Azione 43 del 21 ottobre 2019

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Cooperativa Migros Ticino

Società e Territorio Un blackout, una catastrofe naturale o un semplice imprevisto: meglio avere delle scorte d’emergenza

Ambiente e Benessere Sono ancora in corso le trattative per stabilire come mettere a frutto l’ottima esperienza fatta quest’estate con il test di funzionamento del «cestino dei laghi» per il recupero delle microplastiche

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXII 21 ottobre 2019

Azione 43 Politica e Economia Un anno fa venne assassinato il giornalista Khashoggi nel consolato saudita di Istanbul

Cultura e Spettacoli A colloquio con Tayari Jones, scrittrice americana da molti considerata la nuova Morrison

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Eric Bachmann

A Zurigo con Alì e Bachmann

di Giovanni Medolago pagina 41

Un presidente fuori controllo di Peter Schiesser Non che ci fosse bisogno di questa prova, ma la decisione di ritirare gli ultimi 1000 militari americani dalla Siria, lasciando campo libero alle truppe turche, rivela l’incompetenza, l’imprevedibilità, il cinismo di Donald Trump. I curdi, alleati decisivi nella lotta contro lo Stato islamico (ISIS), sono stati abbandonati, al contrario i russi si sono trovati l’intera Siria su un piatto d’argento. Non abbiamo nulla a che fare con i curdi, hanno combattuto perché li abbiamo ben foraggiati, ora continuino a combattere da soli come hanno fatto negli ultimi 1000 anni: così il presidente americano ha giustificato la sua decisione, presa una decina di giorni fa durante una telefonata con il presidente turco Erdogan. Riuscite ad immaginare l’incredulità che si è dipinta sui volti di chi, come avviene sempre alla Casa Bianca, ascoltava la telefonata? Trump è definitivamente diventato un fattore di pericolosità per la politica estera statunitense, tant’è vero che in seguito, per salvare il salvabile, il segretario di Stato Pompeo e il vice presidente Mike Pence si sono precipitati ad Ankara per indurre il presidente turco ad interrom-

pere la sua offensiva militare e l’Amministrazione Trump ha varato delle sanzioni economiche mirate contro Erdogan e il suo governo. Il risultato è stato comunque di ottenere un cessate il fuoco per 5 giorni (in cambio le sanzioni sono state levate), per permettere ai curdi di ritirarsi oltre una linea di 20 chilometri dal confine. Erdogan mantiene tuttora l’obiettivo di una zona cuscinetto, visto che per il presidente turco questa guerra ha valore strategico nella sua lotta alla guerriglia curda nel proprio paese. Come scrive Anna Zafesova a pagina 30, il tradimento ai danni dei curdi era nell’aria fin dallo scorso dicembre, quando Trump annunciò per la prima volta il ritiro dei 2000 militari americani in Siria, poi limitato a 1000 uomini. Un riavvicinamento dei curdi al governo centrale di Assad e quindi ai russi era d’obbligo. In questo modo, Putin conquista un ruolo ancor più di primo piano in Siria e nello scacchiere mediorientale, visti i suoi discreti rapporti con la Turchia e con l’Iran. Ma ancor più gli Stati Uniti di Trump si dimostrano un interlocutore non credibile, inaffidabile. Rompendo l’accordo sul nucleare con l’Iran, gli USA hanno dimostrato di non onorare gli impegni presi; abbandonando i curdi, gli unici alleati affidabili che

abbiano trovato in Siria, segnalano che tutti possono essere traditi. I curdi l’avevano annunciato: se ci lasciate soli non saremo più in grado di badare ai prigionieri dell’ISIS rinchiusi nelle nostre prigioni. Si tratta di 11mila combattenti e loro famigliari, 9mila da Siria e Iraq e duemila foreign fighters, anche europei (quelli che i governi europei non volevano riprendersi per evitare di giudicarli in patria). Siccome i combattenti curdi sono stati richiamati al nord per contrastare l’avanzata turca, da queste prigioni sono già fuggiti a centinaia, se non migliaia. Sapremo chi ringraziare se fra questi ci saranno gli autori di futuri attentati dell’ISIS in Europa, in Siria, in Iraq. E in Medio Oriente? L’unica certezza è lo storico legame degli Stati Uniti con Israele e un rinnovato legame con l’Arabia Saudita del principe ereditario Mohammed bin Salman. Al prezzo di chiudere entrambi gli occhi sulla tragedia innescata dalla guerra dell’Arabia Saudita nello Yemen. E di screditare le forze riformiste in Iran, che avevano mostrato al paese che con il Grande Satana si poteva anche trovare un accordo. Così facendo, gli Stati Uniti lasciano mano libera alla Russia ma anche alle potenze regionali, che ancora più di prima cercheranno di regolare i loro conti con le armi.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 21 ottobre 2019 • N. 43

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Attualità Migros

Activ Fitness, da 5 anni in Ticino

Anniversari La più importante catena di palestre in Svizzera raggiunge il primo lustro di attività nel nostro cantone:

a Losone prevista una giornata con porte aperte e sconto sugli abbonamenti

Tutto è cominciato a Losone, esattamente cinque anni fa: un vero modello «nazionale» per il fitness, nato sulla scia di una iniziativa estesa a livello svizzero e basato su un modello rivoluzionario, perché permette di approfittare di una proposta valida su gran parte del territorio elvetico. L’attività è svolta infatti

in franchising, ed è frutto di un accordo tra Migros Ticino e Activ Fitness AG, società della Cooperativa Migros Zurigo, leader del settore, con 76 centri e oltre 100’000 iscritti in Svizzera. Per quello che riguarda l’entrata in scena di Activ Fitness sul mercato ticinese, possiamo dire che si tratta

certamente di una proposta che ha incontrato l’interesse del pubblico. Lo dimostrano le cifre lusinghiere che caratterizzano l’attività. Possiamo infatti contare l’apertura di cinque centri (dopo Losone, Lugano, Bellinzona, Mendrisio e Vezia). A cinque anni dal suo approdo in

Ticino, quindi, il marchio si evidenzia come il numero uno sul mercato nel settore del fitness, e occupa più di 100 collaboratori, formati e motivati a rispondere alle richieste della clientela. Punto di forza dell’attività è del resto la presa a carico individuale: per ogni iscritto viene elaborato un programma di allenamento personalizzato e vengono fissati gli obiettivi da perseguire, con garanzia di assistenza per l’intero periodo di validità dell’abbonamento. Tutto ciò viene inserito in un ricco calendario settimanale di corsi di gruppo dove sono proposte le ultimissime tendenze nel campo del benessere fisico, come il Bodytoning e il Bodypump, il Power Yoga, il Vital-Fit, lo Zumba e i corsi di spinning. L’abbonamento ai centri Activ Fitness (aperti 365 giorni all’anno, domeniche e festivi inclusi) comprende la sauna, il bagno turco e, dal lunedì a venerdì, il servizio di baby sitting con personale selezionato. Come detto, ogni abbonato può accedere agli altri 80 centri Activ Fitness presenti in tutta la Svizzera. In Ticino, è allo studio la possibilità di nuove aperture. Informazioni

Per maggiori informazioni e orari: info@activfitnessticino.ch www.migrosticino.ch/activ-fitness Tel. 091 850 86 00.

Iniziative speciali per festeggiare Per sottolineare l’anniversario della sede di Losone, sabato 26.10 e domenica 27.10 è stato previsto un «Open Day». Ci si potrà iscrivere ai corsi di gruppo su prenotazione direttamente al centro o al numero telefonico 091 821 77 88 (iscrizione aperta a tutti). Sabato 26.10 il servizio Spazio Bambini (Baby-sitting) sarà aperto dalle 9 alle 18. Da notare che in questi due giorni è previsto uno sconto speciale di Fr. 50.– per chi staccherà degli abbonamenti annuali Activ Fitness. PROGRAMMA Sabato 26 ottobre 2019 09.10-09.40 G.A.G 09.50-10.20 Super Jump 10.30-11.15 Body Combat 11.30-12.15 Pilates 14.00-14.50 Body Pump 15.00-15.50 Zumba / Strong 16.00-16.50 Interval Domenica 27 ottobre 2019 09.30-11.30 Spinning

Il look è importante «Home baker», Filiali Nuovo abbigliamento da lavoro pane in casa come dal fornaio per i collaboratori di Do it + Garden Forum elle Due corsi al Mulino di Maroggia per imparare

e melectronics

I circa 100 dipendenti nei settori Do it – Garden e melectronics di Migros Ticino indossano da qualche settimana il loro nuovo abbigliamento da lavoro. Il look della nuova collezione è sportivo ed elegante. La combinazione di colori si è intensificata ed è diventata più scura

come si usa l’impasto brioche e come si prepara il «fiore d’autunno» e seria, andando dal blu navy dei collaboratori di melectronics al verde bottiglia di quelli del Do-it. La designer svizzera Ida Gut ha fornito il concetto di base e il project manager esterno, Charis Seidel, ha sviluppato la nuova collezione.

Ricette ideali per colazione o merenda. (Marka)

Azione

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

La sezione Ticino dell’organizzazione femminile di Migros propone alle proprie socie e a tutti i simpatizzanti un’attività che ha già riscosso un ottimo successo lo scorso anno. Seguendo i consigli della «foodblogger» Luisa Rusconi gli interessati potranno realizzare una serie di preparazioni ideali per la colazione o la merenda. La base sarà

un impasto brioche, sia in una versione senza lattosio, sia in chiave classica. Entrambi gli impasti verranno usati per diverse ricette e forme tra cui il «fiore d’autunno», una torta di pane brioche farcita con una crema di zucca e di castagne. Il ritrovo è fissato direttamente al Mulino di Maroggia (ampi parcheggi a disposizione). Il costo per persona

del corso, materiale incluso, è di Fr. 65.– per le socie e Fr. 68.– per le amiche e simpatizzanti. Gli appuntamenti sono previsti mercoledì 13 e giovedì 21 novembre 2019 al Mulino di Maroggia, ore 14.15. Tutte le informazioni per l’iscrizione sono pubblicate sul sito www. forum-elle.ch, Sezione Ticino.

Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11

Tiratura 101’634 copie

Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch

Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31

Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch

Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 21 ottobre 2019 • N. 43

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Società e Territorio Lo sviluppo regionale Intervista a Roberta Angotti, direttrice dell’Ente regionale di sviluppo del Luganese

Integrazione professionale Compie trent’anni il progetto di collaborazione tra Fondazione Diamante e Cooperativa Migros Ticino pagina 10

Videogiochi e dipendenza L’Organizzazione mondiale della sanità sta per inserire ufficialmente tra le malattie il gaming disorder. Intervista allo psicologo Dario Gennari pagina 13

pagina 7 Le scorte d’emergenza dovrebbero comprendere alimenti a lunga conservazione per circa una settimana e nove litri di acqua a testa. (Keystone)

Catastrofi e blackout, siamo pronti?

Scorte d’emergenza Ogni famiglia dovrebbe riuscire a gestire il primo momento di crisi, ecco le raccomandazioni

Romina Borla «Siamo abituati alle comodità e dipendenti dalla tecnologia ma potremmo perdere tutto in un istante e tornare, come i nostri nonni, a riscaldarci col camino, camminare fino alla fontana per l’acqua, accendere la radio per racimolare qualche informazione». A parlare è Ryan Pedevilla, capo Sezione del militare e della protezione della popolazione, che spiega: «Conflitti, catastrofi naturali e blackout improvvisi (non come quello – calcolato – della scorsa estate nel Mendrisiotto) potrebbero colpire anche il nostro Paese, causando crisi nell’approvvigionamento. Dobbiamo quindi essere pronti a tutto». Per questo il Ticino, insieme ad altri Cantoni e organi della Confederazione, nel 2014 ha partecipato a un’esercitazione volta proprio a valutare le capacità di reazione in caso di crisi simultanee: un cyberattacco ai sistemi di produzione di energia elettrica, una tempesta e un’epidemia. Le autorità cantonali avevano la facoltà di scegliere lo scenario da esercitare – dice l’intervistato – e il Ticino si è concentrato sulla penuria di energia elettrica, ispirandosi al libro di Marc Elsberg, Blackout. «La situazione, almeno in una prima fase, si è rivelata meno apocalittica di quel-

la presentata nel romanzo. Specie per i paesi di montagna, abituati a vivere a contatto con una natura non sempre generosa e, per certi versi, anche alla mancanza di generi di prima necessità. Pensiamo alla Valle Bedretto isolata dal mondo a causa della neve: sa come cavarsela. Mentre un blackout a Milano avrebbe effetti devastanti e grandi conseguenze sulle zone periferiche, Ticino compreso». In ogni caso dall’esercitazione sono scaturite una serie di indicazioni interessanti che si possono trovare su www.alert.swiss. Il sito, oltre a dispensare informazioni puntuali in caso di evento, aiuta i cittadini a stilare un piano di emergenza personale (scorte domestiche, bagaglio di emergenza, preparativi per un’evacuazione, ecc.). Riprende Pedevilla: «Si parte dal presupposto che ogni famiglia debba riuscire a gestire, da sola, il primo momento di crisi». In particolare è consigliato accumulare delle riserve domestiche: minimo 9 litri d’acqua a testa (3-4 giorni), alimenti speciali per lattanti e animali domestici, cibi pronti al consumo, brodo, sale, cioccolato, frutta e legumi secchi, riso, pasta, fette biscottate. E poi candele, fiammiferi, torce, radio a batteria, carta igienica, fornello a gas e una valigetta di medicinali. «Tutti prodotti che tendenzialmente le famiglie

ticinesi hanno già nella loro dispensa», sottolinea il nostro interlocutore. «Forse manca la scorta d’acqua perché non se ne capisce l’importanza. Siamo infatti abituati ad aprire il rubinetto e via… Ma se dovesse mancare? Ricordiamoci che l’essere umano può vivere solo tre giorni senz’acqua». Ora facciamo un passo oltre le scorte individuali. Nel caso di calamità o di un blackout importante – spiega l’esperto – a fronte dello stato di necessità il Governo costituirebbe lo Stato maggiore cantonale di condotta (SMCC) per valutare la gravità della situazione e pianificare gli interventi. «Verrebbero quindi convocati i servizi preposti alla protezione della popolazione – polizia, ambulanze, pompieri, protezione civile – e i servizi tecnici, come ad esempio i responsabili dei grandi distributori (tra cui Migros, ndr.). Con questi ultimi si definirebbe una strategia di distribuzione alla popolazione, agendo per priorità e deperibilità delle varie derrate alimentari». Nello SMCC verrebbe trattata pure la penuria energetica tramite i gestori delle reti in modo da valutare necessità e precedenze (infrastrutture critiche, strutture sanitarie e grandi distributori). Infine bisognerebbe affrontare il problema della comunicazione: «Durante le emergenze sarebbe garanti-

ta da Polycom, una rete radio nazionale di sicurezza, gestita da guardie di confine e polizia con il supporto della protezione civile per l’approvvigionamento delle stazioni di base». Ma c’è di più, sottolinea Pedevilla. «In Svizzera per determinati beni di importanza vitale vige l’obbligo di costituire scorte obbligatorie per 6-12 mesi. Esse riguardano molti settori: alimentare (zucchero, riso, olio, caffè, grano, sale, concimi, ecc.), energetico (benzina, olio da riscaldamento, ecc.), farmaceutico (antibiotici, analgesici, insulina, ecc.). Queste riserve sono figlie dei due conflitti mondiali. Sono di proprietà delle imprese private che le costituiscono ma la loro composizione e il loro volume sono stabiliti dalla Confederazione. Le ditte trasferiscono i costi delle riserve sui prezzi di vendita e quindi sui consumatori (ogni cittadino svizzero paga 13 franchi all’anno per le scorte)». Anche l’esercito ha le sue riserve – conferma l’intervistato – ma di più non ci è dato sapere. E gli ospedali? «Per quel che riguarda gli alimentari non conserviamo scorte specifiche – spiega Mariano Masserini, responsabile comunicazione dell’Ente ospedaliero cantonale (EOC) – ma siamo pronti a reagire in fretta in caso di necessità. In passato avevamo

creato delle riserve ma non si è rivelato un sistema utile. Comunque in occasioni particolari, ad esempio durante la canicola estiva, ci premuriamo di avere più acqua a disposizione». Mentre l’elettricità è fondamentale per un ospedale, così l’EOC si è dotato di un sistema di generatori a combustibile che, in caso di blackout, permette di garantire la continuità energetica anche per settimane. «Disponiamo di 4 farmacie ospedaliere – aggiunge l’intervistato – le quali conservano una prima scorta di medicamenti. Inoltre ci sono le riserve dei singoli reparti. A questo proposito si distinguono due tipi di prodotti: i medicamenti di largo consumo (antinfiammatori, antidolorifici, ecc.) e i farmaci più rari. Per quel che riguarda la prima categoria abbiamo una scorta di un mese che teniamo sotto controllo grazie ad un sistema di gestione informatico. Teniamo pure una riserva sufficiente di medicamenti più rari, ad esempio gli antidoti contro l’avvelenamento da funghi, per un uso stagionale, oppure i farmaci per pazienti di passaggio che soffrono di patologie poco frequenti». Informazioni

www.alertswiss.ch www.bwl.admin.ch


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 21 ottobre 2019 • N. 43

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Idee e acquisti per la settimana

Un condimento a km zero Novità Un sale da cucina alle erbe aromatiche e fiori, ideale per aromatizzare

i tuoi piatti quotidiani

Le settimane dei Nostrani Fino al 28 ottobre i prodotti locali saranno protagonisti nei supermercati Migros con diverse azioni e degustazioni speciali

Saa ai erbétt e fióo 180 g Fr. 8.90 In vendita nelle maggiori filiali Migros

Una coltivazione di erbe aromatiche a Pollegio.

Vuoi ritrovare anche d’inverno l’intenso aroma delle erbe aromatiche e i colori dei fiori cresciuti sul nostro territorio durante la bella stagione? Niente di più facile con il nuovo condimento universale 100% naturale «Saa ai erbétt e fióo». Da una miscela di erbette aromatiche quali melissa, rosmarino, salvia e timo, combinate con sale svizzero da cucina iodato, il tutto

additivi. Il prodotto è stato sviluppato dall’azienda Cofti.ch SA, nell’ambito del progetto Erbe Ticino, con lo scopo di rilanciare e salvaguardare le piantagioni di erbe officinali locali. Promozione del territorio e valorizzazione della cultura delle erbe tramite prodotti innovativi, ma al contempo legati alle tradizioni e al sapere locale, sono i punti cardine del progetto. Il ri-

arricchito con qualche petalo di calendula, fiordaliso e fiori di monarda per rendere il prodotto ancora più invitante, nasce un prodotto innovativo e versatile per condire le pietanze più disparate, dalla carne al pesce, dalle verdure alle insalate fino ai formaggi e alle paste. Il sale alle erbe è fatto con ingredienti esclusivamente naturali ed è esente da conservanti, coloranti e

Freschezza bio in tavola

Attualità ll formentino è tra le insalate più amate, soprattutto durante

lancio dei prodotti a base di erbe ticinesi è stato inoltre possibile grazie alla fruttuosa collaborazione con piccole realtà produttive ticinesi, come pure, per quanto attiene alla lavorazione artigianale, con gli utenti dei laboratori protetti delle fondazioni Diamante, La Fonte, OTAF e San Gottardo. L’intenzione della Cofti.ch SA è quella di sviluppare un filiera di coltivatori

che potranno garantire una fornitura annuale e regolare di erbe aromatiche fresche pronte per l’essiccazione e lavorazione. Infine, segnaliamo che oltre al nuovo sale alle erbe, Migros Ticino propone alcuni altri prodotti sviluppati dalla Cofti.ch SA, nella fattispecie le tisane Olivone e Brumana e le caramelle alle erbe e alla genziana.

Piccoli nella forma, grandi nel gusto

la stagione fredda. E se esso proviene da coltivazioni biologiche locali, è un motivo in più per acquistarlo Attualità I Gnòcch da patati vengono lavorati rigorosamente in Ticino con ingredienti locali Azione 20% sul formentino nostrano bio 125 g Fr. 3.90 invece di 4.90 dal 22 al 28.10

Conosciuto anche con il nome di soncino, dolcetta, valeriana o valerianella, il formentino è un’insalata a foglie tenere che si caratterizza per il suo sapore delicato, che rammenta le nocciole. L’ortaggio è originario del bacino mediterraneo ed è apprezzato in modo particolare in autunno e inverno, anche se oggigiorno lo si può trovare sugli scaffali dei negozi tutto l’anno. Il formentino è anche un ottimo alleato per la salute: contiene vitamina A, C, glucidi, potassio, calcio, proteine e lipidi, è facilmente digeribile e ha pochissime calorie. Un tempo si credeva che il formentino fosse una malerba, poiché in inverno cresceva fra i cereali. È consigliabile non sciacquarlo sotto l’acqua corrente per non rovinare le foglioline. Immergetelo piuttosto in una bacinella con dell’acqua molto fredda, in seguito sgocciolatelo e asciugatelo delicatamente con l’ausilio di carta da cucina. In questo modo può essere conservato un paio di giorni in frigorifero, avvolto in un panno umido oppure in una scatola ermetica per alimenti. Da noi il formentino si consuma principalmente

sotto forma di insalata, spesso con l’aggiunta di dadini di pancetta rosolata, uova sode e crostini di pane, ma l’insalata può essere anche saltata brevemente in padella con una noce di burro per trasformarsi in contorno delizioso e inusuale. Il delicato gusto nocciolato del formentino si accosta bene ad una vinaigrette a base di miele e senape. Chi predilige prodotti con una valen-

za ecologica in più, nei nostri reparti frutta e verdura questa settimana potrà trovare il formentino bio dell’orticoltore Floriano Locarnini di Sementina. Come per tutti i prodotti a marchio Migros-Bio, anche questa insalata a foglie è ottenuta con metodi di coltivazione sostenibili e rispettosi dell’ambiente, che escludono l’utilizzo di concimi e prodotti fitosanitari.

«Utilizziamo esclusivamente patate farinose, coltivate nei campi ticinesi, come pure farina e uova di produzione locale. Le materie prime sono state attentamente selezionate negli anni alfine di ottenere il miglior gnocco possibile», racconta Davide Mitolo, titolare del laboratorio artigianale «L’Oste Cucina Mediterranea» di Quartino, produttore degli Gnòcch da patati per Migros Ticino. Il pastificio, oltre agli gnocchi nostrani, elabora anche diverse specialità di pasta fresca, tra cui i ravioli, anch’essi in vendita alla Migros. «Tutti i nostri prodotti sono preparati al momento, senza l’utilizzo di conservanti, coloranti o aromi, con una particolare attenzione alla stagionalità degli ingredienti», precisa Davide Mitolo. Per quanto riguarda gli gnocchi, Davide ci svela una ricetta che esalta al meglio alcuni prodotti dell’autunno, gli «Gnocchi alla crema di zucca, luganighetta e formaggio d’alpe». «Per prima cosa pulite la zucca, tagliatela a fette spesse e cuocetela in forno per un’oretta a 160 gradi. Nel mentre sbriciolate la luganighetta in una padella larga e cuocetela a fuoco medio. Quando sarà cotta toglietela dal fuoco e mettetela da parte. Una volta che la zucca è cotta frullatela ed aggiustatela di sale e pepe. In abbon-

dante acqua salata sobbollente cucinate gli gnocchi fino che non verranno a galla, poi scolateli e poneteli nella padella dove avete precedentemente cucinato la luganighetta. Aggiungete la luganighetta e la crema di zucca ed amalgamate il tutto. A questo punto spegnete il fornello e mantecate gli gnocchi con del formaggio dell’alpe grattugiato ed una macinata di pepe». Buon appetito!

Gnòcch da patati 500 g Fr. 2.80 invece di 3.50 Azione 20% di sconto dal 22 al 28.10


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 21 ottobre 2019 • N. 43

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Idee e acquisti per la settimana

Rivelatore di bellezza

Novità Nell’«Angolo della Bellezza» delle Migros di Locarno e Biasca sono stati introdotti alcuni articoli

di tendenza del noto marchio Geomar

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1 Azione tonificante contro la cellulite resistente con tris di alghe e caffeina. Crema-Gel Effetto Urto 200 ml Fr. 15.90

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2 Gel drenante anticellulite per pelli delicate arricchito con stevia e matè. Gel Drenante Effetto Freddo 200 ml Fr. 15.90 4

3 Fango effetto rimodellante con azione lipolitica e drenante per cellulite resistente. Fango d’Alga Oceanica 650 g Fr. 21.50

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4 Ideale per chi ha poco tempo ma non vuole rinunciare ad un prodotto efficace contro gli inestetismi. Fango Rapido Speciale Punti Critici monodose, 80 g Fr. 4.50

Marchio leader nei trattamenti anticellulite, Geomar si caratterizza per i suoi prodotti specifici realizzati con formule innovative e estremamente efficaci. Geomar impiega principi attivi cosmetici ed elementi naturali preziosi per la cura e la bellezza della pelle. Nella linea per il corpo vengono utilizzate le risorse del Mar Morto, le cui acque sono

una straordinaria fonte di salute e bellezza grazie alla combinazione di oltre 25 tipi di minerali e oligoelementi. Le alghe, ricche di oligoelementi, vitamine e amminoacidi, rappresentano uno degli elementi distintivi dei prodotti Geomar. L’assortimento Geomar introdotto nelle filiali Migros di Locarno e Biasca è composto dai seguenti articoli:

5 Trattamento rassodante crema-gel ad effetto levigante con fango salino. Crema Fango Rassodante 500 ml Fr. 21.50 6 Per rimuovere cellule morte ed impurità, regala una pelle morbida, luminosa, levigata e idratata. Thalasso Scrub monodose, 85 g Fr. 2.90 Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 21 ottobre 2019 • N. 43

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Società e Territorio

Il futuro regionale

Luganese In Ticino sono attivi quattro Enti regionali di sviluppo.

Con una serie di articoli scopriamo come operano Nicola Mazzi Continuano i nostri servizi alla scoperta del territorio ticinese approfondendo l’attività degli Enti Regionali di Sviluppo (ERS). Dopo aver illustrato il lavoro dell’Ente del Locarnese e Vallemaggia (su «Azione» del 23 settembre) è la volta del Luganese. Con la direttrice Roberta Angotti Pellegatta scopriamo di che cosa si occupa l’ERSL e i progetti che caratterizzano la regione. Direttrice Angotti mi può presentare l’attività dell’Ente regionale del Luganese?

L’Ente è nato alla fine del 2011. È un’associazione che come soci ha i Comuni e l’Ente turistico del Luganese (Lugano Region). Il nostro compito è quello di aiutare chi ha un progetto, dalla fase iniziale fino alla sua realizzazione. Spesso mettiamo in rete il progettista con chi può aiutarlo a realizzarlo. Possiamo anche sostenerlo nella ricerca dei fondi o ancora, possiamo finanziarlo direttamente attraverso il fondo di promozione regionale o con un aiuto denominato Fondo nuove iniziative e progetti che alimentiamo con gli utili d’esercizio. Per il finanziamento diretto di progetti in totale abbiamo a disposizione ca. 2 milioni di franchi per quattro anni. Insieme agli altri tre enti regionali, gestiamo la piattaforma di crowdfunding Progettiamo.ch. Nel Luganese, l’ERSL si occupa anche di temi istituzionali a supporto dei Co-

muni ad esempio nell’esame di progetti di legge o con la redazione di risposte alle diverse consultazioni.

Lavorate sia per i Comuni sia per le aziende. Nella vostra regione, quali sono le differenze che riscontrate?

Nell’aiuto ai privati siamo confrontati con progetti di carattere imprenditoriale per cui aiutiamo lo sviluppo di piccole o medie attività. Agevoliamo, per esempio, quelle imprese che hanno progetti da portare avanti soprattutto nelle regioni discoste e che non sono in concorrenza con iniziative già esistenti, ovviamente nel limite del buon senso. Se un apicoltore di una valle chiede un incentivo e c’è già un altro apicoltore nella zona, cerchiamo di aiutarlo comunque. Non facciamo invece la stesso con un bar in centro città. Ci sono settori, come la ristorazione ad esempio, che di principio non possiamo sostenere. I progetti promossi dai Comuni sono in genere legati allo sviluppo di un determinato territorio, di un paesaggio e non per forza hanno un impatto diretto sulla creazione di posti di lavoro. In questi anni di lavoro sul territorio che cosa è emerso? Quali sono stati i bisogni più frequenti?

Da parte nostra abbiamo cercato di concentrare gli sforzi sulla messa in rete degli attori e quindi abbiamo lavorato per far collaborare i Comuni, gli enti e le associazioni presenti nella regione per promuovere lo sviluppo di progetti condivisi. In questo senso c’è

ancora molto lavoro da fare. Il Luganese è una regione con caratteristiche particolari, che ancora non ha pienamente scoperto e apprezzato il valore di una collaborazione. Dobbiamo però essere coscienti delle nostre risorse: penso, ad esempio, ad una Città forte, all’Università e alla SUPSI e ai Centri di competenza. Gli interessi non sempre coincidono ma la capacità di collaborare porta vantaggi per tutti. Quali sono stati i progetti più importanti che avete aiutato a crescere?

Con Lugano Turismo stiamo realizzando una rete per le postazioni di ricarica delle e-bike e abbiamo promosso una rassegna denominata «Musica in vetta». La collaborazione fra tutte le montagne della regione (Monte Lema, Tamaro, Monte Bar, San Salvatore, Monte Bré e Monte Generoso) ha dato vita a un festival musicale con appuntamenti promossi sotto un unico cappello. È stato un primo esempio di come lavorare insieme possa funzionare bene. Partecipiamo anche a un progetto atto ad approfondire il potenziale turistico ed economico di Val Colla, Capriasca, Villa Luganese e Cadro. In questo ambito è nata l’esigenza di misure per aiutare i piccoli negozi di paese per il quale ci stiamo appoggiando alle esperienze del SAB (Gruppo svizzero per le regioni di montagna). Dopo un’analisi per capire la situazione attuale vogliamo individuare strategie e opportunità per aiutare i piccoli negozi a svolgere il loro impor-

L’ERSL vuole favorire offerte turistiche e di svago che uniscano lago e montagne.

tante ruolo di «servizio di base» nelle regioni più discoste. Fra le iniziative imprenditoriali che abbiamo sostenuto, ricordo quello della Monte Lema SA che, grazie all’appoggio di consulenti esterni, intende pianificare il rilancio della struttura. Non da ultimo, stiamo offrendo supporto al settore ticinese dell’artigianato, una realtà complessa e frammentata, composta da tanti piccoli attori che spesso lavorano a tempo parziale. Dopo avere ottenuto il rinnovo del marchio Artigianato del Ticino, stiamo lavorando per definire le linee guida e le modalità per la sua gestione. In questi anni c’è stata un’evoluzione delle richieste che vi sono arrivate sul tavolo?

Per quanto riguarda i progetti di Comuni e Patriziati non ho notato particolari cambiamenti. Osservando invece l’economia privata, nei primi anni di attività mi ricordo di molte richieste di informazioni da parte di aziende italiane sulle opportunità di lavoro in Ticino. Oggi succede molto raramente. Negli ultimi tempi, invece, abbiamo assistito dapprima a un boom

di richieste per finanziare le applicazioni per telefonini. Richieste alle quali, tuttavia, difficilmente diamo seguito. Di recente inoltre riceviamo sempre più richieste di finanziamento per progetti legati alla valorizzazione e al commercio di prodotti locali. Quali progetti avete in cantiere?

Quest’anno abbiamo lavorato agli eventi di «Musica in vetta». Nei prossimi anni vorremo impegnarci anche nella messa in scena del lago. L’intento è quello di favorire la collaborazione fra diversi attori per proporre offerte turistiche e di svago che mettano in comunicazione il lago e le montagne. In stand-by c’è il progetto del parco del Camoghè per il quale vogliamo anzitutto capire se esiste un reale interesse. Seguiamo in qualità di capofila il progetto Interreg e-bike che ha l’obiettivo di collegare i percorsi mountain bike di alcune regioni dell’arco alpino e di sviluppare i servizi offerti ai ciclisti. I risultati dell’indagine che stiamo svolgendo con il SAB ci indicheranno poi quali misure mettere in atto a sostegno dei piccoli negozi. Annuncio pubblicitario

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Nel frattempo, dimezzate le fettine di capriolo e rosolatele nel burro per arrostire rimasto 2-3 minuti per lato. Togliete la carne dalla padella, salate, pepate e tenete in caldo. Fate appassire i porcini nel burro in un’altra padella. Spolverizzateli con la farina, poi unite un po’ d’acqua d’ammollo messa da parte e la panna. Lasciate sobbollire la salsa per ca. 5 minuti, poi regolate di sale e pepe. Servite il riso con i cavoletti, le fettine di capriolo e la salsa in scodelle. Guarnite con l’origano. Tempo di preparazione Preparazione ca. 40 min

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 21 ottobre 2019 • N. 43

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Società e Territorio

Trent’anni di collaborazione Integrazione professionale La Fondazione Diamante e la Cooperativa Migros Ticino hanno rinnovato

la convenzione che ha permesso la nascita e lo sviluppo di un progetto che oggi coinvolge 15 utenti della fondazione inseriti in azienda, con reciproca soddisfazione

Il gruppo di utenti della Fondazione Diamante che lavorano presso la sede di S. Antonino insieme al direttore di Migros Ticino Lorenzo Emma e alla direttrice della Fondazione Maria-Luisa Polli. (Peter Keller Foto&Media)

Stefania Hubmann La presenza di persone con handicap sul posto di lavoro che passa ormai inosservata, tutti membri della grande famiglia aziendale, tutti con le proprie responsabilità. È lo specchio di una vera inclusione alla quale tende chi opera in questo ambito e diventata realtà per il progetto che festeggia 30 anni di stretta collaborazione tra Fondazione Diamante e Cooperativa Migros Ticino. La convenzione che regola l’inserimento di un gruppo di utenti nella sede centrale di Sant’Antonino è stata rinnovata in occasione di questo traguardo per offrire nuovo slancio alle sfide future. Se non era scontato instaurare un simile rapporto tre decenni orsono, quando le persone con handicap avevano poche possibilità di realizzarsi nella vita professionale e sociale, oggi le pressioni sono di altro genere, legate in particolare alla situazione economica. Come dimostra il Laboratorio integrato di Migros Ticino, la sensibilità sociale economicamente sostenibile è però possibile con grande soddisfazione di tutti: utenti, ente sociale, azienda. Il progetto, partito con cinque «persone adulte mentalmente svantaggiate», come scritto nella convenzione del 1989, coinvolge oggi quindici utenti con disabilità psichica o mentale. Accompagnati allora nell’inserimento in azienda da un «maestro socio-professionale», possono oggi contare su due educatori sociali che li seguono nel contesto dei rispettivi progetti individuali di sviluppo. Bastano questi primi confronti per capire quanto sia evoluto in Ticino il sostegno alle persone con handicap nel corso degli ultimi 30 anni. Ciò che resta immutato nel caso della collaborazione tra Fondazione Diamante e Migros Ticino è la condivisione del progetto, come evidenzia subito la direttrice della Fondazione Maria-Luisa Polli: «si tratta sicuramente di una delle chiavi del successo di questa iniziativa, all’epoca avanguardistica. Il Laboratorio integrato di Migros Ticino è stato creato insieme, tenendo conto delle esigenze delle due parti. La Fondazione, che già stava sperimentando alcune forme di laboratorio per offrire alle persone in situazio-

ne di handicap la possibilità di svolgere un lavoro adeguato alle loro capacità, con Migros Ticino ha potuto beneficiare di un normale contesto di lavoro aziendale che è servito quale impulso per la sua linea di sviluppo verso il concetto di impresa sociale, oggi ben radicato nel funzionamento di tutti i laboratori». Il lavoro quale valore essenziale per la realizzazione di ogni individuo è sempre stato al centro dell’attività della Fondazione Diamante che lo scorso anno ha festeggiato i 40 anni. Il partenariato con imprese pubbliche e private favorisce inoltre il legame con il territorio e la comunità di appartenenza. Vale la pena ricordare che oggi la Fondazione si occupa di 600 utenti e conta 200 operatori; gestisce strutture abitative e lavorative come pure servizi di inserimento nei due settori, il tutto distribuito capillarmente a livello cantonale. Caratteristica del Laboratorio integrato di Migros Ticino, che lo rende unico nel suo genere, è l’inserimento in azienda di più utenti. Precisa MariaLuisa Polli: «Collaborazioni di questo genere, con la persona in situazione di handicap che svolge mansioni utili all’azienda assumendosi precise responsabilità, solitamente concernono inserimenti individuali. Qui invece si è già partiti con un piccolo gruppo poi cresciuto nel tempo. Questo partenariato ha inoltre permesso di regolamen-

tare il lavoro degli utenti – dipendenti della Fondazione sulla base di un contratto sociale di lavoro – con un riconoscimento per l’importante contributo offerto da ognuno». Costruito insieme dai due partner, il progetto si è sviluppato con successo grazie all’ottima collaborazione. Aggiunge la direttrice: «Cerchiamo sempre soluzioni condivise, nel caso di cambiamenti come pure per superare le difficoltà o ancora per identificare possibili nuovi compiti. L’obiettivo finale di entrambi è di rea-

lizzare modalità di lavoro che permettano di raggiungere sia gli obiettivi dei singoli, sia quelli aziendali». Nell’attività quotidiana il gruppo è coordinato dalle figure di riferimento degli utenti (due educatori sociali di cui uno sempre presente sul posto di lavoro), da un responsabile di Migros Ticino e da un terzo operatore della Fondazione nella zona rampa. Gli utenti lavorano infatti in quattro settori – ricezione merci, smaltimento rifiuti, garage e servizio dopo vendita – legati al settore della logistica. «In un prossimo futuro – spiega il responsabile Area Logistica e Immobili Pierfranco Chiappini – è previsto di aggiungere alcuni compiti sull’area esterna della filiale di Sant’Antonino, nell’ambito dei lavori di pulizia e spostamento

Un sostegno concreto

Ognuno svolge il suo compito con responsabilità. (Peter Keller Foto&Media)

Gli utenti beneficiano di un normale contesto di lavoro aziendale, qui nel settore ricezione merci. (Peter Keller Foto&Media)

L’attenzione ai temi sociali e l’impegno di Migros Ticino a favore delle persone in situazione di handicap non si limita al progetto di inserimento professionale di cui parliamo nell’articolo qui sopra. Un altro importante settore di attività è, infatti, collegato alla produzione di specialità alimentari, vendute nei supermercati di Migros Ticino all’interno della gamma dei «Nostrani del Ticino». I prodotti nascono in alcuni laboratori protetti di fondazioni che operano a favore dell’integrazione sociale e professionale delle persone con handicap fisico, mentale o psichico e contribuiscono alla ricchezza di questo assortimento regionale, che fa della freschezza e della stagionalità i suoi punti di forza. I proventi della vendita di questa serie di prodotti (per una cifra d’affari complessiva generata da 15 articoli che nel 2017 è stata di quasi 160’000 franchi) sono completamente devoluti da Migros Ticino alle Fondazioni Diamante, La Fonte, OTAF (che propone il miele), San Gottardo (specializzata in tisane e spezie) e Sant’Angelo di Loverciano (che propone lo zafferano).

carrelli». Il Laboratorio integrato di Migros Ticino conosce quindi nuovi sviluppi proprio per continuare a rispondere alle esigenze di entrambi i partner. Anche la soddisfazione per questo progetto sociale è evidenziata da ambo le parti. Pierfranco Chiappini rileva in primis come gli utenti della Fondazione, di cui alcuni presenti da diversi anni, siano dei collaboratori a tutti gli effetti. «Ogni lavoratore, sia esso un impiegato di Migros Ticino o un utente della Fondazione Diamante, svolge il suo compito assumendosi le proprie responsabilità in relazione alle mansioni dei colleghi. Nella vita aziendale di ogni giorno non si percepiscono differenze. Si è tutti parte di una grande e complessa organizzazione. Ciò significa che il lavoro non manca, che ognuno deve fare la sua parte e che i compiti sono puntuali per garantire il buon funzionamento dell’intera catena. I lavori svolti dagli utenti non sono banali, perché ad esempio sulla rampa arrivano i rifiuti di tutte le filiali ticinesi e vanno smaltiti secondo una divisione oculata e una determinata tempistica». Da ricordare anche la pulizia delle cabine dei camion, uno dei primi compiti assunti dagli utenti all’inizio della collaborazione e tuttora di loro competenza. Ciò dimostra l’affidabilità degli utenti e riflette, unitamente ad altri aspetti, la solidità dell’intesa. Per Pierfranco Chiappini una convenzione rimasta immutata per 30 anni è sinonimo di fiducia reciproca, intensa collaborazione, visione comune. Ora è giunto il momento di un rinnovamento, perché i mutamenti degli ultimi decenni non hanno interessato solo l’inclusione professionale e sociale, ma anche la gestione aziendale. L’attaccamento a questo progetto e ai valori che veicola è ben percepibile nelle dichiarazioni dei nostri interlocutori. La Fondazione Diamante, sottolineando la grande accoglienza dimostrata da Migros Ticino e dai suoi collaboratori sul campo, auspica che questa intesa possa proseguire con la stessa intraprendenza cercando modalità di lavoro arricchenti per tutti. Essa rappresenta inoltre un ottimo esempio per altre grandi aziende presenti sul territorio cantonale.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 21 ottobre 2019 • N. 43

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Società e Territorio

Se il videogioco diventa dipendenza Giovani L’Organizzazione mondiale della sanità sta per inserire ufficialmente tra le malattie il gaming disorder.

Ne parliamo con lo psicologo Dario Gennari attivo presso il centro Ingrado

Guido Grilli «Ai genitori dico: cercate il dialogo con i vostri figli, cercate di proporre loro alternative al web e in ogni caso ponete limiti al gioco online, pattuite con loro degli orari…». Dario Gennari, psicologo, attivo presso Ingrado servizi per le dipendenze da una ventina d’anni, si occupa da alcuni anni di nuove dipendenze. Con lo specialista parliamo della dipendenza da videogioco, alla luce della recente notizia secondo la quale l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) nel 2021 inserirà ufficialmente tra le malattie il gaming disorder, ossia una serie di comportamenti compulsivi persistenti o ricorrenti legati al gioco online. Gennari aiuta in particolare i genitori in difficoltà a cercare di sviluppare delle strategie per riuscire a mettere regole e limiti ai propri figli gamer, come ad esempio il collocare il wi-fi in sala e non nella cameretta; e altresì la rinuncia a intervenire bruscamente, spegnendo di forza il computer «perché ciò può portare ad aggressività e violenza. Piuttosto va trovato con il proprio figlio un modo perché la sua esperienza ludica (la fine della partita, la messa in memoria del punteggio, eccetera) si concluda consensualmente». Dario Gennari, un anno fa, in un’intervista aveva stimato ad alcune decine i casi in Ticino di giovani presi a carico psicologicamente perché dipendenti dai videogiochi. Qual è la situazione oggi?

Il dato è in aumento, ma il fenomeno è molto disparato. Non c’è solo la dipendenza da videogioco sul web, c’è anche quella della pornografia, del gioco d’azzardo online, i social media… . Quel che posso dire è che tendenzialmente le richieste di sostegno arrivano dai genitori: i ragazzi sono poco consapevoli del problema, dicono «tanto io gioco come gli altri». Casi ne arrivano al nostro servizio di Ingrado, come ne arrivano in pediatria, così come vengono segnalati a scuola o in altri servizi. Il prossimo 24 ottobre si terrà al proposito un importante convegno organizzato al Centro professionale di Trevano dal dottor Valdo Pezzoli, primario di pediatria all’ospedale Civico di Lugano, intitolato «Adolescenti online: uso e abuso di mezzi elettronici nell’età dello sviluppo». Il convegno riunirà più esperti con un obiettivo ambizioso: creare un centro di competenza che raccolga un po’ tutte le richieste sul territorio, gli ospedali, le famiglie, la scuola, per

A volte dietro al gioco compulsivo si cela una grande sofferenza dell’adolescente, che può portare al ritiro sociale. (Keystone)

cercare di mappare, quantificare un fenomeno in evoluzione e quindi coordinare poi gli interventi.

Ma quali strategie si possono mettere in campo per limitare l’uso del web?

Una ricerca, denominata «JamesFocus 2017», che monitora il mondo del web, fornisce fra l’altro suggerimenti per le scuole e per i genitori. Si evidenzia come gli adulti debbano essere da esempio in tema di media digitali. E ancora: quando si acquistano nuovi dispositivi vanno definite delle regole di utilizzo per evitare la perdita di controllo; e occorre mostrare e offrire al giovane alternative al web. Altro consiglio, che appare una banalità ma non lo è: usare la sveglia tradizionale per non dover tenere il cellulare vicino al letto. E poi supportare l’autostima fuori dal mondo del web per uscire dalla «dittatura del like» per cui io valgo solo se mi danno dieci, cento preferenze, altrimenti mi sembra di non valere nulla…. Come è possibile liberarsi dalla dipendenza da videogioco?

Non è semplice rispondere. Si passa dai casi nei quali dietro al gioco compulsivo si cela una grande sofferenza dell’adolescente, che ha quale grave conseguenza il ritiro sociale; ai casi di giovani che hanno bisogno di un «inquadramento», tempi ben definiti, un po’ di alterna-

tive accanto al videogioco. A livello famigliare, l’aspetto che più conta è il dialogo: parlarne, mettere delle regole. Se questo non funziona, perché magari i ragazzi reagiscono in maniera aggressiva o non dialogano, allora è possibile chiedere una consulenza specialistica. Nei casi di grave dipendenza, l’intervento è di tipo multi-fattoriale, dove interviene lo psicologo, magari l’educatore e magari anche il medico. Non voglio tuttavia creare falsi allarmismi e spaventare genitori, inducendoli a concludere: «mio figlio gioca tanto, allora ci vuole lo psichiatra». Quali sono le fasce di età coinvolte?

Si va dai 12-13 anni, attraversando tutta l’adolescenza fino all’età di giovane adulto (20-25 anni). Il fattore Internet fa da vettore, poi un comportamento problematico di tipo compulsivo può evolversi in dipendenza, declinandosi in uno o più ambiti specifici: giochi, reti sociali, sessualità, acquisti.

In generale la dipendenza può rappresentare la risposta a un disagio esistenziale o al bisogno di affermazione. Quali sono le conseguenze della dipendenza da videogioco?

Giocando la sera e la notte tendono a dilatare il tempo, con conseguenze negative sui risultati scolastici. Non dormono. Tra l’altro proprio questa tematica sarà trattata il 24 ottobre al

convegno di Trevano con il professor Mauro Manconi, responsabile del Centro del sonno al Civico di Lugano. È d’accordo con la decisione dell’Oms di inserire nel 2021 in modo ufficiale la dipendenza da videogioco nell’elenco delle patologie?

Sono d’accordo in parte. Da un lato si fa bene a sottolineare che il videogioco può diventare un problema importante e debilitante, in quanto condiziona pesantemente la mia vita e pertanto va riconosciuto come una vera e propria malattia che mi porta a non avere una vita normale. Dall’altro lato bisogna fare attenzione a non dare etichette. C’è il rischio che tutti i gamer che hanno un problema in quanto giocano tanto, rispondano «ma io non ho un problema grave, non sono un malato», un meccanismo di difesa e in definitiva di negazione che non aiuta ad affrontare il problema.

L’Oms stabilisce quale soglia, affinché si possa parlare di dipendenza da videogiochi, la presenza di almeno 5 precisi criteri e un periodo di uso assiduo di almeno 12 mesi. Sono riscontri che ritiene validi secondo la sua esperienza?

I criteri fissati dall’Oms sono 9 e riguardano: l’utilizzo eccessivo di giochi online, tale per cui questa diventa

la principale attività della giornata; sintomi di crisi d’astinenza manifestata attraverso l’irritabilità, l’ansia, la paura, la tristezza o l’abbassamento del tono d’umore; l’esigenza di trascorrere sempre più tempo a giocare su Internet; la perdita del controllo; la perdita di altri interessi; l’attività continua e eccessiva di gioco su Internet nonostante la persona sia stata informata sulle conseguenze psicosociali; l’ingannare familiari e terapisti sulla gestione dei giochi online; il gioco online per sfuggire a uno stato d’animo negativo; la compromissione o la perdita di un rapporto importante (scuola, posto di lavoro). Quel che mi chiedo è: ma se ho ad esempio solo tre dei nove criteri significa che non ho problemi? Io credo che in tal caso qualche problema ce l’ho e già il riconoscerlo significa che potrò allora risolverlo più rapidamente. Intanto, in occasione dei 40 anni di Ingrado, la struttura il prossimo 14 novembre terrà al Centro eventi di Cadempino un convegno pubblico intitolato «Consumi e presa in carico: le sfide nella complessità». E uno degli interventi sarà quello dello psicologo e psicoterapeuta italiano, Matteo Lancini, che svilupperà un tema non privo di riflessioni: «Internet in adolescenza: nuove normalità e nuove dipendenze».

Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Benji Davies, Tad, EDT Giralangolo. Da 4 anni Ci narra una storia tutta ambientata nel mondo animale, stavolta, l’autoreillustratore inglese Benji Davies: dopo averci raccontato di umani e di balene, nel suo bestseller La balena della tempesta, o di nipotini e nonni (L’isola del nonno, Un’estate dalla nonna) o di vicende tra bambini (Sulla collina), ecco che ora esce, sempre da Giralangolo, il suo ultimo libro, in cui protagonista è Tad, una rana. Anzi, una quasi-rana: una girina. Protagonista è lei, comprimari sono i suoi numerosi fratelli girini, antagonista è il cattivissimo pesce predatore Big Blub. Big Blub abita nella «parte più profonda, buia e torbida dello stagno», e in questa storia il colore conta: là dove è buio, melmoso e torbido è il regno dell’angoscia; mentre su, fuori dall’acqua dello stagno, «alla luce brillante del cielo», c’è il sollievo della salvezza. E sembra quasi di sentirlo, il primo respiro di Tad, che per sfuggire

a Big Blub diventa finalmente grande, anche lei che era la più piccola, lei che a differenza dei suoi fratellini era rimasta a lungo girina. Ecco che la forza vitale, il desiderio di non soccombere, le daranno l’energia per fare qualcosa «che non aveva mai fatto prima». Nuoterà verso la superficie dell’acqua, su, sempre più su, e le spunteranno le zampe, e perderà la coda, e potrà, all’aria aperta, prendere il suo primo respiro. E ora le pagine diventano ariose, coloratissi-

me, piene di gioia. Anche perché tra i fiori variopinti in riva allo stagno Tad ritroverà i suoi fratellini. Rane ormai, e non più quasi-rane. Anna Vivarelli, Il segreto del postino, EDB. Da 10 anni Che cos’è una vita degna? Che cosa il suo contrario? Sono domande a cui nessuno risponderà alla maniera di un altro. È importante l’epigrafe (di Salman Rushdie) che apre questo bel racconto di Anna Vivarelli. È una storia che davvero ci interroga su cosa dia senso a una vita, su quanto possano essere importanti anche le azioni apparentemente inutili, gratuite, ma animate dal desiderio di «pensare l’impossibile», come quelle che fece, ogni giorno, pazientemente, per trentatré anni, il postino di Hauterive, Ferdinand Cheval (1836-1924). Trentatré anni per costruire un sogno, come i chilometri che Cheval, postino rurale, ogni giorno doveva compiere

per portare la posta ad ogni uscio della sua regione. Una vita dura, al servizio della gente ma al contempo solitaria, che egli però illuminava con la luce di questo sogno, folle per molti, salvifico per lui: costruire nel suo giardino un «palazzo fatato» con le pietre più belle e strane, le conchiglie più luccicanti e tutti i vari materiali che trovava sui suoi cammini. Mattoni, sassi, gusci, pietre: oggetti quotidiani, resi unici dalla sua capacità di vederne la magia,

di rivitalizzarli mettendoli in relazione, dando loro una destinazione inedita e nuova, ossia quella – grazie al suo occhio di artista che sapeva cogliere la meraviglia in ogni cosa – di diventare elementi di un palais idéal. Anna Vivarelli, con questo racconto raffinato e commovente, proposto in un libretto esile che tuttavia si rivolge a lettori già grandicelli, ci narra non solo la vita (vera) di Cheval, ma anche quella del giovane protagonista che lei mette in scena, attribuendogli la prospettiva attraverso la quale la storia è raccontata: colui che in tal modo accompagna il giovane lettore, rivolgendogli la storia di Cheval, è un ragazzo di Lione, ospite triste a Hauterive da due algidi zii a causa della malattia della madre, il quale, grazie all’incontro con l’artista postino, troverà la motivazione per ricominciare a dipingere, riaccendendo la sua passione e la forza – da condividere con ogni giovane lettrice o lettore – di «pensare l’impossibile».


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Società e Territorio Rubriche

L’altropologo di Cesare Poppi Chi è sepolto nella tomba di Custer? Alcuni personaggi sono passati alla storia più per i loro spettacolari fallimenti che non per le loro virtù. In quanto tali sembrano suscitare una sorta di simpatia a livello della cultura popolare sempre pronta a schierarsi con gli sconfitti anche quando risulta palese che gli stessi furono i principali fautori della propria disfatta. Chi fra i lettori dell’Altropologo non conosce la vicenda del Generale Custer e del suo Settimo Cavalleria? Nel 1876 l’esercito americano aveva deciso di porre fine alla testarda resistenza di tre irriducibili bande di nativi americani. Gli Sioux Dakota, i Cheyenne Settentrionali e gli Arapaho si rifiutavano di essere rinchiusi nelle riserve e vagavano senza meta apparente per sottrarsi alla caccia delle truppe determinate a ridurli alla ragione – per così dire, s’intende. Gli Ostili, come erano chiamati, venivano segnalati nell’area del fiume Yellowstone oggi compresa fra il Montana meridionale e

il Wyoming del Nord. Non sapendo di preciso dove fossero, il generale Terry che comandava una delle colonne di una sorta di tridente pronto a convergere sui ribelli, comandò a Custer di distaccarsi dal grosso della spedizione per andare in ricognizione lungo i corsi superiori del Rosebud e del Tullock Creek. Era il 22 giugno del 1876: il piano era di ricongiungersi al resto della colonna al fiume Little Bighorn. La mattina del 25 giugno, avvistato il campo degli Ostili, il Generale Custer decise di attaccare. Perché lo abbia fatto senza attendere il supporto del grosso della spedizione è materia di dibattito fra gli storici. Noto per essere una testa calda, Custer univa un indubbio coraggio all’ambizione – e forse all’antipatia per i suoi pari di grado ai quali peraltro si trovava per l’occasione subordinato. Fatto sta che commise un errore tattico fatale. Divise le sue forze, un totale di 700 uomini, in tre battaglioni, ne mandò uno ad esplorare la riva sinistra

del fiume al comando del Capitano Frederick Banteen; al Maggiore Marcus Reno fu assegnato il compito di attraversare il fiume a caricare direttamente il villaggio. Custer prese poi il comando del terzo battaglione e risalì la riva destra del fiume con l’intenzione di colpire gli Ostili sul fianco. Nonostante la sorpresa, gli indiani seppero organizzare il contrattacco e ben presto le truppe di Reno furono sbaragliate. A malapena i superstiti riuscirono ad attestarsi sulle alture ad Est del fiume. Qui furono raggiunte dalle truppe del Capitano Banteen. Una volta messo in scacco il grosso degli aggressori, gli Indiani – ben organizzati e meglio motivati da capi storici come Cavallo Pazzo e Toro Seduto – poterono ora occuparsi del terzo contingente. Custer si trovò circondato dal carosello di guerrieri al galoppo celebrato in una miriade di film e ben presto cinque delle dodici compagnie del Settimo Cavalleria furono annientate. In un totale di 274

morti e 55 feriti caddero anche due suoi fratelli, un nipote e pure suo cognato. Dalle colline sovrastanti il villaggio le forze restanti si difesero dagli assalti degli Ostili per tutto il giorno seguente. Poi gli indiani levarono le tende e, come loro leggendario costume, sparirono nel nulla. Il 27 giugno il grosso della colonna entrava nel campo abbandonato per scoprire i cadaveri di Custer e dei suoi. La fama del Generale Custer è largamente dovuta all’opera di Libbie Custer, la sua vedova. Fu lei che, nei mesi successivi al disastro e nel pieno di una battaglia mediatica – e politica – sull’operato del marito, orchestrò un’abile campagna di PR (certo più tatticamente accorta di quelle del consorte) che presto trasformò un capolavoro di patente incompetenza militare in un gesto di eroismo destinato a durare nei secoli. Il primo atto fu quello di ottenere al marito una sepoltura degna di un eroe: il 10 ottobre 1877, l’anno dopo il massacro, i resti di Custer furono trasportati con

una barca a vapore alla U.S. Military Academy’s Post Cemetery a West Point (NY) e qui inumati con rito solenne ed onori militari. Ben presto però, sentite le testimonianze dei sopravvissuti, cominciò a circolare la voce che in realtà le ossa contenute nel feretro non fossero quelle del Generale. I caduti di Little Big Horn erano stati infatti sepolti in fretta e furia in una fossa comune sul posto. I loro resti furono riesumati senza tante cerimonie nel 1940 per raccoglierli in un cimitero degno costruito sul luogo della battaglia sotto la targa «Agli anonimi caduti dell’US Army». Fra questi resti – pare – potrebbero con buona probabilità esserci anche quelli di Custer. Così come si evince da un dettagliato studio di antropologia forense pubblicato dieci anni fa, sembra dunque del tutto plausibile che, fra le gesta del Generale fra i più noti della storia, si debba ora annoverare anche il fatto che Egli non fu presente al suo funerale. Requiescat.

in casa, dimenticando promesse e impegni. Il suo senso di responsabilità è encomiabile e fa di lei una «bella persona» ma non me la sento di rispondere alla sua lettera con una pacca sulla spalla. È giusto e legittimo cercare di essere felici, anche se difficilmente si è felici da soli. Già una volta, all’inizio della vostra storia, il suo entusiasmo è riuscito a smuovere la freddezza della sua amata convincendola a sposarvi e poi a starle a fianco con convinzione, condividendo le cose più importanti della vita: la sicurezza, la fiducia, la speranza, i figli… nella buona e nella cattiva sorte. Anche Marta si sarà sentita sola durante le sue lunghe assenze e forse avrà avuto la tentazione di tradirla ma non l’ha fatto. L’adulterio non è un’alternativa che questi temperamenti prendano in considerazione. Persone come sua moglie garantiscono stabilità al matrimonio e sostegno alla carriera del coniuge, anche se il loro apporto non viene mai rivendicato. Se lei, invece di dare importanza soltanto alle parole, valutasse anche i fatti,

si renderebbe conto che tutto il comportamento di Marta è stato una prova d’amore. Silenziosa ma non per questo insignificante. Le assicuro che nessuna donna, autosufficiente e non masochista, resterebbe per trent’anni accanto a un marito deluso e scontento. Se la situazione attuale le sembra insopportabile, ne tragga le conseguenze, ma prima di buttar tutto all’aria pensi che i modi di amare sono spesso complementari. Perché non prova ad apprezzare e amare sua moglie così com’è? Certo non perfetta ma sufficientemente buona per meritare la sua dedizione. Il matrimonio, dice Freud, diventa saldo soltanto quando la donna diventa la madre del marito. È una condizione importante, forse necessaria, ma comporta per entrambi di sacrificare elementi di vitalità, come l’erotismo, la fantasia, il gioco, l’avventura, la trasgressione, il segreto e il rischio. Freud resta convinto che il bisogno di sicurezza sia così fondamentale da indurci ad accettare i disagi della civil-

tà, tra cui, non secondario, la fedeltà matrimoniale. Ma ora non ne siamo più così sicuri, tanto che le separazioni coniugali sono in costante aumento. Non per questo gli indici di felicità puntano verso l’alto, anzi, ho assistito al ricongiungimento di alcune coppie dopo la separazione e a non pochi pentimenti di ex coniugi che, rimasti soli, rimpiangono il legame che, fino a poco prima, era sembrato intollerabile. In fondo la felicità umana, salvo in momenti eccezionali, come l’amore allo stato nascente, non è mai completa né garantita. Si tratta sempre di un compromesso tra il tutto e il niente, di un equilibrio instabile e provvisorio, da accettare con riconoscenza, come un dono della vita.

ritrova in particolari di tipo rustico: gli inserti di sasso o mattonelle, intorno al caminetto, le ruote di carretti a uso lampadario, i paioli di rame. Mentre il tavolo di legno massiccio o addirittura il mobile d’epoca testimonia la scelta del conservatore, che vuole cose resistenti: l’arredo, dunque, per una vita. Per contro, il creativo si lascia tentare dalla moda del momento, osando accostamenti di colori e materiali che producono tensioni o invece armonia. «Un puristico sofà bianco, secondo Linke, ha qualcosa di respingente, sembra dire non toccatemi». Ed è il rischio che corrono i patiti del «firmato»: la sedia, ispirata al Bauhaus, bella ma forse scomoda. Il rigore stilistico, al pari dell’ordine maniacale possono sfociare in freddezza, in minimalismo, da cui affiora la propensione al vuoto. Vi fa riscontro la tendenza al pieno. Ciò che, secondo lo psicologo, definisce due tipologie uma-

ne ben distinte. Chi si circonda di molte cose conferma un bisogno di vicinanza, di contatti con gli altri, di vissuto condiviso. Chi seleziona o rifiuta gli oggetti si distanzia dalla collettività, seleziona o rifiuta anche le persone da accogliere in casa. A questo punto si deve, inevitabilmente, citare Gillo Dorfles che, da grande anticipatore, denunciò un paradosso tipico della società consumista, parlando appunto di «horror vacui» e «horror pleni». Come dire, ci si circonda di oggetti che, poi, si buttano. È un incessante accumulare e sostituire alla rinfusa. Si assiste, insomma, «alla perdita affettiva per l’oggetto che va di pari passo con la perdita affettiva per il proprio territorio e habitat e conduce a spaesamento e alienazione». Per poi concludere: «Bisogna imparare a distinguere fra feticcio buono e cattivo. Bisogna circondarsi di cose con cui dialogare».

Si apre, qui, un aspetto d’ordine culturale, una lacuna da colmare. Farsi una casa, arredarla, adattarla a nuove necessità familiari comporta, oltre all’impegno finanziario, in Svizzera particolarmente gravoso, una consapevolezza sociale e ambientale, spesso trascurata. Richiama l’attenzione su questa responsabilità, nei confronti del territorio e della sua storia, un recente saggio di Mario Botta, sul «Corriere della Sera», destinato ai giovani. S’intitola, infatti, L’architettura spiegata ai nostri figli. E non solo a loro. In forma di gioco, che divertirà i ragazzi, spiega cos’è il «modulor» di Le Corbusier. Ma quanti sono, poi, gli adulti che ne conoscono il significato? Ed è anche agli adulti che si rivolge questa lezione: «L’esigenza di una casa implica l’adattarsi alle condizioni della natura e del vivere in una collettività». In definitiva, non è soltanto nostra.

La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi La felicità è un compromesso Cara dottoressa Silvia, di solito si rivolgono a questa rubrica persone del suo sesso e mi sembra che lei le capisca molto bene e risponda a tono. Ma questa volta è un lettore che le scrive e non so se scatterà lo stesso feeling. Ora mi spiego meglio. Sposato da 30 anni, ho conosciuto mia moglie quando eravamo ancora ragazzi. Per me è stato il classico colpo di fulmine, non avevo ancora avuto una storia e iniziare subito col grande amore non mi sembrava vero, credevo di vivere un sogno. Lei (Marta) era più cauta, riflessiva, forse calcolatrice ma alla fine il mio slancio l’ha conquistata, mi ha detto sì e il sogno è diventato realtà. Siamo stati e siamo, per chi ci conosce, una coppia modello: mai un conflitto, un bisticcio, un muso e una ripicca. Insieme abbiamo realizzato i nostri progetti, i nostri sogni: una bella casa, due figli, maschio e femmina, il benessere economico, tanti amici e splendidi viaggi. Ma, se mi chiede se sono felice, devo dirle di no. Forse ho tutto salvo la cosa

più importante: sentirmi amato. Ho lavorato come più non si potrebbe: ho accettato lunghi incarichi all’estero e mi è capitato di svolgere due attività contemporaneamente. Eppure mia moglie non mi ha mai detto bravo. Non si lamenta, non chiede di più, non fa confronti, semplicemente sta con me in modo saldo e responsabile. La sua autosufficienza però mi chiude fuori dalla porta e, se insisto per entrare, mi fa capire che mi vuol bene ma non mi ama. Le confesso che invidio gli amici che, anche dopo molti anni di matrimonio, hanno accanto una moglie appassionata e mi verrebbe voglia di trovare una donna che mi corrisponda, ma subito mi pento perché Marta non merita di essere tradita e i miei figli di essere delusi. Forse il suo è un modo diverso di amare, ma è proprio così. / Paolo Caro Paolo, la sua perplessità le fa onore perché sono molti gli uomini che si sentono autorizzati a cercare fuori ciò che non trovano

Informazioni

Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch

Mode e modi di Luciana Caglio Le case parlano di noi Tradizionalista o fan del nuovo, ordinato o confusionario, ostentatore o riservato, amante del pieno o del vuoto: sono le categorie in cui tutti, da inquilini o da proprietari, ci si può riconoscere. Le hanno stabilite gli psicologi, decifrando il linguaggio più ricorrente nelle nostre abitazioni. E non con l’intento di valutare, dal profilo estetico, le cose belle o brutte di un ambiente arredato, come spetta ai critici d’arte. Per verificare, invece, qual è il nostro rapporto con lo spazio quotidiano più frequentato, la casa appunto, dove si lascia un’impronta rivelatrice. Si tratta di un materiale d’indagine a disposizione degli psicologi, da cui è nato un filone specialistico, diffuso in Germania e oltre Gottardo: quello del cosiddetto Wohnpsychologe, figura professionale che sta conquistando ascolto e autorevolezza. In termini scientifici risponde al più popolare «dimmi come abiti e ti dirò chi sei».

Il tema diventa attuale, proprio in autunno, quando la casa ritrova la sua piena funzione di rifugio protettivo. Con effetti evidenti sul piano commerciale. Lo confermano cataloghi e pagine pubblicitarie a iosa che ci propongono, in particolare, divani, poltrone, letti, cuscini, plaid, lampade. Sono pezzi d’arredo tipicamente stagionali, destinati a una funzione pratica necessaria. Ma non soltanto. Un paio di settimane fa, sulla «Sonntagszeitung», Uwe Linke, quotato esponente della psicologia applicata all’abitazione, spiegava come mobili, oggetti, forme e colori, compongono un quadro di vita che racchiude un’intimità, condizionata però da innumerevoli influssi esterni. Mode e ideologie agiscono, visibilmente, sulle scelte abitative lasciando tracce riconoscibili per l’osservatore professionista. Che citava, per esempio, la diffusa nostalgia dei cittadini per la campagna. Si


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 21 ottobre 2019 • N. 43

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Ambiente e Benessere Isole al nord delle Lofoten In viaggio per un wwoofing alle Vesterålen, come ospiti di una famiglia e del suo gregge pagina 19

Una supercar formato SUV «Seduti al volante della Mercedes EQC sembra di essere a bordo dell’Enterprise quando utilizza i motori a curvatura», la casa tedesca invita a testare il suo nuovo modello elettrico

La Spagna e le sue salse Tra quelle più famose si trovano la romesco, le mojos delle Canarie, e l’aragonese chilindrón

Anche per respirare meglio Le foglie di alloro bruciate sono un potente purificatore per ambienti dall’aria viziata

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Un cestino per i nostri laghi Sostenibilità Uno strumento di

sensibilizzazione sul problema delle plastiche e microplastiche nelle acque che dà allo stesso tempo un contributo alla pulizia dei laghi

Elia Stampanoni La presenza di plastiche nell’ambiente e in particolare delle microplastiche nei laghi resta un problema d’attualità e di non facile risoluzione. Come aveva evidenziato lo scorso gennaio lo studio promosso dal Dipartimento del territorio sulla presenza di microplastiche, i valori riscontrati nel lago di Lugano sono importanti. Nel Ceresio erano infatti state rilevate 213mila microplastiche per chilometro quadrato, in linea con i dati ottenuti nei laghi di Locarno e Lemano (220mila) da uno studio analogo effettuato nel 2014 dal Politecnico federale di Losanna, ma decisamente superiori alla media svizzera di 100mila per kmq (vedi «Azione» del 11.02.19). Da qui si sono pertanto adottate a livello cantonale ulteriori misure atte alla sensibilizzazione della popolazione attraverso articoli, comunicati e informazioni ai Comuni, e pure con vere e proprie iniziative sul campo come le due giornate di pulizia clean up lake, che il Dipartimento del territorio quest’anno ha proposto il 26 febbraio ad Agno e il 1. giugno a Magadino. Diverse sono anche le singole iniziative nate per ridurre l’uso di alcuni imballaggi superflui e per evitare che la plastica venga dispersa nell’ambiente finendo quindi nelle acque dei fiumi, dei laghi e infine dei mari. Ma grossi quantitativi di rifiuti arrivano in ogni caso nelle acque del Ceresio, come ha potuto confermare anche Fabio Schnellmann, segretario del Consorzio pulizia delle rive e dello specchio d’acqua del lago Ceresio, in occasione di una giornata organizzata a Lugano quest’estate: «Come consorzio ci occupiamo della pulizia delle rive e delle acque del Ceresio e ogni anno recuperiamo circa 1200-1500 tonnellate di materiale. Per lo più si tratta di legname portato a valle dai fiumi, ma anche noi abbiamo potuto constatare negli ultimi anni un sensibile aumento della plastica, che viene da noi raccolta per essere riciclata o smaltita tramite il termovalorizzatore». Le imbarcazioni utilizzate dal

Consorzio non possono però recuperare tutti i rifiuti dispersi nelle acque del lago, non riuscendo a raggiungere per esempio alcuni porti (accessi troppo stretti) o non potendo trattenere le particole più piccole. In aiuto a questo tradizionale metodo per la pulizia del lago, durante la giornata è stato presentato un modello di «cestino acquatico», il Seabin (dall’inglese sea= mare e bin= cestino), che è stato testato a inizio luglio presso il porto del Lido di Lugano. Seabin è un dispositivo che raccoglie plastiche e parte delle microplastiche in totale autonomia e in modo continuo, essendo dotato di una pompa che attira l’acqua nel raggio di circa 20-25 metri in condizioni di correnti ideali. L’acqua viene quindi filtrata ininterrottamente (fino a circa 25mila litri all’ora) da una rete con maglie di due millimetri di dimensioni, trattenendo così le plastiche e parte delle microplastiche galleggianti. Una volta pieno, come gli altri comuni cestini «terrestri», va svuotato: ha una capacità di circa 20 kg di rifiuti. L’apparecchio pesa circa 60 kg ed è alimentato da corrente elettrica con un consumo che i produttori stimano a meno di un euro al giorno. Lanciato nel 2017, ha trovato sin d’ora circa 500 ubicazioni nei porti di tutta Europa (sette i dispositivi in Svizzera, sul Lemano e sul Lago di Costanza) ed è approdato ora anche in Ticino grazie all’interesse dimostrato dal Consorzio pulizia delle rive e dello specchio d’acqua del lago Ceresio e dal Municipio di Lugano. Ideato dagli australiani Pete Ceglinski e Andrew Turton, questo strumento è un pilastro importante nel progetto internazionale PlasticLess®, promosso per ridurre l’inquinamento dei mari, dei laghi e delle darsene cittadine da LifeGate; società che supporta le imprese per migliorare la propria sostenibilità attraverso un’attività di consulenza, comunicazione e progetti ambientali. Simone Molteni, direttore scientifico di LifeGate conferma la sua soddisfazione: «Siamo molto contenti di

Il modello di cestino calato nel Ceresio quest’estate. (CdT - Zocchetti)

portare LifeGate PlasticLess® anche in Ticino, ampliando la nostra offerta in Svizzera. Il nostro obiettivo è quello di cercare e proporre soluzioni per contribuire ad attenuare il problema delle plastiche e microplastiche nelle acque, informando e sensibilizzando la popolazione». L’apporto dei «cestini da lago» nella pulizia delle acque può sembrare esigua, essendo i contenitori di dimensioni ridotte, ma i promotori puntano molto anche sull’effetto di sensibilizzazione: «Toglie una piccola quantità di plastica dalle acque ma in modo continuo, 24 ore su 24, ed è particolarmente efficace nei porti, dove si accumulano i detriti. Grazie a questo cestino, visibile e quindi percettibile, si vuole però anche aumentare la consapevolezza del problema, sensibilizzando i consumatori a un uso sostenibile delle risorse e dei rifiuti, consci che non è la plastica il problema, ma è la gestione errata che se ne sta facendo», precisa Molteni. Oltre che essere un ostacolo alle bellezze del paesaggio, le plastiche e le microplastiche sono un pericolo per la salute di alcuni animali, come pre-

cisa Marco Saroglia, biologo e già professore presso l’Università degli studi dell’Insubria a Varese. «Servono ulteriori studi, dato che finora è stato dimostrato che le microplastiche non sono dannose per l’uomo ma hanno però una tossicità per alcuni pesci e invertebrati». Secondo le ricerche presentate dal professor Saroglia, sono soprattutto le nanoplastiche – cioè quelle particole con dimensione da 0,001 a 0,1 micrometri – a creare i maggiori problemi, essendo in grado di oltrepassare alcune barriere fisiologiche. Corpuscoli di dimensioni microscopiche che derivano in grandi quantità dall’abrasione e radiazione da raggi UV di plastiche di maggiori grandezze, tra cui anche le microplastiche (dimensioni da 0.1 micrometri a 5 millimetri), delle quali una parte può essere eliminata dalle acque tramite appositi filtri o metodi di pulizia, come il sistema adottato da Seabin. La giornata è stata promossa da I Lake Nautic Services Sagl di Lugano, che si occupa della promozione e dell’utilizzo di Seabin in Ticino: «Abbiamo

voluto provare il dispositivo sul Lago di Lugano e in 20 giorni abbiamo raccolto 25 Kg di materiale plastico con un solo cestino Seabin», spiega Diana Battelli, responsabile di questa società. Durante il periodo di prova il «cestino acquatico» ha trovato una sua ubicazione nel porto del Lido di Lugano e ora il Consorzio pulizia delle rive e dello specchio d’acqua del lago Ceresio valuterà se e come continuare l’esperienza: «Stiamo valutando la situazione e l’effettiva efficacia di questi apparecchi che sono di certo un aiuto alla pulizia delle nostre acque, ma è chiaro che ci vorrebbero più dispositivi sparsi in altri porti del Ceresio per avere dei risultati ancora più ingenti. Stiamo discutendo con Cantone, Consorzio pulizia Ceresio e Consorzio pulizia del Verbano per un acquisto condiviso, ma probabilmente l’ubicazione sarà una zona del Lungolago con una migliore visibilità. Infatti, oltre che all’efficacia del sistema di pulizia, lo strumento è altresì un buon mezzo per la sensibilizzazione», conclude Fabio Schnellmann.


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Ambiente e Benessere

A pascolar pecore in Norvegia Wwoofing Reportage dalle isole scandinave Vesterålen dove non ci sono solo le aurore boreali

Il montone di Lille Langøya a mezzanotte.

Lisa Maddalena Pensate alle Alpi. Prendete le cime più appuntite, immaginate di tagliarle e adagiarle sul mare. Ecco, il paesaggio risultante vi può dare un’idea dell’aspetto che hanno le isole Vesterålen (da pronunciare «Vesterolen»), situate nelle vicinanze delle più conosciute isole Lofoten, nella Norvegia settentrionale. Queste isole, che si trovano a nord del circolo polare artico, erano popolate già da prima dell’epoca vichinga (circa 800-1050 d.C.). Dopo la scomparsa dei Vichinghi, la gente locale fu per molto tempo organizzata in Fiskerbonden, comunità di contadini-pescatori che, data la corta stagione estiva, coltivavano i campi per qualche mese in estate e pescavano d’inverno. A questa latitudine è infatti ancora possibile coltivare patate, fragole. Inoltre si possono raccogliere mirtilli e altre bacche. Abbondante nella zona è pure il camemoro o rovo artico (Rubus chamaemorus L.): una bacca simile a un piccolo lampone arancione la quale cresce su una piantina che ricorda quella di fragole. Anche se l’inverno è lungo, buio e con temperature piuttosto basse, in estate le piante godono del sole di mezzanotte e hanno quindi molta luce per crescere. In questa zona d’estate si fa pure il fieno, in modo da assicurare cibo per le numerose pecore anche d’inverno. D’autunno a primavera, invece, l’attività principale è la pesca. Merluzzi, aringhe e sardine sono le specie pescate in più grandi quantità. In diversi villag-

Un paesino delle isole Lofoten.

gi è possibile osservare le apposite impalcature in legno (hjell) che vengono usate per l’essiccazione utile a ottenere lo stoccafisso, il quale viene poi esportato nel resto dell’Europa. È sull’isola di Lille Langøya (la «piccola Langøya», da non confondere con l’isola di Langøya), facente parte del comune di Øksnes, che incontro Barbara e Gunnar. Li ho contattati tramite l’organizzazione Wwoof, che permette di andare a vivere nei luoghi visitati, presso famiglie che lavorano in agricoltura biologica, in modo tale che in cambio di una mano di rinforzo nei lavori, si riceva vitto, alloggio e l’opportunità di scoprire altre realtà e culture. Barbara è tedesca, ma vive da quasi quarant’anni in Norvegia. Gunnar, da come si potrebbe dedurre dal nome tipicamente nordico, è un norvegese originario di Mo i Rana, una città situata circa a metà nazione. La coppia ha realizzato un loro sogno trasferendosi su questa piccola isola, in compagnia di una trentina di pecore, diventate loro, di un vicino, e di alcune persone che vengono occasionalmente a passare i weekend estivi nelle rispettive case di vacanza (hytte). Lille Langøya è una piccola isola lunga circa tre chilometri e larga meno di cinquecento metri, ma ha molto da offrire riguardo a fauna e flora, e regala viste stupende sulle isole circostanti. Recentemente, una coppia di biologi che ha soggiornato sull’isola ha individuato almeno trentotto specie di uccelli, tra cui gabbiani, aquile marine e pernici bianche. È inoltre possibile

Paesaggio nelle vicinanze di Skipnes.

Gli agnellini di Barbara e Gunnar.

Strutture in legno per essiccare lo stoccafisso.

avvistare foche e lontre marine. Gunnar racconta che lo scorso inverno ha potuto osservare un branco di orche con i propri cuccioli proprio di fronte all’isola. Le pecore di Gunnar e Barbara appartengono a un’antica specie norvegese, la Gammelnorsk sau. Questo tipo di pecore è adatto a stare all’aperto tutto l’anno, grazie alla loro folta pelliccia e all’abilità di cercare cibo anche sotto la neve. Una particolarità è che il loro pelo si stacca da solo ogni anno, così che il lavoro di tosatura può essere evitato. La lana viene comunque spesso raccolta, strappandola gentilmente dalla schiena dell’animale. Tra norvegesi è piuttosto comune regalarsi morbide pellicce d’agnello per rivestire panchine, divani, passeggini e altro, in modo da proteggersi facilmente dal freddo in ogni occasione. Un progetto di Barbara e Gunnar è di ristrutturare un vecchio fienile rosso e trasformarlo in un’elegante pensione per turisti. Barbara mi racconta che, in origine, il colore rosso era usato dalle persone più povere oppure per pitturare grandi superfici (come le stalle), usando grasso di balena e sangue di pesce, manzi o altri animali. Le persone più ricche invece potevano permettersi la più costosa pittura bianca. Ancora oggi, la maggior parte dei fienili del Paese sono di colore rosso, mentre la maggior parte delle case d’abitazione sono bianche o di altri colori. Sulle isole vicine ci sono molti piccoli villaggi. Un tempo, la popolazione era molto più numerosa, ora le abitazioni sono perlopiù usate come case di vacanza. Solo Skipnes è un paesino un pochino più vivo degli altri, vi si trova infatti un ristorante e qualche famiglia con bambini, e spesso durante il finesettimana vengono organizzate serate con musica dal vivo e altri piccoli eventi. Ogni anno vi si tiene pure una gara di kayak estrema, la Arctic Sea Kayak Race. Tutte le piccole località sono raggiungibili con un ferry che fa il giro delle isole al mattino e al pomeriggio, permettendo così anche ai bambini di andare a scuola. Un altro spettacolo che si può vedere su queste isole sono le aurore boreali. Nelle limpide, lunghe notti d’inverno, è sufficiente affacciarsi alla finestra di casa per assistere a questi fantastici fenomeni naturali. Una buona ragione per tornarci d’inverno.


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Ambiente e Benessere

La EQC? È un’altra cosa

Motori Mercedes organizza test drive in tutta Europa per permettere all’utenza di «capire»

il suo nuovo modello elettrico Mario Alberto Cucchi Si chiama Mercedes EQC. Ha quattro ruote come le altre auto, per il resto è un’altra cosa. Per capirla davvero va provata ed è per questo che Mercedes organizza test drive in tutta Europa. Sulla carta le caratteristiche tecniche sono di quelle che lasciano a bocca aperta. A spingerla ci pensano due motori elettrici. Uno trasmette la sua potenza alle ruote anteriori e l’altro a quelle posteriori. Possono lavorare autonomamente o in coppia garantendo la trazione integrale. La potenza totale è di 300 kW pari a oltre 400 cavalli. L’accelerazione è da supercar. Scattando da ferma, impiega appena 5,1 secondi per raggiungere i cento chilometri orari. La velocità massima è autolimitata a 180 orari. La coppia? 750 Newtonmetro. Tradotto in sensazioni equivale a essere proiettati in avanti come se fossimo seduti sull’elastico di una fionda. Leggerlo dice poco, per questo va provata dal vivo, ancora più incredibile, se pensiamo che non siamo seduti su una coupé, ma su un grosso SUV lungo oltre 4 metri e 70 centimetri. Pesa oltre 2500 kg ed è in grado di trasportare nel confort cinque passeggeri con relativi bagagli. Gli appassionati di fantascienza ricordano bene l’astronave Enterprise lanciata a velocità Warp. Ecco, seduti al volante della Mercedes EQC sembra di essere a bordo dell’Enterprise quando utilizza i motori a curvatura. Se da una parte quest’auto non è do-

tata di guida autonoma totale, dall’altra va detto che ci si avvicina davvero molto. Accelera e frena da sola seguendo l’auto che ci precede, riconosce i segnali stradali e decelera per adattare la velocità a quella consentita. Ci tiene al centro della carreggiata correggendo la traiettoria con il volante. Procede a effettuare un sorpasso autonomamente se soltanto inseriamo la freccia. EQC è anche dotata dell’ultima versione di MBUX, sistema multimediale e di gestione made in Stoccarda. Interfaccia uomo-macchina visualizzata su due grandi display da 10

pollici orizzontali posizionati davanti al guidatore. Massima evoluzione dei comandi vocali: basta dire «Hey Mercedes» e l’auto risponde chiedendo che cosa desideriamo. Ecco allora che si parte con la regolazione della temperatura per poi passare alla sintonizzazione della radio, la scelta della destinazione per arrivare a chiedergli di portarci al nostro ristorante preferito. È un sistema che apprende evolvendosi e migliorandosi nell’utilizzo quotidiano. Se da una parte il guidatore diventa controllore dei sistemi di bordo

come un pilota di aerei, dall’altra l’auto si prende sempre più cura dell’automobilista. Attraverso sensori e telecamere, EQC può addirittura arrivare a controllare il battito cardiaco del conducente. Verifica l’apertura delle palpebre e se nota segnali di stanchezza provvede a cambiare la temperatura dell’auto, varia la musica, addirittura profuma l’abitacolo con essenze particolari e suggerisce esercizi di stretching mostrandoli sul display. EQC è avveniristica anche nelle linee esterne, caratterizzate da sottili

luci che collegano le fiancate. La tecnologia dei fari anteriori full led matrix è in grado di illuminare a giorno le notti più buie. E l’autonomia? Mercedes EQC ha un pacco batterie da 80 kilowatt. Gli ingegneri di Daimler dichiarano un’autonomia teorica di oltre 400 chilometri. Noi l’abbiamo guidata più giorni in diverse situazioni e non siamo mai riusciti a percorrere così tanta strada. Va detto però che, come sulle auto alimentate a benzina, la differenza la fa il piede del pilota e il percorso affrontato. In montagna ad esempio il consumo sale moltissimo. Mercedes EQC è in grado di caricarsi all’80% in soli 40 minuti. Il problema è che lo può fare solo presso supercaricatori a corrente continua CSS da 110 kW. Come quelli della rete Ionity. Pensate che ve ne sono solo 140 in tutta Europa. In pratica l’auto è pronta, ma le infrastrutture non sono ancora abbastanza diffuse per poter affrontare un viaggio in tranquillità. Noi non siamo mai riusciti a caricare con una potenza superiore ai 7 kw. Ed ecco allora che i tempi del «pieno» si dilatano arrivando anche a oltre dieci ore. Diventa quasi obbligatorio avere un wallbox da 7 kw sotto casa e caricare tutte le notti. Chi oggi decide di spendere 84’899 franchi svizzeri per comprare una EQC sa di essere un pioniere che deve scendere a compromessi quotidiani. Questo il prezzo per guidare già oggi il futuro. Ma anche per chi non ha in programma l’acquisto, un giro vale proprio la pena. Annuncio pubblicitario

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Ambiente e Benessere

Una guerra senza armi

Scelto per voi

Vino nella storia Così Roma punì Rodi rovinando il suo commercio – 4a parte della serie

«Lungo le rotte del vino» Davide Comoli

Coloro che riuscirono a sopravvivere e portare in salvo parte dei loro beni, furono costretti a cercare nuovi lidi disposti ad accoglierli e dove poter continuare la loro attività e i loro commerci. Pure in Medio Oriente, Siria ed Egitto, una nuova situazione di disagio economico e mercantile che si era creata consigliò ai mercanti di rivolgersi ai nascenti mercati del sud Italia. Gli abitanti dell’Italia meridionale erano stati a lungo in stretti rapporti commerciali con il mondo greco, dapprima con Atene, in seguito tramite Rodi e Delo, con i quali trafficavano nei due sensi i vini dell’Egeo e i vini di Enotria. Alleati dei Romani e considerati essi stessi dei romani al cospetto del mondo mercantile d’Oriente, e dunque protetti dalle leggi e dagli eserciti di Roma, sia i Greci sia gli Italici – colonizzati culturalmente dagli ellenici, che occupavano le aree a sud della penisola – non si fecero sfuggire l’occasione di diventare protagonisti del nascente mercato, aumentando la produzione vinicola. Tutto ciò fu senza alcun dubbio agevolato dalla istituzione del «porto franco» di Delo. A testimonianza di quanto

Pxhere.com

Con il passare degli anni e l’intraprendenza di altre realtà emergenti – come ad esempio quella di Cnido, un lembo di terra fertile poco più a nord di Rodi (oggi Turchia) – l’isola egea cominciò a sentire il fiato sul collo di altri concorrenti, a cominciare dai dominatori romani. Dopo la terza guerra macedonica, Roma decise di punire Rodi, scegliendo di colpire il suo punto più vulnerabile: il commercio, soprattutto quello del grano e del vino. Per indebolire la prosperità della piccola isola dell’Egeo, Roma non ebbe bisogno di dichiararle guerra o di mandare le sue legioni. Un qualunque atto di forza sarebbe stato uno scandalo per il mondo greco, e Roma, quanto più poté, cercò di evitarlo: fu sufficiente infatti mettere in atto una misura più semplice e meno drastica. Con l’intento di portare disappunto e creare difficoltà per mezzo di una concorrenza sleale, Roma dichiarò la piccola isola di Delo, alleata di Atene: «porto franco». In verità, dietro questa misura, ci

fu lo zampino degli alleati di Roma; gli antigonidi, la dinastia che per due secoli aveva regnato in Macedonia e che cercava in tutti i modi di boicottare Atene, considerata una pericolosa avversaria. In poco tempo il commercio del grano, del vino e altri prodotti provenienti dal nord, passò nelle abili mani di mercanti che controllavano i magazzini e il porto di Delo, per farne merce di scambio e commercio per i traffici che attraversavano l’Egeo e il Mediterraneo. Con Delo esente da tasse, iniziò così una nuova era. A subirne le conseguenze non fu solo Rodi, ma anche gli stessi nativi di Delo, dato che non a tutta la popolazione era dato di beneficiare del ritorno economico del traffico di vino. Per i locali produttori di vini e piccoli commercianti, la creazione del «porto franco» significò la rovina. Delo, lasciata in balia di banchieri e trafficanti, divenne la piazza ideale per i privati di professione, che potevano vendere senza problemi il frutto delle loro scorrerie. Anche la distruzione dei centri di commercio di Corinto e Cartagine causò la rovina di importanti comunità di ricchi mercanti mediterranei.

affermiamo, sono le centinaia di anfore vinarie e olearie ritrovate sulla piccola isola sulle quali sono impressi dei bolli italici. Con capitali acquisiti durante le guerre che Roma condusse in Occidente e Oriente, i mercanti italici cominciarono a stabilirsi a Delo e ad attivare rapporti con i produttori di vino in Italia, i mercanti della bevanda in Grecia e in tutto il bacino Mediterraneo. L’influenza di Roma aprì altre importanti aree, avviando una nuova era commerciale internazionale, nella quale il vino avrebbe avuto un ruolo importante. Il resto fu merito dei primi grandi viaggiatori e conquistatori che svilupparono le relazioni commerciali tra il mondo greco ed ellenizzato e i Paesi poco o nulla toccati dalla civiltà greca. Nei nostri viaggi, abbiamo trovato tracce di ciò che stiamo scrivendo: in Iran, India, Asia centrale, confini della Cina, Arabia e naturalmente Europa. Si cominciarono a codificare, divulgandone l’esistenza, le varie strade da percorrere, le vie dei traffici mercantili, a cominciare dal commercio carovaniero diretto verso Oriente. Il traffico aveva come protagoniste le vie fluviali della Mesopotamia, della Gallia, della Germania, la parte meridionale della Russia e i Paesi attraversati dal Danubio. Importante e decisivo era il commercio marittimo, che per secoli aveva visto il solo Mediterraneo come scenario e che ora collegava molti Paesi tra loro. Il commercio locale avveniva, indifferentemente per via terra, veleggiando lungo la costa o attraverso i fiumi navigabili. Questo portò a scatenare una gara tra le regioni mediterranee interessate a produrre quantità di vino sempre maggiore, alla quale faceva riscontro una domanda in continuo aumento. Se per i mercanti l’enorme quantità di anfore vinarie giustificava il viaggio, più difficili si presentavano le operazioni mercantili per i Paesi che non si affacciavano sulle coste. Infatti, questi dovevano affrontare viaggi lunghi, lenti e costosi, con carri e animali da soma su strade sconnesse e pericolose.

Châteauneuf-du-Pape / Clos de l’Oratoire des Papes 2006

Su depositi di calcare (conchiglie) vecchi milioni di anni, si sono sedimentate sabbie e in seguito argilla dove il Rodano ha poi ricoperto con grossi sassi di quarzite e selce provenienti dalle Alpi. Su questi terreni si produce il Châteauneuf-du-Pape, vino che ha pochi paragoni in fatto di celebrità, passando dalla più grande notorietà a momenti di oblio. I vini di questa «enclave» del Basso Rodano sono famosi perché prodotti con quasi tutti i vitigni autorizzati in questa regione, 8 rossi e 5 bianchi. «Clos de l’Oratoire des Papes», situato presso il castello che domina il villaggio, è prodotto con ceppi centenari di Grenache, Syrah, Mourvèdre e Cinsault. Questo mitico vino canalizza la potenza del sole in un clima mediterraneo, senza sacrificare l’eleganza. Possente, ma non pesante, bisogna avere la pazienza d’aspettare una decina d’anni prima di gustarlo. Il nostro 2006 è perfetto in questo senso, complesso e ampio con i suoi sentori di frutti rossi maturi, seguiti da tabacco, liquirizia e tartufo, è l’ideale per la vostra sella di capriolo, il fagiano arrosto, ma provatelo sulla famosa «canard à l’orange». / DC Trovate questo vino nei negozi Vinarte al prezzo di Fr. 32.95. Annuncio pubblicitario

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Ambiente e Benessere

Una ballata di salse e dolci

Gastronomia Nella cucina spagnola spiccano non solo piatti salati ma anche ricchi condimenti e dessert

Continua l’esplorazione della cucina spagnola. Di antico sapore moresco troviamo anche ricette come il tacchino con le mandorle, il pollo con le melograne, il maiale o il vitello cotti con fichi, mandorle e uvetta. Questi accostamenti vengono riproposti anche in diverse specialità della terraferma ad esempio nei seguenti piatti: coniglio con zafferano e uvetta, lingua in salsa di melagrana, cinghiale con i fichi, tacchino farcito con un lungo elenco di ingredienti – prugne, albicocche, uvetta, prosciutto crudo, pinoli, salsiccia, noci ed erbe aromatiche – e profumato anche da amontillado (vino liquoroso). E l’elenco può continuare con il pollo sivigliano, arricchito da arance e menta, oppure con la faraona alle albicocche, con cannella e pinoli.

Si trova spesso nei piatti salati anche la frutta, come nel coniglio con zafferano e uvetta, o la faraona alle albicocche Non è insolito nemmeno l’accostamento tra carne e pesce: per esempio troviamo pollo e gamberetti oppure coniglio con seppie e gamberi; del resto, è molto apprezzata la trota farcita con prosciutto crudo e poi cotta in forno. I piatti di carne, però, non si limitano certo a questi. Come non ricordare gli stufati della Mancha, a base di agnello, coniglio o vitello, completati dagli immancabili aglio e peperoni? A tal proposito, Toledo offre invece volatili cotti con cannella, chiodi di garofano e zafferano, mentre Malaga propone il maiale in umido, tirato a cottura con il vino omonimo, insaporito da mandorle, cannella, uvetta. A Siviglia si può gustare la coda di bue stufata con le verdure o la spalla di vitello cucinata con pomodori, olive verdi, mandorle e cannella. Capitolo delle salse. Ecco per

esempio la romesco (pomodori, aglio, mandorle e peperoncini), che accompagna la carne e il pesce alla griglia. Piselli, prezzemolo ed erbe aromatiche compongono una salsa verde tipica delle Province basche, mentre il tartufo nero è alla base di una salsa dell’Estremadura. Ci sono poi le mojos, salse tipiche delle Canarie: la variante verde, a base di coriandolo, cumino e prezzemolo, e quella rossa, con aglio e peperoncino. La salsa detta chilindrón, tipica dell’area aragonese, è invece a base di pomodori, cipolle, peperoni, zafferano e peperoncino: viene cotta in umido con vari tipi di carne (per esempio piccione o montone) e queste preparazioni vengono dette appunto a la chilindrón (nella foto un pollo alla chilindrón). Elaborati e sfiziosi i contorni: carciofi fritti, spinaci con mandorle, aglio e mollica, melanzane farcite con menta e formaggio. Sempre dall’Aragona provengono le migas, cubetti di pane tostato, sfregato con aglio e insaporito da paprika. Da ricordare poi il pisto manchego, uno stufato di ortaggi vari: accanto all’immancabile aglio, pomodori, zucchine, cipolle e peperoni (in genere rossi e verdi, molto comuni nella cucina spagnola). Buono l’assortimento dei formaggi, dal saporito cabrales (una sorta di roquefort), ai pecorini della Mancha, al maó di Minorca (una specie di grana). Alcuni formaggi freschi sono usati anche per preparare dolci: ricotta di pecora per il flaó, una torta aromatizzata con menta, specialità di Ibiza; formaggio fresco magro per i bollos de cuajada, frittelle servite cosparse di miele. Molti anche i dolci a base di mandorle; tra gli altri il torrone di Jijona e l’andalusa torta de almendras. Ha ormai varcato i confini nazionali la gustosa crema catalana, sulla cui crosta caramellata si imprimono dei marchi con ferri roventi. Meno nota è invece la crema detta tocino (ossia «pancetta») de cielo, uno sciroppo arricchito da tuorli, aromatizzato con limone e cotto in stampini unti con olio di mandorle amare.

CSF (come si fa)

Pexels.com

Allan Bay

Jocian

che sono diventati molto famosi – Seconda parte

La verza o cavolo verza è uno dei sommi simboli della cucina europea continentale. È una varietà di cavolo dalla forma tondeggiante, con foglie grinzose: quelle più esterne sono di colore verde scuro, quelle all’interno sono più chiare e giallastre. Le verze possono essere raccolte in estate, ma anche in autunno e in inverno, colte dopo le prime gelate. Non che cambi il sapore, sia chiaro, cambiano solo i tempi di cottura.

In genere si aggiunge la verza alle zuppe o la si cucina in umido, spesso accompagnata dal maiale (verzata, casœûla). Le foglie, sbollentate, sono usate anche per preparare involtini ripieni, con cottura terminata in umido. Il cuore, particolarmente tenero e croccante, può essere privato del torsolo e servito crudo in insalata, da solo o mescolato con altri ortaggi: per ammorbidirne il gusto, più aspro di quello della verza cucinata, si possono usare carote grattate, uvetta e scalogno tritato finemente. La ricetta della casœûla ve l’ho data tempo fa, vediamo come si fa la più semplice verzata. Ingredienti per 4 persone. Mondate 500 g di verza e lavatela. Lessate 200 g di cotenne di maiale, ben raschiate, e 4 salamini da verza (a Milano si chia-

mano verzini, ma vanno bene tutti) bucherellati. In una casseruola scaldate un filo d’olio con 1 spicchio di aglio mondato e leggermente schiacciato e unite 100 g di pancetta tagliata a listarelle. Fate rosolare la pancetta per qualche minuto, poi aggiungete 4 cucchiaiate di soffritto all’italiana e una punta di concentrato di pomodoro stemperata in poca acqua; unite le foglie della verza, con la sola acqua rimasta dall’ultimo lavaggio, e mescolate bene. Coprite e cuocete a fuoco basso, continuando di tanto in tanto a mescolare. Il tempo di cottura varia da 15 minuti per la verza invernale, a 50 minuti per le verze non sottoposte a gelate. Quando mancano 10 minuti al termine della cottura unite le cotenne tagliate a listarelle e i salamini. Regolate di sale e di pepe.

Ballando coi gusti Oggi due ricette a base di baccalà accompagnate da pomodoro: un connubio perfetto.

Baccalà in umido al pomodoro

Baccalà fritto con pomodoro

Ingredienti per 4 persone: 800 g di baccalà già bagnato in trance · farina · 200 g di

Ingredienti per 4 persone: 800 g di baccalà già bagnato in trance · 200 g di polpapronta di pomodoro · soffritto di cipolla · 1 peperone · limone · alloro · farina · olio per friggere · sale e paprika.

Sciacquate e asciugate le trance di baccalà, privatele di lisca e spina e infarinatele. Scaldate un giro di olio con uno spicchio di aglio e fate dorare leggermente il baccalà, da ambedue i lati. Levatelo e tenetelo in caldo. Unite la polpapronta, 4 cucchiai di soffritto e prezzemolo tritato e fate addensare. Aggiungete i capperi ben sciacquati e cuocete ancora per 1 minuto. Unite le trance, cuocete coperto per 1 minuto, regolate di sale e di paprika e servite.

Per la salsa, cuocete la polpapronta con 4 cucchiai di soffritto di cipolle e 1 foglia di alloro, regolate di sale e di paprika ed eliminate l’alloro. Sciacquate e asciugate le trance di baccalà, privatele di lisca e spina, tagliatele a bocconi e infarinateli. Friggeteli in olio bollente, scolateli su carta da cucina, salateli leggermente. Servite il baccalà intingendo i pezzi fritti nella salsa di pomodoro. Accompagnate, se volete, con peperoni tagliati a julienne e profumate con succo di limone.

polpapronta di pomodoro · soffritto di cipolla · capperi sott’aceto · aglio · prezzemolo · olio di oliva · sale e paprika.


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Ambiente e Benessere

La predizione cinese

Giochi matematici Il trucco c’è, ma l’importante è far divertire la somma delle cifre che compongono questo numero. 6. Annunciate che, nonostante ciò, avete previsto esattamente il valore della carta che, nel mazzetto composto dallo spettatore, avrebbe occupato (a partire dall’alto) il posto corrispondente alla somma delle cifre del numero da lui scelto (nel nostro esempio: 15; quindi, la predizione riguarderà la 6a carta, dato che: 1+5 = 6). 7. Distribuite sul tavolo, a faccia in su, le carte dal mazzetto ed estraete quella che occupa la posizione prima individuata. 8. Ponete la carta in bella vista sul tavolo; poi, aprite la busta ed estraete il foglietto, mostrandolo al pubblico dalla parte che contiene gli ideogrammi cinesi. 9. Di fronte a un’inevitabile reazione di

malumore del pubblico, fate presente che il gioco da voi eseguito è di origine cinese e che, quindi, anche la predizione dovevate scriverla in cinese… 10. Prima che qualcuno dei presenti possa darvi del buffone, aggiungete:

«Un momento, prego: c’è anche la traduzione in italiano!». 11. Girate il foglietto e mostrate al pubblico che il valore in esso riportato coincide esattamente con quello della carta prima selezionata.

Spiegazione del trucco

In genere, l’esecuzione di un gioco di magia matematica risulta naturalmente divertente, senza bisogno di ulteriori aggiustamenti. Però, in alcune situazioni, può risultare funzionale il ricorso a qualche gag estemporanea, come nel seguente esempio. Per la preparazione, prendete un qualsiasi mazzo di carte, sfogliatelo velocemente e osservate il valore della carta che occupa la 10a posizione a partire dall’alto. Ricomponete il mazzo, lasciando la carta al suo posto e trascrivetene il valore sul lato di un foglietto; sull’altro lato, poi, tracciate alcuni scarabocchi simili a degli ideogrammi cinesi. Inserite il foglietto all’interno di una busta e deponetela chiusa sul tavolo.

1. Ponete sul tavolo il precedente mazzo di carte, senza mescolarlo. 2. Chiedete a uno spettatore di comunicarvi un numero a sua scelta, compreso tra 10 e 20, estremi esclusi (ad esempio: 15). 3. Sfilate dalla cima del mazzo, una alla volta, tante carte quant’è il numero dichiarato dallo spettatore e collocatele sul tavolo, facendo attenzione a porle rigorosamente una sopra l’altra. 4. Prendete in mano il mazzetto di carte così composto e mettete da parte tutte le altre rimanenti. 5. Fate notare al pubblico che il numero è stato scelto dallo spettatore in piena libertà e che, quindi, voi non potevate assolutamente conoscerlo prima. Tanto meno potevate conoscere in anticipo

L’operazione di mettere sul tavolo una carta sopra l’altra ha l’effetto di invertire le loro posizioni. Per cui, se una carta occupa all’inizio la posizione X, dopo l’inversione di Y carte occuperà la posizione: P = Y–X+1. Nel nostro caso, dato che Y è un numero compreso tra 11 e 19, possiamo indicarlo come: P = Y = 10+A (dove A è compreso tra 1 e 9). Di conseguenza, la somma S delle cifre che compongono Y, è uguale a: S = 1+A. Siccome quest’ultimo valore coincide con quello della posizione che deve occupare alla fine la carta oggetto della nostra predizione, nella formula iniziale, possiamo porre: P = A+1 e Y = 10+A, ottenendo: A+1 = 10+A–X+1; e, quindi: X = 10+A+1– A–1; ovvero: X = 10. In definitiva, perché una carta vada a occupare la posizione A+1, dopo l’inversione di 10+A carte (con A compreso tra 1 e 9), all’inizio deve trovarsi al 10° posto.

Modalità di svolgimento

Ennio Peres

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Ambiente e Benessere

Non solo per le incoronazioni

Fitoterapia L’alloro, anche noto con il nome di Lauro, era una pianta sacra sia nella Grecia antica sia a Roma,

Eliana Bernasconi Il primo trattato medico sulle erbe di cui si abbia memoria – cioè un documento che risale all’antica Cina, redatto durante il regno della dinastia Chen – classificava 365 erbe medicinali e tossiche, così come il Papiro Ebers (dal nome del suo acquirente e importatore in Europa), risalente alla XVIII dinastia egizia, all’incirca 1500 a.C., e descriveva già a sua volta piante in uso ancora oggi. Per cui, insistere sull’efficacia delle piante medicinali è evidentemente superfluo. Infatti, abbiamo visto crescere negli ultimi decenni il numero delle persone che con sempre più fiducia si affidano a queste cure, non alternative alla medicina tradizionale ma integranti. Con il progredire delle conoscenze nel campo della chimica analitica e della biochimica e con la nascita del metodo sperimentale, la fitoterapia si allontanò dall’empirismo in direzione di una sempre ulteriore convalida scientifica. La scienza confermò in laboratorio le molte verità contenute in usanze e consigli di misteriosa e sorprendente intuizione, tramandati di generazione in generazione. Sulla scorta delle relazioni di missionari e botanici esploratori, nel corso dei secoli, ebbero inizio anche le importazioni di moltissime piante curative usate soprattutto nella medicina tradizionale americana e di altri paesi extraeuropei. La fitoterapia espanse in tal modo l’orizzonte delle sue conoscenze con piante provenienti da altri continenti. Ma tutto questo non ci impedirà mai di apprezzare sufficientemente le piante che vicine a noi da sempre ci donano la loro silenziosa

presenza, anche le più comuni come il Laurus nobilis L., detto Alloro o Lauro. Della famiglia botanica delle Lauraceae, presente anche nella medicina cinese e ayurvedica, questa meravigliosa pianta mediterranea che oggi guardiamo con distratta indifferenza era la pianta sacra per eccellenza nella Grecia antica e a Roma. Tutti conosciamo il significato simbolico della corona di alloro che premiava i vincitori, la loro gloria e sapienza; i termini laurea e laurearsi hanno infatti questa etimologia: essere incoronati con alloro. Probabilmente introdotta in Grecia e in Italia dall’Asia minore, era la leggendaria pianta sacra ad Apollo, dio della medicina padre di Esculapio. La celebre Pizia dell’oracolo di Delfi si nutriva di foglie di alloro per profetizzare mentre aspirava il fumo dei suoi rami che nel frattempo venivano bruciati, (anche ai nostri giorni le foglie di alloro bruciate sui carboncini così come l’olio essenziale posto negli appositi bruciatori sono un potente purificatore degli ambienti dove l’aria è viziata). L’alloro, o lauro, cresce nei boschi allo stato spontaneo, lungo le coste, attorno ai laghi insubrici. È spesso coltivato come un cespuglio sempreverde, ma in realtà è un vero albero che può raggiungere i dieci metri di altezza. Le foglie, lanceolate e coriacee dall’inconfondibile aroma usate pure come spezia in cucina sono ricche di ghiandole resinose. In primavera sbocciano dei fiorellini giallognoli raccolti in piccoli gruppi a ombrella, mentre il frutto è una bacca nero bluastra molto aromatica. Antichissimo è l’uso terapeutico dell’alloro: Ippocrate prescriveva l’olio

Julio Reis

e oggi è ancora usata in ambito curativo

delle sue bacche contro le contrazioni tetaniche e le fumigazioni delle sue foglie contro i dolori del parto. Le bacche si raccolgono in autunno e si fanno essiccare all’ombra, mentre le foglie si raccolgono tutto l’anno ma sono più ricche di principi attivi quando sono giovani, si stagionano per 3-4 giorni e si conservano in sacchetti al riparo da polvere e umidità. Esse possiedono proprietà aromatiche, stimolanti, espettoranti, diuretiche, sudorifere e carminative (cioè favoriscono la capacità di espellere o limitare la formazione di gas intestinali). L’Alloro è per questo indicato nelle digestioni difficili, nelle influenze e nelle bronchiti croniche, nei raffreddori, nelle difficoltà di respirazione. L’infuso di foglie, 4-5 tazze al dì, è un ottimo tonico digestivo, carminati-

vo ed espettorante. In passato il suo uso era vastissimo: ad esempio, l’infuso di foglie era bevuto nelle affezioni gastriche e usato per preparare bagni aromatici contro i dolori. Come digestivo si preparava l’infuso di foglie di lauro, maggiorana e timo; contro la stanchezza e il dolore ai piedi si usava un decotto di lauro e foglie di edera in parti uguali; nelle digestioni difficili si mangiavano alcune bacche ben mature, cresciute in pieno sole e ben turgide; con le bacche seccate e cotte nella birra si aveva una bevanda diuretica da assumere contro la ritenzione idrica; e alcune foglie di lauro venivano messe a macerare per profumare l’acquavite. Era inoltre molto usato l’oleolito di bacche che si preparava pestando in un mortaio 40 grammi di bacche fresche con 300 ml di olio d’oliva. Il

tutto veniva posto in un contenitore a chiusura ermetica e collocato vicino a una fonte di calore per un riposo di un mese, si conservava poi in un luogo fresco e al riparo dalla luce e si applicava localmente, dopo averlo filtrato, come antinfiammatorio e antidolorifico per dolori muscolari di varia natura, per il benessere delle articolazioni. Questo oleolito di facile preparazione si può ottenere a un costo quasi zero anche oggi, (il suo effetto non è certo molto dissimile, anche se di tipo diverso da quello prodotto da creme o delle farmacie). È anche un eccellente rimedio da applicare sulla cute contro le zanzare e come impacco per capelli lucenti e forti. Non da ultimo era pure usato in veterinaria: uno strato sottile sparso sul pelame difendeva gli animali dalle mosche. Anche l’olio essenziale, estratto mediante distillazione in corrente di vapore dalle foglie essiccate e dai rametti, ha molte applicazioni. Per uso interno: cura inappetenza e flatulenza, influenze e infezioni delle vie respiratorie in generale; per uso esterno: mescolato a olio per massaggi è indicato per frizioni nei dolori reumatici, nelle contusioni, negli ascessi. Con l’infuso di bacche di alloro raccolte a piena maturazione, e versato nell’acqua, si ha un bagno tonificante e antifatica, un bagno con gli stessi effetti e profumato si ottiene versando nella vasca un’infusione ottenuta con due manciate di foglie lasciate per un’ora in acqua bollente Bigliografia

Gabriele Peroni, Trattato di Fitoterapia Driope, Nuova Ipsa editrice.

Giochi

Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku

Cruciverba Completa la frase di Madre Teresa di Calcutta: «Ci sono persone così povere che l’unica…» rispondendo alle definizioni e leggendo le lettere nelle caselle evidenziate. (Frase: 4, 3, 5, 4, 1, 5)

ORIZZONTALI 1. Molto sintetica 7. Le iniziali dell’attore Crowe 8. L’aiuto di Richard Gere 9. Ha fegato da vendere!... 11. Viene in camera dopo me... 12. Sono un’unità di misura 15. Fondò l’impero persiano 16. Antico 20. Il conduttore Papi 22. Le iniziali della moglie di Totti 23. Le iniziali dell’attrice Stefanenko 25. Alloggia in cantina 26. Essenziali in erboristeria 27. Tutt’altro che luminoso 29. Lavora senza essere pagato 31. Marrone tra le cantanti 32. Beffato

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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch

I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.

VERTICALI 1. Scricchiola sotto i denti 2. Il ragno ne ha otto 3. Svizzera in autostrada 4. Due giorni fa era domani 5. Sclerosi Laterale Amiotrofica 6. Le iniziali di uno degli scultori Pomodoro 10. Fiume francese 13. Un mammifero agile nuotatore 14. Non possono mancare sulle navi 16. Affluente del Rodano 17. Stanno… in coda 18. Magazzini per cereali 19. Decesso 21. Vicolo di Venezia 24. Un figlio di Noè 26. Lunga fascia che stringe il kimono 28. Le iniziali dell’attrice Mannino 30. Due di fiori Partecipazione online: inserire la

soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-

Sudoku Soluzione:

Scoprire i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.

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2 Soluzione della settimana precedente

LA FARFALLA MESSAGGERA – Nome della farfalla: CEDRONELLA – Caratteristica: ANNUNCIA LA PRIMAVERA.

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O N R E I N O O N S E O P M A R M I E A O

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 21 ottobre 2019 • N. 43

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Politica e Economia Nuova partita Con il disimpegno Usa nel Kurdistan siriano, Mosca è il nuovo arbitro nella regione

Chi è Abiy Ahmed Al primo ministro etiope è stato conferito il Nobel per la pace per essere riuscito a chiudere vent’anni di guerra con l’Eritrea e per le sue riforme che hanno fatto parlare di rivoluzione

Meno competitiva Secondo l’annuale classifica del WEF di Ginevra, la Svizzera perde parecchi posti in classifica – si consigliano riforme pagina 33

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pagina 30 Mohammed Bin Salman guiderà la Davos nel deserto a fine ottobre. (Keystone)

Non dimentichiamo chi è MBS

Caso Khashoggi Il mondo libero non può dimenticare 1’anniversario dell’assassinio del giornalista

del «WashingtonPost» definito da Erdogan come l’evento più influente del XXI secolo Christian Rocca Tutti alla «Davos nel deserto», a celebrare con i reali sauditi la Future Investment Initiative e tanti saluti all’indignazione per un omicidio di Stato che soltanto un anno fa era riuscito a ridimensionare l’evento saudita 2018. Al Ritz-Carlton di Riad, dove il Principe ereditario Mohammed bin Salman per mesi ha tenuto imprigionati centinaia di familiari e leader imprenditoriali del Paese per consolidare il suo potere, il vertice finanziario globale del 23-25 ottobre si svolgerà regolarmente, con la presenza anche di Jared Kushner, genero di Donald Trump e incaricato dal presidente di seguire i dossier mediorientali. L’anniversario dell’uccisione del giornalista del «Washington Post» Jamal Khashoggi non ha smosso nessuna coscienza, al contrario di quanto era successo l’anno scorso. Eppure avrebbe dovuto.

Nei giorni in cui la Festa del cinema di Roma assegna un premio alla carriera a Viola Davis, la protagonista della serie How to get away with murder, in italiano Le regole per il delitto perfetto, il mondo libero non dovrebbe dimenticare l’anniversario dell’assassinio del giornalista Khashoggi, catturato, torturato, ucciso, fatto letteralmente a pezzi e bruciato nel giardino del consolato saudita di Istanbul. Il problema è che il mondo libero è ogni giorno meno libero e soprattutto privo di una guida politica e morale, con il tradizionale leader, il presidente americano, inaffidabile e accusato di intelligenza con il nemico. L’omicidio di Khashoggi non è un dettaglio della storia; un tipino che non si turba facilmente, come abbiamo avuto conferma in questi giorni, ovvero il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, ha definito l’assassinio di Khashoggi come «l’evento più influente del ventunesimo secolo, dopo le stragi dell’11 settembre 2001». Erdogan ma-

gari esagera e usa il delitto a fini politici interni, ma la questione è seria. Gli undici responsabili materiali di quell’assassinio sono formalmente sotto processo, a Riad, anche se del procedimento non si sa nulla, nemmeno se sia davvero iniziato, se non che, in caso di condanna, si concluderà con la pena di morte degli imputati. E figuriamoci se da quelle parti rinunciano a tagliare qualche altra testa. La cosa certa è che il principe ereditario del Regno, Mohammed bin Salman detto MBS, ha negato di aver ordinato l’omicidio, nonostante le inchieste giornalistiche e un rapporto dell’Onu sostengano il contrario e non siano mai state smentite dai fatti. MBS sembra però aver seguito tutte le regole del diritto perfetto, compreso un magnanimo risarcimento milionario ai figli della vittima, come da insegnamenti della penalista Viola Davis nella serie tv. L’Amministrazione Trump non si è occupata del giornalista ucciso, come

se l’omicidio di un editorialista del quotidiano della capitale organizzato da un capo di Stato straniero non la riguardasse. I trumpiani si sono limitati a ripetere la versione dell’alleato saudita. Il rapporto tra Trump e i Saud è più solido che mai, ben oltre la storica e tradizionale alleanza tra americani e sauditi, una conseguenza (a non pensare male) dalla decisione di riallineare su Riad l’asse geostrategico che Barack Obama aveva cercato di spostare verso l’Iran, ma anche della personale amicizia tra Kushner e lo stesso MBS. Kushner e MBS si incontreranno alla «Davos nel deserto» che si tiene in un’Arabia Saudita che, in queste settimane, ha condotto sui giornali occidentali una campagna globale di marketing per raccontare una fantomatica apertura delle rotte turistiche nel Golfo, ma che in realtà è servita soltanto a comprare influenza. Un anno fa, pochi giorni dopo l’omicidio del giornalista, le grandi cor-

poration e i grandi fondi americani avevano boicottato del tutto la conferenza nel deserto, senza mai smettere ovviamente di fare business con i sauditi. Quest’anno, invece, ci sono state meno rinunce, come se dodici mesi fa nel consolato di Istanbul non fosse successo niente. La scommessa di MBS è andata a buon fine, e non poteva andare diversamente visti gli interessi in gioco: il leader saudita sapeva perfettamente che Trump non avrebbe mosso un dito contro di lui, nemmeno per sbaglio e nonostante l’efferato omicidio di un fastidioso giornalista che svelava al mondo la realtà fittizia del suo programma riformatore pubblicizzato a suon di petrodollari. Kashoggi è stato assassinato, Trump imbarazza il suo Paese e meriterebbe l’impeachment anche per questo, mentre Mohammed bin Salman è riuscito a farla franca, getting away with murder. Noi non possiamo fare altro che ricordarlo.


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Politica e Economia

Chi vince e chi perde in Siria

Scenari Con il disimpegno Usa nel Kurdistan siriano, Mosca diventa nuovo arbitro della partita che si gioca

nella regione. I rischi non mancano, se si trasformerà in una guerra fra turchi e persiani (entrambi suoi alleati) Anna Zafesova I militari americani accolgono quelli russi a Manbij, gli mostrano le caserme che stanno lasciando e, citando le parole di un anonimo altolocato funzionario del Pentagono a «Newsweek», «li assistono nell’orientarsi rapidamente nelle zone più pericolose grazie alla loro lunga esperienza sul terreno». Un passaggio di consegne che ha un grande valore simbolico, impossibile fino a pochi giorni fa, e che spinge un coro di commentatori internazionali a consegnare a Vladimir Putin il titolo di nuovo padrone del grande gioco nel Medio Oriente. Nelle ore in cui i mezzi blindati con il tricolore russo occupavano le caserme e le strade presidiate finora dagli americani, il presidente russo è volato a Riad, nella prima visita in Arabia Saudita dopo 12 anni, a firmare contratti e protocolli di intenti con il suo concorrente strategico nel mercato petrolifero. E intanto Tayyip Recep Erdogan è stato invitato nei prossimi giorni a Mosca, dopo la visita ad Ankara del vicepresidente statunitense Mike Pence e del segretario di Stato Mike Pompeo, in un negoziato triangolato sui limiti dell’offensiva turca e, in un certo senso, sui nuovi confini di un nuovo pezzo di Medio Oriente. Un ribaltamento dello scenario sorprendente, che però è stato preparato in lunghi negoziati iniziati alme-

Soldato russo ad Aleppo in una foto del 2017. (Keystone)

no un anno fa. «Avevamo avvertito i curdi che gli americani li avrebbero scaricati», ha rivelato l’ambasciatore russo presso l’Unione Europea Vladi-

mir Chizhov all’agenzia Tass. Già nel novembre 2018 i curdi avevano aperto un canale di trattativa sia con il governo di Damasco che con i suoi pro-

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tettori russi, come hanno confermato esponenti americani, russi e curdi all’Associated Press. Una delegazione curda era volata a Mosca, dove era già presente una missione di altolocati esponenti della sicurezza turca, per discutere – a quanto pare senza esito – le dimensioni della «fascia di sicurezza» che i turchi avrebbero voluto creare lungo il confine siriano. La stessa delegazione di curdi, guidata da un leader delle milizie, si sarebbe poi spostata, secondo la stampa araba, a Damasco, per incontrare il capo dell’intelligence siriana e alti ranghi dei militari russi.

Questo ribaltamento di scenario è stato in realtà preparato a lungo e quando Trump ha annunciato il ritiro delle truppe dalla Siria i curdi sapevano già a quale porta bussare Questi incontri hanno avuto luogo ancora prima che, nel dicembre dello scorso anno, Donald Trump annunciasse l’intenzione di ritirare le sue truppe dalla Siria. In seguito, racconta il dirigente curdo Ilham Ahmed, a Mosca è stato proposto un piano di undici punti per negoziare con Damasco, che prevedeva un’autonomia curda in cambio del riconoscimento dell’integrità territoriale della Siria e dell’inclusione delle milizie nell’esercito di Assad. Una mossa che i curdi descrivono come una «polizza di assicurazione» contro i turchi dopo il ritiro degli americani, anche se ammettono che avrebbero preferito continuare a trattare con Washington, ma si sono resi conto che sarebbe stato «poco saggio» continuare a mettere tutte le uova nel paniere di Trump. Quando Trump ha annunciato, il 6 ottobre scorso, di ritirare le sue truppe dal nord-est della Siria, i curdi sapevano già a quale porta bussare. Il rappresentante speciale del Cremlino per la Siria Alexandr Lavrentiev nega un consenso preventivo di Mosca all’operazione lanciata da Erdogan, ma dal comunicato ufficiale sulla telefonata tra

il presidente turco e quello russo, la sera del 15 ottobre, non emerge né una sorpresa, né tanto meno una condanna di Putin. Il capo del Cremlino si limita a chiedere a Erdogan di stare attento alle conseguenze umanitarie e a non scontrarsi con le truppe siriane. La Russia occupa quindi il vuoto lasciato dagli Stati Uniti, e si pone come il broker principale del Medio Oriente, avendo un dialogo aperto – con vari gradi di partnership – con tutti gli attori principali, da Damasco ad Ankara a Teheran. E proprio questo multilateralismo contiene rischi impossibili da prevedere. Dal teatro degli scontri arrivano già notizie dei Sukhoi russi che hanno bloccato gli F-16 turchi, in una sorta di no-fly zone di fatto instaurata dai russi, e si parla di piccoli scontri tra militari russi e quelli di Ankara. Se anche esiste un accordo sulla spartizione delle sfere d’influenza – dove Mosca guadagna dal consolidamento del suo alleato di Damasco e dalla conquista di un ex alleato americano come i curdi – in caso di scontro diretto tra siriani e turchi Putin non potrà restare a guardare, e entrambi i partner russi, Assad ed Erdogan, non sono esattamente malleabili. L’Iran, l’altro sponsor della Siria, ha molti interessi opposti a quelli russi, e vede con sospetto il desiderio di Putin di avvicinarsi di più ai rivali religiosi, politici e petroliferi di Riad. Il politologo Alexey Malashenko, uno dei massimi esperti russi del mondo musulmano, parla della possibilità di una «guerra di tutti contro tutti» dagli esiti imprevedibili, dove il Cremlino spesso deve combattere «più per una presenza che per una vera influenza», e dove gli interessi sono spesso contrapposti. Mosca ha con la Turchia grossi commerci, progetti infrastrutturali, un turismo di massa e la vendita di armi, tra cui i famigerati missili antiaerei S-400. Assad, al contrario, è un buco nel bilancio del Cremlino, considerato finora necessario soltanto al fine di sfidare gli americani. Ma con la ritirata di Trump – che curiosamente viene dettata dalle stesse ragioni di consenso elettorale che nel 2015, dopo il fallimento dell’offensiva nel Donbass, hanno spinto Putin all’intervento militare in Siria – Mosca non solo occupa il vuoto lasciato dagli Stati Uniti, ma ne eredita anche tutti i dossier problematici, con molti meno mezzi militari, economici e politici.


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Politica e Economia

La pace con l’Eritrea vale un premio

Chi è Abiy Ahmed Al primo ministro etiope è stato conferito il Nobel per gli sforzi compiuti nella risoluzione

del conflitto fra Addis Abeba e Asmara e per le riforme intraprese in un contesto nazionale complesso Pietro Veronese Con il primo ministro etiopico Abiy Ahmed Ali, è la terza volta in sedici anni che un governante africano in carica riceve il premio Nobel per la pace. Nel 1993 toccò al sudafricano Frederik de Klerk – insieme a Nelson Mandela, all’epoca solo un candidato presidenziale; nel 2013 a Ellen Johnson Sirleaf, capo di Stato della Liberia. Infelice il continente, verrebbe da dire, che ha bisogno di tanti premi per la pace ai suoi leader. Ma i casi sono molto diversi, e il Sud Africa dei primi anni Novanta non ha proprio nulla a che vedere, nel bene e nel male, con l’Etiopia del secondo decennio del Ventesimo secolo. La Liberia è un paese relativamente piccolo, che conta tanti abitanti quanto la città di Roma e ancora sta curando le ferite della devastante guerra civile finita quindici anni or sono. Dal canto loro Sud Africa ed Etiopia sono due grandi Paesi, però difficilmente comparabili. Il primo ha la metà degli abitanti del secondo, ed è all’apparenza molto più ricco. All’apparenza, perché il suo Pil – notevolissimo in termini africani – nasconde un’estrema disuguaglianza sociale. L’Etiopia, eminentemente agricola (a differenza del Sud Africa), è una nazione povera eppure è oggi uno dei colossi africani. Non solo perché è in forte crescita economica, mentre il Sud Africa stagna. Con i suoi oltre cento milioni di abitanti, la cui età media è inferiore ai 18 anni, e un territorio che è tre volte e mezza quello dell’Italia, è una società traboccante di energia, proiettata verso l’avvenire. La sua collocazione geopolitica, incastonata al centro della vasta, complessa, fragile e turbolenta regione del Corno d’Africa, le conferisce un ruolo chiave che le potenze globali del pianeta sostengono, accudiscono, per non dire coccolano, come meglio possono. Tanto più che l’Etiopia non è affatto priva di tensioni e minacce anche gravi, tutte sostanzialmente riconducibili alla sua irrisolta questione nazionale. Se infatti il suo passato è glorioso, specie

negli anni in cui ha rappresentato una bandiera continentale contro l’aggressione coloniale italiana, il mosaico etnico che la compone resta un fattore di divisione interna che periodicamente – di nuovo anche in tempi molto recenti – esplode in crisi acute. Tutti i fattori brevemente elencati fin qui, tra loro combinati, concorrono a fare dell’Etiopia un protagonista della scena continentale. E la vitalità, il dinamismo, l’importanza, il grande passato, la grande cultura, le grandi opportunità combinate a un senso di strisciante incertezza che la caratterizzano, hanno trovato una incredibile sintesi nella personalità straordinaria del suo primo ministro, Abiy Ahmed Ali. Arrivato al potere un anno e mezzo fa, è a 43 anni il leader più giovane del Continente. È un Oromo, appartiene cioè all’etnia più popolosa d’Etiopia, eppure sempre esclusa dal potere. Al tempo stesso però la sua famiglia ha origini diverse – sua madre era un’Amhara – e anche fedi diverse, musulmano il padre, cristiana la madre. È come se Abiy Ahmed conciliasse in sé le diversità etniche e religiose, che con il suo percorso di studi egli si è preparato a risolvere sulla scena nazionale (è autore di una tesi di dottorato sulla soluzione dei conflitti religiosi). La sua relativa giovinezza lo dota di una vasta visione del futuro e fin dalle prime settimane del suo mandato ha varato una raffica di riforme che hanno fatto parlare di rivoluzione. Ha liberato i detenuti politici, abolito leggi liberticide, tolto il bavaglio ai media, favorito il ruolo della donna a ogni livello della vita politica. Dal punto di vista istituzionale e legislativo, l’Etiopia è oggi un Paese molto diverso da quello di inizio 2018. La sua iniziativa personale per dare conclusione al ventennale conflitto con l’Eritrea è ancora più impressionante e gli ha giustamente meritato il premio Nobel. La guerra, che a cavallo tra i due secoli fu combattuta in maniera totale e al costo spaventoso di decine di migliaia di morti, era ferma, come congelata, ma non risolta. La disputa territoriale che l’aveva originata restava insoluta,

Abiy Ahmed Ali, 43 anni, è il leader più giovane del Continente. (AFP)

i rapporti bilaterali erano a zero, le comunicazioni interrotte. Abiy Ahmed ha teso la mano, ha ritirato la rivendicazione etiopica sul territorio conteso – peraltro piccolo, e privo di qualsivoglia valore economico o strategico – e ha risolto in poche settimane un’amara questione ventennale. È volato ad Asmara, ha abbracciato il presidente eritreo Issaias Afewerki, e sulla sua scia i telefoni hanno ripreso a suonare tra i due Paesi, le frontiere si sono aperte, famiglie separate da una generazione hanno potuto riunirsi. Se oggi, un anno dopo gli accordi di pace, le cose non vanno bene come potrebbero – i posti di frontiera, ad esempio, sono nuovamente chiusi – la responsabilità è eritrea. Non a caso Afewerki appartiene alla generazione che quella guerra l’ha voluta, mentre Abiy Ahmed aveva all’epoca una ventina d’anni e l’ha subita. E mentre l’E-

tiopia ha conosciuto sotto la sua guida un’impetuosa liberalizzazione, l’Eritrea resta bloccata nella morsa di una dittatura cupa e ferrea. Nei pochi mesi del suo governo, il giovane premier ha fatto dell’Etiopia un fattore di pace anche nel più vasto ambito regionale. Ha avuto un ruolo personale diretto nella distensione con l’Egitto, da cui lo divide il contenzioso originato dalla costruzione della grande diga etiopica sul Nilo Azzurro; con l’Arabia Saudita, con Gibuti. È stato protagonista degli accordi tra le fazioni sudanesi (militari contro società civile) e tra i signori della guerra del Sud Sudan. Ecco perché Abiy Ahmed gode in patria, e anche sulla scena internazionale, di enorme popolarità. Il che non significa che non abbia problemi, o nemici: prova ne è stata l’attentato di cui

fu bersaglio nel giugno 2018 e al quale scampò fortunosamente. La vecchia guardia del regime odia le sue riforme liberali; o il fatto che abbia nominato ministro un numero di donne che non ha precedenti nella storia etiopica; o che abbia attivamente contribuito all’elezione da parte del Parlamento della prima donna presidente della Repubblica. Quanto ai suoi oppositori, alcuni sono stati sedotti dalla sua politica di apertura e di inclusione, e anche dal suo fascino personale, dal carisma. Altri viceversa vedono nelle opportunità che si sono aperte solo l’occasione di aprire nuovi livelli di scontro. Le sfide, insomma, non mancano. E in più regioni del suo vasto Paese le tensioni tra le diverse nazionalità restano alte. Il che non toglie che sia bello e infinitamente interessante, di questi tempi, essere cittadini della grande Etiopia.

Il Nobel che fa orrore

Bufera a Stoccolma L’attribuzione del prestigioso riconoscimento a Peter Handke riapre le ferite dalla Bosnia

Erzegovina al Kosovo per il sostegno dello scrittore austriaco al regime di Slobodan Miloševic Luisa Betti Dakli La decisione di assegnare il premio Nobel per la letteratura allo scrittore austriaco filo-serbo Peter Handke, non è andata giù alle Žene Srebrenice (Donne di Srebrenica), gruppo che raccoglie le madri, mogli, figlie e sorelle delle vittime del genocidio compiuto dai serbi nella guerra degli anni Novanta in ex Jugoslavia. «Un uomo che ha difeso i carnefici delle guerre balcaniche – ha detto Munira Subasic, presidente dell’associazione – non può ricevere un tale riconoscimento», ed è per questo che «invieremo una lettera ufficiale

al Comitato per il Nobel della letteratura chiedendo il ritiro del premio», in quanto si tratta di «un messaggio negativo per l’intera umanità». Una notizia, quella del Nobel, commentata dal «Times» con un giudizio negativo verso l’accademia svedese che così «si macchia di un disonore che non potrà mai più cancellare», mentre la scrittrice Jennifer Egan, presidente dell’associazione Usa per la libertà d’espressione Pen America, ha precisato di essere sconvolta «per la scelta di uno scrittore che ha usato in passato la sua posizione per minare la verità storica e offrire aiuto ai perpetratori del genoci-

Le madri di Srebrenica hanno condannato la decisione del Nobel ad Handke. (AFP)

dio». Giudizi negativi condivisi anche dal presidente kosovaro Hashim Thaci e dal primo ministro albanese Edi Rama, disgustati dalla notizia, nonché dall’ambasciatrice del Kosovo in Usa, Vlora Çitaku, che su Twitter ha commentato: «Sono scioccata, è uno schiaffo a tutte le vittime del regime di Miloševic». Una bufera che ha avuto come risultato anche una petizione su Change. org per revocare il premio, in linea con le Madri di Srebrenica, in quanto «una persona che difende un mostro come Miloševic – si legge nel testo della petizione – non merita di ricevere nemmeno il più semplice riconoscimento letterario, figuriamoci un Nobel». Handke è accusato di aver negato i crimini compiuti dai serbi e di essere un «apologeta del macellaio dei Balcani», Slobodan Milošević, che ha sostenuto fino alla fine andando ai suoi funerali nel 2006. Nel 1999 Handke aveva scritto sul «Guardian» di non credere affatto che i serbi avessero potuto uccidere migliaia di musulmani a Srebrenica, e nel suo libro A Journey to the Rivers: Justice for Serbia ha fatto di tutto per non dare credito all’omicidio di massa, offren-

dosi anche di testimoniare durante il processo per Milošević, morto mentre era detenuto a L’Aja in attesa di essere giudicato dal Tribunale penale internazionale per genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Nel massacro di Srebrenica del luglio 1995 furono trucidati 8372 musulmani di Bosnia dall’armata serba guidata dal generale Ratko Mladić. Insieme al gruppo paramilitare degli Scorpioni, l’esercito della Republika Srpska (VRS) entrò nella cittadina che era sotto assedio già da tre anni ma che era stata decretata nel ’93 «area protetta» dall’Onu e per questo sotto la protezione del contingente olandese dell’UNPROFOR. Violando la risoluzione 819 delle Nazioni Unite, i serbi entrarono e cominciarono a radunare e uccidere tutti i maschi tra i 15 e i 65 anni, dividendoli da donne, bambini e anziani: corpi che furono dispersi in fosse comuni, rendendo così difficile recupero e identificazione, e a cui si è risaliti solo grazie ai superstiti e ai documenti raccolti nei processi per i crimini di guerra. A Srebrenica e nei dintorni vennero deportati 23mila bosniaci e i caschi blu

olandesi, su pressione dei soldati serbi, costrinsero i rifugiati a lasciare la base protetta fuggendo nei boschi in quella che viene ricordata come «la marcia della morte», dato che vennero presi e decimati dalle esecuzioni. Una vergogna che costrinse il primo ministro olandese Wim Kok alle dimissioni nel 2002, dopo che vennero documentate le gravi mancanze commesse dalle unità olandesi nel gestire l’emergenza. Per questo massacro furono giudicate 70 persone accusate di crimini di guerra, di cui 20 dal Tribunale dell’Aja e 50 dal tribunale di Sarajevo, e 13 imputati furono condannati all’ergastolo, tra cui Ratko Mladić, generale della VRS, e Radovan Karadžić, presidente della Republika Srpska. Nel 2007 la Corte internazionale di giustizia stabilì che quello di Srebrenica fu un genocidio, in quanto commesso con lo scopo preciso di distruggere il gruppo etnico dei bosniaci: una decisione confermata nel 2017 dalla Corte dell’Aja che ritenne anche il governo olandese parzialmente responsabile della morte di 300 rifugiati, costretti da loro a lasciare la base, «privandoli così della possibilità di sopravvivere».


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Politica e Economia

La Svizzera perde competitività

Classifiche Rimane quinta su 141 paesi nell’analisi del WEF, ma potrebbe migliorare il sistema doganale,

incentivare le imprese a innovare e a correre qualche rischio in più, ridurre le regolamentazioni e i tempi per la creazione di imprese

Ignazio Bonoli Se lo scorso anno si poteva evidenziare che, per la prima volta dal 2009, la Svizzera non era più al primo posto della speciale graduatoria, allestita da ormai quarant’anni dal WEF di Ginevra sulla competitività internazionale, quest’anno il giudizio non solo viene confermato, ma peggiorato. Non si può quindi aggiungere, a mo’ di consolazione, che il risultato è dovuto al cambiamento di metodo dell’inchiesta. Ovviamente si può anche avere qualche perplessità sul metodo di indagine, che però ha il pregio di godere di 40 anni di esperienza, nonché quello di sottoporre tutti i paesi allo stesso trattamento. Il rapporto di quest’anno attira però l’attenzione anche per qualche altra particolarità. Infatti, se lo scorso anno la Svizzera era superata da Stati Uniti, Singapore e Germania, quest’anno è invece superata, nell’ordine, da Singapore, Stati Uniti, Hong Kong e Olanda. Dai primi posti è scomparsa la Germania (e lo si può capire considerando che i primi sintomi di rallentamento dell’economia erano già chiari lo scorso anno). Sorprende invece l’inserimento di Hong Kong, analizzata però prima dei moti di fine estate e d’autunno che ne hanno certamente compromesso la competitività. Sorprende anche l’inserimento dell’Olanda, la cui economia è molto legata a quella tedesca (come del resto la

Svizzera), mentre non sorprende più di quel tanto il sorpasso di Singapore sugli Stati Uniti. Ma probabilmente queste valutazioni potrebbero essere un indice delle debolezze di questo tipo d’indagine: i dati raccolti sono del mese di aprile e la maggior parte di essi si riferiscono al 2018 e in parte perfino al 2017. E nel 2017 la Svizzera era considerata il paese con il miglior grado di competitività al mondo. L’indice di quest’anno dà un peso maggiore alla forza innovativa e alla capacità di adeguarsi ai cambiamenti repentini della quarta rivoluzione industriale. Ma anche in questo caso bisogna analizzare i risultati con prudenza. Per esempio, proprio la Svizzera ha perso una posizione per 0,3 punti percentuali, il che di per sé non è molto significativo. Tanto più che la nostra economia deve la propria posizione, sempre fra le prime dieci al mondo, alla stabilità macro-economica, alla buona infrastruttura, al sistema sanitario e alle ottime possibilità di formazione, rimaste invariate. Il che non significa che, anche agli occhi del WEF, il nostro sistema non sia esente da pecche. Una di queste viene trovata in un sistema doganale molto complesso. Nella valutazione a punti viene classificata con 82,3 punti su 100. Il che significa che vi è parecchio spazio di miglioramento. Uno degli autori dello studio evidenzia però altri due campi in cui si dovrebbe migliorare: la dinami-

Il porto sul Reno a Basilea, porta d’entrata ed uscita per molte merci nel e dal nostro paese. (Keystone)

ca degli affari e l’apertura del mercato. A proposito della cultura imprenditoriale si nota anche una scarsa propensione ad assumere rischi, nonché un certo ritegno degli imprenditori di fronte a idee molto innovative. In queste categorie la Svizzera viene situata soltanto nelle posizioni 25 e 26. Potrebbe essere questo un sintomo della tradizionale prudenza degli Svizzeri, ma anche una conseguenza di un’eccessiva regolamentazio-

ne di tutte le attività, compresi i tempi molto lunghi per la fondazione di un’azienda. D’altro canto, anche gli ostacoli commerciali rallentano l’efficienza economica. Tutti fattori che, accanto al sistema doganale complesso, relegano la Svizzera, in questa categoria, all’ultimo posto dei 141 paesi presi in esame. Fra gli altri paesi più importanti, da notare la «caduta» della Germania al settimo posto. Il paese economicamen-

te più forte in Europa ha perso terreno in oltre la metà dei punti delle classifiche parziali. Debolezze particolari sono state riscontrate nella tecnologia dell’informazione e della comunicazione, che pongono la Germania perfino dietro i paesi baltici, la Russia e la Cina. Da migliorare sono anche la formazione e il perfezionamento delle forze di lavoro, nonché l’occupazione dei neoaccademici. Nel caso tedesco va però tenuto presente che le distanze dai migliori sono minime, ma le fluttuazioni abbastanza significative. Negli Stati Uniti, invece, la concorrenza interna e l’apertura verso il commercio mondiale sono sensibilmente peggiorate. La politica di Trump preoccupa per le decisioni protezionistiche e il peggioramento del sistema sanitario, nonché per le crescenti diseguaglianze fra la popolazione. Gli USA rimangono comunque un’economia trainante grazie alla dinamica delle imprese, alla forza innovativa e al potente sistema finanziario. Dall’indagine emerge anche una questione di fondo: perché la produttività mondiale non è aumentata di più negli ultimi dieci anni, nonostante la politica espansiva delle banche centrali? Questa ha certamente impedito una recessione, ma gli investimenti per migliorare la produttività sono mancati. Secondo il WEF sono necessari maggiori incentivi fiscali a ricerca e sviluppo, all’infrastruttura e alla formazione. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Il viaggio nel tempo La primavera dello scorso anno ho avuto l’occasione di salire con mia figlia, mio genero e mio nipote il Sacro Monte di Varese. L’abbiamo fatto chiaramente da turisti e non da pellegrini. A dir la verità quel giorno la maggior parte di quelli che salivano con noi erano turisti. La prima volta che avevo fatto questa ascensione, potevo avere dieci o dodici anni, l’avevo fatta da pellegrino, in compagnia di una zia che aveva un suo voto da mantenere. In quella visita di 70 anni fa ero rimasto impressionato dalle cappelle e dai loro soggetti. Mio nipote, invece, che stava facendo la salita più o meno all’età in cui l’avevo fatto io la prima volta, non si sentiva attirato molto dai soggetti della storia sacra. A lui interessavano di più le iscrizioni in latino che cercava di decifrare con le sue scarse conoscenze di quella lingua.

Convenimmo comunque che il Sacro Monte di Varese è un monumento importante e che certamente meritava l’iscrizione nel catalogo del patrimonio dell’umanità dell’Unesco. Come fanno molti turisti stranieri in Italia trovammo il tempo di deprecare che le autorità di quel paese non dedichino più attenzione ai loro monumenti e non si preoccupino di facilitarne l’accesso a chi viene da lontano. A differenza di 70 anni fa, quando i monti sacri erano destinazioni per i pellegrinaggi religiosi di credenti cattolici, oggi sono diventati, specialmente se iscritti nella lista dei monumenti dell’Unesco, itinerari turistici che attraggono persone da tutto il mondo e di tutte le religioni. Ma si tratta proprio di una differenza significativa? A sentire Valentin Groebner, un ricercatore austriaco che insegna storia

all’università di Lucerna, si tratta si di pubblici diversi ma, in fondo in fondo, della medesima forma di turismo: il turismo di chi coltiva interessi storici. Questo giudizio si estende non solo ai visitatori dei miei tempi da bambino, ma a tutti i visitatori dei monti sacri, a partire da quando sono stati costruiti, cioè tra il sedicesimo e il diciannovesimo secolo. Nel suo volume «Retroland», uscito lo scorso anno, Groebner descrive le esperienze dei pellegrini che visitarono i sacri monti cento, duecento o anche più secoli fa, esattamente come fossero quelle di un turista di oggi che vuole risalire nel tempo all’epoca i cui successero i fatti. All’inizio del Rinascimento, scrive Groebner, questo fenomeno di «retroattivazione» ossia di ricreazione del passato era molto diffuso. Ovviamente non tutti potevano

visitare i siti storici della Palestina per essere vicini ai luoghi della storia sacra. Ecco allora che imprenditori previdenti si dettero da fare per avvicinare questi siti alla possibile domanda costruendo per l’appunto i monti sacri. Il visitatore poteva così viaggiare migliaia di anni indietro nel tempo ed essere testimone diretto di quanto era avvenuto. Quando la copia era precisa, artisticamente pregevole e realizzata senza badare al dispendio di mezzi, essa permetteva addirittura di stabilire una relazione fisica con l’avvenimento storico che rappresentava. A Varallo, che è dei monti sacri del nord Italia quello più antico, il pellegrino poteva addirittura entrare nella cappella e quindi, di fatto mescolarsi con i protagonisti dell’episodio di storia sacra ivi rappresentato. Si poteva addirittura discutere,

a proposito di questo o quell’episodio della storia sacra, in quale dei monti era stato reso con maggiore autenticità. Tra turismo e storia, in questo caso la storia della riproduzione della storia della vita di Gesù o di qualche santo, esistono quindi relazioni importanti. Queste relazioni esistono per tutti i monumenti storici, afferma Groebner. A differenza di quanto molti di noi potrebbero credere non è così importante se il monumento da visitare sia o meno autentico. Il ponte di legno di Lucerna continua a restare il simbolo della Lucerna medievale anche se dal Medioevo ad oggi è stato distrutto e ricostruito diverse volte. Perché resti un’attrazione turistica occorre che il visitatore sia convinto che quello che vede sia una riproduzione autentica del monumento originale.

Tutto questo non può finire con un processo chiaramente politico, con condanne fino a tredici anni di carcere inflitte a uomini e donne (eletti dal popolo) che hanno già passato 600 giorni in cella, sollecitate da un partito di estrema destra, Vox, ammesso come parte civile prima ancora di essere rappresentato in Parlamento. Ma se si è arrivati a tanto, è perché i separatisti hanno sbagliato tutto quello che potevano sbagliare. Hanno pensato di poter trascinare con sé una buona metà di catalani che la secessione non la volevano. Hanno sorvolato sulla scoperta che la famiglia Pujol portava milioni di euro ad Andorra. Si sono illusi di approfittare della crisi economica e della debolezza dell’Europa per lacerare una delle più antiche nazioni del mondo. Hanno raccontato la favola di una Catalogna storicamente indipendente, mentre dal matrimonio di Ferdinando in poi la sua storia è intrecciata a quella del resto della Spagna: la corte era itinerante, ed è a Barcellona che Cristoforo Colombo annuncia ai re cattolici di aver raggiunto l’Oriente navigando verso Occidente. Soprattutto, i separatisti hanno

sottovaluto l’ostinazione spagnola. Non solo della destra, del re, dello Stato profondo; anche l’ostinazione dei socialisti estremegni e andalusi. Perché se la Catalogna se ne fosse andata, seguita un minuto dopo dai Paesi baschi, la Spagna avrebbe perso le sue regioni più ricche e aperte all’Europa, e sarebbe stata abbandonata a un futuro di arretratezza e isolamento. Invano lo scrittore catalano più importante, Javier Cercas, quello più letto nel mondo, Ildefonso Falcones, e il Nobel Mario Vargas Llosa – che ha raccontato di aver trascorso a Barcellona gli anni più felici della sua vita – si sono espressi in pubblico contro la secessione. La scintilla era già accesa. Le manganellate sferrate dalla Guardia Civil per impedire il referendum del primo ottobre 2017 – privo di valore legale – hanno fatto il resto. Le successive elezioni di dicembre hanno riconsegnato la maggioranza ai separatisti (sia pure non assoluta). E ora la sentenza di Madrid sparge sale sulla ferita. È chiaro che non si tratta di pene definitive, ma dell’ennesima mossa spregiudicata di una partita a scacchi che dura da troppo tempo. È evidente che se si avviasse un dialogo, se si trovasse

una soluzione, i «prigionieri politici» – come si definiscono – sarebbero salvati da un indulto. Ma la reazione vista ieri a Barcellona, con i disordini che hanno bloccato l’aeroporto, non lascia speranze per l’immediato. E ora i partiti faranno tutta la campagna per le quarte elezioni nazionali in quattro anni – in Spagna si vota fra meno di un mese – contro la frantumazione e per l’unità della patria comune. Il sogno catalano era essere l’avanguardia di Spagna. Così rischia di trasformarsi in un incubo di provincialismo, rancore, scontri di piazza, frustrazione. Un destino non degno di un piccolo grande popolo. E mentre Barcellona è in fiamme, si occupa l’aeroporto, i secessionisti attaccano con l’acido gli stessi poliziotti catalani additati come traditori, alla Moncloa, la sede del governo di Madrid, si discute di un altro fondamentale argomento: quale bandiera dovrà avvolgere il feretro di Franco? Quella del 1939, come vorrebbero i familiari, o quella attuale? Insomma, la Spagna non sa più chi è. Ed è un problema per tutti, visto che la Spagna è lo Stato più antico d’Europa.

mia è constatazione personale, cerco solo di mettermi nei panni di un turista che arriva da Casalpusterlengo o da Dagmersellen per la decantata Festa d’Autunno. Di certo trova cibo, bevande e altre offerte non tutte proprio legate a stagione e regione (velo pietoso su certe bancarelle da suk, purtroppo sempre presenti). Ma altrettanto di sicuro, quando lascerà la città e il Ticino, non avrà quasi nulla che gli farà ricordare – inutile parlare di incentivi a tornare – una festa che, anche se fatica a nominarli, si richiama al folclore, alle tradizioni, alla cultura popolare. Così tornando al posteggio del LAC ho provato a immaginare (eh, sì: i bastian contrari son peggio dei lupi, non perdono nemmeno il pelo...) qualche variante. Evito subito l’antico chiodo fisso di una festa diffusa in tutto il Ticino, programmata per un cantico al merlot e a chi lo produce. Penso a un mutamento logistico e privilegio il Lungolago, blindato per due o tre giorni da un SPM

(«Sa passa mia»), impreziosito lungo la parallela via Nassa e nelle piazze non da cantine/capannoni ma da itinerari tematici o proposte culturali. È vero, già da un paio d’anni c’è uno spazio dedicato ai patriziati (nell’atrio di Palazzo Civico, ma isolato, alquanto spento): potrebbe far da preludio a un futuro «Autunno a Lug’Amo», dedicato alle valli, ai monti e spinto magari sino all’«altra part dal lac», cioè a rivitalizzare Caprino. Dal tuffo nell’utopia riemergo con una domanda: possibile che l’idea dominante di queste feste sia sempre e soltanto un tornaconto immediato legato a turismo e commerci (molti dei quali, a guardar bene, finiscono anche per subire concorrenza...)? Ho parlato di Lugano, ma il discorso vale anche per rassegne e feste di altri centri, tutti alla ricerca di una «envergure» libera da legacci e condizionamenti mercantili (solo Mendrisio, quasi obbligato, ha iniziato ad agire). C’è un dato che più di altri dovrebbe

preoccupare chi si occupa di ospitalità: il turismo culturale rappresenta il 40% dei ricavi del turismo mondiale. Secondo gli esperti (Lucca negli stessi giorni ospitava un simposio su cultura e turismo) queste feste riavranno successo e continuità solo se riusciranno a interagire con la struttura sociale della città o della regione. Era la scintilla che, forse inconsciamente, nel secolo scorso «accendeva» le varie feste della vendemmia, delle camelie, dei rioni e delle corti ecc. ecc. , perché rispettava e favoriva il patrimonio culturale e i valori del territorio. Riusciremo a ritrovarla e a capire che non è più il tempo di ascoltare chi dice che con la cultura non si mangia? Ricordo una magnifica vignetta di Pat Byrnes: tre membri di una tribù ritratti in una caverna attorno a pezzetti di legno accatastati per terra; uno degli astanti sentenzia: «Il concetto c’è, ma senza investimenti non potremo farne niente». C’è la legna da ardere, manca la scintilla per accendere un fuoco...

In&outlet di Aldo Cazzullo La Spagna e la sua identità

Keystone

La sentenza che infligge decine di anni di carcere ai separatisti catalani scava un fossato forse incolmabile tra Madrid e Barcellona. E induce a pensare che il sogno catalano sia forse davvero finito per sempre. C’era una volta una meravigliosa piccola patria, che faceva da ponte tra la vecchia Spagna e la nuova Europa. L’ultima regione ad arrendersi a Franco nel 1939, e la prima a insorgere contro di lui al tramonto della dittatura. Dove l’Andreotti locale, Jordi Pujol, non abbracciava

i generali del regime; finiva in galera per aver cantato davanti a loro l’inno catalano. Una città in cui sono nati o si sono formati i più grandi artisti spagnoli del Novecento, dove Antoni Gaudì finiva sotto un tram inseguendo la visione di architetture moderniste, Pablo Picasso piangeva la morte dell’amico Casagemas suicida per amore, Joan Mirò tracciava l’ultima versione della Speranza di un condannato a morte mentre il Caudillo faceva garrotare l’ultimo anarchico, Salvador Puig Antich (Paolo VI implorò la grazia; Franco non gli venne neppure al telefono). Una terra che onorava il primo presidente ad aver proclamato l’indipendenza, Lluis Companys, con una tomba degna di re Artù, in mezzo a un lago, e gli dedicava lo stadio dell’Olimpiade del 1992, simbolo della rinascita. Una squadra di calcio che era più di una squadra di calcio, dall’impresa di Crujff che umilia con cinque gol il Real Madrid – la squadra del dittatore – a casa sua, all’adesione di Guardiola e Piquet alla causa catalana. E un’università dove venivano gli studenti di tutta Europa, per il mitico programma europeo «Erasmus», e finivano spesso per restarci.

Zig-Zag di Ovidio Biffi Per ora Cabbio batte Lugano 1-0 Ricordate la «Val da Mücc», salutata così cinque anni fa dalla consigliera federale Doris Leuthard giunta a premiarla come «Paesaggio dell’anno»? È tempo di ritornarci, non perché chi scrive è nato lì, ma perché l’associazione Amici di Cabbio ha avuto un’idea che suggerisce un discorso più ampio, tanto da arrivare a toccare anche la grande Lugano. Dal mese scorso Cabbio, ormai frazione del comune di Breggia, si è inventata un’attrazione a km zero: partendo da una rassegna permanente di opere artistiche realizzate con il legno in un comune del Trentino, con la complicità di abitanti e proprietari dei terreni o delle case, nonché con il sostegno dell’azienda forestale regionale del Lattecaldo, a Cabbio con pezzi di legna da ardere (lo sapevate che per i tagli migliori vanno seguite le fasi lunari?) hanno creato originali accatastamenti. Così, e fino a Natale, si può percorrere un itinerario con una trentina di «installazioni» lignee sparse

nel villaggio, sistemate come decorazioni esterne delle case o incastonate come «patchwork» di legno nei vani delle finestre. Niente di trascendentale, nessuna coda di visitatori; comunque una concreta espressione di estro professionale che, senza pretese, sfiora contenuti artistici. Festa d’Autunno a Lugano. Alla domenica, ultimo giorno, ho percorso via Nassa, dal LAC a Piazza Manzoni. Dappertutto campeggia, come sempre, l’impegno delle associazioni della città o del Luganese, da quelle sportive sino alle Ong che operano in campo sociale. Folla che entusiasma i titolisti dei giornali, ma nessun entusiasmo. Riandando alla semplicità del richiamo di Cabbio, mi chiedo se la rassegna non meriti di avere anche qualche contenuto che dia un’anima e faccia da traino a quanto il visitatore trova sparpagliato lungo la via Nassa e sulle due o tre piazze del centro. Non sto cavalcando il solito spirito da bastian contrario, la


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Idee e acquisti per la settimana

50 anni di Raccard

Prima il formaggio intero, poi la mezza forma, quindi il blocco e le fette: il caseificio della Migros, Mifroma, rifornisce tutte le filiali di formaggio da raclette. L’anniversario è l’occasione per raccogliere alcune interessanti informazioni

Foto e Styling: Veronika Studer

Testo: Claudia Schmidt Foto e styling: Veronika Studer

Raccard Nature ½ forma, ca. 2,5 kg, al chilo Fr. 21.–

Raccard Nature ca. 400 g, 10 fette, al chilo Fr. 23.–

Raccard Nature blocco maxi, al chilo Fr. 22.–

Raccard Nature blocco mini, al chilo Fr. 22.–


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Buono a sapersi

Concorso In occasione dell’anniversario Raccard mette in palio premi attrattivi. Partecipazione su raccard-win.ch Entro il 31 ottobre.

Gli esperti rispondono: Eliane Tinguely (58), assistente di direzione, Jean-Charles Michaud (57), responsabile acquisti, e Laura Oberson (30), responsabile prodotto presso Mifroma a Ursy, FR.

Il nome «Raccard» Jean Pasquier, fondatore e primo direttore di Mifroma, si è ispirato ai fienili di montagna appoggiati su basi di pietra, tipici delle alpi romande e chiamati «raccard», nei quali quello da raclette è il re dei formaggi.

Raccard Nature ¼ di forma, ca. 1,6 kg, al chilo Fr. 21.50

Raccard Nature ca. 800 g, 20 fette, al chilo Fr. 22.–

Un gusto in evoluzione La qualità del formaggio è stata costantemente migliorata e adattata al gusto dei consumatori: agli inizi degli anni Novanta è stato introdotta la varietà di Raccard «pepe», poi «paprica» e «aglio». A partire dal 2012, durante l’inverno si sono susseguite diverse edizioni speciali: chili, curry, timo limone, affumicato, con pimento di Espelette o con la miscela di spezie Gyros.

Il primo formaggio Raccard Negli anni 60 il formaggio da raclette era disponibile solo come forma intera, mezza forma o blocco da 750 grammi. Le forme di formaggio erano rotonde.

Le forme di formaggio quadrate Migros e Miforma hanno ideato la forma squadrata del Raccard per poter proporre formaggio da raclette in blocchi tra i 500 e i 750 grammi o addirittura a fette. In tal modo in ogni famiglia gustare il formaggio da raclette è diventato molto più semplice.

Mezza forma La mezza forma è adatta per gli appassionati della raclette dotati del tradizionale apparecchio per fondere il formaggio e in particolare durante le grandi feste in famiglia o le serate con gli amici. Sono poche le regioni in cui il prodotto è proposto sull’arco dell’intero anno. L’assortimento viene infatti costantemente adattato ai bisogni della clientela.

Resti di formaggio Poiché questo formaggio fonde molto bene, i resti di Raccard sono facili da riutilizzare e sono adatti per pietanze come rösti e pasta o per gratinare.

Qualità Tutte le forniture di Raccard vengono degustate da specialisti, che controllano il gusto e la qualità dei formaggi stagionati. Solo dopo questa verifica il formaggio può essere messo in vendita.

La crosta del formaggio Prima del taglio e del confezionamento le forme di Raccard vengono pulite, crosta compresa. In tal modo alla fine non resta che la crosta apprezzata dagli estimatori.


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Cultura e Spettacoli Il ritorno di Nick Cave Dopo la tragedia in cui è morto il figlio, il musicista australiano torna con un nuovo album

A Locarno con Manolo Valdès L’artista spagnolo è per la prima volta ospite in Svizzera grazie alla mostra a lui dedicata da Casa Rusca

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Sulla scena ticinese Ledwina Costantini ha portato in scena il suo Riccardo III, mentre Fescoggia si è raccontata

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Un’unione americana e tribolata

Incontro A colloquio con l’autrice

statunitense Tayari Jones, ospite del Festival delle Letterature di Roma

Blanche Greco La chiamano la nuova Toni Morrison, ma a lei che ha scritto solo quattro romanzi, la cosa per quanto la lusinghi non va giù, anche se Tayari Jones sente di avere ancora molto da dire e da raccontare a proposito dell’America e della vita di quelli come lei, da sempre americani «col prefisso»: gli «africanamerican», o «black-american» quelli per i quali «il sogno americano non è realizzabile con le stesse modalità in cui possono riuscirci tutti gli altri». Il titolo stesso del suo libro An American Marriage scelto dall’editore americano, all’inizio l’ha messa in imbarazzo perché per quanto fosse ovvio che vi si parlava di amore e di separazione, niente, neppure la copertina faceva capire che non era la storia di una coppia di «americani bianchi del Connecticut alle prese con un divorzio», bensì di innamorati travolti dalla passione, ma giocati dal destino proprio perché neri. «Quando si parla d’amore ci s’illude che basti questo sentimento ad appianare qualsiasi difficoltà e non è mai vero, ma di fronte a un reale sistema d’ingiustizie millenarie far sopravvivere un’intesa sentimentale e un matrimonio richiede la forza d’animo di individui eccezionali. Ma perché ad una giovane coppia nera non è permesso di essere semplicemente normale?» ci ha detto Tayari Jones, quarantotto anni, scrittrice statunitense ospite a Roma del Festival delle Letterature, che abbiamo incontrato alla presentazione di Un matrimonio Americano edito in Italia da Neri Pozza. «Credo che l’amore e il matrimonio siano due grandi incognite per tutti» – ha aggiunto Tayari Jones – «ma quando a queste si

aggiungono questioni razziali le cose si complicano». La storia di Celestial e Roy inizia all’università, ed è quasi un colpo di fulmine al quale, dopo un po’, segue il matrimonio tra la bella ragazza con spiccato talento artistico e di famiglia agiata, e l’affascinante giovane laureato che si fa largo nel mondo lavoro. Alla giovane coppia tutto sembra andare a gonfie vele e la città di Atlanta è lo scenario del loro amore e delle loro baruffe, ma anche lo scrigno dei loro sogni: un figlio, una casa tutta loro. Ma una notte, dopo aver trascorso la festa del Ringraziamento con i genitori di Roy in Louisiana, per una serie di casualità, lui viene accusato da una donna di un crimine che non ha commesso e immediatamente arrestato. È l’inizio di una inarrestabile catena di eventi che coinvolge le famiglie di entrambi, gli amici e tutto il loro mondo, ma soprattutto mette Celestial e Roy a confronto, ne mette a nudo il carattere e il modo di vedere la vita. Cosa deve fare una moglie nera quando il marito finisce in prigione? È giusto che essendo un’artista conduca la stessa vita professionale che aveva prima? E lui quanto può aspettarsi di venire tutelato e ascoltato in un Paese dove la maggior parte delle persone imprigionate sono nere? Roy e Celestial sono sposati da un anno e mezzo, ma possono sperare di tornare insieme, quando? «Volevo scrivere un romanzo dove uno dei protagonisti finisse in carcere e ho studiato la questione sotto vari aspetti anche legislativi durante più di un anno. Ma poi non riuscivo a trovare la storia giusta, a inventare quei personaggi che avrebbero dovuto confrontarsi con i problemi che avevo in mente. Un pomeriggio, in un centro commerciale di Atlanta, la mia

La scrittrice statunitense Tayari Jones. (Neri Pozza)

città, mi sono trovata casualmente accanto a una coppia nera impegnata in una discussione pacata e molto seria. Lui era ben vestito, ma lei era fantastica, bella ed elegante e stava dicendo: «Roy, tu sai bene che se fosse successo a me, non saresti mai rimasto ad aspettarmi per sette anni!» e lui le aveva risposto: «Ma che dici, tanto per incominciare tutto questo, a te, non sarebbe mai successo». E di colpo ho riconosciuto nei loro discorsi, la trama giusta per il mio romanzo che doveva svolgersi sul filo dell’ambiguità, in un continuo ping pong tra due visioni contrastanti, dove nessuno ha mai torto, o ragione, ma entrambi a turno ci conquistano con le loro affermazioni». Tayari Jones è una bella donna alta e formosa con un magnifico sorriso e mentre ci racconta tutto questo ci viene da pensare che è il suo viso, il suo sguardo combattivo e a tratti caustico e inquisitore che ci viene in mente leggendo le lettere di Celestial a Roy, perché nel libro il carcere è come un paese lontano e i due innamorati invece di

vedersi ogni tanto per una manciata di minuti, preferiscono scriversi. Prende corpo così nelle loro lettere una storia piena di flashback dove l’infelicità del presente si stempera in mille ricordi allegri e sereni. Celestial ha avuto una vita più facile di Roy, ma se le differenze li uniscono, il destino delle rispettive famiglie pesa su di loro ed emerge nitidamente anche il modo di pensare della società che li circonda e degli altri personaggi, come Andre, amico d’infanzia di Celestial e compagno di università di Roy, che li fece incontrare, ma che adesso per la sua presenza costante rende la vicenda un esplosivo triangolo sentimentale. «Roy è il primo della sua famiglia a essere andato all’università, ed è un uomo ambizioso e determinato» ci spiega Tayari Jones «Andre è un uomo più sicuro di sé, più moderno e aperto, dal fascino meno aggressivo, apprezza il lavoro di Celestial, e non teme la sua fama di artista. Roy e Andre hanno molto in comune, tuttavia Roy rappresenta quel tipo di ragazzo nero che tutta la vita ha sentito pesare su di sé le attese

della comunità come un sorta di riconoscimento della propria intelligenza e della propria prestanza anche fisica. Lui, che non è né bianco, né ricco, sapeva di venire considerato, come molti ragazzi neri, una sorta di promessa per il riscatto futuro della propria razza e questo era un viatico affettuoso che lo inorgogliva e che adesso lo opprime. Fuori dalla sua comunità nella società più ampia Roy sa di essere solo un qualsiasi ragazzo nero, anzi una possibile minaccia». Il romanzo di Tayari Jones è un affresco drammatico, pieno di sfumature sociali e psicologiche, una ragnatela sottile e tenace di emozioni e sentimenti che si dipana con semplicità, capace di tenerci avvinti e di toccarci nel profondo, qualità che ha determinato il grande successo di Un matrimonio americano anche negli Stati Uniti. Bibliografia

Tayari Jones, Un matrimonio americano, Milano, Neri Pozza, 2019.


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Cultura e Spettacoli

Il dolore in musica

Album Dopo la tragedia: Nick Cave torna alla ribalta con un disco straziante, più che mai pervaso

dalla presenza dolorosa, eppure salvifica, del figlio scomparso

Benedicta Froelich Come molti critici musicali hanno già avuto modo di rimarcare, nell’attuale panorama rock angloamericano sono ormai pochi gli artisti dalla carriera ultradecennale che possano accampare il merito di essere sempre rimasti stoicamente fedeli a una grande integrità artistica, e a una conseguente raffinatezza stilistica. E forse nessuno può reclamare tale privilegio quanto l’australiano Nick Cave, ormai da oltre un trentennio uno dei pochi in grado di coniugare vette di grande e poetica liricità a sonorità e arrangiamenti dalla forza cruda e spesso devastante – in una curiosa mistura che, se da un lato l’ha reso per certi versi un musicista «elitario», gli ha anche garantito un posto privilegiato nell’olimpo dei veri, grandi cantautori.

Nick Cave è sempre stato il maestro di una certa introspezione rock a tratti destabilizzante In linea con tale maestria, tre anni fa Cave ha commosso il pubblico mondiale dando alle stampe lo straziante Skeleton Tree, magistrale capolavoro di dolente bellezza, pubblicato poco dopo la morte improvvisa del figlio quindicenne Arthur. Una simile tragedia non poteva non avere forti ripercussioni sull’arte di un fuoriclasse come Nick; e difatti, l’ombra del giovane Arthur si allunga con ancor maggior forza e inquietante vigore su questo nuovo Ghosteen – stavolta addirittura un doppio album, strutturato in modo assai peculiare: laddove il primo dei due dischi segue infatti la tracklist più o meno

Nick Cave è nato a Warracknabeal, Australia, nel 1957. (Keystone)

convenzionale di un album di media lunghezza, il secondo CD è invece composto da soli due brani, legati tra loro da un interludio parlato. Del resto, per quanto Cave sia sempre stato il maestro assoluto dell’introspezione rock nella sua accezione più intensa e destabilizzante – contraddistinta da un’ossessività ipnotica, eppure, allo stesso tempo, spesso consolante e liberatoria – è innegabile come questa tendenza abbia raggiunto l’apice con gli ultimi due album, quasi la perdita devastante subìta lo abbia spinto a espandere il proprio sguardo avventurandosi in territori ancor più estremi. Tale

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amarezza avvolge l’ascoltatore fin dalla ballata d’apertura, l’onirica Spinning Song, la quale prende spunto dalla mitologia rock per poi tratteggiare un’impietosa istantanea dell’inevitabile caduta e declino che attendono ognuno di noi – il tutto rimarcando però come l’essenza dell’anima sopravviva infine a ogni tormento. E sebbene Ghosteen cominci a mostrare una certa ripetitività negli arrangiamenti (di fatto molto simili a quelli di Skeleton Tree), la forza espressiva e la vibrante potenza emotiva di ogni brano sono tali da spingere anche l’ascoltatore più distaccato a un’identificazione pressoché immedia-

ta, e all’immancabile commozione che ne deriva; una commozione acuita dal fatto che, come già avvenuto tre anni fa, anche quest’album vede Nick indugiare in un suggestivo e misurato recitativo, talmente evocativo e struggente da ammantare l’intero lavoro di profonda malinconia. Così, tracce come Bright Horses, Waiting for You e Galleon Ship sono pervase dalla sottile spiritualità che ha sempre ammantato ogni sforzo dell’artista, e che qui rivive nei frequenti, quasi criptici (eppure, per nulla pedanti) riferimenti non solo a Gesù, ma anche alla magica innocenza di cui

i bambini, qui considerati gli «eletti», sono pervasi; parallelamente, Nick trova anche la forza di intessere un inno all’innata sacralità di qualsiasi forma di amore e devozione, come nella struggente celebrazione della vicinanza coniugale che è la splendida Night Raid e, soprattutto, nella magnificenza dei quasi mistici Sun Forest e Hollywood. Ma più di ogni altro brano, lo straziante Ghosteen Speaks conferma come, inevitabilmente, il tema più caro a Nick sia ormai quello della perdita di ciò che più si ama, e della conseguente attesa di un futuro ricongiungimento – al punto da dare qui vita e voce al «ghosteen» del titolo, il cui nome si può tradurre sia come «piccolo fantasma», che come un gioco di parole tra «fantasma» e «adolescente»: «sono accanto a te, cercami / …sono dentro di te, come tu sei dentro di me». Del resto, la title track dell’album, che apre la seconda parte del disco, costituisce un’incredibile odissea nel ricordo stesso di chi non c’è più, e nella presenza dolorosa eppure salvifica del suo spirito indugiante: «e il passato, con la sua feroce risacca, non ci lascerà mai andare / non ti lascerà mai andare». Certo, l’intensità quasi eccessiva di quest’album, per taluni versi perfino più complesso di Skeleton Tree, sarà difficilmente apprezzabile da chi non sia abituato alle peculiarità dello stile di Cave; il che potrebbe portare alcuni a lamentare l’apparente «pesantezza» dei lavori più recenti dell’artista. Eppure, proprio qui sta la forza di questo Ghosteen, il cui fascino non risiede solo nelle atmosfere «otherworldly» e quasi gotiche, ma, soprattutto, nella travolgente forza emotiva, in grado di parlare a chiunque conosca non solo il sapore devastante della tragedia e della sconfitta, ma anche quello della gioia e potenziale rinascita che qualsiasi forma di sincero, vitale affetto porta con sé.

Caro dettato ti scrivo

La lingua batte Quando si va per sottrazione: a scuola i dettati

si fanno sempre meno spesso Laila Meroni Petrantoni Per le nostre sedi su tutto il territorio del Canton Ticino, cerchiamo

Gerente di filiale (posizione di Quadro aziendale)

Data d’inizio e tasso occupazionale – Da convenire Requisiti professionali – Formazione di Specialista del Commercio al dettaglio o superiore – Pluriennale esperienza in ruoli di gestione di negozi nella grande distribuzione – Approfondite conoscenze merceologiche nel ramo alimentari – Spiccate capacità organizzative, dinamismo, creatività e spirito d’iniziativa – Facilità nei rapporti interpersonali e capacità comunicativa anche in pubblico – Buone conoscenze di applicativi informatici specifici quali il pacchetto Office e SAP – Conoscenze della lingua tedesca e/o francese costituiranno titolo preferenziale Mansioni – Gestione e responsabilità di un negozio Migros sul territorio ticinese con particolare attenzione ad allestimento, esposizione e ambientazione – Raggiungimento degli obiettivi convenuti in riferimento a cifra d’affari e redditività – Gestione del personale con conduzione partecipativa, preparazione piani di lavoro, valutazioni, formazione e sviluppo «on the job» – Applicazione delle norme HACCP e delle disposizioni di sicurezza – Responsabilità merceologica di uno o più settori – Mantenimento dei contatti con i referenti della centrale amministrativa Flessibilità e disponibilità al cambiamento (anche legata a spostamenti sul territorio ticinese), sono fattori collegati alla funzione in oggetto. Le persone interessate sono invitate a compilare la loro candidatura in forma elettronica, collegandosi al sito www.migrosticino.ch (sezione «Lavora con noi»), includendo la scansione dei certificati d’uso.

Egregio Signor Dettato, scusi l’ardire, ma pur senza il suo esplicito consenso passo subito alla forma più amichevole, avendola da sempre nel cuore come uno fra i maestri (di vita) dalla sottoscritta più apprezzati. Con il massimo rispetto, mi permetto di ricominciare daccapo. Caro Dettato, ti scrivo come a un amico mai dimenticato, come non dimentico il campanello della ricreazione, le enormi scale che portavano alla mia IIIB, le pantofole malconce in attesa la notte fuori dall’aula, la lavagna che si cancellava con la spugna bagnata, e non premendo «Delete». Malgrado fossi un’allieva che si prendeva sempre maledettamente troppo sul serio, non ho mai avuto paura di te, come invece capitava a molti compagni di classe. Anzi, vivevo l’appuntamento del mercoledì mattina con il quaderno di italiano quasi come fosse un quiz: ero sempre curiosa di sapere quale strampalata parola ci avresti propinato, magari senza nemmeno capirne il significato. Caro Dettato, quante storie strane raccontavi, pur di metterci alla prova con «l’acquitrino» (attenti alla «cq»), «l’attaccapanni» (attenti alle tre doppie), e «l’ha preso» (attenti all’acca birichina e all’apostrofo che tutto si mangia). Sembrava quasi un gioco. Caro Dettato, ti ringrazio per esse-

re rimasto con me anche fuori dall’aula: perché ero così affamata di parole nuove da aver sviluppato una sorta di antennaacchiappavocabolo: fantasticavo su quel cartello, «PRIVATO», che teneva tutti lontano da quella porta; mi confondeva e incuriosiva quel «CHANGE» appiccicato a fianco di «CAMBIO» sull’insegna di quella tabaccheria… Caro Dettato, mi dicono che oggigiorno tanti bimbi nemmeno sanno chi sei. Mi dicono che per diversi docenti hai ormai fatto la muffa. Mi dicono che sei stato sostituito da testi che gli insegnanti forniscono qualche giorno prima da leggere e poi riscrivere in classe. Addio quiz. Mi dicono che altri han scelto formule nuove, come appendere il testo in corridoio, con i bimbi a fare

avanti e indietro dal banco per copiare le frasi correttamente. Che sia un modo per combattere la sedentarietà precoce? Caro Amico Dettato, non prendertela. Una cosa è certa: qualunque sia il metodo didattico – e l’ultimo, il più moderno, pare essere sempre il migliore – bene o male, linguisticamente parlando, si cresce tutti e si diventa adulti. Sento però la tua mancanza, caro Dettato, soprattutto quando scrivendo vengo assalita da subdoli dubbi lessicali o grammaticali, tarli che non l’avrebbero mai fatta franca quando frequentavo la scuola elementare e sillabavo le parole da spezzare per andare a capo senza far loro troppo del male. Tutte queste diavolerie elettroniche che oggi scrivono e correggono per noi, sostituendo la penna con una tastiera, a volte mi intontiscono. Con orrore mi chiedo: come è possibile? Lo chiamano «analfabetismo di ritorno». Caro Dettato, sai che risate se noi adulti, ammettendo di aver perso per strada molto di quanto appreso, ci sedessimo di nuovo all’amato banco di scuola, ormai troppo piccolo. Quel banco che saprebbe raccontarne tante, tutte le fatiche di quando eravamo in corsa ogni giorno per diventare grandi. E allora non sapevamo che il mestiere di imparare ci tornerebbe tanto utile anche oggi, quando ormai si è troppo cresciuti per quella sediolina.


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Cultura e Spettacoli

L’arte che reinventa l’arte

Mostre Al Museo Casa Rusca di Locarno una mostra sull’artista spagnolo Manolo Valdés

Alessia Brughera Trarre ispirazione dalla storia artistica del passato è prassi piuttosto comune nella contemporaneità. Selezionare, decontestualizzare e ricollocare motivi e visioni dei grandi maestri permette all’artista di oggi di instaurare un profondo legame con il fruitore delle sue opere partendo da un orizzonte culturale condiviso. Le immagini prelevate dal cospicuo patrimonio creativo dell’uomo e rivisitate in chiave inedita instaurano una connessione tra contesto nuovo e riferimento antico, in una sorta di azzeramento dei confini temporali che trascende l’idea di una storia dell’arte lineare e progressiva: «La possibilità di volgersi indietro», come sottolinea il critico Renato Barilli, «permette all’artista di ricominciare il viaggio, di compiere un altro giro riattraversando le tappe più conosciute», e così facendo di mostrare come vi sia un’inscindibile linea di congiunzione tra le diverse epoche. Tra coloro che hanno fatto della reinterpretazione dei modelli forniti dalla storia una delle caratteristiche principali del proprio linguaggio c’è Manolo Valdés, pittore e scultore valenciano attivo già dagli anni Sessanta e oggi, quasi ottuagenario, una delle figure più apprezzate nel panorama artistico internazionale. Per Valdés rielaborare dettagli dei dipinti di artisti antichi e moderni significa sfruttare l’eccezionalità del passato per portare l’attenzione sul presente, lasciarsi suggestionare dalla nobile tradizione per riuscire a sondare la realtà del proprio tempo. Nelle sue opere l’immagine conosce una nuova vita, uno spostamento di significato che la spinge dentro al momento attuale investendola di valori inediti. Sebbene l’artista sia affascinato da maestri, movimenti, stili e periodi differenti, si può distinguere una precisa traiettoria nel suo peregrinare alla ricerca di stimoli; un percorso che passa, in primis, dall’arte spagnola, quella dei grandi pittori del Siglo de Oro, Ribera, Zurbarán, Velázquez, così come quella di Goya, di Picasso e di alcuni degli

esponenti della corrente informale, tra cui Antonio Saura, Manolo Millares e Antoni Tàpies. A questi si accostano poi i giganti francesi, Matisse su tutti, e gli americani dell’Action Painting e della Pop Art, dunque Pollock, Lichtenstein e Rauschenberg. Reinventare i capolavori dei maestri dell’arte non è però impresa facile. Valdés la chiama sfida. Perché se da una parte l’attenzione dell’osservatore viene subito catturata dal piacere che scaturisce dal riconoscimento della fonte che ha ispirato l’opera, dall’altra il confronto con l’originale può reggere solo se il nuovo manufatto è in grado di trasmettere un proprio messaggio che supera la mera citazione. La sperimentazione a cui Valdés sottopone i soggetti classici è frutto di un approccio vivace e visionario. È in questo che il linguaggio dell’artista trova la sua peculiarità: Valdés ha come solido punto di partenza i modelli del passato ma è capace di attualizzarli in maniera totale nel senso e nel valore estetico. A testimonianza di questa attitudine che lo ha reso celebre sono gli oltre cinquanta lavori esposti nelle sale del Museo Casa Rusca di Locarno, in quella che è la prima mostra svizzera dedicata al maestro spagnolo. Tra dipinti e sculture il percorso raccoglie opere realizzate dalla metà degli anni Ottanta, quando per Valdés si è da poco concluso un capitolo importante della sua carriera, quello come esponente del gruppo Equipo Crónica, fino alla più recente produzione. Una serie di creazioni, questa, che si discosta in maniera evidente dagli esiti del periodo precedente, fortemente critici nei confronti della politica del regime franchista, e che allo stesso tempo rimane però a loro affine proprio nel costante dialogo con la storia dell’arte, con quei capolavori contemplati dall’artista centinaia di volte al Museo del Prado e nei più grandi musei newyorchesi, e rimasti scolpiti nella sua mente come pietre miliari da cui è impossibile prescindere. Dalle opere presenti a Locarno emerge anche l’altro aspetto che contraddistingue la ricerca di Valdés, ov-

Manolo Valdés, La Danza, 1987-88, Tecnica mista su tela di juta, 240 x 343 cm Collezione privata. (© Manolo Valdés – ProLitteris Zurigo / Foto Enrique Palacio)

vero lo studio della materia, la continua sperimentazione di modalità espressive nuove attraverso l’impiego di elementi inconsueti che potenziano la fisionomia tattile del risultato finale. La sua pittura si fa «sporca», corposa, imperfetta, con tele abitate da sostanze grezze e solide, spesso depositate sulla superficie sotto forma di accumulo. La sua scultura si fa inesausta indagine sulle potenzialità di materiali quali legno, alluminio, bronzo e resine, forte della libertà di procedere per addizione e di lasciare ben visibili i difetti della lavorazione. È così che su tele di juta lacere Valdés raffigura il San Filippo ispirato a un dipinto di Ribera e il Cristo crocifisso desunto da un quadro di Zurbarán, per conferire loro una maggiore drammaticità; nelle opere Retrato con rostro amarillo y azul, del 1999, e Dorothy sobre fondo gris, del 2010, effigia volti femminili combinando brandelli di tessuto grezzo cuciti grossolanamente tra loro e impasti sfilacciati di colore, a rendere volumetrici questi ritratti; ancora, nei lavori che chiamano in causa Matisse «como pretexto», unisce il pigmento a pezzi di legno e frammenti di specchio, creando una sorta di collage che fa dell’opera un oggetto pluridimensionale.

Sul fronte scultoreo, nelle esuberanti teste di donna (belle, in mostra, Ivy, datata 2013, e Mariposas, del 2015), la semplicità dei lineamenti del viso, desunta ancora da Matisse, fa da contraltare alla sofisticatezza dei copricapi, utilizzati come espediente per giocose sperimentazioni; nella lignea Reina Margherita e nella serie delle bronzee Reinas Marianas, poi, pur traendo ispirazione dalla tradizione, l’artista mostra tutta la contemporaneità del suo lavoro mettendo in evidenza buchi, giunture, crepe e scalfitture, pecche della materia che riconsegnano un’immagine più vicina all’uomo. L’arte di Valdés prende vita dal confronto diretto con un’idea di bellezza che ha conquistato la dimensione assoluta ma da questa si discosta nel farsi incarnazione del tempo presente, affidando quella stessa bellezza al turbine contemporaneo dell’imperfezione.

propone un incontro con lo studioso Piero Boitani

Giovanni Medolago

Muhammad Alì in un negozio di scarpe a Zurigo. (Eric Bachmann, Muhammad Alì, Zürich, 26.12.1971, Ed. Patrick Frey, 2014)

delle calzature adatte alla neve e allora Bachman lo accompagnò da un calzolaio che gli mise subito a disposizione degli scarponi. Da quell’esperienza Bachmann realizzò un libro che viene per così dire riassunto nella mostra attualmente in corso al Canvetto Luganese. Un’esposizione che presenta anche le immagini realizzate dal fotografo zurighese alla Casa Verdi di Milano; ben prima che il compianto regista Daniel

Forse più dei libri di storia o dei documenti (non ce ne vogliano gli storici), può la letteratura. Questa meravigliosa arte è capace, da che l’uomo pensa e scrive, e scrive i pensieri che ha pensato, di restituirci oltre agli stati d’animo, meravigliosi affreschi di epoche, imperdibili scorci di altre società, catapultandoci in pochi secondi in mondi diversi dal nostro, avanti e indietro nel tempo. Ed è proprio da questo valore, che la letteratura intrinsecamente custodisce, offrendolo al lettore, che parte la prossima conferenza organizzata dall’associazione «Nel – Fare arte nel nostro tempo» – che collabora con le istituzioni museali, e in particolare il MASI – nell’ambito del ciclo «Metamorfosi». La nostra società, che per molti aspetti è ormai globale, si trova confrontata con viaggi nuovi, non più proiettati nel tempo, ma in una dimensione inizialmente parallela, e ora sempre più invadente, rappresentata da scienza e tecnologia. Sorge dunque spontanea la domanda: «Come la letteratura interpreta le trasformazioni dell’uomo?». A darci una lettura del mondo in cui viviamo con l’ausilio dei classici, e forse la traccia di una possibile risposta, sarà il professore di letteratura italiana e inglese, nonché filologo, traduttore, critico letterario ed esperto di cultura classica e letteratura moderna Piero Boitani, che può vantare esperienze

Dove e quando

Manolo Valdés. Museo Casa Rusca, Locarno. A cura di Rudy Chiappini. Fino al 6 ottobre 2019. Orari: da ma a do 10.00-12.00/14.00-17.00, lu chiuso. www.museocasarusca.ch

Fotografia Al Canvetto Luganese una mostra celebra il fotoreporter svizzero Eric Bachmann

nobile arte – era come sempre concentratissimo in vista dell’incontro con il tedesco Jürgen Blin (che per la cronaca finì K.O. alla settima ripresa); ciononostante scoppiò la scintilla. Il più grande pugile della storia lo prese in simpatia e gli permise di seguirlo ovunque; nelle passeggiate-relax sulla Langstrasse in mezzo a folle plaudenti, nelle sedute in palestra o durante le corse nel bosco dell’Uetliberg. Alì non s’era portato

L’associazione Nel

Simona Sala

Gli scarponi di Muhammad Alì e il whisky di John Lennon Nel 1967 Cassius Clay stracciò la cartolina-precetto che lo chiamava sotto le armi, destinazione Vietnam. «Nessun vietcong mi ha mai chiamato sporco negro: perché dovrei farmi 8 mila km per andare a combatterli?» Per questa e altre affermazioni – come lo slogan «vola come una farfalla e pungi come un’ape», oppure «vorrei bere un caffè: mi sento un po’ troppo calmo» appena prima di salire sul ring per un match importante – era già soprannominato il labbro di Louisville, ma non era ancora diventato musulmano sufista. La conversione avvenne in carcere, grazie al suo mentore Malcolm X. Uscito di galera col nome di Muhammad Alì, e dopo una pausa agonistica durata oltre tre anni, il suo rientro sui ring europei – dopo un secondo esordio negli USA – era previsto il 26 dicembre 1971 all’Hallenstadion di Zurigo. Per acclimatarsi e rifinire la sua preparazione, Alì giunse sulle rive della Limmat alcune settimane prima dell’incontro. L’allora 31enne reporter Eric Bachmann, con giovanile entusiasmo, osò avvicinarlo. Alì, diventato nel frattempo un’icona – anche aldilà della

La letteratura per capire

Schmid portasse alla ribalta (Il bacio di Tosca, 1984) quel rifugio voluto dal grande Pepin di Busseto nel 1896, per garantire un tetto a musicisti, compositori e cantanti lirici che non avevano avuto la sua fortuna. Infine, un’altra sezione è dedicata ai ritratti, dietro i quali ci sono talvolta curiosi aneddoti («quella volta che a John Lennon fu sequestrata una bottiglia di whisky a Kloten!»). Il Canvetto Luganese e la Fondazione Diamante propongono un doveroso omaggio a Eric Bachmann, scomparso a 78 anni lo scorso febbraio. Un infaticabile reporter – ci ha lasciato oltre 200 mila negativi – pronto a balzare sul primo aereo pur d’essere presente ai funerali di Albert Schweitzer a Lambarené, e altresì dotato di un’empatia e d’una pazienza invidiabili quanto indispensabili per portare davanti al suo obiettivo personaggi schivi come Clint Eastwood o Igor Strawinsky. Dove e quando

Erich Bachmann, Lugano, Canvetto Luganese (Via Simen 14b). Orari: ma-sa 8.30-24.00. Fino al 2 novembre 2019. cultura.canvettoluganese.ch

Lo studioso di letteratura Piero Boitani nato a Roma nel 1947.

professionali di prestigio, maturate a Cambridge, Roma e all’USI. Insieme a lui e grazie alla sua esperienza, al pubblico sarà dato modo di riflettere sui cambiamenti del mondo e sui progressi della scienza, che «avanzano così rapidamente aprendo nuove frontiere fino a investire l’identità stessa dell’uomo e delle società, sistemi complessi che generano progresso ma anche sogni inquieti e timori». L’incontro aperto al pubblico prevede anche l’intervento di Raffaella Castagnola, Direttrice della Divisione della Cultura e degli Studi universitari del Cantone Ticino, e sarà introdotto e moderato da Stefano Vassere, Direttore delle Biblioteche Cantonali e docente di linguistica generale all’Università degli Studi di Milano. Dove e quando

Dal mito al post-umano. Come la letteratura interpreta le trasformazioni dell’uomo? Lugano, Biblioteca Cantonale, 22 ottobre 2019 (ore 18.00). Per info: info@associazione-nel.ch In collaborazione con


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Cultura e Spettacoli

Dalla tromba alla bacchetta Personaggi Andris Nelsons, uno dei migliori direttori al mondo, dirigerà stasera

e dopodomani a Lugano Musica la Gewandhaus di Lipsia e ci parla della sua carriera

Enrico Parola In queste stagioni Lugano Musica sta ospitando i migliori direttori e le migliori orchestre al mondo. L’anno scorso Petrenko, Haitink e Jansons, i Wiener e i Berliner Philharmoniker; a gennaio arriveranno Riccardo Muti e la Chicago Symphony, e proprio questa settimana Andris Nelsons e la Gewandhaus di Lipsia sono protagonisti di due concerti memorabili: stasera con la sinfonia Grande di Schubert, mercoledì 23 con la Scozzese di Mendelssohn. La Gewandhaus è una delle orchestre più antiche (fu fondata nel 1743) e prestigiose al mondo: Mendelssohn ne fu il direttore stabile per otto anni dal 1835, tra i suoi successori figurano Furtwängler, Walter e dal 2017 Nelsons; a sua volta il 41enne lettone è annoverato tra i migliori 4-5 direttori al mondo. Un riconoscimento che lo lascia indifferente: «Non dico che non abbia senso: la qualità e la bellezza sono sì soggettive, ma hanno una loro evidenza indiscutibile; i capolavori della musica sono riconosciuti da tutti, e così può essere degli interpreti. Però a me non interessa affermare me stesso, sarei il primo a non sopportarmi, figuriamoci gli orchestrali!». Si dice che il direttore debba essere un leader, Karajan sosteneva che gli unici due ambienti dove la democrazia non aiuta sono la musica e l’esercito: «Per me l’unico vero leader è il compositore: certo, noi sappiamo che l’autore aveva le idee ben precise quando segnava certe note sul pentagramma, ma proprio quelle note non ci dicono tutto, sono un suggerimento che deve spingerci oltre; è proprio su questo che si instaura il dialogo tra direttore e orchestra, si inizia insieme un viaggio verso la verità di una musica». Chi si immagina lunghe discussio-

È nato a Riga, in Lettonia, nel 1978. (andrisnelson.com)

ni è comunque fuori strada: «Se chi è sul podio parla troppo chi sta davanti al leggio finisce per non ascoltarlo, si annoia; l’abilità sta nel capire quando dare un’indicazione tecnica e quando suggerire un’immagine o un concetto: per eseguire in un modo convincente l’attacco della Quinta sinfonia di Beethoven non basta ordinare un “marcato”». Nelsons parla per l’esperienza accumulata non solo sul podio: «Per sette anni ho suonato la tromba nell’orchestra dell’Opera Nazionale Lettone, quando Mariss Jansons mi ha notato mentre ero nell’orchestra di Oslo». Nel concerto di mercoledì dirigerà Blumine, movimento espunto da Mahler dalla sua Prima sinfonia: «Un’opera a me cara: fu proprio suonandola e trovandomi avvolto da un mondo meraviglioso di timbri e colori creati dagli altri strumenti che capii che

solo l’orchestra sarebbe stata adeguata a esprimere compiutamente tutto quello che sentivo dentro». E pensare che la stessa motivazione lo aveva portato verso la tromba: «Da piccolo i miei genitori mi avevano avviato al pianoforte; quando ascoltai gli arrangiamenti dei gradi classici per ensemble di ottoni rimasi stregato dai suoni che si sprigionavano da trombe, tromboni e corni; iniziai a scrivere io stesso degli arrangiamenti e subito dopo decisi di suonarli». Ovviamente i crescenti impegni lo hanno allontanato dalla pratica: Nelsons è la guida stabile, oltre che della Gewandhaus, di un’altra orchestra a cinque stelle, la Boston Symphony, e il doppio incarico rende la sua agenda congestionata. «Però da un paio d’anni ho ripreso a suonare! Non so neanch’io dove trovo il tempo, ma so perché: Ha-

kan (Hardenberger, il massimo trombettista vivente, ndr.) mi ha regalato una sua tromba. Abbiamo suonato un po’ assieme e non potevo certo chiudere in un cassetto un regalo così speciale». Un regalo speciale sarà anche sentire Mendelssohn dall’orchestra che fu diretta da lui; e tanto la Scozzese quanto il Concerto di Schumann vennero eseguiti in prima assoluta proprio alla Gewandhaus: «È un sogno, più ancora che un privilegio, poter dirigere orchestre come Lipsia e Boston: in un mondo globalizzato ci sono ancora realtà che mantengono viva, cioè non museale ma dinamica e attuale, una lunga tradizione, permettendoci oggi di assaporare il gusto della Storia senza la percezione che sia un passato ormai lontano. Il linguaggio della musica è universale, ma il modo di parlarlo può variare e anche sensibilmente».

Donne e potere per uno Shakespeare fatto a pezzi

In scena A teatro con il Riccardo III di Opera retablO e per le strade di Fescoggia

per un appuntamento con il passato e con l’identità

sumono un respiro teatrale particolare grazie a una dolce musicalità romancia. Variante di una cruda alternanza di vita e morte, di bianco e nero in una giostra della foemina triumphans che, nonostante il rigore e la bravura degli interpreti con l’efficacia di costumi e scenografia (Caterina Foletti, Michele Tognetti), apre spazi di perplessità su una lettura a senso unico. Un retrogusto di privazione per l’assenza di una pennellata poetica nella logica di un teatro della crudeltà.

Giorgio Thoeni Nel Riccardo III di William Shakespeare, scopriamo che nella femminilità di Lady Anna si annida una sessualità sadomasochista, vittima delle sue ambizioni e del suo nudo narcisismo. Nel Macbeth, di rincalzo, la tragedia naviga nel mare dell’ambizione e della paura o, come la definiva Jan Kott in Shakespeare nostro contemporaneo, in una lotta per il potere e la corona di contagiati dalla morte. Attraverso l’incubo di questa Black Lady si cela la grandiosa metafora della storia mostrata come un meccanismo affascinante, minaccioso e irrevocabile nell’orrore delle sue fantasticherie. Nei capolavori del Bardo il ruolo della donna è senza dubbio controverso, da valenza poetica a tavolozza lugubre, diabolica e perversa. Pane per la visione di Ledwina Costantini nell’aggiungere un altro segmento alla sua geometria teatrale con l’affollato paesaggio onirico e simbolico di Lady Macbeth, recente produzione di Opera retablO al suo debutto sul palco del Teatro Sociale di Bellinzona con in scena, oltre alla regista e interprete, Daniele Bernardi e Piera Gianotti. Un teatro fatto di segni, di corporalità, dove la dimensione del gesto e della provocazione intellettuale si sommano in un discorso ambizioso, spesso criptico, sulla violenza del potere e il ruolo della donna nell’opera del dram-

Una comunità ricorda la sua storia Un momento di Riccardo III andato in scena al Teatro Sociale di Bellinzona.

maturgo elisabettiano. Da una grande scacchiera sghemba e inclinata si aprono botole da cui escono personaggi. Come un Fool figlio del diavolo che si compiace nell’allestire il banchetto che verrà consumato da un’avida regina, una grande e fatale abbuffata a base di frutta, verdura e corone biscottate: eros, thanatos e gastros nel confronto fra necessità e piacere. Un piccolo manichino (e uno grande), teste mozzate, sonorità inquietanti, urla lancinanti, risate sguaiate e corpi seminudi fanno da cornice al corteo di un Bardo smembrato, fatto a pezzi da un teatro fisico in cui rari momenti di parola registrata as-

L’idea giusta e una buona dose di entusiasmo possono trasformare la notte in una bella pagina di storia identitaria animando viuzze e piazzole di un paesino ticinese. Fescoggia, incantevole villaggio dell’Alto Malcantone ha trasformato il suo nucleo in un suggestivo palcoscenico a cielo aperto per Well, Come Home!, un progetto di Elena Morena Weber e Oliver Kühn, il racconto di un ritorno al paese dopo anni di assenza che si fa incontro con il passato attraverso la rievocazione di immagini e personaggi, compaesani divenuti famosi. Come Domenico Trezzini, l’architetto di Astano che progettò San Pietroburgo per lo zar Pietro il Grande. Come Filomena Ferrari, una contadina partita da Monteggio per diventare una delle prime donne imprenditrici. O come l’irrequieta e romantica dan-

zatrice ottocentesca Giacomina «Amina» Boschetti, ma anche Roqué Gastón Maspoli, nato a Montevideo e originario di Caslano, leggendario portiere della nazionale dell’Uruguay degli anni Cinquanta. Protagonisti mossi sulla falsariga della nostalgia di un passato da cui affiorano figure femminili: dalle vivaci beghine con i loro pettegolezzi a occasionali raccontatrici, donne di una comunità che difendono la loro identità dall’oblìo, fra le mura di un nucleo simbolo di una ruralità dalle solide tradizioni. Un’avventura malcantonese che, all’insegna del motto La vita è una lotteria, si conclude con una risottata alle castagne (cibo povero ma fondamentale) preparata per il pubblico (Lino Gut) nell’antico convento di Fescoggia trasformato in Sosta d’arte. L’iniziativa ha tenuto banco per alcuni fine settimana richiamando parecchio pubblico festante che ha reso omaggio alla moltitudine di personaggi, fra attori professionisti, amatoriali e comparse. Ci piacerebbe citarli tutti… vogliamo almeno a ricordare la simpatica guida di Oliver Kühn, l’Io narrante di Elena Morena Weber, l’intensa Ioana Butu, la leggiadra Camilla Parini, l’efficace monologo di Monica Muraca, l’officiante Matteo Oleggini, l’atletico Maximilian Friedel e, last but not least, la chitarra di un ispirato Sandro Schneebeli.

Percento culturale di Migros Ticino Concorso «Bellincanto» Sotto gli auspici della Società svizzera di pedagogia musicale si terrà dal 1. al 3 novembre 2019 a Bellinzona, all’Helvetic Music Institute di Via Molo 9A, il Concorso Internazionale di Canto Lirico Maria Amadini. Il concorso prende la sua denominazione dalla figura di una delle più importanti personalità musicali bellinzonesi, la mezzo-soprano che negli anni 50 e 60 si era esibita a fianco dei maggiori artisti internazionali, tra cui Maria Callas, e con i più importanti direttori d’orchestra. Il concorso prevede l’attribuzione di tre premi di 2000.–, 1500.– e 1000 franchi, assegnati da una giuria composta dal maestro Pietro Damiani, dalla soprano Maria Gessler, dal basso-baritono Giuseppe Cattaneo e dal pianista Maurizio Carnell. Direttore artistico del concorso il tenore Mauro Bonomi. Regolamento e iscrizioni sul sito www.hminstitute.ch/sspm. La serata finale con concerto pubblico è prevista domenica 3 novembre 2019, ore 20.30, al Teatro Sociale di Bellinzona. Prevendite su www.ticketcorner.ch Natalino Balasso a Locarno: biglietti in palio Al Teatro di Locarno il 23 e 24 ottobre, ore 20.30, andrà in scena lo spettacolo I due gemelli veneziani di Carlo Goldoni, nella rielaborazione moderna proposta da Natalino Balasso. Balasso, attore, comico e autore che si caratterizza per stile pungente e sarcastico, ha già affrontato l’autore veneziano interpretando in chiave attuale le Baruffe chiozzotte. Gli altri interpreti de I due gemelli saranno Jurij Ferrini, Francesco Gargiulo, Maria Rita Lo Destro, Federico Palumeri, Stefano Paradisi, Andrea Peron e Marta Zito. La regia è affidata a Jurij Ferrini, il quale ha commissionato a Balasso la riscrittura della commedia. La trama è nota e molto rappresentata in teatro: due fratelli identici che non si vedono da tanto tempo si ritrovano per caso a Verona prima del matrimonio e qui si confrontano con una serie di contrattempi e di colpi di scena che ostacolano le rispettive nozze. Naturalmente la versione di Balasso modifica molti degli elementi del racconto goldoniano e oltretutto ambienta la vicenda in un momento storico diversissimo da quello originale. I due fratelli diventano infatti un criminale in fuga dalle forze dell’ordine e un cantante in cerca di fortuna, i quali vivono negli anni 70 del secolo scorso. Il nuovo intreccio propone una serie di trovate sceniche e di scambi divertenti che chiamano di continuo in causa il pubblico presente.

«Azione» in collaborazione con il Percento culturale di Migros Ticino offre ai suoi lettori alcune coppie di biglietti per la serata del 24 ottobre al Teatro di Locarno. Per partecipare all’estrazione basta seguire le istruzioni contenute nella pagina web www.azione.ch/concorsi. Buona fortuna!


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 21 ottobre 2019 • N. 43

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Cultura e Spettacoli Rubriche

In fin della fiera di Bruno Gambarotta Quando il Torinese fa la spesa Il Torinese che fa la spesa. Per il Torinese fare la spesa è un’arte che s’impara dopo un lungo esercizio e non si delega a nessuno, tanto meno alla colf. La percentuale di clientela maschile cresce in proporzione al livello di lusso del negozio. Il ghiottone in giacca cravatta e ventiquattrore fa il suo ingresso nella Premiata Gastronomia, saluta famigliarmente padrone e commessi e nel locale si diffonde un’aura di festa, di beato abbandono al piacere di comprare squisitezze, lontani le mille miglia dalle spietate leggi dell’austerità. Questo sì che è un cliente! Gran signore, non domanda mai il prezzo delle merci, se ordina un etto di insalata russa o capricciosa, padrone e commessi sanno che possono scaricarne sul piatto della bilancia mezzo chilo abbondante: «Ce n’è un tantino di più, che faccio, lascio?» «Ma certo!» Il titolare della Premiata Gastronomia dispone di due sistemi per spingere un prodotto presso la clientela maschile. Il primo consiste nella collaudata tecnica dell’assaggio:

«Dottore, lei che se n’intende, senta questo San Daniele e mi dica se non è una meraviglia». Il forchettone che inalbera una bella fetta di prosciutto si protende al di là del bancone e il dottore, sotto lo sguardo invidioso della clientela ordinaria, afferra con due dita l’offerta e, cercando di non perdere l’aplomb, la stiva in bocca e inizia il processo di masticazione. Il titolare, pugni sui fianchi, spia le reazioni: «Eh, che ne dice? Non è fantastico?». «Beh, sì, effettivamente...» detto a bocca ancora mezza piena. «Gliene taglio un paio di etti prima che finisca, così lo assaggiano anche in famiglia?». Così il dottore, al quale la moglie aveva detto, uscendo: «Mi raccomando, se passi in gastronomia, compra quello che vuoi ma non il prosciutto perché ne abbiamo ancora il frigo mezzo pieno», tornerà a casa con un altro mezzo chilo di San Daniele. L’altro sistema per spingere all’acquisto la clientela maschile consiste nell’andare a prendere la merce da proporre nel retrobottega: «Voglio farle vedere

qualcosa di veramente unico, roba da medaglia d’oro al Salone del Gusto. La tengo di là perché ce n’è poca e voglio riservarla alla clientela di riguardo, a quelli che sono in grado di apprezzarla». Funziona sempre. Il cliente uomo esce dalla Premiata Gastronomia reggendo col mignolo i suoi pacchettini legati con lo spago rosso. La donna invece si fa portare la spesa a casa. Per l’uomo tutte le ore sono buone per fare acquisti, per la donna mai prima delle undici e mai di pomeriggio, l’ora ideale essendo tra mezzogiorno e la mezza, quando sembra che si siano date convegno tutte quante; lì si ritrovano antiche compagne di scuola, si rievocano i vecchi tempi, il ballo delle debuttanti al circolo ufficiali nel ’69, mentre il commesso paziente attende le ordinazioni. L’uomo predilige i piatti elaborati, composti da più strati sovrapposti, dove c’è di tutto, dalle ostriche al cinghiale, comprese uova di quaglia e kiwi. La donna compra le verdure bollite, le palline di spinaci cotti,

le cipolle al forno; l’uomo non capisce che gusto ci sia ad andare in gastronomia per comprare zucchine, finocchi o carote bollite perché ignorano quanto tempo porta via il lavoro di pulitura delle verdure. È fondamentale per l’uomo e la donna torinesi che vanno a fare la spesa, sentirsi trattati come amici, confidenti e potersi vantare di ricevere un trattamento privilegiato. C’è in città una pasticceria rinomata per la bontà delle piccolissime e per la ruvida accoglienza della padrona. Ebbene, tutti coloro che vanno in quel locale a rifornirsi di dolci si vantano: «Però con me la padrona è gentile». Per ogni tipologia di prodotto di alta gastronomia, a Torino ci sono almeno due empori che vantano l’eccellenza, il numero minimo perché si inneschino interminabili e bizantine discussioni sulla supremazia dell’uno o dell’altro. Ci sono poi i negozi di cibi alternativi, i cosiddetti macrobiotici. Frequentati da donne che indossano lunghe casacche sformate, i capelli legati a coda di caval-

lo, con i commessi che calzano sandali da frate, questi empori sono immersi in un’atmosfera rarefatta, da acquario. Tutti si muovono al rallentatore e parlano sottovoce. La parola magica è «biologico», meglio ancora «biodinamico». Ogni acquisto è preceduto da un conciliabolo fra la cliente e il commesso sullo stato di avanzamento della signora nella pratica della dottrina bio per godere di tutte le infinite virtù della lenticchia decorticata. Nella mia personale classifica vengono per primi i macellai. Ricordo ancora quello della mia infanzia. A novembre partecipava alle aste per aggiudicarsi gli animali migliori. Mi fermavo incantato davanti alla sua vetrina, dove trionfava la testa di un bue con un foro in mezzo alla fronte e in testa una corona di alloro. L’insegnante di italiano parlava dei «poeti laureati» e io li immaginavo con la corona in testa e un buco in mezzo alla fronte, la giusta punizione per aver scritto opere che eravamo costretti a studiare.

che sorridevi sorniona, di fronte a certi fenomeni sociali o politici, o della vita di tutti i giorni, e ti era concessa la leggerezza di chi ha davvero capito quali sono le cose importanti della vita. Quando ha saputo che non c’eri più, qualcuno ha detto di te che eri una persona «donativa». Un aggettivo che sicuramente ti avrebbe fatto sorridere, ma che si può solo condividere. Quante volte dalla redazione ti giungeva una telefonata tardiva, con la richiesta di un pezzo entro poche ore, e invece di sbuffare, scioglievi le briglie del tuo brillante pensiero e mentre ancora si parlava al telefono, già costruivi uno dei tuoi complessi ragionamenti? Il pezzo arrivava puntuale, con un messaggio spiritoso, con un bacio volante. Amavi l’amore in quanto tale, e per questo l’hai sondato per una vita intera, immergendotici in profondità in Quattro modi dell’amore (Laterza, 2012), dove hai cercato di catalogarlo.

Ma anche dedicando anni di studio a sant’Agostino, di cui eri una delle massime esperte d’Italia (Introduzione a Agostino, Laterza, 2008 e curatela delle Confessioni, Einaudi, 2008). Per una curiosa come te però, ci voleva di più, perché trovavi il mondo troppo ricco e bello per non vivere giorno dopo giorno animata dal desiderio di studiarlo. Per questo ti sei occupata anche della bugia (Breve storia della bugia. Da Ulisse a Pinocchio, 2001), e hai lavorato a lungo sull’iconoclastia, esprimendoti sia su questo giornale sia nei due libri Contro le immagini (Laterza, 2006) e Distruggere il passato (Cortina, 2016). Oltre alle «Postille» quest’estate avevi dato vita alla serie di brevi interventi «Cosa mi metto?», dove volevi passare in rassegna quegli oggetti che fanno gola a noi donne e proprio per questo ci rendono ancora più donne. Raccontando la storia di ventagli e borsette, sei riuscita ancora una volta a dare una

spruzzata di colore alla nostra quotidianità. Il tuo pensiero era sempre così fresco da riuscire, con i suoi percorsi inattesi, a rispolverare idee vecchie o forse impensabili, e a dare valore alle frivolezze che alleggeriscono la vita. Cara Maria, purtroppo il 13 ottobre sei partita. C’è una cosa che ci renderà più lieve la tua assenza, ed è la possibilità di poterti leggere ogni volta che vorremo, ripercorrendo guidati da te la storia dell’uomo, la celebrazione della vita e la grandezza di pensiero di chi ha grandi pensieri. E per una volta saremo noi a immaginare te, e ti vogliamo pensare da qualche parte, forse lassù, con uno dei tuoi amati fiori tra i capelli, immersa in animate conversazioni con antichi filosofi barbuti e grandi personaggi religiosi. Siamo sicuri che sapresti tenere testa con grazia a tutti loro, e siamo orgogliosi e grati di averti conosciuta. Ciao, Maria

Matteotti. E tuttavia nessuno potrebbe mai obiettare qualcosa sul valore del drammaturgo e del narratore. Nel 1964 Jean-Paul Sartre (4+) ebbe il riconoscimento svedese (che rifiutò), benché avesse diversi scheletri nell’armadio, compreso l’appoggio allo stalinismo. Dichiarò tra l’altro: «in Unione Sovietica vige la più totale libertà di critica» e «la rivoluzione di Tito è la mia filosofia realizzata». Anni dopo, nel 1982, il Nobel fu assegnato a Gabriel García Márquez (5½), che era stato il più ostinato promotore e difensore di Fidel Castro anche quando Castro era ormai indifendibile persino dai marxisti ortodossi. Nel 1968 Márquez aveva rifiutato di firmare l’appello per la scarcerazione del poeta cubano dissidente Herberto Padilla che avevano firmato i maggiori intellettuali, e non solo il conservatore Vargas Llosa ma anche quelli di fede comunista come Moravia e Sartre. L’anno prima era uscito il suo romanzo più giustamente acclamato: Cent’anni di solitudine. Un libro che

sconvolse i parametri della letteratura non solo latino-americana. Nel 1999 il socialista Günter Grass (4½) ottenne il Nobel con la motivazione che «le sue giocose fiabe ritraggono la faccia dimenticata della storia». Peccato che tra le facce dimenticate della sua storia c’era anche il giovanile arruolamento nel corpo militare nazista, rivelato dallo scrittore quasi ottantenne nel 2006. Ciò non toglie l’incanto e l’originalità di un romanzo come Il tamburo di latta. Chissà se, qualora l’avessero saputo, gli accademici di Svezia avrebbero evitato di assegnargli il prestigioso riconoscimento. Del giullare anarchico Dario Fo (5), invece, tutti conoscevano, anche a Stoccolma, il passato in camicia nera nella Repubblica Sociale: lo aveva ammesso lui stesso. Anche Fo, come Grass, a quel tempo aveva diciassette anni, ma molti loro coetanei, pur giovanissimi, avevano sposato la Resistenza. Ultimo premio Nobel della letteratura, Peter Handke (5+), è un grande scrittore che pronunciò una

difesa del carnefice serbo Slobodan Milosevic. Si potrebbe continuare con innumerevoli altri esempi di giganteschi scrittori, filosofi, artisti che si sono macchiati di decisioni spregevoli, di gesti indegni, di affermazioni vergognose, di comportamenti inqualificabili. Piaccia o no, molti artisti geniali spesso rivelano impensabili bassezze morali, private e/o politiche, a volte persino risvolti criminali. Guardando la Vocazione di san Matteo, chi si ricorda che Caravaggio fu un assassino? Piaccia o no, la biografia, di fronte ai capolavori, alla lunga rischia di ridursi a pettegolezzo. Poi però, ogni volta che si è tentati di dividere i due aspetti (estetica di qua, etica di là), viene in mente l’ultimo insegnamento e invito di Cesare Segre (6+ al grande maestro che ammirò su tutti Primo Levi): «riconoscere, tra gli elementi che fanno l’eccellenza di uno scrittore, anche la luce che le sue opere portano alla comprensione e alla futura soluzione dei problemi morali».

Postille filosofiche di Simona Sala per Maria Bettetini La pensatrice con il sorriso Cara Maria, invece di queste mie parole, anche oggi, dopo oltre quindici anni, doveva apparire una tua «Postilla filosofica», uno di quei piccoli involucri in cui avevi l’ardire e la competenza di mescolare sacro e profano. O meglio, vita di tutti i giorni (anche le tue esperienze raccontavi, perché non potevi vivere senza riflettere) condita con la conoscenza profonda del pensiero dei grandi del mondo classico. Arrivavi così a titolare i tuoi interventi Amleto on the Beach o Piove, Aristotele ladro. Oppure ci prendevi per mano trascinandoci in fantasiosi universi in cui i nostri compagni di viaggio erano i grandi filosofi, di volta in volta immersi in una location diversa: se eravamo partiti in vacanza con Platone, l’avremmo visto «attento a trovare l’immagine delle idee eterne che ha davanti, il Grand Canyon o il bed&breakfast»; se invece avessimo festeggiato filosoficamente

il Natale, avremmo incontrato Socrate che «ha smesso di chiedere ai presenti di indagare sulla loro interiorità, e ora indaga solo sul suo pacchetto infiocchettato». Ma conoscenza, ironia e allegra irriverenza non erano i soli tratti che ti contraddistinguevano, e l’hai dimostrato a tutti i lettori con il tuo ultimo contributo a questo giornale, che tanto amavi (ti ricongiungeva alle tue lontane radici ticinesi, tu, milanese doc). Ne Il Sud che era di tutti (apparso su «Azione» il 7 ottobre) riferendoti al Meridione del XIII secolo raccontavi come «In questa bella atmosfera il sud Italia non cacciava nessuno, chiedeva a tutti una collaborazione nelle arti, nelle guerre, nella politica», lanciando uno di quei tuoi messaggi di apertura e di tolleranza, di persona libera dal pregiudizio, che raccontavano della tua profonda apertura verso il prossimo. Eri armata della consapevolezza che la storia si ripete, ed era forse per questo

Voti d’aria di Paolo Di Stefano Quanti ignobili Nobel Dunque, ricapitoliamo in ordine sparso. Louis-Ferdinand Céline era un antisemita, avendo scritto, tra l’altro, alcuni libelli decisamente razzisti e filonazisti: Bagatelle per un massacro (1937), La scuola dei cadaveri (1938) e La bella rogna (1941). Fatto sta che è anche autore indiscusso di diversi capolavori, tant’è vero che persino il critico marxista (ed ebreo) Cesare Cases (grandissimo: 5½) scrisse che Céline «dal fondo dell’immondizia ha capito l’essenziale». Pensava probabilmente a romanzi come Viaggio al termine della notte e Morte a credito, ma forse anche alla Trilogia del Nord (pubblicata in Italia dall’editore più antifascista che si possa immaginare, e cioè Einaudi). Ezra Pound è uno dei maggiori poeti del Novecento, un maestro del modernismo: Hemingway (5+) lo ammirò al punto da prevedere che la sua poesia «durerà finché esisterà la letteratura». Eppure, Pound, che si era adoperato per aiutare Joyce e Eliot, fu un ammiratore di Mussolini e di Hitler; in Italia

dal 1924, sostenne il fascismo fino alla caduta della Repubblica di Salò e per questo fu processato per tradimento in America, dove fu detenuto in un manicomio giudiziario, prima di tornare in Italia. Né Céline (6–) né Pound (5½) ebbero il Nobel, ma l’avrebbero meritato più di altri. La loro appartenenza politica, però, era troppo esplicita per essere ignorata da un premio che si propone di riconoscere scrittori che si siano distinti «in una direzione ideale» mettendo l’arte al servizio del «massimo beneficio per l’umanità» e della «fraternità delle nazioni». Dunque, niente Céline e niente Pound. Del resto, lo stesso sarebbe accaduto a Jorge Luis Borges, perché gli si rimproverava di avere avuto frequentazioni dirette con i due dittatori Pinochet e Videla. Ma quanti ignobili Nobel. Luigi Pirandello (6–), che nel 1934 fu insignito dall’Accademia di Stoccolma, aveva già apertamente espresso il suo alato elogio a Mussolini («non trova paragoni nella storia») ben dopo l’omicidio di


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