratori della vecchia Europa inquieta. Ci sono buone ragioni di polemica e buone ragioni di consenso. Ci si poteva legittimamente attendere di peggio. E di meglio. Se nei prossimi vent’anni vincessero Ian McEwan, Per Olov Enquist, Emmanuel Carrère, Marilynne Robinson, Annie Ernaux, Ngugi wa Thiong’o, Haruki Murakami, Cormac McCarthy, David Grossman, Abraham Yehoshua, Claudio Magris, Durst Grünbein, Jon Kalman Stefánsson, Joan Didion, Javier Cercas, Richard Ford, Colm Toibin, Javier Marias, John Banville, gli accademici ci stupirebbero davvero.
Anche sullo sfondo dei Troubles gli adolescenti restano adolescenti Serie tv Derry Girls, successo della britannica Channel 4, è ora distribuita da Netflix Fabrizio Coli Primi anni Novanta a Derry, durante il conflitto nordirlandese. Quattro ragazze di una scuola cattolica e la loro vita quotidiana. Quattro ragazze più un ragazzo, spedito tra le femmine in quanto inglese
perché in un istituto maschile i compagni lo avrebbero riempito di botte. Sono i protagonisti di Derry Girls, serie tv divertente e politicamente scorretta che non si fa problemi a mettere in scena finti miracoli di statue della Madonna che piangono dovuti alla pipì di un cane o terroristi
louisa Harland, Saoirse Jackson, e Dylan llewellyn, protagonisti di Derry Girls. (Keystone)
dell’IRA che all’autogrill contrattano passaggi nel bagagliaio della macchina. Produzione britannica scritta da Lisa McGee, è una delle sitcom di maggior successo di Channel 4 dove la prima stagione ha debuttato nel gennaio dello scorso anno. Ci permette di scoprirla la piattaforma Netflix, sempre che ci si accontenti dei sottotitoli in italiano: sarebbe un peccato non farlo perché il pesante slang nordirlandese rende la serie ancora più simpatica. Si ride e parecchio nel vedere i guai in cui si cacciano la bionda Erin (Saoirse-Monica Jackson) e le sue amiche, un gruppetto di adorabili, goffe ragazze casiniste dei quartieri popolari con un talento innato per finire in situazioni assurde. C’è Michelle (Jamie Lee O’Donnell), la più sboccata, quella che sta sempre a pensare ai ragazzi, poco importa a quale confessione appartengano; Clare (Nicola Coughlan) al limite dell’attacco di panico e che si scopre lesbica; Orla (Louisa Hartland), cugina di Erin semplicemente pazza e James (Dylan Llewellyn) che la madre ha spedito dalla sorella in Irlanda del Nord per farsi la propria vita a Londra. Attorno a loro sta
la famiglia di Erin, un altro campionario di varia umanità con la madre dal pugno di ferro (Tara Lynne O’Neill), la zia svampita (Kathy Kiera Clarke), il padre (Tommy Tiernan) alle prese con angherie e le minacce continue del suocero (Ian McElhinney) o l’insopportabile zio logorroico Colm (Kevin McAleer). Senza naturalmente dimenticare la cornice della scuola femminile retta da Sorella Michael (Siobhan McSweeney), suora disillusa ma più aperta di quanto la ruvida facciata farebbe pensare. Un azzeccato cast capace di dar corpo a un mondo che la creatrice della serie conosce bene. Lisa McGee è nata proprio a Derry e prima di iniziare una brillante carriera di autrice presso il Royal National Theatre di Londra e poi come sceneggiatrice televisiva, l’adolescenza l’ha vissuta negli anni che descrive, punteggiati anche nella serie dalle canzoni dei Cranberries, Salt-n-Pepa o Spice Girls. Due le stagioni di Derry Girls finora disponibili (sei episodi di una ventina di minuti ciascuna). La terza dovrebbe essere diffusa da Channel 4 a inizio 2020 e distribuita internazionalmente su Netflix la prossima estate.
Non era scontato pensare di poter far ridere raccontando storie di una «gang» di ragazzine sullo sfondo di un periodo insanguinato come quello dei Troubles, la trentennale «guerra a bassa intensità» fra Unionisti e Nazionalisti, protestanti e cattolici, che iniziava proprio allora a volgere al termine. Ma – come ha rivelato la stessa autrice in un’intervista – il risultato è stato quasi miracoloso: il pubblico – e prima di tutto quello nordirlandese – è stato allo scherzo e ha decretato l’enorme successo nel Regno Unito. Forse perché, oltre che autenticamente divertente e graffiante, Derry Girls a modo suo suscita anche tenerezza. Quello che Lisa McGee sembra dire è che gli adolescenti restano tali anche nelle situazioni più difficili e i ritmi e rituali sociali propri di quell’età vanno gestiti, che fuori esplodano le bombe o che si combatta per motivi incomprensibili. Forse sono proprio problemi come andare a un concerto dei Take That nonostante i divieti di mamma o fare pace con la propria migliore amica a fornire quella carica di innocenza necessaria a non morire dentro.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 14 ottobre 2019 • N. 42
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Cultura e Spettacoli
Il Muro della vergogna Pubblicazioni Durante un incontro a PiazzaParola Ezio Mauro
presenterà il suo nuovo libro Cronache dal muro
Quando la gaffe è in agguato
La lingua batte Occhio agli amici falsi…
e ai «falsi amici»
Natascha Fioretti Dal 23 al 27 ottobre torna PiazzaParola, Festival di letteratura e società promosso dalla Società Dante Alighieri della Svizzera italiana in collaborazione con LAC Lugano Arte e Cultura. Giunto alla sua nona edizione, il Festival quest’anno ha come protagonista un classico d’eccezione Frankenstein ovvero il Moderno Promoteo, scritto nel 1816 da una giovanissima Mary Shelley e pubblicato per la prima volta nel 1818. 201 anni dopo questa figura originale, straordinariamente attuale e assurta a icona della modernità torna a far parlare di sé. Non nella Villa Diodati sul Lago Lemano a Ginevra, dove prese forma due secoli fa, ma sul lago di Lugano nella hall del LAC. Saranno cinque giorni ricchi di incontri in cui Frankenstein come una Wunderkammer offrirà straordinari spunti di riflessione sull’oggi. A partire dalla biografia dell’autrice, figlia di Mary Wollstonecraft pioniera dei diritti femminili e fondatrice del femminismo liberale, dalla riscoperta del romanzo gotico e del ruolo delle scrittrici nello sviluppo di questo genere letterario, di cui Mary Shelley fu antesignana. Si parlerà di bellezza e dei suoi opposti, l’orrido e il difforme, di robotica e intelligenza artificiale visto che la creatura di Mary Shelley è il primo robot della storia per fortuna con molte qualità umane e ci si interrogherà sul mostruoso insito nell’umano. A proposito di mostruoso «chi è Frankenstein? Lo scienziato o il mostro?» chiede Nadia Fusini nella sua prefazione al romanzo uscito per Neri Pozza perché «tanto profondo e confusivo è il legame tra il creatore e la sua creatura, che quel nome finisce per nominare indifferentemente l’uno e l’altro». Lo scoprirà chi seguirà il festival, che vedrà la partecipazione di esponenti di spicco del mondo letterario, culturale e scientifico. Tra questi il giornalista e già direttore del quotidiano italiano «la Repubblica» Ezio Mauro presenterà il suo nuovo libro, la cui data di uscita per Feltrinelli è prevista il 24 ottobre, e di cui in anteprima vi diamo un assaggio. In piena sintonia con lo spirito del Festival, Anime prigioniere. Cronache dal Muro di Berlino omaggia un grande classico della letteratura, Il Maestro e Margherita di Bulgakov: «Tutto può ancora accadere perché nulla può durare in eterno». Per fortuna il Muro di Berlino non è durato in eterno ma ventotto anni sono un tempo molto lungo, un tempo che non si cancella, anzi, la-
Laila Meroni Petrantoni
il giornalista italiano ezio Mauro.
scia un segno profondo non solo sulla terra che ne porta ancora le cicatrici ma anche nelle teste e nelle anime delle persone. Partendo dal 1989, quello che lui chiama l’anno incredibile, miracoloso, l’anno in cui cambiò il mondo, Ezio Mauro con la dovizia e la chiarezza giornalistica che gli sono proprie, lo sguardo intenso di chi ha visto da vicino la DDR seguendone le vicende politiche della sua nomenclatura, con la cognizione di chi ha incontrato e ascoltato le storie dei testimoni dell’epoca, ripercorre i fatti storici e l’avventura del comunismo che si fa Stato e dittatura, ritagliata sui ventotto anni di dominio del Muro. Un mostro, come lo soprannomina l’autore riportandoci dritti a Frankenstein, che viveva in mezzo alla città, attraversava l’Europa e separava il mondo «correndo per 156,4 chilometri, innalzandosi per 3 metri e 60 centimetri, affondando nel terreno per altri 2 metri e 10, con il corpo composto da 45’000 sezioni di cemento». Il muro vigilava «con 302 torri di sorveglianza», si avvolgeva «in 127 chilometri di filo spinato», si proteggeva «con 105 chilometri di fossato» e si circondava «con la “striscia della morte” coperta di sabbia rastrellata ogni mattina» perché nessun passaggio potesse sfuggire. Non c’è però soltanto il Muro nel racconto di Ezio Mauro, c’è la vita attorno con tutti i sogni, gli amori, le vite e le libertà infrante. C’è la musica anche, quella di David Bowie che dalla finestra degli Hansa Studios a Berlino Ovest vide due ragazzi baciarsi sotto il muro e scrisse Heroes «possiamo essere eroi, solo per un giorno». Eroi, vittime e carnefici, attivisti, scrittori e intellettuali, parroci luterani, tutti
hanno un ruolo nell’affrescare il mosaico storico, umano e politico che il saggio ci consegna. E nel quale si evidenzia come all’indomani della notte del 13 agosto 1961 in cui venne tirato il filo spinato «1’071’775 abitanti della zona Est si scoprirono di colpo prigionieri», prigionieri di un disegno mostruoso che aveva preso forma nella mente di Walter Ulbricht, l’uomo che costruì la DDR agli ordini del Cremlino e aveva «la precisione maniacale dei dettagli del padre sarto, la praticità artigianale dell’operaio ebanista che era stato da ragazzo». Il 9 novembre cade l’anniversario dei 30 anni dalla caduta del Muro, un mostro fisico che è stato il prodotto di menti e azioni umane, espressione al contempo di tutta la forza fisica e dell’impotenza del potere, e del mostruoso che è insito in noi. Se ne parlerà a PiazzaParola con Ezio Mauro ricordando ancora una volta quanto sia immensa la forza della letteratura nel fornirci secoli dopo chiavi di lettura audaci ed efficaci per interpretare e comprendere il presente ma, soprattutto, per non dimenticare chi siamo, da dove veniamo oggi che di muri e della loro costruzione si è tornati a parlare.
Esistono due strade per imparare una lingua nel paese dove questa viene parlata: seguire un corso ufficiale o/e mescolarsi fra i parlanti nativi. Del primo metodo ci occuperemo più avanti. Sul secondo circolano leggende che giurano come sia indispensabile memorizzare, prima di ogni altra cosa, parolacce e insulti: «per non far figuracce e se necessario difendersi», dicono i prodi Cavalieri della Tavola Sconcia. C’è da fidarsi? Nel dubbio, un po’ sì; la faccenda puzza comunque di goliardia. È saggio mantenere alta la guardia pure di fronte a un rischio altrettanto concreto per chi impara una lingua straniera, un pericolo da cui è bene difendersi e che (questo sì) è contemplato ufficialmente nei vari metodi di studio. Il fenomeno in linguistica porta il nome di «falsi amici»: una definizione buffa che ben si presta allo scopo, ossia quello di non farci cadere nella tentazione (ingenua o cafona) di crederci subito poliglotti. Si tratta di coppie di parole appartenenti al lessico di due lingue distinte che però, pur assomigliandosi o essendo addirittura quasi identiche, hanno significati differenti. I «falsi amici» dribblano fra le due lingue, e ci ingannano dandosi la mano con un ghigno sornione. Lo scherzetto risulta particolarmente insidioso nel parlato, e la conversazione in una lingua che non è quella che ci ha allevati può portare anche a imbarazzanti malintesi. Perché esistono i «falsi amici»? Perché renderci la vita più difficile, quando già masticare e digerire una lingua nuova non è come fare una passeggiata? I «falsi amici» si tengono per mano perché fra di loro si conoscono bene: nella storia delle lingue possono ad esempio
condividere la stessa origine, per poi incamminarsi su strade differenti, oppure accettare un passaggio da un’altra parola, o decidere di far compagnia a un’altra ancora. Insomma, una parola è un po’ come una persona: l’apparenza può ingannare, non sai mai esattamente chi hai di fronte, quale sia il suo passato. Dunque è sempre meglio stare con gli occhi bene aperti. Tra i «falsi amici» più facili da smascherare (quelli dunque che da italofoni che impariamo l’inglese o il tedesco non dovrebbero più metterci in difficoltà già a partire dalla Lezione 2) ci sono quei burloni di «cold» e «kalt», che se la intendono alla perfezione avendo radici comuni sul ceppo germanico e fanno le pernacchie all’italiano «caldo». Viaggiando con un convoglio Deutsche Bahn o National Rail, se nel vostro vagone vi pare che la temperatura sia troppo alta state attenti a non confondervi quando vi lamenterete con il capotreno, o rischiate di ritrovarvi a fare la sauna. O ancora: se intendete concludere un affare con un tedesco, dovete proporgli un «Geschäft» e non un «Affäre», che a Berlino sta per «relazione amorosa», con potenziali inattese (s)piacevoli conseguenze. E ancora: in albergo a Madrid non chiedete il «burro» da spalmare sul pane, perché in Spagna il «burro» normalmente raglia e odia la marmellata. A Parigi la «nonne» vive solitamente in convento e non dovrebbe avere nipotini da accompagnare al parco (compito, questo, della «grand-mère»). E a New York, non scandalizzatevi se la pizza surgelata non contiene «preservatives»: è solo molto naturale (senza conservanti), non ha certo ambizioni genitoriali. Morale: dagli amici (falsi) mi guardi Dio, che dai «falsi amici» mi guardo io… con un buon corso di lingue.
Dove e quando
Ezio Mauro presenterà Cronache dal Muro il 27 ottobre alle 17.30 nella Hall del LAC di Lugano; www.piazzaparola.ch In collaborazione con i falsi amici sono ovunque.... (reddit) Annuncio pubblicitario
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 14 ottobre 2019 • N. 42
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Cultura e Spettacoli
Emmerich il viennese
Narrativa L’ispettore August Emmerich, nato dalla penna di Alex Beer e conosciuto
ne Il secondo cavaliere, ritorna con un nuovo caso che porterà il lettore per le strade di una Vienna ormai scomparsa Luigi Forte Era immaginabile che l’ispettore distrettuale August Emmerich tornasse alla ribalta dopo la complessa indagine sulla morte di alcuni ex soldati dell’esercito imperialregio nell’avvincente poliziesco della scrittrice austriaca Alex Beer, alias Daniela Larcher, Il secondo cavaliere, diventato subito un bestseller. C’è di mezzo una figura che suscita simpatia e consenso anche nei momenti più difficili. Un uomo segnato dalla vita che si porta dentro un incrollabile senso di giustizia. È passato attraverso la tragedia della Prima guerra mondiale con una scheggia di granata nella gamba destra che lo obbliga ogni tanto a far uso di eroina per lenire il dolore. E poi c’è il cruccio della compagna Luise e dei suoi tre figli a cui è molto legato: sembrava che tutto filasse per il meglio quando il marito di lei, scomparso in guerra, è tornato a farsi vivo. Per fortuna che a distrarlo ci pensa il suo premuroso e fedele assistente, Ferdinand Winter, un giovane di ottima famiglia non di rado indispensabile per il buon esito delle indagini. Emmerich sembra riassumere in sé la precarietà e il disagio dell’epoca
all’indomani della Prima guerra mondiale in una città come Vienna segnata dalla fame e dalla miseria. La Beer, archeologa di formazione poco più che quarantenne, la rievoca in ambedue i romanzi con storico puntiglio e un curioso gusto per i dettagli al punto che la capitale austriaca ne diventa quasi protagonista. Già nel Secondo cavaliere il tour incalzante dell’ispettore si snodava fra miseri quartieri e palazzi nobiliari, la Hofburg e la residenza estiva di Schönbrunn, la città sotterranea, le trattorie popolari e i celebri caffè. Il percorso non è ora meno tortuoso attraverso locali realmente esistiti come il Rote Bretze dove erano di scena cantanti folk o il Chatham Bar, così come il museo di storia militare o il pensionato maschile nella Meldemannstrasse in cui il povero ispettore, che il destino non smette di perseguitare, si è ridotto a vivere all’insaputa di tutti. La donna in rosso presenta un Emmerich che morde il freno, obbligato con Winter a battere a macchina rapporti e sbrigare commissioni. Un lavoro da idioti, a suo parere, a cui lo ha costretto il nuovo capo della sezione omicidi, Albrecht Gonska, che lo ritiene uno storpio rompiscatole con
un assistente rammollito. All’ispettore basteranno pochi giorni nel marzo del 1920 per dimostrare che coraggio, abilità e fiuto non sono venuti meno. Per aver risolto in tutta fretta il caso dell’attrice Rita Haidrich che si sentiva minacciata da forze misteriose, Emmerich riceve segretamente l’incarico di indagare per brevissimo tempo sull’omicidio del consigliere Richard Fürst, su cui sta già lavorando l’ispettore superiore Brühl nemico giurato del nostro eroe. Il caso è complesso e lo dimostra la lunga lista di soggetti coinvolti che l’autrice allinea in una narrazione incalzante e imprevedibile. Di mezzo c’è il progetto di un ospizio, una specie di casa per matti come dice qualcuno, da costruire in una radura del bosco di Laa non lontano dalle rive del Danubio dove ancora vive un gruppo di personaggi del circo come la piccola Zuzana, figlia di una donna barbuta e di Erwin il forzuto, che avrà un ruolo non del tutto secondario nell’epilogo. Un po’ di esotismo non guasta, se poi s’accompagna alla furbizia e alla rapidità con cui la «piccola indiana» tallona l’esperto poliziotto guardandogli le spalle. Poi l’indagine si allarga: ecco in
scena la vedova di Fürst e la sua amante Helene Dobrensky che canta in una squallida locanda, Max Liebenthal, che frequenta le terme romane e l’operaio quasi moribondo della fornace di Wienerberg, Isidor Kofler. E non mancano sorprendenti avventure in un locale sotterraneo per boxeur o nei misteriosi palazzi di politici affaristi e reazionari. Come il direttore del museo di storia militare Častolowitz, il consigliere Völzer e il dottor Bahrfeldt, tutti membri di una misteriosa associazione, la Misericordiae Nuntius, il cui simbolo è una dama in rosso che sorregge una spada. Il loro scopo è eliminare nella società austriaca le persone deboli e malate, i minorati, i nevrotici di guerra, coloro che per l’appunto Fürst e la sua amica Abele, uccisa anch’essa nel frattempo, volevano aiutare con il loro progetto. Mentre la setta degli «eliminatori» caldeggia un «popolo sano» capace di ridare forza e slancio a un paese sconfitto e pronto al riscatto con una nuova guerra. Due contrapposte visioni della realtà che offrono, nel dedalo delle vicende, spunti per una riflessione sulla storia del Novecento. E anche Emmerich porta il suo coraggioso contributo: non solo combattendo ad armi impari contro la follia di un gruppo di ricchi borghesi scellerati e guerrafondai, ma riportando in vita la speranza e dando voce al mondo dei perdenti. È la sensibilità umana del protagonista che infonde profondità e risalto alla narrazione. Proprio quando tutto sembra perduto e la realtà gli si sgretola intorno, l’ispettore ritrova, con astuzia e disincanto, la forza di riemergere mettendo a repentaglio la sua stessa vita e quella del suo assistente. Un itinerario che tiene il lettore con il fiato sospeso, più che mai quando i nostri due eroi finiranno a terra colpiti da un paio di proiettili. È l’ennesimo colpo di scena per un epilogo in cui la giustizia finalmente riuscirà a trionfare, sia pure con una soluzione tanto imprevedibile quanto fantasiosa. Speriamo che il buon Emmerich, ripresosi dalla batosta, ci racconti presto, con l’aiuto dell’ottima Alex Beer, la sua prossima avventura, non senza aver prima ritrovato l’amore di Luise sempre più triste e lontana. Bibliografia
il mitico Chatham bar (aperto nel 1906) esiste ancora, oggi si chiama Café Hawelka. (Wikipedia)
Alex Beer, La donna in rosso, traduzione di Silvia Manfredo, edizioni e/o, p. 345, € 18.–.
Una chitarra futuristica a Massagno Jazz Elliott Sharp
in concerto per la rassegna di Rete Due
È in assoluto una delle figure più interessanti della scena musicale newyorkese degli ultimi 30 anni. Basti dire che le sue prime apparizioni live lo vedevano parte della scuderia iconoclasta di John Zorn. Elliott Sharp è un artista difficile da incasellare: osservando la sua sterminata produzione discografica si rimane sorpresi dalla varietà dei suoi progetti, che fanno di lui un compositore raro e sensazionale. Per non dire, oltretutto, della sua personalissima, incredibile figura di sperimentatore alla chitarra. Sharp sembra coagulare nel suo stile le influenze più ampie della storia musicale della sei corde: dalla vena sanguigna del blues originario alle follie dissacranti d’avanguardia. Il suo concerto al cinema Lux di Massagno (il 25/10, ore 21.00), il terzo nel programma della rassegna «Tra jazz e nuove musiche» proposte da Rete Due RSI con il sostegno del Percento culturale di Migros Ticino, ci offrirà un’occasione quanto meno ghiottissima. Il progetto «Fourth Blood Moon», che lo vede affiancato a Eric Mingus alla voce (è il figlio del celebre bassista Charles), a John Edwards al contrabbasso e a Mark Sanders alla batteria, è una grintosissima band che potremmo chiamare di ryhthm’n’blues futuristico. Un sound teso e sanguigno tutto da godere. /AZ
Biglietti in palio «Azione» offre ai suoi lettori alcune coppie di biglietti per il concerto di Elliott Sharp del 25 ottobre, ore 21.00. Per partecipare all’estrazione seguire le istruzioni nella pagina www.azione.ch/concorsi. Buona fortuna! Annuncio pubblicitario
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