Cooperativa Migros Ticino
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXI 10 dicembre 2018
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Società e Territorio A tutti capita di fare figuracce e gaffes, un libro ci spiega come superare la vergogna
Ambiente e Benessere Il dottor Fernando Jermini, primario di urologia all’Ospedale Regionale di Lugano, spiega le caratteristiche dell’andropausa
Politica e Economia Addio a George Bush padre, il 41.mo presidente Usa che archiviò la Guerra fredda
Cultura e Spettacoli Harvey Milk fu molto più di un attivista: un nuovo libro ce ne spiega l’importanza
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di Luca Beti pagina 25
Keystone
Le Camere sotto la lente
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Elezioni storiche, senza storia di Peter Schiesser La sorpresa è che questa volta non c’è stata sorpresa: il 5 dicembre la popolare democratica vallesana Viola Amherd e la sangallese Karin Keller-Sutter sono state elette in Consiglio federale al primo turno, con 148 e 154 voti. La consigliera di Stato urana Heidi Z’graggen e il consigliere agli Stati nidvaldese Hans Wicki non sono andati oltre i 60, rispettivamente 56 voti. La volontà di avere due donne in più in Consiglio federale e il vantaggio di Viola Amherd di essere consigliera nazionale, e quindi nota a chi era chiamato a eleggere i membri del governo, erano palesi, a questo si aggiunga la spiccata personalità politica della senatrice sangallese. Non c’è stato spettacolo mediatico, nessuno giochetto politico, nessuna candidatura selvaggia: tutti a sottolineare una scelta nello spirito della concordanza, quasi a voler far dimenticare la polarizzazione che va crescendo di legislatura in legislatura da una ventina di anni. Non è rassicurante, in particolare in un contesto europeo ed internazionale sempre più instabile, con le istituzioni nazionali e l’ordinamento internazionale pesantemente sotto tiro da parte di forze
populiste, vedere che in Svizzera si punta ancora sulla stabilità, sulle competenze dei politici, sulla volontà di ricercare il compromesso? Allo stesso tempo, questa doppia elezione non va interpretata soltanto come un segno di continuità, di silenziosa spartizione del potere: Karin Keller-Sutter e Viola Amherd hanno criticato l’eccessivo dipartimentalismo nel modo di far politica dell’attuale Consiglio federale, intendono entrambe studiare anche i dossier dei colleghi di governo per lavorare a delle soluzioni davvero collegiali, condivise, senza temere il confronto delle idee. Le due nuove consigliere federali sono consapevoli delle numerose sfide che attendono il paese e sono convinte che soltanto costruendo solide maggioranze, lottando a fondo per dei compromessi con le altre forze politiche, si potrà convincere i cittadini delle scelte che dovranno essere fatte. Non sono poche: il futuro dell’AVS e delle casse pensione, l’imposizione fiscale delle imprese, la concretizzazione della svolta energetica e le misure per la salvaguardia del clima, le relazioni con l’Unione europea, la difesa nazionale. Ci vuole dunque un governo che prenda in mano le redini, proponga riforme. Non che finora il Consiglio federale fosse inattivo, anche se il politologo Adrian Vatter, nell’intervi-
sta a pagina 25, sottolinea che negli ultimi anni il ruolo di proporre leggi è stato assunto vieppiù dalle Camere federali. Come verrà recepito dalla popolazione svizzera questo messaggio? Avrà un influsso sulle prossime elezioni federali, fra dieci mesi? Molto dipenderà da come si comporterà il Parlamento, è lì che la polarizzazione e il muro contro muro si concretizzano in modo più evidente (non c’è il velo della collegialità che vige nel Consiglio federale a celare le differenze di vedute). Le due neo-elette sono rappresentanti dei due partiti che più di altri cercano soluzioni di compromesso, entrambe sembrano però voler trovare compromessi coraggiosi, per i quali devono tuttavia poter contare su maggioranze in parlamento altrettanto coraggiose. Le buone intenzioni espresse il giorno dell’elezione si scontrano invece spesso e rapidamente con la realtà. E la realtà mostra che i due partiti più forti, l’Udc e il Ps, spesso preferiscono agire da forza di opposizione pur di non annacquare le proprie posizioni di fronte all’elettorato. Starà quindi anche agli elettori decidere se rafforzare i partiti maggiormente votati (nei fatti) alla concordanza, quindi il centro, o se gradire, come finora, le forze e i politici che preferiscono nessuna soluzione a un compromesso.
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Attualità Migros
M Una coppia di frontiera Frontaliers Disaster Esce domani in esclusiva nelle filiali Migros (a 10 franchi) l’attesissimo DVD con il film
di Bernasconi e Bussenghi, in una versione dal finale inedito e più di un’ora di scene extra Le cifre che testimoniano del successo riscontrato da Frontaliers Disaster si trovano sul sito web ufficiale dei Frontaliers: www.rsi.ch/frontaliers. Il sito è un po’ la frontiera digitale (scusate il bisticcio), su cui trovare informazioni aggiornate sulle avventure di Bernasconi e Bussenghi. I numeri relativi al primo lungometraggio della coppia sono molto eloquenti: 30’000 spettatori in Ticino, 4500 spettatori in Svizzera (francese e tedesca), 3000 spettatori in Italia in quattro sale nell’area di confine. Il tutto in 12 settimane di programmazione. Sono dati molto eloquenti che dimostrano, se fosse ancora necessario, l’attaccamento e l’interesse che i ticinesi mostrano per un’esperienza cinematografica molto originale. «C’è un solo segreto per il successo ottenuto in Ticino: il passaparola. La gente è venuta a vedere il film, perché qualcuno, bontà sua, ha riferito che c’era da divertirsi. Poi abbiamo avuto dalla nostra anche il pubblico delle famiglie, perché, come sempre, non diciamo parolacce né giochiamo sulla volgarità» ci racconta Paolo Bernasconi, cioè, no, Guglielmoni, l’alter ego di Loris Bernasconi. Ehm, la cosa diventa un po’ complicata perché chiacchierando con lui non si sa bene con chi si sta parlando: «(ride) Il Bernasconi come personaggio lo conosco bene, e alla fine non ci sono molte differenze con il mio carattere, perché l’idea di questo
ticinese medio che in fondo non è un fenomeno e si impigrisce un po’ su certe cose, non lo rende poi così diverso da me. La differenza tra me e Bernasconi, in fondo è che io alla fine tendo sempre a usare molto l’ironia, mentre Bernasconi è monolitico: il bello del film è avere mostrato che ha anche un lato umano, come Terminator in Terminator 2 – Il giorno del giudizio», ci racconta Gugliemoni. «Se mi sono lanciato nel film lungo, è stato grazie al mio amico Flavio che ha molta più esperienza di me in recitazione; avendo fatto la gavetta con le filodrammatiche di paese, avendo lavorato con Yor Milano – e ora con la sua compagnia teatrale – nella commedia dialettale, Flavio ha l’esperienza che serviva per fare il protagonista e io mi ci sono attaccato come un vagone alla locomotiva». Flavio è naturalmente Flavio Sala, l’interprete di Roberto Bussenghi. E qui sorge, però, la curiosità su come funziona «l’officina» Frontaliers, sul modo, cioè, in cui nascono le avventure di questi due simpatici amici/nemici. Guglielmoni ce lo racconta: «Nella fase di scrittura ci sediamo vicini, con il computer davanti, e iniziamo a sparare le nostre cose, improvvisando. Lo facciamo da tanto tempo ormai e ci siamo dati una sorta di regola: scriviamo tutte le cose che ci sembrano divertenti, le rileggiamo, le correggiamo già sul momento. L’idea per noi importan-
Frontaliers Disaster in esclusiva alla Migros senghi, saranno presenti in alcune filiali per firmare le copie del DVD: Martedì 11 dicembre filiale Migros S. Antonino (giorno di uscita, con collegamenti radio su Rete Tre RSI); Mercoledì 12 dicembre filiale Migros Serfontana (con collegamento TV in diretta con FILO DIRETTO LA1); Sabato 15 dicembre filiale Migros Lugano; Sabato 22 dicembre filiale Migros Locarno.
Il DVD Frontaliers Disaster sarà messo in vendita in esclusiva alle casse dei supermercati Migros Ticino al prezzo di 10 franchi a partire da domani, martedì 11 dicembre. I due personaggi, Bernasconi e Bus-
Altre date di presentazione: Lunedì 17 dicembre villaggio Natale Bellinzona dalle 10 alle 14; Mercoledì 19 dicembre villaggio Natale Lugano dalle 14 alle 16; Lunedì 31 dicembre Piazza della Riforma dalle 22.00 Festa fine anno citta di Lugano / Rete Tre.
Un disaster di matrimonio: la conclusione che tutti aspettavano...
te è sempre di far parlare i personaggi come «devono parlare». Per capirci, la base è: Bussenghi deve sfottere e Bernasconi prenderle. Poi, da lì, si può giocare». Il dialogo tra i due in effetti è la chiave di volta dell’umorismo dei Frontaliers: «A me piace molto questa idea che Bussenghi agisca un po’ da commentatore di quello che dice Bernasconi, che gli fa la didascalia: ci sono queste situazioni in cui il Loris ne fa veramente di cotte e di crude con Bussenghi che interviene a rimarcare le stupidaggini dell’altro… Funziona» racconta Guglielmoni. Per quello che riguarda Frontaliers disaster, in particolare, il respiro del lungometraggio richiedeva un’esperienza che i due non avevano, abituati alla dimensione dello sketch: «In questo caso abbiamo accettato i consigli di Alberto Meroni, il regista, e Barbara Buracchio, l’attrice principale, che hanno steso la sceneggiatura. Loro hanno competenze che noi non abbiamo e hanno fatto un ottimo lavoro nel preparare gli incastri della storia; noi ci siamo concentrati sul ritmo e sul suono delle parole che pronunciamo: abbiamo scritto i dialoghi». Alberto Meroni conferma: «Abbiamo portato due personaggi che possedevano in fondo una comicità a breve respiro su una dimensione più ampia. Abbiamo approfondito alcuni aspetti del loro carattere, ad esempio lavorando sul personaggio della madre di Bernasconi che, trattandolo come un lattante, fa capire perché il figlio abbia tutti ’sti problemi…». Per Mero-
ni è stata una bella esperienza lavorare con personaggi sperimentati e amati dal pubblico: «Sono figure che ispirano simpatia dai due lati della frontiera e questo è un aspetto molto raro e originale. Credo proprio che il segreto del loro successo sia in questa loro capacità di toccare due punti di vista: le regole e le eccezioni». Vista la loro propensione all’improvvisazione il regista ha dovuto tenere anche in considerazione gli imprevisti: «È inevitabile con personaggi come loro. Ho girato con tre camere contemporaneamente, visto che per loro era il primo film e non sapevo se sarebbero riusciti a reggere le ripetizioni. Questo ha permesso di tenere anche delle scene impreviste». Una delle carte interessanti e utili della produzione è stata la collaborazione con la Morandini Film Distribution di Luca Morandini, che ne ha curata la distribuzione nelle sale svizzere e italiane. Ma Morandini ha portato anche qualche suggerimento alla gestazione del film, anzi alla sua nascita: «È vero. L’idea di portare i Frontaliers al cinema è venuta a me qualche anno fa, dopo aver visto il successo degli sketch su Youtube. Era nato allora un primo prodotto di 35 minuti, che era funzionato benissimo, anche se all’inizio non ci si credeva». Per quello che riguarda la distribuzione, i suoi contatti sono stati importanti per far arrivare il film nel circuito della Svizzera interna. E per ciò che riguarda i suoi consigli agli autori? «Non ho avuto un ruolo diretto, ma credo di sapere cosa si aspetta
il pubblico. L’idea di inserire un personaggio giovane, il figlio di Veronelli, è mia, perché so che avere un personaggio in cui possono identificarsi anche i più piccoli è uno degli elementi importanti nei film di successo» ci confida Morandini. E dopo il grande schermo, il film Frontaliers Disaster viene proposto, da domani, in tutte le filiali Migros del Ticino e nei comuni del Grigioni italiano in una versione DVD arricchita da ben 80 minuti di Extra: il videoclip della canzone del film by The Vad Vuc (autori di tutta la colonna sonora), backstage, errori sul set, scene inedite e il pezzo forte, il finale che in sala era rimasto in bilico: il matrimonio di Loris J. Bernasconi. Bernasconi si sposa (Un Disaster di matrimonio della durata di 20 minuti) e si sposa solo in DVD. Guglielmoni tiene a sottolineare come per la RSI, che è coproduttrice del DVD con Inmagine SA, il senso dell’operazione sia legato a un’iniziativa di beneficenza. «Destinatario degli utili RSI sarà Ogni Centesimo Conta, raccolta fondi a favore dei minori in difficoltà nella Svizzera italiana». Tutto è bene quel che finisce bene, dunque, per l’operazione Frontaliers Disaster. A Bussenghi e Bernasconi non resta quindi che lanciarsi nel bagno di folla che li aspetta durante le loro uscite pubbliche promozionali per il lancio del nuovo DVD (vedi box a lato). Nell’attesa, naturalmente, di una prossima sorpresa... i Frontaliers, si sa, sono imprevedibili. / Red.
Dieci anni di impegno per i progetti culturali Migros Ticino Incontro con Mario Colombo che lascia il suo incarico di Presidente della Commissione culturale
del Consiglio di cooperativa La seduta del Consiglio di Cooperativa del 5.12.2018 è stata l’ultima a cui ha partecipato Mario Colombo, presidente della Commissione culturale del CC. Un impegnativo lavoro che lo ha visto esaminare quasi 200 dossier relativi ad attività culturali e sociali di vario tipo e assegnare varie migliaia di franchi per la loro realizzazione. «Ho fatto parte della Commissione culturale dal 2008, anno in cui ero stato nominato delegato del Consiglio di cooperativa di Migros Ticino. Dopo i primi 4 anni in qualità di membro, nel 2012 sono stato designato presidente» ci racconta Mario Colombo. Ma come funziona la commissione? «Il Consiglio di cooperativa nomina, tra i suoi membri, la Commissione
culturale e il suo presidente per una durata di 4 anni. Ad inizio marzo essa riceve dal responsabile del Percento culturale le richieste di contributo di sua competenza e in una prima riunione esamina le documentazioni prodotte. In una successiva riunione i 7 membri della Commissione, a cui sono stati distribuiti i progetti in maniera equa, ne presentano un rapporto dettagliato. Nell’ambito delle sue competenze e nel rispetto del Regolamento specifico vengono poi scelti i progetti più meritevoli (3 o 4 ogni anno) da sottoporre per l’approvazione definitiva al Consiglio di cooperativa nella seduta di inizio giugno». E quali sono le particolarità che condizionano le scelte? «La Commissione culturale deve tenere conto di
Da sin.: Giuseppe Cassina, presidente del Consiglio di Cooperativa e Mario Colombo, presidente uscente della Commissione Culturale.
un’equa ripartizione territoriale, di progetti variati e che il contributo sia rilevante per l’attuazione del progetto. Inoltre sono per principio escluse richieste per progetti promossi da enti pubblici. I nostri interventi sono pertanto mirati verso progetti magari piuttosto sconosciuti al grande pubblico, ma ricchi di storia e di impatto sociale, in sintonia anche con la grande attenzione che Migros dedica all’ambiente e al territorio. In più di un’occasione il nostro sostegno, oltre a premiare il progetto per il suo valore, ha pure permesso di far meglio conoscere alcune zone del nostro cantone un po’ dimenticate». Tra i progetti esaminati, alcuni sono stati particolarmente a cuore a Mario Colombo, per la qualità, la storia
e l’impatto ambientale: come il restauro dell’Antico Mulino di Precassino di Cadenazzo e la rivalutazione dei Monti di Rima situati sopra Broglio. «Ho pure dato grande sostegno a Pedibus Ticino, sistema di accompagnamento dei bambini lungo il percorso casa – scuola sotto la sorveglianza degli adulti, che sta ottenendo grande visibilità e sempre più nuove adesioni» ci conferma. Per concludere, vuole rivolgere un augurio al futuro presidente? «A partire dal 2019 sarà Marco Bronzini ad assumere la presidenza della Commissione culturale. Gli auguro di saper portare nuovi stimoli a favore del gruppo, così da ulteriormente soddisfare le esigenze del Consiglio di cooperativa di Migros Ticino».
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 dicembre 2018 • N. 50
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Società e Territorio La firma digitale Come si fa ad ottenere e come la si usa: una procedura complessa semplificata da aziende del settore della comunicazione
Luoghi storici della chimica L’Accademia svizzera di scienze naturali assegna ogni anno il «Chemical Landmark» pagina 6
Il futuro delle cose La velocità dei progressi tecnico-scientifici rende precario il ciclo di vita dei beni tecnologici: che effetto ha su di noi? pagina 8
pagina 5
Che figura! Ma non potevo starmene zitto? (Marka)
Superare l’imbarazzo
Psicologia Facciamo tutti continuamente figuracce, dal commento fuori luogo alla battuta che non fa ridere.
L’importante è non enfatizzare queste situazioni. Ecco come superare la vergogna e prendersi meno sul serio Stefania Prandi Succede a tutti di sentirsi in imbarazzo per avere fatto un commento fuori luogo oppure per una battuta che si pensa divertente ma che non fa ridere chi ci sta ascoltando. Capita di provare un improvviso senso di disagio anche su internet se, ad esempio, si sta guardando il profilo Instagram o Facebook di qualcuno per «spiarlo» e inavvertitamente parte il like su un post che magari nemmeno ci piace. All’imbarazzo, emozione difficile da gestire, che può portare a vera e propria ansia sociale e ad attacchi di paranoia, ha dedicato un libro Melissa Dahl, giornalista scientifica americana che lavora nella sezione «The Cut» del «New York Magazine». Che figura! (in uscita a gennaio 2019 per Feltrinelli) è il titolo del suo lavoro di ricerca durato due anni, nei quali ha passato in rassegna ricerche ed esperimenti di psicologia e si è messa in discussione in prima persona. Per uscire dalla sua comfort zone, si è autoassegnata il compito di provare a sperimentare ciò che viene suggerito da uno studio realizzato da Nicholas Epley, professore di Scienze comportamentali all’Università di Chicago, e cioè che se la mattina, mentre si va al
lavoro, si parla agli estranei sui mezzi pubblici, ci si sente più felici. Dahl lo ha fatto per una settimana sulla metro di New York, forzandosi di superare la sua resistenza per le figuracce. Non è stato semplice: certi giorni i suoi tentativi di socializzazione sono stati malamente frenati sul nascere da chi ha finto di non sentirla mentre cercava di attaccare bottone con una scusa qualsiasi. Qualcuno, dopo avere risposto seccamente, ha tirato fuori una rivista per evitare la conversazione oppure ha smesso semplicemente di guardarla in faccia. Altri giorni, comunque, è andata meglio: è riuscita ad avviare vere e proprie conversazioni, con scambi di opinioni piacevoli a proposito di libri e canzoni. Inizialmente il libro di Melissa Dahl sarebbe dovuto essere una guida per non sentirsi mai più in imbarazzo, ma alla fine si è rivelato un percorso per arrivare ad amare i momenti scomodi e fastidiosi, quelli in cui si vorrebbe sprofondare e scomparire per sempre dalla vista degli altri. Dahl ha capito che si può decidere di non precipitare nella sensazione di annichilimento; anzi, l’imbarazzo può fare sentire meno isolati e connessi alle altre persone. «Datti una tregua per la macchia di caffè sulla maglietta oppure per il commento
fuori luogo al primo appuntamento. Ci sono meno persone di quante tu possa immaginare che si ricorderanno delle tue goffaggini» dice in una delle molte interviste rilasciate alla stampa statunitense, nei mesi scorsi. «Facciamo tutti continuamente figuracce, è davvero qualcosa di comune, soltanto che alcuni di noi sono più bravi a cavarsela e a costruirci delle storie sopra». La rivisitazione dei momenti di vergogna è una via per riuscire a sentirsi meglio, perché possiamo farli diventare aneddoti che, nelle nostre vite personali e professionali, ci rendono più umani. Condividere la vulnerabilità è uno dei modi per creare velocemente intimità con chi ci circonda. Un altro stratagemma per riuscire a mantenere il distacco è pensare che siamo tutti condizionati dal cosiddetto «effetto spotlight», cioè dalla tendenza innata a sopravvalutare il grado di attenzione che gli altri rivolgono al nostro aspetto e al nostro comportamento. Ci sentiamo osservati e di conseguenza giudicati anche quando questo non sta realmente accadendo. Ovviamente questo non vuol dire che se arriviamo a una riunione di lavoro in ritardo oppure a una festa già cominciata passiamo inosservati, ma
che le persone, pur guardandoci, non fanno così caso a noi. Una liberazione, considerando che fin da piccoli ci preoccupiamo dei giudizi esterni. Philippe Rochat, professore di Psicologia alla Emory University – nato e formatosi in Svizzera e allievo di Jean Piaget – in uno dei suoi ultimi studi ha scoperto che già dall’età di ventiquattro mesi, ancora prima di riuscire a dire una frase compiuta, i bambini non solo sono consapevoli che le persone attorno li possono valutare ma cambiano comportamento per avere risposte positive. Può anche capitare di sentirci in imbarazzo per gli altri quando, ad esempio, uno dei nostri amici fa una gaffe senza accorgersene oppure quando guardiamo programmi televisivi dove vengono messe in ridicolo le performance dei partecipanti. C’è un nome per questa emozione, «imbarazzo di seconda mano»: mentre la proviamo, attiviamo le stesse aree del cervello legate all’empatia. Un’altra esperienza frequente è il ricordo che arriva all’improvviso per qualcosa che ci ha causato vergogna nel passato. Un vero e proprio «attacco» di vergogna, come lo definiscono gli psicologi, che ci fa rivivere le umiliazioni, spesso dopo anni. Se, quando capita, proviamo a concentrar-
ci sui dettagli dell’episodio, ad esempio su come era fatta la stanza dove ci trovavamo oppure su chi era presente, possiamo rendere meno carica di emozioni la memoria. Possiamo imparare a non farci trascinare dalla vergogna, ma ad abbracciarla, perché se la accettiamo con consapevolezza ci farà sentire più connessi al resto del mondo. Addirittura, la nostra avversione per l’imbarazzo potrebbe trattenerci dal progredire come società perché spesso, proprio per evitare situazioni di fastidiosa impasse, non ci lanciamo in conversazioni difficili, ad esempio sul razzismo, sulla religione, sul genere e sulla classe, che invece possono essere utili per uno scambio di idee. La sfida è cercare di fare, ogni tanto, qualcosa che consideriamo fuori luogo, non per umiliarci ma per provare che possiamo sopravvivere. Melissa Dahl si è ritrovata anche a leggere il diario di quando era piccola davanti a degli estranei, per un programma statunitense chiamato The mortified podcast, in cui alcuni adulti condividono le cose più imbarazzanti che hanno scritto da bambini. Una sfida per ricordarsi che si può prendere tutto meno sul serio, con più autoironia, imparando a ridere di se stessi.
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Società e Territorio
La firma digitale, la nostra identità tecnologica Informatica U n procedimento complesso spiegato, se possibile, in termini semplici
Ugo Wolf Noi siamo la nostra firma. La firma è la sintesi della nostra personalità e anche il segno della nostra volontà. Sostituisce la nostra presenza fisica, conferma le nostre decisioni e attesta la nostra responsabilità di fronte al mondo. Per secoli un tratto di penna vergato da una mano è stato accettato come impegno e come garanzia. Ma che ne è della firma in un epoca in cui i documenti, le decisioni e i contratti vengono redatti utilizzando strumenti elettronici, privi di reale consistenza? Il discorso è sempre più attuale, nel momento in cui ognuno di noi si trova a interagire massicciamente con servizi digitalizzati, in cui la richiesta di documenti, lo scambio commerciale e la corrispondenza professionale avviene attraverso canali informatizzati. Al momento attuale, ad esempio, alcuni servizi dello Stato non accettano ancora la trasmissione per via elettronica di atti scritti, di richieste informali o di istanze formali, poiché la vigente legislazione non ne permette ancora l’uso. Ma tale prassi dovrà necessariamente modificarsi, visto soprattutto che gran parte dei nostri interlocutori economici e burocratici come casse malati, assicurazioni sociali, aziende di telecomunicazioni e altri servizi commerciali comunicano con i propri clienti ormai quasi essenzialmente tramite posta elettronica.
In tale contesto (per certi versi ancora un po’ confuso, vista l’incertezza seminata da insidie come spam, phishing e altre pratiche truffaldine) si sente sempre più spesso parlare di «firma digitale». Si tratta di un procedimento tecnologico di certificazione che permette di inserire nei documenti digitali un elemento informatico il quale, analogamente a una firma autografa, certifica in modo legale la provenienza del documento e la responsabilità di chi lo ha redatto. I procedimenti per generare tali «firme» sono ormai piuttosto diffusi e sono stati adottati nelle maggiori aziende. Là dove le nuove spinte verso la razionalizzazione suggeriscono l’uso di processi decisionali su piattaforme elettroniche condivise, è necessario, infatti, trovare modalità di certificazione delle decisioni e di controllo che siano essenzialmente digitali. Nel concreto: visto che gran parte delle documentazioni scambiate nei processi di lavoro avvengono su file di testo, su fogli di calcolo o su documenti in formato pdf, il procedimento della «firma digitale» provvede semplicemente ad aggiungere a questi file una serie di informazioni in più che certificheranno in modo univoco l’identità di chi ha sottoscritto un contratto, firmato un protocollo, dato il proprio assenso a una decisione. Gli elementi di certificazione sono, naturalmente, elaborati con procedimenti a prova di falsificazione e con algoritmi che garantiscono alti livelli di
sicurezza. In tal modo diventano validi da un punto di vista legale. Più in generale: per ottenere questa «convalida», occorre che la singola persona sia identificata in modo univoco da un ente certificatore (ne esiste un catalogo ufficiale qui https://www. sas.admin.ch/sas/it/home/akkreditiertestellen/akkrstellensuchesas/pki. html), cioè che il singolo abbia prodotto in un primo tempo le proprie generalità «analogiche» a tale autorità ufficiale, la quale poi si premurerà di creare il documento di identificazione specifico ad personam. Di fatto, questa procedura complessa viene semplificata in maniera abbastanza radicale con i servizi offerti da aziende attive nel settore della comunicazione quali La Posta, Swisscom, e altre ancora. Esse forniscono ai privati e alle aziende veri e propri pacchetti per la gestione della firma digitale. Si tratta di software specifici, in grado di integrare nei documenti elettronici quelle informazioni univoche di cui dicevamo qui sopra. Ad ogni utilizzatore registrato e accreditato viene poi fornito un nome utente e una password che gli permettono di accedere al programma di firma. In questo modo la sua autorizzazione, la sua convalida o la sua decisione sarà registrata in modo indelebile (e soprattutto, legalmente valido) nel documento. Detto questo, resterebbe da vedere come tutta questa trafila possa modificare il lavoro concreto, quotidiano,
Il modo per identificare in modo univoco i propri documenti. (Marka)
di chi ha adottato la firma digitale nella propria prassi operativa. Abbiamo chiesto la sua impressione a un collega che la utilizza quotidianamente e la sua risposta è stata molto tranquillizzante. «Una volta impostata la parte tecnica non ci sono particolari complicazioni, a parte i costi da sostenere e la componente amministrativa per la gestione delle varie chiavi» ci ha risposto. «L’uso della firma digitale può essere ormai considerato una prassi normale. Anzi, man mano che aumenterà la diffusione di questo
concetto diventerà ancora più semplice/normale. Si parla già di introdurre la firma digitale per tutti e dal momento che questa sarà attiva, parte della componente amministrativa verrà ridotta». Qualche esperienza personale problematica? Di nuovo una risposta tranquillizzante: «Nessuna in particolare». Dopo i passaporti biometrici, il riconoscimento delle impronte digitali e riconoscimento facciale, prepariamoci quindi ad abituarci a una nuova forma di digitalizzazione della nostra identità. Annuncio pubblicitario
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saranno aperti dalle ore 10 alle 18 i seguenti punti vendita Migros: Centro Agno – Arbedo Castione Bellinzona – Biasca – Locarno Pregassona – Lugano Centro Parco Commerciale Grancia – Taverne Centro S. Antonino Centro Shopping Serfontana Losone Do it + Garden
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Società e Territorio
La chimica che fa storia
Chemical Landmark Il riconoscimento assegnato dall’Accademia svizzera di scienze naturali ha lo scopo
di identificare e dare il giusto valore alle eredità scientifiche e tecnologiche nell’ambito della formazione e della ricerca chimica in Svizzera
Marco Martucci Passato un arco, attraversato un breve viale alberato e salita una serie di gradini in pietra, si entrava per un massiccio portone. Al pianterreno si poteva avvertire un tipico odore di gas sulfurei mentre ai piani superiori dominavano effluvi più gradevoli, come menta o cannella. Ricordi scolpiti dentro la memoria olfattiva, pare la più profonda, di generazioni di studenti di chimica, fra i quali il sottoscritto, del vecchio stabile di chimica, noto agli studenti come «CAB», Chemie Altbau, della Scuola politecnica federale ETH di Zurigo. Da quando nel 2001 l’intero dipartimento di chimica si è trasferito nei meno centrali ma più vasti spazi del Campus Science City sulla collina di Höngg, la costruzione ospita parte del dipartimento d’informatica. Nei suoi oltre 120 anni di storia, il glorioso edificio del 1886, già dichiarato nel 1987 monumento da tutelare, ha visto passare schiere di studenti, futuri chimici e ingegneri e non meno di sette Premi Nobel hanno studiato, ricercato e insegnato nei suoi laboratori e nelle sue aule. Poteva capitare d’avere un Nobel o un futuro Nobel come professore o perfino di far la fila insieme nel «Chemie Bar», la cafeteria del CAB. Nel 2010, il leggendario «CAB» ha ottenuto il riconoscimento di «Chemical Landmark», luogo storico, pietra
miliare della chimica, da parte della «Platform Chemistry» dell’Accademia svizzera di scienze naturali. Questa originale iniziativa fu lanciata nel 2009 per «identificare e dare il giusto valore alle eredità scientifiche e tecnologiche nell’ambito della chimica in Svizzera», scegliendo ogni anno un luogo di grande valore storico. L’eccellenza della nostra formazione e ricerca scientifica in generale e in chimica in particolare non solo è motivo di vanto e prestigio per il nostro Paese ma contribuisce, attraverso le applicazioni nell’industria, alla ricchezza nazionale. Il primo «Chemical Landmark» andò nel 2009 a Winterthur e fu assegnato a una struttura che, pur non esistendo più, è stata molto importante nella storia della chimica svizzera. Era nota come «Laboratorium» ed era in effetti la prima fabbrica chimica del nostro Paese. Costruita fra il 1777 e il 1781, quando la chimica stava nascendo come scienza, produceva sostanze per l’industria tessile come il «vetriolo», cioè l’acido solforico, e suoi derivati, nonché soda e acido cloridrico. Tutta la struttura fu demolita negli anni Sessanta del secolo scorso: di essa resta memoria nel nome della strada, la Laboratoriumstrasse. Più che per un luogo, il terzo Chemical Landmark fu scelto nel 2011 per una persona, un chimico francese, Jean-Charles Galissard de Marignac
L’Area Rosental, culla della chimica basilese, nel 1926. (Firmenarchiv der Novartis AG)
(1817-1894). Ma anche il luogo conta molto perché si tratta del laboratorio in cui svolse le sue importanti ricerche
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e che era ospitato nell’Uni Bastions dell’Università di Ginevra. Professore per ben trentasette anni, Galissard divenne famoso soprattutto per la scoperta di due nuovi elementi chimici, due cosiddette «terre rare», l’itterbio nel 1878 e il gadolinio due anni dopo. Non meno importante fu la precisa determinazione dei pesi atomici di ben 29 elementi: la sua bilancia è oggi conservata nel Museo di storia della scienza di Ginevra. Quando si parla di chimica svizzera il pensiero corre subito a Basilea e un Chemical Landmark basilese non poteva mancare. Infatti nel 2012 la città sul Reno si è vista attribuire un doppio riconoscimento: per l’area Rosental, «culla della chimica a Basilea» e per l’archivio aziendale di Novartis, ricco di preziose testimonianze. Lo stabilimento di Rosental, il più antico, sorse nel 1862 per la produzione di coloranti sintetici. Fra la fine dell’Ottocento e i primi decenni nel Novecento l’area Rosental si ampliò notevolmente dapprima con la produzione di insetticidi cui si aggiunsero fungicidi, mordenti per sementi, prodotti farmaceutici. Oggi, dopo il trasferimento dell’attività produttiva a Schweizerhalle, l’area Rosental ospita le sedi di grandi imprese, laboratori di ricerca e oltre trenta aziende e istituzioni scientifiche nel campo life science. Nel 2013 il Chemical Landmark andò all’altro capo della Svizzera, in Vallese. Qui, a Gampel, nel 1897 sorse quella che si sarebbe sviluppata in una grande industria chimica e prese il nome dal fiume che scorreva nei pressi e da cui proveniva la necessaria energia idroelettrica. Era la Lonza, che all’inizio sfruttava la calce locale per produrre il carburo di calcio, da cui si otteneva l’acetilene per l’illuminazione. Nel 1907 fu inaugurato lo stabilimento di Visp e oggi Lonza è un’importante industria chimica di livello internazionale. Forse meno grandioso ma non per questo privo di fascino è il luogo scelto come Chemical Landmark nel 2014, situato in posizione incantevole dove i due rami del Reno si uniscono. È il laboratorio del Castello di Reichenau, nei Grigioni, un ambiente di chimica quasi romantica, allestito nel 1852 dal chimico e naturalista grigionese Adolf von Planta per studiare la natura del-
la regione. Qui per due anni collaborò con il famoso chimico tedesco August Kekulé, passato alla storia per la scoperta della struttura della molecola di benzene. In una fabbrica di vagoni ristrutturata sorse nel 1896 il primo Istituto di chimica dell’università di Friburgo, Chemical Landmark del 2015. Nello stabile, che ospitò la chimica friburghese fino al 1974, si sviluppò una singolare collaborazione fra due culture, la tedesca e la francese, che produsse notevoli frutti, fra i quali la ftalocianina, importante colorante. Nel 1899, Chaim Weizmann, che sarebbe diventato il primo presidente di Israele, fu tra i primi ad ottenere il dottorato in chimica. Nel 2016 Zurigo ottenne di nuovo il riconoscimento di «luogo storico della chimica», stavolta per la sua università. Qui, in una pregevole e parecchio originale costruzione era ospitata fino al suo trasferimento nel nuovo campus di Irchel, la facoltà di chimica. Nella storia della chimica universitaria zurighese brillano, fra tanti ricercatori, due nomi: Alfred Werner, Nobel per la chimica nel 1913 e Paul Karrer, Nobel nel 1937. Werner ottenne notevoli risultati in chimica inorganica mentre Karrer si dedicò particolarmente allo studio delle vitamine. Il Chemical Landmark 2017 tornò nuovamente a Basilea, per il primo laboratorio di chimica della sua università, il Falkensteinerhof. Qui lavorò Christian Friedrich Schönbein (17991868), chimico tedesco naturalizzato svizzero, passato alla storia per la sintesi del fulmicotone o nitrocellulosa, uno dei primi esplosivi «senza fumo», per la scoperta della natura dell’ozono e per la pila a combustibile. Il Chemical Landmark del 2018 è andato a Berna nell’antica sede della ditta Wander dove, nel 1904, Albert Wander, dottore in chimica, inventò quella che, probabilmente, è la più antica bevanda energetica del mondo. Manca, almeno finora, un luogo storico della chimica svizzera a sud delle Alpi. Chiunque può proporre una candidatura e chissà se, in futuro, non ci possa essere un Chemical Landmark anche nella Svizzera italiana? Informazioni
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 dicembre 2018 • N. 50
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Società e Territorio
Noi e il futuro delle cose
Tempi moderni La velocità dei progressi tecnico-scientifici rende precario il ciclo di vita di molti beni tecnologici
Massimo Negrotti Il nostro rapporto con le cose, siano esse automobili o edifici, televisori o computer e così via, è da sempre piuttosto ambiguo. Poiché, fra le forme di alfabetismo, ancora oggi non rientra quella «cultura tecnica» di cui Gilbert Simondon, nel secolo scorso, auspicava la diffusione, la consapevolezza generale sulla «natura» degli oggetti tecnici che usiamo è decisamente scarsa. Nonostante l’estrema raffinatezza dei prodotti tecnologici contemporanei, sia di largo consumo sia industriali, la gran parte di noi ne ignora pressoché completamente i processi interni, i materiali costituenti e via dicendo. In fondo, i dispositivi con cui, per qualche emergenza domestica, mostriamo maggiore familiarità sono tutt’oggi le macchine fondamentali che Guidobaldo del Monte, sulla scia di Erone di Alessandria, indicava, nel XVI secolo, nella leva, il rullo, la puleggia, il cuneo e la vite alle quali potremmo aggiungere ben poco altro, come il computer che, però, esigerebbe una discussione a parte.
La crescente frequenza con cui si manifestano le novità comporta una progressiva revisione della nostra percezione del passato e del futuro Una delle conseguenze più interessanti di tutto questo sta nella netta separazione fra le competenze di chi progetta, produce e offre al mercato i beni tecnologici e le conoscenze di cui disponiamo noi, utenti finali. Naturalmente l’auspicio di Simondon, a fronte della notevolissima complessità dei prodotti contemporanei, era francamente illusoria poiché, per giudicare la qualità di un dispositivo, dovremmo possedere cognizioni in tema di elettrologia
ed elettronica, meccanica e chimica e magari di informatica e cibernetica. Di fatto, non ci rimane che una risorsa, peraltro assai potente, cioè la scelta di un prodotto sulla base della sua reputazione, da intendersi come risultato della miriade di esperienze, positive e negative, di cui veniamo a conoscenza per mille vie. A questo, vanno poi aggiunte la concorrenza fra i produttori e l’efficacia della pubblicità. La separazione fra produttori e consumatori peraltro rimane intatta e, talvolta, si presta a manipolazioni che non sempre vengono scoperte e represse. Ci riferiamo, al «cartello» fra produttori virtualmente in concorrenza fra loro, per dotare i propri prodotti di «obsolescenza programmata». Si tratta di una pratica industriale, tenuta ovviamente segreta, grazie alla quale una classe di prodotti, per esempio alcune parti di un’automobile o di altri dispositivi, vengono progettate per una durata prefissata, superata la quale il proprietario possa essere indotto ad acquistare il nuovo modello messo a punto nel frattempo. Alcune associazioni di imprenditori hanno sollevato dubbi sull’efficacia economica di tale pratica, poiché può rivelarsi un boomerang dato che i consumatori potrebbero orientarsi verso produttori non aderenti al cartello. Ad ogni modo, periodicamente, come è noto, alcuni marchi anche fra i più prestigiosi vengono accusati e condannati per questo genere di comportamento che, fra l’altro, conferisce al termine economico di «beni durevoli» un sapore decisamente ironico. È chiaro che una maggiore competenza tecnica da parte dei clienti sarebbe comunque auspicabile, tuttavia c’è un aspetto sociologico che non andrebbe trascurato. Ci riferiamo al fatto che, a parte i cartelli, del resto più o meno prontamente repressi dal mercato stesso, sono i progressi tecnicoscientifici in quanto tali a rendere di fatto precario il lyfe cycle di una grande quantità di beni tecnologici. La crescente diminuzione del tem-
po che passa fra una scoperta scientifica e la sua applicazione pratica era stata misurata da Eli Ginzberg negli anni Sessanta e va dai 112 anni trascorsi dalla scoperta di alcune proprietà chimiche all’invenzione della fotografia ai soli 2 anni trascorsi dalla scoperta di alcune proprietà fotoelettriche del silicio e l’invenzione delle batterie solari. Oggi la situazione è tale per cui la distanza è spesso addirittura negativa poiché non raramente sono le invenzioni tecniche ad indurre ricerche scientifiche ad hoc. Quando, nei secoli scorsi, un’azienda realizzava una centrale elettrica o qualcuno ordinava una carrozza oppure una bicicletta, tacitamente si pensava ad una durata illimitata del prodotto. L’acquisto di macchine le più diverse era insomma percepito come un fatto definitivo e la loro durata era un fattore decisivo dato per scontato. Oggi, invece, nessuno, acquistando un’automobile o altri dispositivi tecnologici, immagina di poterne usufruire per un arco temporale senza fine. In effetti, la stessa pubblicità sottolinea l’affidabilità e l’efficacia di un prodotto e non più la sua durata, ponendo soprattutto al centro del messaggio promozionale la novità di ciò che viene pubblicizzato. Ciò innesca quello che potremmo definire il gioco della novità, al quale tutti partecipiamo volentieri e spesso con entusiasmo. Un’automobile, che era «nuova» due anni prima, viene così definita «vecchia» e lo stare al passo con le novità diviene così una sorta di obbligo interiore che spinge a conseguire nuovi obiettivi. I critici di questo fenomeno, definito consumismo, dimenticano che esso affonda le proprie radici nella natura umana, nella sua tensione costante verso qualcosa di inusitato, cioè nella ricerca perenne di «differenze» e, appunto, novità. Ciò è vero nel caso del mercato dei prodotti tecnologici così come è vero nella scienza e nell’arte. E persino nella moda, cioè in un’attività, gradita ai più, nella quale l’obsolescenza è
Si è creata una netta separazione tra le competenze di chi progetta i beni tecnologici e le conoscenze degli utenti finali. (Marka)
programmata apertamente e dunque istituzionalizzata, legando la durata dei prodotti alle stagioni e alla loro ovviamente prevedibile successione temporale. A porre qualche possibile problema è, semmai, la crescente frequenza con cui si manifestano le novità e le conseguenti sostituzioni dei beni tecnologici più disparati. Si può affermare senza tema di smentita che, in un paio di anni, l’uomo contemporaneo tende ad imbattersi e a doversi adattare ad
una quantità di innovazioni tecnologiche che, nei tempi passati, richiedevano un paio di decenni per essere accettate e assimilate. Ciò comporta una progressiva revisione della nostra percezione del passato e del futuro come se il primo fosse un territorio da lasciare il più presto possibile e che è legittimo ignorare, e il secondo collassasse nel solo presente, rendendo quanto mai oscuro, per certi versi privo di interesse ma per altri intimorente, ciò che accadrà nel lungo periodo.
Favorire il reinserimento professionale Associazioni Inserimento Svizzera raggruppa più di 200 istituzioni attive nel settore del reinserimento
socioprofessionale. Ora esiste un’antenna anche in Ticino Roberta Nicolò L’associazione mantello Inserimento Svizzera ha una sua antenna anche in Ticino. Sul nostro territorio, l’associazione di rappresentanza regionale, è nata nel settembre 2017. «L’associazione Inserimento Svizzera esiste da anni, ma in Ticino non avevamo un’antenna regionale – spiega la Presidente della sezione ticinese Amedea Pennella – abbiamo quindi deciso, con alcuni colleghi di realtà operanti nell’ambito del reinserimento socioprofessionale, di istituire una presenza organizzata anche sul territorio ticinese. Abbiamo preso contatto con l’Associazione nazionale e abbiamo dato avvio ai lavori. Chi opera nel reinserimento socioprofessionale ha un’utenza molto varia che proviene da più istituzioni cantonali: Ufficio delle Misure attive, Assistenza, AI. Giovani e meno giovani, persone provenienti dal nostro cantone ma anche con un passato migratorio. Un lavoro delicato che, secondo la nostra esperienza, aveva bisogno di una rete di collaborazione attiva. A livello locale hanno aderito all’iniziativa sia le grandi realtà sia quelle più piccole. Ci sono aziende presenti solo sul territorio ticinese, ma
anche sedi regionali di enti presenti in tutta la Svizzera. Avere un’antenna ticinese ha permesso di dar voce al nostro territorio e, infatti, abbiamo un rappresentante del nostro cantone nel comitato svizzero. Abbiamo inoltre garantito la pluralità linguistica auspicata a livello federale e la newsletter di Inserimento Svizzera, che era solo in francese e in tedesco, oggi è tradotta anche in lingua italiana. Sono piccoli passi ma nella giusta direzione». Condividere gli obiettivi è un buon modo per trovare soluzioni comuni e agevolare così il lavoro di coloro che si adoperano, anche in Ticino, a favore del reinserimento.
«Creare un organo super partes rispetto ai singoli membri che potesse essere un referente autorevole nelle relazioni con le istituzioni, in particolare con l’Ufficio delle Misure Attive (UMA), era uno degli obiettivi principali, ma anche la comunicazione centralizzata e coordinata nei confronti delle istituzioni chiave, la creazione di una piattaforma di incontro e scambio riconoscibile per gli operatori del settore e la formazione professionale sono importanti per promuovere il continuo miglioramento e lo sviluppo dei servizi offerti» chiarisce Pennella. Tra gli obiettivi dell’associazione anche la formazione continua che per-
Cercare un lavoro è un lavoro e bisogna aiutare le persone a muoversi in modo efficace.
metta lo sviluppo delle professionalità necessarie a tutti gli operatori. «Formarsi in maniera adeguata è molto importante e oggi, chi lavora in questo settore, non ha una formazione specifica. Occorre un’offerta formativa di qualità aderente alle necessità di un mercato in continuo cambiamento. Il nostro è un lavoro che necessita sia competenze tecniche sia umane. Ed è importante per ogni realtà avere delle buone opportunità di formazione per i propri operatori. Unire le forze per il processo di professionalizzazione è uno degli obiettivi dell’associazione. Non sempre si ha a disposizione una formazione specifica in psicologia, ma la persona deve essere in primo luogo accolta e messa nelle condizioni di affrontare il percorso di reinserimento. Bisogna avere chiari i ruoli, gli obiettivi e le reciproche responsabilità. Le competenze del singolo vanno valorizzate e strutturate nonché inserite in un percorso che sia realisticamente possibile. Cercare un lavoro è un lavoro, e le varie organizzazioni hanno il compito, attraverso vari percorsi formativi e di accompagnamento, di aiutare le persone a muoversi in modo efficace nel mondo di oggi. Chi resta fuori
dal mercato per troppo tempo ha delle oggettive difficoltà a ricollocarsi. Tutto si muove velocemente e occorre essere aggiornati. Ecco perché essere noi stessi costantemente formati è fondamentale. La rete che può offrire l’associazione mantello deve crescere ed essere sempre più concreta per uno scambio di valore a favore dei singoli». Anche lo scambio di informazioni e il dialogo sono elementi importanti che l’associazione contribuisce a costruire. «La piattaforma comune agevola molto il dialogo e lo scambio su temi di attualità, offrendo nuove possibilità di crescita a tutti gli interlocutori. C’è una direzione chiara e stiamo cercando una declinazione regionale alle attività dell’associazione nazionale. C’è una volontà comune e il desiderio di agire per il bene del servizio che si traduce in una migliore qualità dell’offerta alla persona. Ancora moltissimo rimane da fare, ma è una sfida che stiamo portando avanti con entusiasmo» conclude Amedea Pennella. Informazioni
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 dicembre 2018 • N. 50
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Società e Territorio Rubriche
Lo specchio dei tempi di Franco Zambelloni Animali cornuti e scornati Un’iniziativa popolare, recentemente respinta dal popolo svizzero, intendeva incoraggiare gli allevatori a non recidere le corna al bestiame. Questa iniziativa – giudicata eccessiva o sproporzionata dagli elettori – rimane comunque significativa di un’evoluzione etica che, specialmente nell’ultimo secolo, ha profondamente modificato la nostra coscienza morale. Oggi si parla comunemente di «diritti degli animali», ma il percorso che ha condotto a questa convinzione inizia solo nel secondo dopoguerra: a Londra, nel 1977, un’apposita Lega ha adottato una Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Animale che riconosce all’animale dei diritti e li universalizza, analogamente a quanto fatto per l’uomo nel corso degli ultimi due secoli. Inutile dire che parlare di «diritti degli animali» al tempo di Aristotele, o di Dante, o ancora di Kant, avrebbe suscitato il riso e fatto giudicare folle il sostenitore della
tesi. È pur vero che già nell’antichità la filosofia stoica, analogamente a quanto sostenuto da religioni orientali come il giainismo, il buddhismo e l’induismo, riconosceva l’obbligo morale di non causare dolore a qualsiasi essere senziente; il biblico «Non uccidere» si riferiva soltanto agli umani, mentre l’antico principio indiano della non violenza si estende a ogni creatura senziente; all’uomo il Dio biblico garantisce il diritto di dominare con il terrore su tutti gli animali della terra. La cultura occidentale non ha mai dato gran peso alla sofferenza animale: è vero che filosofi come San Tommaso d’Aquino o Kant esortavano a mostrare bontà di cuore verso gli animali, ma non per rispetto nei loro confronti, bensì solo perché «chi usa essere crudele verso di essi è altrettanto insensibile verso gli uomini». È dunque solo per riguardo all’uomo che la tendenza umana verso forme di crudeltà andreb-
be impedita anche nei confronti degli animali. Del resto, la nostra cultura ha sempre esaltato la superiorità dell’Homo sapiens affermando una distanza abissale tra lui e gli altri essere viventi. Ciò che è nettamente inferiore non merita alcun rispetto né alcun riconoscimento di dignità: è stato così per secoli e secoli non solo riguardo agli animali, ma anche riguardo agli schiavi e alle donne, considerati – secondo la formula di Aristotele – uomini mancati, imperfetti. Poi, con l’Illuminismo e con il progredire della civiltà moderna queste convinzioni balorde (che peraltro per un paio di millenni sono state ritenute verità indiscutibili) sono state clamorosamente smentite e quindi rifiutate. Anche la pretesa superiorità della specie umana sulle altre specie animali è stata clamorosamente ridimensionata: non solo perché la teoria evoluzionistica, da Darwin in poi, ha reso evidente la
nostra parentela con le scimmie antropoidi, ma anche perché i più recenti studi di etologia mostrano in molti animali forme di intelligenza e modalità di comportamento che in passato si ritenevano esclusivamente umani. L’autocoscienza – o la consapevolezza di sé – che in passato veniva negata agli animali, ora è riconosciuta nei primati e nei delfini; ci sono pappagalli che passano le giornate a giocare in gruppo e che sono capaci di sfruttare qualunque oggetto a fini ludici con una creatività tuttora inspiegata; parecchi studi hanno dimostrato nelle scimmie un senso innato della giustizia; e, sempre nelle scimmie, è stato possibile osservare comportamenti che dimostrano altruismo e amore del prossimo. Insomma, noi umani non siamo superiori in senso assoluto: abbiamo solo sviluppato maggiormente caratteristiche e abilità che condividiamo con altre specie. E anche quell’autocoscienza della quale
andiamo orgogliosi non costituisce un limite invalicabile: come ha scritto Peter Singer (teorico della liberazione animale e professore di bioetica), feti, neonati e malati di Alzheimer in stadio avanzato hanno meno coscienza di un cane. Ci sono dunque ottime ragioni per estendere agli animali almeno uno dei princípi etici che valgono per noi umani: «Non infliggere dolore». Nel caso della sperimentazione medica e farmacologica sugli animali, ad esempio, sta prevalendo l’idea che esperimenti dolorosi siano consentiti solo se ritenuti assolutamente necessari. Ed è opportuno dire che la legislazione elvetica, in proposito, è tra le più avanzate, anche se consente la rescissione delle corna degli animali d’allevamento. Non credo comunque che questa pratica comporti molta sofferenza; probabilmente è più grande il dolore di mogli e mariti ai quali il coniuge ha «messo le corna». Ma a questo non c’è rimedio.
color porpora del Crinum asiaticum. Una bulbosa sempreverde del sud-est asiatico che può raggiungere anche i due metri di altezza. Trovo estremamente consolatoria questa serra passeggiabile piena di piante tropicali acquatiche mentre fuori la natura va in letargo. Sempre aperta, dalle nove di mattina alle cinque di pomeriggio, oltre ai tea-room e i musei, non è per niente una cattiva idea come rifugio invernale. Degno di nota il verde tonificante e divertente, leggermente striato e coperto di goccioline, della Pistia stratiotes nota anche come lattuga acquatica. Mi sorprende il fiore della Nymphaea immutabilis. Una ninfea australiana che non si trova nel bacino centrale ma nella circonferenza d’acqua intorno. Gli stami sono giallo uovo mentre il bianco dei petali, sulle punte, vira un po’ al viola. La pace è interrotta solo dalle motoseghe dei giardinieri che potano gli alberi. Alzando gli occhi a perlustrare la struttura di ferro e vetro, evidente è l’associazione tra il disegno delle decine
di rettangolini e la nervatura reticolata del genere Victoria. Non a caso la sua articolata nervatura aveva ispirato il favoloso Crystal Palace di Londra, perduto palazzo di cristallo ideato da Joseph Paxton nel 1851 dove la Victoria regia era l’indiscussa attrazione e dimorava in un giardino d’inverno quasi identico a questo. Del resto Joseph Paxton (18031865), architetto e botanico, è stato l’arteficie della prima straordinaria fioritura della Victoria nel Derbyshire costruendo la speciale serra precorritrice per Chatsworth House, il castello di proprietà dei Cavendish. Le banane Cavendish, la varietà solita di banane che trovate da sempre al supermercato, traggono il nome proprio dalle serre riscaldate dei Cavendish, duchi di Devonshire. Alla fine è comunque peccato che lo stagno circolare in cemento non sia più vocato esclusivamente alla più grande ninfea del mondo, le cui foglie possono raggiungere anche tre metri di diametro. Verso il 1900, sulle cartoline in bianco e nero della Victoriahaus, è
stata immortalata una bambina a bordo delle sue grinzose foglie. Arrivato al punto di partenza, mi chino a odorare le Spiranthes odorata visto il nome di queste orchidee dai fiorellini bianchi originarie delle paludi a sud degli Stati Uniti note anche come trecce di sirena. Pesciolini neri nuotano nell’acqua. Entra un signore di una certa età, appende il cappotto cammello e la sciarpa bordò. Mi saluta e si dirige verso la ninfea australiana. Tutti i giorni, alla stessa ora, sedendosi sul bordo del bacino sempre nello stesso punto, gli ultimi trentadue inverni della sua vita è sempre venuto qui a pranzare con un tramezzino ai gamberetti. Torna poi nel pomeriggio con una tazza di tè, abita poco lontano. «Qui i fiori di qualsiasi varietà di ninfea sbocciano solo tra le quattro e le cinque di pomeriggio» mi rivela infine. «Vivono un giorno» aggiunge. La sera la passa ancora tropicalmente: al Rio bar, dal 1977 ritrovo di molti eccentrici basilesi in Barfüsserplatz conosciuta anche solo come Barfi.
bui pomeriggi d’inverno quando al lume di candela e in compagnia di una tazza di cioccolata calda leggevo per delle ore le poesie di Rilke o di Auden. Niente cellulare. A pensarci ora mi sembra fossero tempi infiniti, eternamente dilatati ma anche sfumati con le rivoluzioni tecnologiche e gli anni passati nel frattempo. Penso allora al mitico professore di teatro Sisto Dalla Palma e alle sue lezioni sul tempo perduto e ritrovato di Proust, le sue esplorazioni della dimensione soggettiva ed esistenziale del tempo, quel tempo della coscienza dell’interiorità e della vita vissuta in un flusso continuo di momenti tra loro non distinguibili. Nelle rivoluzioni qualcosa si perde, qualcosa si conquista. Sarebbe un peccato se, sull’onda di un mondo artificiale e intelligente, perdessimo quella dimensione umana che ci contraddistingue e, penso di poter dire, ci rende felici. È sempre più facile connettersi con il mondo esterno, più arduo entrare in
connessione con noi stessi, dare un senso e un tempo al nostro vissuto che non sia scandito soltanto da quello che Bergson chiamava il tempo della scienza, oggettivo e misurabile, fatto di istanti che si susseguono identici l’uno all’altro. Voi lo sentite il vostro tempo interiore? Cercatelo ora che c’è ancora qualche giorno a Natale, l’attesa è sempre la parte più magica e fate una «manutenzione dei sensi» come dice Martino, il bimbo con la sindrome di Asperger, protagonista del romanzo di Franco Faggiani. Regalatevi dei tempi sospesi e degli scambi umani lenti e autentici in un mondo in corsa e, talvolta alla deriva, che tende a miniaturizzare e a semplificare tutto in servizievoli ed efficienti app. Forse non lo sapete ma in media abbiamo 80 app sui nostri smartphone e il mercato è così in crescita che nel 2021 rischia di diventare la terza economia mondiale. Per quanto utili, però, non ci sarà mai un’app per il nostro tempo interiore.
A due passi di Oliver Scharpf La Victoriahaus di Basilea In una serra di un castello nel Derbyshire, il pomeriggio dell’otto novembre 1849, quarantacinque minuti dopo che era stato servito il tè, per la prima volta al di fuori del suo ambiente naturale, dopo anni di innumerevoli esperimenti falliti, sboccia un fiore di Victoria regia. Una ninfea originaria dell’Amazzonia dalle foglie abnormi, battezzata così nel 1837 dal botanico inglese John Lindley in onore della Regina Vittoria salita al trono quell’anno. Nel 1896, ancora in età vittoriana, per accogliere questa ninfea, nell’orto botanico dell’università di Basilea nei pressi della Spalentor, sorge una grande serra decagonale. La Victoriahaus (277 m) dove entro a fine mattina alle soglie dell’inverno. Jardin d’hiver di vetro e ferro spennellato in verde pavone a forma di cupola alta sei metri progettata dall’architetto cantonale il cui nome di battesimo era destino: Victor Flück (1862-1941). Costruita a suo tempo dalla ditta Albert Buss & Cie, reputata per molti ponti e viadotti, questa è una replica del 1996. L’origi-
nale era così malridotta che si è dovuto purtroppo scegliere di ricostruirla, identica, pezzo per pezzo. A eccezione dei ghirighori in cima alla lanterna che sono dell’epoca, restaurati. Meglio di niente, perché pare sia l’ultima Victoriahaus rimasta in Europa. Appendo il mongomeri a uno dei ganci di metallo all’entrata. Sentirsi a casa, altrove, soprattutto in viaggio, benché di un giorno, è fondamentale. Getto subito uno sguardo nel bacino circolare – una decina di metri di diametro – senza vedere le smisurate foglie galleggianti della Victoria regia meglio nota oggi come Victoria amazonica. Bisogna accontentarsi della Victoria cruziana le cui foglie sono simili all’amazonica ma di certo meno impressionanti. Ninfea scoperta in Bolivia dal naturalista francese Alcide Dessalines d’Orbigny e chiamata così in omaggio a Andrés De Santa Cruz, presidente del Perù che ha sponsorizzato le sue spedizioni. Passeggiando nel tepore incontro però dopo pochi passi, l’esuberante fiore
La società connessa di Natascha Fioretti Il tempo interiore Cari lettori, complice l’aria prenatalizia, voglio parlarvi di un tema che mi sta a cuore e che in fondo è stato latente in tanti appuntamenti di questa rubrica. Ad esempio ogni volta che vi ho parlato della nostra mobilità, del nostro saper essere presenti e partecipi in tanti luoghi, talvolta nello stesso momento, ma anche costantemente impegnati a più livelli e su più fronti grazie alla facilità con la quale ci connettiamo, ci muoviamo e comunichiamo con il mondo. Tutto questo ha cambiato i nostri tempi di vita. La società nella quale siamo immersi è molto competitiva e, al contempo, molto incerta. Pochi sono i punti saldi rimasti mentre ci viene richiesto di essere sempre più competenti, preparati, flessibili. Reinventarci ogni giorno un po’, una bella sfida non c’è dubbio, ma quanta fatica a volte! E senza la certezza che la condizione attuale possa durare a lungo. Senza che politica e cultura aziendale si muovano alla stessa velocità, basti
pensare a che punto siamo con il congedo paternità e con le politiche di conciliabilità. Se vi interessa c’è un bel romanzo, I felici, appena uscito per
Un romanzo che è il ritratto della generazione dei quarantenni.
Keller editore, nel quale la giornalista Kristine Bilkau, classe 1974, ben ritrae la nostra generazione con le sue incertezze e i suoi fallimenti. Che alcune delle dinamiche del nostro tempo siano un bene, o un male, credo stia ad ogni esperienza umana dirlo, ognuna è diversa così come le idee, lo abbiamo visto con il filosofo Richard David Precht e il neuroscienziato americano Steven Pinker. Sta di fatto che il nostro stile di vita sta cambiando, le regole del vivere sociale, ma soprattutto, e questo è il punto, sta cambiando la percezione del nostro tempo interiore. Talvolta mi sorprendo a pensare con nostalgia ai tempi dell’università. Non avevamo fretta ed eravamo convinti che lo studio e i buoni voti ci avrebbero portati lontano. Non credo sia lo stesso per gli studenti di oggi. Hanno certamente maggiori opportunità, hanno internet, noi andavamo in biblioteca. Ma hanno anche meno certezze per il futuro e sono soggetti a molte più sollecitazioni. Ricordo i
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 dicembre 2018 • N. 50
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Ambiente e Benessere Idee turistiche geniali Dall’Hogwarts Express di Potter nell’aeroporto di Singapore ai soldati-guida nella giungla
La vigna nei terreni aridi d’Israele Come sopravvivono uomini e piante nel deserto? I Nabatei ci riuscirono per secoli grazie ai sistemi d’irrigazione della loro tradizione pagina 15
L’isola dell’eternità? L’isola greca di Ikaria rientra nelle cosiddette «5 Zone Blu» del pianeta grazie ai suoi abitanti novantenni e ultracentenari
Tra fairplay e violenza Sempre più aggressive le «passioni» di tifosi e giocatori delle squadre minori
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Andropausa: mito o realtà?
Urologia Cosa succede e quali accertamenti
sono utili quando nell’uomo i livelli di testosterone calano
Maria Grazia Buletti L’orologio batte il tempo anche per lui: a quale età l’uomo avverte i sintomi dell’andropausa e quali sono? Come affrontarne le conseguenze? E soprattutto: quanto ancora questo tema è tabù? Per chiarire il tutto, abbiamo interpellato l’urologo Fernando Jermini, primario di urologia all’Ospedale Regionale di Lugano, che ha subito sfatato il primo luogo comune che vedrebbe come patologico questo processo: «Dopo i 40 anni, è invece da considerare fisiologico un calo graduale del testosterone, che è il principale ormone sessuale prodotto dai testicoli, dal quale dipendono lo sviluppo e il mantenimento dei caratteri sessuali maschili e la produzione degli spermatozoi». Il dottor Jermini ha infatti puntualizzato che l’andropausa sta a indicare la cessazione graduale e assolutamente fisiologica dell’attività degli organi riproduttivi dell’uomo, pur senza presentare repentine alterazioni ormonali come succede invece per la donna: «Gli ormoni prodotti dall’ipofisi, la ghiandola situata all’interno del cervello, sono preposti alla produzione di testosterone e alla maturazione degli spermatozoi e diminuiscono gradatamente nel corso degli anni. Di conseguenza, decresce anche la quantità di testosterone». Ma, ci spiega lo specialista: «Per l’uomo non esiste un vero e proprio corrispettivo della menopausa: mentre attorno ai 50-55 anni di età le donne attraversano tutte la menopausa, nell’uomo questo processo non è così evidente e rapido. Succede che a partire dai 40 anni egli va incontro a un lento, progressivo e molto più discreto declino del testosterone. Quindi, a 70 anni un uomo su 4 ha valori bassi di testosterone, ma rimane asintomatico». D’altronde: «Oggi il concetto di andropausa è superato, mentre la vera e propria andropausa è una patologia clinica manifesta che colpisce solo il 5 per cento degli ultra settantenni della popolazione maschile ed è definita ipogonadismo senile». Ad ogni modo, in generale si tende comunque ad associare il lento processo fisiologico del calo di testosterone maschile alla menopausa femminile, pur riconoscendo a quest’ultima le caratteristiche più incisive e repentine. E se non si tratta proprio degli stessi meccanismi, quel che è certo è che alcuni sintomi sono comunque riconoscibili: «In modo del tutto
individuale, possiamo parlare di una variazione al ribasso dell’attività sessuale e della libido, erezione raggiunta più tardivamente, deficit erettile, insicurezza e senso di inadeguatezza, fino alla depressione e alla ripresa più lenta da malattie o eventi stressanti». Anche l’uomo può dunque manifestare una serie di sintomi e disturbi neurovegetativi, tipici pure della menopausa, che interessano tutto l’organismo: «Vampate di calore, sudorazione, arrossamenti del viso. E ancora: difficoltà di concentrazione, anemia e affaticamento». Oltre all’età, alcuni comportamenti possono accelerare il processo, concorrendo all’aggravarsi della sintomatologia stessa: «Pensiamo al fumo (per cui l’insorgenza dell’ipogonadismo può presentarsi anche più precocemente rispetto ai 50 anni), fattori rischio come ipertensione e le malattie cardiocircolatorie, ipercolesterolemia, diabete, l’eccessivo consumo di alcol, una dieta inadeguata, un malsano stile di vita e mancanza di esercizio fisico». Ciò potrebbe comportare riflessi negativi su stile di vita e sessualità: «Far finta di niente non è consigliabile e soprattutto non permetterebbe di affrontare una realtà problematica che, di fatto, non esiste. Si rischierebbe di contribuire a cronicizzarla o aggravarla, soprattutto nei casi in cui sono associate altre patologie come ad esempio il diabete». Ignorare l’eventuale problema non concerne ovviamente i pazienti che invece si recano dall’urologo: «Quando arrivano, inviati dal medico di famiglia o accompagnati dalla compagna, hanno deciso di affrontare la situazione che, una volta diagnosticata, può essere indirizzata verso possibili terapie individualizzate». La diagnosi consiste nella misurazione del testosterone presente nel sangue: «I prelievi di sangue devono essere due ed effettuati al mattino, a digiuno, tra le 8.00 e le 10.00, per cui la diagnosi sarà confermata da due valori patologici consecutivi». Il dottor Jermini rassicura sulla presa in carico che inizia da un’accurata anamnesi atta ad escludere patologie associate: «Curiamo il paziente che presenta sintomi associati ai valori patologici di testosterone misurati nel sangue. Il paziente asintomatico non necessita di terapia». Secondo l’urologo: «Un importante indizio dell’ipogonadismo è l’osteoporosi con tendenza alle fratture patologiche, la perdita del-
L’urologo Fernando Jermini, primario di urologia all’Ospedale Regionale di Lugano. (Vincenzo Cammarata)
la massa muscolare e della forza, nonché l’aumento della massa grassa e del grasso viscerale (la “pancetta”), e infine l’anemia». Lo specialista indica quindi alcuni accorgimenti utili ad ogni uomo: «Se si è sovrappeso, conviene aumentare l’attività fisica che, fra i benefici, comporta anche un aumento del testosterone: il grasso consuma testosterone, perciò calando di peso si contribuisce ad aumentarne i livelli in modo naturale». Inoltre, se un paziente è diabetico «un’adeguata terapia che permetta di controllare il diabete contribuirà a far salire il testosterone nel sangue». Infine, in alcuni casi si propone una terapia sostitutiva: «È possibile sostituire il testosterone attraverso pastiglie, iniezioni o, come prima scelta, un gel da applicare tutte le mattine sulle spalle o sull’addome (mai sui genitali)». Quest’ultimo comporta alcuni vantaggi: «La terapia con gel può essere
interrotta senza problemi; esso viene riassorbito e riesce a regolare un valore normale e stabile di testosterone nel sangue». Non bisogna però dimenticare che il testosterone è un ormone e potrebbe avere effetti collaterali non indifferenti. «Vietato il fai da te!», mette in guardia l’urologo. «La terapia con il testosterone è un toccasana solo e soltanto per chi ne ha una carenza appurata a livello diagnostico, e va assunto solo sotto monitoraggio medico permanente». Sapere che è possibile formulare una diagnosi specifica e individuale e che, sempre sotto controllo medico, esistono soluzioni personalizzate, dovrebbe incoraggiare gli uomini che presentano una disfunzione erettile a recarsi dal medico: «Non dimentichiamo che proprio la disfunzione erettile può essere campanello di allarme di una malattia vascolare e per questo, prima di intraprendere un percorso individualizzato,
bisogna appurarne le cause», conclude il dottor Jermini che conferma come il parlarne, rompendo un annoso tabù, potrebbe permettere di escludere patologie soggiacenti pre-esistenti: «Formulata la diagnosi, esistono soluzioni mediche atte a migliorare anche questo periodo della vita».
Video intervista Sul canale Youtube di «Azione» e su www.azione.ch la videointervista al Dr. Fernando Jermini.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 dicembre 2018 • N. 50
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Ambiente e Benessere
Un colpo di genio
Vagabondaggi letterari
Viaggiatori d’Occidente Storie di idee semplici ed efficaci in ambito turistico
Bussole I nviti a
letture per viaggiare
Claudio Visentin Da qualche tempo la promozione turistica è diventata una faccenda terribilmente seria: grandi progetti, diversi professionisti coinvolti, investimenti milionari. Se tuttavia non disponete di questi mezzi, non disperate e prendete esempio da queste storie di idee semplici, economiche, efficaci, indiscutibilmente geniali. Cominciamo dagli aeroporti? Il sociologo francese Marc Augé li considerava «non luoghi», spazi anonimi e indifferenti dove milioni di persone si incrociano senza entrare in una vera relazione, simili in questo ai grandi centri commerciali o alle stazioni dei treni. Nel caso degli aeroporti peraltro una certa uniformità ha anche i suoi vantaggi perché l’identica disposizione degli spazi aiuta il viaggiatore frettoloso a orientarsi facilmente, anche nei Paesi più lontani e diversi; con il risultato paradossale che solo nei «non luoghi» sappiamo subito dove siamo. Da qualche tempo tuttavia anche gli aeroporti cercano di differenziarsi tra loro, di trasformarsi da semplici luoghi di passaggio ad attrazioni turistiche in piena regola. Per esempio l’aeroporto di Singapore-Changi – oltre cinquanta milioni di passeggeri all’anno, al primo posto nella classifica dei migliori aeroporti al mondo secondo Skytrax – dal 2019 ospiterà la riproduzione di una foresta pluviale, attraversata da passerelle sospese. L’attrazione principale sarà uno spettacolare vortice d’acqua alto novanta metri e illuminato da giochi di luce. Quest’anno, intanto, propone quattro ricostruzioni in grandezza reale del mondo di Harry Potter. Al Terminal 2 per esempio si trova il famoso albero di salice incantato con incastrata l’auto dei Weasley. Diagon Alley, con i suoi negozi per maghi, è stata invece ricostruita al Terminal 3, dove i viaggiatori possono comprare (e indossare!) le uniformi di Hogwarts. E poi naturalmente è possibile scattarsi un selfie per Instagram davanti al celebre Hogwarts Express; inoltre i viaggiatori possono partecipare a diverse attività magiche e imparare a lanciare incantesimi letali (sempre utili se il vostro aereo ritarda). Naturalmente Singapore-Changi ha anche due cinema gratuiti aperti ventiquattr’ore al giorno. Invece, l’aeroporto di Helsinki ha creato al Gate 33 un delizioso cinema per due persone soltanto, Cinema in HEL, ovviamente minuscolo anche se una speciale vernice riflettente amplia la percezione
«Ora io potrei scrivere stupende bolle di sapone variopinte; autentiche bolle d’arcobaleno. Ma soltanto le donne e quanti sono rimasti bambini se ne compiacerebbero. Gli uomini invece sostengono di occuparsi esclusivamente di cose eterne. Vale a dire: commercio di calze e articoli di maglieria, incetta di piastre d’amianto friabile, brevetti per stilografiche, produzione di cartone; oppure: politica, trattati di pace per esempio, e trattati commerciali internazionali…».
Una zona verde dell’aeroporto di SingaporeChangi. (pxhere)
dello spazio. Nell’attesa del proprio volo si può ingannare il tempo con un breve film di un quarto d’ora, ma c’è un trucco… I due posti hanno interruttori nascosti: le luci si abbassano e il film comincia solo quando entrambi sono occupati. E così, se siete soli, dovrete invitare un altro viaggiatore in transito a condividere l’esperienza. Del resto non viaggiamo anche per fare nuove conoscenze? Passiamo agli alberghi. Una volta, i turisti volevano essere accolti nella loro lingua, come i tedeschi in Ticino. Da qualche tempo però molti viaggiatori vogliono imparare la lingua dei luoghi visitati, a volte anche il dialetto, per sentirsi ancora più parte della comunità: Be local! Per rispondere a questa domanda, diversi alberghi offrono corsi di lingua a pagamento. Ma perché non coinvolgere il personale? Al Belmond Maroma Resort di Playa del Carmen, Messico, gli aspiranti studenti ricevono all’arrivo un braccialetto colorato. Gli impiegati dell’albergo sanno che chi lo indossa vuole imparare la loro lingua
e si rivolgono a loro solo in spagnolo, con lezioni informali: facile, gratuito, divertente. In Colombia invece hanno trovato perfette guide turistiche là dove nessuno le cercava. Dopo una lunga guerra civile di mezzo secolo, con oltre duecentomila morti e sette milioni di profughi, alla fine del 2016 i guerriglieri delle FARC (Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia) hanno finalmente deposto le armi. Dopo tanti anni passati alla macchia, però, trovare loro un lavoro sembrava un’impresa impossibile, con il rischio concreto che riprendessero le armi. Ma poi qualcuno si è chiesto: chi meglio di loro conosce la giungla, le piante e gli animali? E così gli ex guerriglieri sono diventati perfette guide per l’ecoturismo, sempre più richiesto poiché la Colombia è seconda solo al Brasile per varietà di ecosistemi: la foresta tropicale, le paludi di mangrovie, i boschi d’alta quota. Per esempio il Dipartimento di Meta, a sud di Bogotà, era una fortezza dei ribelli dove polizia ed esercito
non osavano entrare. Ora molti turisti percorrono un’ora e mezza di strada accidentata per imparare i più nascosti segreti della foresta. Si pensa anche di costruire un hotel e un ristorante, ma chi vuole potrà sempre dormire nelle tende su letti di foglie, come un vero guerrigliero, senza acqua corrente, né elettricità. E, per finire, si è da poco conclusa l’edizione 2018 della Settimana del baratto, diventata ormai un’istituzione. Alla fine di novembre oltre ottocento Bed & Breakfast italiani hanno offerto alloggio gratuito in cambio di vari beni o servizi (per esempio lezioni di lingua, lavori di manutenzione, ecc.), rigorosamente senza scambio di denaro. Tutti i giornali ne hanno parlato: tanta pubblicità gratuita in cambio di qualche pernottamento in bassa stagione. Anche nel turismo abbiamo persone di talento, efficienti. Ma il genio va oltre: combina ispirazione, uno sguardo diverso sul mondo e, almeno in questi casi, molto più senso pratico di quanto di solito non si creda.
Questa settimana abbiamo raccontato storie legate a luoghi di transito. Li trovate dipinti nei quadri del grande pittore statunitense Edward Hopper e ora in questa raccolta di articoli di Joseph Roth: le sale d’attesa delle stazioni ferroviarie, gli scompartimenti dei treni, le stanze d’albergo, i mezzi pubblici, le strade di città sconosciute, i tavolini dei caffè, eccetera. Sono i luoghi dove Roth visse negli anni tra le due guerre, mentre scriveva i suoi capolavori. Dalla natia Galizia, all’estremità orientale dell’Impero asburgico (oggi Ucraina), si trasferì dapprima a Vienna, dove fu testimone del disfacimento di quel mondo dopo la Grande Guerra, diventandone il nostalgico cantore nelle sue opere maggiori: La marcia di Radetzky e La Cripta dei Cappuccini. Negli anni Venti, Roth visse invece a Berlino, senza mettervi veramente radici: «Vi ci sto come se fossi seduto nella sala d’attesa di una grande stazione e aspettassi il treno». Con l’ascesa dei nazisti al potere, l’ebreo Roth si rifugiò infine a Parigi dove abitò sempre in hotel e dove morì nel 1939 a causa dell’alcolismo. Nei luoghi di passaggio si possono ascoltare infinite storie e Roth ne ha raccolte alcune in questa antologia: la cruda realtà del primo dopoguerra, paesaggi visionari, scene di vita quotidiana ritratte con leggerezza e un linguaggio ricco d’inventiva. Storie fragili come bolle di sapone. Bibliografia
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Ambiente e Benessere
Acqua e vino nel deserto
Reportage Vite e viti che crescono a dispetto delle difficili condizioni naturali e non solo. Adattamento e resilienza
oggi come migliaia di anni orsono Amanda Ronzoni, testo e foto Il 60 per cento del territorio israeliano è occupato dal deserto del Negev: 13mila chilometri quadrati di sabbia, roccia e polvere. Il clima è prevalentemente arido e le precipitazioni variano dai 200-305 mm l’anno nell’area di Be’er Sheva, ai 30 mm scarsi nella regione di Elat, nell’estremo sud. Eppure, come abbiamo visto nelle immagini di cronaca recente, non sono infrequenti le alluvioni lampo, con i torrenti in secca che si riempiono di acqua e fango in pochissime ore, trascinando tutto con loro, ma lasciandosi dietro, almeno per breve tempo, un po’ di vita. La vegetazione altrimenti è scarsa, così come le specie viventi. Il Negev è così da molto, moltissimo tempo: qui è stata rinvenuta la porzione di superficie terrestre più antica del pianeta, un’area rimasta intatta per 1,8 milioni di anni, ad onta di agenti atmosferici e sconvolgimenti geologici. Ciò nonostante, l’uomo ha fatto la sua comparsa da queste parti già nell’Età della Pietra (circa 7000 anni a.C.), con insediamenti più articolati dell’Età del Rame e del Bronzo (tra il 4000 e il 1400 a.C.). Oltre agli insediamenti ebraici, la regione fu interessata dalla presenza dei Nabatei, una popolazione nomade di origine araba, che seppe nel corso dei secoli fare tesoro delle esperienze e del tecnologie di altre tribù che li precedettero, in particolare per quanto riguarda il sistema d’irrigazione cosiddetto desert rain farming (agricoltura da acqua piovana nel deserto). Di fatto i Nabatei crearono una fiorente civiltà in uno dei posti più aridi e ostili non solo del Medio Oriente, ma del mondo intero. Le ricerche in materia di clima confermano che anche all’epoca le precipitazioni erano scarse, con una stagione delle piogge tra ottobre e aprile interessata da fenomeni alluvionali. Una delle «tecnologie» che i Nabatei si trovarono a dover sviluppare per poter sopravvivere in un ambiente così difficile, fu il reperimento e la gestione dell’acqua piovana. La regione controllata da questa popolazione tra il quarto secolo a.C. e l’annessione all’impero romano nel secondo secolo d.C. è quella dei moderni Stati di Israele e Giordania. Come altre tribù arabe, anche i Nabatei in origine erano prevalentemente allevatori di cammelli e pecore. Per sopravvivere nel deserto scavavano nel terreno buche a forma di bottiglia, più larghe sul fondo e strette in superficie, livellate con lo stucco. Quando si riempivano d’acqua piovana le sigillavano e
Azione
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
le tenevano come scorta per i momenti di siccità. Queste preziose scorte venivano realizzate a intervalli regolari lungo le vie carovaniere, opportunamente nascoste, in modo da garantire ai gruppi in movimento abbastanza acqua fino alla sosta successiva. Un patrimonio di acqua e conoscenza gelosamente custodito, che ha permesso ai Nabatei non solo di sopravvivere, ma di prosperare in un luogo ad altri inaccessibile. Fu così che svilupparono dapprima il monopolio nel commercio di franchincenso, mirra e spezie dalle città dell’odierno Yemen, fino ai porti del Mediterraneo, passando per quella che divenne la capitale del regno: Petra. Nel tempo, le tecnologie nabatee per la conservazione dell’acqua si affinò con il passaggio da uno stile di vita totalmente nomade a quello stanziale successivo alla creazione di insediamenti permanenti, cambiamento che si consolidò durante il periodo della Pax romana (secondo secolo d.C.). I Nabatei
si dedicarono maggiormente ad agricoltura e pastorizia, e sfruttando le loro competenze in materia di reperimento e gestione delle acque, riuscirono a creare un sistema estensivo di produzione alimentare in grado di sostenere una popolazione di circa 20mila persone stanziate nel deserto del Negev. E fin qui abbiamo parlato di acqua. Ma lunga storia nella regione hanno anche il vino e l’attività vitivinicola. Vinaccioli di vite silvestre sono stati rinvenuti tra i resti di un accampamento di cacciatori raccoglitori del Paleolitico – datati 19’400 anni or sono – situato sulle rive sud occidentali del Lago Tiberiade, in Israele, dove gli esperti fanno risalire la domesticazione della vite durante l’età del Rame (periodo Calcolitico, IV millennio a.C.). Le citazioni che riguardano il vino nella Bibbia sono diverse e la vite appare come simbolo di abbondanza. Nella regione erano presenti vitigni antichi di cui oggi non abbiamo più traccia, in segui-
to a una concomitanza di fattori umani e naturali. Con l’arrivo del dominio ottomano ci fu un bando del vino per motivi religiosi, cui dobbiamo aggiungere carestie e il declino economico della regione, fattori che condannarono la produzione vinicola in terra di Israele. Per poter stappare nuovamente una buona bottiglia di vino israeliano dobbiamo arrivare a fine Ottocento, quando Edmond de Rothschild fece portare dalla Francia alcuni vitigni di pregio e li fece impiantare a Zichron Ya’akov, sul monte Carmelo, sud di Haifa. Oggi le regioni di produzione di vino in Israele sono cinque: Galilea (che comprende le subregioni del Golan e dell’alta Galilea), Shomron, Samson, colline della Giudea e Negev. Proprio la regione desertica esprime alcune realtà interessanti, piccole aziende a conduzione familiare, dette boutique winery, che stanno creando produzioni di qualità in condizioni cli-
matiche davvero difficili. Recuperando il sapere degli antichi Nabatei, questi pionieri hanno ripreso siti abbandonati, dove già due millenni or sono si produceva vino. I viticoltori del deserto spesso utilizzano gli antichi terrazzamenti per piantare le viti, ma anche alberi da frutto, sfruttando la porosità della roccia e del terreno locali in grado di immagazzinare e rilasciare poi gradualmente l’umidità accumulata ad esempio durante la notte. L’acqua, incamerata nel sottosuolo durante le alluvioni lampo, resta a disposizione delle piante nei mesi più secchi, garantendo loro la sopravvivenza e un carattere molto deciso ai vini locali, che ad ogni sorso ci raccontano della capacità dell’uomo e della vite di adattarsi e resistere anche nelle condizioni più difficili.
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Ambiente e Benessere
Ikaria, l’isola della longevità
Reportage Un viaggio nell’arcipelago ellenico tra storie mitiche e paesaggi da scoprire Eliana Bernasconi L’etimologia del suo nome si perde nel mito. Sulle sue ali Icaro volava imprudente verso il sole, quando l’insopportabile calore fuse la cera con cui erano state fabbricate e il suo corpo precipitò in mare davanti a un’isola. Fu qui che il padre Dedalo ne raccolse il corpo e gli diede sepoltura e fu così che l’isola prese il suo nome. Incontri Ikaria navigando l’Egeo nordorientale, nel complesso delle isole tra Mikonos e Samo, non lontano dalla Turchia. Un po’ discosta dai ben noti circuiti turistici, ancora tutta da scoprire, ha due porti raggiungibili in traghetto e da non molti anni un piccolo aeroporto a 50 minuti di volo da Atene. Questa lunga striscia di 255 km quadrati ricca di microambienti, che risulta abitata da 7000 anni, offre cristalline spiagge bianche, ampie zone boschive e corsi d’acqua. Il monte Etheras che la attraversa supera i mille metri di altezza, in un territorio non sempre agevole da percorrere. Le sue antiche Terme hanno proprietà uniche: le acque che vi sgorgano da 30 chilometri di profondità contengono il Radon, un gas incolore e insapore che origina dal Radio-Uranio, e che in piccole dosi è un elemento benefico radioattivo.
L’isola greca è una delle «5 Zone Blu» grazie a uno studio di sette anni condotto da un cardiologo locale Le teorie sull’invecchiamento oggi più che mai attuali pongono Ikaria al centro dell’attenzione. L’isola rientra nelle cosiddette «5 Zone Blu» del pianeta, cioè tra quei luoghi dove sono stati studiati gli indici di longevità fra i più elevati del mondo: quelli dove i novantenni e gli ultracentenari superano del dieci per cento la popolazione di altri luoghi. Le 5 zone sono: 1) Okinawa in Giappone; 2) Mona Linda in California; 3) Penisola di Nicoya in Costarica; 4) Ikaria in Grecia; 5) Ogliastra nel sudovest della Sardegna.
Veduta di Armenistis, sull’isola greca Ikaria. (Rosa Maria Rinkl)
La definizione di «zone blu» la dobbiamo al prof. Giovanni Pes, docente di scienze della nutrizione all’università di Sassari e al demografo belga Michel Poulin, quando – iniziando le loro ricerche sulla longevità nel 1999 dapprima in Sardegna per poi estenderle altrove – i due studiosi evidenziarono i risultati raggiunti appunto con il pennarello blu. (Pubblicando poi Longevità e identità in Sardegna, identificazione della zona blu in Ogliastra, Franco Angeli ed., 2014 ). In queste zone la probabilità che gli uomini raggiungano i 100 anni è praticamente pari a quella delle donne: il «gender gap», cioè il cosiddetto divario di genere in favore delle donne, che nel resto del mondo vivono 5-6 anni di più, si attenua fino a scomparire. Concorrono a tali fortunate condizioni evidentemente, oltre alla genetica, un 25 per cento di molteplici fattori. Ikaria rientra in queste zone grazie a uno studio portato avanti per sette anni dal cardiologo dell’Università di
Atene prof. Christodoulos Stefanadis, cardiologo di fama internazionale originario di Ikaria, che ogni anno riporta le sue conclusioni in convegni medici internazionali. Ne parliamo con il dottor Stavros Rantas, innamorato dell’isola dove è nato, che da anni unisce il suo lavoro di medico in Ticino a soggiorni estivi nell’isola dove porta gruppi di conoscenti e amici. «L’isola intera – ci spiega – è una vera “Slowisland”, vale a dire un luogo dove si respira una cultura fatta di ritmi lenti e di assenza di stress, dove il tempo ha un’altra misura e dieta mediterranea, alimentazione equilibrata e senza eccessi, movimento, divertimento, inclusione sociale, solidarietà sono stili di vita». Nel 2002 Rantas vi ha fondato lo Slowfood locale e nel 2004 ha fondato a Lugano il Club Ikaria, natura e cultura dove molti amici si incontrano nel segno della musica, del ballo, dell’arte e dei viaggi, delle azioni di solidarietà per Ikaria e altri posti bisognosi in Grecia.
Ogni anno, in Ticino, al Parco Maraini a Lugano Massagno viene organizzato un simposio greco-svizzero di medicina e quest’anno – giunto alla sesta edizione – si è presentata e ha tenuto il suo primo convegno medico scientifico culturale la neo costituita Associazione di «Longevità e benessere» composta da medici specialisti, professionisti della salute, amici e simpatizzanti, centrata sulla prevenzione primaria e sull’individuazione delle diverse strade interdipendenti che aiutano il nostro benessere e di conseguenza la qualità della vita. Nel 1947 sull’isola di Ikaria, dopo la guerra civile, molti oppositori di sinistra furono mandati in esilio, e molti vi rimasero contribuendo allo spirito indipendente degli isolani. «A Ikaria – ci informa il dottor Rantas – si produce ancora oggi il vino Pramnios, il cui vitigno era conosciuto fin dai tempi omerici (850 anni prima di Cristo): ne esiste una varietà rosso (Fokianò) e un bianco (Begleri). È un vino particolare che fer-
menta anche con alte gradazioni (16-18 gradi)». Questo vino è prodotto da una ricetta antica e veniva conservato dagli abitanti dell’isola in anfore sotterrate; si dice sia stato Dioniso stesso a portare questo nettare in Ikaria. Omero narra come la maga Circe preparasse il suo elisir per trattenere Ulisse e i suoi amici trasformati in porci con senno umano mischiando formaggio di capra fresco, menta, miele, farina d’orzo e appunto il vino Pramnios, non tanto rosso o dolce ma severo. Continua e conclude sempre Rantas: «Patroclos, per pulire le ferite di Macaone figlio di Esculapio, durante la guerra di Troia si serviva di questo vino: si dice anche che lo bevessero i soldati durante le battaglie». Durante le molte feste che provengono dal paganesimo, ancora oggi a Ikaria si mangia il capretto selvatico e si balla il famoso «Kariotikos» tutti in cerchio, a voler significare interdipendenza, solidarietà, perdita, rinascita. Annuncio pubblicitario
Fare la cosa giusta
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Modeste Traoré (54 anni), pescatore in Mali, lotta contro il cambiamento climatico
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 dicembre 2018 • N. 50
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Ambiente e Benessere
Amaretti alle ciliegie
Migusto La ricetta della settimana
Dessert
migusto.migros.ch/it/ricette Per diventare membro di Migusto non ci sono tasse d’iscrizione. Chiunque può farne parte, a condizione che un membro della sua famiglia possieda una Carta Cumulus.
Ingredienti per circa 50 pezzi: 3 albumi · 320 g di mandorle spellate macinate · 250 g di zucchero · 1 presa di sale · 1 bottiglietta d’aroma di mandorle amare · 100 g di zucchero a velo · circa 50 ciliegie da cocktail con picciolo o ciliegie candite, nei negozi di specialità.
1. Lavorate gli albumi con le mandorle, lo zucchero, il sale e l’aroma di mandorle amare, usando uno sbattitore elettrico con i ganci per impastare. Coprite l’impasto e lasciatelo riposare per circa 30 minuti. 2. Scaldate il forno a 200 °C. Con l’impasto; formate circa 50 palline; dovrebbero essere un po’ più grandi delle ciliegie da cocktail. Passate le palline nello zucchero a velo in modo che siano ben ricoperte. Accomodatele sulle teglie foderate con carta da forno, lasciando un po’ di spazio tra una pallina e l’altra. 3. Con il manico di un mestolo di legno realizzate una cavità al centro dei biscotti e disponetevi una ciliegia da cocktail. 4. Cuocete una teglia dopo l’altra al centro del forno per circa 15 minuti. Sfornate e lasciate raffreddare gli amaretti sulla carta da forno togliendoli dalla teglia. Preparazione: circa 35 minuti + riposo di circa 30 minuti + cottura per teglia
di circa 15 minuti..
Per persona: circa 2 g di proteine, 4 g di grassi, 10 g di carboidrati, 80 kcal/350 kJ.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 dicembre 2018 • N. 50
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Ambiente e Benessere
È poi solo un gioco Sport Sarà vero? Ma allora perché prendersi a botte per una semplice partita di calcio o di hockey? Giancarlo Dionisio
delle responsabilità. Mi preme tuttavia sottolineare il fatto che, in simili situazioni, basta pochissimo che ci scappi il morto. Perché, per chi, per la difesa di quali valori? Sarebbe uno pseudo gesto eroico in nome di una squadretta di calcio, e non un atto di coraggio in difesa della propria terra, del proprio paese, dei propri simili. No, saremmo confrontati con una morte stupida, inutile, insensata. Qualcuno potrebbe pensare: sono storie fra adulti, che si arrangino. Succede fuori da bar, discoteche e night club per uno sguardo che si posa dove non è gradito, o anche senza alcun motivo. Accade sulle strade per un banalissimo dito medio alzato o per un’involontaria manovra ritenuta azzardata. Il fatto che da sempre ci si prenda a botte senza motivi validi e seri (ammesso che ce ne siano), non è una ragione per abbassare la guardia, soprattutto se, a farne le spese, sono bambini e ragazzini. Poco tempo fa un gruppo di adulti ha aggredito verbalmente un giovanissimo arbitro quattordicenne. Gli autori hanno avuto per lo meno la sensibilità di tenere le mani in tasca. Tuttavia, lo si sa, la violenza verbale può avere sull’animo umano degli effetti ancora più deflagranti. E così, pare, è stato per il ragazzino in questione, che per diverse notti si è portato dentro lo smarrimento e la paura. Non credo sia semplice ricondurre il fenomeno sport a valori puramente ludici. Tuttavia, cominciando almeno dagli ambiti in cui in palio ci sono una pacca sulla spalla e una pizza a fine partita, sarebbe un sogno realizzabile smorzare gli ardenti spiriti e divertirsi anche in caso di sconfitta?
«Daniele ammazzalo!». È l’esortazione di un padre a suo figlio. In pista si affrontano a skater hockey due squadre di ragazzini di 10-12 anni. Due altri padri intervengono per ricondurre il tizio a comportamenti più civili. Lo fanno con ferma delicatezza e la questione, fortunatamente, finisce lì. Spesso la violenza dentro e fuori gli stadi scaturisce dall’incoscienza di un singolo. Se attorno a questo individuo, invece di pompieri, ci sono degli incendiari, la bomba è innescata. Che ci siano lottatori nell’arena e pubblico urlante sugli spalti non è storia solo di oggi. «Morituri te salutant» era il grido che lanciavano a Cesare i gladiatori votati alla morte. E il popolo del Colosseo andava in visibilio. Da sempre gli stadi sono bolge infernali. Si freme, si soffre, si lotta, a volte ci si azzuffa e ci si azzanna. Pure sulle tribune si freme, si soffre, si lotta, a volte ci si azzanna e ci si azzuffa. Difficile dire se oggi lo sport sia un fenomeno vissuto e consumato più serenamente rispetto a 20 o 30 anni or sono. Posso affermare che molto è stato fatto, negli ultimi decenni, contro l’hooliganismo, soprattutto nei paesi in cui, come l’Inghilterra, era un’autentica piaga. Per contro non ho dubbi nell’affermare che 70-80 anni or sono il rapporto atleti-pubblico-arbitri era più corretto e rispettoso. Non c’erano i tornelli alle entrate degli stadi. Nessun controllo. Nessuna perquisizione. La separazione dei sostenitori di due squadre in settori lontani fra di loro era inimmaginabile. La spesa alla voce «sicurezza» era di scar-
sissima entità. Nella cinematografia e nella narrativa, così come nell’immagi11 pegnario collettivo, l’arbitro era, nella giore delle ipotesi, un «cornuto». Il concetto non è caduto in disuso, tuttavia 13 14 15 16 da un po’ di tempo il direttore di gara è spesso definito con espressioni un po’ più 18dure, come: «arbitro tua moglie (o19 le varianti madre, sorella, ecc) sta sc....., pardon, sta facendo sesso con un’intera 20 21 squadra di rugby». Del resto gli sfottò tra opposte tifoserie sono spesso 23oggetto 24 di querela. E gli striscioni, soprattutto se di matrice razzista o sessista, possono comportare 27 multe salate per le società che li tollerano. Il litigiosissimo mondo sportivo del
Giochi
5 8 Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba (N. 47 - ... abiterai sempre nello2 stesso luogo) e una delle carte regalo da 50 franchi con il sudoku
Cruciverba Puoi anche andare dall’altra parte del mondo ma se non esci da certe stanze della tua mente… Trova il resto della frase, leggendo a cruciverba ultimato, le lettere evidenziate. (Frase: 8, 6, 5, 6, 5)
Giochi per “Azione” - Dicembre 2018 Stefania Sargentini SUDOKU PER (N. 46 - Dicembre nevoso anno fruttuoso) 2
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D I Schema C E R I E E D E M A B 3 5 6 8 prezzo!?) da strutture solide e da forze E S N 6E R dell’ordine private e pubbliche. R Ciò che4 5 preoccupa sono la maleducazione e la violenza dilaganti sui cosiddettiM 1campiA 7V 3 I T 4 E 5 minori, dove è impensabile organizzare un servizio d’ordine adeguato, e dove Pgiocatori, R arbitro, O pubblico, S 7Asono9 P 6O 8E T 5 A tutti, alla mercè di tutti. di 5aF 2 IPocheNsettimane N fa l’incontro O A R 7R O 9 1 lega tra il Codeborgo ed il Makedonija è finito in rissa, con un giocatore della U bellinzonese A E circondatoN 7T 8e pic-O T A 1 I squadra chiato da numerosi rappresentanti del fronte 5U E 1 M avversario.RCosì, 9Iper loOmeno, 7E 3C narravano le cronache. è ancora in corso, 4 5E 2S 3S O AL’inchiesta E Ddi attribuire Equin-1O di lungi daM me l’intenzione Pxhere.com
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N. 45 FACILE
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Ticino non è una terra vergine. Anche da noi ci si porta appresso il fardello di episodi12 vergognosi, come la feroce aggressione all’arbitro Luigi Grassi, a opera di giocatori, dirigenti e sosteni17 tori del FC Mezzovico, il 7 maggio del 1969. Fu massacrato di botte solo per alcune presunte valutazioni errate durante una partita di Coppa svizzera. Un episodio isolato, certamente, 22 tuttavia negli ultimi tempi, chi dirige il calcio e chi difende gli interessi della lanciato acco25 classe arbitrale, ha 26 rati segnali di allarme. Non tanto per quanto sia accaduto, o potrebbe acca28 dere, ai fischietti più prestigiosi, che sono adeguatamente protetti (a quale
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Sudoku
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N. 46 MEDIO
A B I L I T A Scoprire 3 9S 2 6 C iE R E7 O numeri corretti da inserire nelle A colorate. L T I 4 A S caselle 9 1 C E E E M I 9 8 2 15 I N P R E S E N T 1 3 7 8 A L E O N I E 5 R O S S 4O T E 6 S7 8 S O L C O C A M8 U DICEMBRE 2018 L5 O M ASUDOKU I PER AZIONE T 3- E G O Giochi per “Azione” - Dicembre 2018 Soluzione:
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Stefania Sargentini
18. Un’etichetta su Facebook
N. 45 FACILE Soluzione della settimana precedente
20. Sono senza cuore 21. Le separa la «d» 1 2 3
ANNO FRUTTUOSO.
ORIZZONTALI 1. Capacità, idoneità 7. Pallido, bianco 8. Hanno superato la statura 9. Le iniziali di Schwarzenegger 10. Si è trasformata in UE 11. Il prefisso che dimezza 12. Preposizione 13. C’è... 16. Simboli di forza 17. Un colore 18. Avvalora l’ipotesi 20. Lo lascia l’aratro 21. Scrisse Lo straniero 22. A questo punto...in poesia 23. Si usa per la copertura dei tetti
VERTICALI 1. Pianta arborea 2. La Rodriguez della TV 3. Ispide, fitte 4. Pronome personale 5. Giove la mutò in giovenca 6. La città di San Francesco 9. Gaio, festoso 11. Consumato 13. Segno zodiacale 14. Sigla Nasa per lo studio della vita umana sottomarina 15. Canta Ogni istante 16. Nome femminile 17. Gitani
Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch
I premi, cinque carte regalo Migros (N.Partecipazione online:nello inserire la luogo) luzione, corredata da nome, cognome, 47 - ... abiterai sempre stesso 46 MEDIO del valore di 50 franchi, saranno sor- soluzione del cruciverba o del sudoku N. indirizzo, email del partecipante deve 2 3 4 5 formulario 6 teggiati tra i partecipanti che avranno 1 nell’apposito pubblicato essere spedita a «Redazione Azione, A 6B I 9C.P. L 2 6315, I T 6901 A Lugano». 7 fatto pervenire la soluzione corretta 7 sulla pagina del sito. Concorsi, C 4Esi intratterrà R E O corrispondenza S 5 entro il venerdì seguente la pubblica- Partecipazione postale: la lettera o Non sui 8 9 zione del gioco. la cartolina postale che riporti la so- concorsi. Le vie legali sono escluse. Non A L T I A S
19.46 Preposizione IL PROVERBIO NASCOSTO – Proverbio risultante: DICEMBRE NEVOSO (N. - Dicembrearticolata nevoso anno fruttuoso) Schema Soluzione 4
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I vincitoriGIOCHI 8
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Vincitori del concorso Sudoku 23 24 25 su «Azione 48», del 26.11.2018 R. Schaer, D. Ghielmini28
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D 6 I C E 8R 4 E 5D 6E M A 1 7R 3E S 4 5N 7 9 6M 8A 5V I 1P R O 2S A 7 P O 9E 1F A 7R R I 8N N O 9U A E 7 3N O 5T A 1 I M 4 1R I 5O 2 3E C 5A M E D E O 8E S 3
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è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Il nome dei vincitori sarà 7 6su «Azione». 5 9 2 Partecipazione 3 4 1 8 pubblicato riservata esclusivamente 2 4 8 7 6 1a lettori 3 9 che 5 risiedono in Svizzera. 3
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 dicembre 2018 • N. 50
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Politica e Economia Putin in cerca di consensi La crisi fra Ucraina e Russia si arricchisce di un nuovo fronte non solo politico. Sgradito anche agli americani pagina 22
Sorpresa in Andalusia Dopo 40 anni la grande regione autonoma spagnola non è più socialista. Vince Vox, il partito di estrema destra di Santiago Abascal
Un vescovo fra gli arabi A colloquio con monsignor Paul Hinder, Vicario apostolico dell’Arabia meridionale
Polarizzazione in crescita Intervista al politologo Adrian Vatter sull’evoluzione della politica nazionale svizzera
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Vertice BushGorbaciov il 3 dicembre 1989: l’incontro ha segnato la fine della Guerra fredda. (AFP)
L’ordine mondiale secondo Bush sr. 41.mo presidente Usa Ha vissuto da leader la dissoluzione dell’Urss, di cui voleva il suo assoggettamento
ma non la distruzione, la fine della Guerra fredda, la riunificazione della Germania e le guerre nell’ex Jugoslavia Lucio Caracciolo George Herbert Walker Bush è passato alla storia come il presidente che ha guidato gli Stati Uniti nella battaglia finale della Guerra fredda, conclusa vittoriosamente con la disintegrazione dell’Unione Sovietica. Sigillo finale di un conflitto miracolosamente tenuto sotto la soglia dello scontro diretto, che avrebbe inevitabilmente coinvolto i rispettivi apparati nucleari, provocando danni forse irreparabili al nostro pianeta. Un trionfo, dunque? Apparentemente sì. Di fatto, e nelle intenzioni di Bush padre, non proprio. L’obiettivo strategico degli Usa negli anni di Bush, tra fine anni Ottanta e inizio dei Novanta, non era infatti la distruzione dell’Urss, ma il suo assoggettamento all’impero americano. Il presidente temeva, anche se non lo diceva apertamente, che il collasso del Nemico sarebbe stato pericoloso, comunque difficilmente gestibile. Un
colosso dotato di una panoplia nucleare e di un’abbondanza di risorse naturali assolutamente invidiabili non poteva scomparire dalla faccia della Terra come se non fosse mai esistito. Chi avrebbe assicurato, ad esempio, il controllo delle bombe atomiche sovietiche? Chi avrebbe evitato che gli scienziati sovietici finissero, magari per denaro, a vendere la propria arte a qualche organizzazione terroristica o a un altro Stato nemico? Come si poteva evitare che i pezzi del puzzle sovietico, ciascuno dei quali aveva un rango e una funzione nell’insieme in decomposizione, non diventassero oggetto di sanguinose, incontrollabili dispute, magari combattute anche all’arma atomica? Questi ed altri interrogativi angosciosi temperavano la soddisfazione di Bush nel vedere affondare – meglio: autoaffondare – la flotta nemica. Il presidente, sostenuto dal suo entourage di consiglieri geopolitici, tra i quali spiccava Brent Scowcroft, inclinava al re-
alismo. Scuola minoritaria negli Stati Uniti, da sempre segnati dalla vocazione idealistica, che molti scambiano per cinica mascherata, mentre esprime un aspetto centrale dell’identità a stelle e strisce. Bush aveva affinato il suo realismo durante la direzione della Central Intelligence Agency (Cia), il lavoro che probabilmente l’aveva più appassionato nella sua carriera politica. Il bemolle con cui Bush gestì il precipitoso crollo dell’Unione Sovietica non faceva che riprendere la lezione datata anni Cinquanta di un altro grande presidente repubblicano, il generale Dwight Eisenhower. Consegnata al cosiddetto Solarium Exercise, seminario strategico dal quale l’ex comandante delle forze alleate in Europa durante la Seconda guerra mondiale aveva tratto la convinzione che un attacco diretto all’Urss avrebbe probabilmente portato alla vittoria, ma posto Washington di fronte a un dilemma poco appetibile: «E adesso, che ne facciamo?». La
prospettiva di gestire quegli immensi spazi non appariva attraente né sotto il profilo economico né sotto quello geopolitico. Bush temeva che il collasso dell’Urss avrebbe reso effettivo il drammatico interrogativo di Eisenhower. Per questo fino all’ultimo sperò che Gorbaciov potesse portare a termine il suo progetto, peraltro assai vago, di riforma del sistema sovietico, che lo avrebbe reso inoffensivo ad occhi americani. Anzi, avrebbe permesso la graduale integrazione dell’Urss, democratizzata e aperta al mercato mondiale, nel sistema a stelle e strisce. Questo, non altro, era il Nuovo Ordine Mondiale di Bush. Su questa base s’intende per esempio perché il presidente si recasse a Kiev, nell’estate del 1991 (a cinque mesi dall’ammainabandiera del vessillo rosso al Cremlino), per ammonire gli ucraini contro le loro ambizioni indipendentiste. Bush non voleva che alla
glaciazione geopolitica dell’impero sovietico subentrasse una competizione fra neonazionalismi revanscisti. Meglio un’Urss debole e fondamentalmente asservita alla superpotenza che tanti più o meno grandi spicchi di quell’universo, affidati a più o meno piccoli quanto ambiziosi capetti ipernazionalisti, in competizione per dividersene le spoglie. Inoltre, Bush temeva che la frammentazione dell’Est potesse spingere i tedeschi, che il 3 ottobre 1990 si erano riunificati anche grazie agli Usa, a ripercorrere antichi sentieri orientali, abbandonati in seguito al trauma del 1945 e alla conseguente occupazione interalleata. Fu poi Gorbaciov a sciogliere il nodo, mettendo gli Usa e il mondo davanti all’inedito suicidio di una superpotenza. Oggi, osservando la guerra in Ucraina e le turbolenze nello spazio intermedio fra Germania e Russia, possiamo stabilire che Bush avesse ragione. Riposi in pace.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 dicembre 2018 • N. 50
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Politica e Economia
Mosca-Kiev, alta tensione
Diplomazia Lo scontro nello stretto di Kerch dimostra in realtà la debolezza di Putin che ha bisogno
di questo nuovo «incidente» per recuperare consensi interni. E la reazione di Donald Trump mette il presidente russo ancora di più nell’angolo
Anna Zafesova «Il prezzo aumenterà»: il messaggio che arriva da un alto responsabile del dipartimento di Stato segnala una nuova fase della crisi diplomatica in cui è venuta a trovarsi la Russia dopo lo scontro con la marina ucraina nello stretto di Kerch. Al vertice del G20 in Argentina Vladimir Putin ha condiviso con il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman – con il quale si sono scambiati un clamoroso saluto con il «batti il cinque», già diventato virale nei social media – la posizione del leader più evitato dai colleghi, dopo che Donald Trump ha cancellato all’ultimo momento l’incontro che doveva tenere con il presidente russo in ritorsione per l’incidente di Kerch. Uno smacco diplomatico cui il Cremlino ha cercato di reagire con indifferenza – il portavoce del presidente ha detto che «avrà due ore libere da impiegare più utilmente» al summit, e le agenzie governative hanno addirittura battuto commenti con titoli come «Trump si nasconde perché ha paura di Putin» – ma che è risultato comunque sensibile, in attesa di nuove misure contro la Russia promesse da Wasghinton e da Bruxelles. Quello che è già entrato nel linguaggio della diplomazia internazionale come «l’incidente di Kerch» è avvenuto nello stretto tra la Crimea e il
territorio russo, un passaggio di pochi chilometri che collega il Mar Nero con il Mare di Azov, un mare interno condiviso da Russia e Ucraina, sulle coste del quale si trovano importanti porti commerciali ucraini come Mariupol e Berdiansk. Dal 2003 un accordo bilaterale regola il passaggio delle navi dei due Paesi, ma dopo l’annessione della Crimea nel 2014 i russi hanno costruito sopra lo stretto un ponte che ha permesso di collegare la penisola sottratta all’Ucraina con la Russia, limitando il transito delle navi ucraine. La precaria situazione di un territorio che Mosca considera suo nonostante l’annessione sia considerata illegale dalla comunità internazionale, si risolveva di volta in volta concordando gli ingressi e l’uscita dei vascelli ucraini, fino a che, il 25 novembre scorso, la Russia non ha bloccato con massiccio spiegamento di navi, aerei e elicotteri, due vedette e un rimorchiatore della marina militare di Kiev, accusandoli di aver «sconfinato» in acque territoriali russe. Nei video apparsi subito in Rete si vedono i marinai russi aprire il fuoco contro il ponte della vedetta «Berdyansk» e speronare il rimorchiatore. Lo stretto di Kerch è stato bloccato da una chiatta russa, e mentre le navi ucraine cercavano di riparare verso Odessa, sono state inseguite e bloccate dalla marina russa al largo della Crimea, in acque internazionali.
Un addetto della Guardia costiera nel porto di Mariupol, mare di Azov, Ucraina. (Keystone)
I vascelli sono stati sequestrati, e i 24 marinai ucraini – di cui 6 rimasti feriti nell’incidente – arrestati, portati a Mosca e incriminati per «sconfinamento illegale».
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Il sale delle Alpi svizzere.
Kiev e Mosca si sono scambiati accuse di provocazione premeditata, e di inadempienze tecniche alla procedura di passaggio dello stretto. Secondo i russi, il presidente ucraino Petro Poroshenko ha cercato lo scontro per compattare la nazione e reprimere l’opposizione in vista delle elezioni presidenziali di marzo, secondo molti osservatori ucraini e occidentali la Russia ha voluto alzare il livello dello scontro con i vicini per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dai disagi economico-sociali, e riprodurre la magia ormai estinta dell’84% del sostegno a Putin dopo l’annessione della Crimea. Non è escluso che l’incidente sia stato più banalmente un eccesso di zelo di qualche comandante russo in loco, ma se si è trattato di un piano più complesso, non ha funzionato molto per nessuna delle due parti. Poroshenko, da tempo incalzato da fazioni più radicali, ha visto il suo rating scendere ulteriormente, e quello della sua principale rivale Yulia Timoshenko salire. È stato contestato dal parlamento, al quale si è presentato per chiedere l’introduzione della legge marziale nelle regioni confinanti con la Russia o con sbocco sul mare, riducendo la durata della misura da 60 a 30 giorni per non incidere sulla campagna elettorale. Per la Russia la mini-battaglia navale nello stretto di Kerch ha avuto un prezzo altrettanto alto. Nonostante la macchina propagandistica fosse partita a pieno regime, la reazione dell’opinione pubblica è stata molto pacata, anche perché il filmato dello speronamento di un rimorchiatore ucraino accompagnato dal turpiloquio dei militari russi (e dalla collisione, nel corso delle manovre, anche con un’altra nave russa) non aveva i contorni eroici di uno scontro con l’invasore. Vladimir Putin ha difeso i suoi marinai, sostenendo che «se non avessero agito come hanno agito sarebbero stati da processare in tribunale militare». Il sequestro delle navi e degli equipaggi ucraini però ha impedito di archiviare lo scontro come un incidente di percorso: le autorità russe si rifiutano di considerare i 24 marinai ucraini come prigionieri di guerra e li vogliono processare come criminali comuni, nonostante i governi occidentali ne avessero chiesto l’immediato rilascio. L’ambasciatore russo ha lasciato la seduta del Consiglio di Sicurezza dell’Onu convocata sull’incidente, dopo non essere riuscito a imporre la li-
nea della «violazione dei confini russi», e la comunità internazionale ha ricordato in più sedi alla Russia di continuare a considerare la Crimea un territorio occupato illegalmente. Poroshenko ha chiamato l’Occidente a «passare all’azione», varando un nuovo pacchetto di sanzioni contro Mosca, e il presidente turco Recep Tayyip Erdogan – sensibile alle sorti dei correligionari tartari della Crimea, ai ferri corti con i russi – ha minacciato di chiudere alle navi militari russe l’accesso al Bosforo e quindi al Mediterraneo. Ma la levata di scudi più imponente è venuta dagli Stati Uniti, con Donald Trump che ha negato a Putin l’appuntamento al G20. I media russi hanno trascorso 24 ore a inseguire ogni gesto dei due presidenti, fino a che Putin non è riuscito a incrociare Trump, «solo in piedi», si è giustificato, per esporgli la sua visione del problema di Kerch: «Ma lui è rimasto sulle sue posizioni», ha aggiunto. La tattica del capo della Casa Bianca sembra essere risultata molto sensibile per il Cremlino, che negli ultimi anni si era abituato, al contrario, ad alzare i toni proprio per ottenere l’attenzione internazionale, interpretata nella retorica della propaganda come un incremento del peso russo sulla scena mondiale. I sondaggi continuano a registrare un calo dei consensi sia a Putin che al suo governo e al suo partito Russia Unita, con quattro elezioni locali perse in tre mesi, mentre il numero dei russi disposti a scendere in piazza per proteste di carattere sia economico che politico negli ultimi sei mesi è triplicato, a causa soprattutto dell’aumento dell’età della pensione e dei tagli alla spesa sociale. Un incontro al vertice con Trump, anche senza un accordo, nella visione del Cremlino sarebbe vitale, ma Washington pare aver scelto la linea dura. Dopo il G20, gli Usa hanno inviato alla Russia due messaggi in rapida successione. Il primo è stata la promessa di «un prezzo da pagare» fino a che non libererà i 24 marinai ucraini catturati a Kerch. Il secondo è arrivato dal segretario di Stato Mike Pompeo, che ha annunciato il conto alla rovescia per la sospensione, da parte degli Usa, del trattato sul bando dei missili a corto e medio raggio: alla Russia vengono concessi 60 giorni per dimostrare di non violarlo, altrimenti la Casa Bianca si considererà libera dall’impegno sul disarmo preso più di 30 anni fa da Ronald Reagan e Mikhail Gorbaciov.
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Politica e Economia
Estrema destra nella roccaforte rossa
Andalusia Il partito xenofobo Vox entra con forza nel Parlamento regionale mettendo a soqquadro
l’intero scenario politico spagnolo
Gabriele Lurati Fine dell’eccezione spagnola. In un’Europa dove i movimenti antieuropeisti e sovranisti vanno per la maggiore, solo il Paese iberico era rimasto immune da questa ondata xenofoba. Le elezioni andaluse di settimana scorsa hanno però provocato l’effetto di un terremoto politico dopo l’irruzione del partito di estrema destra Vox nel Parlamento regionale di Siviglia. Questo partito anti-immigrazione e anti-catalano era assolutamente irrilevante fino a pochi mesi fa. Dal nulla però ha conquistato l’11% dei voti e 12 deputati in una contesa elettorale contrassegnata dalla disfatta del Partito socialista nella regione più «rossa» di Spagna. Il Psoe è risultato ancora primo con il 28% dei voti (ma si trova ora al suo minimo storico) davanti ai conservatori del Partito popolare (con il 21% ma anch’essi in caduta libera), ai liberali di Ciudadanos (18% e in grande ascesa) e alla sinistra radicale di Adelante Andalucía (la versione andalusa di Podemos) con il 16%. L’entrata di Vox nelle istituzioni consentirà quindi con tutta probabilità la formazione di un governo regionale inedito, che coalizzerà le tre nuove componenti della destra spagnola: Pp, Ciudadanos e Vox. Se lo sbarco in Parlamento di Vox era in parte previsto, le dimensioni del suo clamoroso successo hanno sorpreso tutti gli analisti e avrà delle conseguenze anche sulla politica nazionale. Le elezioni in Andalusia rappresentavano infatti il primo test elettorale per il governo socialista di Pedro Sánchez, in carica dal giugno scorso. Prova fallita per il premier e soprattutto per Susana Díaz, presidente uscente dell’Andalusia, ritenuta la massima responsabile della fine dell’egemonia del Psoe che governava la regione da 36 anni ininterrottamente. Sánchez si troverà ora sotto attacco da parte delle tre destre che spingeranno per la convocazione immediata di nuove elezioni generali. Agli occhi di Pp, Ciudadanos e Vox, il governo Sánchez è visto infatti come un usurpatore del potere (per essere arrivato alla Moncloa attraverso la mozione di sfiducia contro il governo del conservatore Rajoy) e considerato troppo blando con gli indipendentisti catalani. Il leader di Vox, Santiago Abascal, accusa Sánchez addirittura di aver effettuato un «colpo di Stato», esorta il popolo alla rivolta contro i secessionisti catalani (considerati anch’essi «golpisti») e contro il «comunismo chavista» (riferendosi a Podemos). Le parole di Abascal richiamano un clima da guerra civile ma non devono sorprendere. L’anticatalanismo è infatti al primo posto dei dieci punti del programma elettorale
Santiago Abascal (a destra) leader del partito di estrema destra Vox e Francisco Serrano leader in Andalusia di Vox il 3 dicembre scorso a una conferenza stampa. (AFP)
di Vox che ripete in maniera ossessiva il concetto di unità della Spagna, chiede la sospensione dell’autonomia della Catalogna e invoca sanzioni esemplari contro i dirigenti indipendentisti catalani.
Alla chiusura tipica verso lo straniero si è aggiunta una xenofobia di tipo interno: l’anti-catalanismo Il segreto del successo di Vox è stato quello di essere riuscito a cavalcare il sentimento di odio verso lo straniero (nella provincia di Almeria, dove la presenza di popolazione immigrante è particolarmente alta, il partito ha raggiunto fino al 30% dei consensi) assieme alla rabbia contro i catalani secessionisti. Questo rancore, nato con la crisi istituzionale dell’autunno 2017, è presente nella società andalusa e largamente diffuso anche nel resto della Spagna (si pensi che ben 9000 persone hanno assistito a un meeting di Vox il mese scorso a Madrid). Questi sentimenti si sono nutriti anche di discorsi retorici sull’idea identitaria di patria e
di orgoglio nazionale che si rifanno al mito dell’impero spagnolo dei tempi della Reconquista e della cacciata dei musulmani dall’Andalusia del 1492. Vox usa i proclami tipici dei movimenti populisti di destra europei quali i discorsi anti-immigrazione (ad esempio propone di costruire un nuovo muro invalicabile nelle enclavi spagnole di Ceuta e Melilla per frenare l’arrivo dei migranti), vuole la preferenza per gli autoctoni («Prima gli spagnoli» è uno dei suoi slogan) e fa una declinazione tutta iberica della xenofobia. Alla chiusura tipica verso l’esterno nei confronti dello straniero immigrante (lo stretto di Gibilterra è diventata la nuova porta d’entrata dell’immigrazione all’Europa con 55’000 nuovi migranti entrati solo quest’anno) si è aggiunta una xenofobia di tipo interno: l’anticatalanismo. Questo sentimento diffuso di «catalonofobia» è comune anche al Partito popolare e Ciudadanos, che hanno convertito la gestione della questione catalana in un tema di fondamentale importanza anche durante la campagna elettorale andalusa. Per molti analisti il fenomeno Vox è quindi «figlio» della crisi catalana e il partito di Abascal non è altro che il frutto della nascita di un nuovo schie-
ramento formato dall’ala più reazionaria del Partito popolare. In effetti Vox può essere considerata come una costola del Pp per somiglianza delle rivendicazioni politiche, per la provenienza della sua base elettorale (prevalentemente del Pp), nonché per la biografia politica del suo leader Santiago Abascal. Questo politico di 42 anni si è fatto le ossa nella gioventù del Partito popolare, è stato parlamentare del Pp nel Parlamento basco e ha avuto incarichi dirigenziali nel partito fino al 2013, quando decise di lasciarlo per fondare Vox assieme ad altri politici di estrema destra. Di famiglia franchista, Abascal è la perfetta incarnazione «machista» del progetto Vox che fa della lotta al femminismo e della modifica della legge sulla violenza di genere uno dei punti chiave. Nel programma politico di Vox c’è comunque un po’ di tutto: centrale è sempre l’idea dell’unità della Spagna e l’imposizione dello spagnolo come lingua unica per tutte le regioni del Paese, ma c’è anche il rinvio degli immigrati clandestini ai Paesi d’origine, la sospensione dello spazio di Schengen, la riforma della legge sull’aborto e la cancellazione della legge sui matrimoni tra omosessuali. Fino a qualche anno fa Vox era un partito insi-
gnificante tanto che alle ultime elezioni politiche generali del 2016 aveva ottenuto solo lo 0,2%. Tuttavia dal 1. ottobre 2017, giorno del referendum indipendentista in Catalogna, tutto è cambiato non solo nella politica ma anche nella società spagnola. Il fiorire di bandiere spagnole che da quel giorno sventolano da tantissimi balconi del Paese è indice della voglia di dare una risposta forte alle velleità indipendentista catalane e il successo di Vox ne è una conferma. Da allora, nei partiti di destra (e in parte della magistratura) si assiste a una competizione continua per dimostrarsi quanto più intransigenti con il secessionismo catalano e si è fatto della «bandiera» una questione d’importanza vitale con derive preoccupanti per la libertà di espressione. Si pensi ad esempio che un popolare comico è finito recentemente in tribunale con le accuse di odio e oltraggio alle istituzioni, semplicemente per aver fatto uno sketch televisivo nel quale, per scherzo, si soffiava il naso con la bandiera spagnola. Il successo di Vox non è solo il sintomo più grande della grave crisi istituzionale che sta vivendo il sistema politico spagnolo, ma è anche quello di una società tentata da un ritorno a soluzioni autoritarie. Annuncio pubblicitario
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Politica e Economia
Un pastore di anime nel deserto Incontri A colloquio con monsignor Paul Hinder, vescovo turgoviese e Vicario apostolico dell’Arabia Meridionale,
sulla vita dei cattolici nel mondo arabo e musulmano Giorgio Bernardelli È la guida religiosa di una comunità di migranti in un contesto dove tutto parla di un’altra religione. Solo che rispetto all’Europa i ruoli sono ribaltati. Stavolta i migranti giunti in un Paese ricco in cerca di lavoro non sono musulmani ma cristiani; e i luoghi di culto da far spuntare in mezzo ai minareti sono le chiese. È un punto di vista del tutto particolare sulle migrazioni e sui rapporti tra le religioni quello di mons. Paul Hinder, frate cappuccino svizzero del cantone di Turgovia, da quindici anni vescovo nel Golfo Persico. Originario di Lanterswil – dove è nato 76 anni fa – in gergo ecclesiastico è il Vicario apostolico dell’Arabia Meridionale, cioè il vescovo dei cattolici che vivono negli Emirati Arabi Uniti, nell’Oman e nello Yemen. Una mosca bianca in mezzo agli sceicchi? In realtà le cose stanno un po’ diversamente, come lui stesso racconta nel libro Un vescovo in Arabia. La mia esperienza con l’islam scritto con Simon Biallowons e giunto in libreria anche in Italia negli scorsi mesi per l’editrice Emi. «In Europa c’è molta ignoranza sulla nostra zona, soprattutto quando parliamo di cristiani – racconta mons. Hinder – . Molti pensano che proprio non ce ne siano, ma non è così. Certo, non sono cristiani autoctoni; ma tra Dubai, Abu Dhabi e le altre grandi città del Golfo vi sono centinaia di migliaia di cristiani originari delle Filippine, dell’India, di tanti Paesi africani che lavorano in questi Paesi. Si tratta di migranti, è chiaro, ma sono membri della Chiesa a pieno titolo. E sono una presenza numerosa: negli Emirati Arabi Uniti gli immigrati sono oltre l’80 per cento della popolazione; non tutti cristiani, ovviamente, ci sono anche tanti musulmani provenienti dal Pakistan o dal Bangladesh. Ma i cattolici sono comunque almeno un milione». Quali difficoltà incontrano nel vivere la loro fede in società rigidamente musulmane?
Personalmente non ho mai sperimentato difficoltà maggiori per il fatto di trovarmi a vivere in questo contesto. Anche se è vero: rimane un mondo stra-
nel Mediterraneo con le migrazioni. Forse se imparassimo a rileggere così la nostra storia ci concentreremmo meno sulla stabilità sociale e più su come si vive la gioia del Vangelo.
no, dove rimango essenzialmente uno straniero. L’integrazione non è infatti né compresa né voluta da parte dei governi; siamo visti come una società a parte.
Ma la libertà religiosa è garantita dalle autorità?
Che cosa le hanno insegnato questi anni nel Golfo Persico?
Dobbiamo distinguere tra la libertà religiosa e la libertà di culto. La libertà religiosa – cioè la possibilità per una persona di cambiare la propria religione – nel Golfo Persico semplicemente non esiste. Diverso però è il discorso sulla libertà di culto, cioè la possibilità di celebrare liberamente i riti della propria fede. Negli Emirati Arabi Uniti, ad esempio, ci sono restrizioni per l’espressione pubblica della fede, ma le autorità ci hanno comunque dato i terreni per costruire le chiese e le strutture necessarie per un’attività parrocchiale più o meno normale.
Ho imparato ad approfondire la mia fede, vedendo quella semplice di tanti cristiani che vivono qui. E poi certamente sono rimasto colpito anche dalla vita religiosa dei musulmani. Parlo di quelli che sono credenti: penso alla loro cultura della preghiera, al fatto che non hanno paura di dare testimonianza della propria fede in pubblico, al modo gentile in cui tanti si relazionano con noi malgrado tutte le differenze. C’è spazio per il dialogo interreligioso?
Preferisco parlare di dialogo tra le fedi. Può suonare un po’ come un tecnicismo, ma mi interessa che dietro all’incontro ci sia davvero una fede, una tradizione, una pratica di vita. È lì, nel dialogo di ogni giorno sulle cose semplici, che ci si può incontrare. Provando anche a capire ciò che crede l’altro. C’è poca conoscenza e tanti pregiudizi: penso che occorra soprattutto ritrovare il rispetto reciproco.
Sono sufficienti queste chiese?
Il problema sono i numeri: per esempio a Dubai i fedeli cattolici sono tra 200 e 300 mila e il servizio pastorale avviene in una chiesa. Tra il venerdì e la domenica dobbiamo celebrare una ventina di Messe per poter accogliere tutti. Abbiamo otto parrocchie negli Emirati Arabi Uniti; ne stiamo aprendo una nona e speriamo che ce ne possano essere altre in futuro. Anche in Oman abbiamo una situazione simile; lì però i cattolici sono meno. Ma il vero problema è la situazione disastrosa dello Yemen... Sta parlando della guerra che dal 2015 ha mietuto migliaia di vittime e ha ormai ridotto l’80 per cento del Paese alla fame...
È una tragedia terribile per tutti e ovviamente anche per i pochi cristiani rimasti. Dopo la strage avvenuta ad Aden nel 2016 – con l’uccisione di quattro Missionarie della Carità, le suore di Madre Teresa, e altre undici persone che lavoravano con loro – restano solo otto religiose che portano avanti una testimonianza straordinaria nella capitale Sana’a. Da più di due anni e mezzo nel Paese non c’è più nemmeno un prete: le difficoltà sono terribili. Recentemente a Ginevra i negoziati per trovare una soluzione a questo conflitto sono naufragati ancora prima di cominciare. Perché non si riesce a trovare una mediazione?
Anche le parti coinvolte non sanno più
Monsignor Paul Hinder accanto ad una moschea ad Abu Dhabi, in una foto d’archivio. (Keystone)
con esattezza quale sia la situazione. Il problema non è tanto lo scontro tra le fazioni yemenite, ma gli interventi esterni che fomentano questo conflitto. Come e quando finirà questa guerra? Sinceramente non lo so. Ma il negoziato è l’unica via per uscire da questo conflitto sanguinoso.
Lei ha denunciato più volte le responsabilità delle compagnie occidentali che continuano a vendere armi e munizioni alle parti in conflitto nello Yemen.
L’ho detto e lo ripeto: vorrei che le compagnie che producono armi tenessero una riunione del loro consiglio di amministrazione nello Yemen. Capirebbero le conseguenze dei loro affari. Lei si definisce un vescovo migrante di una Chiesa di migranti. Perché?
È la verità. Tutti i fedeli della nostra Chiesa sono migranti. Appartengono a gruppi sociali diversi: molti lavorano nei servizi più umili nelle case, ma c’è anche un ceto medio. Però sono comun-
Come è vista nel Golfo Perisco la figura di papa Francesco?
que migranti: tutti devono rinnovare periodicamente il loro permesso di soggiorno. Questa Chiesa di migranti, però, è una Chiesa viva. Io stesso arrivando qui quindici anni fa mi sono stupito della vitalità che ho incontrato. E i vescovi dei Paesi d’origine di tanti migranti si stupiscono nel vedere che i fedeli sono molto più devoti qui rispetto a quando sono a casa loro. Penso abbia a che fare con la propria identità in rapporto alla società islamica.
In Europa oggi si parla tanto di migranti. Come vede questo dibattito?
Molto bene. Lo hanno invitato a visitare gli Emirati Arabi Uniti, anche se per la realizzazione di questo sogno ci sono parecchi problemi diplomatici, psicologici e anche questioni legate alla sicurezza di un evento del genere. Molti di questi sceicchi hanno già incontrato il Papa a Roma e ho l’impressione che ce ne siano tanti altri che vorrebbero farlo.... Che cosa la colpisce quando torna nella sua Svizzera?
Non voglio fare la predica a chi sta in Europa, ma sono un po’ sorpreso dai toni. I problemi ci sono, non lo nego, ma vanno collocati nella giusta proporzione. E la domanda diventa: come vivere da cristiani in mezzo a queste migrazioni? Per me si tratta di riscoprire che la storia della salvezza è una storia di migranti: da Abramo ai patriarchi, dall’Esodo all’esilio a Babilonia.... Ma anche la prima Chiesa di Gesù si diffuse
Come ho scritto anche nel libro, c’è una cosa che mi colpisce: in Europa ho spesso l’impressione che i cristiani vivano in uno stato di depressione permanente. Nel Golfo lavorano tutto il giorno, a volte letteralmente in ginocchio, ma trovano lo stesso il tempo per andare a Messa: non lo avvertono come un peso, ma come un tempo di libertà che genera gioia ed entusiasmo. Tra i cristiani migranti del Golfo il futuro si vede; c’è una speranza che in Europa invece fatico a trovare. Annuncio pubblicitario
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Politica e Economia
«UDC, un partito sempre più isolato in parlamento»
Politica nazionale Dagli anni Novanta, l’Unione democratica di centro continua a guadagnare consensi
alle elezioni federali. La sua linea dura non le permette però di conseguire molti successi in parlamento. Ne parliamo con il politologo Adrian Vatter
Luca Beti «Negli ultimi anni osserviamo un aumento della polarizzazione e dei conflitti. È un’evoluzione che ci preoccupa perché il nostro sistema si fonda sulla concordanza, sulla cooperazione e sulla ricerca del compromesso», sostiene Adrian Vatter. Il politologo e professore ordinario all’Università di Berna ha curato la pubblicazione del libro Das Parlament in der Schweiz. L’opera raggruppa vari studi svolti all’interno dell’Istituto di scienze politiche dell’Università di Berna, di cui Vatter è il direttore, e indaga com’è cambiata l’attività parlamentare. «Le analisi evidenziano un’accentuata contrapposizione tra governo e Assemblea federale e tra le due Camere federali. Rispetto al passato, il parlamento boccia con più frequenza i progetti presentati dal governo oppure il Consiglio nazionale e quello degli Stati trovano un accordo su un atto legislativo solo dopo una procedura di appianamento o una conferenza di conciliazione». L’UDC è sempre più isolata. È un’evoluzione evidenziata anche dal voto sull’iniziativa per l’autodeterminazione, combattuta da tutti gli altri partiti. È una costellazione che si nota anche nell’Assemblea federale?
Sì, è un’evoluzione che osserviamo anche in parlamento. L’analisi delle votazioni in Consiglio nazionale, registrate tramite il sistema di voto elettronico, e l’esame delle prese di posizione delle frazioni evidenziano che la costellazione UDC contro le altre forze politiche si è andata vie più cristallizzando negli ultimi 20-25 anni. Rispetto al passato la linea di frattura classica tra il blocco borghese e i partiti rosso-verdi è meno netta. Naturalmente è sui temi che ci si scontra e questa spaccatura è particolarmente ampia sulle questioni relative ai rapporti con l’Unione europea e alla politica migratoria. Lo ha appena ricordato: le alleanze sono cambiate negli ultimi decenni in parlamento.
Le coalizioni tra i partiti continuano a cambiare nel nostro sistema politico. In passato però il blocco borghese era più compatto, per esempio, in materia di politica estera. Ora non è più così, poiché l’UDC è sempre più isolata in parlamento.
L’UDC ha quindi preso il posto del Partito socialista, che un tempo lottava da solo contro gli altri schieramenti politici?
Sì, in parte è così. Negli anni SettantaOttanta i partiti borghesi si schieravano spesso contro il PS. Oggi, la linea di frattura, che attraversa il blocco borghese e che è più o meno netta a seconda dell’oggetto dibattuto, dà continuamente vita a nuove alleanze. È un fenomeno che favorisce soprattutto il Partito socialista e i Verdi.
Ciò significa che nonostante sia la maggiore forza politica in Svizzera, l’UDC ha quasi sempre partita persa sotto la Cupola federale?
Da una parte abbiamo una UDC che dagli anni Novanta continua a guadagnare consensi alle elezioni federali, dall’altra è però un partito sempre più solo in parlamento. L’UDC non trasforma le vittorie elettorali in successi in Consiglio nazionale. È un’evoluzione contraddittoria. Il Partito popolare democratico (PPD) vive invece un’erosione costante di voti, ma in parlamento è
Il politologo Adrian Vatter è professore ordinario all’Università di Berna. (Adrian Vatter)
il partito che, con il PLR e il PBD, vince più votazioni. Il PPD è il partito della concordanza: il suo ruolo è fondamentale per il funzionamento del nostro sistema parlamentare.
È strano che le sorti di molte decisioni in parlamento dipendano da uno dei partiti più in difficoltà in Svizzera.
Sì, è piuttosto paradossale. Il PPD ha perso consensi, di riflesso anche seggi e si è quindi indebolito. Tuttavia va ricordato che gli equilibri sono diversi nelle due Camere federali. Nel Consiglio degli Stati il PPD ha un ruolo fondamentale: ha il compito di tessere maggioranze; un compito diventato addirittura più importante negli ultimi anni. Che cosa sbaglia l’UDC, perché non riesce a influenzare maggiormente il processo legislativo?
È una scelta consapevole, quella dell’UDC. Il partito segue coerentemente la sua linea politica anche in parlamento, senza scendere a compromessi e pagando lo scotto di ritrovarsi spesso in minoranza. In questo modo però mantiene un netto profilo e occupa una chiara posizione nel panorama politico elvetico. Preferisce vincere alle elezioni federali che sotto la cupola di Palazzo. Se vuole avere più successo in parlamento, l’UDC deve essere disposta al compromesso, rischiando così di perdere l’appoggio della base poiché non si identificherebbe più nel partito. L’UDC punta piuttosto sulle vittorie elettorali, cedendo così parte del suo influsso politico in parlamento; un influsso che cerca di riprendersi lanciando iniziative e referendum popolari. Nel nostro sistema bicamerale, il Consiglio nazionale e quello degli Stati dovrebbero avere lo stesso peso. Le analisi presentate nel libro Das Parlament in der Schweiz, di cui lei ha curato l’edizione, indicano però che è soprattutto il Consiglio degli Stati a disegnare i contorni di una nuova legge.
Anche questo è un fenomeno interessante. Il Consiglio degli Stati è in effetti la Camera più influente in parlamento. Questo parziale squilibrio è causato da vari fattori. Per esempio sono spesso i senatori a deliberare per primi su un atto legislativo e sono quindi loro a
definire la rotta. Ai deputati spetta poi il compito di definire i dettagli o apportare piccole modifiche. Qual è il motivo di questa situazione? Il Consiglio degli Stati è più piccolo ed omogeneo rispetto al Consiglio nazionale. È in grado quindi di lavorare in maniera più spedita ed efficiente, sbrigando più in fretta i suoi compiti. È libero così di occuparsi di nuovi temi. Inoltre, il Consiglio degli Stati si presenta spesso compatto durante una procedura di appianamento delle divergenze o una conferenza di conciliazione e ciò gli permette di avere la meglio sul Consiglio nazionale.
Dalla fondazione dello Stato federale, il rapporto tra l’esecutivo e il legislativo è cambiato. Lei ha individuato quattro periodi. In quale fase ci troviamo oggi?
Siamo nella fase iniziata negli anni Sessanta con l’affare dei Mirage. Nel 1961, l’Assemblea federale aveva approvato l’acquisto di 100 aerei da combattimento per quasi 900 milioni di franchi. Tre anni più tardi, il Consiglio federale chiese un credito addizionale di 576 milioni, suscitando grande sorpresa nell’opinione pubblica. Nel 1964 si istituì la prima commissione d’inchiesta parlamentare. Per evitare il ripetersi di situazioni analoghe, si rafforzò il controllo sul governo; una funzione che l’Assemblea federale ha costantemente consolidato. Rispetto agli anni Settanta e Ottanta, le due Camere modificano più spesso i progetti di legge del Consiglio federale oppure ne presentano di propri, come l’intesa tra riforma fiscale e finanziamento dell’AVS. Per controllare il governo e favorire l’elaborazione di nuove leggi, i deputati e i senatori dispongono di vari strumenti. Si nota anche qui un cambiamento nell’impiego di questi strumenti parlamentari?
Nel confronto internazionale osserviamo che l’Assemblea federale ha a disposizione tanti strumenti per influenzare il processo legislativo: interpellanza, ora delle domande, mozione, postulato, iniziativa parlamentare. Negli ultimi anni si nota che il controllo sull’esecutivo da parte dell’Assemblea federale è aumentato, per esempio, con il rafforzamento del controllo federale delle finanze, il controllo parlamentare dell’amministrazione, le delegazioni
delle commissioni della gestione e delle finanze. E così oggi non viene quasi più impiegato lo strumento più potente; la commissione parlamentare d’inchiesta.
E tra tutti questi strumenti, ce n’è uno che i deputati e i senatori prediligono?
È la mozione. Non tutti i partiti la usano con altrettanta frequenza. Il gruppo parlamentare del PS presenta spesso delle mozioni durante le sessioni, mentre in altri partiti sono piuttosto i singoli deputati e senatori a servirsi di questo strumento. In generale osserviamo che la mozione o il postulato sono utilizzati soprattutto dai partiti che si trovano alle due estremità dello spettro partitico, quindi maggiormente da parte del PS e dell’UDC e meno del PPD e del PLR.
Avete individuato dei motivi che hanno portato a un uso più frequente di questi strumenti?
Da una parte il loro impiego è stato semplificato, dall’altra i parlamentari e i Partiti vogliono catturare l’attenzione dell’opinione pubblica durante le sessioni. È una conseguenza del fenomeno della mediatizzazione. Questi strumenti vengono sfruttati anche per fare campagna elettorale, per esempio mediante il postulato, che tuttavia viene usato meno di quanto avevamo ipotizzato alla fine della legislatura, nell’anno elettorale.
Il sistema di milizia è uno degli elementi identitari più importanti della nostra Assemblea federale. Ma si può ancora parlare di un parlamento di milizia?
No, non si può più parlare di un sistema di milizia; il nostro è piuttosto un parlamento formato da politici quasi professionisti. Infatti, la maggior parte dei deputati e quasi tutti i senatori dedicano metà del loro tempo, se non di più, al loro mandato di parlamentari. Infatti, negli ultimi venti anni la mole di lavoro è triplicata e gli oggetti sono sempre più complessi. A livello istituzionale, le strutture sono rimaste però quelle di un Assemblea federale di milizia, per esempio i consiglieri nazionali e degli Stati si ritrovano solo durante le sessioni, i servizi parlamentari sono piuttosto deboli, solo pochi parlamentari vengono assistiti da collaboratori personali.
L’Assemblea federale ha appena eletto due nuovi membri del Consiglio federale. Qual è la sua analisi dell’elezione?
La mattinata di mercoledì 5 dicembre è stata storica perché sono state elette contemporaneamente due donne in Consiglio federale; 170 anni dopo l’elezione del primo governo elvetico e a 25 anni dalla non-elezione di Christiane Brunner. Inoltre è stata evidenziata ancora una volta la grande difficoltà dei candidati che non siedono in parlamento federale di farsi eleggere dall’Assemblea federale. Infatti, Karin Keller-Sutter e Viola Amherd non sono solo donne, ma anche due parlamentari. È emerso anche un altro dato: per i cantoni primitivi non è ancora giunto il momento di festeggiare un loro rappresentante in Consiglio federale dopo Ludwig von Moos, che ha lasciato il governo nel 1971. E per finire è stata confermata la formula magica e quindi la concordanza. Il PPD è riuscito a mantenere il suo seggio, garantendosi anche in futuro un posto in Consiglio federale, pure in caso di sconfitta alle elezioni federali del prossimo anno. I Verdi dovranno quindi armarsi ancora di pazienza. Una regola non scritta stabilisce di votare uno dei candidati proposti dai partiti. È sempre stato così?
Nel XIX secolo le elezioni del governo avvenivano in un clima di grande tensione e contrasti. Da quando tutti i maggiori partiti sono rappresentati in governo, soprattutto nel periodo di massimo splendore della concordanza tra il 1959 e il 2003, il parlamento ha quasi sempre seguito le proposte dei partiti. Di recente non è più stato così, soprattutto durante la fase in cui non era ben chiaro a chi spettassero uno o due seggi nell’esecutivo. Da quando abbiamo una nuova formula magica, con la presenza in governo di due consiglieri federali UDC e uno solo per il PPD, le elezioni si svolgono senza grandi colpi di scena. Bibliografia
Das Parlament der Schweiz. Macht und Ohnmacht der Volksvertretung a cura di Adrian Vatter, NZZ Libero 2018.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 dicembre 2018 • N. 50
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Politica e Economia
Le casse pensioni svizzere verso momenti difficili
Previdenza I rendimenti degli investimenti «sicuri» tendono verso zero. La Commissione LPP raccomandava
un tasso minimo di rimunerazione dello 0,75%, ma il Consiglio federale vuole mantenere un tasso «politico» dell’1%
Ignazio Bonoli I rendimenti delle casse pensioni svizzere volgono al negativo, almeno secondo i calcoli dell’UBS, per le casse di cui la banca è depositaria. Nei primi nove mesi dell’anno, i rendimenti di queste casse pensioni è stato di –1,21%. Comunque dal 2010, grazie al buon andamento delle borse, delle obbligazioni e degli investimenti immobiliari, il rendimento medio annuo è stato del 3,85%. Secondo l’esperto dell’UBS, il 2018 sarà l’anno più difficile di questo periodo. Per garantire un rendimento minimo dell’1%, come prevede la legge, le casse dovranno ricorrere alle riserve di fluttuazione accumulate negli anni precedenti, che sono stati molto positivi, con l’eccezione del 2011 (–0,47%) per le casse che fanno capo a UBS. Sempre secondo l’esperto di UBS, per rimunerare adeguatamente i capitali degli assicurati attivi e le rendite dei pensionati è necessario un rendimento del 2,5% all’anno. Le prospettive per i prossimi anni non sono però incoraggianti. Al massimo si potranno avere rendimenti del 2 o del 3%. Tuttavia, la legge non permette di correre i rischi che rendimenti superiori potrebbero incontrare, per cui il rendimento tecnico di questi investimenti non sarà molto superiore allo 0%, che è il rendimento attuale degli investimenti più sicuri. Questa situazione impedisce a
parecchie casse di risanare la situazione e di costituire riserve. A lunga scadenza, il sistema svizzero potrebbe non essere più sostenibile. Già oggi, infatti, alcune casse devono finanziare le rendite dei pensionati con i contributi degli assicurati attivi, il che non rispetta il principio secondo cui ogni assicurato si costituisce il proprio capitale di vecchiaia. Per questo si prevede che le rendite future saranno inferiori a quelle attuali. La legge prevede, infatti, ancora un tasso di conversione (del capitale in rendite) del 6,8%, ma già allo stato attuale dei rendimenti si prevede che il tasso massimo non potrà essere superiore al 4%. Questa prevedibile situazione aveva indotto la speciale Commissione consultiva del Consiglio federale per la determinazione del tasso ufficiale di rimunerazione a proporre per il 2019 un tasso dello 0,75%. Il Consiglio federale non ha però voluto seguire la raccomandazione e ha fissato il tasso minimo di rimunerazione degli averi di vecchiaia degli assicurati all’1%, come per quest’anno. Non potendo prevedere quale sarà l’evoluzione dei tassi di interesse il prossimo anno, ci si è chiesti come mai il governo non ha seguito, per la prima volta dal 2009, le raccomandazioni della Commissione degli esperti. La fissazione di questo tasso riveste un carattere, oltre che tecnico, anche politico. E, infatti, pure la
Datore di lavoro privato
Datore di lavoro pubblico
120
114,4
115 110 Elaborazione grafica da uno studio di Swisscanto: evoluzione del grado di copertura delle Casse pensioni in % dal 2006 al 2017. (Keystone)
105 100 95
97,5
90 85 80
2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014 2015 2016 2017
Commis§sione, della quale fanno parte anche le parti sociali e rappresentanti delle casse pensioni, ha raccomandato lo 0,75% a strettissima maggioranza. Il Consiglio federale non ha osato proporre un tasso con uno zero quale prima cifra, politicamente poco accettabile, soprattutto se si considera che l’inflazione nel 2019 è prevista all’1%, in termini reali si è quindi già allo zero. Cifra verso la quale i rendimenti a media scadenza ormai tendono, nonostante proprio l’eccezione di quest’anno che ha visto un certo miglioramento. Va anche precisato che la Commissione ha cambiato la formula del suo calcolo, attribuendo un peso
maggiore ai rendimenti azionari e a quelli immobiliari. La formula precedente attribuiva un peso maggiore ai prestiti a lunga scadenza della Confederazione, il cui rendimento nominale è ormai già a zero. Comunque, già in passato, la Commissione si è distanziata da una rigida applicazione della formula e questo a testimonianza del fatto che la decisione è anche politica e che non è sempre opportuno trovare una formula matematica per ogni situazione. Del resto il rendimento medio tra il 2014 e il 2017 è stato del 4,8%, mentre la rimunerazione minima è stata dell’1,4%. Per cui anche un rendimento nullo nel 2018 non
Grafik: KEYSTONE, Quelle: Swisscanto
cambia molto alla media degli ultimi anni. È anche vero che le casse spesso non si limitano al minimo: nel 2018 la rimunerazione media è stata del 2%. Ciò non toglie però che questo tasso potrebbe mettere in difficoltà alcune casse con assicurati anziani e pochi giovani. Tanto più che il tasso di conversione delle rendite al 6,8% è piuttosto pesante. Gli esperti valutano un massimo del 5%. Come già più volte citato, questa situazione provoca un trasferimento di capitale dalle giovani generazioni alle vecchie e dalla parte non obbligatoria a quella obbligatoria, che a lunga scadenza può creare problemi di sostenibilità. Annuncio pubblicitario
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Politica e Economia
Come procedere sulla borsa USA? La consulenza della Banca Migros
Thomas Pentsy
2018: un anno di volatilità delle borse (indicizzato: base 01.01.2018 = 100; sulla base del total return, in valuta locale) 115
110
105
100
95
90 01.01.2018
01.02.2018
01.03.2018
01.04.2018
Svizzera (SPI)
maggiore lucidità, i timori dilaganti sui mercati azionari sembrano però eccessivi, soprattutto considerato che la congiuntura statunitense si sta indebolendo rispetto a un momento di grande forza. A medio termine prevediamo dunque una stabilizzazione della principale borsa mondiale. Gradualmente dovrebbe infatti migliorare la percezione
01.05.2018
Stati Uniti (S&P 500)
01.06.2018
01.07.2018
01.08.2018
Zona euro (Euro Stoxx 50)
01.09.2018
01.10.2018
01.11.2018
Giappone (Nikkei 225)
del rischio da parte degli investitori. In questa situazione consigliamo di sfruttare le fasi di debolezza temporanee, caratterizzate da notevoli flessioni delle quotazioni, per effettuare acquisti selettivi da inserire nel portafoglio. Questo sempre che si possieda una sufficiente propensione al rischio in un contesto politico ed economico che è diventato molto più imprevedibile.
Fonte: Thomson Reuters Datastream
Thomas Pentsy è analista di mercato e dei prodotti presso la Banca Migros
In borsa ottobre e novembre sono stati mesi allarmanti per molti investitori privati. A tratti i mercati azionari di tutto il mondo hanno subito pesanti correzioni e la causa è da ricercare nella pressione esercitata da un accumulo di timori: i disagi provocati da una politica monetaria più rigorosa, le incertezze legate alla controversia commerciale e i risultati societari non sempre brillanti. Nei giorni di negoziazione con nette flessioni delle quotazioni si sono però visti movimenti opposti almeno altrettanto incisivi. Questo tipo di volatilità, più propriamente detto «whipsaw», è fonte di nervosismo per molti investitori. Si dovrebbe quindi pensare a ridurre le proprie posizioni in azioni? E questo soprattutto sulla principale borsa mondiale, cioè Wall Street? Secondo il parere della Banca Migros i mercati USA resteranno nervosi per il momento. In Cina, il mercato di sbocco più importante per le imprese statunitensi, lo scenario economico è andato peggiorando e i dazi protettivi imposti dagli Stati Uniti sembrano aver aggravato la situazione. Anche gli eventi politici potrebbero provocare ulteriori flessioni in qualsiasi momento. Attualmente la borsa è molto sensibile agli adeguamenti delle previsioni aziendali e le imprese con risultati deludenti vengono penalizzate dagli investitori. Nel complesso i rischi congiunturali globali hanno subito un netto aumento. Guardando alla situazione con
Per quanto riguarda gli Stati Uniti, riteniamo che il ciclo di rialzo dei tassi stia lentamente volgendo al termine. A nostro avviso la banca centrale americana opererà solo altri tre aumenti dei tassi di riferimento e non prenderà in considerazione ulteriori incrementi. Questa linea d’azione dovrebbe sostenere i mercati azionari e indebolire tendenzialmente il dollaro. Annuncio pubblicitario
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi La fine delle fiere La città, afferma Renzo Piano, il grande architetto genovese, è un luogo d’incontro. I punti d’incontro urbano sono numerosi. Tra di essi quelli che mettono in contatto fornitori e clienti hanno un’importanza speciale. Negozi, centri commerciali, agenzie, punti di vendita, luoghi di esposizioni e fiere sono altrettanti magneti che attirano la clientela e animano la città. Celebrate non più di qualche anno fa ancora, come una delle istituzioni urbane per eccellenza, le fiere, in particolare quelle aperte al grande pubblico, stanno, le une dopo le altre, chiudendo le porte. Recentemente il gruppo MHC ha dato notizia che chiuderà la Züspa, l’esposizione di specialità zurighese, e il Comptoir di Losanna. Qualche mese prima aveva già annunciato che l’edizione 2019 sarà l’ultima anche per la Muba che, di queste esposizioni
di beni di consumo durevole, aperte al grande pubblico, è stata l’antesignana. Maggiore capacità di resistenza sembrano avere le esposizioni regionali e quelle speciali. Tutte le fiere che chiudono conoscono il medesimo problema: diminuzione continua del numero di visitatori. E tutte sembrano dare la medesima interpretazione della loro decadenza. Il consumatore di oggi non reputa di dover visitare una fiera per comperare una macchina per fare il caffè o una poltrona rilassante. In internet può trovare tutti i dettagli dell’offerta che gli servono e concludere l’affare. Se i visitatori diminuiscono, anche gli espositori perdono interesse e rinunciano ad essere presenti alla fiera. Così di anno in anno, anche il numero degli espositori diminuisce e gli organizzatori faticano sempre di più a far quadrare i loro conti. Pensare
che 60 anni fa una visita alla Muba o al Comptoir poteva essere la destinazione della passeggiata annuale di numerose scolaresche, per non parlare dell’obbligata escursione domenicale di molte famiglie svizzere! Naturalmente l’«online shopping» non è il solo responsabile della decadenza delle fiere. I responsabili delle stesse parlano anche di una profonda modifica nel comportamento del consumatore. Nel passato la visita alla fiera corrispondeva a un modo di agire razionale. Alla fiera il consumatore poteva comparare modelli e prezzi e, magari anche, degustare e provare il funzionamento dei prodotti che intendeva acquistare. Per non parlare dei prezzi ribassati che si potevano spuntare comperando e pagando il prodotto direttamente in fiera. Oggi sembra che la razionalità debba essere sostituita
dall’emozione. Di qui l’idea che l’istituzione fieristica, come possibilità di far conoscere la propria produzione, non è probabilmente superata. Che deve cambiare è però il formato nel quale i prodotti vengono presentati. Il commerciale deve lasciare il posto al festoso. Di conseguenza è probabile che Muba, Züspa e Comptoir trovino, in un prossimo avvenire, dei successori in una serie di nuovi eventi fieristici che ancora devono essere concepiti. Queste considerazioni mi ricordano quanto avevo sentito, qualche anno fa, in un congresso dedicato agli sviluppi del marketing, a proposito di come i produttori di automobile intendevano cambiare le loro tecniche di vendita. Si pensava di creare, accanto agli stabilimenti di produzione, dei grandi parchi per il tempo libero, delle specie di Disneyland, dove i compratori ve-
nivano invitati a passare il week-end, con le loro famiglie. L’evento culmine di questo week-end sarebbe stato costituito dalla consegna del nuovo veicolo. È possibile che in futuro, nelle fiere si organizzino matrimoni e battesimi, o feste di compleanno, o altre manifestazioni di questo tipo, per toccare le corde più profonde del consumatore. Oppure la vendita dei prodotti sarà legata, molto di più di quanto già non sia, ad altre soluzioni suggerite dalla fervida immaginazione degli specialisti in organizzazione di eventi. Per esempio quella di organizzare una sola fiera per anno, facendola viaggiare tra le tre sedi attuali: un anno a Zurigo, un anno a Basilea e un anno a Losanna. Questa soluzione avrebbe, tra gli altri, il merito di ridurre di due terzi i costi della fiera. Staremo a vedere!
da Macron, il suo afflato europeista e aperturista. In piccolo, nelle piazze di Francia, c’è uno scontro più grande, che è quello che ci sarà alle europee e che è quello che c’è già stato nelle tornate elettorali dal 2016 a oggi e che ha da sempre a che fare con la rabbia, con l’insofferenza, con il popolo che vuole riprendere la parola, e gridare forte. Alcune caratteristiche di questa piazza si notano subito: la prima è la violenza. Non nascevano violenti, i gilet gialli. Volevano scioperare, bloccare il Paese, far notare la propria rilevanza, se noi decidiamo che non ci muoviamo più alle vostre condizioni, siete voi ad avere un problema. Una protesta più delle campagne, perché come è noto a Parigi pochissimi possiedono l’auto (meno del 40 per cento dei parigini), la benzina è un affare rurale, potentissimo e legittimo. Ma presto la collera ha avuto il sopravvento, e sono arrivati i saccheggi, le auto bruciate, gli scontri con la polizia: una parte dei gilet si è smarcata e ha cercato un dialogo difficile con il governo, per portare avanti la propria battaglia lontano dalle colonne di fumo. La seconda caratteristica è tutta francese, ha a che fare con una lunga
tradizione di proteste e di passi indietro da parte dei vari governi. Senza tornare al maggio del 1968, che nel nostro immaginario è l’unica piazza francese che ha attecchito in modo irreversibile, ci sono state manifestazioni contro riforme sull’istruzione, sui trasporti, sulle tasse e più o meno tutte hanno avuto un prezzo politico grande per chi era al potere. È per questo che Macron è stato accusato di aver capito con troppo ritardo la potenza dei gilet gialli e di aver iniziato a negoziare quando ormai l’opinione pubblica si era compattata contro di lui. L’unica salvezza, forse momentanea, è che nessun partito è riuscito finora a intestarsi la protesta: tutti, dai gollisti Républicains fino agli «insoumis» di Jean-Luc Mélenchon, la sinistra radicale, chiedono le dimissioni del governo (e magari di Macron) e la sospensione delle riforme, ma nessuno riesce davvero a trovare una formula che non suoni soltanto come opportunismo. Il tempo gioca contro il presidente: ogni fine settimana di blocchi e saccheggi aumenta le pressioni su di lui. C’è poi il contesto internazionale, che ci riguarda tutti. I gilet gialli non sono più soltanto un fenomeno francese: basta vedere come quel giubbetto catarifran-
gente corre sui social media e si declina in altre lingue, dal tedesco all’inglese, per farsi ultimo simbolo di una battaglia che comprende tutto l’occidente. Macron è comunque il bersaglio, poiché è il rappresentate di una visione liberale e globale, e lo è non soltanto in Francia, anzi è quasi rimasto testimonial unico in occidente (Angela Merkel, in Germania, ha appena dato spazio alla sua successione). I suoi nemici, di destra e di sinistra, si sono uniti contro di lui, ironia assoluta per un leader che era a sua volta incarnazione di un processo anti sistema per quanto senza rabbia e centrista. Questa convergenza mette insieme sovranismi, nazionalismi, terzomondismi di varia natura e geografia, ma tutti compatti nel cercare il loro bersaglio. Ed è questo quel che preoccupa di più, perché la contrapposizione ideologica è uscita dal confronto verbale, spesso a distanza, è uscita dal palazzo ed è diventata invece scontro di strada. Le conseguenze saranno rilevanti molto oltre i confini francesi ed è anche per questo che il consueto fascino della protesta di Francia, così intensa e fotogenica e irraggiungibile, questa volta si sente meno, anzi forse non c’è.
stazioni nascono buffet ed edicole; negli immediati dintorni spuntano alberghi, ristoranti, negozi, perfino cinematografi. L’esercizio ferroviario diventa parte della quotidianità, influenza abitudini e modi di vestire, penetra nel linguaggio. Chiasso, il principale centro di smistamento, crocevia di passeggeri e merci, vede formarsi una «neolingua» che assorbe, riformulandole spesso in dialetto, espressioni tedesche e italiane. «Un linguaggio ferroviario di termini ed espressioni particolari – osserva Graziano Gianinazzi nel suo saggio intitolato Linguaggio da capostazione, appena riedito da Salvioni – intriso di norme fatte per il movimento – che in gergo è la movimentazione di treni e manovre – talvolta difficilmente comprensibile a chi non è del mestiere, che ha poi contagiato le stazioni fino all’altro confine del Ticino, per
diventare l’italiano di parlata comune ai ferrovieri ticinesi». Così la gru per rifornire d’acqua le locomotive a vapore («Wasserkran» in tedesco) diventa in dialetto «masacran»... Senza l’innesto di questa spina dorsale fatta di rotaie e traversine, il Ticino sarebbe rimasto molto indietro nello sviluppo, sia industriale che turistico. Difficile raffigurarsi un paesaggio socio-economico diverso, privo della strada ferrata, che col tempo è diventato una seconda pelle, come dimostra un libro recente del fotografo Adriano Heitmann, autore del volume Panorama Gottardo: una ricognizione della linea dall’alto, uno sguardo a volo d’uccello reso possibile dalla fotocamera digitale agganciata ad un drone (edizioni Casagrande). Ricordati i capitoli gloriosi, per le famiglie e per l’economia cantonale, occorre tuttavia aggiungere anche
qualche pagina nera. Le ultime le abbiamo tutte sott’occhio: interruzione di AlpTransit a Lugano, erosione degli effettivi (una vicenda iniziata con l’agitazione del 2008), disputa sulla futura ubicazione delle Officine di Bellinzona. Quest’ultima questione ha scavato ulteriori fossati tra le maestranze e la città e tra Castione e Bodio. Le FFS, dal canto loro, non sembrano propense a ridiscutere la scelta di Castione, impancandosi a giudice supremo (atteggiamento accompagnato dalla minaccia di trasferire lo stabilimento oltre San Gottardo). Tutti speriamo che si arrivi ad una soluzione concordata, atta a salvare impieghi, tecnologia, ricerca e ambiente; e anche la cooperazione con le FFS, senza le quali non pare possibile allestire un progetto agguerrito che sia in grado di affrontare la concorrenza degli insediamenti industriali d’oltralpe.
Affari Esteri di Paola Peduzzi Gialli di rabbia la manifestazione ha perso i connotati iniziali, la benzina è stata il pretesto per mettere in piazza ben altro, la «colère» come la chiamano i francesi, la rabbia di tutto un Paese contro il proprio presidente. Se si leggono i comunicati che via via sono stati fatti dai tanti portavoce dei gilet gialli si vede che il carobenzina ha fatto da aggregatore, ma non è più il tema principale: ora si punta contro le riforme liberali, contro il sistema stesso rappresentato
Keystone
I gilet gialli che manifestano in Francia contro il presidente Emmanuel Macron da quasi un mese hanno ottenuto il loro primo risultato: le tasse su benzina e diesel non saranno aumentate a gennaio, la moratoria durerà almeno sei mesi, un tempo sufficiente per arrivare oltre alle elezioni europee del prossimo maggio. Togliendo la prima ragione di questa protesta nata spontaneamente, Macron sperava di disinnescare la minaccia gialla, ma ormai
Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti Rimettere il cantone sui binari Ticino e ferrovia sono cresciuti insieme, fin dalla seconda metà dell’Ottocento. Treni e binari, stazioni e depositi, e poi il personale, con il suo ampio spettro di funzioni e mansioni: macchinisti, frenatori, scambisti, guardalinee, verificatori, bigliettai, manovratori, meccanici, fabbri, fochisti, facchini…La ferrovia ampliava e arricchiva l’offerta professionale, dopo secoli in cui l’unico sbocco era rappresentato dall’emigrazione stagionale. Ora invece i convogli privati della «Gotthardbahn» permettevano ai vallerani di non allontanarsi troppo dal paese natale, e magari di continuare ad accudire le bestie di famiglia. Con la ferrovia – ma anche con le poste e i telegrafi – si diventava «impiegati», primo gradino di una possibile ascesa sociale. Nazionalizzata all’alba del XX secolo, la ferrovia con le insegne della Confederazione offriva non soltanto posti di lavoro, ma anche un orario normato,
uno stipendio mensile regolare, possibilità di formazione e di carriera. Tutto ciò non esisteva nella comunità rurale, immersa com’era nel ciclo delle stagioni, un’attività continua, faticosa, spesso avara di soddisfazioni. Non è fuori luogo affermare che le «regie federali» (con le citate poste, le dogane e l’esercito: arsenali, fortificazioni, aerodromi) crearono il ceto medio del cantone, quella fascia né ricca né povera che ancora oggi raccoglie il maggior numero di ticinesi attivi. Molti giovani, terminato l’apprendistato come falegname, elettricista o macellaio, trovarono conveniente indossare i panni del funzionario stipendiato anziché esercitare il mestiere appreso. Anche le ripercussioni territoriali sono rilevanti e incisive; il tracciato scompone e riorganizza gli spazi, formando nodi capaci di coagulare iniziative imprenditoriali. Nel perimetro delle
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Cultura e Spettacoli La pittura di Chia Alla Casa Rusca di Locarno la prima mostra monografica su Sandro Chia
Chris the Swiss nelle nostre sale C’è anche un po’ di Ticino nel docufilm presentato a Cannes, a Locarno e a Castellinaria – a colloquio con la regista luganese Anja Kofmel
Sulle note di Tom Odell Un nuovo album per il giovane cantante britannico che non si separa mai dal suo pianoforte pagina 37
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Harvey Milk in una foto del 1977 in occasione della firma del «Gay Rights Bill» a San Francisco. (Keystone)
Ragazzi, vi presento Harvey Milk Personaggi Piergiorgio Paterlini racconta la vicenda dell’attivista americano in un libro per i giovani Daniele Bernardi Una delle decisive inquadrature del film a lui dedicato dal regista statunitense Gus Van Sant ce lo mostra nell’atto di difendersi con la mano dal primo dei cinque proiettili che, di lì a pochissimo, si abbatteranno su di lui. Il suo sguardo, mirabilmente interpretato da uno Sean Penn che, in questa pellicola, appare davvero in stato di grazia, più che sgomento è tra l’incredulo e lo stupito; quasi che anche nella tragicità della fine Harvey Milk (Woodmere, 1930 – San Francisco, 1978) non avesse mai tradito quella sorta di gentilezza che tanto caratterizzava il suo modo di intervenire, battersi e resistere. Da quello stesso istante, che definì il destino di martire del primo politico americano dichiaratamente omosessuale, Piergiorgio Paterlini, scrittore e giornalista, sceglie di raccontare la vicenda di Milk agli adolescenti di oggi; sì, perché Il mio amore non può farti male. Vita (e morte) di Harvey Milk è un libro che appartiene alla collana Einaudi Ragazzi, delle Edizioni EL.
L’intelligenza e la sensibilità del progetto emerge sin dalle prime pagine del lungo racconto che, in prima persona, Milk fa di sé rivolgendosi al lettore come se la sua voce, scampata alla morte, potesse ancora raggiungere i vivi («Ciao. Mi chiamo Harvey. Harvey Milk. Piacere. Tu come ti chiami?»). E di fatto è così, poiché l’eredità di questo grande attivista che si è battuto, oltre che per i diritti dei gay, per molte minoranze discriminate, è oggi ancora viva nelle nostre mani, così come lo è quella di uomini quali Martin Luther King e Malcolm X. Immagino quindi ragazzi e ragazze scombussolati dalle tempeste della pubertà e dell’adolescenza – età che, non lo si ripeterà mai abbastanza, è quella dei grandi incontri e delle potenti identificazioni – tenere fra le mani questo libretto. Vedo il suo dorso fare capolino accanto a Vampiretto (qualcuno lo legge ancora?) o a un tomo di Harry Potter. Immagino gli stessi giovanissimi individui andare a cercare informazioni su internet; magari, anche, scaricare il citato film di Gus Van Sant (un film
che, assieme a Diaz, Garage Olimpo o al recente Sulla mia pelle – dedicato all’orrendo caso di Stefano Cucchi – andrebbe mostrato nelle scuole). Nell’atmosfera di odio che, sempre più, oggi ci circonda, operazioni come questa sono coraggiose e importanti; anche se il nostro mondo fortunatamente è un poco cambiato, la sorda volontà di affermare la stupidità del conformismo sull’intelligenza è sempre il cavallo di battaglia del potere nelle sue forme più arroganti: basta guardare la campagne elettorali dei principali politici del globo per rendersene conto. Perché il metodo è sempre quello: poco importa che si tratti di immigrati o omosessuali, ciò che conta è avere un nemico: se do un nemico in pasto alla disperazione dei molti, della massa, questi mi seguiranno in nome del loro dolore e della propria sfortuna. Fondamentale, è non pensare: agire mossi dalla pancia, dall’istinto, anche sulle pelle degli altri: non possiamo mica sobbarcarci tutti i mali del mondo! Così vanno le cose. La vicenda di Harvey Milk ci dice,
invece, l’esatto opposto. Aveva vissuto per quarant’anni nell’ombra, nascondendo la propria inclinazione ad amici, familiari e colleghi, finché, un giorno, qualcosa in lui è scoccato – come il rintocco di una mezzanotte dopo la quale nulla sarà più come prima. Dal 1969, anno in cui incontra il suo futuro compagno Scott Smith, Milk si trasferisce a San Francisco, allora, come scrive Paterlini, «la città più gay di tutta l’America. Anzi, del mondo intero». Qui, fronteggiando l’ostilità nazionale e i raid notturni di squadracce che irrompono nei locali per pestare le checche, trova la propria vocazione di militante. Ma subito dimostra la sua intelligenza politica lavorando in un’ottica inclusiva. Non gli interessa – e sa che non è il giusto modo – battersi unicamente per la comunità gay; ciò che conta è ascoltare le esigenze di tutte le fasce deboli (anziani, bambini, donne, persone in difficoltà) per creare una società migliore, capace di combattere ogni forma di esclusione sociale. Piergiorgio Paterlini racconta splendidamente il duro lavoro che por-
tò Milk a diventare consigliere comunale, i suoi pensieri, le sue amicizie e i suoi amori e la tragica morte, avvenuta per mano di un collega invidioso, a soli quarantotto anni; e lo fa dialogando costantemente col lettore, ricordandogli il suo presente – le nuove tecnologie, l’elezione di Obama – in un confronto sempre aperto, mai dogmatico, che fa rivivere in modo equilibrato la solare vitalità del personaggio. Il mio amore non può farti male. Vita (e morte) di Harvey Milk non è, credo, unicamente destinato ai ragazzi; come tutta la buona letteratura, questo libro vuole rivolgersi a quelli che sono ancora disposti, al di là delle miserie che infarciscono le vite umane e oltre ogni età, a scommettere sulla sorte, a farsi garanti di una promessa e a non chiudere a chiave nel cassetto cuore, spirito e intelligenza. Bibliografia
Piergiorgio Paterlini, Il mio amore non può farti male, Torino, Einaudi, 2018.
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Cultura e Spettacoli
Dentro Pollock
Mostre/1 Al Vittoriano di Roma un’importante mostra sonda l’opera del grande artista americano
Laura Marzi Al complesso del Vittoriano, nell’ala Brasini, fino al 24 febbraio si può visitare la mostra dedicata a Jackson Pollock e alla scuola di New York. Circa 50 opere degli esponenti dell’Espressionismo Astratto che animarono la scena artistica mondiale del secondo dopoguerra, spostando per la prima volta il baricentro del fulcro culturale ed artistico dall’Europa agli Stati
Uniti. Esposti quadri di Jackson Pollock, anche il celebre Numero 27, di Mark Rothko, di Willem de Kooning, tra cui Door to the River, Franz Kline, Ad Reinhardt, Arshile Gorky, Robert Motherwell. Si tratta degli esponenti principali della Scuola di New York, firmatari, insieme ad altri, della lettera al Direttore del Metropolitan Museum of Art nel 1950, che iniziava così: «Caro signore, i pittori firmatari di questa lettera rifiutano l’imponen-
te esposizione nazionale che si terrà presso il Metropolitan Museum of Art il prossimo dicembre, alla quale non presenteranno alcuna opera». L’accusa degli artisti firmatari al direttore Roland L. Redmond è che la mostra organizzata non tenesse nella debita considerazione l’arte contemporanea d’avanguardia. Il ghiaccio era stato rotto, per usare un’espressione con cui i critici facevano riferimento all’opera dello stesso Jackson Pollock, e le istitu-
Jackson Pollock (1912-1956) Untitled, c. 1950. (Whitney Museum of American Art, New York; Gift of an anonymous donor 74.129 © Pollock-Krasner Foundation /Artists Rights Society (ARS), New York by SIAE 2018)
zioni come il Metropolitan Museum non potevano più fare finta di nulla. Il passato, rispetto alle opere di questi artisti, è l’arte figurativa che compare ancora, seppur in elementi isolati, nell’opera di De Kooning, mentre nelle tele di Rothko esposte a Roma nulla della realtà oggettiva può essere rintracciato e del resto il pittore di origini lettoni dichiarava di voler rappresentare l’interiorità umana, la sua estasi e la sua disperazione e non certo oggetti, come poteva fare la fotografia. Come risaputo, infatti, l’avvento della pellicola influì molto sulla decadenza dell’arte figurativa, inoltre non va dimenticata la congerie storica in cui sorsero i quadri esposti al Vittoriano: la fine della Seconda guerra mondiale. Gli artisti in questione dipingevano l’indicibilità suscitata da due conflitti globali, avvicendatisi in pochi decenni, e della Shoah, mentre il boom economico nel loro paese – l’Europa nel 1950 era ancora alle prese con le rovine della guerra – voleva far credere che lo sviluppo dell’umanità stava raggiungendo il suo apice. Sì, ma a che prezzo? Visitando la mostra, soffermandosi sui quadri creati con la tecnica del dripping, dello sgocciolamento, quella di casualità, conseguenza della tecnica stessa, è solo la prima impressione. La trama di quei segni di pittura, infatti, ha una compitezza, una precisione, che comunica un messaggio simbolico chiaro, sull’esistenza di un ordine imprescindibile sul caos, che supera la volontà dell’artista, facendo risaltare la sua impotenza, da una parte, e la sua capacità di abbandono alla verità, dall’altra. Osservando poi le installazioni video che mostrano Pollock al lavoro sul pavimento del fienile della sua abitazione a Long Island risalta la connotazione corporea di quella tecnica, non solo per il movimento del polso, ovviamente cruciale, ma per
la tensione delle gambe, che rendono l’atto di dipingere simile a una danza tribale, a un combattimento. Colpisce che nell’audio guida fornita dal museo ad accompagnare il visitatore nel percorso sia il personaggio della moglie di Pollock, alla quale è dedicata la prima parete dell’esposizione in cui si trova un suo quadro creato con la tecnica del dripping, dalla precisione lampante, e una frase di Peggy Guggenheim che racconta come Lee (Eleonor Krasner) fosse una pittrice che aveva abdicato alla sua arte per occuparsi del marito, anche perché lui stesso glielo aveva chiesto. Non sappiamo, allora, se per una sorta di ricompensa postuma o meglio per perpetuare quel ruolo ancillare che aveva avuto fino alla morte del marito nel 1956, i curatori hanno deciso di affidare al personaggio di lei il ruolo di chaperon nell’esposizione. Certo è che l’artificio retorico funziona, perché quella voce racconta di quel mondo infondendo un senso di familiarità, come sanno fare le buone padrone di casa. A lasciare interdetti, invece, è l’installazione che conclude la mostra: una tela virtuale su cui muovendo le mani si formano schizzi di pittura, che permetterebbero di creare un quadro «alla Jackson Pollock», come se davvero, come recita il luogo comune, per creare opere d’arte contemporanea non fossero necessarie abilità tecniche o forme di ispirazione. Un ammiccamento all’engagement del pubblico che, oltre a non essere sempre necessario, in questo caso è controproducente. Dove e quando
Pollock e la scuola di New York, Complesso del Vittoriano (Ala Brasini), Roma. Fino al 26 febbraio 2018. Orari: lu-gio 9.30-19.30; ve-sa 9.30-22.00; do 9.30-20.30. Info: ilvittoriano.com
La forza dirompente della pittura Mostre/2 A Locarno la prima mostra monografica svizzera dedicata a Sandro Chia Alessia Brughera È con il nome di Transavanguardia che nella seconda metà degli anni Settanta il critico d’arte Achille Bonito Oliva definisce il movimento nato attorno a cinque personalità molto differenti tra loro: Sandro Chia, Francesco Clemente, Enzo Cucchi, Nicola De Maria e Mimmo Paladino. Il gruppo di artisti acquista notorietà nella sezione Aperto ’80 della Biennale di Venezia, presentandosi come una delle più interessanti risposte alla postmodernità nel variegato panorama italiano e riuscendo a imporsi anche a livello internazionale. Ciò che accomuna teoria e prassi di questi autori è il netto rifiuto della tradizionale concezione evoluzionistica dell’arte che sino a quel momento aveva spinto molti artisti a sperimentare nuovi procedimenti e metodologie: a essere privilegiata è la soggettività individuale, libera adesso di affermarsi al di là delle teorie ereditate dagli anni precedenti. Con la crisi dei modelli espressivi legati alle correnti concettuali, emerge l’esigenza condivisa dai cinque artisti di affidarsi alla pittura proprio in un momento in cui viene considerata obsoleta. Alla tecnica pittorica è offerta così una nuova occasione per tornare a essere strumento favorito di rappresentazione, lontano da quelle ricerche che avevano avvilito l’arte con crucci intellettuali conducendola verso una riduzione della forma sempre più radicale.
Il recupero della tela dipinta significa per la Transavanguardia il ritorno a una pratica creativa che considera l’arte del passato come un infinito repertorio di immagini da cui attingere a piene mani, come un luogo aperto a tutti i possibili scambi da attraversare in maniera incondizionata. Nel godimento di una pittura «in cui tutti gli stili vengono macinati», lo sguardo dei cinque artisti è rivolto a maestri quali Cézanne, Picasso, Chagall e de Chirico, ma anche Klee e Kandinskij, talora ripresi in maniera intenzionalmente regressiva. «L’opera diventa una mappa del nomadismo, dello spostamento progressivo praticato fuori da ogni direzione precostituita da parte di artisti che sono dei ciechi-vedenti, che ruotano la coda intorno al piacere di un’arte che non si reprime davanti a niente, nemmeno davanti alla Storia», afferma il teorico Bonito Oliva. Ecco allora che, nello sfarzo cromatico della tela, la figura si riappropria del suo ruolo da protagonista, intrisa di memorie romantiche o di ammiccamenti ironici. Parte proprio con una sala che focalizza l’attenzione sulla Transavanguardia, dandone testimonianza con un lavoro di ciascuno degli esponenti, l’antologica che la Pinacoteca Comunale di Casa Rusca a Locarno dedica a Sandro Chia, artista toscano nato nel 1946 che del movimento è stato vigoroso interprete. Esposti negli spazi locarnesi sono più di cinquanta
dipinti di grandi dimensioni, realizzati dal pittore a partire dalla fine degli anni Settanta sino ad arrivare a oggi, che ben documentano il suo cammino creativo e il suo audace linguaggio intriso di riferimenti culturali. Secondo Chia l’artista deve essere temerario e intuitivo, «cavia di se stesso», cosicché la tela possa divenire il territorio che accoglie il suo pensiero e i suoi impulsi, il luogo dello svelamento dell’idea tramite l’immagine e al contempo lo spazio dove si estende «l’enigma che caratterizza i meccanismi celati nel rovescio delle cose». La pittura di Chia è allusiva, misteriosa, attraversata da molteplici rimandi e corrispondenze. È una sorta di circuito percorso da citazioni letterarie e da richiami al sacro e alla mitologia che trovano espressione in composizioni dagli enfatici impasti di colore. L’artista fiorentino elabora la sua cifra stilistica guardando al Rinascimento, in particolar modo alle opere di Tiziano, di Tintoretto o di Michelangelo, e a molti autori che hanno segnato la prima metà del Novecento, la cui lezione viene assorbita e poi ripresentata secondo nuovi dettami. Nascono così dipinti pervasi da un cromatismo impetuoso, memore degli esiti dell’espressionismo europeo, in cui la figura umana è al centro della scena, delineata con un tratto incisivo e dinamico e resa monumentale nelle proporzioni, a ricordare i soli-
Sandro Chia The Acrobats, 2004. (Collezione privata © Sandro Chia – ProLitteris Zurigo / Foto Matteo Crosera)
di corpi di un Carrà o di un Sironi. I personaggi di Chia campeggiano sulla tela in tutta la loro energia vitale, da una parte mitizzati da una consistenza fisica che li proietta in una dimensione sospesa nel tempo, dall’altra umanizzati da una nostalgica espressività che li lega alla contingenza terrena. Le opere dalla marcata teatralità dell’artista sono spesso popolate da figure simbolo, portatrici di significati che vanno al di là di ciò che è visibilmente manifesto nella rappresentazione: viandanti, naufraghi e pittori (si pensi ad esempio ai dipinti in mostra Leave the Artist Alone, del 1985, o Melanconia del pittore, del 1999-2000) sono i soggetti prediletti da Chia, scel-
ti come emblema di un’umanità governata dagli opposti in cui armonia, sensualità e utopia si scontrano con la quotidianità del vivere fatta di mancanze e di desideri sfumati. Evocativo e provocatorio, Chia dipinge visioni poetiche e beffarde dell’esistenza, facendo scorrere nei torrenti di colore infuocato la maestosa solitudine dell’uomo. Dove e quando
Sandro Chia. Pinacoteca Comunale Casa Rusca, Locarno. Fino al 6 gennaio 2019. Orari: da ma a dom 10.00-12.00/14.00-17.00, lu chiuso. www.museocasarusca.ch
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 dicembre 2018 • N. 50
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Cultura e Spettacoli
L’ambiguità di Chris Cinema A colloquio con la regista Anja Kofmel,
autrice del riuscito docu-film Chris the Swiss
Nicola Mazzi Chris the Swiss è da vedere. Dopo il suo debutto, nel mese di maggio a Cannes (presentato in anteprima a La semaine de la critique), e dopo essere passato prima al Locarno Festival e poi a Castellinaria, arriva finalmente anche nelle sale della Svizzera italiana. Un film che parla di un evento importante e che coinvolse milioni di persone (la guerra nell’ex Jugoslavia) e di un fatto particolare (la morte di un giornalista svizzero: Chris). Una duplicità che si nota anche a livello visivo: infatti il film mescola, in modo sapiente, l’animazione e il documentario. La regista svizzera Anja Komfel (nata a Lugano nel 1982) ha scelto questo modo particolare di costruire la pellicola dove la storia del mondo si intreccia a quella personale, autobiografica. Chris, infatti, è il cugino dell’autrice. Iniziamo col dire che la morte di Chris è avvenuta in circostanze misteriose e mai del tutto chiarite, quando la stessa Anja aveva 10 anni. Un momento che ha segnato in modo indelebile la sua infanzia: «È vero, quando ero piccola vedevo Chris come un eroe, lo guardavo con ammirazione per tutti i viaggi che aveva fatto e le avventure che aveva vissuto. E quando morì fu un momento molto tragico per me, anche perché non riuscivo bene a capirne i motivi e le ragioni. Non ero cosciente di quello che stava accadendo nei Balcani e in che situazione era andato a finire».
La sua morte, avvenuta nel 1992, rappresenta un mistero su cui si arrovella ancora oggi la regista. Il film, in qualche modo, è servito a indagare e a scoprire alcuni lati nascosti della vicenda, ma non tutto si è chiarito. Lui, fu trovato morto con indosso l’uniforme di un gruppo mercenario internazionale ed è probabile (ma la certezza non c’è) che sia stato lo stesso capo di quel gruppo a farlo uccidere. Anja, come detto, fu particolarmente colpita da quell’evento. E una volta diventata adulta decise di indagare più a fondo sulla vicenda. Nel tentativo di capire quale fosse il vero ruolo di Chris all’interno del conflitto, ci racconta il suo viaggio in Croazia, a Zagabria, dove è rimasta per due anni, tra il 2015 e il 2017. Un’inchiesta, che come ci spiega la stessa regista, è durata molto tempo e ha richiesto parecchi sforzi. «Nella mia investigazione sulla morte di Chris ho contattato le persone che avevano avuto, in qualche modo, a che fare con lui» e questo lo si vede bene nella parte documentaristica del film, costituita soprattutto da interviste a chi l’ha conosciuto nei mesi antecedenti la sua morte. «Da parte mia ho fatto molte ricerche prima di iniziare a girare ed avevo le idee piuttosto in chiaro su quanto era successo. Devo però ringraziare molte persone che mi hanno aiutato a portare avanti la storia, arricchendola di dettagli e di fatti di cui non conoscevo l’esistenza e quindi, alla
fine, è stata un’esperienza molto forte e una scoperta continua». Come aggiunge la stessa Anja Komfel, «ricordo molto bene che nella mia famiglia, in relazione alla morte di Chris, si faceva di continuo un nome: quello di Eduardo Flores (soprannominato Chico). Proprio il fondatore del gruppo di mercenari (il PIV), di cui mio cugino era entrato a far parte. Ed è probabile che sia stato lui ad assassinarlo in quanto sembrerebbe che lo stesso Chris stesse facendo un’inchiesta giornalistica sui legami dell’Organizzazione con l’Opus Dei». L’organizzazione cattolica, secondo la regista, era in qualche modo coinvolta nel conflitto bellico. «Credo che ci siano alcuni aspetti dell’Opus Dei che siano entrati in quella guerra tra le varie etnie: serbi, croati, bosniaci». Intrigante l’alternanza tra l’animazione e il documentario. «Una scelta derivata sicuramente dalla mia formazione. Sono cresciuta con l’animazione che fa parte del mio bagaglio culturale. Durante la lavorazione di Chris The Swiss, partito come un documentario, mi ero accorta che nell’inchiesta erano rimasti dei buchi neri, delle domande ancora senza risposta e quindi ho cercato di dare un’interpretazione personale attraverso l’animazione. Secondo me il tratto grafico animato, in generale ha un effetto molto potente sugli spettatori, poiché trasmette emozioni forti in modo efficace. Credo sia un modo
pittorica di Nando Snozzi
Un momento dello spettacolo Finisterre.
avevano visto un parallelismo tra i fatti accaduti nei Balcani con quanto stava accadendo in Siria, e dall’altro avevano capito che il film non era solo un modo della regista per fare i conti con il passato, ma diventava un racconto originale e universale. Adatto agli anni 90, ai giorni nostri e che potrebbe fungere da monito anche per il futuro. E proprio con un accenno al futuro concludiamo l’intervista a Anja Komfel. Dopo un lavoro importante come questo è difficile ripetersi. Forse la strada migliore è quella di cambiare completamente genere e storia. «Infatti non parlerò più di guerra e sto lavorando a un film diverso. L’idea è quella di abbinare l’animazione e il live-action attorno a una storia che parli delle nuove tecnologie e del loro impatto sulla nostra società. La mia protagonista è una ragazza nata cieca e che grazie alla tecnologia potrà acquistare la vista. Un progetto diverso e lontano da Chris the Swiss, ma che sto prendendo molto a cuore». L’aspettiamo, intanto godiamoci questo piccolo grande lavoro.
Azione
In scena Nuove realtà teatrali e l’utopia
Un altro colpo è stato messo a segno con il debutto al Foce di Lugano di Finisterre della compagnia Praticidealisti vincitrice della 2.a edizione di Testinscena, premio destinato a sostenere nuovi talenti promosso dalla Fondazione Claudia Lombardi per il Teatro. Questa volta ha avuto la meglio un’espressione del nostro territorio con un progetto che nasce da quanto si sta muovendo nel locarnese fra Cambusa e Teatro Paravento. Finisterre è un testo di Francesca Tacca scritto con il regista Marco Taddei, allestimento coadiuvato dal tutoring di Cristina Galbiati, che ripercorre la vita avventurosa di Alexandre Campos Ramirez, in arte Alejandro Finisterre: poeta, editore ma soprattutto geniale inventore del calcetto o futbolìno, gioco da tavolo dall’immediato successo in Italia dov’è ancora oggi chiamato calcio
intenso di parlare di guerra da un punto di vista soggettivo. E credo sia la strada giusta per trasmettere anche a un livello più simbolico immagini di morte, guerra e disperazione». Altro aspetto interessante che emerge dalla pellicola è l’ambivalenza del giovane: lui era giornalista e combattente. «Le autorità svizzere però non hanno considerato Chris un giornalista, bensì un mercenario caduto in battaglia, ma a questa versione non ho mai creduto fino in fondo. Certo, non è più l’eroe che vedevo da bambina, negli anni ho mutato l’opinione su di lui. Ma credo fosse un giovane avventuroso e affascinato dalla guerra e dalle armi, che si è trovato in una situazione più grande di lui». La lavorazione della pellicola, in totale, è durata sette lunghi anni. Un periodo nel quale Anja ha fatto le sue ricerche, ha scritto la sceneggiatura, ha cercato i finanziatori e ha messo in piedi la sua casa di produzione. E alla fine è riuscita a portare in porto questo notevole progetto. Un’idea piaciuta subito ai produttori, che da un lato
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Un fotogramma dal film Chris the Swiss.
balilla. Siamo negli anni ’30 e l’Europa è sommersa dall’ondata nazifascista. In Spagna scoppia la guerra civile e Finisterre inizia un esilio che lo porterà a incontri eccellenti, da Picasso a Che Guevara al poeta Leon Felipe. Lo spettacolo vive su pagine di storia e due attori: Laura Zeolla (brava e decisa) e Fabio Bisogni (bravo ma ancora acerbo), dal volto coperto da una maschera neutra per enfatizzare una recitazione in cui voce e testo assumono rilevanza essenziale. Dal 13 al 15 Finisterre torna in scena a Milano nella sala di Campo Teatrale.
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Fra i paradossi dell’arte
Si è conclusa al Teatro Sociale l’azione scenica e il percorso pittorico che Nando Snozzi ha celebrato con la sua Ipotesi per un’utopia, continuazione del Teatro dei sensi della commedia umana. Anche in questa occasione l’eclettico pittore bellinzonese ha trasformato il palcoscenico in una vivace arena creativa. Tra happening espressionista e performance d’avanguardia con la poesia sonora di Patrizia Barbuiani, l’asciutta lettura dello straniero Antonio Gonario Pirisi, i movimenti e la voce di Raissa Aviles con Attila, fantoccio bifronte alla Père Ubu, gli interventi di Gianni Hoffman, il turista per caso Elio David e… le sculture sonore di Luca Marcionelli. Un circo colorato accompagnato dalle musiche di Matteo Mengoni (tastiere) con Rocco Lombardi (batteria). Su tutto il tratto pittorico narrante, primitivo, dai colori forti, urlanti, materia spalmata su tele cartacee dove Snozzi declama con i suoi aforismi un’affascinante e delirante urgenza espressiva.
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Cultura e Spettacoli
Tra convenzione e innovazione
Gospel al PalaCinema Concorso In attesa
CD Il giovane Tom Odell si conferma come uno dei musicisti pop più intriganti
della sua generazione
Benedicta Froelich Quando, nel 2012, l’appena ventunenne Tom Odell fece il suo debutto nelle chart internazionali con un successo immediato quale il riuscito EP d’esordio Songs From Another Love, in molti pensarono che il giovanissimo britannico rappresentasse in tutto e per tutto un prodotto commerciale di sicuro successo. Del resto, di primo acchito, il cherubinico Tom poteva facilmente apparire come un nuovo «bel maledetto», provvisto della stessa faccia da schiaffi e aura ribelle di un James Dean dell’era digitale, perfetto idolo «ready-made» per stuoli di ragazzine adolescenti, stanche delle solite boy band.
Il fatto che Odell si avvalga di un piano negli accompagnamenti rende la sua musica più sofisticata Eppure, a volte le apparenze ingannano, in quanto il buon Tom (inglese D.O.C., di Chichester) si è rapidamente dimostrato un artista di tutto rispetto: infatti, sebbene forse non particolarmente originale dal punto di vista del songwriting, ha però avuto l’intelligenza di impostare la propria produzione artistica sul connubio voce-pianoforte, anziché, come d’abitudine, sul ben più convenzionale accompagnamento alla chitarra, ciò che lo ha reso unico e degno di nota tra innumerevoli colleghi esordienti, oltre a permettergli di esplorare una gamma espressiva personale e carica di vibrante emotività. Non solo: in questo nuovo album, che giunge due anni dopo l’interessante conferma offerta dall’ultimo CD (Wrong Crowd), Odell decide di operare un’ul-
teriore evoluzione, reinventando gli arrangiamenti pianistici sulla base di nuove suggestioni. Jubilee Road dimostra infatti, fin dalla sua title track, il desiderio, da parte di Tom, di infondere la sua musica di forti accenti gospel, unendo così il sound dell’amato pianoforte a cori femminili nel più puro spirito afroamericano; una scelta non facile, che però Odell mostra di saper gestire come un musicista consumato, dando vita a un gusto ibrido di grande potenza e intensità. Caratteristiche evidenti, peraltro, fin dall’irresistibile If You Wanna Love Somebody, primo singolo estratto dall’album e accompagnato da un semplice quanto efficace videoclip «intimista». Certo, è probabile che chi segue Tom Odell fin dai suoi esordi possa rimanere perplesso davanti a quest’improvvisa insistenza spiritual, soprattutto dal momento che ciò può rischiare di rendere le composizioni «manierate». In effetti, per quanto Jubilee Road sia caratterizzato da un’estrema cura non solo nell’esecuzione, ma anche nell’interpretazione e negli arrangiamenti, sembra a tratti mancare della visceralità che caratterizzava i primi due album di Tom – quella forma di rabbiosa confessione, tramite la quale il giovane cantautore era in grado di mettersi a nudo con grande onestà, tratteggiando nelle proprie canzoni sentimenti anche molto violenti e destabilizzanti. Così, alcuni dei brani di Jubilee Road mostrano un’inevitabile ripetitività negli arrangiamenti: si vedano i pur gradevoli Son of an Only Child e You’re Gonna Break My Heart Tonight, o il più tradizionalmente romantico Half as Good as You, collaborazione a due voci con l’ottima Alice Merton. Non è quindi un caso che le tracce più riuscite siano, infine, proprio quelle in cui Odell si riserva di attingere maggiormente al proprio gusto personale, come con le travolgenti atmosfere jazzate di China
La copertina dell’album.
Dolls e, su un piano più soft, l’intensa ballata Queen of Diamonds, dal sapore più cantautorale rispetto agli altri pezzi. Eppure, non mancano incursioni in territori diversi: si veda, su tutti, l’accattivante Don’t Belong in Hollywood, che ricorda gli exploit anni 80 di Billy Joel, uno dei pochi performer di successo ad aver sempre prediletto il pianoforte su ogni altro strumento; e anche il toccante (seppur non originalissimo) Wedding Day e l’irresistibile Go Tell Her Now mostrano una forza e un vigore espressivo rinfrancanti, sebbene non presenti in ogni traccia di Jubilee Road. Tuttavia, nonostante le esitazioni, quest’album dimostra come il giova-
ne Odell possa già vantare un livello qualitativo di tutto rispetto, sia come performer che come compositore. Soprattutto, colpisce il suo essere totalmente avulso dalle facili quanto troppo rassicuranti soluzioni orecchiabili e «trendy» che caratterizzano molti dei musicisti pop della sua generazione. In tal senso, Tom può essere soddisfatto dei risultati raggiunti finora, che lo hanno reso uno dei più interessanti e promettenti tra i giovani nomi della scena internazionale; ed è quindi legittimo confidare che sappia proseguire su questa strada, magari stupendo il proprio pubblico con nuove e differenti contaminazioni stilistiche.
Strenne musicali dal Ticino CD Tre incisioni discografiche di diverso genere ci danno un’idea della «biodiversità»
sonora che caratterizza le produzioni del nostro cantone Patrizio Perucchi, Memento (Jsm Guitar Records, 2018)
Formatosi sotto la guida di Aldo Martinoni al Conservatorio della Svizzera Italiana, Patrizio Perucchi è un chitarrista classico ticinese che ha firmato di recente un album molto ben concepito ed eseguito. Si viene accompagnati nell’ascolto da un booklet redatto con cura e intelligenza. Il mondo della musica contemporanea per chitarra classica non è dei più frequentati dall’ascoltatore medio: genere musicale e stile sono sicuramente di nicchia ma quale più bella avventura per un musicofilo dell’avventurarsi in una terra sconosciuta? Le scelte di Perucchi sono quasi didattiche e propongono brani in cui la bravura esecutiva è fondamentale, data la complessità delle partiture. I pezzi si dispongono in un crescendo che conduce fino alla bellissima Sonata Op.47 di Alberto Ginastera, composizione di ampio respiro in cui la chitarra si trasforma in uno strumento complesso e completo, con inserti rumoristici e percussivi di grande fascinazione (bellissimo il finale movimentato e ritmico). L’ultimo pezzo, Um a zero, di Alfredo da Rocha Viana, detto Pixinguinha, ispirato alla vittoria del Brasile
sull’Uruguay nei mondiali del 1919, riassume con il suo andamento vivace e multistratificato la specificità del disco: naturalezza esecutiva nell’estrema complessità armonico- ritmica dei brani scelti da Perucchi. In altre parole, un disco «difficilissimo» per l’esecutore, ma di grande facilità d’ascolto per il pubblico. E questo è un pregio non da poco.
Frank Salis meets Michael Watson (Nicolasound, 2018)
Soul Nest, Apertura Celeste (Album autoprodotto)
Basi musicali elettroniche molto raffinate, senza essere asfissianti, e una voce molto piacevole e misurata: la miscela attira l’attenzione e aguzza la curiosità su un progetto di cui si sente l’entusiasmo di fondo. Il disco Apertura Celeste del duo Soul Nest segna l’incontro creativo tra i giovani Dj Costa e la cantante Anela, e dà forma a un album molto compatto, intenso e senza cadute di ispirazione. Terminato il primo ascolto si ha subito il desiderio di riprenderlo da capo per approfondirne lo spessore. Costa possiede un gusto musicale ricco e forse in evoluzione: in un’intervista dichiarava di essersi appassionato alla scena del giovane jazz, e qua e là sembra di sentirlo nella scelta dei sample di tromba, in particolare nella conclusio-
Dj Costa e Anela, in arte Soul Nest. (mx3.ch/soulnest )
ne di Ninna nanna (con te). Anela, da parte sua, mostra una certa maestria nel calibrare i suoi interventi vocali. Il pensiero è rivolto, e lo si capisce, allo stile magistrale e ipnotico di Erykah Badu, di cui ha ben presente la personalità e l’intensità minimalista. Il duo, insomma, funziona molto bene e mostra una precisa personalità che speriamo possa esprimersi in numerose uscite dal vivo.
È dal 1988 che (l’allora giovanissimo) Nicolas Gilliet produce album jazz, in un paio di casi anche partecipando come musicista alla registrazione. Nella bella schiera di dischi da lui realizzati (i più recenti vedevano come protagoniste le cantanti Karima e Serena Brancale) l’organista ticinese Frank Salis appare un po’ come un pupillo preferito. Una prima volta Gilliet l’aveva coinvolto in una registrazione live, effettuata in Piazza Grande a Locarno, sfociata in un bell’album nel 2011. Lo scorso anno invece, dopo aver messo in cantiere una collaborazione tra Salis e alcuni giovani musicisti di New Orleans, il direttore di JazzAscona ha deciso di fissare su disco i frutti di quella joint-venture elvetico-americana. Il cantante, paroliere e trombonista americano Michael Watson, interprete vocale talentuoso e sensibile, è il partner elettivo di Salis. I brani che ne risultano sono divertenti e sanguigni, e rendono al loro produttore la soddisfazione di aver promosso uno scambio culturale tanto affascinante quanto inatteso. Ottima la band che li accompagna e sostiene, pervasa da un vero «spirito di New Orleans». /AZ
del Natale gli Angeli di Harlem tornano in Ticino con tutti i loro brani di successo Attesissimo lo scorso anno a Lugano, l’Harlem Gospel Choir, il coro gospel più celebre al mondo, torna nel nostro Cantone stavolta al PalaCinema di Locarno, con tutta la sua energia, lo spirito delle feste e il meglio del repertorio. Harlem, quartiere conosciuto per essere il centro culturale degli abitanti di origine afro-americana della città di New York, è la culla di questa formazione, nata nel 1986. Il 15 gennaio di quell’anno ci fu un pranzo celebrativo per Martin Luther King Jr. al Cotton Club di Harlem. Allen Bailey, fondatore dell’Harlem Gospel Choir, comprese in quell’occasione quanto i turisti fossero interessati a visitare le chiese, le Black Church, per poter ascoltare i canti gospel e decise di creare, così, un coro che non fosse stazionario, ma itinerante, in grado di raggiungere le persone anche nel loro paese. Dall’idea di successo di Bailey e dalla fusione di differenti retaggi musicali, è nato questo gruppo corale evangelico, le cui splendide voci scalderanno l’atmosfera dell’Avvento domenica 16 dicembre alle ore 16.30, con replica martedì 18 dicembre alle 20.30, per due imperdibili momenti di festa amplificati dal potere spirituale della musica. Negli show dell’Harlem Gospel Choir, il tema principale è unire le persone e le nazioni e donare loro qualcosa di positivo: attraverso musica e danza, le voci di questi Angeli fanno breccia nel cuore di chi ascolta, soprattutto a Natale. La carica dei musicisti trasporta tutta la cultura corale di Harlem, attraverso i canti canonici delle strenne, e i brani di un repertorio variato che spazia dal pop al soul passando per il blues. Insomma, voci intrise di tradizione ma che, da ormai una trentina d’anni, rinnovano di volta in volta le loro scalette in uno spettacolo-evento frizzante e armonioso. La capacità scenica e la bravura di tutti i componenti ha condotto l’Harlem Gospel Choir a esibirsi, tra gli altri, per l’ex presidente degli Stati Uniti, Obama, e per due papi, nonché in occasione del memorial dedicato al «Re del pop» Michael Jackson. Il gruppo ha collaborato con i più importanti musicisti e cantanti internazionali, per esempio gli U2, e ha portato il gospel in tutti e cinque i continenti della Terra. Il Percento culturale di Migros Ticino sostiene anche quest’anno l’organizzazione di questo magnifico evento e mette in palio alcuni biglietti omaggio per le due rappresentazioni di The Harlem Gospel Choir Sings Their Best Hits. Per partecipare all’estrazione a sorte, basta seguire le indicazioni nella pagina web www.azione.ch/concorsi. /ED Informazioni
Concerto organizzato da Horang Music e Enjoy Arena SA In collaborazione con
Harlem Gospel Choir. (www.harlemgospelchoir.com)
SPINAS CIVIL VOICES
Non avevo diritto di voto.
Posso votare.
Posso parlare alla radio. Tuli (13 anni), figlia, Bangladesh
Rita, madre
Jannomukhi, nonna
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 dicembre 2018 • N. 50
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Cultura e Spettacoli Rubriche
In fin della fiera di Bruno Gambarotta Poeti brave persone Una premessa: i poeti, almeno quelli che ho avuto la fortuna di conoscere e di frequentare, sono tutte brave persone, cittadini esemplari da ogni punto di vista. Ma in Italia quanti sono? Impossibile censirli: molti di loro, per nostra fortuna, nascondono in un cassetto della scrivania i loro versi, ma, a giudicare dagli infiniti certami che si svolgono ogni anno nel nostro paese, devono essere milioni. In base alla mia esperienza azzarderei la cifra di otto milioni. Non c’è Comune, circolo, associazione, quartiere, strada, condominio, ente benefico, fondazione, società sportiva, bocciofila, che rinunci a organizzare il suo concorso poetico. Più piccolo è l’ente promotore del concorso, più è vasto e multiforme il regolamento per la partecipazione. È sfaccettato per consentire a ogni categoria di partecipare. La divisione passa per fasce di età, corrispondenti ai cicli scolastici: asili nido, scuole materne, elementari, medie inferiori, medie superiori, università, dottorato. Nei concorsi legati alle pro-
fessioni primeggiano i medici (Umberto Veronesi era fiero di proclamarsi poeta), seguono gli avvocati, i commercialisti, i giudici, i cancellieri di tribunale, gli insegnanti di ogni ordine e grado, i presidi delle scuole, i custodi dei musei, gli stilisti, i pubblicitari, i bancari, gli addetti alle onoranze funebri, i giornalisti. (Per caso esiste un concorso per i soci della Migros? E se non c’è, cosa aspettiamo a promuoverlo?) Esistono concorsi per dipendenti delle poste, delle ferrovie, per poliziotti, carabinieri, guardie di finanza, guardie forestali, pompieri, ufficiali giudiziari, guardie carcerarie, necrofori. Ho chiesto in giro ma nessuno ha saputo dirmi se ne esiste uno per agenti segreti. Sono stato nella giuria di un concorso riservato ai detenuti e lì è nato un singolare quesito: una buona metà dei vincitori, nel frattempo, grazie a una delle tante amnistie, era uscita di prigione, perdendo la qualifica necessaria per partecipare al concorso. Che fare? Dopo una lunga discussione
si è deciso di premiare solo quelli ancora in galera, anche in considerazione del fatto che quelli usciti si erano affrettati a far perdere le loro tracce e pertanto sarebbe stato impossibile consegnare loro il premio. Tutto ciò sul versante dei produttori. Su quello del prodotto abbiamo infinite specializzazioni: concorsi per poesie scritte per fare cantare i bambini, le mogli, i nonni, le mamme, le domestiche, le zie, le maestre, gli animali domestici come cani, gatti, tartarughe, criceti, topolini, conigli, pettirossi, canarini. Sui pesci i concorsi sono più rari, prevalgono i pesci rossi e le trote. Fioriscono i premi per poesie ispirate da cose materiali, sovente finanziati da un marchio che quegli oggetti li produce: caffè, cioccolata, parmigiano reggiano, prosciutto cotto, mortadella. Non mi sorprenderebbe un concorso per poesie ispirate dalla brugola, sponsorizzato dall’Ikea. Provo una complice curiosità verso i rappresentanti di questo mondo di devoti al verso; provo tenerezza verso
queste persone miti, legate a un’idea retrò, devote al culto dell’opera stampata su carta, in un contesto dove chiunque può creare un suo profilo sui social e riversarci tutti i componimenti poetici che vuole. Non c’è ragione che tenga, solo la carta certifica che si è entrati nel magico mondo della poesia. In compenso i libri di poesia vendono poche copie perché i milioni di poeti si guardano bene dal comprarli e dal leggerli. Se gli chiedi perché, la risposta è: non voglio farmi influenzare. Accetto con piacere l’invito a far parte della giuria di un premio, anche se non ho mai scritto un solo verso in tutta la mia vita, in altre parole non sono mai andato a capo prima di completare una riga. Di recente ho fatto una scatto di carriera, assumendo la carica di Presidente di un premio di poesia organizzato da una cittadina alle porte di Torino. Ho preso il posto di un grande letterato, scomparso di recente, Giorgio Bàrberi Squarotti. Mi era stato garantito che avrei avuto come compito solo
quello di firmare i diplomi. Erano una montagna, non solo i vincitori, primo, secondo e terzo per ogni categoria ma anche le menzioni speciali, i segnalati per qualche motivo dalla giuria, gli incoraggiamenti, ecc. In pratica nessuno dei concorrenti è andato via senza il suo diploma. I poeti sono capaci di percorrere, a spese loro, migliaia di chilometri per venire a ritirare un diploma con una semplice menzione. Dobbiamo proteggerli, spiegare loro che devono diffidare di un concorso che chiede il versamento di una tassa di partecipazione. Ci sono concorsi organizzati al fine di raccogliere tutti gli elaborati pervenuti in un’antologia. Arriva l’avviso: l’opera sarà venduta al prezzo, diciamo, di 50 euro, ma chi la prenota avrà uno sconto, la pagherà 30. Possiamo essere certi che ogni poeta ne prenoterà almeno una copia e qualcuno molte di più da regalare a parenti e amici. Scommettiamo che l’editore stamperà solo il numero di copie prenotate?
presente. Per il futuro è più facile: non so nulla del futuro, e non ne sanno nulla gli oroscopi, i maghi, le streghe – personaggi molto vivi nella nostra società. Però posso se non prevedere, almeno immaginare il futuro, proprio grazie al passato. Se ho già mangiato un panino al salame, so che cosa proverò, mangiandolo stasera. Se ho già viaggiato in aereo, ricordando la paura dei vuoti d’aria, salirò sul mezzo col tremore di chi prevede qualche perturbazione atmosferica. È grazie ai ricordi, quindi, che posso percepire il presente e il futuro, perché la mia interiorità, l’anima come dice Agostino, si dilata, si «distende», catturando presente e futuro nella maglia dei ricordi, del passato. Ed eccomi alla prova dei fatti. Il presente si sgretola davanti a un passato che si allontana, un futuro che non c’è, qui, nella casa di famiglia. Sento l’odore di vecchio armadio, legno misto a umidità e salsedine, per me è un profumo. Riconosco tracce delle vite di
noi bambini, di figli e nipoti: una porta sventrata dallo skateboard, le tovaglie antiche con indelebili macchie di sugo, e poi tutte le porte che si aprono al contrario. I rumori, poi. Nell’ultima notte che trascorro in casa, come ultimo membro della famiglia, li sento tutti. Sono vecchi mobili che si assestano, muri che si posizionano meglio di giorno in giorno. Non mi fanno paura, solo nostalgia, perché mi domando quale nonno o avo si esprima tramite i cigolii e gli smottamenti che il silenzio della notte mi rende chiari e perspicui. Ma non sono questi suoni a turbarmi, di più possono gli odori, inconfondibili: come dicevo, legni antichi, cera per legno, vecchi ammennicoli marini, una boa, un salvagente, un corredo di cime e vele. Di più ancora possono i ricordi. Vedo mia madre, alle sette del mattino, parlare al telefono con papà: c’era la «teleselezione», parlarsi da una città all’altra costava meno prima delle sette e mezza del mattino. Poi la vedo
spazzare quel pavimento scuro, fatto di piastrelle povere in marmittone, anzi vedo la polvere che si solleva e diventa sabbia d’oro nei raggi di sole. La vedo poi andare dal fruttivendolo e dal macellaio lì vicino, appena aprono, alle otto, così da avere la merce più fresca. Noi bambini abbiamo l’ora dei compiti, il prezzo da pagare per andare poi in spiaggia, fare il bagno al mare, niente doccia perché il sale fa bene alla pelle – così dicevano le mamme. Un succo di frutta e alle dodici e trenta a casa, pranzo, sonnellino per i grandi, altro sport per i bambini. Mentre i traslocatori spostano i mobili, e quelli che nessuno userà vengono distrutti da un pesante martello, i ricordi, che non vorrei adesso avere presenti, si affollano, odori e visioni si affastellano. Non mi daranno, però, la chiara vista di un futuro, come dice sant’Agostino. Mi fanno solo capire che il passato è passato, e che nessuno potrà togliermi questa ricchezza. Il futuro sarà nuovo.
dolo con quello degli extracomunitari», fece notare l’europarlamentare Mario Borghezio, aggiungendo: «Le negre le ho provate quando sono stato in Africa, nello Zaire. Le katanghesi? Prodotto notevole. Mica come le bruttone nigeriane che battono da noi». L’ex consigliere comunale di Treviso Giorgio Bettio ha usato registri non troppo dissimili: «Rassista mi? Si figuri. Me la sono fatta con donne di tutti i colori. Anche con una gialla. E una nera. Quelli che non sopporto sono i delinquenti, i ladri, i travestiti, i finocchi, gli spacciatori. Già non li sopporto quando sono bianchi, si figuri negri». E ancora: «Occorre usare con gli immigrati lo stesso metodo delle SS: punirne dieci per ogni torto a un nostro cittadino». Già nel 2002 il sindaco di Treviso Giancarlo Gentilini tuonava: «La nostra civiltà è superiore a quella del deserto (...). Gli immigrati annacquano la nostra civiltà, gli stranieri rovinano la razza Piave», dunque per rimpatriarli, aggiunse, «sono disposto a tornare ai vagoni piombati». «Cosa fare degli immigrati? Peccato che il forno
crematorio del cimitero di Santa Bona non sia ancora pronto», esclamò l’allora senatore Piergiorgio Stiffoni, espulso poi dal Carroccio ma «solo» per una questione di ammanchi di cassa. Last but not least, Attilio Fontana, candidato per la presidenza della Regione Lombardia in piena campagna elettorale, nel gennaio scorso, pronunciò questo discorso: «Dobbiamo decidere se la nostra etnia, se la nostra razza bianca, se la nostra società devono continuare a esistere o se la nostra società deve essere cancellata». Difesa della razza (bianca). Di fronte alle reazioni, il candidato governatore si scusò riconoscendo le sue frasi «inopportune», un «lapsus», infine sottolineò che comunque quell’espressione gli aveva fatto guadagnare consensi. Si potrebbe continuare, ma lo spazio non consente di completare la lista delle violenze verbali pronunciate da politici («imprenditori della paura») con il sorriso sulle labbra e le conseguenti fiacchissime scuse formali. Gli «imprenditori della paura» hanno fatto crollare la diga morale che impe-
diva di pronunciare certe sconcezze vergognose. Autorizzando chiunque e ripeterle. Nei giorni delle offese alla ministra Kyenge, i lettori commentavano: «Questa negra diventa sempre più insopportabile»; «Che gnocca!!! Ma non le hanno ancora proposto di fare un calendario?»; «Negra ex clandestina…»; «Chienge, ma quante banane al giorno ci costa?»; «Ma come si permette questa beduina?». Se questo non è razzismo, come possiamo chiamarlo? In più, di recente qualcuno ha deciso di passare alle vie di fatto. Per chi non volesse minimizzare, consiglio alcuni libri sull’argomento (voto complessivo 6 di solidarietà): Luigi Manconi e Federica Resta, Non sono razzista, ma (Feltrinelli); Ezio Mauro, L’uomo bianco (Feltrinelli); Contro il razzismo. Quattro ragionamenti, a cura di Marco Aime (Einaudi); Stefano Allievi e Gianpiero Della Zuanna, Tutto quello che non vi hanno mai detto sull’immigrazione (Laterza); Stefano Allievi, 5 cose che tutti dovremmo sapere sull’immigrazione (e una da fare) (Laterza, 3 euro ben spesi).
Postille filosofiche di Maria Bettetini Il passato è passato Non è stata la prima casa che abbandonavo, non il primo trasloco di mobili e oggetti. Ma che tempesta l’abbandono e la chiusura della villetta dei trisnonni, peraltro venduta a un ottimo vicino che ne avrà buona cura. Il primo malessere l’ho avvertito qualche mese fa, quando una coppia è venuta a vederla: li ho accolti, ho mostrato la casa, mi sembrava di essere una guida turistica, era quasi divertente. Poi loro se ne sono andati e a me sono mancate le forze: ma che cosa sto facendo? Che cosa sto svendendo? Ho ripensato al senso del tempo delle Confessioni di Agostino di Ippona. Se nessuno me lo chiede, io so che cosa è il tempo, ma se mi chiedi di spiegartelo, non so che cosa dire, questo l’esordio della riflessione, una disarmante resa, non so che cosa sia il tempo. Poi, come un crescendo, la ripresa del tema della memoria, quella sorta di contenitore che raccoglie i ricordi e li ordina, come neanche i magazzini di Amazon. Op-
pure come un accampamento militare, dove ogni soldato è al posto che gli spetta, dorme nella tenda adeguata al generale, al centurione, al soldato semplice. Ognuno di noi possiede quindi un «luogo» dove stipare, secondo un determinato ordine, i ricordi che attimo dopo attimo pungolano la nostra mente. Questa la via per comprendere che cosa sia il tempo: la memoria, i ricordi. Infatti, come dire qualcosa del presente, che appena definito come presente diventa passato? Proprio perché l’istante subito trascorre. E del futuro, di cui non sappiamo nulla, perché ancora non è, non abbiamo percezione. La soluzione è nella memoria: ricordando, conosco il passato, ma riesco anche a catturare il presente e presagire il futuro. No, anzi, il presente continua a sfuggire, nessuno potrà mai cogliere l’attimo che fugge, ma un’idea posso farmela, perché grazie alla velocità con cui si trasforma da presente in passato, mi permette di ricordare il
Voti d’aria di Paolo Di Stefano Se non è razzismo, cos’è? L’angoscia da cui sono abitati molti cittadini europei non allineati con le posizioni montanti cosiddette «sovraniste» è tutt’altro che ingiustificata, nonostante i ripetuti tentativi di minimizzare. Nuovo fascismo? Macché. Razzismo? Non scherziamo. Limitandosi al caso italiano, basterebbe un po’ di cronologia per avvertire la serietà dell’allarme. La cronologia del razzismo ha conosciuto, negli ultimi cinque anni, tappe di inequivocabile aggressività verbale cadute ormai nell’oblio. Elencarle anche senza commento fa impressione. Giugno 2013. Dolores Valandro, ex consigliera di un quartiere di Padova in un post su Facebook, riferendosi alla ministra dell’Integrazione Cécile Kyenge, aveva scritto: «mai nessuno che se la stupri...». Una frase «detta in un momento di rabbia» si difese la Valandro. Il 13 luglio 2013. Roberto Calderoli, allora vice presidente del Senato, disse queste testuali parole sempre alludendo alla stessa Kyenge: «Io sono anche un amante degli animali per l’amore del cielo, amo gli animali, com’è noto, orsi
e lupi, le scimmie e tutto il resto. Però quando vedo uscire delle sembianze di un orango, resto ancora sconvolto». Saltato fuori il polverone del momento, Calderoli precisò che non voleva certo offendere, si trattava solo di «una battuta di simpatia, niente di particolare». Gennaio 2015. A Parma il consigliere regionale Fabio Rainieri, vicepresidente dell’assemblea legislativa emilianoromagnola, pubblicò su Facebook una foto della stessa ministra Kyenge ritoccata in modo da farla apparire una scimmia. Questo tipo di dichiarazioni, che nell’occasione si erano concentrate sul colore della pelle di una ministra, ha una lunga storia che sul «Corriere della Sera» Gianantonio Stella ha ben illustrato con numerosi esempi a partire dalle parole violente di Umberto Bossi e dell’ideologo Gianfranco Miglio, che un giorno si mostrò perplesso di fronte a certi concittadini troppo «buonisti»: «C’è chi sostiene che per non esser razzisti bisognerebbe anche abbracciare le scimmie». «L’Ulivo ha cessato di imbastardire il nostro sangue infettan-
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 dicembre 2018 • N. 50
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Idee e acquisti per la settimana
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shopping
Sinfonia di formaggi nostrani Attualità Le originali prelibatezze elaborate dalla Best Gourmet di Gravesano
in collaborazione con tre produttori ticinesi conquistano il palato dei buongustai in cerca di qualcosa di esclusivo. Un’idea per la tavola festiva disponibile per un breve periodo 1. La Formaggella alle Castagne è realizzata con la delicata formaggella prodotta in Valle di Blenio dal Caseificio del Sole di Aquila, conosciuta anche con il nome in dialetto locale «Ra Crénga dra Vâll da Brégn». La farcitura è invece composta da formaggio fresco vaccino della Fattoria del Faggio di Sonvico e crema di castagne, prodotta con il contributo degli utenti della Fondazione La Fonte. Grazie al suo sapore leggermente dolce, si può gustare sia come complemento di un vassoio di formaggi assortiti per l’aperitivo, sia come dessert. Togliere dal frigo 10 minuti prima di gustarla.
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3. Un connubio sempre azzeccato, quello tra formaggio fresco e peperoncino. I Formaggini Freschi al Peperoncino sott’olio sono un’autentica raffinatezza a chilometro zero che arricchisce ogni buffet festivo di gusto e originalità. Anche qui troviamo solo ingredienti della nostra regione, nella fattispecie formaggini della Fattoria ai Naravazz di Torricella e peperoncino del Malcantone coltivato da Raffaele Gianola. Un vero must per tutti gli amanti dei sapori autentici.
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Azione 20%
2. Una formaggella dalla leggera nota piccante, ideale da gustare come aperitivo per ingolosire gli ospiti, è la Formaggella ai Cachi, anch’essa preparata dalla Best Gourmet con ingredienti rigorosamente di origine ticinese. Il cremoso formaggio a pasta molle di latte di mucca è del Caseificio del Sole, quello fresco della farcitura della Fattoria del Faggio, mentre la confettura ai cachi e zenzero viene prodotta nelle strutture protette della Fondazione Diamante. Una vera delizia che valorizza ulteriormente alcune prelibatezze del nostro territorio.
Pregiati sapori
sul Foie Gras Delpeyrat in blocco da 320 g Fr. 33.– invece di 41.50 dall’11 al 17 dicembre Tra i piatti più prestigiosi e ricchi di tradizione della cucina francese, il foie gras gioca un ruolo di primo piano. Questa pietanza, dal gusto delicato e raffinato, è per molti il simbolo delle occasioni speciali e non può mancare sulla tavola di Natale e Capodanno. Il foie gras si gusta in tutta la sua finezza semplicemente appoggiato su crostini pane grigliato, ma può essere anche scottato brevemente in padella e lasciato fondere sulla carne.
Migros Ticino attualmente propone una vasta selezione di foie gras artigianale di produzione francese per ogni gusto ed esigenza, prelibatezze ideali per la preparazione di antipasti d’effetto oppure da spadellare leggermente per ottenere secondi sopraffini. Infine, non bisogna dimenticare alcuni accompagnamenti tipici del foie gras come pane baguette briochée, pane speciale speziato e marmellate di fichi e cipolle.
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Idee e acquisti per la settimana
Cerchi il regalo di Natale perfetto? Novità Ordinalo comodamente attraverso
uno dei nostri nuovi terminali tattili presenti nelle filiali di Biasca, Arbedo-Castione e Grancia
Quattro negozi specializzati e oltre 100’000 prodotti da ordinare a disposizione: grazie ai nuovi terminali di facile utilizzo allestiti nelle filiali di Biasca, Arbedo-Castione e Grancia, avrai un pratico e veloce accesso al mondo Migros in un solo clic. «Con questo servizio desideriamo offrire alla clientela un nuovo modo per acquistare articoli dai nostri negozi specializzati SportXX, Melectronics, Micasa e Do it + Garden», spiega Stefano Scricciolo, responsabile del progetto per Migros Ticino. «I vantaggi sono diversi: i prodotti, giocattoli compresi, possono essere or-
dinati in maniera semplice e sicura sui terminali tattili direttamente nella propria filiale e in caso di bisogno i nostri collaboratori sono a disposizione per assistere la clientela sul posto. Si risparmia tempo dato che non bisogna più recarsi appositamente nel negozio specializzato e, non da ultimo, coloro non troppo avvezzi all’utilizzo delle carte di credito possono pagare con comodità alla cassa della filiale, così come avviene con la spesa di tutti i giorni». Infine, una volta effettuato l’ordine, si può scegliere se farsi consegnare la merce nella filiale stessa oppure a casa.
Bellissime per le feste
Essere eleganti e chic in occasione delle festività di fine anno non è mai stato così facile. La collaborazione con la truccatrice professionista Alessandra Corini, grazie a un servizio di consulenza make-up personalizzato e vantaggioso, ti aiuterà a valorizzare al meglio il tuo aspetto. Alessandra ti accompagnerà all’interno del reparto beauty
Migros e ti consiglierà i prodotti più adatti alla forma del tuo viso e alla tua personalità, per avere un trucco perfetto a Natale e in ogni altra occasione. Il servizio è proposto nelle maggiori filiali Migros al prezzo speciale di CHF 75.– e include una consulenza e una dimostrazione di trucco. Per fissare un appuntamento puoi rivolgerti diretta-
mente ad Alessandra Corini, ai seguenti contatti: cell. 079 298 86 32; Facebook: ACmakeupshopper; Instagram: acmakeupshopper. Infine, Alessandra sarà a disposizione della clientela in data 15.12, presso la filiale di Lugano Centro, dalle ore 10.00 alle 17.00, per una breve consulenza e guida all’acquisto personalizzata e gratuita.
Il Coca-Cola Truck al Centro Migros di Agno
Sabato 15 dicembre il leggendario camion rosso di Natale della Coca-Cola si fermerà anche in Ticino, più precisamente sul piazzale del Centro Migros di Agno. Corri a incontrare e conoscere Babbo Natale, dalle ore 11.00 alle 17.00, e scatta delle bellissime foto insieme a lui da conservare come ricordo e mostrare agli amici. Inoltre potrai anche farti personalizzare
una bottiglietta di Coca-Cola con il tuo nome da collezionare. Alcune curiosità sul camion firmato Coca-Cola: si tratta di un modello Kenworth 900W «Simply the Best», fabbricato negli Stati Uniti nel 1991. Il suo peso è di 33 tonnellate, ha una potenza di 445 cavalli e finora ha percorso qualcosa come un milione di miglia.
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Idee e acquisti per la settimana
Incontro con l’autrice
La scrittrice ticinese Chiara Pelossi Angelucci.
Attualità La scrittrice Chiara Pelossi
Angelucci ospite sabato 15 dicembre al reparto libri Migros di S. Antonino
Questo sabato, dalle ore 14.00 alle 16.00, Chiara Pelossi Angelucci presenterà, al Centro S. Antonino, il suo nuovo libro giallo pubblicato in novembre dalla Gabriele Capelli Editore, e sarà a disposizione del pubblico per firmare gli autografi. Un’improbabile cacciatrice d’indizi – Lettere misteriose è il quinto romanzo della scrittrice locarnese che qualche anno fa, si è fatta conoscere con i due libri di grande successo intitolati Di pancia, di cuore… da ridere. Il nuovo divertentissimo racconto parla di un’ultra trentenne un po’ sconclusionata alle prese con un’agenzia d’investigazioni. Tra un’indagine e l’altra la protagonista avrà modo di confrontarsi con realtà finora a lei sconosciute, ma che l’aiuteranno a crescere sia a livello professionale sia emotivamente. Insomma, una storia articolata con sapienza, ricca di umorismo, che non mancherà certo di coinvolgere ogni lettore.
Concorso 5 libri in palio Migros Ticino offre ai lettori di «Azione» 5 copie del libro Un’improbabile cacciatrice d’indizi di Chiara Pelossi Angelucci. Per partecipare al concorso occorre telefonare giovedì 13 dicembre dalle ore 10.30 al numero 091 850 82 76. La partecipazione è riservata a chi non ha beneficiato di vincite in analoghi concorsi promossi da «Azione» negli scorsi mesi. Buona Fortuna!
Dalla Bottega Balocco Il panettone
Jowa appena sfornato
Quest’anno trovate sugli scaffali due prodotti simbolo del periodo natalizio, firmati Bottega Balocco, il marchio creato per celebrare il ricco patrimonio di storia ed esperienza nell’arte dolciaria della famiglia Balocco. Una gamma di panettoni incartati a mano realizzati con latte fresco italiano, lievito madre, uova italiane da galline allevate a terra e con l’esclusiva frutta candita Agrimontana. Proponiamo due prodotti simboli del Natale, rivisitati in chiave originale e
moderna. Il Panettone Zenzero, Lime e Cioccolato Bianco che regala un sapore intenso e raffinato grazie al perfetto binomio tra la speziata radice e il delicato cioccolato bianco, sapientemente miscelati nell’impasto. Nonché il Panettone Amarena e Cioccolato, dove l’intensità del cioccolato fondente incontra la dolcezza delle amarene delicatamente candite e che si fondono nell’impasto. Scoprite le esclusive bontà di Bottega Balocco.
Panettone Zenzero Limone e Cioccolato Bianco 800 g Fr. 14.90 Panettone Amarena e cioccolato 800 g Fr. 14.90
Chi non sa proprio resistere al buon profumo del panettone appena uscito dal forno, allora deve venirci a trovare al supermercato Migros di S. Antonino, giovedì 13 e sabato 22 dicembre. Qui infatti, a partire dalle ore 15.00, si potrà acquistare l’apprezzato panettone Jowa preparato e cotto poche ore prima
dagli abili panettieri-pasticceri attivi all’interno della pasticceria della casa. Il panettone della Jowa viene prodotto con ingredienti di prima scelta e lasciato lievitare ben 48 ore. Il suo caratteristico aroma intenso e l’alta digeribilità deliziano il palato di ogni buongustaio. Vi aspettiamo!
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In vendita nelle maggiori filiali Migros. Da questa offerta sono esclusi gli articoli già ridotti e i cesti regalo Sélection. OFFERTA VALIDA SOLO DAL 4.12 AL 17.12.2018, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK
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Idee e acquisti per la settimana
Frey
Regali di «Prestige» Le deliziose creazioni di cioccolatini sono da sempre tra i regali più apprezzati del periodo natalizio. E siccome alla Chocolat Frey l’artigianalità è di casa, ognuno troverà i propri cioccolatini preferiti: le Pralinés Prestige per chi ama l’assortimento classico, Prestige Edition d’Or con decorazione dorata per chi cerca qualcosa di particolare, Pralinés Prestige Noir per i fan del cioccolato scuro e le nuove Créations Exquises dedicate ai più golosoni. Quest’ultime contengono le cinque varietà preferite dalla clientela.
*Azione 20% su tutte le Frey Pralinés «Prestige» dall’11 al 17 dicembre
Frey Pralinés Prestige 500 g Fr. 21.20* invece di 26.50
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Foto Yves Roth; Styling Miriam Vieli-Goll
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 dicembre 2018 • N. 50
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 dicembre 2018 • N. 50
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Idee e acquisti per la settimana
TerraSuisse
Il meglio per le feste A Natale si serve volentieri un buon pezzo di carne di manzo. È richiesta un’elevata qualità: TerraSuisse è sinonimo di prodotti provenienti da agricoltura svizzera sostenibile. Gabriele Gatti, capo macellaio alla Migros di S. Antonino, ci svela come ottenere un’entrecôte perfetta Foto e Styling Ruth Küng, Ricetta Margaretha Junker, Testo Claudia Schmidt/I.Leoni Gabriele Gatti è capo macellaio presso la Migros di S. Antonino.
Parola d’esperto
«La carne è molto saporita»
Ricetta
Entrecôte con cavolfiore all’arancia Ingredienti per 4 persone 4 entrecôte di ca. 180 g ciascuna 3 cucchiai d’olio di colza HOLL sale 1 arancia 1 cucchiaino di miele 2 cucchiai di semi misti, ad es. di zucca e di girasole 760 g di riso di cavolfiore surgelato 60 g di chicchi di melagrana pepe ai fiori germogli, a piacimento Preparazione 1. Scaldate il forno a 80 °C insieme con una placca da forno. Rosolate le entrecôte in un po’ d’olio 3 minuti per lato. Salatele, accomodatele sulla placca da forno calda e continuate la cottura al centro del forno per 15-20 minuti. Con un rigalimoni prelevate delle striscioline dalla scorza dell’arancia e mettetele da parte. Tagliate l’arancia a fette e rosolatela in poco olio da entrambi i lati. Irrorate con il miele e accomodate le fette d’arancia nella teglia con le entrecôte. 2. Tritate grossolanamente i semi misti e tostateli in una padella nell’olio rimasto. Unite il cavolfiore e rosolatelo per ca. 5 minuti. Aggiungete i chicchi di melagrana e la scorza d’arancia, condite con il pepe ai fiori. Servite le entrecôte nei piatti con le fette d’arancia. A piacere, decorate con germogli. Tempo di preparazione ca. 20 min + cottura 15-20 min. Per persona ca. 46 g proteine, 18 g grassi, 27 g carboidrati, 1950 k J/470 kcal.
Sminuzzato di manzo TerraSuisse per 100 g prezzo del giorno
Arrosto di manzo TerraSuisse per 100 g prezzo del giorno
Bistecca di manzo TerraSuisse per 100 g prezzo del giorno
Fettine di manzo TerraSuisse per 100 g prezzo del giorno
Entrecôte di manzo TerraSuisse per 100 g prezzo del giorno
Gli animali vengono allevati in gruppo e con libertà di movimento in aziende agricole IP-Suisse rispettose delle specie.
L’impegno Migros a favore della sostenibilità è da generazioni in anticipo sui tempi.
Cosa desiderano più frequentemente i suoi clienti per Natale? La fondue chinoise è molto richiesta, un classico che non richiede troppo impegno. E naturalmente anche tagli nobili, come l’entrecôte o il filetto. Ha un suggerimento per la preparazione di un’entrecôte? Il grasso non va assolutamente tolto prima della cottura. Cuocendolo assieme alla carne si crea una bella crosta e la carne diventa più gustosa e morbida. I clienti sono attenti alle provenienze anche nel periodo natalizio? Sempre. Per molti clienti l’origine svizzera è un criterio assolutamente basilare. TerraSuisse è sinonimo di carne svizzera di prima qualità. Che effetto ha sulla qualità della carne un allevamento rispettoso degli animali e dell’ambiente? La carne risulta particolarmente saporita e tenera. E cosa ci sarà sulla sua tavola festiva? Non è ancora deciso. Probabilmente un bel roast beef cotto al punto giusto, qualcosa di affumicato, per esempio un prosciuttino con i fagiolini, oppure un filetto di manzo in crosta.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 dicembre 2018 • N. 50
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 dicembre 2018 • N. 50
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Idee e acquisti per la settimana
TerraSuisse
Il meglio per le feste A Natale si serve volentieri un buon pezzo di carne di manzo. È richiesta un’elevata qualità: TerraSuisse è sinonimo di prodotti provenienti da agricoltura svizzera sostenibile. Gabriele Gatti, capo macellaio alla Migros di S. Antonino, ci svela come ottenere un’entrecôte perfetta Foto e Styling Ruth Küng, Ricetta Margaretha Junker, Testo Claudia Schmidt/I.Leoni Gabriele Gatti è capo macellaio presso la Migros di S. Antonino.
Parola d’esperto
«La carne è molto saporita»
Ricetta
Entrecôte con cavolfiore all’arancia Ingredienti per 4 persone 4 entrecôte di ca. 180 g ciascuna 3 cucchiai d’olio di colza HOLL sale 1 arancia 1 cucchiaino di miele 2 cucchiai di semi misti, ad es. di zucca e di girasole 760 g di riso di cavolfiore surgelato 60 g di chicchi di melagrana pepe ai fiori germogli, a piacimento Preparazione 1. Scaldate il forno a 80 °C insieme con una placca da forno. Rosolate le entrecôte in un po’ d’olio 3 minuti per lato. Salatele, accomodatele sulla placca da forno calda e continuate la cottura al centro del forno per 15-20 minuti. Con un rigalimoni prelevate delle striscioline dalla scorza dell’arancia e mettetele da parte. Tagliate l’arancia a fette e rosolatela in poco olio da entrambi i lati. Irrorate con il miele e accomodate le fette d’arancia nella teglia con le entrecôte. 2. Tritate grossolanamente i semi misti e tostateli in una padella nell’olio rimasto. Unite il cavolfiore e rosolatelo per ca. 5 minuti. Aggiungete i chicchi di melagrana e la scorza d’arancia, condite con il pepe ai fiori. Servite le entrecôte nei piatti con le fette d’arancia. A piacere, decorate con germogli. Tempo di preparazione ca. 20 min + cottura 15-20 min. Per persona ca. 46 g proteine, 18 g grassi, 27 g carboidrati, 1950 k J/470 kcal.
Sminuzzato di manzo TerraSuisse per 100 g prezzo del giorno
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Entrecôte di manzo TerraSuisse per 100 g prezzo del giorno
Gli animali vengono allevati in gruppo e con libertà di movimento in aziende agricole IP-Suisse rispettose delle specie.
L’impegno Migros a favore della sostenibilità è da generazioni in anticipo sui tempi.
Cosa desiderano più frequentemente i suoi clienti per Natale? La fondue chinoise è molto richiesta, un classico che non richiede troppo impegno. E naturalmente anche tagli nobili, come l’entrecôte o il filetto. Ha un suggerimento per la preparazione di un’entrecôte? Il grasso non va assolutamente tolto prima della cottura. Cuocendolo assieme alla carne si crea una bella crosta e la carne diventa più gustosa e morbida. I clienti sono attenti alle provenienze anche nel periodo natalizio? Sempre. Per molti clienti l’origine svizzera è un criterio assolutamente basilare. TerraSuisse è sinonimo di carne svizzera di prima qualità. Che effetto ha sulla qualità della carne un allevamento rispettoso degli animali e dell’ambiente? La carne risulta particolarmente saporita e tenera. E cosa ci sarà sulla sua tavola festiva? Non è ancora deciso. Probabilmente un bel roast beef cotto al punto giusto, qualcosa di affumicato, per esempio un prosciuttino con i fagiolini, oppure un filetto di manzo in crosta.
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Prosciuttino dalla noce affumicato e prosciuttino dalla noce Quick affumicato e cotto TerraSuisse Svizzera, per es. prosciuttino dalla noce affumicato, per 100 g
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CONSIGLIO
Ideali per le feste: tartellette al forno ripiene di salmone affumicato, verdure e farcia piccante a base di ricotta, quark e limone. Trovate la ricetta su migusto.ch/consigli
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12.40 invece di 20.70 Salmone selvatico Sockeye MSC in conf. speciale pesca, Pacifico nordorientale, 280 g
20% Pesce fresco bio orata, salmone e spigola, per es. filetto di salmone con pelle, d’allevamento, Norvegia, per 100 g, 4.30 invece di 5.40
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2.80 invece di 3.50 Arrosto spalla di manzo TerraSuisse Svizzera, imballato, per 100 g
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2.20 invece di 3.20 Prosciutto cotto TerraSuisse in conf. da 2 per 100 g
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33%
12.50 invece di 19.20 Prosciutto crudo di Parma Ferrarini Italia, affettato in vaschetta da 2 x 90 g / 180 g
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3.35 invece di 4.20 Spezzatino di vitello TerraSuisse Svizzera, imballato, per 100 g
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3.55 invece di 5.10 Salame al Merlot Nostrano prodotto in Ticino, pezzo da ca. 400 g, per 100 g
25%
2.60 invece di 3.50 Fettine di pollo «À la minute» Optigal Svizzera, imballate, per 100 g
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33.– invece di 41.50 Foie gras Delpeyrat Francia, in blocco da 320 g
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20%
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5.60 invece di 7.–
2.90 invece di 4.90 Cachi Persimon Spagna, al kg
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1.80 invece di 2.30 Datteri USA, per 100 g
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14.90 invece di 19.90 Tutte le rose Fairtrade disponibili in diversi colori, per es. rosse, lunghezza dello stelo 60 cm, mazzo, 7 pezzi
45%
2.60 invece di 4.90 Arance bionde Spagna, rete da 2 kg
20%
1.55 invece di 1.95 Mozzarella Galbani in conf. da 150 g
Migros Ticino OFFERTE VALIDE SOLO DALL’11.12 AL 17.12.2018, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK
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3.20
Kiwi Italia, in conf. da 500 g
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1.80 invece di 2.25 Grana Padano DOP grattugiato in conf. da 120 g
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6.90
Minestrone alla ticinese Svizzera, imballato, al kg
40%
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2.50 invece di 4.20
–.95 invece di 1.80
Finocchio Italia, al kg
30%
2.90 invece di 4.20 Cavolfiori Italia/Spagna, sciolti, al kg
Insalata iceberg Spagna, il pezzo
35% Tutto l’assortimento di zuppe Dimmidisì per es. Minestrone di Verdure, 620 g, 3.20 invece di 5.–
25%
2.25 invece di 3.05 Gnocchi Di Lella in conf. da 500 g
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17.85 invece di 25.50
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Latte intero Valflora UHT in conf. da 12 12 x 1 l
conf. da 2
20% Fondue Swiss-Style moitié-moitié e Tradition per es. moitié-moitié in conf. da 2, 2 x 800 g, 22.40 invece di 28.–
conf. da 2
20%
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9.25 invece di 11.60
1.75 invece di 2.20
Rosette di formaggio Tête de Moine in conf. da 2 2 x 120 g
Tutte le millefoglie, 2 pezzi per es. rosa, 157 g
30% Tutti i tipi di olio e di aceto M-Classic per es. olio di girasole, 1 l, 2.70 invece di 3.90
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Tutte le salse per fondue Gourmet in vasetto a partire da 2 pezzi, 20% di riduzione
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20%
11.90 invece di 14.90 Piatto di snack Asia, ASC 640 g
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40% Tortelloni M-Classic in conf. da 2 per es. tricolore, 2 x 500 g, 7.– invece di 11.80
OFFERTE VALIDE SOLO DALL’11.12 AL 17.12.2018, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK
– .5 0
di riduzione Tutti i tipi di pane fresco bio per es. Twister chiaro cotto su pietra , 360 g, 2.80 invece di 3.30
40%
5.30 invece di 8.85 Sugo di pomodoro al basilico Agnesi in conf. da 3 3 x 400 g
Hit
2.05
Spaghetti, pennette o tortiglioni Agnesi 500 g + 250 g gratis, 750 g, per es. tortiglioni
conf. da 2
20% Maionese, Thomynaise e senape dolce Thomy in conf. da 2 per es. maionese à la française, 2 x 280 g, 4.– invece di 5.–
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33% Caffè Caruso Oro, in chicchi e macinato, in conf. da 3, UTZ per es. macinato, 3 x 500 g, 19.45 invece di 29.10
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9.20 invece di 13.20 Gratin Dauphinois in conf. da 3 3 x 750 g
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50% Tutti i tipi di Pepsi e Schwip Schwap in conf. da 6 x 1,5 l per es. Pepsi Max, 5.50 invece di 11.–
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Gran Pavesi in confezioni speciali per es. cracker salati, 560 g
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Tutte le miscele per dolci, tutti i Cup Lovers e tutti i dessert in polvere per es. miscela per brownies, 490 g, 4.85 invece di 6.10
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Aiutarsi l’un l’altro. Donare insieme. Aiutare con il cioccolato solidale della Migros.
In Svizzera sono molte le persone lasciate da sole ad affrontare i propri problemi sociali o finanziari. Con la tua donazione puoi aiutare a migliorare in modo duraturo le condizioni di vita di queste persone. Ecco come puoi dare il tuo contributo: fino al 24.12. 2018 puoi acquistare il cioccolato solidale del valore di fr. 5.–, 10.– o 15.– nella tua filiale Migros. Il ricavato sarà interamente devoluto e la Migros aumenterà l’importo donato versando fr. 1.– per ogni tavoletta venduta. Il 100% delle donazioni verrà offerto ai seguenti enti assistenziali:
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Idee e acquisti per la settimana
Potz
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Potz Xpert Calc Vitesse 1000 ml Fr. 6.50 Nelle maggiori filiali
Per la cucina e il bagno: Potz Xpert Calc Vitesse decalcifica in modo particolarmente efficace e veloce.
Illustrazione Pia Bublies
Potz Calc 1000 ml Fr. 5.50
M-Industria crea numerosi prodotti Migros, tra cui anche i decalcificanti Potz.
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Idee e acquisti per la settimana
Consigli regalo
È facile fare regali Idee regalo
L’assortimento Migros offre un’ampia scelta di giocattoli e abbigliamento per bambini. Per far brillare gli occhi dalla meraviglia ai piccoli, ecco alcuni suggerimenti.
Belle strenne da distribuire Chi ancora è alla ricerca di un regalo di Natale adatto per i bambini, lo troverà sicuramente alla Migros. L’assortimento offre una scelta molto ampia di giochi e numerosi accessori per il più piccoli
Far contenti i più piccoli In genere è facile fare regali ai bebè. A questa età per loro risultano particolarmente interessanti i libri con illustrazioni in differenti materiali, come il «primo libro illustrato per bebè» di Milette o il robusto trenino Eichhorn prodotto con legno certificato FSC.
Testo Thomas Tobler
Regalare insieme Tanti giocattoli nuovi in una sola volta possono anche essere troppo per i bambini. È perciò una buona idea se i genitori scelgono il giocattolo principale e la zia o lo zio regalano invece qualcosa da accompagnare. Se il regalo è per esempio una bambola, si può abbinare un vestito o la vaschetta per il bagno.
Completo per neonato* Fr. 29.–
Monopoly montagne svizzere* Fr. 59.90
Giochi per la famiglia I giochi di società per la famiglia sono un passatempo ideale con un alto fattore di divertimento, in particolare durante le vacanze natalizie. Con il Monopoly, per esempio, il tempo passa in un baleno.
Baby set Lissi con seggiolino per auto* Fr. 29.90
Drone Aura* Fr. 89.90
I giocattoli per i bambini più grandi possono essere costosi. In questo caso possono partecipare diversi membri della famiglia, così da fare un regalo collettivo particolare, come l’auto da rally della Lego Technic o il drone Aura.
Milette Babys il mio primo libro Fr. 13.50
Hit Pigiama per bambino* Fr. 14.90
Treno in legno FSC Eichhorn* Fr. 39.90 *Nelle maggiori filiali
Illustrazione Getty Images
Lego Technic 42077 auto da rally* Fr. 129.–
Molte altre idee regalo disponibili su: www.famigros.ch
I giocattoli sono disponibili anche online su melectronics.ch/giocattoli
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Belle strenne da distribuire Chi ancora è alla ricerca di un regalo di Natale adatto per i bambini, lo troverà sicuramente alla Migros. L’assortimento offre una scelta molto ampia di giochi e numerosi accessori per il più piccoli
Far contenti i più piccoli In genere è facile fare regali ai bebè. A questa età per loro risultano particolarmente interessanti i libri con illustrazioni in differenti materiali, come il «primo libro illustrato per bebè» di Milette o il robusto trenino Eichhorn prodotto con legno certificato FSC.
Testo Thomas Tobler
Regalare insieme Tanti giocattoli nuovi in una sola volta possono anche essere troppo per i bambini. È perciò una buona idea se i genitori scelgono il giocattolo principale e la zia o lo zio regalano invece qualcosa da accompagnare. Se il regalo è per esempio una bambola, si può abbinare un vestito o la vaschetta per il bagno.
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Prodotti selezionati per il tuo banchetto natalizio.
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Tutti i gamberetti prodotti surgelati (Alnatura esclusi), a partire da 2 pezzi, 40% di riduzione
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Idee e acquisti per la settimana
Manella
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Idee e acquisti per la settimana
Esthetic
Wellness nordico Guardare, provare, sentire i profumi e rilassarsi secondo le modalità nordiche: è ciò che si ottiene con i prodotti della linea per la cura del corpo Esthetic. Il loro segreto? L’ispirazione alla calma, alla forza e alla natura del nord. Con il loro profumo di acqua di betulla e fiori d’arancio trasformano il bagno di casa in un’oasi di benessere nordico. Anche le confezioni sono gradevoli grazie al loro design semplice ed estetico. L’ideale per fare qualcosa di piacevole per sé e per gli altri.
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