Azione 46 del 13 novembre 2023

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Anno LXXXVI 13 novembre 2023

Cooperativa Migros Ticino

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura

edizione

46

MONDO MIGROS

Pagine 4 – 5 ●

SOCIETÀ

TEMPO LIBERO

ATTUALITÀ

CULTURA

La Pro Verzasca per i suoi 90 anni ha inaugurato il Sentiero della lana e guarda a un futuro Polo Alpino

Le gare di Endurance, nel kart, esistono da circa una ventina d’anni: ce ne parla Daniel Manetti

«Tour de Suisse» della politica d’asilo elvetica dopo la visita a Chiasso di Baume‑Schneider

All’Aargauer Kunsthaus James Baldwin e altri quaranta artisti riflettono sul tema del razzismo

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Il solare piace e fa spazio ai giovani

Loris Fedele

Tutti senz’auto propria fra pochi anni? Carlo Silini

1986, prima liceo. Il professore di francese, un ti‑ zio dal pensiero laterale molto sviluppato, impar‑ tisce alla mia classe una lezione di futuro. «Im‑ parate a scrivere a macchina» sentenzia, «perché nel giro di pochi anni nessuno lo farà più a ma‑ no». Si riferiva alle macchine per scrivere mec‑ caniche e non ai PC – che già esistevano ma era‑ no roba difficile da usare e ingombrante – né agli smartphone o ai tablet, ancora di là da venire. Esagerato, pensammo in tanti, abituati ai qua‑ derni a quadretti e alle penne biro, oltre che per nulla propensi a sprecare risorse finanziarie per acquistare un oggetto da ufficio aziendale, non da tinello di casa. Nel giro di un paio di decenni la sua previsio‑ ne viene ampiamente superata dai fatti. Il futu‑ ro arriva proprio così, molto prima di quando e come lo immaginiamo. Abbiamo iniziato a spe‑ dire cartoline dalle vacanze e lettere d’amore in

busta profumata e oggi dettiamo messaggi vo‑ cali e filmiamo video selfie senza che una lette‑ ra dell’alfabeto venga scritta a mano o un segno grafico – che non sia una faccina preconfezionata (un emoji) – venga tracciato su un foglio di carta. Così, quando leggiamo (nell’articolo di Alber‑ to Cucchi a pag. 7) che, tempo qualche anno, e nessuno di noi avrà un’automobile propria, ma esisteranno solo mezzi di locomozione condivisi che si guideranno da soli, ci tocca sopprimere l’i‑ stinto primordiale che spinge a pensare, di nuo‑ vo: ma sarà vero? Il rischio è di venire smentiti dai fatti ancora una volta. Certo, di argomenti a favore di questa prospettiva ce ne sono a bizzef‑ fe: «Abbiamo un numero elevato di auto private utilizzate molto poco», spiega un esperto al no‑ stro collaboratore. «In un mondo che deve dive‑ nire sempre più sostenibile questo è l’aspetto più difficile da accettare. Quindi in futuro avremo

un numero minore di veicoli, ciascuno dei quali avrà un contenuto tecnologico molto più elevato e saranno usati sostanzialmente in condivisione». La previsione appare quindi corretta, ideale e la‑ palissiana. Se non fosse che il futuro non si af‑ ferma quasi mai per rigore logico, razionalità scientifica e premura etica. Da molti anni, per esempio, si predica l’ineluttabile estinzione dei libri e dei prodotti editoriali di carta. A sentire i futurologi di dieci/quindici anni fa, oggi dovreb‑ bero essere oggetti museali, da visitare in comiti‑ va con le scolaresche per spiegare che «sì, bambi‑ ni, sembra incredibile, ma fino a poco tempo fa, la gente leggeva su quei così lì, polverosi e pesan‑ ti». Invece, e per fortuna, il mercato cartaceo re‑ siste alle più tetre previsioni di morte. Sarà anche più scomodo e costoso della lettura su supporti virtuali, ma maneggiare un libro (o sfogliare un giornale come quello che avete tra le mani) sod‑

disfa un bisogno che sembra iscritto nella nostra natura primaria di animali umani: siamo fatti di carne e ci piace la matericità delle cose. Perciò non sono così sicuro che domani saremo disposti a barattare la vecchia e imperfetta vet‑ tura di nostra proprietà con uno straordinario e modernissimo mezzo di locomozione «condivi‑ so». Anche perché questa realtà, in forma certo assai migliorabile, già esiste e si chiama «traspor‑ to pubblico». Idealmente le cose dovrebbero andare come so‑ stiene l’esperto di mobilità. Ma quanti di noi sa‑ ranno disposti a «condividere» un bene come l’auto, intrinsecamente legato alla nostra idea di libertà ed espressione di sé, così come i vestiti, le case e tutti gli oggetti personali e personalizza‑ bili che esistono? Spero di sbagliare, ma siamo una specie troppo egoista perché questa e molte altre profezie ecosostenibili si autoavverino.


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In attesa dell'auto condominiale Per il professor Savaresi del Politecnico di Milano in un decennio arriveremo ai veicoli a guida autonoma e condivisi

Le verità irriverenti di Dick Marty Intervista all’ex procuratore pubblico e uomo politico che ha da poco pubblicato il suo terzo libro in cui racconta anche la sua esperienza di vita sotto scorta

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Fotovoltaico in crescita, parte la formazione

Energia solare ◆ In Ticino sono previsti due nuovi corsi di apprendistato a partire dall’anno prossimo, un dato che conferma l’evoluzione di un settore dinamico. Ne parliamo con Claudio Caccia, coordinatore per la Svizzera italiana di Swissolar

La produzione di elettricità ottenuta con impianti solari fotovoltaici sta crescendo in Svizzera. Gli scenari presentati dall’Ufficio federale dell’energia le attribuiscono per il 2050 la quota del 40% della produzione nazionale. Ma per garantirsi questo futuro, sottolinea Frank Rutschmann, responsabile delle energie rinnovabili del sunnominato ufficio, e per poter fornire appieno l’energia da fonte solare, occorre motivare i clienti e gli installatori oltre a fornire un numero adeguato di specialisti del settore. Swissolar, l’Associazione di categoria che rappresenta tutte le aziende e le istituzioni del settore solare, è attiva da anni su diversi fronti. Al coordinatore per la Svizzera italiana di Swissolar, Claudio Caccia, abbiamo chiesto come si articola la formazione nel fotovoltaico per i giovani di casa nostra. «La formazione di base nell’ambito solare non esiste ancora – puntualizza Caccia – perché partirà ufficialmente solo l’anno prossimo con due apprendistati: quello di Montatore/montatrice solare CFP (certificato dopo 2 anni) e di Installatore/installatrice solare AFC (certificato dopo 3 anni). Quello che c’è per il momento sono soltanto dei corsi di formazione continua, che vanno da uno a tre-quattro giorni, e sono rivolti tendenzialmente a persone che sono già attive nel settore». Con l’approvazione di tutti gli organi federali e cantonali si è deciso in Svizzera di creare questi due nuovi apprendistati proprio perché ci si è resi conto che le ditte hanno bisogno di persone formate, che possiedano varie competenze che vanno al di là della semplice installazione dell’impianto fotovoltaico. Gente che possa ricoprire compiti come l’installazione di cantiere, la verifica dei documenti dei progetti, il lavoro in sicurezza sui tetti, i consigli e il servizio dopo vendita ai clienti, la manutenzione. Claudio Caccia spiega che a questo proposito si è chiesto alle ditte stesse se in seguito sarebbero state interessate ad assumere le persone con questi profili professionali. Le risposte sono state incoraggianti, con numeri importanti, proprio per la forte crescita del settore. C’era quindi spazio per la nascita dei due nuovi apprendistati, da affiancare alla formazione continua promossa finora con moduli aggiuntivi per chi aveva già altre formazioni professionali. In Ticino, come nel resto della Svizzera, a partire dal 2024, ci sono alcune ditte del settore che hanno già indicato di essere interessate a offrire formazioni sull’installazione e il montaggio in questione. Le sedi dei nuovi corsi saranno a Lugano-Trevano e a Uzwil (SG). Inizialmente, per

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Loris Fedele

questioni di utilità pratica, i corsi si svolgeranno nella località della svizzera tedesca, presso il centro di formazione Polybau, dove si raggruppano già diverse formazioni che hanno a che vedere con gli edifici. Questo sito possiede già tutte le infrastrutture ideali per corsi inter-aziendali.

A partire dal 2024, alcune ditte del settore hanno già indicato di essere interessate a offrire posti di formazione Caccia conferma che i contatti per portare in seguito una parte della formazione in Ticino sono già in corso. Coincidenza vuole che proprio dal Canton San Gallo sia partita quest’anno un’iniziativa che mira a incentivare la gente a mettere impianti fotovoltaici sui propri tetti. Il progetto è promosso dalla Oikos St. Gallen in collaborazione con l’Associazione degli studenti ticinesi che frequentano l’Università di San Gallo. In pratica i promotori individuano gli utenti che hanno tetti idonei alla posa dei pannelli solari e chiedono di poterli sfruttare gratuitamen-

te. Poi cercano finanziatori disposti a pagare l’installazione e a vendere al proprietario dello stabile l’energia prodotta a un prezzo concorrenziale rispetto all’acquisto dalla rete. La corrente non consumata dalla casa viene messa in rete e la sua vendita va a ripagare l’investitore che ha coperto le spese dell’impianto. Una volta ripagato l’investimento (si calcolano dai 7 ai 12 anni) l’installazione fotovoltaica sul tetto diventa proprietà del padrone della casa. Gli studenti si occupano di tutto l’iter procedurale. A tal proposito Caccia ritiene che «innanzi tutto vadano fatti i complimenti a questi studenti, e poi mi fa piacere che ci siano dei ticinesi. È interessante. Vero è che in molti casi se uno fa da sé i calcoli di economicità si rende conto che l’investimento può non essere un problema. Però è anche vero che non tutti i committenti che avrebbero interesse a realizzare un impianto fotovoltaico si decidono poi a farlo. Non fanno quei pochi calcoli iniziali, non sanno che già oggi ne vale la pena, e quindi non si muovono per contattare le ditte del settore. Gli studenti di San Gallo dicono agli utenti di non preoccuparsi, che faranno tutto loro, e questo potrebbe invo-

gliare la persona pigra o reticente a fare il passo verso il solare. Ci sono già anche da noi forme di contratto che vanno in questa direzione, per esempio iniziative come quella delle cosiddette “cooperative solari” (www.vese. ch). Ma questa iniziativa di Oikos in un certo senso parte dal basso. Loro non sono un’azienda elettrica e quindi vogliono semplicemente mettere in contatto chi è disposto a finanziare questo settore, perché con la transizione energetica si stanno liberando anche molti mezzi finanziari dedicati e di sostegno al fotovoltaico per chi possiede un tetto idoneo». Come è noto, la produzione di un impianto fotovoltaico viene usata in primis per l’edificio, sotto forma di auto consumo, ma l’esubero dell’energia elettrica viene immesso in rete, alimentando la produzione svizzera e potrebbe risultare un buon investimento per il futuro. Ci sono due situazioni, la prima: se l’impianto riceve tutti gli incentivi cantonali, federali, comunali, la corrente viene da noi virtualmente venduta all’AET la quale rende nota l’anno successivo la tariffa di ripresa della corrente immessa in rete nell’anno precedente. Per il 2022 il calcolo fatto sul prezzo

dell’energia venduta l’anno prima ha portato a una rimunerazione di ben 22 centesimi al chilowattora. Solitamente un impianto fotovoltaico da noi produce una corrente che costa dai 10 ai 14 centesimi al chilowattora. Quindi ottenere una rimunerazione di 22 centesimi è stato interessantissimo. Ma questa tariffa di ripresa è dinamica, non viene garantita nel tempo, perché segue l’evoluzione dei prezzi sul mercato. Swissolar chiede che si arrivi a una tariffa minima di ripresa, unitaria, uguale in tutta la Svizzera. Adesso non è così, ci sono molte differenze. La seconda situazione invece è quella di quando l’impianto non beneficia dell’incentivo cantonale, allora sono le tariffe delle singole aziende elettriche che fanno stato. Però anche quelle sono calcolate secondo direttive della Confederazione sulla base del prezzo dell’energia venduta al cliente. Alla fine, aumentando il prezzo dell’energia – e purtroppo abbiamo sentito che sarà il caso ancora nel 2024 – aumenterà di conseguenza anche la tariffa di rimunerazione dell’esubero fotovoltaico immesso in rete. Tutto questo concorre a rendere sempre più interessante lo sfruttamento dell’energia solare.


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Fili colorati che ci legano alla storia

Territorio ◆ La Pro Verzasca ha compiuto 90 anni, festeggiati con una mostra temporanea e nuove idee per valorizzare la filiera della lana, un patrimonio riconosciuto a livello nazionale Stefania Hubmann

Un sapiente connubio fra la salvaguardia di antichi saperi manuali e l’introduzione di tecniche innovative garantisce oggi alla filiera della lana della valle Verzasca un nuovo sviluppo e maggiore visibilità. Quest’ultima accresciuta anche dall’inserimento nella Lista delle tradizioni viventi in Svizzera. Per i 90 anni della Pro Verzasca, festeggiati in più occasioni durante l’estate, oltre a una mostra temporanea al Museo di Val Verzasca a Sonogno, nel medesimo villaggio è stato inaugurato anche il Sentiero della lana. Il percorso permette di scoprire, passeggiando fra le viuzze del nucleo, come dalla lana sudicia si giunga a variopinti oggetti di uso quotidiano, dalle calze ai guanti, dai berretti agli storici scialli. Quando giungiamo a Sonogno di buon mattino in un giorno feriale di fine ottobre, il villaggio in cima alla valle sembra già prepararsi all’inverno. Regna il silenzio, il cielo è grigio, poche le persone che si incontrano all’aperto. Già nel primo ritrovo pubblico però la vita di paese prende forma. L’appuntamento è con Marcel Bisi, presidente da quasi un ventennio della Pro Verzasca e anima del progetto della filiera della lana, fibra a cui ha legato anche la sua attuale attività professionale. Bisogna infatti risalire all’inizio del Millennio per capire come si sia potuti giungere a una filiera completa presente a Sonogno. Il negozio di artigianato locale ha una lunga tradizione e pure la tintura richiamava già in valle persone interessate al procedimento. L’ostacolo maggiore per realizzare una filiera completa era costituito dalla lavatura. Entrato nel consiglio direttivo della Pro nel 1992, Marcel Bisi quando accede alla presidenza nel 2004 intende rilanciare l’insieme dei processi necessari all’ottenimento di un prodotto realizzato con la lana. «Dalla visita a un grande impianto di lavatura nel Biellese – ricorda il presidente della Pro Verzasca – siamo passati a rivalutare una tecnica a ultrasuoni fallita negli Stati Uniti perché concepita su scala troppo grande. Questo è avvenuto alla SUPSI che ha raccolto il nostro invito a sviluppare il progetto. Un piccolo pulitore a ultrasuoni è servito per i primi tentativi, affinati fino a giungere all’ideazione da parte della SUPSI del sistema oggi in funzione al centro di lavaggio, invenzione nel frattempo brevettata e premiata a livello nazionale dalla Kommission für Technologie und Innovation». Predisporre la filiera significava però anche riorganizzare il recupero della lana a livello cantonale – oggi ne vengono raccolti circa 12mila kg all’anno – e il lavoro manuale di collaboratrici e collaboratori. La Pro Verzasca ne conta attualmente una quarantina, quasi tutti esterni. Installata dapprima a Gordola, Comune nel quale in passato ci si trasferiva dalla valle per sfuggire al rigido inverno distribuendosi in zone diverse a dipendenza del Comune di provenienza, l’apparecchiatura per la lavatura da due anni è riunita con le altre tappe della lavorazione a Sonogno. Grazie al nuovo Sentiero della lana queste tappe sono fruibili da parte dei visitatori. In tarda mattinata il sole inizia a illuminare la piazza di Sono-

La filiera della lana in Verzasca da quest’anno è entrata a far parte della Lista delle tradizioni viventi svizzere.

gno e i primi turisti si soffermano nei sette punti del percorso. Lo facciamo anche noi, guidati da Marcel Bisi. La prima sosta è proprio al centro di lavaggio. Seguono l’orto didattico (realizzato da Caritas Ticino) con alcune materie prime per la tintura, il laboratorio di tintura, l’aula didattica che conserva anche il piccolo apparecchio a ultrasuoni delle prime sperimentazioni, il deposito dei semilavorati e la sede della cardatura e della agugliatura, prima di finire con il negozio affacciato sulla piazza. Gli spazi sono visibili anche in assenza di personale tramite porte in legno aperte nella parte superiore. «Per facilitare la comprensione di come viene lavorata questa fibra naturale, abbiamo previsto di realizzare per ogni fase un video accessibile tramite codice QR», spiega Marcel Bisi. «I video saranno pubblicati anche sul sito www.proverzasca. ch dal quale si può pure accedere allo shop online. Va sottolineato che le diverse tappe della lavorazione, basate su conoscenze tradizionali unite a tecniche innovative, garantiscono una produzione artigianale sostenibile da un punto di vista sociale, economico ed ecologico». Un aspetto evidenziato anche nel pieghevole che guida la visita.

A Sonogno con il Sentiero della lana si scoprono tutte le tappe della lavorazione che inizia dall’innovativo centro di lavaggio La filiera della lana – materia prima che viene lavata, tinta, cardata, pettinata, filata e infine lavorata a maglia – è infatti una tradizione verzaschese seguita dalla locale Pro da quasi novant’anni. Grazie alla mediazione dell’associazione intercantonale Métiers d’Art Suisse, quest’anno è entrata a far parte della Lista delle tradizioni viventi in Svizzera assieme ad altre 28 testimonianze significative (di cui due ticinesi, la Bandella e le Pratiche sociali legate al culto dei morti) del patrimonio culturale immateriale del nostro Paese. La Lista, creata nel 2012 dall’Ufficio federale della cultura in collaborazione con i Cantoni, con-

ta oggi 228 titoli, riferiti ad ambiti diversi come pratiche sociali, espressioni orali, artigianato, arti e natura. Sono inserite attività che riguardano ampie fasce della popolazione (vedi l’escursionismo), accanto ad abilità praticate e tramandate in piccoli gruppi. Si tratta di beni che conferiscono identità e continuità a una comunità. L’inventario, realizzato nel 2012, è stato aggiornato una prima volta nel 2017 e una seconda quest’anno. Per realizzarlo l’Ufficio federale della cultura collabora con i servizi cantonali addetti alla cultura, la Commissione svizzera per l’UNESCO, nonché esperti e rappresentanti del suddetto patrimonio, tenendo in considerazione anche le proposte della popolazione. Tre gli obiettivi principali della Lista: sensibilizzare l’opinione pubblica, promuovere il riconoscimento dei portatori delle tradizioni viventi, fungere da base per ulteriori iniziative a favore della loro pratica. La filiera della lana verzaschese, che figura sulla Lista unitamente a una decina di altre tradizioni viventi ticinesi (www.lebendige-traditionen.ch) rispetta perfettamente i tratti distintivi dei beni inseriti, ossia è praticata al giorno d’oggi in Svizzera, è un elemento fondante della diversità e dell’identità culturale del Paese e infine cambia nel tempo reinventandosi. Il negozio di Sonogno, dove si trovano lane, prodotti lavorati come pure altre produzioni artigianali locali, conferma questa evoluzione. Ci accoglie Marianne Torroni, responsabile della Casa della lana e attiva anche nel punto di vendita. «I tradizionali scialli sono sempre richiesti – afferma – così come calze, berretti, guanti e gli oggetti in feltro che si sono aggiunti negli ultimi anni. Particolare curioso: un grande centro benessere ticinese ci ha commissionato una serie di berretti in feltro da utilizzare nella sauna». Riguardo alla clientela Marianne Torroni come Marcel Bisi evidenziano la buona frequentazione del negozio (aperto da aprile a ottobre), in particolare da parte dei turisti della Svizzera tedesca. «Gli incassi – aggiunge il presidente – si cifrano in 180-200mila franchi all’anno. Sono destinati a coprire le spese e a essere reinvestiti. La Pro non ha scopo di lucro e ope-

ra solo nell’intento di promuovere la tradizione». Patrizio di Brione, Marcel Bisi in occasione del novantesimo dell’associazione è andato alla ricerca dei primi verbali, ritrovando a sorpresa il nome di suo nonno fra i membri del primo comitato. Precisa al riguardo: «Promuovere la formazione (sapere leggere, scrivere e far di conto), il lavoro a domicilio e il turismo erano gli obiettivi iniziali. I fondatori della Pro erano quindi persone lungimiranti, con una visione all’avanguardia per l’epoca». Un passato di cui si conserva la capacità di lavorare in modo naturale e sostenibile una fibra come la lana. Lana che è ovviamente al centro della mostra temporanea sui 90 anni della Pro allestita all’ultimo piano del Museo di Val Verzasca. L’esposizione, curata come i video in preparazione da Mattia Bisi, figlio di Marcel e grafico di professione, potrà ancora essere ammirata alla riapertura del Museo la prossima primavera. Le nuove iniziative sono state apprezzate anche da diversi istituti scolastici. Agli allievi di ogni ordine di scuola offrono la possibilità di confrontarsi con il sapere artigianale abbinato alle tecniche moderne. Sensibilizzare i giovani è indispensabile per permettere alle tradizioni viventi in generale di continuare a esistere in contesti non sempre facili. Uno dei problemi delle valli è la diminuzione della popolazione; in Verzasca a fine 2022 i residenti erano ulteriormente calati a 785. La fiducia nel futuro da parte dei verzaschesi però non manca, come dimostra una nuova iniziativa di cui si fa portavoce sempre Marcel Bisi: «Stiamo costituendo un ente, chiamato Polo Alpino, con l’intenzione di aprire l’anno prossimo un centro integrato destinato al benessere, sfruttando i prodotti locali e mettendo in rete i diversi operatori». La stretta collaborazione fra gli enti e la partecipazione dei singoli artigiani attivi a domicilio sono la forza della comunità che difende e promuove la sua identità. Informazioni www.proverzasca.ch; www.museovalverzasca.ch; www.lebendige-traditionen.ch

La coerenza di Werner Carobbio

Un ricordo ◆ Non ha mai smesso di difendere i valori della sinistra

C’è una qualità che va di certo riconosciuta a Werner Carobbio: la coerenza. Il «compagno Werner», come veniva chiamato da chi stava dalla sua parte politica, non ha mai smesso di difendere i valori della sinistra e del marxismo. Nei suoi 87 anni di vita ne ha viste davvero tante, in Ticino e in Svizzera, dove per decenni ha rivestito un ruolo di primo piano a livello politico, alle Camere federali a Berna e in Gran Consiglio a Bellinzona. Prima della sua carriera da parlamentare fu lui tra i rivoltosi che diedero vita, era il 1969, alla storica scissione dal Partito socialista, da cui nacque il Partito socialista autonomo (Psa). Con lui altri giovani, animati dagli stessi ideali, tra cui anche il futuro consigliere di Stato Pietro Martinelli. Il Ticino usciva allora da un ventennio di alleanza liberal-socialista, forse più liberale che socialista. E quella scissione rappresentò davvero una svolta, verso posizioni più radicali, nello spirito sessantottino dell’epoca. Poi per Carobbio nel 1975 l’elezione al Consiglio nazionale e l’inizio di una carriera che si sarebbe protratta per ben 24 anni. In quasi un quarto di secolo a Berna l’esponente del Psa riuscì a farsi valere e a farsi riconoscere appunto per la sua coerenza e per il suo grande impegno sotto la cupola di Palazzo federale. Davvero parecchi gli episodi storici di quell’epoca, basti ricordare per esempio la mancata elezione in Consiglio federale di Liliane Uchtenhagen, nel 1983. La consigliera nazionale socialista sarebbe stata la prima donna eletta in Consiglio federale, ma la maggioranza borghese scelse al suo posto un uomo, sempre socialista, Otto Stich. Con una parte del Ps che allora spinse per lasciare il Governo e passare del tutto all’opposizione. Oppure, altro momento storico, il grande scandalo delle polizie segrete e delle schedature, alla fine degli anni Ottanta. Venne creata una commissione parlamentare d’inchiesta, e Werner Carobbio ne fu il vice-presidente, un uomo della sinistra radicale a fianco del senatore democristiano Carlo Schmid, che fu il presidente di quella commissione. Due persone politicamente del tutto distanti, che però riuscirono a collaborare, nel rispetto reciproco dei loro ruoli. Anche per questo Carobbio si guadagnò il rispetto politico, che lo avrebbe poi accompagnato per il resto della sua carriera parlamentare, che continuò in Ticino anche dopo il 1999. Una volta lasciata Berna, fu granconsigliere a Bellinzona fino al 2011, in un Partito socialista di nuovo riunificato. Una vita al servizio della politica, per questo capofila della sinistra ticinese. Nato a Lumino nel 1936, aveva una passione, meno conosciuta, quella per i suoi Monti di Saurù, proprio sopra il suo villaggio natale. Era il luogo del suo «buen retiro», lassù il «compagno Werner» avrà di certo trovato forza e idee per le sue tante battaglie politiche. / RP


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MONDO MIGROS

Sabato 18 novembre è la giornata della colletta alimentare!

Attualità ◆ In 11 filiali Migros la clientela potrà donare generi alimentari a lunga conservazione da destinare ai più bisognosi

Tavolino Magico in breve

Ritorna come ogni anno l’importante e atteso appuntamento con la colletta alimentare per i più bisognosi, attività organizzata dagli «Amici della colletta», con la partecipazione del «Lions Club Lugano», a favore dell’associazione «Tavolino Magico». Al motto di «Condividere i bisogni per condividere il senso della vita», sabato 18 novembre 2023 diversi volontari si metteranno a disposizione per raccogliere prodotti a lunga conservazione acquistati in undici negozi Migros che hanno aderito all’iniziativa (vedi elenco). A causa delle situazioni contingenti degli ultimi mesi, sono sempre di più le richieste di generi alimentari

da parte di persone che si trovano in condizioni di precarietà. Nella Svizzera italiana sono attualmente 3000 le persone bisognose aiutate settimanalmente da Tavolino Magico, ovvero 800 in più rispetto all’anno scorso. Nel 2022 l’associazione è riuscita a raccogliere e distribuire ben 640 tonnellate di cibo nella nostra regione. Durante questa giornata si potrà aiutare in modo concreto donando ai volontari presenti – facilmente riconoscibili grazie all’adesivo – articoli di prima necessità e per l’igiene personale, tra cui per esempio pasta, riso, caffè, succhi di frutta, latte, farine, dentifricio, shampoo, docciaschiuma,

marmellate, miele, legumi secchi, pelati, cereali, carne e tonno in scatola. Le filiali Migros dove si svolge la colletta del 18 novembre 2023 • • • • • • • • • • •

Mendrisio Campagna Adorna Agno Lugano Centro Radio-Besso Molino Nuovo Pregassona Savosa Taverne Giubiasco S. Antonino Locarno

Il Tavolino Magico è un’associazione senza scopo di lucro costituita a Zurigo nel 1999 e operativa da ormai 17 anni nella Svizzera italiana a favore di persone in difficoltà finanziaria e contro lo spreco alimentare. Consegna settimanalmente generi alimentari di ottima qualità a 3’000 persone indigenti nei suoi 16 centri di distribuzione (Bellinzona San Biagio 1 + 2 e Spazio aperto; Biasca; Caslano; Chiasso; Grono; Lamone; Locarno Arca e S. Antonio; Lugano Pregassona, Lugano Viganello, Vezia e Lugano Cornaredo; Mendrisio; Quartino), così come a diverse mense sociali in tutta la Svizzera italiana. Tutto ciò grazie anche alla collaborazione di dettaglianti, grossisti, produttori, volontari e donatori.

Zuppe fresche come fatte in casa

Attualità ◆ La linea DimmidiSì propone diverse pietanze pronte da servire realizzate con ingredienti di qualità e prive di conservanti

Dalla zuppa di lenticchie a quella toscana o ortolana, dalla pasta e fagioli al passato di verdure, dal minestrone tradizionale alla vellutata di carciofi fino alla vellutata di zucca e carote o alla zuppa Mumbai ispirata ai sapori orientali con ceci, latte di cocco e curry: sono oltre una decina le specialità fresche e già pronte al consumo della nota marca italiana DimmidiSì proposte nel banco frigo dei supermercati di Migros Ticino. Pratici e buoni come fatti in casa seguendo le ricette tradizionali, questi piatti genuini sono realizzati con ingredienti accuratamente selezionati e senza l’aggiunta di conservanti. Sono

ideali per il consumo a casa, in ufficio oppure on the go, dopo essere stati scaldati brevemente in pentola o nel forno a microonde. I prodotti DimmidiSì si caratterizzano inoltre per la loro valenza sociale e ambientale. Sono infatti realizzati con materie prime provenienti da una filiera corta, integrata e certificata. L’ottimizzazione del processo di lavaggio delle verdure e il recupero delle acque di scarico assicurano un importante risparmio idrico. Inoltre l’azienda è impegnata costantemente nel sostenere associazioni locali che si occupano della raccolta e ridistribuzione delle eccedenze di produzione a persone bisognose.


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MONDO MIGROS

Prelibatezze al tartufo

Novità ◆ Due nuovi prodotti vanno ad arricchire l’assortimento di prodotti al tartufo del marchio piemontese Ori di Langa

Dalle Langhe, territorio unico del Piemonte e patrimonio dell’Unesco, arrivano sugli scaffali di Migros Ticino due nuove specialità arricchite con tartufo – uno dei prodotti più rappresentativi di quella magnifica regione: il risotto e le penne. Il marchio Ori di Langa da oltre quarant’anni valorizza le materie prime simbolo del territorio creando delle

autentiche prelibatezze artigianali alla portata di tutti e in grado di trasformare ogni occasione in qualcosa di indimenticabile. Il risotto al tartufo è un piatto tipico del Piemonte, dove il riso Carnaroli – la migliore varietà di riso per ottenere un risotto cremoso e all’onda come vuole la tradizione – incontra il tartufo per sprigionare un aroma e

un profumo inconfondibili per celebrare i bei momenti in famiglia o con gli amici. Le penne sono una delle paste corte più conosciute. Ori di Langa le arricchisce con il gusto unico del tartufo per renderle semplicemente irresistibili, anche solo con un filo di olio o una noce di burro. Altri prodotti a firma Ori di Langa disponibi-

li alla Migros sono le patatine al tartufo, i tagliolini all’uovo e tartufo, la crema di parmigiano reggiano e tartufo, il miele con tartufo bianco piccante e la salsa tartufata bianca. Infine, segnaliamo che negli stabilimenti dell’azienda tutta l’energia impiegata nel processo produttivo proviene da un impianto fotovoltaico ubicato sul tetto.

Risotto con tartufo Ori di Langa 175 g Fr. 8.90 Penne al tartufo Ori di Langa 250 g Fr. 6.90 In vendita nelle maggiori filiali Migros

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SOCIETÀ

Banchi di prova per la mobilità del futuro

Motori ◆ Secondo il professor Savaresi del Poli di Milano entro dieci anni arriveremo all’auto a guida autonoma e condivisa per tutti Mario Alberto Cucchi

Durante l’edizione dell’affascinante 1000 Miglia 2023 gli occhi di migliaia di spettatori sono stati catturati da una splendida Maserati MC20 Cielo. Il bolide made in Modena ha accelerato nei lunghi rettilinei e ha affrontato le curve senza nessuno al volante. A guidare la Maserati su e giù per le strade italiane per oltre 1500 chilometri è stata davvero un’intelligenza artificiale. Una funzione di controllo che, solo per motivi regolamentari, è stata deputata al pilota Matteo Marzotto. Proprio dalle esperienze maturate nelle competizioni deriva una spinta tecnologica: le gare sono un banco di prova per la mobilità del futuro. Ecco il perché di questa Maserati. Si tratta della messa alla prova di anni di ricerche assunte da una task force del Politecnico di Milano. Un vero e proprio laboratorio su quattroruote. Quindi come sarà la mobilità del futuro? Lo abbiamo chiesto al responsabile del progetto «1000-MAD» che ha visto protagonista la MC20 Cielo alla 1000 Miglia di quest’anno. «Si andrà verso un cambio radicale del modello di mobilità». Spiega Sergio Savaresi, professore ordinario del Dipartimento di elettronica, informazione e bioingegneria del politecnico di Milano. «L’attuale contiene evidenti incongruenze perché oggi abbiamo un numero elevato di auto private utilizzate molto poco. In

un mondo che deve divenire sempre più sostenibile questo è l’aspetto più difficile da accettare. Quindi in futuro avremo un numero minore di veicoli, ciascuno dei quali avrà un contenuto tecnologico molto più elevato e saranno usati sostanzialmente in condivisione». Insomma il professor Savaresi crede che in un decennio arriveremo all’auto a guida autonoma e condivisa per tutti. Una sorta di auto condominiale da condividere con i vicini. L’amata quattroruote nei prossimi anni subirà dunque una forte evoluzione. «Non è difficile fare una previsione ma è più complesso definirne i tempi». Continua Savaresi. «Essenzialmente il mondo della mobilità personale andrà in tre direzioni. Una è l’elettrificazione. La seconda è il passaggio da una mobilità di proprietà privata a una mobilità a servizio, quindi di fatto, chiamiamolo car sharing. La terza direzione è la guida autonoma. Le tre cose sono strettamente collegate. In particolare l’auto autonoma consente il passaggio di massa verso la mobilità a servizio. Prima di avere l’auto autonoma è impossibile passare su larga scala al cosiddetto car sharing! A quel punto, quando andremo verso un utilizzo di massa della mobilità al servizio, anche l’elettrificazione su larga scala sarà possibile. L’elettrificazione mantenendo il modello privato può limitarsi a un venti-trenta per cento al

massimo. L’elettrico mal si sposa con il concetto di auto privata. Prima di avere un’elettrificazione di massa bisogna passare a una mobilità non più di proprietà privata ma di servizio. E per far questo sono certo serva l’auto autonoma». Il professor Savaresi da tempo si impegna nella guida autonoma e non è il solo ma senz’altro lui e il suo team rappresentano una vera e propria eccellenza. Il team del Politecnico ha sostanzialmente vinto tutte le gare in USA dell’Indy Autonomous Challenge, una competizione internazionale che ha tra i suoi protagonisti i

tradizione al mondo che si occupa di automazione e sistemi di controllo per veicoli. Dal controllo di trazione alle sospensioni elettroniche, dal controllo di stabilità al controllo dei sistemi di energia a bordo del veicolo. E negli ultimi anni il trend è quello di andare verso gli ADAS e la guida autonoma di livelli sempre più alti. Quindi per noi era una naturale opportunità cimentarci in questa competizione per vedere a che punto eravamo, anche rispetto al resto del mondo. Oltretutto è anche un’iniziativa di passione, il motorsport unisce la parte tecnologica proprio alla passione». Insomma auto-laboratorio. Vien da chiedersi se le soluzioni sperimentate arriveranno sulle auto di serie: «Sicuramente sì, il pacchetto tecnologico è molto simile a quello delle auto di serie, anche se sensori, attuatori, computer e così via rappresentano lo stato dell’arte, ovvero il meglio sul mercato. Noi abbiamo sperimentato e stiamo sperimentando situazioni estreme. Un conto è andare a 50km orari, un altro è andare a 300 km/h. Pensate, –conclude il professor Savaresi – quando “andiamo forte” in un secondo facciamo cento metri». Non è una guida remota, non c’è nessuno dietro un volantino in una stanza, le auto sono completamente autonome, guidano da sole. A quelle velocità è praticamente impossibile guidare in remoto.

più prestigiosi atenei. Si tratta di un classico challenge all’americana ideato e sviluppato nel 2021 da un gruppo di organizzatori che fanno riferimento allo Stato dell’Indiana, sede del famoso circuito di Indianapolis. L’obiettivo primario era quello di creare una prima competizione tra auto a guida autonoma. L’obiettivo ultimo è quello di sviluppare la tecnologia dell’auto autonoma. «È stato fatto un bando e hanno partecipato tantissime università internazionali, principalmente americane». Spiega il professor Savaresi. «Noi siamo uno dei gruppi di ricerca più grossi e con più

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Settimanale di informazione e cultura

Anno LXXXVI 13 novembre 2023

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azione – Cooperativa Migros Ticino

SOCIETÀ

Verità irriverenti su un cambiamento epocale Pubblicazioni ◆ Senza giri di parole e senza metafore Dick Marty racconta una vita al servizio della Giustizia Matilde Casasopra

«Come un lungo fiume, la vita è affascinante solo se percorsa da tanti meandri, diceva Chen Ziang, un poeta cinese del VII secolo. Quasi giunto a quel momento (non so quando, ma in ogni caso sempre troppo presto), in cui ti si notifica che il tuo biglietto è scaduto, mi dico che la mia vita raramente ricorda un lungo fiume tranquillo tra amene contee». È questo l’incipit del libro Verità irriverenti (Casagrande) di Dick Marty che verrà presentato domani, martedì 14 novembre, nella hall del LAC (18.00), un libro che completa, quasi in un crescendo, Una certa idea di giustizia (2018) e Sous haute protection (2023). I primi due li ha scritti in francese, questo, invece, in italiano, ed è un libro che ci porta dietro le quinte dell’uomo pubblico che al perseguimento della Giustizia ha dedicato tutto sé stesso per svelarci non solo le idee, ma anche i sentimenti. Dick Marty, quanto c’è in questo terzo libro, del bisogno personale di mettere ordine nella sua vita e quanto, invece, del desiderio di lasciare traccia del suo pensiero e della sua azione? Lasciare una traccia certamente no. Conosco abbastanza bene la storia per sapere che le nostre gesta non lasciano tracce o, se le lasciano, sono quasi sempre mal interpretate. Piuttosto mi viene in mente l’Ecclesiaste: vanità delle vanità, tutto è vanità. In realtà la scrittura, che prima non faceva parte delle mie priorità, è stata una risposta a eventi traumatici, una specie di autoterapia. La prima pubblicazione (Una certa idea di giustizia) è nata un po’ per caso: era una rivisitazione e una riflessione su eventi che avevo vissuto e che l’insistenza di un conoscente editore ha trasformato in un libro. Tra i lettori ho immaginato i miei nipotini che avrebbero così conosciuto meglio il loro nonno. Ho poi pensato anche a chi mi ha sostenuto nelle varie bat-

ci da procuratore. Esagerato, certo, ma è indubbio che nelle mie vesti di magistrato giudiziario ho sì visto la faccia oscura della società, ma anche molta umanità, sotto forma di tragedie, drammi familiari, miseria sociale. Sono queste realtà ed esperienze che maggiormente mi sono rimaste in mente e alle quali penso spesso, ricordando volti, voci e vicende. No, la verità non è quasi mai bianca o nera, c’è tutta una gamma di grigi ed è ciò che rende questo lavoro molto difficile, ma tanto avvincente.

Dick Marty è stato procuratore pubblico, consigliere agli Stati e parlamentare del Consiglio d’Europa, per quasi due anni ha vissuto sotto scorta.

taglie politiche (ho raccolto sostegni in quasi tutte le aree politiche), quasi presentassi loro altri aspetti che forse non conoscevano. Potranno così dire di aver fatto la buona scelta, oppure di essersi completamente sbagliati. La sua vita passa dal Max-Planck-Institut a Friburgo in Brisgovia e approda, negli anni Settanta-Ottanta, in Ticino. Dick Marty diventa procuratore pubblico sopracenerino. Un passo indietro? L’esperienza in Germania è stata indubbiamente fondamentale. Ho conosciuto un nuovo mondo, quello della ricerca ad alto livello con studi per giuristi ancora molto poco diffusi da noi (criminologia, medicina e psichiatria legale). Poi ho ricoperto un posto di ruolo in un prestigioso Istituto di ricerca con la porta spalancata per una carriera accademica. Inoltre in quegli anni, in Germania, si aveva la sensazione di vivere la storia in diretta, con Willy Brandt e la Ostpolitik. Dopo qualche anno, ho però sentito che mi mancava qualcosa: il contatto immediato con la realtà. C’erano, in più, certi aspetti del mondo della ricerca che comin-

ciavano a infastidirmi: invidie, false amicizie, cordate di persone che si citavano a vicenda per ottenere un ranking migliore. Provvidenziale giunse una telefonata di Ferruccio Bolla per segnalarmi la possibilità di accedere alla funzione di magistrato al Ministero pubblico. Telefonata tra le più preziose mai ricevute. Dunque, assolutamente no, non fu un passo indietro bensì l’inizio di una nuova affascinante esperienza. Il procuratore Marty passa poi alla politica. Piergiorgio Mordasini la definì «un magistrato prestato alla politica». Non c’era, in questo prestito, il rischio di un mondo in bianco e nero, o giusto o sbagliato? Non penso proprio che il magistrato giudiziario veda le cose esclusivamente in bianco e nero. Direi che questa è piuttosto la caratteristica di una politica che si sta facendo sempre più dogmatica e polarizzata, anche molto più cattiva. Una volta mi sono lasciato scappare una battuta – invero troppo impertinente, ma che aveva un certo fondamento – e dissi che in sei anni di politica avevo incontrato più farabutti che in quindi-

Leggendo Verità irriverenti si ha l’impressione che lei si sia tolto qualche sassolino dalle scarpe. L’aggettivo plurale fa però pensare anche a molteplici verità e non solo alle «sue» verità e poi, molte di queste verità lei le ha dette e documentate negli anni. Perché raccoglierle adesso quasi fossero una summa? Quasi come un fil rouge in questo libro racconto anche la vicenda recente che per quasi un anno e mezzo ha provocato uno spiegamento di polizia per la mia protezione come mai era avvenuto in Svizzera. La protezione c’è stata, certo, ma è mancato l’essenziale: l’inchiesta per smascherare i sicari e i mandanti, di cui c’erano tracce evidenti. No, non è un regolamento di conti, penso solo che quanto racconto vada oltre la mia persona perché concerne il funzionamento delle nostre istituzioni. Ho sempre ritenuto che quando si viene a conoscenza di fatti rilevanti di interesse pubblico vi sia un dovere morale di testimoniare. Uno dei mali peggiori della nostra società è proprio l’indifferenza. Questo libro è stato anche l’occasione per un momento di riflessione sulla nostra democrazia, la nostra neutralità, la nostra politica internazionale e l’Europa, un ambito in cui mi sembra che si navighi a vista, senza una linea chiara e una visione d’avvenire.

Nel suo libro parla di «visione realistica della politica internazionale», che cosa intende? Vede, io temo che non ci si renda conto che stiamo vivendo un formidabile cambiamento epocale: un Occidente che si indebolisce, con democrazie in crisi e un Sud globale che si sta sempre più organizzando con una crescente ostilità nei confronti del nostro sistema e dei nostri valori (che difendiamo malissimo). La Svizzera potrebbe giocare un ruolo significativo in questo particolare momento storico. Potrebbe … A proposito di Svizzera: sa che leggendo il suo libro ho scoperto che i gerani sono originari dell’Africa? Lei come l’ha saputo? Facendo giardinaggio. Così mi è venuto in mente che i gerani e la neutralità hanno qualcosa in comune: entrambi provengono dall’estero (i gerani dall’Africa, la neutralità dalle grandi potenze del Congresso di Vienna perché faceva loro comodo, come ha poi fatto comodo anche a noi). Entrambi sono diventati un simbolo forte del nostro Paese: tutti e due hanno bisogno di cure ed evolvono attraverso il tempo e le circostanze non sempre con coerenza. Ultima domanda irriverente: perché la suoneria del suo telefono propone parole e musica del Chant des Partisans? La storia della Resistenza mi ha sempre affascinato. Mi chiedo spesso, che cosa avrei fatto in quelle circostanze, zitto come la grande maggioranza o ardito come quei coraggiosi che non hanno esitato a rischiare la loro vita per un ideale di libertà? Le parole della canzone sono di due famosi scrittori e ogni volta che suona il mio telefono è un’iniezione di fiducia e un incitamento al coraggio. (L’intervista integrale si può leggere su www.azione.ch)

Viale dei ciliegi Anne Fine Tutte le sfumature di Scarlet Editrice Il Castoro (Da 12 anni)

Un romanzo in cui gli adolescenti guardano al mondo adulto. Scarlet guarda al mondo dei suoi genitori, coppia in disfacimento, anzi ormai disfatta, anche se molto pacificamente, e fa ipotesi, cerca di capire, cerca naturalmente di rimetterli insieme, capisce che non si può, si affanna per posizionarsi nel nuovo vivace avvicendamento di personaggi che una separazione, magari con nuove relazioni, comporta. Il romanzo, di cui l’io narrante è proprio Scarlet, ci mostra tutti i suoi pensieri, le sue speranze, i suoi tentativi di prevedere gli assetti familiari futuri, e mette in scena, nei dialoghi con i suoi coetanei, non solo lo sguardo – tenero, ma anche acutamente impietoso – dei figli verso i genitori, ma altresì il loro bisogno, come dire, di controllarne le mosse, di migliorarne l’esistenza, di affermare quella che – per loro, i figli – è la verità assoluta. Quando Scarlet comprenderà che non tocca a lei fare il genitore dei suoi genitori, potrà finalmente cominciare a costruire al meglio la sua, di vita, e ad accettare il fatto

di Letizia Bolzani

che ogni vita è in sé stessa cambiamento, un cambiamento da attraversare con fiducia, giorno per giorno. Anne Fine è nata in Inghilterra nel 1947, ed è una delle scrittrici per ragazzi più famose. Con questo bel romanzo riesce non solo a raccontarci (in modo anche a tratti umoristico) un divorzio, ma soprattutto quel momento della crescita in cui i figli cominciano a volgere sui genitori uno sguardo critico. E quando i genitori diventano, agli occhi dei figli, delle persone non infallibili, con le loro fragilità, incapacità, inadeguatezze, i figli si sentono anch’es-

si infragiliti, meno protetti, più allo sbando. Scarlet è arrabbiata, soprattutto con sua madre, che ha preso la decisione di separarsi, ma anche un po’ (molto meno in realtà) con suo padre, che non le sembra in grado di reagire adeguatamente. Ci vorrà del tempo per sciogliere i nodi che ha nel cuore, per capire meglio gli altri e soprattutto sé stessa, e per ritrovare, con i suoi genitori, un nuovo inizio, pur nel cambiamento. E sarà solo a posteriori, quando avrà ritrovato la sua serenità, che potrà raccontare questa storia. Divertente, commovente e coinvolgente. Ksenija Novochat’ko Andrej Sacharov. L’uomo che non aveva paura Caissa Italia (Da 11 anni)

È un libro denso, insolito, per certi versi complesso: ha il grande formato di un albo illustrato, è molto illustrato, ma non è rivolto ai più piccoli. Il tema e anche la raffinata ricerca grafica e di design lo rendono un libro per ragazzi più grandi, e naturalmente anche per gli adulti. È una lettura importante, perché ci parla della necessità di non avere paura di lottare per la giustizia, prenden-

do le distanze dal potere repressivo e facendo sentire ben alta la propria voce. L’uomo che non aveva paura è Andrej Sacharov, geniale fisico russo, le cui ricerche permisero di mettere a punto la bomba all’idrogeno, la bomba atomica sovietica. Come leggiamo nel libro «dopo Hiroshima e l’avvio del programma nucleare sovietico, la professione di fisico cessa di essere pacifica. Quanto più uno scienziato era talentuoso, meno era probabile che venisse ignorato». Il regime lo accerchia, lo invita perentoriamente a collaborare, ma lui contesta apertamente gli esperimenti

termonucleari a scopo bellico e inizia un’attività incessante di responsabilità civile, in favore dei diritti umani, criticando aspramente le terribili repressioni del regime sovietico. Nel 1975 fu insignito del Premio Nobel per la pace ma non poté ritirarlo, subì persecuzioni, arresto, confinamento, venne riabilitato da Gorbačëv e venne eletto deputato nel 1989, ma morì nello stesso anno. Il libro, basato sulle sue memorie e su documenti dell’epoca (con la collaborazione di storici, archivisti, curatori di musei) ne racconta la vita: dall’infanzia nella casa della nonna, alla formazione, all’età adulta, attraversando, tra scienza e politica, gli avvenimenti cruciali del Novecento. Colpisce la nota dell’editore italiano, che comunica che il 18 agosto di quest’anno il Tribunale russo ha chiuso il Centro Sacharov, che era stato fondato dalla vedova, Elena Bonner, e che costituiva uno spazio di libertà di espressione e di promozione dei diritti umani. E particolarmente intense risuonano queste parole: «l’edizione italiana di questo libro vuole essere anche una voce a sostegno delle molte persone che hanno rischiato e stanno rischiando la vita per la causa dei diritti umani in Russia».


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Anno LXXXVI 13 novembre 2023

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SOCIETÀ / RUBRICHE

Approdi e derive

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di Lina Bertola

Gratuità non fa rima con utilità ◆

Entro in una boutique per acquistare una maglietta. Mentre mi guardo in giro la commessa si avvicina con sorriso suadente e complice: «Buongiorno, la informo che se ne acquista due la terza è gratis!». Siccome mi occorre una sola maglietta, la scelgo con cura e la pago a prezzo intero senza dar peso alla sua generosa offerta, che comunque riesce a insinuare un dubbio: avrò fatto bene o mi sono persa qualcosa? In seguito ho ripensato a questa strategia di marketing sempre più gettonata, non solo per l’acquisto di prodotti alimentari non deperibili, ma anche per l’abbigliamento: magliette, pullover, jeans e via dicendo, il tre per due imperversa ovunque e sembra avere successo, forse perché l’idea di portare a casa qualcosa gratis non lascia proprio indifferenti. Una cosa gratis è gratuita, non devo pagarla: ciapp’istess urlava Enzo Jannacci in una memorabile canzone, ciapp’istess e tante grazie! Accade così che nel linguaggio quo-

tidiano l’idea di gratuità venga spesso snaturata, tradita nel suo significato originario e consegnata al richiamo di quell’utilità che orienta le nostre scelte ma con cui non ha proprio nulla a che vedere. Un gesto, un’azione, un atteggiamento gratuiti sono infatti pura finalità, qualcosa che ha valore in sé stesso: un gesto gratuito, o meglio la gratuità di un gesto, non ha altri scopi, non ha niente a che fare con l’utilità, con il calcolo, con il tornaconto. Il significato originario della gratuità è stato illustrato bene dal filosofo Immanuel Kant nel descrivere la legge morale: l’azione morale è pura gratuità, è un devo perché devo, un imperativo che muove il mio agire, senza condizioni. Al contrario, una buona azione che abbia uno scopo fuori di sé, che sia in qualche modo utile per qualcos’altro, rimane certamente buona, ma non ha niente a che vedere con il valore morale della gratuità. Noi però tendiamo a valorizzare le nostre scelte

soprattutto in base alla loro utilità ed efficacia: che cosa mi conviene fare in questa situazione? Anche quando scelgo di aderire al due per tre, la gratuità della merce è legata alla sua convenienza. Eppure ciò che è gratuito non dovrebbe mai dialogare con il calcolo e con il tornaconto. Questa contaminazione tra il significato di gratis e quello di gratuità crea confusione. Confonde la quantità dell’avere con la qualità dell’essere. Perché il prezzo cancellato di una merce riguarda una quantità, ed è anche un invito implicito a fare la scorta, ad avere di più. Siamo davvero lontani dal gesto gratuito, dalla sua qualità non misurabile che un prezzo non l’avrà mai, proprio perché estraneo a ogni calcolo. In un certo senso la gratuità è sempre inutile o meglio, fuori dall’utile. Spesso tuttavia non riusciamo a coglierne il valore nella sua essenza, nella sua purezza e nella sua bellezza.

Capita non di rado che mi venga chiesto a che cosa serva la filosofia: «a nulla», rispondo sempre con slancio, «non è serva di nulla… è inutile». Un po’ disorientante come risposta, perché la ricerca dell’utilità e della convenienza condiziona i nostri pensieri e le nostre scelte, non solo di fronte alle vetrine invitanti e alle loro accattivanti offerte (per inciso, anche offrire dovrebbe essere di per sé un gesto donativo gratuito, eppure si trasforma allegramente in offerta promozionale). Il valore di ciò che è ritenuto utile attraversa tutta la nostra esperienza, si espande anche in ambiti che interpellano i vissuti più profondi e più intimi. Penso innanzitutto alle relazioni personali. Che cosa ci perdiamo quando, ad esempio, relazioni pur vissute con sincera partecipazione, sono motivate anche dal fatto che le riteniamo importanti per la nostra attività professionale, o sono sostenute dalla con-

vinzione che possono esserci d’aiuto nelle difficoltà? Ci perdiamo ciò che sta fuori dall’utile, in primis perdiamo la bellezza di donare e di donarsi senza attendere di ricevere qualcosa in cambio, perdiamo la possibilità di sperimentare un incontro autentico in cui il dare e il ricevere non sono mai un semplice ricambiare, ma sono uno stare insieme che crea legami aperti all’accoglienza, all’accoglienza dell’altro per ciò che è, per il suo esserci. Poi penso alla scuola che dovrebbe portare i giovani ad amare la bellezza della conoscenza. Anche la scuola si sta perdendo qualcosa. In ostaggio alle aspettative sempre più utilitaristiche della società, questa sua intrinseca, gratuita bellezza rischia di soffocarla. Si deve studiare per prendere buoni voti, per passare la classe, per imparare un mestiere, per costruirsi una bella posizione nella vita. Con buona pace della gratuità e del desiderio di far fiorire il nostro esserci.

Terre Rare

di Alessandro Zanoli

Sbagliando si impara, forse… ◆

Non so che effetto ha avuto sulla vostra vita l’introduzione delle tecnologie digitali nella gestione della burocrazia domestica. Nel caso di chi vi scrive, il fenomeno principale di cui comincio a preoccuparmi è l’aumento del numero di richiami di pagamento che ricevo settimanalmente. Il problema è, mi pare, che molte aziende ed enti ci inviano ormai soltanto bollettini in formato digitale, sia per posta elettronica, sia invitandoci a scaricarle dal loro sito aziendale. Nella marea di email ricevute queste fatture vanno spesso perse, senza considerare poi i disguidi a cui il servizio va soggetto a causa della molta posta indesiderata filtrata a nostra insaputa. Nel cestino cadono a volte anche i messaggi utili. I bollettini digitali che scarico sul mio PC oltretutto finiscono spesso in cartelle sbagliate, si perdono nei meandri elettronici anche a causa dei loro nomi incomprensibi-

li, tipo «2023-0911_Conteggio_delle_prestazioni_n_20437148509.pdf». Provate ad avere in giro per il desktop due o tre file di quel tono e vedrete se non diventa difficile districarsi. «L’ho pagato? Non l’ho pagato?». (E non ditemi di attivare la modalità di pagamento automatico E-Bill: temo mi porterebbe ancor più fuori strada nella gestione della mia burocrazia). In passato mi succedeva piuttosto raramente di ricevere dei richiami di pagamento. Il mio cassetto dei bollettini in sospeso veniva svuotato regolarmente. Tutto quanto arrivava per posta ci finiva dentro e si creava così un circolo relativamente ben controllato. La semplificazione digitale, invece, è molto più difficile da gestire. Ecco un aspetto che non viene quasi mai considerato quando si parla di cultura digitale: in linea di massima è molto più complessa, imprevedibile e soggetta agli errori di quanto fosse

Le parole dei figli

la cultura analogica. Certo per alcuni aspetti tutto sembra molto semplice e veloce. «Basta un click» è il motto ricorrente. Ma è proprio vero? Quante nozioni, accorgimenti, competenze, esperienze (anche negative) richiede quel click per mandare a buon fine le procedure. Quindi togliamo di mezzo un luogo comune: la cultura digitale NON è una semplificazione della vita quotidiana. Armiamoci di coraggio perché si tratta di un’esperienza complessa e soprattutto in continua mutazione. Quello che impariamo oggi non è detto che possa servirci ancora domani. Tra noi e il futuro ci sono aggiornamenti automatici di sistemi operativi, nuove versioni di software che saremo costretti a installare, rifacimenti di siti web che modificano ogni nostra abitudine, procedure di identificazione sempre più complesse (necessariamente) per proteggerci dai malintenzionati.

Un’altra esperienza abbastanza paradossale che ci è capitata è la seguente: dopo esserci accorti di un errore nella gestione del nostro conto corrente bancario (errore non nostro!) abbiamo invano cercato nel sito web dell’istituto una possibilità di comunicarlo. Impossibile trovare un modo «digitale» di entrare in contatto con qualcuno che prendesse in considerazione la nostra richiesta. Il muro delle voci sintetiche al telefono è stato insuperabile, tanto quanto la chat di contatto sul sito, affidata a un robot assolutamente incapace di rispondere a una domanda relativamente complessa e fuori dagli schemi preordinati. Alla fine non è rimasto che chiedere un colloquio a un consulente «vivente», prendere un appuntamento in filiale, e risolvere la faccenda faccia a faccia. A vederla dal lato ironico la cosa si dimostra anche abbastanza divertente: la tecnologia digitale non sa risolve-

re tutto, c’è ancora bisogno del contatto umano. Contatto umano che però sta paurosamente sparendo. L’impressione è che molte istituzioni e servizi vogliano mettere tra sé e l’utente una barriera digitale, implacabile. Per semplificarsi la vita e sottrarsi alle responsabilità? Abbiamo raccolto le preoccupazioni di alcuni amici che cercavano di spedire dei formulari di richiesta per sovvenzioni alla loro attività. Arrivati, purtroppo oltre il termine stabilito per l’invio, non hanno più trovato la pagina web da cui inoltrare la propria richiesta… Erano dalla parte del torto, certo. Ma resta il dubbio che in tempi «meno digitali» avrebbero potuto contare sull’appoggio di qualche segretario di buona volontà, di qualche briciola di buonsenso che avrebbe potuto mediare sulla rigorosità dei termini. Errare è umano, in fondo… ma anche la tecnologia non scherza.

di Simona Ravizza

Dupe

«Ho scoperto un dupe favoloso!», dice la (nano)influencer di turno che disamina prodotti cosmetici. Ancora una volta a dettare le mode tra Le parole dei figli è TikTok dove i video con l’hastag dupe hanno 10 miliardi di visualizzazioni (MILIARDI, notate bene!): «Ho scoperto nuovi beauty dupe – dice un’altra –. E come sempre ho deciso di condividerli con voi!». E avanti così. Ma che cos’è un dupe? Difficilmente una mamma sotto i 30 ne conosce esattamente il significato prima di aver sentito pronunciare il termine dalla propria Gen Z o dalle sue amiche. Ebbene: non è un fake, ma un facsimile. Nessun marchio è stato contraffatto, quello che conta è la sua resa. La parola, che è una versione abbreviata di duplicate (duplicato), viene utilizzata soprattutto nell’ambito del beauty per indicare un prodotto di make-up molto simile a uno di una marca

nota, ma più economico. Stesse caratteristiche, costo decisamente inferiore. I video che invadono TikTok sono molto simili: il viso diviso in due da una riga fronte-mento tracciata con una matita colorata, la beauty-guru (così almeno la vedono le nostre figlie) che si stende su una metà viso un fondotinta per dire di Dior o Armani, e sull’altra metà viso uno di una marca assolutamente ignota. Il confronto tra i due è dettagliato: colore, texture che sta per consistenza/densità/grana, durata. Per il rossetto sono le labbra a essere divise in due; e il paragone può essere per esempio tra uno di Chanel e un Labello. Messi a confronto ancora una volta il colore, ma anche la capacità di idratare e/o di rimpolpare. Poi, correttori, blush (dire fard è da boomer), gel per fissare le sopracciglia, mascara, ombretti, e perfino profumi: il rito, con dimostrazione pratica, si ri-

pete. Un prodotto in una mano, uno nell’altra, a seguire l’enunciazione dei relativi prezzi: 40 euro contro 10, per dire. Poi, immancabile, l’interrogativo finale: «E tu quale preferisci?». Messa così la domanda fa sentire fessa chiunque pensa che qualche differenza deve pur esserci se il prodotto A cosa tre/ quattro/fino a dieci volte di più del prodotto B. In ogni caso sbaglia, a mio avviso, chi di noi archivia il fenomeno alla voce: «Tutte cavolate!». Nella maggior parte dei casi l’analisi delle caratteristiche dei prodotti è davvero dettagliata, fino a spingersi alle loro componenti. Sono tutti prodotti made in China destinati a rovinare la pelle? No! È molto probabile, peraltro, che la Gen Z appassionata di dupe abbia scaricato sul cellulare Yuka o App simili nate per informare il consumatore della presenza di sostanze nocive nei prodotti

di bellezza (o nei prodotti alimentari). In base alla presenza di interferenti endocrini, cancerogeni, allergeni, irritanti o inquinanti. Al prodotto viene, poi, dato un voto da 1 a 100 (inutile qui dissertare sull’affidabilità di queste App: i pareri sono, come ovvio, discordanti). Che dire, allora, del fenomeno dupe? Sicuramente è un modo delle giovanissime per comprarsi prodotti di moda a prezzi contenuti e più accessibili. Dopodiché nei video su TikTok con l’immancabile indicazione del costo e l’interrogativo finale io ci vedo anche un po’ la strafottenza di chi crede di prendere in giro il sistema dei grandi marchi. A tal proposito mi viene in mente Miranda Priestly (Meryl Streep), l’influente e tirannica direttrice della rivista di moda «Runway», che ne Il Diavolo veste Prada dice alla giovane e inesperta Andy (Anne Hathaway):

«Ma certo ho capito: tu pensi che questo non abbia niente a che vedere con te. Tu apri il tuo armadio e scegli, non lo so, quel maglioncino azzurro infeltrito (…). Quello che non sai è che quel maglioncino non è semplicemente azzurro, non è turchese, non è lapis, è effettivamente ceruleo, e sei anche allegramente inconsapevole del fatto che nel 2002 Oscar de la Renta ha realizzato una collezione di gonne cerulee e poi è stato Yves Saint Laurent se non sbaglio a proporre delle giacche militari color ceruleo. E poi il ceruleo è rapidamente comparso nelle collezioni di otto diversi stilisti. Dopodiché è arrivato a poco a poco nei grandi magazzini (…). Tuttavia quell’azzurro rappresenta milioni di dollari e innumerevoli posti di lavoro…». Una cosa può costare poco perché qualcuno investendoci un sacco di soldi ci ha pensato prima.


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Anno LXXXVI 13 novembre 2023

azione – Cooperativa Migros Ticino 13

TEMPO LIBERO ●

Oltre la punta estrema di Long Island Montauk è un’incantevole e un po’ selvaggia cittadina di mare, meta della borghesia newyorchese e soprattutto paradiso dei surfisti

Una saporita insalata a tinte rosa Cicorino rosso, indivia belga, pompelmo rosa e ravanelli già basterebbero, ma sono le cipolle rosse ad aggiungere gusto e colore

Tra le esperienze belle d’Europa Sul trenino locarnese son saliti quest’autunno ben trentamila viaggiatori per ammirare i colori dei ricchi e fitti boschi delle Centovalli

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Kart Endurance, emozioni a oltre cento km/h Adrenalina ◆ Sono parecchie le gare di resistenza a cui ha partecipato il ticinese Daniel Manetti Moreno Invernizzi

Dici 24 Ore e, quasi scontato per i più, subito il pensiero va a quei bolidi che sfrecciano per un giorno intero nel nord della Francia, e più precisamente sul circuito di Le Mans. Sorta di «tempio sacro» per le gare di resistenza (o «Endurance» per dirla appunto con la terminologia corretta). Perché è qui che, un secolo fa, tutto ebbe inizio: la prima edizione della 24 Ore di Le Mans, gara di Endurance più antica in assoluto, si corse dal 26 al 27 maggio 1923. Poi, oltre mezzo secolo più tardi, su quella stessa striscia d’asfalto di 4185 km nel Dipartimento della Sarthe anche le moto hanno cominciato a misurarsi sull’arco di un intero giorno.

«...si può arrivare anche a 1400-1500 giri di pista: di certo, quando finisci la gara, il circuito lo conosci a menadito!» Oggi di 24 Ore, automobilistiche e motociclistiche, se ne disputano in diversi Paesi, con tanto di Campionati mondiali specifici. Ma auto e moto non sono tuttavia i soli sport motoristici a misurarsi in queste prove di resistenza. Da qualche anno su questa scena, ovviamente in altri tipi di circuito, si sono affacciati pure i kart, ribalta che calca regolarmente il ticinese Daniel Manetti. Ed è dunque a lui che chiediamo di presentarci questa particolare disciplina, sconosciuta ai più. «Nelle gare di Kart Endurance, come avviene per le prove delle “sorelle maggiori”, ogni squadra comprende più piloti. Tre per i team professionistici, fino a sei per una 24 Ore per chi partecipa alle prove “amatoriali”, dove i costi sono spesso a carico dei piloti, per cui più si è, meno è l’onere per il singolo. Le gare più classiche sono ovviamente le 24 Ore, seguite dalle 12 Ore e dalle 8 Ore, anche se talvolta ne vengono proposte anche di durata minore, come le 6 e le 4 Ore. Le gare di Endurance, nel kart, hanno fatto la loro apparizione circa una ventina d’anni fa, con una notevole crescita di popolarità nell’ultima dozzina d’anni». Parecchie le 24 Ore a cui ha già preso il via Daniel Manetti: «Sono vicinissimo alle cento gare, traguardo che conto di superare a inizio 2024. Quest’anno avrò partecipato in totale a una decina di Endurance». Sebbene di km ne abbia macinati parecchi dalla sua prima volta in un contesto simile, il ricordo del suo debutto in questo genere di gare è ancora ben presente nel 34enne di Cademario: «È stato alla 24 Ore di Lignano, nel 2014, gara che all’epoca si disputava col nome di 24 Ore d’Italia. L’emozione che ho provato nel partecipare per la prima volta a un evento simile, di

una tale durata, non l’ho mai dimenticata. Come non scordo le emozioni provate, soprattutto le prime volte, nel passaggio dal giorno alla notte e viceversa. O, ancora, al cospetto dello scenario quasi surreale che ti si presenta davanti agli occhi correndo di notte, su un circuito illuminato da fari meno potenti di uno stadio di calcio, per rendere l’idea. Poi, col passare del tempo, un po’ ti ci abitui, e allora a farti provare i brividi sono altre cose, come il fatto di trovarti su una pista che di norma misura 1000-1500 metri a battagliare gomito a gomito

con una cinquantina di altri kartisti, come spesso accade nelle corse più popolari». Le dimensioni ridotte del circuito condizionano ovviamente anche i giri che si compiono in 24 ore: «A dipendenza della lunghezza del tracciato si può arrivare anche a 1400-1500 giri: di certo, quando finisci la gara, il giro di pista lo conosci a menadito!». Per ora, un campionato ufficiale Endurance, nella categoria in cui compete Manetti, non c’è. «C’è tuttavia una sorta di ranking mondiale che viene stilato in base ai punti raccolti

nelle gare a cui uno sceglie di prendere parte: a fare stato sono i dieci migliori risultati conseguiti nella stagione. I migliori ricevono poi l’invito per partecipare al gran finale della stagione: l’anno scorso per la Play Kart, (ndr. fondata dallo stesso Manetti), abbiamo qualificato a questa finale ben due squadre. E in più mia moglie Alice, kartista pure lei, si è qualificata per la finale femminile». Una coppia a tutto gas, par di capire: «Ci siamo conosciuti lontano dalle piste, ma dopo due-tre anni che ci frequentavamo l’ho… spinta verso il kart e questa specialità, che le è subito piaciuta molto». Benché di 24 Ore Daniel Manetti ne abbia già alle spalle un centinaio, le sue gare predilette restano altre: «Apprezzo di più le competizioni sull’arco di “sole” 12 Ore, decisamente meno sfiancanti e che ti permettono una miglior gestione delle energie. È vero che, a turno alla guida terminato, in una 24 Ore puoi concederti un pisolino, ma non è mai un riposo veramente rigenerante». Una passione, la sua, che ha radice nel passato: «Fin da quando ero piccolo il mondo dei motori, e in particolare la Formula 1, mi affascinavano. Sognavo di diventare a mia volta

un pilota. Poi, crescendo, ci si scontra con la realtà, e dunque le mie mire si sono di fatto ridimensionate. Non la vedo però come una scelta di ripiego: dal kart sono passati parecchi piloti che poi si sono fatti un nome in F1, e nella mia categoria si ritrovano spesso persone che hanno gravitato nell’orbita del Circus più famoso». Parliamo della squadra Play Kart. «La sede, per praticità, è in Italia, ma i piloti che la compongono sono elvetici, 14 in totale (di cui 4 ticinesi e due romandi), con un’età compresa tra i 20 e i 56 anni». Adrenalina a tutta velocità: «Sì, si possono raggiungere anche i 110 km/h: posso assicurare che di adrenalina, a quelle velocità se ne prova parecchia!». In gara, tutti i mezzi presentano le medesime caratteristiche: «Nella nostra categoria vengono impiegati i kart a noleggio messi a disposizione dall’organizzazione, cosa che garantisce le medesime condizioni a tutti i partecipanti. Qui la differenza la fa davvero il pilota… In più, il fatto di poter fare capo ai mezzi messi a disposizione sul posto facilita e non di poco tutto quanto concerne la logistica dei partecipanti. E meno cose da spostare significa anche meno costi!».


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Surfisti e spiagge selvagge a due

Reportage ◆ Montauk è un villaggio di pescatori, incastonato come una gemma nel punto più estremo della penisola di South Fork di L Manuela Cavalieri e Donatella Mulvoni, testo e foto

Surfisti a riposo sulla spiaggia di Ditch Plains. Quella dei surfisti è una comunità di persone che si svegliano all’alba, alla ricerca dell’onda perfetta. Nella pagina di fianco, in senso orario, l’industria del surf è senza dubbio uno dei principali motori dell’economia locale; il Montauk Point Lighthouse è uno dei monumenti più iconici della cittadina; gli Hamptons sono da sempre meta prediletta dei vip che d’estate si rintanano in country club e ville da sogno con spiaggia privata; lo Shipwreck, un negozio di oggettistica e preziosi ispirati al mare.

Il treno della vecchia Long Island Rail Road corre verso est, lasciandosi alle spalle la frenesia di Manhattan, la folla in corsa perenne, la miscela convulsa di odori, il frastuono di clacson e parole. Man mano che il convoglio si avvicina alla costa frastagliata, il panorama che si dispiega al finestrino toglie il fiato. Una dopo l’altra, si succedono le magnifiche cittadine marine conosciute come «Hamptons». I newyorkesi chiamano «The End» lo spettacolo di mare azzurro e cielo terso che accoglie l’ultima fermata. La fine. Su queste spiagge, le onde dell’Atlantico si infrangono «selvagge e inquiete», come le descriveva alla fine dell’Ottocento Walt Whitman, che meglio di tutti riuscì ad afferrare il canto di Montauk. Una melodia cadenzata da un «desiderio incessante e irresistibile, in cerca per sempre delle rive».

Un villaggio di pescatori, incastonato come una gemma nel punto più estremo della penisola di South Fork di Long Island: è questa Montauk. Per le quattromila anime che vivono qui, la vita scorre lenta, immersa in una bellezza assoluta.

Al di là del turismo di massa Almeno dopo la stagione turistica che tradizionalmente negli Stati Uniti viene inaugurata con il Memorial Day, a fine maggio, e si conclude con quello del Labor Day, agli inizi di settembre. In quel periodo la popolazione decuplica. Ecco perché i locali consigliano di visitare Montauk a ottobre, quando le giornate sono ancora miti, i prezzi degli hotel un po’ più ragionevoli e, soprattutto, gli schiamazzi dei turisti solo un ricordo. Lo rac-

comanda anche Brian Harris, che in verità scappa a Montauk da New York ogni volta che può. Bastano poco più di due ore e mezza per percorrere i circa centonovanta chilometri che separano l’ipereccitazione della metropoli dalla magia di dune costiere e macchie di arbusti carezzate dai venti dell’Oceano. «Montauk è diventata negli ultimi anni molto popolare. Per tre mesi è affollatissima. Ma se ci andate fuori stagione, troverete una città fantasma».

Il villaggio della Metropoli Un nativo di Manhattan, Harris, ha «scoperto il mare pulito e la natura incontaminata di Montauk. E ci ho costruito una casa». Durante la settimana lavora in finanza, nel weekend corre negli Hamptons, nella sua cittadina di adozione. Qui è il presidente della storica «Montauk Beach Property Owners Association» che agglomera i proprietari di immobili. Harris ha fatto di questi luoghi la sua missione. Ama la cittadina e la protegge dall’urbanizzazione sfrenata. L’imperativo è rispettarne il carattere, pur senza sbarrare il passo al nuovo che avanza. Harris rappresenta il mix contemporaneo di questa terra, in equilibrio tra vecchio e recente. «A mio avviso è la più bella dell’area», afferma. Non a caso la chiamano la perla degli Hamptons. Adorata, sin dalla fine dell’Ottocento, anche da artisti e scrittori che si ritiravano dalla vita cittadina per soggiornare in piccole case di legno affacciate sul mare. Un modo per cercare ispirazione e stimolare la creatività. Le villette di legno ci sono ancora. Color crema, grigie, oppure colorate d’un azzurro intenso che si smorza nel

bianco della sabbia che le circonda. «Credo che Montauk piaccia a molte persone, compresa qualche celebrità, perché in fondo resta una città di pescatori. La gente va in giro in t-shirt. Non è il Lago di Como, insomma. Nessuno si mette in ghingheri. Ci sono molti colletti blu della classe operaia». L’atmosfera è completamente rilassata.

La brezza dell’Atlantico Guidando lungo queste strade, a finestrino rigorosamente abbassato, quella che si respira è una sensazione di benessere, di armonia. La stessa che in qualche modo è declinata in ogni angolo della città. «È per via dell’odore dell’Oceano – dice Harris – si sente ovunque a Montauk». Da gustare a boccate lente e profonde, lasciando

che la brezza dell’Atlantico dischiuda il suo potere taumaturgico. «Certamente il punto forte è il mare con le spiagge della baia. L’acqua è molto pulita, cristallina, perché ci troviamo alla fine di una lunga penisola». Non è un caso se le spiagge di Montauk compaiono spesso nelle classifiche delle più affascinanti d’America, compresa la Top Ten Beaches pubblicata da Stephen Leatherman, meglio noto come Dr. Beach. Ce n’è addirittura una, la Sunset Beach, famosa specificamente per gli spettacolari tramonti.

Esodi e migrazioni Quando è arrivata «la peste», come Brian Harris ricorda la pandemia, la casa a Montauk è diventata il suo rifugio. «Come me, molti newyorke-

La storia dimenticata dei nativi Montaukett La stragrande maggioranza della popolazione di Montauk è oggi costituita da bianchi. Nulla, o quasi, resta dello straordinario popolo dei Montaukett, i primi abitanti di queste lande da cui la cittadina prende il nome. Di lingua algonchina, la tribù era originaria di Long Island, oggi nello Stato di New York. I Montaukett erano dediti alla caccia, alla pesca, all’agricoltura e all’allevamento. Ma furono anche abili produttori di wampum, le collane di conchiglie o perline di vetro usate dagli indigeni anche come moneta di scambio. Del passato nativo di Montauk rimane traccia solo nel locale Indian Museum. Pochissimi i discendenti in vita. Tanti altri sono emigrati nelle ri-

serve del nord-est americano. Da anni i nativi lottano, senza successo, per il riconoscimento della «Montaukett Indian Tribe», dichiarata estinta nel 1910. Gli attivisti vorrebbero ribaltare proprio questa sentenza, scritta dalla Corte Suprema dello stato di New York. L’ultima batosta, però, è arrivata alla fine dello scorso anno, quando, seguendo le orme del suo predecessore Andrew Cuomo, la governatrice New York, Kathy Hochul ha imposto il veto su una proposta legislativa presentata dal deputato dello Stato di New York Fred W. Thiele, che avrebbe finalmente rimesso sulla mappa i Montaukett. La strada verso il riconoscimento legale è ancora in salita.


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passi da New York

Long Island, dove si trovano anche gli Hamptons

si sono fuggiti qui negli Hamptons». Un esodo che però ha portato a un aumento esponenziale dei prezzi. «È cresciuta anche la popolazione scolastica, visto che tanti dei nuovi arrivati hanno mandato i figli a scuola qui». In realtà, spiega Harris, le «migrazioni» di nuovi abitanti sono piuttosto cicliche. «Ogni sette, otto anni, c’è un’ondata di gente nuova che sceglie gli Hamptons. L’ultima è stata quella degli impiegati del settore della tecnologia, con tanti soldi a disposizione. Prima di loro, gli investitori di Wall Street». Unico comun denominatore, l’attrazione per un luogo facile da raggiungere eppure, in qualche modo, indomito. «A Montauk, oltre il 60% del territorio è costituito da riserve. Si tratta di parchi protetti dello Stato di New York, della Contea di Suffolk o dal distretto di East Hampton», precisa. Chiunque ami la vita all’aria aperta non rischia delusioni: oltre ai numerosi parchi visitabili, ci sono chilometri di spiagge e spazi per praticare kayak e surf. Degno di nota il Montauk Point State Park, che accoglie una nutrita famiglia di animali selvatici come foche, tartarughe e uccelli marini. C’è anche un ranch per gli appassionati di equitazione, il Deep Hollow, che addirittura è il più vecchio ancora in attività a livello nazionale.

Prima di tutto, il surf Per gli americani che vivono nella East Coast, Montauk è però prima di tutto surf. E sono proprio le famose tavole di legno colorate, sistemate sui tettucci delle macchine, appoggiate sulle pareti dei bar, distese sulla spiaggia o nei giardini delle case, a rendere l’aria di questa cittadina allegra e famigliare. Quella dei surfisti è una tribù di persone che si svegliano all’alba, alla ricerca dell’onda perfetta, e si ritrovano insieme a prendere una birra in costume, nei vari localini costruiti in legno, con ampi spazi all’aperto, dislocati lungo la spiaggia o nelle vie del centro. Basta un cenno di saluto con la mano per attaccare discorso, per diventare amici, anche solo per una sera. È il potere del mare e dell’amore per questo sport. L’industria – con tutto l’indotto legato ai negozi attrezzati, luoghi di ritrovo e alloggi – è senza dubbio uno dei principali motori dell’economia. Montauk lega il suo nome a questa pratica sin dagli anni Sessanta. «Tutto merito della posizione geografica – chiarisce Harris – Qui è possibi-

le catturare centinaia di tipi diversi di onde. Se amate il surf, questo è il posto per voi». Nei mesi estivi la spiaggia prediletta, nota come Ditch Plains, è completamente satura di principianti e professionisti arrivati fin qui con tavole e mute da tutta America. In verità sono tante le opzioni disponibili, incluse le spiagge di South Edison, Culloden Point, Gin Beach e, in particolare, Turtles, che offre una possibilità di divertimento anche agli atleti meno esperti. I cavalloni sono molto meno tumultuosi e non spaventano gli sportivi alle prime armi.

La sorella piccola A lungo Montauk è stata la sorella piccina dei luoghi appuntati sui taccuini dell’élite. Lontana dal lusso delle vicine località della «riviera», come Southampton, Bridgehampton o East Hampton. Mete predilette di businessman e vip che d’estate si rintanano in country club e ville da sogno con spiaggia privata, discesa a mare e yacht d’ordinanza. Da Madonna a Jay-Z e Beyoncé, da Robert De Niro a Sarah Jessica Parker, la prima fila dello star system americano passa parte delle vacanze nelle mansion (dimore) degli Hamptons. Per generazioni, di contro, il villaggio si è ostinatamente aggrappato alla sua autenticità senza cedere alle sirene dell’opulenza. Pochi milionari, tanti lavoratori. Negli ultimi vent’anni anni, però, le certezze dei puristi, hanno iniziato inesorabilmente a sgretolarsi. Sì, perché i meravigliosi vialetti della cittadina e il boulevard della Main Street si sono popolati di negozietti chic. A tenere banco, immancabili rivenditori di souvenir, caffè di tendenza, boutique eleganti e gallerie d’arte.

Tra passato e futuro Qualcuno, non senza storcere il muso, la definisce «nuova Montauk», un’evoluzione che poco aggrada agli abitanti che chiamano casa queste rive da generazioni. Tra le new entry, la più nota è Surf Lodge, club amatissimo dai turisti e dai residenti stagionali, incluse le star. Meno frequentato dai residenti, che si rifugiano nei bar storici. Come la Shagwong Tavern, che dal 1936 è il «watering hole» come dicono gli americani, l’abbeveratoio della gente del posto. Tra gli effetti collaterali dell’era contemporanea, senza dubbio la co-

lossale confusione che irrimediabilmente accompagna le folle. E l’intasamento delle strade in alta stagione. Un esempio per tutti è quello delle code chilometriche da accettare stoicamente per vedere il faro di Montauk, il monumento forse più iconico della cittadina. Risale al 1796 ed è il più antico dello Stato di New York, il quarto degli Stati Uniti. A volerlo fu il presidente George Washington in persona. Il panorama che regala sull’Oceano Atlantico è lo sfondo perfetto di selfie e cartoline.

Fuga dal caos «Non c’è nulla che i locali odino più del traffico» racconta Harris. «Effet-

tivamente gli intasamenti estivi sono un inferno». Tanto che, rivela, c’è chi addirittura sceglie di emigrare. «Non ci crederete, ma molte persone nate e cresciute qui, affittano le loro abitazioni d’estate per due mesi e vanno a vivere altrove. Altre, arrivate all’età della pensione, fanno i bagagli e traslocano in qualche posto più tranquillo della Florida». Colpa di una urbanizzazione che sta rischiando forse di sfuggire di mano. Il processo ebbe inizio nella prima metà degli anni Venti del secolo scorso, quando l’imprenditore Carl Fisher fiutò le potenzialità di Montauk e mise mano a un progetto urbano ispirato alle spiagge turistiche di Miami Beach a cui lui stesso aveva lavorato. Non andò bene, perché le sue ambi-

zioni cozzarono contro la crisi finanziaria del ’29 e la Grande Recessione. Resta, però, il Montauk Manor, che oggi completamente ristrutturato ammicca all’attuale clientela benestante. L’unica a potersi permettere di sfogliare il portfolio di un immobiliarista. Oggi pensare di comprare una casetta per godersi le vacanze è impresa praticamente impossibile per i comuni mortali. Per un piccolo cottage con la famigerata «ocean view» ci vogliono oltre due milioni di dollari. E non stiamo certo parlando di ville. I più si accontentano di affittare un alloggio per un paio di settimane, oppure optano per hotel e motel da prenotare con abbondante anticipo, soprattutto nelle aree popolari tra i surfisti.

La cucina di mare I mari di Montauk non sono paradisiaci solo per chi cavalca onde. Sono sacri anche per chi ama la buona cucina. Le acque al largo, infatti, sono notoriamente molto ricche. «Il pescato è semplicemente magnifico», conferma Brian Harris. Dalle aragoste ai granchi, ma anche vongole, ostriche. E poi pesce azzurro, spigole, tonno e merluzzo. «La maggior parte degli abitanti del luogo – ci dice – preferisce comprare il pesce fresco per cucinarlo direttamente a casa, senza andare al ristorante». Non che non ce ne siano di ottima qualità in giro, assicura. Ed effettivamente la scena culinaria è vibrante e molto variegata. Ce n’è per tutti i gusti e soprattutto per tutte le tasche. I palati più esigenti si danno appuntamento al – costoso – Gurney’s Montauk Resort & Seawater; ma si mangia benissimo anche a Dock, Inlet Seafood o Gosman’s. Mentre prodotti freschissimi sono disponibili al Montauk Farmers Market. Gli appassionati di birre artigianali, invece, affollano la Montauk Brewing Company, popolarissima sia tra i visitatori stagionali sia tra gli oriundi. «Come as you are», venite così come siete, recita il motto della birreria. E sembra quasi voler conciliare – con un bel paio di boccali gelati – l’incontro tra le due anime di Montauk, quella turistica e quella locale.


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Ricetta della settimana - Insalata rosa con pompelmo ●

Ingredienti

Preparazione

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Antipasto Ingredienti per 4 persone

1. Staccate le foglie dai cespi d’insalata e distribuitele su un grande vassoio.

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300 g di insalata, ad esempio cicorino rosso, indivia belga 2 pompelmi rosa o 1 pomelo 1 cc di senape granulosa 1 c di sciroppo d’acero 4 c d’olio d’oliva 2 c d’aceto sale 1 cipolla rossa 1 mazzetto di ravanelli 10 g di germogli di ravanello

2. Pelate i pompelmi a vivo e con un coltello affilato liberate gli spicchi dalle pellicine. 3. Per la salsa, spremete i resti dei pompelmi, raccogliete il succo poi mescolatelo con la senape, lo sciroppo d’acero, l’olio, l’aceto e un po’ di sale. 4. Affettate la cipolla con una mandolina direttamente nella salsa e lasciatela macerare un attimo. 5. Dividete i ravanelli in quattro e distribuiteli sulle foglie d’insalata con gli spicchi di pompelmo e i germogli. Irrorate tutto con la salsa e servite. Consiglio utile Le insalate amare abbinate ad alimenti aciduli, come ad esempio il pompelmo o l’aceto, perdono un po’ del loro gusto amaro. Preparazione: circa 15 minuti Per persona: 3 g di proteine, 9 g di grassi, 12 g di carboidrati, 160 kcal

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52 chilometri, 31 gallerie, 83 ponti

Itinerario ◆ Sono circa 30mila i passeggeri della Centovallina che nell’ultimo mese hanno vissuto una delle dieci più belle esperienze di viaggio di tutta Europa grazie al treno del foliage Nicola Mazzi

Ma chi l’ha detto che l’autunno è bello solo a New York? Certo, i colori di Central Park sono magnifici in questa stagione, non per nulla nel 2000 Richard Gere e Winona Ryder erano stati protagonisti di un film d’amore intergenerazionale (intitolato appunto Autumn in New York); di passeggiate con cappotti lunghi, foglie colorate che cadono dagli alberi e musiche romantiche e malinconiche. Eppure, anche da noi, si possono ritrovare quella magia, quei colori e quell’atmosfera speciale e unica che si ripete di anno in anno. In particolare, salendo sulla Centovallina, il trenino panoramico che partendo da Locarno arriva a Domodossola. Proprio per valorizzare quel paesaggio a partire dal 2018 la Fart ha creato un prodotto ad hoc denominato «Foliage» che è usufruibile per circa un mese. Quest’anno si è potuto acquistare dal 14 ottobre all’11 novembre. Un’offerta che, sin da subito e grazie all’eco internazionale data da un articolo di «Repubblica» è stata apprezzata e ha ricevuto molti feedback positivi. Già dal primo anno, soprattutto durante i weekend, vi è stato il boom di passeggeri. E per gli anni seguenti – salvo ovviamente il periodo legato al Covid – il successo si è ripetuto e ha portato sul trenino moltissimi curiosi e turisti da tutto il mondo.

Il percorso, che si può ammirare dagli ampi finestrini della Centovallina, permette di immergersi in suggestive sfumature di colori e atmosfere, lungo un susseguirsi di gole, pianori, montagne, colline e boschi che si tingono delle tonalità di rosso, giallo e arancione. Il biglietto è valido due giorni e include un viaggio di andata e uno di ritorno sull’intera tratta. Viene inoltre offerta la possibilità di effettuare una fermata intermedia (all’andata o al ritorno), per poter visitare anche una delle pittoresche località che costellano il percorso. I bambini e i ragazzi dai 6 ai 16 anni pagano la metà e sotto i 6 anni viaggiano gratis. Anche quest’anno c’è stato un vero e proprio boom di visitatori, nonostante il fatto che il mese di ottobre sia stato davvero molto caldo e l’offerta sia stata posticipata per ammirare il paesaggio autunnale delle Centovalli e della Valle Vigezzo in tutto il suo splendore. I molti passeggeri che hanno approfittato del viaggio (circa 30mila) hanno scattato diverse foto che hanno poi condiviso sui loro social, mostrando la bellezza di quei luoghi in un periodo dell’anno speciale. E a proposito di fermate, qualche idea la possiamo dare. Perché non far tappa a Intragna per visitare il Mu-

Ponte di Orcesco. (Christina Guerra)

seo Centovalli e Pedemonte e assaporare la sua storia? Oppure per salire sul campanile più alto del Ticino e poter ammirare Tegna, Verscio, Cavigliano e l’imbocco delle Centovalli dall’alto? Per chi, invece, preferisce fare una passeggiata attorniato da alberi autunnali e dall’odore di funghi, può fermarsi alla stazione di Palagnedra. Scendere alla diga e poi salire a piedi sino al paese. E lì, visitare la Chiesa di San Michele fresca di restauro, la quale fu citata addirittura in una pergamena del 1236 (senza contare la presenza degli splendidi affre-

Giochi e passatempi Cruciverba Per trattenere il più possibile i propri clienti, i casinò non hanno quasi mai… Trova il resto della frase leggendo a cruciverba ultimato le lettere evidenziate. (Frase: 7, 1, 8)

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ORIZZONTALI 1. Hanno i merli in cima 6. Inchiostro per stampanti 11. Extraterrestre 13. La stella più splendente dell’emisfero boreale 14. Dea egizia 16. Mio francese… 17. Le iniziali dell’attore Favino 19. Nella mitologia erano dei 21. Una casa tutta miele 23. Un ruminante 25. Le hanno le vespe e le mosche 27. Antico strumento musicale

29. Cosparsa di aculei 31. Il trasteverino... 32. Scampò alla distruzione di Sodoma 33. Cadevano dopo le calende 34. Bocca in latino 35. Se è balzana non vale molto VERTICALI 1. Sosta nel Giro d’Italia 2. Nel volume e nel fascicolo 3. Passano mormorando 4. Li dà il cassiere 5. Desinenza di diminutivo maschile plurale

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Informazioni Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica.

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Sudoku Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.

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schi del coro di Antonio da Tradate), ciò che basta per mettere in risalto la sua importanza storica. Al di là del confine, ci si può fare una passeggiata in Valle Vigezzo, quella famosa per i numerosi pittori locali. E a Santa Maria Maggiore, per esempio, si può visitare il Museo dello Spazzacamino, situato nel cuore del Parco di Villa Antonia. Qui, oltre a un’esposizione di attrezzi, abiti, opere pittoriche e oggetti che ricostruiscono la storia del fumista, si segue anche un percorso multisensoriale all’interno di una canna fumaria orizzontale,

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ascoltando il rumore del riccio e della raspa, rivivendo il lavoro svolto con fatica, nei secoli passati. Il treno del Foliage offre la possibilità di visitare questi splendidi luoghi. E di farlo attorniati dai colori accesi e dai profumi intensi dell’autunno. Il tutto percorrendo 52 chilometri, attraversando 31 gallerie e passando su 83 ponti. Un tragitto unico che la guida Lonely Planet ha inserito nella lista delle dieci più belle esperienze di viaggio di tutta Europa. Dopo l’autunno – dove vediamo Richard Gere che cammina in mezzo al Central Park, in una splendida giornata di sole, bambini allegri e foglie appassite e colorate – anche in Autumn in New York arrivano l’inverno, il gelo e la neve. E dopo il pacchetto dedicato al treno del Foliage, anche la Centovallina non smette di offrire ai passeggeri scorci incantevoli attraverso i finestrini panoramici. Magari di sera, quando i fari della locomotiva illuminano i fiocchi di neve che scendono in mezzo ai boschi bianchi e silenziosi. Del resto, ogni stagione, da Locarno a Domodossola, offre un incanto diverso e che si rinnova di volta in volta.

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7. Centro della Cecoslovacchia 8. Persone avverse 9. Prima persona latina 10. Un anagramma di nera 12. Sa scriverla il poeta 15. Accecò Tiresia 18. Le iniziali del cantante Renga 20. Un vaso panciuto 22. Rifugio, ricovero 24. Succede per legge 26. Celebre romanzo di Verga 28. Aspetto, sembianza 30. Le iniziali dell’autore della «Gerusalemme liberata» 33. Un codice identificativo

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Soluzione della settimana precedente Lo strumento più costoso al mondo è una… È stato realizzato da… Il suo nome è… Ed è stato venduto… ed è stato venduto… Resto della frase: … VIOLA, STRADIVARI, MACDONALD, A LONDRA V I O L A S T I R O T A I T O R O T A C I D A T A L I T D O N I

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ATTUALITÀ ●

Quei tagli alla stampa scritta In poco meno di due mesi sono stati soppressi quasi 240 posti di lavoro nei media elvetici

La testimonianza da Gaza Giuditta Brattini ha lavorato 20 anni nella Striscia di Gaza. Ci parla di bombe, morte e fame

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Se l’Occidente è cieco Per la giornalista Sylvie Kauffmann l’Europa è stata incapace di capire e contrastare le intenzioni di Putin

Reportage dalla Tunisia Nell’area di Sfax si incontrano migranti in miseria, altri sono ricchi e poi ci sono i criminali

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Svizzera alla prova dell’accoglienza migranti

Prospettive ◆ Zurigo, Neuchâtel, Berna e infine Chiasso: un piccolo «Tour de Suisse» della politica d’asilo nel nostro Paese Roberto Porta

Per capire quanto capita a Chiasso val la pena di fare un piccolo giro della Svizzera, una sorta di «Tour de Suisse» della politica d’asilo nel nostro Paese. Prima tappa: Zurigo. Una decina di giorni fa il presidente di tutti i sindaci di questo Cantone, Jörg Kündig, ha voluto dire la sua sul tema. E ha affermato: «I nostri Comuni sono arrivati al limite delle loro capacità di accoglienza». Gli ha fatto eco anche il presidente del Governo cantonale, Mario Fehr. A suo dire tocca ora alla Confederazione creare nuovi alloggi, visto il costante aumento del numero di profughi in arrivo nel nostro Paese. L’esercito ha pur sempre delle tende, e potrebbe metterle a disposizione. Questo in breve sintesi l’allarme lanciato dal Cantone più in vista del nostro Paese. Spostiamoci ora a Les Verrières, nel Canton Neuchâtel, lungo il confine con la Francia. In questo piccolo comune di campagna si trova il centro per i cosiddetti «asilanti recalcitranti», gestito dalla Segreteria di Stato per la migrazione. Una struttura in cui vengono ospitati i richiedenti particolarmente riottosi e che dispone di venti posti. Troppo pochi, è stato affermato da più parti in questi ultimi anni. Ma per la popolazione locale la soluzione non sta nell’ingrandire il centro che si trova sul proprio territorio, ma nel crearne uno nuovo, se possibile in Svizzera tedesca. In altri termini c’è bisogno di una diversa ripartizione anche di questo tipo di richiedenti. Ma dall’altra parte della Sarine nessun Cantone ha finora alzato la mano per ospitare una struttura di questo tipo. Terza tappa: Berna. Da quasi un anno la capitale federale è il posto di lavoro di Elisabeth Baume Schneider, la ministra giurassiana alla guida del Dipartimento federale di giustizia e polizia. Dallo scorso gennaio tocca a lei rispondere alle sollecitazioni dei Cantoni e dei Comuni, in particolare proprio per quanto riguarda i posti a disposizione e la ripartizione inter-cantonale dei richiedenti l’asilo, minori non accompagnati compresi. Un dialogo, e una collaborazione, che in questi ultimi mesi sono tornati a zoppicare, da qui le tante critiche rivolte alla ministra socialista, che è di certo la consigliera federale più bersagliata del momento, anche per i continui attacchi veicolati dall’UDC. Va detto che, per calmare le acque, Elisabeth Baume Schneider un tentativo l’aveva pur fatto. In primavera aveva proposto di mettere a disposizione dei richiedenti l’asilo circa tremila posti supplementari, posizionando dei container prefabbricati sui piazzali di diverse caserme svizzere, e questo entro l’autunno in corso. Un progetto che però è stato bocciato dalle Camere federali, sulla

Elisabeth Baume Schneider a Chiasso, lunedì 6 novembre. (Keystone)

spinta dell’UDC e di un discreto numero di parlamentari di altri partiti borghesi. Sono in molti oggi a Berna a ritenere che quello sia stato un errore. Quei prefabbricati avrebbero effettivamente permesso di alleggerire il compito degli altri centri di accoglienza, oggi molto spesso sovraffollati. E sono anche in molti a pensare che quella mossa, quel rifiuto parlamentare, abbia permesso all’UDC di cavalcare il tema dell’asilo in campagna elettorale.

I Comuni del Mendrisiotto sottolineano da tempo che i 600 richiedenti l’asilo presenti oggi sul territorio sono troppi Il primo partito svizzero aveva motivato la sua opposizione con due argomenti. Il primo era di natura finanziaria, legato al costo di quei container che si aggirava attorno ai 130 milioni di franchi, portati però a 66 in un secondo tempo. A mo’ di paragone il budget per la politica d’a-

silo è pari a quattro miliardi di franchi all’anno. Il secondo argomento è semplicemente numerico: l’UDC non vuole aumentare i posti a disposizione dei richiedenti. Sta di fatto che se oggi il nostro Paese disponesse di quei tremila letti supplementari forse il tema «asilo» sarebbe politicamente meno infuocato. E qui arriviamo a Chiasso, la quarta e ultima tappa del nostro «Tour de Suisse». La cittadina di confine una settimana fa ha accolto la consigliera federale Baume Schneider, dopo un’attesa durata un’estate intera. Ad oggi appare difficile capire chi abbia proceduto agli inviti di questa visita, a riprova delle difficoltà comunicative tra Berna e il resto del Paese. La ministra socialista ritiene di aver lei stessa voluto questo incontro, dopo una sua prima presenza nel Mendrisiotto, lo scorso mese di gennaio. Per le autorità locali l’invito è invece giunto dal Ticino, con tanto di petizione sottoscritta da oltre duemila persone. Aneddoto a parte, l’arrivo di Baume Schneider ha permesso di rilanciare il dialogo, definito persino «ap-

passionante» dalla stessa ministra, e di sottolineare che i contatti non siano comunque mai venuti meno tra Berna e le autorità ticinesi. Per la ministra è ora essenziale dare una risposta ai segnali di allarme che arrivano dalla popolazione, sempre più preoccupata per una sicurezza considerata precaria. «Una minoranza di richiedenti commette reati e questo arreca danno alla nostra politica d’asilo», ha fatto notare la consigliera federale, che ha promesso di accrescere le misure di sicurezza nei centri federali, quelle in città o nella regione sono di responsabilità delle polizie comunali e cantonali. EBS, la ministra giurassiana viene anche chiamata così, ha pure affermato di non poter fare un granché nell’immediato, anche perché per alcuni provvedimenti c’è bisogno di modificare le norme in materia. Se ne riparlerà a gennaio, quando la ministra è intenzionata a ritornare nel Mendrisiotto. Nulla invece è stato detto sul fronte delle cifre, di certo quello più delicato. I Comuni della regione, Chiasso in prima fila, sottolineano da tempo

che i 600 richiedenti presenti oggi sul territorio siano troppi, dato che le strutture di accoglienza sono pensate per 350 persone. EBS ha comunicato di aver chiesto a Chiasso di prolungare fino al prossimo mese di giugno l’utilizzo del cosiddetto «Punto di affluenza» che si trova accanto alla stazione. E questo malgrado un accordo sottoscritto con le autorità locali, che prevedeva la chiusura di questa struttura al termine dell’anno in corso. Si tratta di un dormitorio da 240 posti, pensato per i casi di emergenza ma che rischia ora di venir utilizzato in modo permanente. Il numero di richiedenti presenti nella regione potrebbe dunque rimanere ai livelli di oggi anche nel prossimo futuro. In attesa che a livello nazionale si possa definire una diversa ripartizione dei profughi in arrivo. E su questo punto tutti guardano in particolare ai Cantoni della Svizzera Centrale, che da anni però fanno orecchio da mercante. Insomma, EBS deve far fronte a parecchie critiche ma anche a una solidarietà tra Cantoni che necessita di una bella sistemata.


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ATTUALITÀ

Quella mannaia sulla stampa scritta

Svizzera ◆ In poco meno di due mesi sono stati soppressi quasi 240 posti di lavoro nel mondo del giornalismo. Quali sono le conseguenze sulla formazione dell’opinione pubblica?

Cominciamo con le buone notizie: l’offerta giornalistica in Svizzera non è mai stata così buona. È quanto emerge dall’annuario Qualità dei media 2023, pubblicato recentemente da un gruppo di ricercatori dell’Università di Zurigo. Il monitoraggio rileva che dal 2015 i media svizzeri svolgono un ottimo lavoro e che la produzione giornalistica si concentra sempre più su temi rilevanti, un’evoluzione a cui hanno contribuito la pandemia di Coronavirus e la guerra in Ucraina. «È un dato incoraggiante, ma anche sorprendente alla luce del fatto che le risorse nel giornalismo continuano a diminuire», ha commentato Mark Eisenegger, il responsabile della ricerca. Da anni, infatti, il settore dei media tradizionali è confrontato con una costante erosione di lettori e un crollo delle entrate pubblicitarie. Inoltre il mercato è sempre più conteso tra gli attori classici e le grandi multinazionali dell’IT come Google o Meta. A farne le spese sono spesso le giornaliste e i giornalisti delle diverse testate in Svizzera. Ed eccoci giunti alle note dolenti.

Si rinuncia alla ricerca giornalistica classica e si ricorre sempre più spesso all’intelligenza artificiale per la produzione di contenuti È di mercoledì scorso la notizia della soppressione nella Svizzera tedesca di 150 posti di lavoro, di cui 90 licenziamenti, da parte di CH Media. Secondo una nota del gruppo, nato nel 2018 come associazione tra NZZ Mediengruppe e AZ Medien, la causa è il continuo calo del fatturato, che nel primo semestre di quest’anno ha fatto registrare una perdita di 6,9 milioni di franchi. Si tratta di un ulteriore duro colpo per il settore giornalistico. Infatti, a fine settembre, TX Group, l’azienda mediatica cui appartiene Tamedia, ha annunciato il taglio di 48 posti di lavoro, 28 dei quali nella Svizzera francese. Poche settimane dopo, il gruppo zurighese ha comunicato la soppressione di altri 35 impieghi presso il quotidiano gratuito «20 Minuten», 28 nella redazione a Losanna. In poco più di un mese, la stampa romanda si è vista impove-

rita di quasi 60 giornalisti e giornaliste. Sono misure di risparmio che non sorprendono Peter Rothenbühler, giornalista, scrittore e profondo conoscitore del panorama mediatico romando, visto che per un decennio è stato caporedattore del quotidiano «Le Matin». Nel 2021, «Watson» e «Blick», due affermate testate nella Svizzera tedesca, hanno osato il salto oltre la Sarine, lanciando due piattaforme di informazione online. «Messo alle strette dalla concorrenza, Tamedia ha potenziato la redazione di “20 minutes”, sperando di sbaragliare la concorrenza. Ma ovviamente non è andata così», afferma Rothenbühler. «I recenti tagli non mi hanno quindi stupito più di tanto. Per Tamedia, la Svizzera romanda rimane una sorta di terra incognita». Sembra davvero che il gruppo mediatico zurighese continui a brancolare nel buio. In un’intervista a SRF, la radio svizzero tedesca, Christine Gabella, direttrice di Tamedia in Romandia, ha spiegato che uno degli obiettivi futuri è utilizzare le nuove tecnologie per scoprire quali sono gli interessi delle lettrici e dei lettori. Una strategia a lume di naso che desta grande preoccupazione ad Impressum, la più importante associazione di giornalisti della Svizzera. «La pressione a cui sono sottoposte le redazioni è enorme», sottolinea Livia Lehner, segretaria centrale. «In queste condizioni, svolgere il proprio lavoro, che richiede inventiva e creatività, diventa molto difficile. Abbiamo inoltre la netta sensazione che la direzione a Zurigo non sia interessata a prendere sul serio il benessere e le preoccupazioni del personale, nemmeno dopo le manifestazioni di protesta. È una situazione estremamente frustrante». Ma quale impatto avrà questa evoluzione sulla formazione dell’opinione pubblica, in maniera particolare nella regione francofona del Paese? Da anni si osserva una tendenza verso la concentrazione che suscita un diffuso timore per il futuro del «quarto potere». Nella Svizzera romanda due gruppi controllano ormai quasi la totalità del panorama mediatico: TX Group e SRG SSR detengono l’81,5% della quota di mercato. La centralizzazione delle redazioni ha comportato una riduzione dell’offerta giorna-

Keystone

Luca Beti*

listica poiché un numero crescente di testate propone gli stessi contenuti, causando un appiattimento del dibattito pubblico e una riduzione della pluralità di opinioni. Inoltre, la diminuzione delle risorse nelle redazioni si ripercuote sulla qualità dell’informazione: si rinuncia alla ricerca giornalistica classica e si ricorre sempre più spesso all’intelligenza artificiale per la produzione di contenuti. «Arriva un punto in cui è molto difficile produrre articoli che apportino un reale valore aggiunto», spiega Nathalie Pignard-Cheynel, professoressa e direttrice dei corsi di giornalismo presso l’Accademia di giornalismo e media dell’Università di Neuchâtel. «Le testate rischiano di perdere ulteriormente lettori visto che questi ultimi non sono disposti a pagare per un’informazione uniformata. Si corre il pericolo di entrare in un vero e proprio circolo vizioso». Le misure di risparmio adottate da Tamedia non sono probabilmente finite, anche perché il numero di abbonati e abbonate continua a diminuire e con loro le entrate pubblicitarie. Secondo un recente studio, nella Svizzera tedesca il quotidiano gratuito «20 Mi-

nuten» conta ancora su circa 840’000 lettori e lettrici, cifra che rappresenta un calo del 10% rispetto al 2022. Anche il «Tages-Anzeiger» ha perso quasi 50’000 abbonati. E com’è la situazione nella Svizzera francese? «Negli ultimi anni abbiamo assistito alla scomparsa di varie testate. Il settimanale “L’Hebdo” non viene più pubblicato e “Le Matin”, un tempo quotidiano molto popolare, ora esiste solo nella versione online», prosegue Nathalie Pignard-Cheynel. Nonostante questa tendenza alla standardizzazione, il panorama mediatico romando rimane diversificato, soprattutto grazie ai giornali regionali e locali. «Si osservano dinamiche interessanti», aggiunge la direttrice della scuola di giornalismo. «Nell’area francofona hanno fatto la loro comparsa i portali d’informazione online come Heidi.news, Watson e Blick. È un’evoluzione alquanto paradossale: mentre i grandi gruppi editoriali procedono con i licenziamenti, emergono nuovi media che assumono giovani». Qual è la situazione nella Svizzera italiana? Uno studio condotto nel 2022 dall’Università di Zurigo ha puntato l’attenzione su Ticino

e le quattro valli italofone nel Cantone dei Grigioni. In generale, i risultati della ricerca mostrano che la qualità dell’offerta è analoga a quella nelle altre regioni linguistiche del Paese. Anche qui, come nel resto della Svizzera, si osserva un calo del numero di lettori: ad esempio, tra il 2010 e il 2021, la tiratura del «Corriere del Ticino» è passata da circa 37’000 a 29’600 copie e quella de «laRegione» da 32’500 a 23’700. Oltre che dalla cronica difficoltà nel mondo dei media, che si traduce in un peggioramento delle condizioni di lavoro per giornalisti, fotografi, cameraman e personale tecnico, Roberto Porta, presidente dell’Associazione ticinese dei giornalisti, è preoccupato anche dalla crescente disaffezione dei giovani verso le testate tradizionali. «Questa è una grave ipoteca sul futuro del settore», sottolinea. «Qui occorre davvero agire con urgenza, a cominciare dal mondo della scuola. Non è in gioco solo il futuro del giornalismo, ma anche quello del dibattito democratico nel nostro Paese». * L’autore dell’articolo è membro del comitato centrale di Impressum. Annuncio pubblicitario

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ATTUALITÀ

Le bombe, la morte, il terrore e la fame

La testimonianza ◆ Giuditta Brattini lavora da vent’anni nella Striscia di Gaza per sostenere i bambini feriti: «Lì manca tutto» Angela Nocioni

«Bombardano i civili notte e giorno. È piena zeppa di civili sotto le bombe Gaza. È una menzogna che bombardano solo Hamas, stanno massacrando civili e bambini: oltre 4200 bambini uccisi (dati aggiornati al 7 novembre scorso) ed è ridicolo sentirsi dire che queste cifre non sono attendibili perché il Ministero della sanità palestinese è di Hamas. È uno dei posti più popolati della Terra, la Striscia di Gaza, se la si bombarda a tappeto, se si bombardano i campi profughi, le scuole, le ambulanze chi vuoi che muoia se non i civili? La metà dei palestinesi ha meno di 18 anni, è una strage continua di bambini». A parlare è Giuditta Brattini che nella Striscia di Gaza lavora da più di 20 anni con un’associazione italiana che si occupa di assistenza, cura e riabilitazione dei bambini palestinesi feriti. È uscita il primo novembre dal valico di Rafah, al confine con l’Egitto, dopo essere stata ospitata in una struttura dell’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi. In quel luogo, insieme a trentacinquemila famiglie, ha aspettato l’apertura del confine per gli autorizzati: gli stranieri e alcuni palestinesi con passaporto straniero. A Gaza City, dove viveva durante i primi giorni del conflitto, ha operato nel pronto soccorso di un ospedale dove ha visto «arti amputati coperti con le borse di plastica perché c’era talmente tanta gente che è finito subito tutto, dispositivi medici compresi, e oggi nelle operazioni chirurgiche i medici usano l’aceto perché sono finiti anche i disinfettanti e gli anestetici». Israele dice che spesso miliziani di Hamas si spostano sulle ambulanze e si nascondono negli ospedali, o in gallerie scavate lì sotto… Una bugia che sento raccontare da 20 anni. Intanto le ambulanze hanno il dovere di raccogliere i feriti, chiunque siano, anche i miliziani di Hamas. E poi Israele ha il dovere di provare che quelli a bordo siano miliziani. Le ambulanze sono state colpite davanti all’entrata principale dello Al-Shifa Hospital. Quando è stato bombardato l’ospedale battista di Al-Ahli Arabi, molte delle vittime erano persone che si erano rifugiate nei giardini, nel parcheggio: erano convinte di essere al sicuro perché vicine a un ospedale. Cosa ha visto nei campi profughi? Parlo soltanto di quello che ho visto con i miei occhi e sentito con le mie orecchie. Nei campi il rischio epidemia è altissimo. Migliaia di persone sono senz’acqua e non possono lavarsi. Le bombe esplodono notte e giorno. Per giorni interi ci sono esplose bombe tutt’intorno, a meno di un chilometro di distanza. Tutti hanno terrore e figli, genitori, fratelli, amici morti sotto i bombardamenti. Una sola storia racconto perché possiate capire cosa accade agli sfollati. Nawra è di Gaza City. Viveva in città con il marito e i suoi sei figli – tra cui la più piccola di 6 anni e Majd di 27 anni –

Palestinesi aspettano la distribuzione di cibo a Rafah. (Keystone)

la moglie di uno dei figli e il loro un bambino di un anno. Dopo il primo bombardamento israeliano dell’8 ottobre hanno abbandonato di corsa l’abitazione con qualche borsa con poche cose. Sono riuscita a parlarle al telefono. Mi ha detto: siamo andati via e so che quando torneremo non ci sarà più, l’avranno bombardata. Sono scappati a sud, a casa dei vecchi genitori di Nawra. Solo il marito di Nawra esce due volte a settimana per comprare qualcosa da mangiare. Majd a Gaza City è autista di ambulanze e lavora anche come primo soccorso. Ha risposto a un annuncio di lavoro, un’agenzia che affitta macchine alle persone per scappare. Stava andando a Gaza in macchina e un missile l’ha centrato. Majd non c’è più. Nawra dice che non vuole più vivere. Tra tutto quel che mi ha detto Nawra al telefono mi ha impressionato questa frase:

«L’unica consolazione è che qualsiasi cosa succeda ora siamo tutti insieme». Fuori dal centro sfollati di Rafah c’è una folla sempre più grande di persone che vuole entrare, ma non c’entrano, il piazzale è strapieno. L’Agenzia dell’Onu per il soccorso e l'occupazione (Unrwa) ha detto che le sue scuole riempite di sfollati sono da abbandonare: non sono sicure e c’è pochissimo cibo. Quindi ci sono 400mila persone che devono andare verso sud e nessuno sa come faranno. C’è febbre alta e dissenteria. Ci sono stati momenti di tensione con famiglie che chiedevano altra farina perché solo quella c’è. I responsabili dell’Unrwa a fine ottobre hanno distribuito altri sacchi e spiegato che si trattava degli ultimi. Non sanno più come sfamarli. Ha detto che non c’è acqua? Nel nord non c’è proprio acqua, non

Le donne: bersagli da colpire La settimana scorsa l’alto commissario dell’Onu per i diritti umani Volker Turk ha affermato che sia Hamas sia Israele hanno commesso crimini di guerra da quando è scoppiato il conflitto. Soffrono palestinesi e israeliani, insomma. E, come in tutte le guerre, il corpo delle donne «diventa bottino, campo di battaglia. Le donne sono bersagli strategici da colpire per terrorizzare i civili, per distruggere le comunità» (lo aveva scritto Arianna Farinelli su «la Repubblica», riferendosi al conflitto in Ucraina). Fonti israeliane raccontano di violenze sessuali perpetrate durante gli attacchi di Hamas ai kibbutz e ai villaggi: di cadaveri femminili trovati nudi, i polsi legati, i segni degli abusi. E investigatori di Tel Aviv – lo riportava settimana scorsa il «Corriere della Sera» – hanno raccolto

la prima testimonianza diretta di uno stupro di gruppo. «La donna spiega di aver visto una ragazza stuprata a turno da uomini in mimetica, l’ultimo le ha sparato alla testa mentre la stava violentando, hanno mutilato il corpo e si lanciavano le parti tagliate. Alcuni tenevano la testa di un’altra vittima come trofeo». La polizia sta analizzando oltre 50 mila video ripresi dalle camere indossate dagli stessi terroristi, da quelle installate sulle auto dei civili israeliani e nelle case o nei villaggi. È difficile associare gli autori ai crimini commessi (200 terroristi sono stati arrestati), «l’ipotesi del procuratore è di cercare la condanna per omicidio, stupro o abusi se l’uomo si trovava nella zona dove sono stati commessi, di fatto tutte le aree invase a sud del Paese». / Red.

c’è elettricità e non si può pompare acqua. I bambini bevono acqua marina dissalata mescolata ad acqua distillata, che non è nemmeno acqua. Uno dei primi giorni che ero nel campo sfollati di Rafah è successo che Israele ha buttato volantini dal cielo. Tutti sono corsi a vedere di cosa si trattava. Israele, subito prima dei bombardamenti, oltre agli sms di avviso lancia a volte anche volantini con scritto: bombe, dovete andarvene. Su questi c’era scritto in arabo: se sapete dove sono gli ostaggi ditecelo, ricompensa in denaro. Ho visto che le persone li leggevano, li strappavano e li buttavano via. Manca anche il carburante che significa anche mancanza di corrente elettrica. Questo provoca non soltanto il collasso delle strutture sanitarie, ma l’impossibilità di depurare l’acqua, per evitare contaminazioni e inquinamento. Come ci si sposta? Sotto le bombe con quel che c’è. Gli spostamenti in massa, verso le strutture dell’Unrwa, avvengono anche quelli sotto i bombardamenti israeliani. Anche i centri non sono sicuri. Non c’è spazio e chi può si rifugia a sud dai familiari, appartamenti di tre stanze con decine e decine di persone. Ma non esiste una safe zone, bombardano ovunque. Gli aiuti umanitari che sono stai fatti entrare si fermano intorno a Rafah, niente arriva oltre, Gaza City è senza nulla, serve tutto. Prima dell’inizio dei bombardamenti entravano a Gaza 500 camion di aiuti al giorno. Ne stanno entrando ora circa 15 e non sempre. Portano generi alimentari, medicinali e acqua che rimangono però bloccati al sud e al centro della Striscia, perché Israele impedisce che raggiungano il nord. La prima volta che è stato aperto il valico di Rafah sono uscite per tre giorni le ambulanze. Le liste sono nominative, tu fai richiesta di uscire

e poi devi aspettare di vedere se Israele – e in seconda battuta l’Egitto – ti mette nella lista. Chi stila queste liste? L’Egitto con Israele, niente passa se non c’è l’ok israeliano. Le chiamate al valico sono nominative. Immaginatevi 500 persone chiamate per nome che escono e lasciano gli altri lì. I palestinesi senza doppia cittadinanza non escono. Chi glielo impedisce? Per primo Israele e poi l’Egitto che non vuole diventare un campo profughi. Tutti quelli che escono, compresa io italiana, escono con l’obbligo di lasciare l’Egitto entro 72 ore. Questo spiega anche perché i palestinesi non escono. Molti oltretutto non vogliono lasciare la loro casa, anche sotto le bombe non vogliono lasciarla. E tutti gli altri non sanno dove diavolo andare. Senza soldi, senza potersi spostare, come lasci entro 72 ore l’Egitto? I palestinesi non si vogliono spostare dalla loro Terra, tanti sono rimasti nella Striscia e a Gaza City ben consapevoli del fatto che li bombarderanno. D’altro canto anche quelli andati a sud si sono trovati le bombe. Israele vuole mandarli nel Sinai e loro non vogliono abbandonare la Palestina storica. E i palestinesi che hanno permessi di lavoro in Israele? Sono rimasti bloccati e si sono rifugiati distribuendosi in città della Cisgiordania. Nablus ad esempio ospita più di 600 palestinesi che erano lavoratori in Israele e non possono tornare lì dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre. Assistono da lì al massacro di civili che si sta consumando a Gaza senza che ci sia un solo giornalista internazionale nella Striscia a raccontarlo, ci sono reporter palestinesi, ne hanno già uccisi una quarantina.

azione

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ATTUALITÀ

Non c’è dubbio: l’Occidente è cieco

Il saggio ◆ Per la giornalista francese Sylvie Kauffmann l’Europa è stata incapace di capire e contrastare le intenzioni di Putin Marzio Rigonalli

Lo shock vissuto nelle capitali europee il 24 febbraio 2022, quando la Russia invase l’Ucraina, è stato enorme. Trent’anni dopo la fine della Guerra fredda, una parte dell’Europa è ridiventata teatro di un conflitto con le sue distruzioni, i suoi crimini, le sue vittime e la disperazione che provoca. Molte domande sono sorte dopo l’invasione. Perché Putin non è stato bloccato prima? Perché gli occidentali non hanno tenuto debito conto delle mire imperialistiche del capo del Cremlino e hanno creduto di poter trattare e trovare compromessi con lui? A questi interrogativi cerca di rispondere Sylvie Kauffmann, con il suo recentissimo libro Les aveuglés (gli accecati), edito da Stock. La giornalista francese passa in rassegna il primo ventennio del secolo e mette in luce le situazioni di fronte alle quali i dirigenti occidentali hanno agito con orecchie e occhi chiusi, senza riuscire a capire le intenzioni di Putin e senza vedere le sue mire espansionistiche. Ecco alcuni esempi. Il 12 marzo 1999 il socialdemoratico Gerhard Schröder diventò cancelliere. Un anno dopo Putin assunse la presidenza della Russia. Tra i due nacque un’amicizia profonda, che dura tutt’oggi, con festeggiamenti dei rispettivi compleanni e con posti ben retribuiti nel settore energetico russo offerti a Schröder dopo la fine della sua attività politica. Quest’ultimo rinunciò solo a una parte di quei posti, sollevando un’ondata di critiche in

Germania. Ha perso i soldi e i collaboratori cui aveva diritto come ex cancelliere, ma i dirigenti del suo partito hanno rifiutato di espellerlo. In quegli anni la Germania non aveva nessuna intenzione di occuparsi delle possibili mire di Putin. Due discorsi avrebbero dovuto rendere attenti i dirigenti occidentali e indurli a riflettere sulle relazioni con la Russia, ma i segnali non vennero colti. Il primo discorso lo tenne Putin il 10 febbraio 2007 alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco. Putin sferrò un attacco contro gli Usa, che secondo lui volevano dominare il mondo, e criticò l’estensione della Nato fino alle frontiere russe. Dichiarò: «Le persone non si sentono più al sicuro da nessuna parte», lasciando perplesso il pubblico che lo ascoltava. Il secondo discorso è di Dmitrij Medvedev, subentrato a Putin come presidente tra il 2008 e il 2012. Il 31 agosto 2008, alla televisione russa, Medvedev enumerò i principi della politica estera russa. Citò in particolare la protezione delle popolazioni russofone, ovunque esse fossero, e la rivendicazione di una sfera d’influenza in quelle regioni dove la Russia aveva degli interessi. Sempre nel 2008, durante le Olimpiadi di Pechino, le truppe russe invasero la Georgia. «È l’inizio di un ciclo di aggressioni esterne», scrive Kauffmann. Il presidente francese Sarkozy intervenne, come presidente dell’Ue, per trovare una soluzione. Si recò a Mosca,

Vladimir Putin e, a destra, Gerhard Schröder nel 2000. (Keystone)

incontrò Putin e concluse un accordo senza però includervi il principio dell’integrità territoriale della Georgia. Mosca decise allora di non ritirare le sue truppe e riconobbe l’indipendenza dell’Abkhazia e dell’Ossezia del sud, due province della Georgia. L’Ue non reagì veramente: non fornì nessun aiuto militare alla Georgia e non adottò sanzioni contro la Russia. Con il ritorno di Putin alla presidenza, nel 2012, le crisi si moltiplicarono. L’Ucraina fece breccia nell’attenzione di Putin. Le manifestazioni filoeuropee, iniziate nel novembre 2013 in Piazza dell’indipendenza a Kiev e diffusesi in molte altre città ucraine, nonché i cambiamenti avvenuti al vertice del potere politico, fecero temere al presidente russo

che l’Ucraina si orientasse verso l’Occidente e sfuggisse all’influenza della Russia. Putin decise allora di invadere e annettere la Crimea, con il pretesto di aiutare la minoranza russofona. Poi si orientò verso il Donbass e sostenne la rivolta delle minoranze filorusse che crearono le Repubbliche popolari di Donetsk e di Lugansk. L’Occidente reagì escludendo la Russia dal G8 e adottando sanzioni che non ebbero però nessun effetto concreto sulla politica estera russa. Per far fronte al conflitto del Donbass si cercò in seguito una soluzione con gli accordi di Minsk, accordi che però non vennero né rispettati né applicati. Gli eventi degli ultimi anni sono stati meno palesi ma si sono iscritti in quel trend che ha portato alla trage-

dia del 24 febbraio 2022. Pur privilegiando la narrazione dei fatti, Kauffmann si sofferma anche sulle ragioni dell’immobilismo dei principali Paesi europei negli ultimi due decenni. Per la Germania la principale ragione è di natura economica. Berlino sperava che i buoni rapporti economici potessero far ragionare Putin. Si è però resa così dipendente dalle materie energetiche russe da rendere difficile una qualsiasi reazione. Quando iniziò l’invasione dell’Ucraina, la Germania importava dalla Russia il 55% del suo gas, il 50% del suo carbone e il 30% del suo petrolio. La sua dipendenza energetica era ben illustrata anche dai due gasdotti Nord Stream 1 e Nord Stream 2 attraverso il Baltico. La Francia ha sempre voluto costruire un sistema di sicurezza europeo all’interno del quale ci doveva essere la Russia. Perdipiù gran parte della classe dirigente francese era russofila. L’Italia era attirata dalla possibilità di concludere affari con Mosca e, infine, la Gran Bretagna vedeva di buon occhio i soldi che i gerarchi russi trasferivano a Londra. Con la sua analisi, la giornalista francese ci immerge negli anni a noi ancora vicini e ci fa rivivere momenti cruciali. Svela le grandi linee di un periodo che non nobilita certo il vecchio Continente e che lascia aperti molti interrogativi sul futuro della democrazia occidentale, della libertà e della pace tra i Paesi. Annuncio pubblicitario

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ATTUALITÀ

Tra poveri, ricchi e criminali

Tunisia ◆ Nell’area di Sfax si incontrano migranti che aspettano di attraversare il Mediterraneo e non hanno i soldi per pagare gli scafisti Andrea Galli, testo e foto

La sete ancor prima della fame. E col passaparola tra i mediatori, dai balordi giù giù fino ai ragazzini – in Tunisia il traffico dei migranti è un esteso, florido, generazionale settore come la droga della camorra – gli scafisti vanno ripetendo che in questi giorni abbondano gli sconti: 3500 dinari tunisini, circa mille franchi svizzeri, contro i soliti 5-6000 per raggiungere Lampedusa. «Affrettatevi, le temperature stanno calando e il mare si agiterà». Cosa importa se, come avviene da luglio, il Mediterraneo fa riemergere i corpi di bambini naufragati e fuori dalle statistiche ufficiali dei deceduti, dalle conte dei Governi e delle Ong? «Forza, forza, affrettatevi». Ma con quali dannati soldi? Nell’area di Sfax, amata dagli imprenditori giapponesi della pesca per la maestria locale nel braccare il tonno rosso, a tre ore di macchina dalla capitale Tunisi verso sud, tra le poche strade asfaltate e le coste dei barconi sorgono infiniti oliveti che sarebbero la via di mezzo. Quella dell’attesa della chiamata per attraversare il mare, con il trasferimento al litorale a bordo di camion e l’immediata salita sulle imbarcazioni. Sono invece aree di sosta. Eterna. I migranti nemmeno hanno 3 dinari tunisini (80 centesimi di franchi svizzeri) per comprarsi una bottiglietta di minerale, figurarsi versare il biglietto agli scafisti. I piccoli del Con-

go, della Sierra Leone, del Burkina Faso, del Benin, del Camerun, ci corrono incontro mimando con il pollice in bocca l’urgenza di dissetarsi. In Tunisia negli scorsi mesi la siccità ha strozzato l’agricoltura e senza agricoltura il Paese si ferma. Alle forniture di farina sta provvedendo la Russia di Putin. Mancherebbero anche certi medicinali specie per i tumori, le principali scorte venivano da Israele e tutto è bloccato, s’intende. E mancherebbe personale d’ogni sorta – medici, infermieri, psicologi – che si occupi di questa popolazione reduce da migliaia di chilometri nel deserto (quanti siano per davvero nessuno lo sa né saprà) che giace accampata e ancorata all’elemosina. All’inizio i migranti dell’Africa subsahariana pensavano che il Nordafrica sarebbe stato il passaggio più rapido, meno ostico, e invece, sul versante libico, gli arresti, i lager, il tempo perduto – anche tre anni piantati lì – e invece, sul versante algerino, i posti di blocco dei banditi che derubano, violentano, torturano… Si diffonde un profondo senso d’impotenza, a girare fra questa gente, a domandare e ascoltare, con bambini grandicelli che neanche si sono regalati un solo giorno di scuola: da quando ancora erano in età da scuola dell’infanzia stavano in cammino con mamme e papà, e hanno continuato a marciare subito prima e subito dopo la

venuta al mondo dei fratellini. Partoriti nelle oasi. Di nascosto, nel terrore piombasse un miliziano, uno sbandato, uno sciacallo qualunque. Eppure questo scenario risulta perfino parziale. Come in ogni comunità umana vi sono le differenze, e non appaia offensivo, di ceto sociale. Ai poveri per appunto privi d’ogni risorsa economica si contrappone un’altra tipologia di migranti. Quelli che il denaro lo hanno. E parecchio. Basta posizionarsi nei bar che frequentano, e osservare. Cellulari di recente produzione, auricolari ultratecnologici, sigarette elettroniche, playstation portatili, la consumazione di pasti e cene nei ristoranti, attese in coda agli uffici postali e ai bancomat per prelevare fasci di soldi. Questi sì che sono in transito. Rifiatare e lasciare la Tunisia. E approdati in Europa, l’Italia resterà una tappa momentanea. Subito dopo, il piano prevede la percorrenza di altre direttrici. Non unicamente la (troppo) mediatica frontiera francese tra Ventimiglia e Mentone. Non è infatti un caso che fra le intelligence che chiedono informazioni, anzi approfonditi dossier ai colleghi tunisini, ci sia anche quella svizzera. Fonti dei Servizi segreti di Tunisi ci raccontano il crescente bisogno di notizie in relazione ai frequenti ingressi illegali nel Canton Ticino specie dal Comasco (non per forza percorrendo gli antichi sentieri dei contrabbandieri ma

Donne e bambini bloccati negli oliveti, area di Sfax.

entrando dai varchi doganali minori, non sempre presidiati). Il desiderio di conoscere, ci viene altresì detto, verte su quei migranti potenzialmente pericolosi, e in aumento. Se ci sono i poveri e i ricchi, abbiamo un’ulteriore categoria da narrare. I criminali. Non fa certo statistica, nell’obbligatorio esercizio di non generalizzare, e però le banche dati investigative dell’intelligence evidenziano la consistente ferocia di africani originari di Ciad, Mali e Sudan. Venti, trent’anni al massimo d’età. Si muovono in gruppi consistenti. Possiedono un’inclinazione al ricorso alla violenza, l’unica forma di «comunicazione» appresa da piccoli; si notano per la capacità di inserirsi nei traffici della droga miscelando tattica e metodi militari, di governare il racket della prostituzione; non celano la volontà di alzare il livello, ovvero utilizzare i barconi per muovere merce, sia i carichi dello stesso stupefacente, sia le armi. In aggiunta, siccome gli ultimi della Terra sono carne da macello, sono un prodotto

per lucrarci, sono pedine funzionali a un sistema, gli scafisti e questi criminali coabitano nella gestione degli accampamenti fra gli oliveti. Vi sono capi, vicecapi, luogotenenti, e donne costrette a prostituirsi per 2 dinari, mezzo franco svizzero, e minorenni che eseguono agguati su commissione a danni di avversari, siano di altri Paesi oppure connazionali nulla cambia. Vi sono le punizioni contro eventuali insubordinati, dissidenti, rivoltosi interni. Vi sono quei migranti ai quali viene ordinato di salire sui barconi e raggiungere una determinata località in Europa per svolgere un determinato servizio. Impossibile opporsi. Viene in mente al proposito un’altra storia indicibile di queste terre: le centinaia di ragazzi sì messi in mare, dopo aver pagato, ma dirottati dagli scafisti in Siria per combattere, in prima linea, morti che camminavano, avendo due uniche scelte: accettare oppure morire fucilati all’istante. Nel buio dei viaggi notturni nel Mediterraneo, una costa può somigliare a un’altra. Annuncio pubblicitario

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CULTURA ●

Da scrittrice a pedicurista L’autrice tedesca Katja Oskamp nel suo ultimo lavoro racconta la sua originale storia ambientata nel quartiere Marzahn di Berlino

La grande impresa di Maddalena L’opera ispirata a una cupa leggenda momò è andata in scena dal 3 al 5 novembre a Lugano e ha avuto un bel successo di pubblico

Francine Mury alla Galleria Cons Arc Nell’esposizione dal titolo Oggi. Sulla soglia la Galleria chiassese per la prima volta accoglie lavori non propriamente fotografici

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«Questo mondo non sarà mai più bianco» Mostre ◆ All’Aargauer Kunsthaus il razzismo si specchia nelle opere di James Baldwin e di altri quaranta artisti Elio Schenini

Nelle scorse settimane, il principale museo d’arte ticinese ha annunciato la prossima apertura di una mostra con opere della propria collezione, nella quale, così recita il comunicato, a fare da «filo conduttore sono le due tonalità senza tempo: il bianco e il nero» (sic). La volontà sempre più diffusa in ambito museale di semplificare la comunicazione verso il pubblico e di nulla concedere ai lambiccamenti concettuali e ai bizantinismi pseudofilosofici di una prosa manierata e involuta che caratterizzano molta critica d’arte contemporanea è sicuramente apprezzabile, il rischio, come nel caso della frase citata, è però quello di assistere a un’estrema banalizzazione dei significati e uno svuotamento di senso del discorso.

Di «bianchi» e di «neri», intesi però come entità demografiche caratterizzate dal diverso colore della pelle e non come puri e semplici colori (perché, detto per inciso, bianco e nero sono colori, per quanto acromatici, e non tonalità), tratta, dimostrando ben altra densità concettuale e attenzione all’attualità, la mostra Stranger in the Village. Rassismus im Spiegel von James Baldwin che l’Aargauer Kunsthaus ospita fino al 7 gennaio 2024. D’altronde è esperienza nota a chi abitualmente frequenta le mostre proposte nelle diverse aree del nostro Paese che nei musei d’arte d’Oltre Gottardo ci siano molto meno timori e reticenze ad affrontare questioni sociali e politiche anche controverse rispetto al Ticino, dove temi di questo tipo, e ci si potrebbe chiedere per quale ragione, vengono abilmente e prudentemente scansati dai responsabili museali. L’Aargauer Kunsthaus, istituzione che negli ultimi decenni si è profilata, sia nella programmazione sia nello sviluppo della collezione permanente, come quella maggiormente attenta alla scena artistica contemporanea svizzera, molto più di altri istituti con ben altro prestigio e capacità finanziarie, ma proprio per questo più votati all’internazionalità, ha scelto di affrontare il tema del razzismo nei confronti delle persone di colore con grande attenzione e sensibilità, imponendo in primo luogo a sé stesso a ai propri collaboratori quel processo di decostruzione che la mostra invita tutti gli spettatori a fare. Un processo ispirato dalle riflessioni dell’artista e

Aargauer Kunsthaus Aarau / Schenkung Werner Arnhold

La mostra di Aarau mette in relazione il testo di Baldwin con le opere (alcune direttamente ispirate ai suoi scritti) di una quarantina di artisti bianchi e neri, tra cui molti svizzeri

scrittrice portoghese Grada Kilomba che nel suo libro Plantation memories del 2008 (tradotto finalmente anche in italiano dalle edizioni Capovolte), riflettendo sul razzismo quotidiano da una prospettiva psicoanalitica, osserva che quello che importa non è chiedersi se individualmente siamo o meno razzisti, quanto piuttosto come sia possibile decostruire gli elementi razzisti, spesso inconsapevoli, ancora presenti nella nostra cultura e radicati nel nostro Io. Per il museo argoviese questo ha significato in primo luogo sottoporre a un’analisi critica il proprio ruolo di istituzione culturale, attraverso la creazione di un comitato consultivo, composto da persone di provenienza diversa e con una conoscenza approfondita del tema, che hanno affiancato la curatrice nell’elaborazione del progetto espositivo. Ma ha significato anche interrogarsi sui criteri che governano la collezione, oltre 20’000 opere che offrono un panorama completo dell’arte svizzera dall’Ottocento a oggi, in una prospettiva a lungo termine che comporta ricerche sulla provenienza, individuazione di titoli e soggetti problematici e l’elaborazione di nuo-

vi criteri di acquisizione improntati a una logica decoloniale. Nel periodo di preparazione della mostra, inoltre, tutto il personale del museo è stato coinvolto in workshop che invitavano i partecipanti a riflettere sulla possibile presenza di atteggiamenti razzisti nella quotidianità. A questo rigoroso approccio metodologico si aggiunge poi una felice intuizione curatoriale, quella di articolare il percorso espositivo attorno al saggio dello scrittore americano James Baldwin Uno straniero nel paese pubblicato su «Harper’s Magazine» nel 1953 e di cui la televisione della Svizzera Romanda realizzò nel 1962 una versione televisiva in cui Baldwin recitava il proprio testo mentre scorrevano le immagini del villaggio di Leukerbad immerso nella neve, perché il paese al quale fa riferimento il titolo è proprio quella della località vallesana, dove Baldwin (probabilmente prima persona di colore a farlo) si trovò a soggiornare alcuni mesi agli inizi degli anni Cinquanta. Le parole di Baldwin, oltre ad accoglierci all’ingresso della mostra, ci accompagnano poi lungo tutto il percorso attraverso le citazioni che scan-

discono i diversi capitoli in cui è suddivisa, aiutandoci a capire, grazie a un testo che in tutti questi anni non ha perso nulla in termini di attualità, che dentro lo stupore dei bambini svizzeri degli anni Cinquanta che lo accoglievano al grido di Neger! Neger! non c’era unicamente l’innocenza spontanea dell’infanzia di fronte alla novità, ma qualcosa di più strutturale, ovvero il confinamento dei neri in un esotismo remoto che ne negava al fondo la comune appartenenza all’umanità. Un confinamento che ha contraddistinto tutta la storia della civiltà europea e che sentiamo ancora risuonare in quell’«aiutiamoli a casa loro» con cui molti vorrebbero risolvere il problema dei migranti africani che approdano sulle coste europee del Mediterraneo. Se, come scrive Baldwin, «il dramma interrazziale andato in scena nel continente americano», ovvero la ormai secolare convivenza e interrelazione tra neri e bianchi, con tutto il suo carico di tragedie e soprusi, è stata anche una conquista, perché non ha creato solo un nuovo nero ma anche un nuovo bianco che non possono più essere stranieri l’uno all’altro, a settant’anni

di distanza l’Europa, o almeno molte parti di essa, non sembrano ancora essere passate attraverso questo processo. La mostra di Aarau mettendo in relazione il testo di Baldwin con le opere (alcune direttamente ispirate ai suoi scritti) di una quarantina di artisti (tra cui molti svizzeri ) bianchi e neri, quali Sasha Huber, Markus Raetz, Vincent Kohler, Gianni Motti, James Bantone, ma anche figure internazionali di rilievo, da Niki de Saint Phalle a Kader Attia a Marlène Dumas, Lorna Simpson e Maria Auxiliadora da Silva (suo il dipinto nell’immagine, dal titolo Margaridas Brancas, un’opera del 1973) appare così come un progetto espositivo capace di aiutarci ad aprire finalmente gli occhi sul fatto che «questo mondo non è più bianco, e non lo sarà mai più». Dove e quando Stranger in the Village, Rassismus im Spiegel von James Baldwin. Aargauer Kunsthaus Fino al 7 gennaio 2024. Ma–do 10.00–17.00, gi 10.00–20.00. www. aargauerkunsthaus.ch


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CULTURA

Quanta umanità passa per uno studio di pedicure Pubblicazioni ◆ Da scrittrice a pedicurista, Katja Oskamp racconta la sua storia ambientata nel quartiere Marzahn di Berlino

Quella di una scrittrice che diventa pedicurista è una storia vera: la racconta Katja Oskamp in Marzahn mon amour. Storia di una pedicure edito da L’Orma e tradotto in italiano da Rachele Salerno. L’autrice tedesca scrive in questo romanzo, che è diventato un caso editoriale internazionale, di come a un certo punto della sua vita e della sua carriera di autrice abbia deciso di iscriversi a una scuola di pedicure e poi di iniziare a lavorare nel centro estetico di Tiffy, a Marzahn.

Ogni capitolo è dedicato a persone o meglio personaggi e personagge che l’autrice incontra nel centro estetico: i clienti e le sue colleghe Marzahn è considerato uno dei quartieri più brutti di Berlino: costruito negli anni 70 nella parte est della città, costituito per lo più da palazzoni che contengono piccoli appartamenti (come quelli della foto, in questo caso animati da due equilibristi di passaggio), il quartiere è adesso popolato da persone disabili o anziani soli. A queste categorie appartengono la maggior parte dei clienti di Katja Oskamp che non tenta in questo romanzo di camuffare in nessun modo la sua identità: questo testo non appartiene al genere in voga in questo momento, l’autofiction, si tratta di pura e semplice autobiografia. Marzahn mon amour, però, non ha come protagonista l’io della sua autrice, non racconta nei dettagli perché Oskamp abbia deciso di passare dalla scrittura alla pedicure. Tranne il prologo e l’epilogo ogni capitolo di questo libro è dedicato a persone o meglio personaggi e personagge che l’autrice incontra nel centro estetico: i

clienti e le sue colleghe. Ciò che sappiamo di lei è che alla soglia dei cinquant’anni la sua carriera stagnava, il suo ultimo libro non era stato pubblicato, suo marito era molto malato e la figlia era andata via di casa. Si trovava, quindi, in quello che lei definisce: «il periodo della crisi di mezza età […] La paura di affogare al centro del grande lago, senza un suono e senza un motivo». La scelta di iniziare a fare la pedicure diventa lo strumento per diventare una scrittrice migliore: inginocchiata davanti ai suoi clienti, in una condizione di servizio e di cura, Oskamp si trova nella posizione perfetta per dare vita a dei personaggi che sono allo stesso tempo veri e simbolici. Peggy e Mirko, per esempio, rappresentano i compromessi necessari all’amore: lui ex alcolista ha affidato a sua moglie la sua salvezza e lei lo dirige e lo ama dando libero sfogo alla sua attitudine da dirigente, la stessa che esercita guidando la squadra di pulizie di cui è responsabile. La signora Nell e sua figlia rappresentano l’ingiustizia profonda che può annidarsi nei legami familiari, il sadismo che è possibile infliggersi a vicenda sotto l’apparenza di una relazione di cura. I coniugi Huth, al contrario, sono un esempio perfetto di come per occuparsi davvero di una persona affetta da demenza senile siano necessari un coraggio sconfinato e una dose di ironia inesauribile. Il signor Paulke e sua moglie sono quelli che Friedrich Nietzsche avrebbe potuto definire eroi della vita quotidiana. Oskamp stessa utilizza questa espressione, ma per descrivere Tiffy, la proprietaria del salone, e Flocke. La prima ha deciso di aprire il suo centro estetico dopo anni di sfruttamento in un’azienda: Oskamp mette in chiaro che lavorando in proprio non si è arricchita, è solo passata «all’autosfrut-

Pixabay

Laura Marzi

tamento», ma adesso almeno Tiffy è soddisfatta di sé stessa. Flocke si occupa della manicure, dopo aver trascorso buona parte della sua vita a fare la cameriera in birrerie e osterie. È così che ha cresciuto da sola suo figlio Johnny, il quale quando è diventato abbastanza grande ha cominciato a ricambiare l’amore materno portando Flocke con sé a ballare la techno nei club berlinesi. Attraverso il rituale della pedicure, della crema esfoliante, del taglio delle unghie e delle cuticole, della rimozione della pelle morta, del massaggio con la crema al lime, Oskamp

entra in contatto con l’umanità in un modo che molto probabilmente le era precluso restando nel circolo ristretto e asfittico di scrittrici e scrittori. Un lungo capitolo di questo romanzo davvero unico è dedicato a Gerlinde Bonkat che nel 1945 è scappata dalla Prussia con sua madre e il suo fratellino, da profuga. Di lei Oskamp conosce la fede indefessa in Dio, la sua carriera variegata da segretaria ad assistente negli orfanotrofi, poi infermiera e infine di nuovo segretaria. Sa delle sue patologie così debilitanti ed è consapevole che: «per la signora Bonkat ogni passo è

doloroso, ma questo non le ha impedito di continuare a camminare». È stata lei stessa a confessarle che non si è mai sposata perché ai suoi tempi significava obbedire a un marito e a lei non è mai piaciuto prendere ordini. Oskamp sa tutto ciò e ce lo può raccontare perché fa la pedicure, perché: «mi inchino di fronte alla vita di Gerlinde Bonkat, altrimenti non lo farà nessuno». Bibliografia Katja Oskamp, Marzahn, mon amour. Storia di una pedicure, L’Orma, Roma, 2023.

La Chimera di Alice Rohrwacher

Cinema ◆ Una pellicola che gioca sui contrasti sia a livello formale sia nei contenuti Nicola Mazzi

sono infatti le tombe, simbolo di morte e di antichità e i giovani tombaroli che le saccheggiano. Ma ci sono anche edifici nuovi (come la vicina azienda elettrica di Civitavecchia) che si contrappongono, nella narrazione, a una stazione abbandonata. Quest’ultimo è un luogo importante nel film perché la parte sana di quella comunità si aggrega per ristrutturarla e per iniziare una nuova vita, senza più basare la propria sopravvivenza sui saccheggi. I contrasti sono presenti anche negli spazi della pellicola. Se lo scavo delle tombe è chiaramente un segno verticale, il mare vicino alle tombe è il simbolo, per eccellenza, dell’orizzontalità. Senza dimenticare gli opposti musicali. La colonna sonora ha infatti un ruolo essenziale nella narrazione filmica. L’uso di Vado al Massimo di Vasco Rossi, insieme alle musiche elettroniche che ricordano molto bene gli anni 80 si alternano ai canti folcloristici di quelle zone che si perdono nella notte dei tempi: implicitamente sono un commento ai vari tempi della storia raccontata e aiutano lo spettatore (probabilmente a livello inconscio) a spostarsi nel tempo. I brani diventano, allora, una sorta di macchina del

tempo che trasporta lo spettatore dagli anni 80 all’epoca etrusca. A livello tecnico i contrasti sono accentuati dall’uso di diversi tipi di pellicola: il 35 mm che si presta all’affresco, all’iconografia; il super16 mm che ha una grande densità narrativa e, come una scrittura magica, riesce a farci entrare nel cuore dell’azione, e infine il

16mm di una piccola cinepresa amatoriale, che segna l’immagine come appunti a matita sul bordo di un libro. Differenze che la stessa autrice mette in evidenza nel lavoro fatto grazie al montaggio: «Ho provato a intrecciare dei fili molto lontani tra di loro, come in un arazzo d’oriente. Ho provato a giocare con la materia del film, ral-

LaChimera

Alice Rohrwacher con La Chimera avrebbe meritato un premio all’ultimo Festival di Cannes. È infatti il suo film più riuscito che la inserisce di diritto tra i cinque registi italiani contemporanei più interessanti e importanti. Da non perdere dunque tra le varie proiezioni in programma nella Svizzera italiana a partire dal 16 novembre (per tutte le informazioni consultate il sito filmcopi.ch). Il film è ambientato negli anni 80, nel Centro Italia, nella regione dove, secoli prima, vivevano gli Etruschi (tra Tarquinia, Cerveteri, Blera, Sorano e Pitigliano). Seguiamo le vicende di alcuni paesani che campano facendo, illegalmente, i tombaroli. Saccheggiano le sepolture etrusche per vendere illegalmente gli oggetti trovati a un mercante d’arte. In paese arriva Arthur (bravissimo e stralunato Josh O’ Connor), un inglese trasandato in abito bianco appena uscito di prigione che, grazie ai suoi poteri sovrannaturali, riesce a trovare in fretta i luoghi nei quali scavare. E, malgrado sia visto come lo straniero, è coccolato e trattato come un principe. La Chimera è una pellicola che gioca molto sui contrasti. Di ogni tipo. Ci

lentando, accelerando, cantando, dichiarando e ascoltando. Osservando gli uccelli in volo, che per gli etruschi rappresentano il nostro destino». Tutto ciò ci porta a dire che il cinema di Rohrwacher è unico nel suo genere ed è sempre riconoscibile. Perché, volontariamente, si mette sempre in bilico tra il reale e il magico, tra l’arcaico e il moderno e insegue un’utopia, una chimera appunto che non raggiunge mai. Peter Bradshaw, noto critico del «Guardian», allarga il discorso a un pensiero sociale che in qualche modo si rispecchia anche nell’immagine del film che abbiamo scelto di mettere in pagina: «È un’opera vivace e brulicante di vita, con personaggi che lottano, cantano, rubano e rompono la quarta parete per rivolgersi direttamente a noi. Come nel suo film precedente, Lazzaro Felice, Rohrwacher si concentra su un senso struggente dell’Italia come scrigno di glorie passate, una cultura necropolitana di antica eccellenza. La si può saccheggiare per i manufatti del presente e per gli spiriti resuscitati, ma a costo di incorrere in una terribile tristezza: la sensazione di circondarsi di fantasmi».


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CULTURA

La musica, grande protagonista di Maddalena Spettacoli ◆ Pubblico felice e festante per l’opera andata in scena dal 3 al 5 novembre al Palazzo dei Congressi Davide Fersini

Tra gli archetipi narrativi più diffusi nell’inconscio collettivo delle tradizioni popolari europee vi è, senza dubbio, quello di Barbablù, un facoltoso principe che tortura e uccide, una dopo l’altra, tutte le donne che accettano di sposarlo. Al centro delle varie declinazioni in cui questa storia è stata raccontata, troviamo sempre un rituale sadico, ripetuto all’infinito: una volta celebrate le nozze, l’uomo consegna alla nuova sposa un mazzo di chiavi che le darà accesso a tutte le stanze del palazzo. Una porta, tuttavia – ammonisce Barbablù – non dovrà mai essere aperta, nemmeno in assenza dello sposo! (E chi mai potrebbe resistere ad un tale divieto?) Dietro quella porta ognuna delle donne troverà la morte. Tranne una – la più libera – per la quale, però, il destino non cambierà: colei che osa guardare nella stanza dei piaceri segreti del maschio e sopravvive alle ripercussioni di questa inammissibile infrazione, è sicuramente in possesso di una capacità di visione superiore; deve essere pertanto una strega e, come tale, va giustiziata. Barbablù si trasforma allora in giudice e giuria – «confessore e boia». Per la povera vittima la sentenza è inevitabile e deve essere eseguita sulla pubblica piazza come monito per tutte le altre mogli. In un mondo maschile – ci avverte il mito – l’intuizione, la curiosità e la forza vitale femminile devono essere tenute a bada.

Stephanie Bühlmann nei panni di Maddalena (© 2023 Associazione Maddalena)

Il mito ci avverte e la storia conferma. Si stima che nei due secoli intercorsi tra il 1500 e il 1700, in Europa siano state uccise per stregoneria tra le 30’000 e le 60’000 persone, l’80% delle quali donne. In Svizzera si raggiunse addirittura il picco di esecuzioni in rapporto alla popolazione e non deve sorprendere, dunque, che l’ultima donna condannata come strega sul suolo europeo, Anna Göldi, sia salita al patibolo a Glarona nel 1782. Nell’amalgama di superstizione e misoginia caratteristiche di quei secoli tor-

bidi, furono, però, moltissime le storie di soperchieria, abuso e angheria che terminarono con la morte di una vittima innocente. A partire dal 2015, con la pubblicazione de Il ladro di ragazze, il giornalista e scrittore ticinese Carlo Silini ha iniziato a raccontare una di queste storie, sedimentata nella memoria popolare sotto le sembianze della leggenda di un Barbablù ticinese – il mago di Cantone – che, nel corso del Seicento, terrorizzò un’intera regione facendo razzia di ragazze nel Mendrisiotto e

infine svanì nel nulla. La protagonista di quel primo romanzo, Maddalena, riesce a sfuggire alle brame del feroce predatore, per poi cadere fra le grinfie dell’inquisizione comacina e venire ingiustamente condannata al rogo – come scopriamo nel sequel del 2019 intitolato Latte e sangue. Le vicende di Maddalena sono diventate in breve popolarissime – a conferma, tra l’altro, di quanto ancora forte sia la presa degli archetipi sui lettori moderni – e la diffusione dei romanzi è stata così capillare da spingere un gruppo di appassionati e musicisti a condensare quei due volumi in un libretto che potesse servire da struttura portante per la realizzazione di un’opera lirica. Era il 2020 quando il noto compositore solettese Thomas Trachsel e il direttore d’orchestra Carlo Balmelli hanno iniziato a girare in note il progetto, avviato dal presidente dell’Associazione Maddalena Renato Bullani e dal regista momò Rodolfo Bernasconi per iniziare un’avventura che si sarebbe conclusa solo lo scorso 5 novembre 2023 al Palazzo dei Congressi di Lugano con l’ultima recita di un’imponente partitura intitolata proprio Maddalena. Il risultato è un Festspiel, una sacra rappresentazione, un oratorio profano, un Gesamtkunstwerk che dell’opera conserva solo la suddivisione del lavoro in due atti. La macchina scenica ideata da Tobia Botta lo dichia-

ra al primo colpo d’occhio, nel disporre il Coro Lirico di Lugano guidato da Andrea Cupia su una tensostruttura a tre piani, dove rimarrà in piedi e immobile per tutta la durata dello spettacolo – e una lode andrebbe spesa anche solo per questo! – a formare quel muro impenetrabile di «superstizione e misoginia» contro il quale si infrangeranno e sgretoleranno le vite dei personaggi. La regia di Diego Bernasconi descrive fedelmente le vicende seguendo il passo rapido che la musica di Thomas Trachsel detta all’azione. La musica, infatti, più ancora che il canto, è la vera protagonista della serata: per due ore abbondanti il suono dei 93 strumentisti della Civica Filarmonica di Mendrisio ci avvolge, ci scuote, ci trafigge e inchioda alla sedia in una sequenza di invenzioni sonore, rimandi e citazioni che da Wagner porta fino a John Williams. Grazie, anche, alle potenti interpretazioni dei solisti: Stephanie Bühlmann, Julia Gertseva, Camilla Antonini, Gianluca Zampieri e Eugene Villanueva. Il plauso finale non può essere che per Carlo Balmelli, non a caso Premio svizzero di Musica 2023. Intenso e vigile domina le masse immense di questa produzione con una profondità di lettura e una precisione del gesto proprie di un grande maestro. Pubblico felice e festante – Amor omnia vincit! Annuncio pubblicitario

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CULTURA

Impressioni dal treno ad alta velocità Mostre ◆ Alla Galleria Cons Arc di Chiasso fotografie e opere in china di Francine Mury Giovanni Medolago

creazione dell’opera con inchiostro e pennelli in una sorta di trasmutazione che può generare orpelli spensierati e gioiosi ma nel contempo aulici e monumentali di un paesaggio senza fine.»

Nel caso di Francine la fotografia non viene utilizzata per documentare la realtà, ma per mettere in discussione il visibile

FrancineMury

Lo stratagemma di realizzare fotografie da un mezzo di trasporto in piena corsa è ben frequentato dalle artiste di casa nostra. Lo hanno usato di recente sia Fabiana Bassetti (con la sua fortunata serie intitolata Il viaggio tra le emozioni dell’irrealtà), sia Francine Mury, nata a Montreux ma da tempo risedente a Meride. Le analogie si fermano tuttavia qui, poiché se Fabiana ha scattato le sue coloratissime immagini dal torpedone giallo ex PPT che ancora scende da Cademario a Lugano, Francine si è spinta ben più in là – sul treno ad alta velocità che corre tra Pechino e Shangai – scegliendo uno monocromatismo che però sviscera tutte le tonalità comprese tra il nero totale e quel grigio che, in modo sia pur arcano, lascia trasparire qualche intellegibile sprazzo di realtà. È la prima volta che la Galleria chiassese, nei suoi 30 anni di attività, accoglie lavori non propriamente fotografici. Accanto agli scatti realizzati dai finestrini dai treni superveloci (un’inquadratura nell’inquadratura), l’esposizione intitolata Ieri. Oggi. Sulla soglia – contempla infatti pure quindici opere in china realizzate nel 2020 su carta bambù. Osserva a questo proposito Domenico Lucchini nel volumetto che accompagna la mostra: «Una carta usata da millenni in Cina nell’arte della calligrafia o della pittura che non è un sempli-

ce supporto amorfo sul quale si stende l’inchiostro, bensì un importante elemento con cui si deve imparare a dialogare. La carta è una materia che si potrebbe quasi definire viva, dotata di caratteristiche particolari, la cui superficie partecipa alla definizione dell’opera in modo determinante.

Bisogna conoscere l’assorbenza e saperne apprezzare il colore e la consistenza per abbinarvi l’inchiostro o la stampa più adatti. Il risultato visivo trasmette un’esperienza che scopriamo a poco a poco a partire dalla texture della carta attraverso la materia viva delle fotografie, fino alla

Conferma dal canto suo Francine: «Stendere l’inchiostro, dosarlo in attesa che prenda forma sul foglio bianco: tutto ciò mi ha riportato a vecchie esperienze pre-digitale, quando si faceva lo stesso in camera oscura, in speranzosa attesa che dalle bacinelle uscisse un’immagine soddisfacente». Alla tecnica con cui realizza le sue cromie la Mury è giunta quasi per caso: «Frequentavo un corso di incisione/gravure che contemplava anche lezioni di fotografia. Gli insegnanti storcevano il naso di fronte alle mie immagini sfuocate, che però erano frutto di un’intuizione, di una mia precisa idea. Siccome sono da sempre innamorata dell’arte cinese a inchiostro su carta, ho cercato di unire questi diversi modi d’espressione artistica. Non mi sarei mai accontentata di una semplice riproduzione della realtà: ho dunque tentato un

tuffo creativo nella natura. Sento ancora questa esigenza crescere in me, cerco di tenerla a bada prima di farla esplodere!». I viaggi rappresentano certo per lei uno stimolo alla propulsione artistica: prima dei tre soggiorni in Cina – tra il 2017 e il ’19 – ha vissuto anche in India («Laggiù, tuttavia, mi sono impegnata soprattutto in una ricerca spirituale, di cui sentivo il bisogno in un periodo difficile») e nel coloratissimo Messico. Dal Paese dei mariachi, però, dice di «non aver portato a casa nulla». Durante il suo incontro con l’artista alla Cons Arc, Nathalie Herschdorfer (dallo scorso anno Direttrice di Photo Elysée, museo losannese di fama sovranazionale) ha sottolineato come «Nel caso di Francine la fotografia non viene utilizzata per documentare la realtà, ma per mettere in discussione il visibile. Il suo lavoro fotografico segue le orme dei pittorialisti, che privilegiavano la sfocatura rispetto alla nitidezza e sperimentavano diversi processi di pigmento per ottenere effetti pittorici.» Dove e quando IERI. OGGI. SULLA SOGLIA. Francine Mury alla Galleria Cons Arc di Chiasso fino al 18 novembre. Me–Ve 10.00–12.00 / 15.00–18.00, Sa su appuntamento. www.galleriaconsarc.ch Annuncio pubblicitario

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CULTURA / RUBRICHE

In fin della fiera

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di Bruno Gambarotta

L’inarrestabile corsa del giovane ginevrino ◆

Torino, 21 aprile. Sulla piccola piazza del Corpus Domini arriva un breve corteo uscito dal vicino Ospizio dei Catecumeni. Al centro cammina un ragazzo di sedici anni, indossa una speciale veste grigia con alamari bianchi. È svizzero, di Ginevra, allevato nella fede calvinista, è arrivato a Torino da Annecy, a piedi. Grazie alla conversione si guadagnerà da vivere come valletto nel palazzo dei conti Solaro di Govone. Nel corteo è preceduto e seguito da due uomini che portano ciascuno una bacinella di rame sulla quale picchiano ritmicamente con una chiave. Quei colpi sono un esplicito invito ai passanti a versare un’offerta per il neo convertito. Il quale, saliti i gradini della chiesa del Corpus Domini, si volta a guardare la piazza. Quando uscirà dopo aver ricevuto il battesimo, sarà a tutti gli effetti un cattolico. Sulla casa di fronte legge un’insegna: «El Mir ristorante libanese» e gli vengono in mente le parole «miroir» e

«mirage»: per un ristorante di cucina esotica è meglio chiamarsi Lo Specchio oppure Il Miraggio? Forse con le offerte raccolte al suo passaggio potrà togliersi il capriccio di provare la cucina libanese. È il 2 settembre. Il giovane valletto siede a un tavolino del ristorante. Ha dovuto attendere quattro mesi, la questua aveva reso solo 26 franchi. Un giorno lontano i suoi molti nemici – veri o presunti – lo accuseranno di essersi convertito solo nella speranza di guadagnare un bel gruzzolo. Sta per domandare al padrone del ristorante che cosa significa in arabo «El Mir» quando l’aria è saturata da un furibondo scampanio. Cosa succede? È scoppiato un incendio? Il nemico è alle porte? Padrone e avventore escono sulla piazzetta e osservano un rivolo di donnette salire i gradini e sparire dentro la chiesa. «Andiamo a vedere», propone il padrone. E si avvia. Il ginevrino esita, dal giorno del battesimo non ha più messo pie-

de in quel luogo che gli ricorda penitenza e umiliazione. Sarebbe complicato spiegare, perciò compie quei pochi passi che lo separano dal luogo sacro. Entrano e, quando gli occhi si sono abituati alla brusca diminuzione della luce, intravedono sullo sfondo, in piedi contro l’immagine della Madonna, un prete che parla di una donna francese incinta e malata, già madre di cinque figli, morta nella scuderia del vicino albergo della Dogana Vecchia. L’ospedale delle partorienti non l’aveva voluta perché febbricitante, l’ospedale degli ammalati l’aveva respinta perché incinta, il prete aveva fatto appena in tempo a impartirle l’estrema unzione. Ha deciso: con l’aiuto dei parrocchiani, aprirà la Casa della Volta Rossa, con quattro letti per ospitare i malati respinti dagli ospedali. Quel prete ignora che da quell’albergo della Dogana Vecchia il 16 gennaio erano usciti due musicisti, un padre e un figlio di 15 anni, in viaggio da Salisburgo. Andavano

al Teatro Regio per assistere alla prima rappresentazione del dramma per musica Annibale in Torino di Giovanni Paisiello. Il giovane ginevrino è spinto in avanti dai parrocchiani che continuano a entrare. Giunto all’altezza della cappella dedicata a San Giuseppe, è circondato da un gruppo di turisti accompagnati da una guida che attira la loro attenzione su una piccola lapide: «Di qui pregando il Venerabile Giuseppe Cottolengo sorse fondatore e padre della piccola casa della Divina Provvidenza». La guida informa: «In sagrestia sono conservati i registri dei battezzati. Se a qualcuno di voi interessa possiamo chiedere di vedere quello dove c’è la firma di un celebre convertito, il filosofo ginevrino Jean Jacques Rousseau». Ascoltando quelle parole, il giovane prova una repulsione irresistibile per quel luogo, si volta e, fendendo a forza la massa compatta dei fedeli, esce dalla chiesa. Sulla piazza si è radunata un’altra piccola folla attorno a un

mulo che ha piegato le ginocchia a terra e rifiuta di rialzarsi. La vista del padrone che, inferocito, percuote selvaggiamente la povera bestia, fa inorridire il valletto. Via di corsa, il più lontano possibile. Quando non ha più fiato si ferma ansante sotto la volta di un portone e lì ha modo di ascoltare non visto due donne del popolo che parlano di un miracolo. Non tutte le parole giungono chiare: sente parlare di ladri che hanno saccheggiato una chiesa di Exilles in val di Susa, della refurtiva caricata su un mulo che, giunto a Torino, cade a terra, del legaccio del sacco che si rompe, dell’ostensorio d’argento levato in alto dal quale esce un’ostia raggiante. Arriva il vescovo Ludovico di Romagnano: scendono prima l’ostensorio e poi l’ostia quando il vescovo promette di elevare su quel luogo una chiesa dedicata al miracolo del Corpus Domini… Udendo quel nome, il giovane ginevrino riprende a correre. Corre, corre, e non si ferma più.

Pop Cult

di Benedicta Froelich

L’IA e le ancestrali leggi della creazione artistica ◆

Negli ultimi anni, lo spesso abusato termine «intelligenza artificiale» (ormai abitualmente abbreviato come IA) è divenuto sempre più d’uso comune e perfino inflazionato, al punto da fare capolino all’interno di qualsiasi discussione di ambito sociologico-culturale – il che ne ha reso il significato a tratti equivoco. Parallelamente a quest’eccesso di enfasi, si è così sviluppata una certa diffidenza nei confronti delle tanto esaltate capacità di quelli che un tempo si chiamavano «cervelli elettronici» – oggi divenuti semplici programmi informatici, talmente avanzati e comuni da poter essere installati su un qualsiasi smartphone. Certo, il timore nei riguardi di questa tendenza potrebbe considerarsi per molti versi giustificato, soprattutto a causa della concreta possibilità che, in un ben poco lontano futuro, l’intelligenza artificiale sosti-

tuisca quasi completamente l’apporto umano; e se ciò può apparire logico e quasi auspicabile nel caso di mansioni di tipo ripetitivo e meccanico, risulta tuttavia sorprendente il fatto che anche l’ambito culturale e artistico possano essere toccati da tale tendenza. Eppure, ciò si è già ampiamente verificato: non soltanto in circostanze in un certo senso inevitabili (si veda, ad esempio, la diffusione delle traduzioni automatiche, le quali, sebbene assai migliorate rispetto a qualche anno fa, restano quantomeno rudimentali agli occhi di un professionista), ma anche in contesti smaccatamente creativi. Un esempio calzante sono le immagini e video generati dai software IA, che permettono, in base alle indicazioni fornite dall’utente, di ottenere in pochi secondi la perfetta simulazione di una foto, un’opera pittorica o un filmato; il che presenta non po-

che problematiche, legate al rischio di scambiare simili simulazioni per reali e all’impossibilità di verificarne l’effettiva veridicità. Eppure, a volte capita che, anche in campo più prettamente artistico, l’intelligenza artificiale possa essere impiegata in modo meno pervasivo e totalizzante: a dimostrarcelo sono stati, pochi giorni fa, due ottantenni di tutto rispetto quali Paul McCartney e Ringo Starr, unici superstiti del leggendario quartetto dei Beatles. Sì, perché il 3 novembre scorso è finalmente stata diffusa quella che è già universalmente definita come l’ultima canzone in assoluto della band, realizzata partendo da un vecchio demo pressoché inutilizzabile inciso da John Lennon a fine anni 70 – e oggi reso pubblicabile proprio grazie al contributo dell’algoritmo di un software IA di ultima generazione.

In effetti, le dichiarazioni di McCartney al riguardo avevano scatenato un vero vespaio, portando molti a credere che l’apporto del computer fosse arrivato al punto di generare artificialmente la voce del defunto John Lennon; e ci sono volute diverse smentite per convincere i beatlesiani che in realtà il software in questione si è limitato a «estrapolarla» dalla vecchia registrazione, rendendola finalmente nitida e godibile – diversamente da come era stato nel 1995, quando Now and Then era stata scartata dal progetto Anthology, nell’ambito del quale le uniche demo di Lennon rimaneggiate dagli allora tre Beatles superstiti erano state Free As a Bird e Real Love; e se, all’epoca, la qualità della registrazione originale era troppo scadente per essere ottimizzata digitalmente, la tecnologia odierna ha infine permesso di separare la

traccia vocale originale dalla restante strumentazione, su cui McCartney e Starr hanno poi sovrapposto un nuovo accompagnamento in studio. Questa sorta di «parabola tecnologica» sembra celare un doppio insegnamento: da un lato, la parziale nobilitazione dell’intelligenza artificiale, la quale, anziché ambire a sostituire l’uomo nella realizzazione dell’opera artistica, ne ha, in questo caso, permesso il recupero e la fruizione; dall’altro, l’importanza di mantenere una linea di demarcazione netta tra le due cose – in modo che, per quanto possibile, sia la tecnologia a mettersi al nostro servizio, e non viceversa. Così da mantenere vivi l’ancestrale rispetto e fascinazione dovuti a quella che, in tutta la sua intrinseca e sfuggente magia, è da sempre prerogativa esclusivamente umana – ovvero, la creazione.

Xenia

di Melania Mazzucco

Lo schiavo venuto dal mare ◆

Alla Biblioteca Marciana di Venezia, mentre lavoravo ai miei libri su Tintoretto, mi capitò fra le mani un volume stampato nel maggio del 1550. Delle navigazioni e viaggi… recitava il titolo. G.B. Ramusio aveva raccolto gli scritti dei viaggiatori che, dal Trecento in poi, si erano spinti in terre lontane. Conosceva Tintoretto, e nella sua curiosità intellettuale ritrovavo quella del pittore. Ma ciò che catturò la mia attenzione fu il libro-nel-libro dentro il primo volume: Della descrittione dell’Africa e delle cose notabili che ivi sono di «Giovanni Lioni africano». Il misterioso Lioni mi incuriosì (allora ignoravo che lo scrittore franco-libanese Amin Maalouf gli avesse dedicato nel 1986 un poderoso romanzo storico, Leone l’Africano). Fra i tanti stranieri approdati in Italia, è quello che più le ha dato. Arrivò in catene, schiavo, nel 1518.

Il corsaro Pietro Bovadiglia (o Pedro Bobadilla), che lo aveva catturato a D’jerba, lo donò al papa, a Roma. Benché Al-Hasan ibn Muhammad al-Wazzān fosse un letterato e un diplomatico, di ritorno da Costantinopoli dove era stato per conto del sultano del Marocco, dalla stiva della nave passò nelle carceri del papa. Tuttavia il rango e l’eccezionale cultura del prigioniero incuriosirono il colto Leone X (Giovanni de’ Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico, mecenate di Raffaello): per più di un anno mandò tre vescovi a discorrere col maomettano. Benché avesse poco più di trent’anni, aveva vissuto più di loro. Nato a Granada in una famiglia berbera intorno al 1485, nel 1492 dopo la Reconquista, si trasferì a Fez. Studiò diritto ed entrò nella corte marocchina. Raccontò di aver viaggiato, per commerci o incarichi diplomatici, in Africa del Nord,

ma anche nell’Africa nera, dal Sudan a Timbuctù, e in Medio Oriente: oltre i deserti dell’Arabia, fino alla Mecca, al Mar Rosso, e ancora più lontano, in Armenia, Persia, Tartaria. Flora, fauna, popoli, costumi, fatti storici: il prigioniero era un’enciclopedia vivente del mondo non europeo. Ignoto, altrimenti. Era utile – al papa, a Roma, all’umanità. Doveva avere la possibilità di fissare i suoi ricordi, riavere i suoi appunti: scrivere. Il papa fissò il prezzo della sua libertà. Al-Hasan accettò. Il 6 gennaio 1620 uscì dal carcere per essere condotto a san Pietro: convertito al cristianesimo, fu battezzato da Leone X, che gli diede il suo proprio nome: Johannes Leo de’ Medici. Fu in quell’occasione che Sebastiano del Piombo gli fece il ritratto: se è lui l’uomo con la barba nera che posa accanto a una carta geografica in una tela oggi a Washington.

Ormai libero, per quattro anni Leone l’Africano viaggiò per l’Italia – fermandosi a insegnare all’università nella dotta Bologna. Scrisse un’infinità di opere, di cui restano solo i titoli: Della legge e fede maomettana; Istorie moderne d’Africa, Abbreviazione della cronaca dei maomettani; Retorica araba, Grammatica araba; una raccolta di epitaffi della Barberia, e un vocabolario, di cui sopravvivono 117 fogli, con termini arabi da lui tradotti in ebraico. Ma il libro che gli avrebbe dato la fama – di cui aveva approntato una prima versione già nel 1523, prima di lasciare Roma – non lo pubblicò. La Descrittione (in ben 9 libri) circolava manoscritta tra i geografi e gli eruditi: che se ne appropriarono con disinvoltura. Leone l’aveva scritta in italiano, per noi. Mescolando, come già Erodoto, i ricordi dei suoi viaggi e il frutto dei suoi studi.

L’Africano rientrò a Roma nel 1526, protetto dal nuovo papa, Clemente VII, pure lui de’ Medici. Se era a Roma durante il Sacco del 1527, si salvò con la corte, rifugiandosi nella sua antica prigione di Castelsantangelo. Non sappiamo se fu il Sacco a indurlo a partire, o il desiderio di riappropriarsi della sua identità. Certo poco dopo tornò nel Maghreb, si riconvertì all’Islam, ed era ancora vivo nel 1554. Forse seppe della pubblicazione della Descrittione dell’Africa che aveva lasciato in Italia. Ebbe un successo travolgente. Fu ristampata nel 1554, e poi ancora nel 1563, 1580, 1606, 1603. Nel 1556 fu tradotta in francese e latino; quindi in inglese e in olandese. Insomma: per secoli, le conoscenze e le fantasie degli Europei sull’Africa derivavano dallo schiavo venuto dal mare.


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Classic o Zero, 6 x 1,5 l, offerta valida dal 16.11 al 19.11.2023

(confezioni da viaggio, set regalo, calendari dell'Avvento e confezioni multiple esclusi), per es. siero antimacchie Luminous 630 Nivea, 30 ml, 15.– invece di 29.95, offerta valida dal 16.11. al 19.11.2023


Settimana Migros 14. 11 – 20. 11. 2023

30% Ali di pollo Optigal

33% 2.10 invece di 3.15

al naturale e speziate, Svizzera, per es. al naturale, al kg, 8.40 invece di 12.–, in self-service

Fettine di lonza di maiale, IP-SUISSE

1.–

in conf. speciale, per 100 g a partire da 2 pezzi

30%

Arance bionde Spagna, rete da 1 kg

Tutto l'assortimento Farmer's Best prodotti surgelati, per es. spinaci tritati, IP-SUISSE, 800 g, 2.40 invece di 3.40

40% Carta per uso domestico Twist Recycling 1/2 strappo, Deluxe o Classic, in confezioni speciali, per es. Recycling 1/2 strappo, 16 rotoli, 10.– invece di 16.80

a partire da 2 pezzi

30%

1.– Cavolo bianco Svizzera, al kg

Olio di girasole M-Classic 1 litro, 3.80 invece di 5.40

Da tutte le offerte sono esclusi gli articoli M-Budget e quelli già ridotti. Offerte valide dal 14.11 al 20.11.2023, fino a esaurimento dello stock.

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Migros Ticino

08.11.2023 15:44:14


Frutta e verdura

Voilà... Benvenuto autunno

25% 3.50

Formentino Migros Bio Svizzera, busta da 125 g

invece di 4.70

27% 2.40

Zucca butternut Svizzera, al kg

invece di 3.30

IDEALE CON

20% 3.95

Carciofi cuore Italia, 400 g, confezionati

invece di 4.95

Non conservare in frigorifero

20x CUMULUS

30%

Novità

4.50

Cauliflower Puffs V-Love 180 g

Tutte le salse Salsa all'Italiana per es. basilico, 250 ml, –.90 invece di 1.30

25% 2.70

Cachi Persimon Spagna/Portogallo, al kg

invece di 3.60

Migros Ticino 2

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08.11.2023 15:44:53


Pesce e frutti di mare

Pesce, che bontà! Ora in v e n anc he al b dit a anc one

20% Tutte le pere in vendita sfuse (prodotti bio e Demeter esclusi), per es. Kaiser Alexander, Svizzera, al kg, 2.60 invece di 3.30

20% Tutti i gamberetti freschi Migros Bio

30% 5.95

al bancone e in self-service, per es. cotti, d'allevamento, Ecuador, in self-service, per 100 g, 5.85 invece di 7.35

Broccoli Migros Bio Italia/Spagna, al kg

invece di 8.50

25% 21% 3.95 invece di 5.–

11.50

invece di 15.50

Lamponi

Filetti di trota salmonata con pelle, ASC d'allevamento, Norvegia, in conf. speciale, 2 pezzi, 380 g

e v olante , Con uov a di pe scoc ado surimi e av

Italia/Spagna, 250 g, confezionati

20x CUMULUS

20% 3.50

20% Limoni Migros Bio Spagna/Italia, rete da 1 kg

invece di 4.40

Migros Ticino

Tutto l'assortimento di pesce intero fresco (escluso molluschi, crostacei) per es. Branzino 300-600 g, ASC, d'allevamento, Grecia, per 100 g, 2.20 invece di 2.80, al banco a servizio

Novità

9.95

California roll, refrigerati 200 g

Offerte valide dal 14.11 al 20.11.2023, fino a esaurimento dello stock. 3

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08.11.2023 15:45:47


Carne e salumi

Arrosto, salsiccia e tanto altro da rosolare

50% 9.35 invece di 18.75

conf. da 3

Hamburger M-Classic prodotto surgelato, in conf. speciale, 12 pezzi, 1,08 kg

33% 9.50 invece di 14.25

Mini cordon bleu di pollo Don Pollo prodotti in Svizzera con carne del Brasile, 3 x 180 g

15% 2.80 invece di 3.30

Fettine di pollo Optigal Svizzera, per 100 g, in self-service

ora a t i d n In v e nc one al b a

40% 8.95 invece di 15.–

20% Cordon bleu al bancone per es. lonza di maiale, IP-SUISSE, per 100 g, 2.80 invece di 3.50

20% 6.95 invece di 8.80

Crispy di tacchino Don Pollo prodotto surgelato, in conf. speciale, 1 kg

Fettine di fesa di vitello fini IP-SUISSE per 100 g, in self-service

Migros Ticino 4

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08.11.2023 15:43:43


Da agric ol tura ri spet tosa deg li animali

20% 2.55 invece di 3.20

30% 1.60 invece di 2.30

Lesso magro di manzo IP-SUISSE per 100 g, in self-service

20% 2.35

in conf. speciale, per 100 g

invece di 2.95

conf. da 2

22% invece di 14.85

invece di 2.60

Polpettine di bratwurst IP-SUISSE

in conf. da 6

11.50

25% 1.95

Bratwurst di vitello IP-SUISSE 6 x 140 g/840 g

20x CUMULUS

Novità Sminuzzato e medaglioni di tacchino, M-Classic Ungheria, per es. sminuzzato di tacchino, per 100 g, 2.15

Migros Ticino

20% 5.95

Cipollata, IP-SUISSE 2 x 8 pezzi, 400 g

invece di 7.50

Arrosto alla ticinese, IP-SUISSE maiale, per 100 g, in self-service

Petto di pollo arrotolato Quick M-Classic affumicato e cotto Svizzera/Brasile, per 100 g, in self-service

20% 7.65 invece di 9.60

Landjäger affumicato Tradition Svizzera, in conf. speciale, 4 x 2 pezzi, 400 g

20x CUMULUS

in conf. da 2

Novità

5.95

Prosciutto crudo Sélection, IGP Svizzera, 100 g, in self-service

20% 11.– invece di 13.90

Prosciutto crudo di Parma Italia, 2 x 100 g

Offerte valide dal 14.11 al 20.11.2023, fino a esaurimento dello stock. 5

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08.11.2023 15:43:55


Formaggi e latticini

Proteine in tutte le forme possibili

21% 1.50 invece di 1.90

15% 7.60

Le Gruyère dolce AOP per 100 g, prodotto confezionato

C o n si g imme rg e relio: de i pe zze t anc he t i di pe ra

Raclette del Gottardo 300 g, confezionato

invece di 8.95

20% 2.05

Fontal italiano per 100 g, confezionato

invece di 2.60

conf. da 2

21% 22.– invece di 27.90

Fondue fresca moitié-moitié Caquelon Noir, AOP Le Gruyère e Vacherin Fribourgeois, 2 x 600 g

25% 1.90 invece di 2.55

conf. da 3

Caseificio Blenio per 100 g, confezionato

25% 5.– invece di 6.75

Pallina di mozzarella Migros Bio 3 x 150 g

Migros Ticino 6

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08.11.2023 15:45:08


Tante prote ine , poc hi g rassi

20% Tutti i drink, gli yoghurt e i budini High Protein Oh! per es. High Protein Drink al cioccolato, 500 ml, 1.65 invece di 2.10

a partire da 2 pezzi

30% Tutti i tipi di crème fraîche (prodotti V-Love esclusi), per es. Valflora al naturale, 200 g, 2.– invece di 2.80

20x conf. da 2

20% 5.75 invece di 7.20

conf. da 4

20% Mozzarella a dadini Migros Bio 2 x 200 g

Migros Ticino

Yogurt Migros Bio disponibili in diverse varietà, per es. al cioccolato, Fairtrade, 4 x 180 g, 3.– invece di 3.80

CUMULUS

Novità

3.30

Latte pastorizzato Migros Bio latte intero o drink, 1,75 l

Offerte valide dal 14.11 al 20.11.2023, fino a esaurimento dello stock. 7

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08.11.2023 15:45:46


Pane e prodotti da forno

Per guarnire, gustare col cucchiaino e assaporare se tt imana: Il nost ro pane del la nt e con la crosta crocca i di tost atura e i suoi delic ati se nt or o di questo pane nn la te ne ra mol lica fa et to a tavola. il compagno pe rf

3.10

Pane del boscaiolo, IP-SUISSE 500 g

Q uasi come quel lo fatt o in casa!

20x CUMULUS

Novità

6.95

Stollen alle noci Sélection Limited Edition, 480 g, prodotto confezionato, in vendita nelle maggiori filiali

a partire da 2 conf.

20%

20%

Tutte le coppette ai vermicelles

Madeleine pure beurre o con scaglie di cioccolato

per es. 95 g, 2.45 invece di 3.10

per es. pure beurre, 220 g, prodotto confezionato, 2.30 invece di 2.85

8

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08.11.2023 15:44:28


Prodotti vegetariani e vegani

Bontà a base vegetale

Il sost it uto v e ga de liziosame nteno de l pe sc e saporit o

20x CUMULUS

Novità

4.50

conf. da 2

20% 7.90 invece di 9.90

Filets Gourmet Bordelaise V-Love prodotto surgelato, 225 g

Scaloppina al limone e pepe Cornatur 2 x 220 g

r o so l a r e : o i l g i s n o C a i n o l i o f i no c a n t i oc re nde r li c r

20x CUMULUS

Novità

3.20

Amaretti al cioccolato e cocco V-Love 204 g, confezionato

20x

20x

20x

Novità

Novità

Novità

CUMULUS

5.95

CUMULUS

Filet with Herbs V-Love 220 g

4.95

CUMULUS

Thin Cuts V-Love 170 g

2.30

Discoletti V-Love 75 g, prodotto confezionato

Offerte valide dal 14.11 al 20.11.2023, fino a esaurimento dello stock. 9

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08.11.2023 15:44:45


Dolci e cioccolato

Piacere cioccolatoso

conf. da 5

30%

25%

Tutti i truffes Frey

Tavolette di cioccolato Lindt Lindor

(confezioni multiple escluse), per es. assortiti, 256 g, 7.35 invece di 10.50

cioccolato al latte o fondente, 5 x 100 g, per es. al latte, 10.– invece di 13.50

conf. da 3

Un'ant olog ia di classic i tra i bi sc ot ti natalizi

33%

20%

Croccantini alle mandorle, bretzeli o snack al burro, Créa d'Or

Tutti i biscotti Christmas Bakery

per es. croccantini alle mandorle, 3 x 103 g, 7.90 invece di 11.85

per es. stelline al burro, 220 g, 2.85 invece di 3.60

Con e rbe di montag na sv izze

a partire da 2 pezzi

20% Tutto l'assortimento Ricola per es. Original, in busta da 125 g, 3.70 invece di 4.60

23% 9.95

Peanut M&M's in conf. speciale, 1 kg

invece di 13.–

re

Hit 5.55

Sacchetto Kägi Fret Classic, alla nocciola o all'arancia, 250 g

17% 6.50

Maltesers in conf. speciale, 400 g

invece di 7.90

10

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08.11.2023 15:44:29


Bevande

Snack e aperitivi

Molte novità per placare la sete

conf. da 2

20x

20% 4.55

CUMULUS

Novità

1.70

conf. da 6

33% 9.95 invece di 14.95

Red Bull Winter Edition pera-cannella, 250 ml

Rivella rossa, blu o refresh, 6 x 1,5 l

us t a r e , Pront o da g lc ol se n z a a

20%

CUMULUS

Novità

20x

4.95

CUMULUS

Novità

Tutte le Farm Chips per es. al rosmarino, 150 g, 2.55 invece di 3.20

Vin brûlé senza alcol, 750 ml, in vendita nelle maggiori filiali

Guava Sun Queen, Fairtrade 1 litro, in vendita nelle maggiori filiali

20x

20x

CUMULUS

CUMULUS

Novità

1.10

2 x 100 g

invece di 5.70

20x

2.25

Jumpy’s alla paprica

a partire da 2 pezzi

–.50

Novità Coca-Cola Zero Creations Y3000 Limited Edition, 250 ml

2.10

di riduzione

Vyte Passion Peach 500 ml

Tutti i prodotti da forno per l'aperitivo Gran Pavesi per es. Le Sfoglie Olive, 150 g, 2.25 invece di 2.75

Offerte valide dal 14.11 al 20.11.2023, fino a esaurimento dello stock. 11

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08.11.2023 15:45:27


Scorta

È ora di fare scorte per la dispensa icchi di Fatt o con preg iati ch ta A rabica e Robus

a partire da 2 pezzi

conf. da 3

30%

33%

Caffè in chicchi, istantaneo e capsule, Starbucks

Caffè Caruso Oro

per es. Pike Place Roast in chicchi, 450 g, 7.– invece di 9.95

in chicchi o macinato, 3 x 500 g, per es. in chicchi, 18.65 invece di 27.90

a partire da 2 pezzi

20%

20%

Tutti i cereali e i semi Migros Bio

Tutti gli zwieback

(prodotti Alnatura esclusi), per es. fiocchi d'avena svizzeri, fini, 400 g, 1.60 invece di 1.95

(prodotti Alnatura esclusi), per es. Original M-Classic, 260 g, 2.80 invece di 3.50

12

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08.11.2023 15:44:14


Z uppe di noodle s gi appon pronte in un lampo esi conf. da 6

23% 8.95

conf. da 5

26%

Tonno M-Classic, MSC in olio o in salamoia, 6 x 155 g

invece di 11.70

Ramen Instant Noodle Soup Nissin disponibile in diverse varietà, per es. Demae Ramen pollo, 5 x 100 g, 4.80 invece di 6.50

conf. da 3

a partire da 2 pezzi

20%

20%

Pasta Anna's Best

Tutta la pasta Garofalo non refrigerata

Fiori funghi & ricotta o gnocchi al basilico, in conf. multiple, per es. fiori, 3 x 250 g, 11.75 invece di 14.85

per es. rigatoni, 500 g, 2.40 invece di 2.95

conf. da 2

20%

24%

Snack o menu Anna's Best

Pizze La Trattoria

Dim Sum Sea Treasure, Vegetable Spring Rolls o Chicken Satay, per es. Dim Sum, 2 x 250 g, 11.– invece di 13.80

surgelate, alla mozzarella, al prosciutto o al tonno, in conf. speciale, per es. alla mozzarella, 3 x 330 g, 5.– invece di 6.60

30% Patate fritte o patate fritte al forno, M-Classic prodotto surgelato, in conf. speciale, 2 kg, per es. patate fritte, 5.95 invece di 8.50

Offerte valide dal 14.11 al 20.11.2023, fino a esaurimento dello stock. 13

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08.11.2023 15:45:09


Bellezza e cura del corpo

Bellezza à la carte

conf. da 3

33% 8.60

conf. da 3

33% 4.60

Shampoo Belherbal per es. per capelli grassi, 3 x 250 ml

invece di 12.90

Shampoo I am per es. Intense Moisture, 3 x 250 ml

invece di 6.90

conf. da 2

20% Saponi Nivea, Dettol o Good Mood per es. Dettol Aloe Vera in tubetto di ricarica, 2 x 250 ml, 7.90 invece di 9.90

ciut to e Pe r una se nsazione di asnt inenza sic urezza in caso di inco

a partire da 2 pezzi

conf. da 2

20% Saponi pH Balance per es. sapone liquido in conf. di ricarica, 2 x 500 ml, 7.90 invece di 9.90

conf. da 2

23% 4.95 invece di 6.50

Saponi I am in sacchetto di ricarica per es. Milk and Honey, 2 x 500 ml

30%

20%

20%

Tutto l'assortimento Tena

Tutto l’assortimento Health-iX

Tutto l'assortimento Grether's

(confezioni multiple escluse), per es. Discreet Ultra Mini, 28 pezzi, 4.10 invece di 5.80

per es. Hair Vitamin Gummies, vegane, 48 pezzi, 7.90 invece di 9.90

per es. ribes nero senza zucchero, 60 g, 4.70 invece di 5.90

14

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08.11.2023 15:45:01


Pulizia profonda con arg il la e prov itamin a B5

20x

20x

CUMULUS

Novità Shampoo e balsamo, I am Balancing per es. shampoo, 250 ml, 3.20

20%

Shampoo, balsamo e siero, I am Bond Repair

Tutto l'assortimento di disinfettanti per le mani

per es. shampoo, 250 ml, 3.20

per es. gel per le mani M-Plast, 75 ml, 2.80 invece di 3.50

so e Pe r cuoio cape lluto grashe punt e de i cape lli se cc

20x CUMULUS

Novità

3.60

a partire da 2 pezzi

Novità

CUMULUS

20x

20x

Novità

Novità

CUMULUS

CUMULUS

Shampoo Nivea Hyaluron 250 ml

4.45

Shampoo o balsamo, al carbone attivo, Garnier Ultra Doux

Balsamo lamellare Wonder Water e crema da notte per capelli, Elseve Hydra Hyaluronic

con olio di cumino nero, per es. shampoo, 300 ml

per es. balsamo Wonder Water, 200 ml, 10.95

20x

20x

20x

Novità

Novità

Novità

CUMULUS

CUMULUS

Gel 72h, crema giorno e crema notte Zoé Hydra Boost per es. crema giorno, 50 ml, 16.95

8.50

CUMULUS

Maschera per capelli al carbone attivo Ultra Doux Garnier

9.95

con olio di cumino nero, 340 ml

Vit amine e mine rali pe r ov e r 5 0

20x

20x

20x

Novità

Novità

Novità

CUMULUS

9.95

CUMULUS

Best Age 50+ Actilife 30 capsule

2.50

Gel Dream Long Curls Elseve 400 ml

CUMULUS

Bendaggio rapido 3 in 1 M-Plast 2 pezzi

per capelli 10.95 Colorazione Olia Glow Garnier

6.12 marrone chiaro brillante, al pezzo

Offerte valide dal 14.11 al 20.11.2023, fino a esaurimento dello stock. 15

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08.11.2023 15:45:15


Casalinghi

Tante astuzie per la casa Nuovo nome , st essa qua Titan div enta Pro lità:

a partire da 2 pezzi

20%

30%

Padelle Pro Kitchen & Co.

Tutto l'assortimento di bicchieri

disponibili in blu scuro-beige e in varie dimensioni (escl. set di 2), per es. bassa, Ø 24 cm, al pezzo, 39.95 invece di 49.95

(Hit e prodotti stagionali esclusi), per es. Longdrink, 6 x 38 cl, 10.50 invece di 14.95

conf. da 3

a partire da 2 pezzi

30%

a partire da 2 pezzi

15%

15%

Tessili da cucina Kitchen & Co.

Detersivi per piatti Handy

Confezione di ricarica Handy

per es. asciugapiatti, 50 x 70 cm, 2 pezzi, 7.– invece di 9.95

Original, Lemon od Orange, per es. Original, 3 x 750 ml, 4.95 invece di 5.85

1,5 l, 3.10 invece di 3.60

r A tt re zzatura pele il me nù di Nata

set da 4

Hit per fondue 44.95 Set bourguignonne/

chinoise Kitchen & Co. 22 pezzi, nero, il set

Hit 6.95

HIt Ciotoline per fondue Kitchen & Co. Ø 9.2 cm, il set

da forno Mio Star 59.95 Set Cake Powder

Frullatore-sbattitore: 300 W, 5 livelli e tasto turbo, frusta e gancio impastatore, bilancia da cucina: 300 W, funzione tara, il set

16

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08.11.2023 15:45:30


Varie

a partire da 2 pezzi

50% Tutti i detersivi Elan conf. da 2

30%

(confezioni multiple e speciali escluse), per es. Spring Time in conf. di ricarica, 2 l, 7.– invece di 13.95

10% 8.95 invece di 9.95

Detergente o igienizzante per lavatrice Dettol

Minirose M-Classic, Fairtrade disponibili in diversi colori, mazzo da 20, lunghezza dello stelo 40 cm, il mazzo

per es. igienizzante, 2 x 1,5 l, 13.90 invece di 19.90

conf. da 2

30%

Hit 7.95

Vanish in confezioni multiple o speciali, per es. spray prelavaggio Oxi Action, 2 x 750 ml, 13.70 invece di 19.60

Rose di Natale nel cestino cestino, Ø 13 cm, il pezzo

conf. da 2

20% Calgon in confezioni multiple o speciali, per es. Power Gel, 2 x 750 ml, 15.90 invece di 19.90

Pe r un WC prof umat o e pulit o

20% Cestelli o detergenti per WC Hygo in confezioni multiple o speciali, per es. stick per cestelli White Flower, 6 pezzi, 4.45 invece di 5.60

Hit 18.75

Calgon Hygiene+ 52 pastiglie

Dif fondono un'acc og lien atmosfe ra inve rnale te

conf. da 2

Hit 7.95

Hit di biancheria termica 34.95 Set da donna o da uomo Essentials

disponibile in nero, tg. S-XL, per es. maglia e leggings, il set

a partire da 3 pezzi

30% Bastoncini profumati M-Fresh disponibili in diverse fragranze, per es. Winter Bouquet, 2 x 90 ml

Tutto l'assortimento di alimenti per gatti Exelcat e snack per gatti Dreamies per es. menù croccante al manzo Exelcat, 950 g, 4.70 invece di 6.70

Offerte valide dal 14.11 al 20.11.2023, fino a esaurimento dello stock. 17

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08.11.2023 15:45:45


Bebè e bambini

Happy budget, happy family Con prot eine puramente ve ge tali

20x CUMULUS

a partire da 2 pezzi

20%

Novità

Tutte le pappe Mibébé, bio

Hipp 100% vegetale

per es. 5 cereali, 200 g, 3.60 invece di 4.50

bio, per es. verdure con lenticchie e riso, 160 g, 2.35

CONSIGLIO SUI PRODOTTI I prodotti della marca propria Milette sono pensati per le esigenze specifiche di bebè e bambini. Dai pannolini ai succhietti, via via fino ai prodotti per la cura particolarmente delicata, tutti di buona qualità e a prezzi equi.

a partire da 3 pezzi

33% Tutti i pannolini Rascal + Friends (confezioni multiple escluse), per es. Newborn 1, 23 pezzi, 5.35 invece di 7.95

conf. da 4

23% Salviettine umide per bebè Milette, FSC® per es. Soft & Care Sensitive, 4 x 72 pezzi, 9.95 invece di 13.–

conf. da 2

Hit 5.95

Salviettine con olio trattante Ultra Soft & Care Milette, FSC® 2 x 72 pezzi

Offerte valide dal 14.11 al 20.11.2023, fino a esaurimento dello stock. 18

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