Cooperativa Migros Ticino
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXI 24 dicembre 2018
Azione 52 Società e Territorio Una generazione di squali: in un libro il ritratto dei ragazzi del nuovo Millennio
pagina 4
Ambiente e Benessere Un reportage dal paese di Stille Nacht, là dove è nato il celebre canto natalizio
pagina 12
Politica e Economia L’ultimo Natale europeo degli inglesi divorati da una isteria collettiva
pagina 19
Cultura e Spettacoli Marcello il bello e la sua incredibile storia in mostra all’Ara Pacis di Roma
Pinacoteca Zuest – Ely Riva
ping 3-34 p o h M s agine 3 alle p
L’editore e la redazione di «Azione» augurano
Buon Natale
alle lettrici e ai lettori, alle socie e ai soci della Cooperativa Migros Ticino pagina 25
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 dicembre 2018 • N. 52
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 dicembre 2018 • N. 52
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Speciale Natale
Speciale Natale
Natale 1918
Natale non è una fiaba
e la propria famiglia la notte della Vigilia di cento anni fa
frate cappuccino: è il cappellano del Penitenziario cantonale e assistente religioso e spirituale dei malati terminali
Racconto I ricordi di un soldato italiano, prigioniero di guerra, che raggiungeva il proprio paese
Intervista Nell’imminenza del Natale incontro al Convento del Bigorio con il guardiano Fra Michele Ravetta,
Fabio Dozio
Prigionieri italiani durante la Prima Guerra mondiale. (Marka)
Nino Piccione* L’amore che vince la morte: questo rappresentò il Natale per mio padre. E così lo visse sempre. La morte l’aveva sfiorato tante volte in guerra, la prima grande guerra: per mesi al fronte, con gli assalti alle trincee nemiche e il fuoco che mieteva vittime, ragazzi come lui, la carne dilaniata, le membra contorte e gli occhi dilatati dalla fine violenta fissi al cielo o la faccia in giù sporca di fango e di sangue, le braccia spalancate come in croce, inerti. Poi la prigionia, la fame, il lavoro duro, le angherie, ma soprattutto la nostalgia per la sposa giovanissima, uno spasimo che lo rodeva dentro più della fame, più dei patimenti. La fine della guerra lo trovò a Leopoli dove assistette al divampare della rivoluzione russa: esplosioni di furore, scontri sanguinosi, con uomini, donne e anche bambini armati e drappelli tumultuanti con bandiere color sangue in testa e strade sparse di cadaveri. Il treno dei prigionieri italiani, ormai liberi, procedeva lentamente sbuffando e annaspando sulle salite e lasciava deserti di rovine. Ma la rovina era anche nel cuore dei soldati, con il carico di rancore per i nemici, e quando uno scrisse dei versi su un foglietto che si passarono di mano in mano, un coro si levò possente: Austriaci di razza dannata gente infame, incivile nazione deturpasti d’Italia l’onore col martirio dei suoi prigionier. Altri versi ricordavano le mortificazioni, le violenze subite e parlavano di odio e di vendetta. Un canto semplice e terribile, genuino e violento. Dopo giorni e notti il treno at-
traversò il confine italiano, ma molti erano malati e furono ricoverati negli ospedali delle città vicine. E qualcuno morì. Orrenda beffa del destino. Anche mio padre fu ricoverato e di lì scrisse lettere tenerissime a mia madre, fino a quando gli dissero che era guarito e poté riprendere il treno per il Sud. Era la notte del 23 dicembre quando giunse a Catania. Non c’erano mezzi di trasporto. Ma cos’erano cinquanta chilometri quando l’urgenza del cuore lo spingeva come il vento per abbracciare finalmente i suoi cari. Insieme con un compagno decisero di raggiungere il paese a piedi. La notte era gelida, ma non sentivano freddo e camminavano spediti, un piccolo zaino sulle spalle. Era l’alba quando arrivarono alla piana, immensa nella sua solitudine, verdissima. Attraverso una trazzera (in Sicilia, è una via che attraversa i campi e serve al passaggio degli armenti, ndr) si avvicinarono ad una masseria. Il silenzio fu squarciato dal latrare dei cani. Da una finestra si sporse un volto solcato di rughe. «Siamo soldati che torniamo dalla prigionia e stiamo raggiungendo il paese». L’uomo si ritirò senza rispondere e chiuse la finestra. Mio padre e il compagno si guardarono, muti. Avevano afferrato lo zaino e stavano per riprendere il cammino, quando l’uomo dal volto di rughe aprì la porta e disse: «Venite, entrate». Era vecchio e un po’ curvo, un tabarro sbiadito sulle spalle e un berretto di lana in testa. La stanza era calda. C’era un odore acuto. Agli angoli sacchi di mandorle, fave, ceci; da cordicelle attaccate a due pareti pendevano salumi, lardo, caciocavallo, aglio, cipolle, uvapassa e filari di fichisecchi. Al centro della stanza una ruvida tavola e, sparsi qua e là, alcuni sgabelli. «Sedetevi», disse l’uomo, «vi preparo qualcosa da mangiare».
Era di un paese del centro dell’isola e non li conosceva. Era rimasto solo; alla vigilia delle feste tutti erano tornati alle proprie case, anche i ragazzi allogati per tutto l’anno. Lui non aveva nessuno. La sua casa e il suo mondo erano la masseria. Mio padre e il compagno mangiarono pane e formaggio e bevvero un vino forte e si sentirono rifocillati. «Grazie», dissero, «vi siamo obbligati, non vi scorderemo». «Vi auguro tanta pace e serenità», rispose l’uomo, «e auguri di Natale anche alle vostre famiglie dove ci sarà tanta contentezza quando vi vedranno». Dopo molte ore avevano raggiunto il centro più vicino al paese. Ormai distavano una decina di chilometri e le loro forze si moltiplicavano. Era già pomeriggio. Avevano imboccato lo stradone che, prima pianeggiante poi in salita, portava al paese. All’improvviso il cielo si era fatto nero; nubi dense scendevano sulla piana e tutto era diventato nero; l’Etna, coperta di nero e il fumo che usciva dal cratere anch’esso nero; il verde cupo degli agrumeti, di cui era ricca la zona, una massa nera. Il vento scuoteva con violenza gli alberi, saette tagliavano il cielo, che si aprì e sembrò che un diluvio subissasse la terra. Cominciarono a correre per cercare riparo sotto un ponte, che appariva lontano, irraggiungibile. Più volte stramazzarono a terra. Finalmente il ponte. Attraverso una scarpata scesero e si ripararono sotto. Un fiumiciattolo scorreva turbolento. Si accasciarono nel fango tramortiti di stanchezza e di spavento. A poco a poco le acque cominciarono ad ingrossarsi, gorgogliando nere. Furono presi dal terrore. «Siamo in pericolo», disse il compagno. E mio padre: «Aspettiamo ancora un poco, potrebbe finire questo
inferno». Ma il fiume, come alimentato da una immensa massa d’acqua, si alzò minaccioso abbattendosi sulle pareti del ponte, che si piegarono all’urto. Si sentirono perduti. Poi, in un momento di riflusso delle acque, fuggirono all’aperto, sprofondando nel terreno quasi sino alla cintola. Sostenendosi a vicenda procedevano a fatica, le gambe infossate nel fango pesanti come massi, l’acqua e il vento che li sferzavano. I lampi illuminavano due spettri. Un boato li scosse. Una parete del ponte si piegò e la volta rovinò nel fiume. «Non ce la faccio a continuare», disse il compagno. Mio padre urlò con rabbia e disperazione: «Neppure io ce la faccio, ma dobbiamo uscire da qui; tra poco comincia la salita». Camminarono ancora e, a mano a mano, le loro gambe emergevano dal fango con più facilità sino a quando si accorsero che la terra era pietrosa e cominciava la zona in salita. Un lampo fece apparire vicino una casupola. Ebbero ancora la forza di correre per raggiungerla. Bussarono a una porta rosa dalle intemperie. Nessuno rispose. Fu facile abbatterla a spallate. C’erano dentro paglia e fieno. Ne presero a manate, ne cosparsero il terreno e vi si buttarono come morti. Mio padre ebbe una crisi di pianto; anche l’altro singhiozzava, e ripetevano: «Siamo salvi, siamo salvi». Si riposarono un po’. Poi ripresero il cammino verso il paese ormai vicino, che raggiunsero finalmente. I radi lampioni ad acetilene schiarivano le stradicciole. Ora la pioggia cadeva lenta; il vento era cessato. C’era un grande silenzio. Si separarono. Mio padre pensò di recarsi alla casa dei genitori, poi sarebbe andato, ripulito, dai suoceri per trovare mia madre. Bussò alla porta
dei suoi. Il cuore gli scoppiava di gioia e di emozione. Silenzio. Bussò ancora. Inutilmente. Non gli rimaneva che andare dai suoceri, ma anche lì nessuno si affacciò. Si sedette a terra, dinanzi alla porta, e si coprì il volto sporco di fango. Si sentì come schiacciato dalla stanchezza, dalla solitudine e dalla tristezza. All’improvviso si ricordò che doveva essere mezzanotte. Come un fantasma, appoggiandosi ai muri con le forze residue, si avviò verso la chiesa: tutto il paese, il piccolo paese, era lì. Spinse lentamente la porta nel momento in cui tutti in piedi, il sacerdote sull’altare vestito dei paramenti bianchi, la chiesa schiarita da cento candele, cantavano: Tu scendi dalle stelle o Re del Cielo e vieni in una grotta al freddo e al gelo ... Un singulto lo scosse con forza; poi non trattenne le lunghe lacrime. Nota
*) Nino Piccione, scomparso la scorsa estate, è stato un giornalista e scrittore italiano. Nato a Ramacca, in provincia di Catania, ha vissuto a Roma. Il racconto che pubblichiamo per gentile concessione delle figlie è ambientato proprio a Ramacca ed è contenuto nel volume di Francesco Grisi Il Natale, storia e leggende. Piccione ha pubblicato alcuni ricordi di guerra di suo padre – tra cui quello che appare in questa pagina – anche nel romanzo Canto patriottico di un piccione siciliano sulle balze del San Michele, Città del Sole Edizioni, 2015).
«Natale non è più quello di una volta, per fortuna, siamo figli del nostro tempo. Poi non so quanto valga l’alone di bellezza e di serenità del Natale. Un’anziana mi diceva che per lei il Natale è una tragedia, perché non ha più nessuno, è sola. Insomma, è una festa controversa, nel cuore degli uomini». 44 anni, da 22 prete, ma soprattutto frate francescano, guardiano del Convento di Santa Maria, il convento del Bigorio, in Capriasca. È fra Michele Ravetta che racconta, davanti alla finestra che apre lo sguardo su uno stupendo larghissimo orizzonte, dai Denti della Vecchia al Monte Lema, con tutto il Luganese davanti: uno spettacolo incantevole in una giornata serena di fine autunno. La storia, qui, ha radici profonde. Nel 1535, periodo di contrasti cristiani a seguito della Riforma luterana, a dieci anni dalla riforma cappuccina, il francescano Padre Pacifico Carli costruisce la sua celletta di eremita di fianco alla chiesetta edificata nell’anno Mille sulle pendici del Monte Bigorio, a 728 metri di altitudine. Nel corso dei secoli il Convento si ingrandisce, la struttura attuale risale alla seconda metà del Settecento. Dopo il Concilio vaticano II, il Convento si apre alla società e al paese, al pubblico, agli uomini e, per la prima volta, alle donne. L’intuizione è di Padre Callisto, un indimenticabile riferimento spirituale in Ticino, non solo per i cattolici, ma la realizzazione del progetto è di Fra Roberto, classe 1933, che dal 1966 diventa il custode responsabile ed è tuttora attivo al Bigorio. Roberto Pasotti è un artista che nel corso degli ultimi cinquant’anni ha garantito lo sviluppo del Convento come centro culturale e religioso, arricchendolo di opere d’arte. La sua attività pittorica coniuga il talento artistico alla tradizione teologica e spirituale. «Lo scopo principale del Convento una volta era la formazione biblica – ci dice Fra Michele – oggi offriamo molto, forse troppo. Siamo aperti ai manager, alle aziende e alle ditte, che potrebbero anche andare nelle sale degli alberghi, ma qui trovano la tranquillità e l’accoglienza dei frati. Ci siamo adeguati ai tempi. Anche la nostra organizzazione è mutata: ci siamo distaccati dai cappuccini svizzeri per affiliarci alla Provincia di San Carlo in Lombardia. In Svizzera ci si sta lentamente estinguendo, negli anni Sessanta i cappuccini erano 820, ora sono 130. Così, dalla Lombardia sono arrivati quattro frati e ne arriveranno altri due». Come è nata la scelta di intraprendere questa strada?
La mia era una famiglia normale, cattolica, ma non bigotta. I miei genitori
lavoravano al collegio Papio di Ascona, quindi c’era un gran via vai di preti per casa che mi hanno influenzato. Ma mia madre non era entusiasta, sulle prime, della mia scelta. Quando ricevetti la lettera dal vescovo Corecco che mi ammetteva in seminario, mi sono accorto che la lettera era già stata aperta. Era stata lei, mia madre, curiosa e ansiosa… In seminario incontrai due cappuccini e vidi in loro una luce diversa. Sono contento di non essere un prete diocesano, tra frati c’è un altro linguaggio, siamo tutti fratelli, non c’è la gerarchia della Chiesa.
Qual è il suo giudizio sulla Chiesa di oggi?
Ho vissuto ormai 22 anni di Chiesa. Potremmo definirlo un cantiere aperto, ma le istituzioni sono conservatrici, c’è una storia di duemila anni che non si può modificare facilmente. La Chiesa è ancora legata alla gerarchia, ai ruoli, ai titoli, invece dobbiamo ricordarci che siamo nati da una barca di pescatori. Bisogna tornare fuori, fra la gente, sulle piazze, negli oratori, nelle case. Ci siamo ritirati nelle canoniche e nei conventi. La gente non viene più da noi, dobbiamo andare noi da loro e soprattutto marcare presenza dove c’è sofferenza, dobbiamo tornare a fare i curati, curare le anime e per questo bisogna avere passione, passione per le persone. Come vede la presenza femminile nella Chiesa?
La Chiesa è femminile, la Chiesa è madre. Accanto ai grandi santi ci sono anche le grandi sante. Credo che se le donne non possono, per ora, accedere al sacerdozio, ciò non toglie nulla alla loro specificità. Papa Francesco sta facendo scelte coraggiose mettendo a capo di certi gruppi di lavoro delle donne. Vedrei positivamente donne diacono, in ruoli di servizio, come le nostre mamme a casa. Non mi straccio le vesti per il sacerdozio femminile. Che dicano messa o che non la dicano, non fa poi grande differenza. Mia nonna diceva che a dir messa sono capaci tutti gli asini. In Ticino ha fatto discutere la questione dell’ora di religione. Come la vede?
Credo che nel pacchetto educativo della scuola, come mettiamo la ginnastica, ci debba stare anche la religione. Siamo una regione con una forte impronta cattolica. Non dobbiamo avere paura di mettere nel programma scolastico il cattolicesimo, con un’apertura per il mondo spirituale e religioso che ci sta attorno perché ormai il Ticino è multiculturale. Sono però dell’opinione che questa lezione debba farla chi è capace, non può essere un non credente, perché bisogna anche trasmettere una passione e uno stile di vita. Se i preti non sono in grado di farlo, siano almeno dei catechisti formati. Quando insegnavo
La Madonnina del Bigorio L’immagine sulla copertina di «Azione» di questa settimana è quella del quadro posto sull’altare della chiesa del convento del Bigorio. Si tratta di uno splendido dipinto realizzato da un atelier fiammingo attorno alla metà del XVI secolo e attribuito genericamente ad un «Maestro del Figliol prodigo». Il quadro, la cui presenza al Bigorio si fa risalire alla donazione di un membro della famiglia Savoia a un frate torinese che operava nel convento, racconta alcune storie della Fuga in Egitto e contiene elementi legati alla simbologia mariana. La storia del dipinto,
della sua nascita e della sua attribuzione sono contenuti nel bell’opuscolo di Stefano De Bosio, La Madonnina del Bigorio e il Maestro del Figliol Prodigo, un’icona fortunata nell’Europa del Cinquecento, Bigorio, Capriasca, Convento di Santa Maria, 2018. Ricordiamo che fino al 17 febbraio 2019 il quadro è esposto eccezionalmente in una struttura progettata da Mario Botta alla Pinacoteca Züst di Rancate, in concomitanza con la mostra Il Rinascimento nelle terre ticinesi 2. Dal territorio al museo. Informazioni: www4.ti.ch/decs/ dcsu/pinacoteca-zuest/
Fra Michele nella biblioteca del convento. (Stefano Spinelli)
alle elementari, in Leventina, facevo sempre riferimento al mondo che ci sta attorno, presentando i rappresentanti delle altre religioni come amici di Gesù, per far passare un messaggio unificante e non divisorio.
vuole stare con le persone che ha amato. Forse più di Dio sono i nostri cari che ci consolano, andiamo con loro, a far festa con loro. Davanti alla morte siamo titubanti perché non ne sappiamo un granché, ma non dovremmo farci troppe domande.
Fra Michele si occupa del Convento del Bigorio e poi lavora al Penitenziario cantonale come cappellano e alla Casa Serena di Lugano, la casa anziani della città, al reparto cure palliative, per offrire assistenza spirituale e religiosa. Fino alla scorsa estate ha assistito i malati terminali dell’Istituto oncologico cantonale.
Che rapporto ha con i non credenti?
Lei ha un rapporto di vicinanza con la morte.
Fra Michele è cappellano al carcere cantonale. Il carcere è come la malattia, dice, rianima lo spirito religioso. Il cappellano offre un legame con la realtà, fa da ponte con il mondo esterno e la segretezza del prete permette al detenuto di aprirsi in modo totalmente confidenziale. È una presenza importante, perché la perdita della libertà è una sorte di privazione anche interiore dell’anima. Quindi il cappellano può arginare la disperazione, la vergogna, la paura, il senso di fallimento di tanti detenuti. A Natale i frati del Bigorio allestiscono il presepe, un simbolo che risale a Francesco d’Assisi ai primi anni del Duecento. Intanto, per la prima volta, la Madonnina del Bigorio, la Madonna col Bambino posta sopra l’altare maggiore della chiesa di Santa Maria, è stata spostata temporaneamente alla Pinacoteca Züst di Rancate. Fa bella figura nell’ambito della mostra dedicata al «Rinascimento nelle terre ticinesi». È infatti un’opera attribuita a pittori
Se la morte ti ha già sfiorato, se hai già seppellito qualcuno di casa tua, conosci il gusto amaro della morte, puoi essere più empatico e più vero. Se la morte riesci ad accettarla, in qualche modo, ti farà meno paura. Francesco l’ha chiamata sorella, è una di noi, di casa nostra, a un certo punto incrocia il nostro cammino. Apparentemente vince lei, ma per chi crede è il trampolino di lancio verso il Creatore. Una signora in casa per anziani mi diceva: Padre non si va in Paradiso da vivi… Aveva ragione. Se vogliamo vedere Dio, in cui crediamo, dobbiamo morire e non deve essere una cosa triste. Lei pensa che la fede faciliti il rapporto con la morte?
Sì, ma quando si è sul letto di morte le cose cambiano. Ho visto molti credenti timorosi davanti alla morte. Enzo Bianchi, monaco laico fondatore della Comunità di Bose, scrive che nel regno dei morti non vuole essere solo con Dio,
I non credenti, chi non si riconosce in una religione, sono le persone che quasi quasi preferisco, perché sono libere dai preconcetti e dagli schemi mentali. Quei pochi veramente non credenti che ho conosciuto li ho trovati estremamente sereni, senza la connotazione pesante e umiliante dell’angoscia della morte.
fiamminghi dell’inizio del Cinquecento, giunta al Bigorio nel 1565. «In occasione del Natale, – racconta Fra Michele – vorrei spezzare una lancia in favore dei regali. È un gesto d’amore verso qualcuno che ti è caro, il dono ha ancora senso. Il Natale è un’occasione per stare insieme e, per noi preti, per far passare un messaggio di accoglienza e non di giudizio. È importante anche curare la liturgia, preparare quei segni che contraddistinguono il Natale, come il presepio. Dobbiamo fare del momento liturgico un elemento famigliare, per i più deboli, gli anziani, gli ammalati, i bambini. Far capire che il Natale non è una fiaba, è la storia di una nascita, di qualcosa che prende vita. Non perderei troppo tempo a parlare di Gesù, con tutto il rispetto: parliamo di noi, perché ognuno di noi ha il proprio Natale, ogni compleanno ce lo ricorda». Per molte famiglie, disunite o separate, la festa natalizia non è sempre serena.
Una volta, i nostri genitori e i nostri nonni non potevano immaginarsi una vita diversa da quella che avevano, si stava insieme un po’ per amore e un po’ per dovere. Natale va vissuto in verità, per quello che siamo veramente, deve essere il momento dell’essenzialità. Dobbiamo guardare alla capanna di Betlemme, perché tutto è nato lì, nella precarietà di una famiglia un po’ disgraziata. Maria rimane incinta e non è nemmeno sposata, non è che Dio abbia fatto le cose secondo canone, ma Dio è più grande degli uomini, delle leggi e della morale. Anche la famiglia di Gesù era un po’ irregolare, eppure ne parliamo ancora oggi.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 dicembre 2018 • N. 52
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 dicembre 2018 • N. 52
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Speciale Natale
Speciale Natale
Natale 1918
Natale non è una fiaba
e la propria famiglia la notte della Vigilia di cento anni fa
frate cappuccino: è il cappellano del Penitenziario cantonale e assistente religioso e spirituale dei malati terminali
Racconto I ricordi di un soldato italiano, prigioniero di guerra, che raggiungeva il proprio paese
Intervista Nell’imminenza del Natale incontro al Convento del Bigorio con il guardiano Fra Michele Ravetta,
Fabio Dozio
Prigionieri italiani durante la Prima Guerra mondiale. (Marka)
Nino Piccione* L’amore che vince la morte: questo rappresentò il Natale per mio padre. E così lo visse sempre. La morte l’aveva sfiorato tante volte in guerra, la prima grande guerra: per mesi al fronte, con gli assalti alle trincee nemiche e il fuoco che mieteva vittime, ragazzi come lui, la carne dilaniata, le membra contorte e gli occhi dilatati dalla fine violenta fissi al cielo o la faccia in giù sporca di fango e di sangue, le braccia spalancate come in croce, inerti. Poi la prigionia, la fame, il lavoro duro, le angherie, ma soprattutto la nostalgia per la sposa giovanissima, uno spasimo che lo rodeva dentro più della fame, più dei patimenti. La fine della guerra lo trovò a Leopoli dove assistette al divampare della rivoluzione russa: esplosioni di furore, scontri sanguinosi, con uomini, donne e anche bambini armati e drappelli tumultuanti con bandiere color sangue in testa e strade sparse di cadaveri. Il treno dei prigionieri italiani, ormai liberi, procedeva lentamente sbuffando e annaspando sulle salite e lasciava deserti di rovine. Ma la rovina era anche nel cuore dei soldati, con il carico di rancore per i nemici, e quando uno scrisse dei versi su un foglietto che si passarono di mano in mano, un coro si levò possente: Austriaci di razza dannata gente infame, incivile nazione deturpasti d’Italia l’onore col martirio dei suoi prigionier. Altri versi ricordavano le mortificazioni, le violenze subite e parlavano di odio e di vendetta. Un canto semplice e terribile, genuino e violento. Dopo giorni e notti il treno at-
traversò il confine italiano, ma molti erano malati e furono ricoverati negli ospedali delle città vicine. E qualcuno morì. Orrenda beffa del destino. Anche mio padre fu ricoverato e di lì scrisse lettere tenerissime a mia madre, fino a quando gli dissero che era guarito e poté riprendere il treno per il Sud. Era la notte del 23 dicembre quando giunse a Catania. Non c’erano mezzi di trasporto. Ma cos’erano cinquanta chilometri quando l’urgenza del cuore lo spingeva come il vento per abbracciare finalmente i suoi cari. Insieme con un compagno decisero di raggiungere il paese a piedi. La notte era gelida, ma non sentivano freddo e camminavano spediti, un piccolo zaino sulle spalle. Era l’alba quando arrivarono alla piana, immensa nella sua solitudine, verdissima. Attraverso una trazzera (in Sicilia, è una via che attraversa i campi e serve al passaggio degli armenti, ndr) si avvicinarono ad una masseria. Il silenzio fu squarciato dal latrare dei cani. Da una finestra si sporse un volto solcato di rughe. «Siamo soldati che torniamo dalla prigionia e stiamo raggiungendo il paese». L’uomo si ritirò senza rispondere e chiuse la finestra. Mio padre e il compagno si guardarono, muti. Avevano afferrato lo zaino e stavano per riprendere il cammino, quando l’uomo dal volto di rughe aprì la porta e disse: «Venite, entrate». Era vecchio e un po’ curvo, un tabarro sbiadito sulle spalle e un berretto di lana in testa. La stanza era calda. C’era un odore acuto. Agli angoli sacchi di mandorle, fave, ceci; da cordicelle attaccate a due pareti pendevano salumi, lardo, caciocavallo, aglio, cipolle, uvapassa e filari di fichisecchi. Al centro della stanza una ruvida tavola e, sparsi qua e là, alcuni sgabelli. «Sedetevi», disse l’uomo, «vi preparo qualcosa da mangiare».
Era di un paese del centro dell’isola e non li conosceva. Era rimasto solo; alla vigilia delle feste tutti erano tornati alle proprie case, anche i ragazzi allogati per tutto l’anno. Lui non aveva nessuno. La sua casa e il suo mondo erano la masseria. Mio padre e il compagno mangiarono pane e formaggio e bevvero un vino forte e si sentirono rifocillati. «Grazie», dissero, «vi siamo obbligati, non vi scorderemo». «Vi auguro tanta pace e serenità», rispose l’uomo, «e auguri di Natale anche alle vostre famiglie dove ci sarà tanta contentezza quando vi vedranno». Dopo molte ore avevano raggiunto il centro più vicino al paese. Ormai distavano una decina di chilometri e le loro forze si moltiplicavano. Era già pomeriggio. Avevano imboccato lo stradone che, prima pianeggiante poi in salita, portava al paese. All’improvviso il cielo si era fatto nero; nubi dense scendevano sulla piana e tutto era diventato nero; l’Etna, coperta di nero e il fumo che usciva dal cratere anch’esso nero; il verde cupo degli agrumeti, di cui era ricca la zona, una massa nera. Il vento scuoteva con violenza gli alberi, saette tagliavano il cielo, che si aprì e sembrò che un diluvio subissasse la terra. Cominciarono a correre per cercare riparo sotto un ponte, che appariva lontano, irraggiungibile. Più volte stramazzarono a terra. Finalmente il ponte. Attraverso una scarpata scesero e si ripararono sotto. Un fiumiciattolo scorreva turbolento. Si accasciarono nel fango tramortiti di stanchezza e di spavento. A poco a poco le acque cominciarono ad ingrossarsi, gorgogliando nere. Furono presi dal terrore. «Siamo in pericolo», disse il compagno. E mio padre: «Aspettiamo ancora un poco, potrebbe finire questo
inferno». Ma il fiume, come alimentato da una immensa massa d’acqua, si alzò minaccioso abbattendosi sulle pareti del ponte, che si piegarono all’urto. Si sentirono perduti. Poi, in un momento di riflusso delle acque, fuggirono all’aperto, sprofondando nel terreno quasi sino alla cintola. Sostenendosi a vicenda procedevano a fatica, le gambe infossate nel fango pesanti come massi, l’acqua e il vento che li sferzavano. I lampi illuminavano due spettri. Un boato li scosse. Una parete del ponte si piegò e la volta rovinò nel fiume. «Non ce la faccio a continuare», disse il compagno. Mio padre urlò con rabbia e disperazione: «Neppure io ce la faccio, ma dobbiamo uscire da qui; tra poco comincia la salita». Camminarono ancora e, a mano a mano, le loro gambe emergevano dal fango con più facilità sino a quando si accorsero che la terra era pietrosa e cominciava la zona in salita. Un lampo fece apparire vicino una casupola. Ebbero ancora la forza di correre per raggiungerla. Bussarono a una porta rosa dalle intemperie. Nessuno rispose. Fu facile abbatterla a spallate. C’erano dentro paglia e fieno. Ne presero a manate, ne cosparsero il terreno e vi si buttarono come morti. Mio padre ebbe una crisi di pianto; anche l’altro singhiozzava, e ripetevano: «Siamo salvi, siamo salvi». Si riposarono un po’. Poi ripresero il cammino verso il paese ormai vicino, che raggiunsero finalmente. I radi lampioni ad acetilene schiarivano le stradicciole. Ora la pioggia cadeva lenta; il vento era cessato. C’era un grande silenzio. Si separarono. Mio padre pensò di recarsi alla casa dei genitori, poi sarebbe andato, ripulito, dai suoceri per trovare mia madre. Bussò alla porta
dei suoi. Il cuore gli scoppiava di gioia e di emozione. Silenzio. Bussò ancora. Inutilmente. Non gli rimaneva che andare dai suoceri, ma anche lì nessuno si affacciò. Si sedette a terra, dinanzi alla porta, e si coprì il volto sporco di fango. Si sentì come schiacciato dalla stanchezza, dalla solitudine e dalla tristezza. All’improvviso si ricordò che doveva essere mezzanotte. Come un fantasma, appoggiandosi ai muri con le forze residue, si avviò verso la chiesa: tutto il paese, il piccolo paese, era lì. Spinse lentamente la porta nel momento in cui tutti in piedi, il sacerdote sull’altare vestito dei paramenti bianchi, la chiesa schiarita da cento candele, cantavano: Tu scendi dalle stelle o Re del Cielo e vieni in una grotta al freddo e al gelo ... Un singulto lo scosse con forza; poi non trattenne le lunghe lacrime. Nota
*) Nino Piccione, scomparso la scorsa estate, è stato un giornalista e scrittore italiano. Nato a Ramacca, in provincia di Catania, ha vissuto a Roma. Il racconto che pubblichiamo per gentile concessione delle figlie è ambientato proprio a Ramacca ed è contenuto nel volume di Francesco Grisi Il Natale, storia e leggende. Piccione ha pubblicato alcuni ricordi di guerra di suo padre – tra cui quello che appare in questa pagina – anche nel romanzo Canto patriottico di un piccione siciliano sulle balze del San Michele, Città del Sole Edizioni, 2015).
«Natale non è più quello di una volta, per fortuna, siamo figli del nostro tempo. Poi non so quanto valga l’alone di bellezza e di serenità del Natale. Un’anziana mi diceva che per lei il Natale è una tragedia, perché non ha più nessuno, è sola. Insomma, è una festa controversa, nel cuore degli uomini». 44 anni, da 22 prete, ma soprattutto frate francescano, guardiano del Convento di Santa Maria, il convento del Bigorio, in Capriasca. È fra Michele Ravetta che racconta, davanti alla finestra che apre lo sguardo su uno stupendo larghissimo orizzonte, dai Denti della Vecchia al Monte Lema, con tutto il Luganese davanti: uno spettacolo incantevole in una giornata serena di fine autunno. La storia, qui, ha radici profonde. Nel 1535, periodo di contrasti cristiani a seguito della Riforma luterana, a dieci anni dalla riforma cappuccina, il francescano Padre Pacifico Carli costruisce la sua celletta di eremita di fianco alla chiesetta edificata nell’anno Mille sulle pendici del Monte Bigorio, a 728 metri di altitudine. Nel corso dei secoli il Convento si ingrandisce, la struttura attuale risale alla seconda metà del Settecento. Dopo il Concilio vaticano II, il Convento si apre alla società e al paese, al pubblico, agli uomini e, per la prima volta, alle donne. L’intuizione è di Padre Callisto, un indimenticabile riferimento spirituale in Ticino, non solo per i cattolici, ma la realizzazione del progetto è di Fra Roberto, classe 1933, che dal 1966 diventa il custode responsabile ed è tuttora attivo al Bigorio. Roberto Pasotti è un artista che nel corso degli ultimi cinquant’anni ha garantito lo sviluppo del Convento come centro culturale e religioso, arricchendolo di opere d’arte. La sua attività pittorica coniuga il talento artistico alla tradizione teologica e spirituale. «Lo scopo principale del Convento una volta era la formazione biblica – ci dice Fra Michele – oggi offriamo molto, forse troppo. Siamo aperti ai manager, alle aziende e alle ditte, che potrebbero anche andare nelle sale degli alberghi, ma qui trovano la tranquillità e l’accoglienza dei frati. Ci siamo adeguati ai tempi. Anche la nostra organizzazione è mutata: ci siamo distaccati dai cappuccini svizzeri per affiliarci alla Provincia di San Carlo in Lombardia. In Svizzera ci si sta lentamente estinguendo, negli anni Sessanta i cappuccini erano 820, ora sono 130. Così, dalla Lombardia sono arrivati quattro frati e ne arriveranno altri due». Come è nata la scelta di intraprendere questa strada?
La mia era una famiglia normale, cattolica, ma non bigotta. I miei genitori
lavoravano al collegio Papio di Ascona, quindi c’era un gran via vai di preti per casa che mi hanno influenzato. Ma mia madre non era entusiasta, sulle prime, della mia scelta. Quando ricevetti la lettera dal vescovo Corecco che mi ammetteva in seminario, mi sono accorto che la lettera era già stata aperta. Era stata lei, mia madre, curiosa e ansiosa… In seminario incontrai due cappuccini e vidi in loro una luce diversa. Sono contento di non essere un prete diocesano, tra frati c’è un altro linguaggio, siamo tutti fratelli, non c’è la gerarchia della Chiesa.
Qual è il suo giudizio sulla Chiesa di oggi?
Ho vissuto ormai 22 anni di Chiesa. Potremmo definirlo un cantiere aperto, ma le istituzioni sono conservatrici, c’è una storia di duemila anni che non si può modificare facilmente. La Chiesa è ancora legata alla gerarchia, ai ruoli, ai titoli, invece dobbiamo ricordarci che siamo nati da una barca di pescatori. Bisogna tornare fuori, fra la gente, sulle piazze, negli oratori, nelle case. Ci siamo ritirati nelle canoniche e nei conventi. La gente non viene più da noi, dobbiamo andare noi da loro e soprattutto marcare presenza dove c’è sofferenza, dobbiamo tornare a fare i curati, curare le anime e per questo bisogna avere passione, passione per le persone. Come vede la presenza femminile nella Chiesa?
La Chiesa è femminile, la Chiesa è madre. Accanto ai grandi santi ci sono anche le grandi sante. Credo che se le donne non possono, per ora, accedere al sacerdozio, ciò non toglie nulla alla loro specificità. Papa Francesco sta facendo scelte coraggiose mettendo a capo di certi gruppi di lavoro delle donne. Vedrei positivamente donne diacono, in ruoli di servizio, come le nostre mamme a casa. Non mi straccio le vesti per il sacerdozio femminile. Che dicano messa o che non la dicano, non fa poi grande differenza. Mia nonna diceva che a dir messa sono capaci tutti gli asini. In Ticino ha fatto discutere la questione dell’ora di religione. Come la vede?
Credo che nel pacchetto educativo della scuola, come mettiamo la ginnastica, ci debba stare anche la religione. Siamo una regione con una forte impronta cattolica. Non dobbiamo avere paura di mettere nel programma scolastico il cattolicesimo, con un’apertura per il mondo spirituale e religioso che ci sta attorno perché ormai il Ticino è multiculturale. Sono però dell’opinione che questa lezione debba farla chi è capace, non può essere un non credente, perché bisogna anche trasmettere una passione e uno stile di vita. Se i preti non sono in grado di farlo, siano almeno dei catechisti formati. Quando insegnavo
La Madonnina del Bigorio L’immagine sulla copertina di «Azione» di questa settimana è quella del quadro posto sull’altare della chiesa del convento del Bigorio. Si tratta di uno splendido dipinto realizzato da un atelier fiammingo attorno alla metà del XVI secolo e attribuito genericamente ad un «Maestro del Figliol prodigo». Il quadro, la cui presenza al Bigorio si fa risalire alla donazione di un membro della famiglia Savoia a un frate torinese che operava nel convento, racconta alcune storie della Fuga in Egitto e contiene elementi legati alla simbologia mariana. La storia del dipinto,
della sua nascita e della sua attribuzione sono contenuti nel bell’opuscolo di Stefano De Bosio, La Madonnina del Bigorio e il Maestro del Figliol Prodigo, un’icona fortunata nell’Europa del Cinquecento, Bigorio, Capriasca, Convento di Santa Maria, 2018. Ricordiamo che fino al 17 febbraio 2019 il quadro è esposto eccezionalmente in una struttura progettata da Mario Botta alla Pinacoteca Züst di Rancate, in concomitanza con la mostra Il Rinascimento nelle terre ticinesi 2. Dal territorio al museo. Informazioni: www4.ti.ch/decs/ dcsu/pinacoteca-zuest/
Fra Michele nella biblioteca del convento. (Stefano Spinelli)
alle elementari, in Leventina, facevo sempre riferimento al mondo che ci sta attorno, presentando i rappresentanti delle altre religioni come amici di Gesù, per far passare un messaggio unificante e non divisorio.
vuole stare con le persone che ha amato. Forse più di Dio sono i nostri cari che ci consolano, andiamo con loro, a far festa con loro. Davanti alla morte siamo titubanti perché non ne sappiamo un granché, ma non dovremmo farci troppe domande.
Fra Michele si occupa del Convento del Bigorio e poi lavora al Penitenziario cantonale come cappellano e alla Casa Serena di Lugano, la casa anziani della città, al reparto cure palliative, per offrire assistenza spirituale e religiosa. Fino alla scorsa estate ha assistito i malati terminali dell’Istituto oncologico cantonale.
Che rapporto ha con i non credenti?
Lei ha un rapporto di vicinanza con la morte.
Fra Michele è cappellano al carcere cantonale. Il carcere è come la malattia, dice, rianima lo spirito religioso. Il cappellano offre un legame con la realtà, fa da ponte con il mondo esterno e la segretezza del prete permette al detenuto di aprirsi in modo totalmente confidenziale. È una presenza importante, perché la perdita della libertà è una sorte di privazione anche interiore dell’anima. Quindi il cappellano può arginare la disperazione, la vergogna, la paura, il senso di fallimento di tanti detenuti. A Natale i frati del Bigorio allestiscono il presepe, un simbolo che risale a Francesco d’Assisi ai primi anni del Duecento. Intanto, per la prima volta, la Madonnina del Bigorio, la Madonna col Bambino posta sopra l’altare maggiore della chiesa di Santa Maria, è stata spostata temporaneamente alla Pinacoteca Züst di Rancate. Fa bella figura nell’ambito della mostra dedicata al «Rinascimento nelle terre ticinesi». È infatti un’opera attribuita a pittori
Se la morte ti ha già sfiorato, se hai già seppellito qualcuno di casa tua, conosci il gusto amaro della morte, puoi essere più empatico e più vero. Se la morte riesci ad accettarla, in qualche modo, ti farà meno paura. Francesco l’ha chiamata sorella, è una di noi, di casa nostra, a un certo punto incrocia il nostro cammino. Apparentemente vince lei, ma per chi crede è il trampolino di lancio verso il Creatore. Una signora in casa per anziani mi diceva: Padre non si va in Paradiso da vivi… Aveva ragione. Se vogliamo vedere Dio, in cui crediamo, dobbiamo morire e non deve essere una cosa triste. Lei pensa che la fede faciliti il rapporto con la morte?
Sì, ma quando si è sul letto di morte le cose cambiano. Ho visto molti credenti timorosi davanti alla morte. Enzo Bianchi, monaco laico fondatore della Comunità di Bose, scrive che nel regno dei morti non vuole essere solo con Dio,
I non credenti, chi non si riconosce in una religione, sono le persone che quasi quasi preferisco, perché sono libere dai preconcetti e dagli schemi mentali. Quei pochi veramente non credenti che ho conosciuto li ho trovati estremamente sereni, senza la connotazione pesante e umiliante dell’angoscia della morte.
fiamminghi dell’inizio del Cinquecento, giunta al Bigorio nel 1565. «In occasione del Natale, – racconta Fra Michele – vorrei spezzare una lancia in favore dei regali. È un gesto d’amore verso qualcuno che ti è caro, il dono ha ancora senso. Il Natale è un’occasione per stare insieme e, per noi preti, per far passare un messaggio di accoglienza e non di giudizio. È importante anche curare la liturgia, preparare quei segni che contraddistinguono il Natale, come il presepio. Dobbiamo fare del momento liturgico un elemento famigliare, per i più deboli, gli anziani, gli ammalati, i bambini. Far capire che il Natale non è una fiaba, è la storia di una nascita, di qualcosa che prende vita. Non perderei troppo tempo a parlare di Gesù, con tutto il rispetto: parliamo di noi, perché ognuno di noi ha il proprio Natale, ogni compleanno ce lo ricorda». Per molte famiglie, disunite o separate, la festa natalizia non è sempre serena.
Una volta, i nostri genitori e i nostri nonni non potevano immaginarsi una vita diversa da quella che avevano, si stava insieme un po’ per amore e un po’ per dovere. Natale va vissuto in verità, per quello che siamo veramente, deve essere il momento dell’essenzialità. Dobbiamo guardare alla capanna di Betlemme, perché tutto è nato lì, nella precarietà di una famiglia un po’ disgraziata. Maria rimane incinta e non è nemmeno sposata, non è che Dio abbia fatto le cose secondo canone, ma Dio è più grande degli uomini, delle leggi e della morale. Anche la famiglia di Gesù era un po’ irregolare, eppure ne parliamo ancora oggi.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 dicembre 2018 • N. 52
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 dicembre 2018 • N. 52
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Società e Territorio Ripensare il tempo Conquistare il silenzio interiore e recuperare un tempo di qualità: le riflessioni di Andreas Barella, personal e professional coach pagina 5
Le paure si rinnovano Il Museo Strauhof di Zurigo propone un itinerario che dal Frankenstein di Mary Shelley arriva al cuore della Silicon Valley
Un tempo di qualità
pagina 5
Incontri Andreas Barella ci spiega l’importanza di riscoprire
Boris Karloff, l’indimenticabile «Creatura» cinematografica. (Museum Strauhof)
la parte soggettiva del tempo, quella guidata dalle emozioni
Alessandra Ostini Sutto
I ragazzi, come gli squali, nuotano senza sosta, non possono rimanere immobili e il loro mare è la tecnologia. (Keystone)
Una generazione di squali
Il caffè delle mamme Nel suo nuovo libro Giacomo Mazzariol ci regala un ritratto dei ragazzi del nuovo Millennio Simona Ravizza
Il 2019 sarà l’anno dei Ventenni Squali: «Sono connessi con il mondo, affamati, sperimentano, producono, nuotano liberi in un mondo pieno di rumore. Sono i ragazzi del nuovo Millennio. Se smettono di muoversi muoiono». Il caffè delle mamme incontra Giacomo Mazzariol, 21 anni, di Castelfranco Veneto, già autore di Mio fratello rincorre i dinosauri, bestseller tradotto in oltre 10 lingue. «È nata una nuova specie» spiega ad «Azione». «È in corso un maremoto». Il simbolo è Max, 19 anni vissuti a Magnano, a venti minuti di treno da Padova, la musica del rapper Kendrick Lamar che gli urla nelle orecchie parole incomprensibili, il thriller Mr. Robot che lo aspetta sull’hard disk, una passione per la rivendita Carati, il negozio di famiglia in cui vengono smerciati prodotti per far crescere le piante e nutrire gli animali, Anna, Filippo, Bea e Andrea i quattro amici con cui condivide le giornate dall’asilo, nessuna smania di fuggire dalla mediocrità di provincia. È il protagonista del nuovo libro di Mazzariol Gli Squali (ed. Einaudi Stile Libero novembre 2018): «Certe specie devono
nuotare senza sosta per non soffocare o per non cadere sul fondo del mare. Squali, ecco cosa eravamo, ecco cosa dovevamo essere – riflette Max –. Animali capaci di scivolare in un mondo che aveva perso solidità, che era diventato instabile. Nulla mi suonava negativo in quella parola usata per descriverci: squali. Non eravamo crudeli, solo affamati. Non eravamo impazienti, solo non potevamo restare immobili». La consapevolezza gli arriva all’improvviso: «Un attimo prima la vita procedeva lenta e costante: famiglia, amici, scuola. Poi sbam, fu come se il tempo si fosse risvegliato dal suo sonno cosmico e uno smottamento rimescolò tutto». Succede che Max – il cui unico scarto rispetto a chiunque lo circonda a Magnano è la riluttanza per i social e un’attrazione fatale per l’informatica – per hobby s’inventa un’App per cellulare che aiuta gli studenti a decidere quale università frequentare, incrociando gusti, carattere e obiettivi con corsi e indirizzi e quant’altro e viene reclutato dall’incubatore di start-up ePark dell’imprenditore Lorenzo Mutti, con sede a Roma dove il giovane deve trasferirsi a vivere: «Sarei stato pagato per fare cose che avrei fatto gratis nel tempo libero, una fortuna che
capita a pochi, pagato da un’azienda che stava investendo in un’applicazione che avevo creato». Max diventa l’emblema della Generazione Squali non tanto perché ha avuto un’intuizione felice, ma perché incarna una specie che naviga in un mare di stimoli: «Atene Amburgo Barcellona Berlino Bristol Bruxelles Budapest Cracovia Colonia Edimburgo Eindhoven Londra Madrid Oslo Parigi Porto Praga Riga Marrakech Lanzarote Lourdes Valencia Sofia. Questi sono gli aerei che due settimane fa su Ryanair costavano 9,78 – racconta Mazzariol in uno spettacolo teatrale di parole e musica che sta facendo in giro per l’Italia come tour di presentazione del libro –. La mia stanza a Roma la posso mettere su Airbnb se me ne vado per qualche mese. La macchina la noleggio, la mollo dove posso e poi la prende qualcun altro. Ragazzi e Share N Go. Prima di partire per Londra avevo già trovato casa, fissato un colloquio di lavoro, ero iscritto a un corso di teatro e addirittura mi ero inserito in un gruppo di videomaker grazie al quale potevo osservare dei set cinematografici. Arrivato lì mi sentivo già a casa e in ogni caso potevo rimanere in contatto con tutti i miei ami-
ci». La spiegazione: «Siamo a un punto di non ritorno. I nuovi nati entrano in un mondo in cui anche le nonne hanno lo smartphone. È come se nascessero in un mondo in cui le persone hanno tre braccia e va bene così. La tecnologia non è più qualcosa da capire, è un mare in cui si nuota. E le creature più potenti di quest’abisso si districano nel mare con candore sfacciato. Gli squali hanno un sensore laterale, riconoscere le correnti e le manipolazioni. Nascono con l’intuito e si accorgono quando vivono nell’acquario». Nel nuovo millennio è più facile sognare: «I motivi per rimanere sdraiati – va ripetendo Mazzariol – non esistono». Li abbiamo considerati Sdraiati con l’omonimo libro di Michele Serra del 2013 (ed. Feltrinelli): «Giovani che dormono quando il resto del mondo è sveglio e vegliano quando il resto del mondo sta dormendo. Una generazione sospesa e lontana da ciò che la circonda e apparentemente apatica». Forse è ora di rivalutarli come Squali. Una era la visione di un padre, adesso c’è la visione di un figlio che come Max non ha più l’acne, rinuncia ai timidi e mal riusciti tentativi di avere i capelli come gli altri, ha la barba tenuta male e
il naso un po’ storto dopo un colpo in una partita di basket in cui, tra l’altro, è entrato all’ultimo minuto solo per far presenza, sorride al ricordo della cilecca alla prima esperienza sessuale in cui Anna risponde che è un vero disastro e che proprio per quel motivo gli avrebbe sempre voluto bene. È la forza di una generazione piena di strumenti, giovani che possono farsi notare da un produttore creando la propria musica e caricandola su una piattaforma prima di essere chiamati a cena dalla mamma; che possono procurarsi contratti di lavoro girando un video nel cortile di casa; che possono viaggiare liberamente in Europa – un territorio per cui i loro nonni si sono fatti la guerra. Gli Anna e Marco di Lucio Dalla in cui l’«America è lontana / dall’altra parte della luna» appartengono all’epoca che fu. Ma la corsa al futuro non è esente da rischi: «Quando si nuota veloci si rischia di vedere tutto sfocato, per questo a volte ha senso rallentare per capire dove stiamo andando», scandisce Mazzariol. Per non avere fretta di ingozzarsi Max decide di non dirigere la start-up, ma di iscriversi all’università. Frenare un po’ va bene. A patto di non mollare, non accontentarsi, non fermarsi.
Avvento. Una parola che richiama immagini di calma e di attesa, di intimità e di calore. Immagini che fanno bene al cuore, ma che spesso si scontrano con una realtà fatta di fretta e stress. La scelta dei regali, il menu per le Feste, le questioni lavorative da evadere prima delle vacanze: le incombenze che pure fanno parte di questo periodo si vanno ad aggiungere alla già fitta «to do list» che accompagna la nostra quotidianità. Così, nel periodo pre-natalizio la discrepanza tra il modo frenetico in cui viviamo e quello in cui vorremmo vivere – riuscendo cioè a gustare appieno dei momenti significativi – si fa sentire con maggiore intensità. Oggigiorno ci sentiamo a disagio se «perdiamo tempo». Non essendo più abituati a, semplicemente, non fare nulla, reagiamo cercando stimoli esterni, che di solito troviamo facilmente nella nostra borsa o nella nostra tasca; invece di limitarci a guardare fuori dal finestrino dell’autobus, rispondiamo ai messaggi su WhatsApp, mentre aspettiamo il nostro turno alla cassa del supermercato, diamo una rapida lettura alle email in arrivo. Quello che però non consideriamo è che l’immobilità serve per ricaricare le batterie. Il flusso costante di stimoli esterni, anche se gratificanti sul momento, causa un sovraccarico cognitivo, che danneggia la nostra capacità di pensare, pianificare, risolvere problemi, prendere decisioni, imparare nuove cose, ricordare informazioni e controllare le nostre emozioni. In altre parole, danneggia la nostra produttività. Ed è anche per questo che, sebbene i progressi della tecnologia aumentino il tempo a nostra disposizione, sia a casa che sul lavoro, viviamo con la costante sensazione che ci manchi il tempo. Inoltre, non concedendoci più il lusso di non fare nulla, ci rendiamo meno sensibili alle sensazioni e alle emozioni. Di conseguenza, quando ci sembra che nella giornata non ci sia abbastanza tempo per fare tutto, probabilmente quello di cui avremmo bisogno sarebbe più immobilità, per ricaricarci, per sentire, per goderci appieno la vita che stiamo vivendo. Visto che si avvicina il momento di formulare i buoni propositi per l’anno nuovo, si può pensare di introdurre dei piccoli cambiamenti, come guidare in silenzio, con radio e telefono spenti, incoraggiare i propri figli a guardare fuori dal finestrino piuttosto che sullo schermo del loro dispositivo elettronico, fare una passeggiata all’aria aperta, senza distrazioni. Per chi volesse fare un passo in più, esistono numerose tecniche accomunate dall’obiettivo di essere immersi nel «qui e ora», come la meditazione o il training autogeno, per citare le più classiche. «Tempo di qualità: alla riscoperta della lentezza e della presenza personale» è un seminario nel quale Andreas Barella, personal e professional coach con studio a Mendrisio, presenta un insieme di queste tecniche. Con il termine «lentezza» non si intende necessariamente che le cose vadano fatte piano, piuttosto che ci si prenda il tempo per farle; il che non è scontato, dal momento che, in un’ottica di ottimizzazione dei tempi, siamo portati a fare l’esatto contrario, a fare cioè una cosa e intanto a pensare già alle successive. «Fare degli esercizi con il corpo aiuta, nel senso che svolgendo con attenzione qualcosa che non si è abituati a fare, si deve per
forza essere presenti con la mente e le proprie emozioni», spiega Barella, che popone questo corso ciclicamente (l’ultima edizione si è svolta il 17 novembre, nell’ambito dei Corsi per Adulti del Cantone): «in queste occasioni si analizzano e sperimentano inoltre azioni che abbiamo un po’ abbandonato, come la creazione di piccoli rituali personali o la consuetudine di ritagliarsi del tempo per se stessi», continua Andreas Barella, che dopo un dottorato in anglistica e romanistica presso l’Università di Zurigo, si è formato presso la Scuola di psicoterapia integrata di Lugano e la School of Gestalt and Experiential Teaching di San Francisco, nella sede di Francoforte. «Uno dei concetti cardine della psicologia della Gestalt è proprio il “qui e ora”, la focalizzazione e il potere del presente», spiega Barella, che ha pubblicato tre libri e tiene corsi in Svizzera, Italia, Francia, Germania, Austria e Stati Uniti. Questo concetto cozza con il tempo nel quale siamo immersi, che non è il «tempo di qualità»: «Lo definirei piuttosto un tempo rapido, in cui non c’è il tempo – si scusi il gioco di parole – di essere presenti nelle cose che si fanno, perché la testa o il corpo o le emozioni sono da un’altra parte. Un tempo in cui siamo dominati dalle cose che accadono fuori di noi, in cui le emozioni che da esse ci vengono non sono né controllate, né controllabili». Un concetto semplice e lineare solo all’apparenza quindi, quello del tempo. Letteralmente esso è un insieme di istanti che si susseguono e non possono essere fermati. Una definizione che dà l’impressione che il tempo sia qualcosa di oggettivo. «In parte è così: se guardiamo l’orologio, il tempo procede incessantemente e allo stesso modo», commenta lo psicoterapeuta e studioso di mitologia, «quello che interessa me in quanto umanista e professionista che lavora con le altre persone, è però la parte soggettiva del tempo, guidata dalle emozioni che viviamo mentre facciamo qualcosa». Per intenderci, quella per cui quando facciamo qualcosa di noioso il tempo sembra non passare mai, mentre quando facciamo qualcosa che ci piace, vola. «Addirittura, in certe rare e meravigliose occasioni – come l’inizio di una storia d’amore – il tempo sembra non esistere più. In questi momenti, la frase “Ti amerò per sempre” più che un’indicazione temporale dà un’indicazione di intensità», continua, «il suo
Il tempo è un concetto semplice e lineare solo all’apparenza.
senso sarà quindi: “in questo momento ti amo talmente tanto che non può che essere per sempre”. Questo per dire che il tempo è condizionato da come ci sentiamo e che, di conseguenza, abbiamo un bel margine di manovra su come intenderlo e viverlo», afferma Barella, che collabora con numerose istituzioni, tra cui il Dipartimento della Sanità e della Socialità, l’Organizzazione Sociopsichiatrica Cantonale, l’Alta Scuola Pedagogica di Locarno e la RSI. Per farlo bisogna uscire dal vortice delle cose imposte e sapersi interrogare. «Naturalmente non tutto dipende da noi, ma le cose che possiamo scegliere sono più di quelle che pensiamo. La qualità ognuno la deve chiarire nella propria mente. In genere ciò avviene all’interno di un percorso di crescita personale, per diventare veramente se stessi», afferma il personal e professional coach. «“Perché siamo sulla terra?”, “Qual è lo scopo della nostra vita?”, “Quanto tempo dedichiamo alla qualità?”; dobbiamo porci questo tipo di domande, che non hanno risposte univoche, anzi, le cui risposte sono meno importanti del continuare a porsi degli interrogativi», spiega Barella. Dobbiamo cercare così di individuare il nostro centro di gravità, che sarà fatto di cose piccole e cose grandi, ma comunque importanti perché ci indicano dove vogliamo andare e, anche, dove non vogliamo andare. E perché ci aiutano a non farci travolgere dal tempo oggettivo, dalle cose che effettivamente ognuno di noi ha da fare, per fare in modo che la vita non sia solo questo e possa essere vissuta con maggiore intensità. «Il tempo di qualità è quindi quello che spendiamo per fare delle cose che sono importanti per noi. E le cose in questione sono quelle che concorrono il più possibile a creare la nostra immagine ideale del mondo», sintetizza l’esperto. Anche elementi semplici, quali il silenzio o la solitudine, possono aiutarci a mettere a fuoco gli obiettivi che guidano la nostra vita. «Facendo una passeggiata nel bosco, i ritmi e il respiro del mondo che si percepiscono sono diversi rispetto al centro città. D’altra parte certe persone riescono a concentrarsi meglio nel rumore», conclude Andreas Barella, «in ogni caso è la mente a fare la differenza; quello che fa rumore dentro di noi sono i pensieri. Di conseguenza, ovunque può essere un buon posto. L’importante è che si conquisti il silenzio interiore».
La creatura oggi Mostre Allo Strauhof di Zurigo un itinerario
su Frankenstein arriva fino alla Silicon Valley Sebastiano Caroni Il buio, reale e metaforico, da sempre alimenta le nostre paure, dà forma ai nostri incubi. Anche la scienza, si sa, ha il suo lato oscuro, spesso più immaginario che reale. E se i tempi cambiano, e i progressi della conoscenza galoppano, paure e timori, a quanto sembra, si rinnovano. Da qui la necessità di interrogarsi, di riflettere, di confrontare il passato con il presente, e viceversa. È quanto ha deciso di fare il Museum Strauhof di Zurigo, con un’intrigante proposta: un itinerario tematico che, partendo dal romanzo Frankenstein di Mary Shelley – inizialmente pubblicato nel 1819 – arriva dritto nel cuore della contemporanea Silicon Valley, tempio mondiale dell’intelligenza artificiale. Se è vero che da quel lontano 1819 il sapere ha fatto passi da gigante, non si può certo dire che le scoperte scientifiche abbiano smesso di destare preoccupazioni, nutrire dubbi, e animare paure che ci prospettano un futuro quantomeno rannuvolato. Con il romanzo del 1819, Mary Shelley inaugura un genere, quello della fantascienza, e dà forma a un personaggio il cui destino non ha mai smesso di essere attuale, come testimoniano le molte trasposizioni teatrali prima e poi cinematografiche di Frankenstein nel XIX e nel XX secolo. A dare impeto all’appassionante vicenda narrata nel romanzo, e ad animare incubi di più di una generazione, è l’azione sconsiderata del Dottor Frankenstein che, assemblando parti del corpo provenienti da diversi cadaveri, infonde la vita a una creatura che gli sfuggirà di mano, diventando una potenziale minaccia per il genere umano. Senza nome, l’essere prodotto dal dottor Frankenstein verrà indicato, lungo la narrazione, con una serie di epiteti denigranti che attingono tanto alla semantica del mostro quanto a quella e del diavolo. Se, da una parte, l’assenza del nome agevola la sovrapposizione metonimica della creatura al creatore (nell’immaginario collettivo il nome Frankenstein designa la creatura piuttosto che il creatore), d’altra parte quell’assenza si configura come un luogo simbolico in cui si insinua una paura irrazionale, indefinita, che incessantemente si rinnova, e che si tramanda di generazione in generazione: fino a giungere ai giorni nostri dove, sotto il sole della California, prendono forma le moderne «creature» dotate di intelligenza artificiale. Sarà che forse, oggi come allora, ci si prospetta un mondo nel quale non siamo più noi a controllare la scienza e la tecnologia, ma sono la scienza e la tecnologia a controllarci?
O sarà che forse il laboratorio (un luogo chiuso, protetto, appartato), vero e proprio dispositivo della modernità, finisce per essere associato, oggi più che mai, al potere demiurgico dell’essere umano? È noto infatti che tanto più le ricerche sono di punta e si annunciano innovative, tanto più vengono svolte lontano dagli sguardi indiscreti dei diretti concorrenti, dei media o di altri agenti. Inevitabilmente, quindi, chi non manipola direttamente il sapere, si ritrova vittima e complice di una doppia lontananza. È infatti lontano dai nostri sguardi che si consumano le fasi decisive delle sperimentazioni scientifiche. Nel migliore dei casi, si tratta di laboratori ben forniti o, nel caso dell’intelligenza artificiale, di moderni centri informatici. Può capitare però che, complici anche i timori e le paure che alimentano il lato oscuro della scienza, l’immaginazione ci prospetti luoghi nascosti che ospitano esperimenti clandestini: magari degli scantinati, o dei magazzini abbandonati, dove scienziati dissennati minacciano di combinare chissà quali disastri planetari, come nelle avventure di James Bond, o nella saga di Mission Impossible. Oppure, più prosaicamente, la fantasia ci suggerisce dimore private trasformate in laboratori improvvisati. Avete presente il film La mosca di David Cronenberg? La seconda lontananza, invece, è simbolica. Oggi forse più che in passato, la specializzazione del sapere rende sempre più difficile, per non dire impossibile, una conoscenza organica e comprensiva del mondo. Ecco che allora si fa strada il timore che il progresso finisca nelle mani di robot superintelligenti – moderni pronipoti della creatura del dottor Frankenstein –, che potrebbero porre fine al mondo così come lo conosciamo. Siamo, lo ripetiamo, sul terreno dell’immaginario: un insieme di narrative, immagini, sogni e timori che definiscono un’epoca, e che tanto la letteratura, il cinema, la politica, il marketing, quanto la scienza più avanzata contribuiscono a creare. Poiché, in fondo, tutto è appeso a qualche fragile domanda: chi siamo? dove andiamo? cosa desideriamo e cosa, invece, temiamo? Con delle domande così importanti, è facile immaginarsi che qualcosa, ogni tanto, possa andare storto. Dove e quando
Frankenstein. Von Mary Shelley zum Silicon Valley. Fino al 13.01.2019. Orari: ma-ve 12.00-18.00, gio 12.00-22.00, sa-do 11.00-17.00. www. strauhof.ch
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 dicembre 2018 • N. 52
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la parte soggettiva del tempo, quella guidata dalle emozioni
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I ragazzi, come gli squali, nuotano senza sosta, non possono rimanere immobili e il loro mare è la tecnologia. (Keystone)
Una generazione di squali
Il caffè delle mamme Nel suo nuovo libro Giacomo Mazzariol ci regala un ritratto dei ragazzi del nuovo Millennio Simona Ravizza
Il 2019 sarà l’anno dei Ventenni Squali: «Sono connessi con il mondo, affamati, sperimentano, producono, nuotano liberi in un mondo pieno di rumore. Sono i ragazzi del nuovo Millennio. Se smettono di muoversi muoiono». Il caffè delle mamme incontra Giacomo Mazzariol, 21 anni, di Castelfranco Veneto, già autore di Mio fratello rincorre i dinosauri, bestseller tradotto in oltre 10 lingue. «È nata una nuova specie» spiega ad «Azione». «È in corso un maremoto». Il simbolo è Max, 19 anni vissuti a Magnano, a venti minuti di treno da Padova, la musica del rapper Kendrick Lamar che gli urla nelle orecchie parole incomprensibili, il thriller Mr. Robot che lo aspetta sull’hard disk, una passione per la rivendita Carati, il negozio di famiglia in cui vengono smerciati prodotti per far crescere le piante e nutrire gli animali, Anna, Filippo, Bea e Andrea i quattro amici con cui condivide le giornate dall’asilo, nessuna smania di fuggire dalla mediocrità di provincia. È il protagonista del nuovo libro di Mazzariol Gli Squali (ed. Einaudi Stile Libero novembre 2018): «Certe specie devono
nuotare senza sosta per non soffocare o per non cadere sul fondo del mare. Squali, ecco cosa eravamo, ecco cosa dovevamo essere – riflette Max –. Animali capaci di scivolare in un mondo che aveva perso solidità, che era diventato instabile. Nulla mi suonava negativo in quella parola usata per descriverci: squali. Non eravamo crudeli, solo affamati. Non eravamo impazienti, solo non potevamo restare immobili». La consapevolezza gli arriva all’improvviso: «Un attimo prima la vita procedeva lenta e costante: famiglia, amici, scuola. Poi sbam, fu come se il tempo si fosse risvegliato dal suo sonno cosmico e uno smottamento rimescolò tutto». Succede che Max – il cui unico scarto rispetto a chiunque lo circonda a Magnano è la riluttanza per i social e un’attrazione fatale per l’informatica – per hobby s’inventa un’App per cellulare che aiuta gli studenti a decidere quale università frequentare, incrociando gusti, carattere e obiettivi con corsi e indirizzi e quant’altro e viene reclutato dall’incubatore di start-up ePark dell’imprenditore Lorenzo Mutti, con sede a Roma dove il giovane deve trasferirsi a vivere: «Sarei stato pagato per fare cose che avrei fatto gratis nel tempo libero, una fortuna che
capita a pochi, pagato da un’azienda che stava investendo in un’applicazione che avevo creato». Max diventa l’emblema della Generazione Squali non tanto perché ha avuto un’intuizione felice, ma perché incarna una specie che naviga in un mare di stimoli: «Atene Amburgo Barcellona Berlino Bristol Bruxelles Budapest Cracovia Colonia Edimburgo Eindhoven Londra Madrid Oslo Parigi Porto Praga Riga Marrakech Lanzarote Lourdes Valencia Sofia. Questi sono gli aerei che due settimane fa su Ryanair costavano 9,78 – racconta Mazzariol in uno spettacolo teatrale di parole e musica che sta facendo in giro per l’Italia come tour di presentazione del libro –. La mia stanza a Roma la posso mettere su Airbnb se me ne vado per qualche mese. La macchina la noleggio, la mollo dove posso e poi la prende qualcun altro. Ragazzi e Share N Go. Prima di partire per Londra avevo già trovato casa, fissato un colloquio di lavoro, ero iscritto a un corso di teatro e addirittura mi ero inserito in un gruppo di videomaker grazie al quale potevo osservare dei set cinematografici. Arrivato lì mi sentivo già a casa e in ogni caso potevo rimanere in contatto con tutti i miei ami-
ci». La spiegazione: «Siamo a un punto di non ritorno. I nuovi nati entrano in un mondo in cui anche le nonne hanno lo smartphone. È come se nascessero in un mondo in cui le persone hanno tre braccia e va bene così. La tecnologia non è più qualcosa da capire, è un mare in cui si nuota. E le creature più potenti di quest’abisso si districano nel mare con candore sfacciato. Gli squali hanno un sensore laterale, riconoscere le correnti e le manipolazioni. Nascono con l’intuito e si accorgono quando vivono nell’acquario». Nel nuovo millennio è più facile sognare: «I motivi per rimanere sdraiati – va ripetendo Mazzariol – non esistono». Li abbiamo considerati Sdraiati con l’omonimo libro di Michele Serra del 2013 (ed. Feltrinelli): «Giovani che dormono quando il resto del mondo è sveglio e vegliano quando il resto del mondo sta dormendo. Una generazione sospesa e lontana da ciò che la circonda e apparentemente apatica». Forse è ora di rivalutarli come Squali. Una era la visione di un padre, adesso c’è la visione di un figlio che come Max non ha più l’acne, rinuncia ai timidi e mal riusciti tentativi di avere i capelli come gli altri, ha la barba tenuta male e
il naso un po’ storto dopo un colpo in una partita di basket in cui, tra l’altro, è entrato all’ultimo minuto solo per far presenza, sorride al ricordo della cilecca alla prima esperienza sessuale in cui Anna risponde che è un vero disastro e che proprio per quel motivo gli avrebbe sempre voluto bene. È la forza di una generazione piena di strumenti, giovani che possono farsi notare da un produttore creando la propria musica e caricandola su una piattaforma prima di essere chiamati a cena dalla mamma; che possono procurarsi contratti di lavoro girando un video nel cortile di casa; che possono viaggiare liberamente in Europa – un territorio per cui i loro nonni si sono fatti la guerra. Gli Anna e Marco di Lucio Dalla in cui l’«America è lontana / dall’altra parte della luna» appartengono all’epoca che fu. Ma la corsa al futuro non è esente da rischi: «Quando si nuota veloci si rischia di vedere tutto sfocato, per questo a volte ha senso rallentare per capire dove stiamo andando», scandisce Mazzariol. Per non avere fretta di ingozzarsi Max decide di non dirigere la start-up, ma di iscriversi all’università. Frenare un po’ va bene. A patto di non mollare, non accontentarsi, non fermarsi.
Avvento. Una parola che richiama immagini di calma e di attesa, di intimità e di calore. Immagini che fanno bene al cuore, ma che spesso si scontrano con una realtà fatta di fretta e stress. La scelta dei regali, il menu per le Feste, le questioni lavorative da evadere prima delle vacanze: le incombenze che pure fanno parte di questo periodo si vanno ad aggiungere alla già fitta «to do list» che accompagna la nostra quotidianità. Così, nel periodo pre-natalizio la discrepanza tra il modo frenetico in cui viviamo e quello in cui vorremmo vivere – riuscendo cioè a gustare appieno dei momenti significativi – si fa sentire con maggiore intensità. Oggigiorno ci sentiamo a disagio se «perdiamo tempo». Non essendo più abituati a, semplicemente, non fare nulla, reagiamo cercando stimoli esterni, che di solito troviamo facilmente nella nostra borsa o nella nostra tasca; invece di limitarci a guardare fuori dal finestrino dell’autobus, rispondiamo ai messaggi su WhatsApp, mentre aspettiamo il nostro turno alla cassa del supermercato, diamo una rapida lettura alle email in arrivo. Quello che però non consideriamo è che l’immobilità serve per ricaricare le batterie. Il flusso costante di stimoli esterni, anche se gratificanti sul momento, causa un sovraccarico cognitivo, che danneggia la nostra capacità di pensare, pianificare, risolvere problemi, prendere decisioni, imparare nuove cose, ricordare informazioni e controllare le nostre emozioni. In altre parole, danneggia la nostra produttività. Ed è anche per questo che, sebbene i progressi della tecnologia aumentino il tempo a nostra disposizione, sia a casa che sul lavoro, viviamo con la costante sensazione che ci manchi il tempo. Inoltre, non concedendoci più il lusso di non fare nulla, ci rendiamo meno sensibili alle sensazioni e alle emozioni. Di conseguenza, quando ci sembra che nella giornata non ci sia abbastanza tempo per fare tutto, probabilmente quello di cui avremmo bisogno sarebbe più immobilità, per ricaricarci, per sentire, per goderci appieno la vita che stiamo vivendo. Visto che si avvicina il momento di formulare i buoni propositi per l’anno nuovo, si può pensare di introdurre dei piccoli cambiamenti, come guidare in silenzio, con radio e telefono spenti, incoraggiare i propri figli a guardare fuori dal finestrino piuttosto che sullo schermo del loro dispositivo elettronico, fare una passeggiata all’aria aperta, senza distrazioni. Per chi volesse fare un passo in più, esistono numerose tecniche accomunate dall’obiettivo di essere immersi nel «qui e ora», come la meditazione o il training autogeno, per citare le più classiche. «Tempo di qualità: alla riscoperta della lentezza e della presenza personale» è un seminario nel quale Andreas Barella, personal e professional coach con studio a Mendrisio, presenta un insieme di queste tecniche. Con il termine «lentezza» non si intende necessariamente che le cose vadano fatte piano, piuttosto che ci si prenda il tempo per farle; il che non è scontato, dal momento che, in un’ottica di ottimizzazione dei tempi, siamo portati a fare l’esatto contrario, a fare cioè una cosa e intanto a pensare già alle successive. «Fare degli esercizi con il corpo aiuta, nel senso che svolgendo con attenzione qualcosa che non si è abituati a fare, si deve per
forza essere presenti con la mente e le proprie emozioni», spiega Barella, che popone questo corso ciclicamente (l’ultima edizione si è svolta il 17 novembre, nell’ambito dei Corsi per Adulti del Cantone): «in queste occasioni si analizzano e sperimentano inoltre azioni che abbiamo un po’ abbandonato, come la creazione di piccoli rituali personali o la consuetudine di ritagliarsi del tempo per se stessi», continua Andreas Barella, che dopo un dottorato in anglistica e romanistica presso l’Università di Zurigo, si è formato presso la Scuola di psicoterapia integrata di Lugano e la School of Gestalt and Experiential Teaching di San Francisco, nella sede di Francoforte. «Uno dei concetti cardine della psicologia della Gestalt è proprio il “qui e ora”, la focalizzazione e il potere del presente», spiega Barella, che ha pubblicato tre libri e tiene corsi in Svizzera, Italia, Francia, Germania, Austria e Stati Uniti. Questo concetto cozza con il tempo nel quale siamo immersi, che non è il «tempo di qualità»: «Lo definirei piuttosto un tempo rapido, in cui non c’è il tempo – si scusi il gioco di parole – di essere presenti nelle cose che si fanno, perché la testa o il corpo o le emozioni sono da un’altra parte. Un tempo in cui siamo dominati dalle cose che accadono fuori di noi, in cui le emozioni che da esse ci vengono non sono né controllate, né controllabili». Un concetto semplice e lineare solo all’apparenza quindi, quello del tempo. Letteralmente esso è un insieme di istanti che si susseguono e non possono essere fermati. Una definizione che dà l’impressione che il tempo sia qualcosa di oggettivo. «In parte è così: se guardiamo l’orologio, il tempo procede incessantemente e allo stesso modo», commenta lo psicoterapeuta e studioso di mitologia, «quello che interessa me in quanto umanista e professionista che lavora con le altre persone, è però la parte soggettiva del tempo, guidata dalle emozioni che viviamo mentre facciamo qualcosa». Per intenderci, quella per cui quando facciamo qualcosa di noioso il tempo sembra non passare mai, mentre quando facciamo qualcosa che ci piace, vola. «Addirittura, in certe rare e meravigliose occasioni – come l’inizio di una storia d’amore – il tempo sembra non esistere più. In questi momenti, la frase “Ti amerò per sempre” più che un’indicazione temporale dà un’indicazione di intensità», continua, «il suo
Il tempo è un concetto semplice e lineare solo all’apparenza.
senso sarà quindi: “in questo momento ti amo talmente tanto che non può che essere per sempre”. Questo per dire che il tempo è condizionato da come ci sentiamo e che, di conseguenza, abbiamo un bel margine di manovra su come intenderlo e viverlo», afferma Barella, che collabora con numerose istituzioni, tra cui il Dipartimento della Sanità e della Socialità, l’Organizzazione Sociopsichiatrica Cantonale, l’Alta Scuola Pedagogica di Locarno e la RSI. Per farlo bisogna uscire dal vortice delle cose imposte e sapersi interrogare. «Naturalmente non tutto dipende da noi, ma le cose che possiamo scegliere sono più di quelle che pensiamo. La qualità ognuno la deve chiarire nella propria mente. In genere ciò avviene all’interno di un percorso di crescita personale, per diventare veramente se stessi», afferma il personal e professional coach. «“Perché siamo sulla terra?”, “Qual è lo scopo della nostra vita?”, “Quanto tempo dedichiamo alla qualità?”; dobbiamo porci questo tipo di domande, che non hanno risposte univoche, anzi, le cui risposte sono meno importanti del continuare a porsi degli interrogativi», spiega Barella. Dobbiamo cercare così di individuare il nostro centro di gravità, che sarà fatto di cose piccole e cose grandi, ma comunque importanti perché ci indicano dove vogliamo andare e, anche, dove non vogliamo andare. E perché ci aiutano a non farci travolgere dal tempo oggettivo, dalle cose che effettivamente ognuno di noi ha da fare, per fare in modo che la vita non sia solo questo e possa essere vissuta con maggiore intensità. «Il tempo di qualità è quindi quello che spendiamo per fare delle cose che sono importanti per noi. E le cose in questione sono quelle che concorrono il più possibile a creare la nostra immagine ideale del mondo», sintetizza l’esperto. Anche elementi semplici, quali il silenzio o la solitudine, possono aiutarci a mettere a fuoco gli obiettivi che guidano la nostra vita. «Facendo una passeggiata nel bosco, i ritmi e il respiro del mondo che si percepiscono sono diversi rispetto al centro città. D’altra parte certe persone riescono a concentrarsi meglio nel rumore», conclude Andreas Barella, «in ogni caso è la mente a fare la differenza; quello che fa rumore dentro di noi sono i pensieri. Di conseguenza, ovunque può essere un buon posto. L’importante è che si conquisti il silenzio interiore».
La creatura oggi Mostre Allo Strauhof di Zurigo un itinerario
su Frankenstein arriva fino alla Silicon Valley Sebastiano Caroni Il buio, reale e metaforico, da sempre alimenta le nostre paure, dà forma ai nostri incubi. Anche la scienza, si sa, ha il suo lato oscuro, spesso più immaginario che reale. E se i tempi cambiano, e i progressi della conoscenza galoppano, paure e timori, a quanto sembra, si rinnovano. Da qui la necessità di interrogarsi, di riflettere, di confrontare il passato con il presente, e viceversa. È quanto ha deciso di fare il Museum Strauhof di Zurigo, con un’intrigante proposta: un itinerario tematico che, partendo dal romanzo Frankenstein di Mary Shelley – inizialmente pubblicato nel 1819 – arriva dritto nel cuore della contemporanea Silicon Valley, tempio mondiale dell’intelligenza artificiale. Se è vero che da quel lontano 1819 il sapere ha fatto passi da gigante, non si può certo dire che le scoperte scientifiche abbiano smesso di destare preoccupazioni, nutrire dubbi, e animare paure che ci prospettano un futuro quantomeno rannuvolato. Con il romanzo del 1819, Mary Shelley inaugura un genere, quello della fantascienza, e dà forma a un personaggio il cui destino non ha mai smesso di essere attuale, come testimoniano le molte trasposizioni teatrali prima e poi cinematografiche di Frankenstein nel XIX e nel XX secolo. A dare impeto all’appassionante vicenda narrata nel romanzo, e ad animare incubi di più di una generazione, è l’azione sconsiderata del Dottor Frankenstein che, assemblando parti del corpo provenienti da diversi cadaveri, infonde la vita a una creatura che gli sfuggirà di mano, diventando una potenziale minaccia per il genere umano. Senza nome, l’essere prodotto dal dottor Frankenstein verrà indicato, lungo la narrazione, con una serie di epiteti denigranti che attingono tanto alla semantica del mostro quanto a quella e del diavolo. Se, da una parte, l’assenza del nome agevola la sovrapposizione metonimica della creatura al creatore (nell’immaginario collettivo il nome Frankenstein designa la creatura piuttosto che il creatore), d’altra parte quell’assenza si configura come un luogo simbolico in cui si insinua una paura irrazionale, indefinita, che incessantemente si rinnova, e che si tramanda di generazione in generazione: fino a giungere ai giorni nostri dove, sotto il sole della California, prendono forma le moderne «creature» dotate di intelligenza artificiale. Sarà che forse, oggi come allora, ci si prospetta un mondo nel quale non siamo più noi a controllare la scienza e la tecnologia, ma sono la scienza e la tecnologia a controllarci?
O sarà che forse il laboratorio (un luogo chiuso, protetto, appartato), vero e proprio dispositivo della modernità, finisce per essere associato, oggi più che mai, al potere demiurgico dell’essere umano? È noto infatti che tanto più le ricerche sono di punta e si annunciano innovative, tanto più vengono svolte lontano dagli sguardi indiscreti dei diretti concorrenti, dei media o di altri agenti. Inevitabilmente, quindi, chi non manipola direttamente il sapere, si ritrova vittima e complice di una doppia lontananza. È infatti lontano dai nostri sguardi che si consumano le fasi decisive delle sperimentazioni scientifiche. Nel migliore dei casi, si tratta di laboratori ben forniti o, nel caso dell’intelligenza artificiale, di moderni centri informatici. Può capitare però che, complici anche i timori e le paure che alimentano il lato oscuro della scienza, l’immaginazione ci prospetti luoghi nascosti che ospitano esperimenti clandestini: magari degli scantinati, o dei magazzini abbandonati, dove scienziati dissennati minacciano di combinare chissà quali disastri planetari, come nelle avventure di James Bond, o nella saga di Mission Impossible. Oppure, più prosaicamente, la fantasia ci suggerisce dimore private trasformate in laboratori improvvisati. Avete presente il film La mosca di David Cronenberg? La seconda lontananza, invece, è simbolica. Oggi forse più che in passato, la specializzazione del sapere rende sempre più difficile, per non dire impossibile, una conoscenza organica e comprensiva del mondo. Ecco che allora si fa strada il timore che il progresso finisca nelle mani di robot superintelligenti – moderni pronipoti della creatura del dottor Frankenstein –, che potrebbero porre fine al mondo così come lo conosciamo. Siamo, lo ripetiamo, sul terreno dell’immaginario: un insieme di narrative, immagini, sogni e timori che definiscono un’epoca, e che tanto la letteratura, il cinema, la politica, il marketing, quanto la scienza più avanzata contribuiscono a creare. Poiché, in fondo, tutto è appeso a qualche fragile domanda: chi siamo? dove andiamo? cosa desideriamo e cosa, invece, temiamo? Con delle domande così importanti, è facile immaginarsi che qualcosa, ogni tanto, possa andare storto. Dove e quando
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 dicembre 2018 • N. 52
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Società e Territorio Rubriche
Lo specchio dei tempi di Franco Zambelloni Pipa e papi Ritrovo una vecchia cartolina d’auguri natalizi, scritta da un parente alcuni decenni fa: in fronte, naturalmente, figura Babbo Natale nel classico abbigliamento tradizionale – lungo berretto rosso con fiocco bianco, fiocchi di neve che cadono dall’alto, le renne in attesa di ripartire. Ma c’è un particolare che attira la mia attenzione: Babbo Natale tiene in bocca una pipa! Già: erano altri tempi… Stava appena tramontando l’epoca in cui fumare la pipa era non solo una pratica diffusa, ma anche un segno di distinzione virile, uno svago rilassante accanto al focolare del camino, una pausa di meditazione. Ricordo che Van Gogh, nei suoi autoritratti, si raffigurava con una pipa in bocca; Courbet e Modigliani, anche; una celebre fotografia di Einstein lo presenta mentre fuma la pipa; e così anche una foto di Stalin, e via di seguito. E ricordo che Baudelaire, in un sonetto di Les
fleurs du mal intitolato appunto La Pipe, fa parlare la sua pipa e le fa dire che, nella rete azzurra delle volute di fumo, incanta il cuore e cura le pene del poeta. Oggi è abbastanza raro incontrare qualcuno con una pipa in bocca. Forse perché è prevalso l’uso della sigaretta, indubbiamente più comoda e spiccia; forse perché, comunque, le campagne di prevenzione contro il fumo condannano il tabacco comunque lo si consumi; ma anche, indubbiamente, perché la pipa è passata di moda. La moda ha sempre guidato preferenze, valori e comportamenti, anche nel campo del vizio; oggi, a giudicare dai dati che di tanto in tanto vengono resi pubblici, direi che altre sostanze stanno avanzando nell’indice di gradimento dei consumatori: droghe più o meno leggere, più o meno legali, e anche psicofarmaci – che sono pur sempre droghe. Quando pensiamo alle droghe intendiamo di
solito la cocaina, l’eroina e cose del genere; ma anche gli psicofarmaci operano sui neuroni, stimolano la produzione di serotonina e di dopamina e producono, sotto controllo medico, quello che le droghe fanno disordinatamente. Ora, non credo sia un caso che il consumo di queste sostanze psicotrope aumenti – stando ai dati statistici – proprio in occasione di ricorrenze come il Natale; e così anche i casi di depressione, le cardiopatie e i suicidi, come riferiva pochi anni fa la rivista scientifica «Mente & Cervello»: «Gli studi sulla relazione tra stress e depressione inseriscono il Natale tra gli eventi stressanti per gli stimoli emotivi legati a questa ricorrenza». Ma perché? Non è certo colpa dell’albero inghirlandato, né della ricorrenza religiosa. Piuttosto è il fatto che il Natale è per tradizione festa degli affetti, delle riunioni familiari: quando questo manca la solitudine
pesa più che nelle altre circostanze. Lo si comprende bene da una lettera che nel 1923 il poeta Rainer Maria Rilke, allora quasi cinquantenne, inviava alla madre: il senso del Natale, dice il poeta, sta nella gioia dell’attesa: «Non c’è momento in cui la gioia sia più riconoscibile e afferrabile che nella pre-gioia. E siete stati voi, tu e papà, a insegnarmela in modo incomparabile». L’attesa, dunque: l’attesa di un momento gioioso, di una festa tra persone care. Credo che anche per un bambino siano queste le cose più belle: certo, i regali, i giocattoli desiderati e suggeriti per lettera (si usa ancora?) a Babbo Natale fanno parte della festa; ma senza l’attesa, specie in quest’era consumistica, qualche regalo in più non avrebbe molto significato. È l’affetto che conta. Non per nulla il barbuto personaggio fiabesco che porta i doni col suo carro trainato da renne si chiama «Babbo» Natale: la sua figura si identifica con quella di
un padre, non tanto perché il capofamiglia è (o era) anche il finanziatore della festa, ma perché è l’affetto del genitore che impreziosisce il dono. Mi auguro che questa tradizione conti ancora a lungo per l’immaginazione e l’affettività dei bambini, anche se la moda inevitabilmente modifica sempre qualcosa: ad esempio, credo che «babbo» sia una parola ormai desueta e che occorra spiegare al bambino che designa pur sempre il papà. Ma anche «papà» è un po’ in disuso: sempre più spesso sento bambini che si rivolgono al genitore chiamandolo «papi». Non mi stupirei se, nel giro di qualche anno, Babbo Natale diventasse «Papi Natale»; ovviamente, senza una pipa in bocca! In ogni caso, comunque si voglia chiamare il fiabesco portatore di regali, auguro ai miei eventuali lettori che questa figura tanto cara all’immaginario infantile porti loro in dono serenità, affetti e gioia.
deranno le luci al momento giusto. Anche in cucina niente paura, se la vostra ad esempio è una famiglia con origini e tradizioni mediterranee con grandi attese per la tavola, oltre ai robot, in cucina saranno al lavoro le stampanti 3D. Per me che non cucino è impensabile accettare che una stampante digitale possa arrivare dove non arrivo io! Se anche voi nutrite dei dubbi vi consiglio di ascoltare Hod Lipson, professore di ingegneria robotica alla Columbia University: «cuciniamo ancora come gli uomini nelle caverne, con la fiamma, utilizziamo strumenti molto primitivi, ma quando questa tecnologia entrerà nelle nostre case sarà una rivoluzione». Dunque molto presto il mondo si dividerà tra chi preferisce cucinare con le mani e chi con i software. Per allora le nostre case saranno
completamente intelligenti e interconnesse. I nostri assistenti personali sceglieranno per noi le playlist su Spotify, i film preferiti su Netflix e, speriamo, la lettura su Audible di un grande classico come la Ballata di Natale di Charles Dickens. Per la consegna dei regali ci penseranno i droni. E se dobbiamo andare dai parenti, niente paura, la nostra self driving car sfiderà per noi le intemperie e l’elevato tasso alcolemico delle feste. E se non incontrerete più Babbo Natale e le sue renne, non sorprendetevi, saranno in Lapponia a scaldarsi davanti al camino mentre la self driving slitta consegna i regali ai bambini. E magari anche noi, nel frattempo, a furia di delegare e fare sempre meno, avremo raggiunto la circonferenza di Babbo Natale... Tanti auguri!
La società connessa di Natascha Fioretti Tenetevi stretto il vostro Natale Ricordo i Natali in Germania quando ero bambina. Tutto si svolgeva secondo tradizione e l’atmosfera era magica. Anche perché a Natale quasi sempre nevicava e il nonno mi portava nei boschi con la slitta di legno. Ora a Natale è più probabile che splenda il sole. Il pomeriggio della Vigilia in casa c’era grande attesa. Il salone veniva chiuso e l’accesso era permesso soltanto a chi faceva l’albero, solitamente i miei genitori. Erano loro che avevano la fortuna di incontrare Babbo Natale. «Shhh! Tu non devi vederlo altrimenti finisce la sorpresa!» mi dicevano. Inutile dire che trascorrevo l’intero pomeriggio in subbuglio. Poi quando faceva buio andavamo a messa tutti insieme, genitori e nonni. Che meraviglia ascoltare il coro di bambini cantare le canzoni di Natale, le sapevo tutte a memoria, Stille Nacht, O du
fröhliche... Era emozionante cantare nella chiesa neogotica del paesello dei nonni con tutte le lucine accese, gialle e calde, non a led, fredde, o blu come quelle che vanno di moda oggi. Finita la messa si tornava a casa e si aspettava il suono della campanella, il segnale per dare il via alla festa. Ed eccolo lì, nell’angolo, il maestoso e felice albero, vero naturalmente, illuminato dalle candele, vere anche quelle, dagli addobbi di legno tra colori naturali e rosso ciliegia. La musica in sottofondo, il disco di Roy Black che cantava Jingle Bells girava sotto la testina del giradischi. Che felicità era il Natale! Poi il nonno, con quella sua voce solenne, leggeva qualche passaggio della Bibbia, si brindava, ci si scambiava gli auguri e si aprivano i regali. Seguiva la cena ma in quello a casa mia, seppur tutto veniva sempre studiato nei minimi
particolari, non si eccedeva, anche se mia nonna Inge era una cuoca sublime. Se si esagerava, io ero la prima, allora era nei biscotti e nei dolci natalizi all’ora del caffè. Non so quali siano le vostre tradizioni, ma posso dirvi una cosa: «tenetevele strette». Già nel 2028 il Natale nelle nostre case potrebbe essere totalmente differente. Il cambiamento climatico con tutto ciò che ne consegue, per allora avrà diffuso uno spirito ecologico, speriamo, per cui l’abete vero scomparirà dalle case, idem quello finto, per lasciare posto ad un bellissimo e perfetto ologramma del vostro albero illuminato a festa con tanto di pacchetti e pacchettini perfettamente incartati con tanto di nastro rosso. E mentre lo ammirerete il vostro assistente personale e gli speaker intelligenti faranno partire la musica e accen-
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Ambiente e Benessere Natale lappone senza neve Il cambiamento climatico si fa sentire nell’estremo nord, creando scenari impensabili
Nel paese di Stille Nacht Un viaggio nella regione di Salisburgo sulle tracce di Joseph Mohr e Franz Xaver Gruber, compositori del celebre canto natalizio
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Medicina Vincere le barriere che la malattia
ci ha imposto è l’elemento cardine della riabilitazione muscolo scheletrica
Maria Grazia Buletti «La malattia è come un viaggio. Pensiamo ad esempio di essere in viaggio per Hong Kong, seduti nella sala d’attesa dell’aeroporto. Non diamo tutto per scontato a questo mondo e diciamo che talvolta un ambiente del genere, con il via vai e la sua confusione, potrebbe disorientarci per un momento. Ecco: se qualcuno ci indica la strada, allora potremmo sentirci rassicurati e proseguire più serenamente il nostro cammino. Pensate ad esempio a come potremmo sentirci se nessuno ci annunciasse un ritardo dell’imbarco… Se, per contro, il personale ci indica subito cosa succede, dove possiamo attendere, e ci chiede se abbiamo bisogno di altro, allora siamo più sereni e affrontiamo il nostro viaggio fiduciosi e con un animo tranquillo». Questo è l’esempio di accoglienza, cura e percorso di riabilitazione muscolo-scheletrica riservato ai pazienti della Clinica Hildebrand centro di riabilitazione dal dottor Claudio Petrillo, caposervizio di Fisiatria. Tutti, di fatto, possono essere soggetti nel corso della propria vita a traumi che toccano il nostro corpo, che si tratti di persone giovani o di anziani: «I pazienti di cui ci prendiamo cura sono persone di ogni età e possono giungere in riabilitazione in seguito a un evento chirurgico programmato, dopo il quale devono riacquisire le funzioni della parte corporea operata nel minor tempo possibile…»; in questo caso il medico porta ad esempio un intervento all’anca o al ginocchio pianificati, ai quali fa seguito un percorso riabilitativo. Mentre un altro genere di pazienti comprende, a detta del medico, quelli «meno fortunati, i quali si trovano in uno stato di necessità improvviso con un carico di problemi neuro-traumatologici di variabile gravità». Possiamo portare ad esempio i pazienti reduci da incidenti: «Pensiamo ai politraumi o ad altre patologie di origine muscolo scheletrica che sopraggiungono senza preavviso». Il paziente che accede a questo tipo di percorso giunge in Clinica annunciato dagli specialisti che lo hanno accolto e curato nell’immediato, vale a dire nella fase cosiddetta acuta. Poi: «Al momento del ricovero la persona entra in un itinerario in cui incontrerà i vari professionisti della riabilitazione, infermiere, medico specialista della riabilitazione, fisioterapista, ergote-
rapista, assistente sociale e cosi via, in modo che già durante le prime 24 ore si delinea un programma di percorso riabilitativo personalizzato al paziente e alla sua condizione». Nulla è lasciato al caso: «La presa a carico deve essere strutturata in modo da individuare gli obiettivi condivisi con il paziente stesso, che devono essere raggiunti nel corso del progetto riabilitativo con lo scopo ultimo del recupero della sua autonomia quanto prima possibile». La multidisciplinarità è basilare: «Rappresenta le fondamenta del successo riabilitativo in cui non bisogna però dimenticare la personalizzazione delle cure definita dalle varie professionalità che mettono a disposizione degli altri le proprie valutazioni realizzate in base alle proprie competenze ed esperienze. Esse vengono confrontate con quelle degli altri per arricchirle, completarle e correggerle in modo da ottenere alla fine un’armonica valutazione del paziente nella sua globalità fisica e psichica, affettiva e relazionale». Inoltre, palestra, piscina e laboratori ergoterapici di riproduzione dell’ambiente quotidiano sono fattori imprescindibili del percorso: «La valutazione e il monitoraggio in palestra del percorso con il fisioterapista è sostanziale perché non tutte le terapie riabilitative vanno bene per tutti (alcune possono rivelarsi dannose se non indicate nello specifico)». Lo specialista, dal canto suo, riflette ad alta voce e ritorna sulla multidisciplinarietà: «Come faccio, malgrado tutti i limiti accertati, affinché la persona possa raggiungere il massimo nel percorso di cura? Fisoterapista, ergoterapista, infermieri riabilitativi, psicologo, nutrizionista, dietista: sono tutte le figure che devono mettere in campo le giuste strategie affinché il paziente progredisca in sicurezza e ottenga vantaggi funzionali per poter rientrare a domicilio prima possibile». Lungo la nostra visita individuiamo la diversa tecnologia che permette di potenziare il raggiungimento degli obiettivi. Ad esempio: il pavimento della piscina che si può muovere modulandone la profondità, gli ausili elettronici della deambulazione computerizzata e le apparecchiature di terapia che sfruttano i principi dei mezzi fisici naturali come acqua, luce, corrente, calore, suono (utrasuoni, termoterapia, onde d’urto, correnti elettriche). Tutto a supporto dell’elemento cardine della strategia riabilitativa muscolo scheletrica che risiede nel
Il dottor Claudio Petrillo, caposervizio di fisiatria alla Clinica Hildebrand di Brissago. (Vincenzo Cammarata)
recupero della funzionalità come riacquisizione dei semplici gesti quotidiani e delle capacità personali nella vita di tutti i giorni: «Cucinare, lavarsi, stirare, muoversi, salire le scale, sono tutti gesti “normali” a cui non diamo peso perché li facciamo in automatico. Quando ne perdiamo l’abilità, ecco che ci rendiamo conto di quanto sia importante recuperare queste nostre capacità, fra le quali sta pure il potersi muovere, raggiungere altre persone vincendo le barriere che la malattia ci ha imposto». La degenza media del percorso di riabilitazione è di circa due settimane e mezzo per i casi meno complessi, ma tanto dipende dal tessuto corporeo, dall’età, dall’individualità del paziente stesso e, non da ultimo, dal trauma subito: «Tanto più è complesso, quanto più fattori entrano in gioco. Pensiamo a un politraumatizza-
to: bisogna riuscire a “metterlo nuovamente in piedi”, farlo camminare, restituirgli autonomia nelle sue funzioni di base perché riacquisisca la massima autonomia possibile, di cui abbiamo già più volte parlato». La risposta del nostro interlocutore sottolinea l’importanza del rapporto medico – paziente: «Siamo consapevoli che bisogna investire tanto tempo per conoscere il paziente e, malgrado le grandi sollecitazioni cui siamo sottoposti, dobbiamo mantenere il focus su di lui». Inoltre: «Per il Fisiatra è fondamentale mettersi nei panni del paziente stesso: bisogna che percepisca la sua reale volontà, le sue paure… Ricorda l’esempio del viaggio che inizia in aeroporto? Il paziente va sostenuto e accompagnato, e poi reso sempre più indipendente». Il dottor Petrillo sostiene fermamente quella necessità di essere
«catalizzatore» anche nei confronti dei parenti della persona in riabilitazione, con lo scopo di riuscire a trovare una soluzione comune alla cura, sempre per il suo bene: «Ascolto e comprensione restano fondamentali».
Video intervista Sul canale Youtube di «Azione» e su www.azione.ch la videointervista al Dr. Petrillo.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 dicembre 2018 • N. 52
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Ambiente e Benessere
Un Natale senza neve?
Viaggiatori d’Occidente Cattive notizie dal Villaggio di Santa Claus in Lapponia
Bussole Inviti a
letture per viaggiare
Claudio Visentin Sapete dov’è la Lapponia, la casa di Babbo Natale? Se avete dei dubbi, siete in buona compagnia. Secondo una recente ricerca di TUI, il principale Tour Operator tedesco, basata su un campione di duemila interviste, il 78 per cento degli inglesi non ha saputo dare la risposta esatta, ovvero: la Lapponia è una vasta regione scarsamente popolata nel nord della Scandinavia, divisa tra Norvegia, Svezia, Finlandia e Russia. Ma si può fare anche peggio. Per esempio un quinto degli intervistati pensa che la Lapponia sia uno Stato indipendente, mentre quasi un terzo la crede un luogo di fantasia. In compenso il 7 per cento del campione ritiene un luogo reale Hogwarts, la celebre scuola per maghi di Harry Potter; e il 6 per cento vorrebbe visitare Gotham City, la città di Batman. Non stupisce che uno su dieci almeno una volta nella vita abbia cercato di prenotare una vacanza in un posto inesistente… In compenso molti intervistati credono siano luoghi di fantasia l’Isola di Natale e l’Isola di Pasqua, ben presenti invece in tutte le carte geografiche. Peccato perché sono due luoghi molto interessanti. L’Isola di Pasqua, nell’Oceano Pacifico al largo delle coste del Cile, è famosa per le statue con teste gigantesche (moai) scolpite dagli abitanti tra il XIII e XVI secolo. La storia della fine di questa civiltà è molto discussa. Tradizionalmente si è individuata la ragione principale nell’eccessivo sfruttamento delle foreste; troppi alberi sarebbero stati abbattuti per utilizzarli nel trasporto dei moai, provocando così la crisi definitiva nel rapporto tra uomo e ambiente naturale. Anche la meno conosciuta Isola di Natale, a nord-ovest dell’Australia, ha diversi motivi d’interesse. Naturalmente si chiama così perché fu ufficialmente scoperta il giorno di Natale del 1643 dal capitano William Mynors, al comando della «Royal Mary», una nave della Compagnia delle Indie orientali. L’isola di Natale fu a lungo disabitata e grazie al suo prolungato isolamento flora e fauna si sono evolute indisturbate. Anche oggi gran parte dell’isola è un Parco nazionale, con vaste foreste primarie. Se per lungo tempo l’Isola di Natale è rimasta ai margini della storia, recentemente è stata invece toccata dalle migrazioni. A partire dagli anni Novanta infatti la sua vicinanza con l’Indonesia (solo cinquecento chilometri rispetto ai duemila dall’Australia) ha attirato
Ambasciatore dall’animo verde
«Sarà che cominciare è la cosa più difficile e a forza di ragionarci sopra viene da rovesciare tutto e piazzare la fine dove dovrebbe stare l’inizio. Sarà che a ben guardare non c’è un inizio o una fine... Tanto vale allora prendere un filo tra i tanti, tirare e vedere cosa succede…».
Babbo Natale è rimasto all’asciutto.
numerose imbarcazioni di migranti. E poiché il governo australiano non consente l’approdo a chi arriva clandestinamente («No Way»), molti di loro sono stati trattenuti a lungo sull’isola, trasformata in una terra di nessuno. Ma torniamo alla Lapponia e alla sua capitale Rovaniemi, nel nord della Finlandia, dove si trova appunto il villaggio di Babbo Natale. Anche Rovaniemi non è sempre vissuta nel tempo sospeso delle favole. Durante la Seconda guerra mondiale la città fu quasi completamente distrutta dai nazisti e col ritorno della pace molti dei nuovi edifici furono progettati dal celebre architetto finlandese Alvar Aalto. Al momento Rovaniemi conta poco più di sessantamila abitanti, pur essendo la città europea con il territorio più esteso. Poco più a nord, esattamente lungo il Circolo polare artico, sorge il Villaggio di Babbo Natale. Qui ogni anno
giungono migliaia di turisti per incontrare in persona il grande vecchio e visitare l’ufficio postale, dove arrivano le lettere dei bambini di tutto il mondo. Si possono anche costruire giganteschi pupazzi di neve o avventurarsi nella foresta in motoslitta, con una slitta trainata dalle renne o da cani husky siberiani. Naturalmente le aurore boreali sono frequenti e spettacolari. In tutte le fotografie uno spesso manto di neve è la cornice ideale per queste attività; e in effetti in media ricopre il suolo per metà dell’anno. Non quest’anno però. A causa del cambiamento climatico, lo scorso luglio si è registrata la più elevata temperatura di sempre (32,2 gradi!). Il caldo ha ritardato anche la costruzione del Villaggio di ghiaccio, duecento chilometri a nord del Circolo polare artico: suite, ristorante, chiesa, tutto è realizzato con neve e ghiaccio. Ogni anno il villaggio
propone un tema diverso, per la stagione 2018-19 il motivo ispiratore sarà la serie Trono di spade con la sua grande barriera nel gelo del nord. Peccato solo che manchi il materiale da costruzione, ovvero la neve. Quest’anno infatti invece degli abituali venti o trenta centimetri ne sono caduti solo pochi fiocchi. Sono fioccate invece… le disdette, mandando in crisi la principale attività economica della regione. «Come spieghi a un bambino di otto anni che andremo a incontrare Babbo Natale al Polo Nord ma non ci sarà la neve?» ha chiesto giustamente un genitore deluso. Eppure anche questa delusione potrebbe essere un regalo, un inconsueto quanto efficace segnale d’allarme per gli incerti e gli indecisi. Se volete, potete continuare a dubitare dell’esistenza di Babbo Natale, purché vi convinciate che il cambiamento climatico è un problema serio e urgente.
Della cura che dobbiamo avere per il mondo tratta anche il nostro collaboratore Paolo Ciampi nel suo nuovo libro. Vi si narra la vita e i viaggi di un personaggio poco conosciuto, George Perkins Marsh, ambasciatore degli Stati Uniti prima nell’Impero ottomano e poi nell’Italia appena unificata, per volere di Abramo Lincoln. Qui rimase per ventun anni, o forse potremmo dire per sempre, poiché è sepolto nel Cimitero protestante di Roma. George Perkins Marsh era un uomo dai molti interessi, parlava diverse lingue (tra cui il prediletto islandese) e viaggiò a lungo nel Nord America, nel Mediterraneo e in Europa. In Turchia e in Arabia si appassionò ai cammelli e s’impegnò a lungo per introdurli negli Stati Uniti, dove tracciarono la via verso il Far West attraverso i deserti. È tuttavia ricordato soprattutto come il primo ambientalista americano. Camminando tra le foreste del natio Vermont o nei boschi di Vallombrosa, in Toscana (dove lo colse la morte nel 1882), trovò idee e parole nuove per ripensare il rapporto tra uomo e natura: impatto ambientale, sostenibilità, protezione del paesaggio. La sintesi di questa riflessione è nel suo libro del 1864, L’uomo e la natura. Ossia la superficie terrestre modificata per opera dell’uomo. Per primo George Perkins Marsh seppe riconoscere come molti eventi in apparenza accidentali – inondazioni, frane, disboscamenti, inquinamento dei corsi d’acqua, mutamenti del clima – fossero in realtà ricollegabili allo sconsiderato intervento dell’uomo: allora come oggi . Bibliografia
Paolo Ciampi, L’ambasciatore delle foreste, Arkadia, 2018, pp.160, € 14.–.
Meravigliarsi in motocicletta Editoria Appena uscito il libro del ticinese Gianni Ghisla che si intitola Sguardi sul mondo Loris Fedele La meraviglia del viaggio e non solo. L’autore annota che nel suo libro ci sono tre viaggi in uno. Il primo, quello fisico, effettuato in motocicletta fino in capo al mondo, illustrato da splendide fotografie che ci fanno scoprire o riscoprire una natura da salvaguardare. Il secondo, quello interiore, di chi osserva le cose con un occhio personale per riconoscere se stesso e parallelamente liberarsi dai preconcetti. Il terzo, quello riflessivo, che ti fa ripensare a quello che hai vissuto, a ciò che hai scoperto nel viaggio, alle testimonianze di cultura che hai trovato, alla coscienza di ciò che si è perso e di cosa si è guadagnato. Questo ultimo sentimento ti fa anche ricollegare alla fase che ha preceduto il viaggio, quando hai scelto un itinerario con entusiasmo, con cura,
e forse anche un poco di incoscienza. Nel libro di Gianni Ghisa, Sguardi sul mondo (Ed. Salvioni, 2018), c’è tutto questo. Ci sono voluti quattro anni tra preparazione, viaggio e scrittura, che si sono tradotti in un libro di 270 pagine, denso di significati. Ghisla, a cavallo di una potente motocicletta carica di tutte le sue cose, prima da solo e poi accompagnato dalla moglie Graziella, ha percorso in un anno 45mila km, attraversando quasi mezzo mondo. Nella sua attività professionale è stato insegnante e ricercatore. Appassionato di viaggi e di moto, appena in pensione ha coronato un sogno. È andato dall’Europa all’Asia per la via della seta, inseguendo antiche civiltà e filosofie. Prima era stato in Mongolia. Poi ha attraversato il Canada e il Nord America, a contatto con realtà moderne, vastissimi spazi naturali e parchi
splendidi. Infine ha percorso tutto il Sud America giù fino a Ushuaia, in Patagonia, ai confini del mondo. Negli Stati Uniti è stato anche sulle tracce degli emigranti ticinesi in California. Ghisla è nato e cresciuto a Mergoscia, in una di quelle nostre valli che dall’inizio del secolo scorso e per più di cinquant’anni hanno conosciuto la necessità di partire. «Partire è un po’ morire» diceva chi era costretto a lasciare gli affetti, la casa e la patria. Oggi per molti di noi questo detto risulta molto lontano dalla realtà e anzi si potrebbe rovesciare dicendo che partire è un poco vivere. Gianni Ghisla è uno che sa viaggiare. Non solo perché ha un’esperienza pluriennale di viaggio, ma per lo spirito con cui affronta i suoi grandi spostamenti. Capisce il significato del viaggio e lo cerca. Pianifica meticolo-
samente tutto ciò che può ragionevolmente programmare, ma è aperto alle sorprese e non lo spaventa l’affrontarle: sa che ne uscirà arricchito. Cerca il contatto con la natura e la gente. Non
La fedele compagna di viaggio.
manca di ricordare che una delle belle cose legate al viaggio è il ritorno. Un vero viaggiatore sa apprezzarlo almeno quanto l’avventura che ha precedentemente vissuto. Confrontarsi con l’ambiente per il proprio benessere è un privilegio per chi ha la possibilità di farlo: il viaggio è cultura, soprattutto se gli ambienti che si visitano sono diversi dai nostri. C’è chi si accontenta, per scelta o per necessità, di fare il turista in una breve vacanza, ma questo non corrisponde di certo all’idea di viaggio che ha l’autore. Onestamente va notato che sono pochi quelli che spingono il loro viaggio ai suoi livelli. Ma potrebbero essere molti quelli che sfogliando il suo libro e venendone catturati siano spinti a scegliere il loro angolino di mondo da scoprire, magari solo con la fantasia.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 dicembre 2018 • N. 52
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Ambiente e Benessere
Tanti auguri a Stille Nacht!
Ricorrenze Compie 200 anni la famosa melodia natalizia tradotta nel mondo in più di 300 lingue e dialetti,
simbolo di pace e speranza Amanda Ronzoni, testo e foto Il Natale si avvicina e nell’aria, oltre al profumo di zenzero e neve, probabilmente risuonano le note di una canzone. Quelle di Stille Nacht sono nella top 10 delle feste natalizie da ben 200 anni. Un compleanno importante, che in Austria stanno festeggiando da ben 12 mesi. Tutti conoscono il motivo di Astro del Ciel, versione in italiano della canzone, scritta dal prete salisburghese Joseph Mohr, di cui non è una semplice traduzione, ma un testo originale composto da Angelo Meli e pubblicato nel 1937 dalle Edizioni Carrara di Bergamo. Magari pochi sanno che Stille Nacht è stata scritta anche per «colpa» di un vulcano lontano, il Tambora, che si trova sull’isola di Sumbawa nell’arcipelago indonesiano della Sonda, e che nel 1815 eruttò gettando un’enorme quantità di ceneri in atmosfera, causando, in concomitanza con altre eruzioni minori che si susseguirono nel resto del mondo, quello che fu chiamato l’anno senza estate, ovvero il 1816. L’Europa, già provata dalla povertà e dalle rovine seguite alle guerre napoleoniche, conobbe, come tutto l’emisfero boreale, una primavera molto fredda che vide stroncati tutti i raccolti sul nascere. Le condizioni di vita soprattutto degli strati meno abbienti della popolazione si fecero ancora più misere. Per consolare il dolore dei più poveri e infondere un poco di speranza, Joseph Mohr, colpito dagli stenti della sua gente e sensibile alle tematiche sociali, compose una poesia di sei strofe: una ninnananna per Gesù bambino, simbolo di speranza, rinascita e riscatto per tutti. Secondo la tradizione, le note che accompagnano il testo furono composte da Franz Xaver Gruber, maestro di scuola, musicista e compositore, su richiesta dell’amico Mohr, il 24 dicembre 1818, nei locali della vecchia scuola elementare di Arnsdorf, dove Gruber abitava. Stille Nacht fu eseguita per la prima volta nel 1818 nella chiesa di St. Nikola a Oberndorf, vicino a Salisburgo, con il semplice accompagnamento della chitarra di Mohr (sono invece successivi gli arrangiamenti per pianoforte e altri strumenti). Fu un successo e da quel momento la canzone prese a diffondersi, valicando i confini nazionali e arrivando praticamente in ogni dove. Oggi è tradotta o adattata in più di 300 tra lingue e dialetti del mondo, e per il suo messaggio di pace, speranza ed armonia, è stata nominata nel 2011 patrimonio culturale immateriale dell’UNESCO. La piccola Stille Nacht Chapel di Oberndorf raccoglie oggi gli arredi originali della chiesa di St. Nikola, dove il 25 dicembre 1818, la canzone fu presentata da Mohr e Gruber. Distrutta dalle inondazioni del vicino Salzach, la chiesa venne rimpiazzata dalla cappella odierna, edificata tra il 1930 e il 1936.
Mercato di Natale a Salisburgo.
La casa-museo di Franz Xaver Gruber a Hochburg-Ach (una più ampia galleria di immagini sul sito www.azione.ch).
Il successo planetario si deve all’opera di diffusione cominciata dalle famiglie di cantori itineranti della Zillertal, come i Rainer e gli Strasser, che fecero da cassa di risonanza della melodia prima in Austria, poi in Europa e infine in giro per il mondo. Grazie alla famiglia Rainer Stille Nacht arrivò alle auguste orecchie di alcune teste coronate. Correva l’anno 1822 e la famiglia si esibì niente meno che al cospetto
Monumento che ricorda Joseph Mohr e Franz Xaver Gruber a Oberndorf.
dell’imperatore Francesco I d’Austria e dello zar Alessandro I di Russia che, deliziato, li invitò da lui. Seguirono tournée in Germania, Svezia e Gran Bretagna. La canzone venne quindi stampata a Steyr dall’editore Joseph Greis, che garantì così la diffusione di una versione ufficiale. Nel frattempo, Stille Nacht venne eseguita a Lipsia e Berlino dalla famiglia Strasser (originaria di Laimach presso Hippach, il primo gruppo canoro a introdurre nel proprio repertorio il famoso canto natalizio). Accadde così che il re di Prussia Federico Guglielmo IV se ne innamorò e richiese a Salisburgo gli spartiti e il testo. Furono quindi sempre i Rainer, la seconda generazione, a portare la melodia oltreoceano, con una tournée che arrivò in America nel 1839. Missionari cattolici e protestanti contribuirono, infine, al termine del XIX secolo alla più ampia diffusione in tutto il resto del mondo. Oggi è possibile visitare i locali della vecchia scuola elementare di Arnsdorf, abitati dal compositore Franz Xaver Gruber tra il 1807 e il 1829, che ospitano lo «Stille Nacht Museum»: un restauro fedele che restituisce l’atmosfera in cui fu composta la melodia, tra oggetti d’epoca e moderne installazioni multimediali. All’interno, un planisfero interattivo mostra in quali paesi si canta Stille Nacht: in pochi click è possibile leggere le traduzioni del testo, o delle versioni locali, e fare approfondimenti su ogni nazione in merito alla diffusione della canzone. Diversi piccoli ma ben curati musei sorgono nei luoghi principali legati alla creazione e divulgazione di Stille Nacht. C’è la Strasserhäusl, a Mayrhofen, la casa in cui viveva Lorenz Strasser, fondatore dell’omonima famiglia di cantori. Agricoltore, merciaio, ma soprattutto mercante ambulante di guanti, nei mesi invernali portava la sua merce nei principali mercati tedeschi, come Berlino e Lipsia, dove i suoi figli, inclini al bel canto, si esibivano intonando arie popolari, in abiti tradizionali tirolesi, per attirare i facoltosi
Spartiti d’epoca.
Uno degli strumenti di Franz Xaver Gruber nello «Stille Nacht Museum».
clienti delle città. Vale una visita anche la casa-museo di Franz Xaver Gruber a Hochburg-Ach, nell’alta Austria, dove, accanto a semplici arredi d’epoca, troviamo un piccolo organo rudimentale, che lo stesso Gruber costruì da bambino per esercitarsi a suonare. Dall’abitazione è possibile raggiungere il Sentiero della Pace, «Franz Xaver Gruber Friedensweg»: un itinerario di circa due chilometri, creato nel 2012 e intitolato al compositore.
Il consiglio è di arrivarci di sera, con il buio: in una mano una lanterna per percorrere le stazioni (ognuna legata a un continente rappresentato da una scultura dell’artista Hubert J. Flörl, abbinato una strofa della canzone e a una citazione riferita alla pace), nell’altra una bella tazza di Glühwein (vino aromatizzato ai chiodi di garofano e cannella) per cancellare il freddo. E Buon Natale!
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 dicembre 2018 • N. 52
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Ambiente e Benessere
Spezie e salute La nutrizionista
Due maonie per i mesi freddi
Laura Botticelli
Mondoverde Un arbusto che fiorisce
Gentile signora Laura, mi chiedo da sempre quanto le spezie facciano bene. Sotto Natale aumentano i profumi e in particolare di zenzero e cannella. Un po’ perché il primo potrebbe aiutare – si dice – nei raffreddori, e perché il secondo fa «casa della nonna». Ma c’è il pan di zenzero che ricorda gli stessi odori, e i biscotti all’anice... Eppure ho sempre l’istinto ad associarli a bruciori di stomaco: mi viene da pensarle come spezie piccanti, o come spezie che andrebbero dosate perché potrebbero diventare nocive (tipo, si diceva all’epoca ma non so se è vero, lo zafferano)... Cosa mi saprebbe dire a riguardo? Visto che soffro un po’ di disturbi gastrici, è meglio evitare queste spezie o posso consumarle tranquillamente? La ringrazio e saluto cordialmente. / Emma Gentile signora Emma, la ringrazio per la domanda che è capitata proprio nel momento giusto. Sotto Natale spezie come zenzero, cannella e anice oltre a rendere magici i profumi nei luoghi dei mercatini natalizi donano il sapore caratteristico a molti piatti e a molte bevande invernali. Non solo rendono particolare il gusto dei nostri piatti, ma offrono anche una vasta gamma di benefici per la salute. Vediamoli uno alla volta. La radice di zenzero fresco, come tutte le spezie, contiene un’ampio spettro di composti chimici. Di conseguenza, date le loro particolari caratteristiche, aggiunge ai piatti un sapore forte e pungente; in particolare, la piccantezza può essere attribuita alla presenza del gingerolo. Questa specifica sostanza chimica non è troppo distante dalla capsaicina, il composto che dà al peperoncino piccante il suo sapore forte, e dalla piperina che si trova invece nel pepe nero. Se lo zenzero è cotto, la storia cambia. Quando lo zenzero viene riscaldato o essiccato, i gingeroli vengono trasformati in diversi composti, che possono alterare sia il sapore sia il grado di piccantezza. La cottura produce lo zingerone, che è meno piccante, ed è caratteristico del sapore di zenzero che si trova nel pan di zenzero. È meno pungente dei gingeroli, portando ad un sapore diverso dallo zenzero fresco. Di particolare interesse sono le molte
in pieno inverno e che si trova in ottima compagnia con molte altre varietà Sapori natalizi. (Marka)
indicazioni per la salute che si attribuiscono ad alcuni composti dello zenzero. Alcune derivano da studi con estensione limitata o con campioni di piccole dimensioni. Nonostante ciò le ricerche sembrano indicare possibilità di applicazione a una varietà di problemi di salute per i composti dello zenzero. È noto che molti di questi hanno proprietà antinfiammatorie e analgesiche. È anche provato che siano un rimedio per il male allo stomaco e la nausea. Sembra inoltre che aiutino la digestione e il flusso di saliva. Servono invece ancora ulteriori studi per accertarne il potenziale come agenti antitumorali e anti metastasi. La cannella, dalla corteccia dell’albero di cannella, contiene cinnamaldeide, procianidine, catechine, altri antiossidanti e composti antinfiammatori. È stata a lungo usata sia come spezia sia come rimedio nella medicina tradizionale, dove è stata usata per aiutare a curare disturbi come il raffreddore, il vomito e l’influenza; in particolare per migliorare la mancanza di appetito causata da quest’ultima o dal raffreddore. Ha anche effetti antipiretici e aiuta a proteggere e trattare sintomi come diarrea e dolore. Sembrerebbe avere anche potenti qualità che aiutano a combattere malattie croniche e gravi come il diabete, la malattia di Alzheimer e il cancro. Finora però i medici non lo raccomandano per tali problemi di salute. Sebbene la ricerca suggerisca possibilità interessanti, c’è ancora molto da fare per approfondire e comprendere i suoi benefici. L’anice è un’erba. Sono usati come medicinali il suo seme, l’olio, e, meno frequentemente, la radice e la foglia. Negli alimenti l’anice è usata come agente aromatizzante. Ha un sapore dolce e aromatico che ricorda il gusto della liquirizia nera. È comunemente usata in alcol e liquori ma viene anche utilizzata in latticini, gelatine, carni e caramelle rinfrescanti per l’alito. Alcune ricerche
Anita Negretti cliniche mostrano che l’assunzione di un prodotto specifico contenente anice, zafferano e semi di sedano riduce la gravità del dolore e la durata del ciclo mestruale. L’anice è comunemente usata per disturbi allo stomaco, gas intestinale, «naso che cola» e come espettorante per aumentare la tosse produttiva, come diuretico per aumentare il flusso di urina e come stimolante dell’appetito (anche se non esistono sufficienti studi scientifici che ne dimostrano effettivamente l’efficacia). Tutte queste spezie sono state usate da lungo tempo come ingredienti per aromatizzare i nostri cibi e come farmaci nella medicina tradizionale; ad oggi sono aperti dibattiti sul loro reale influsso sulla salute. Tra medicina scientifica e medicina tradizionale, mi sento di dirle, in qualità di dietista, di gustare queste meraviglie che ci regala la natura usandole per insaporire cibo e bevande. In tal modo le quantità assunte non saranno mai eccessive e se ne potranno godere i potenziali benefici sulla salute senza spiacevoli effetti collaterali. Se si desidera invece assumerle in versione più concentrata (ad esempio in capsule o pastiglie) raccomando di farlo con la massima attenzione, solo dopo aver chiesto consiglio a un medico specializzato o a un farmacista, poiché anche queste sostanze possono avere delle conseguenze indesiderate gravi, tra cui interazioni con altri farmaci, effetti lassativi, bruciori di stomaco e altro. Auguro a tutti delle Splendide Feste speziate!
Se nei mesi più freddi anche voi cercate colori in grado di riscaldarvi lo spirito, allora nel vostro giardino non possono mancare due varietà di Mahonia, dalle tonalità calde ed accese. Il genere Mahonia si compone di circa 70 specie di arbusti sempreverdi con fogliame verde scuro, dall’aspetto rigido, spinoso e con fiori giallo oro che sbocciano prevalentemente in primavera, seguiti successivamente da bacche bluastre. Fanno eccezione Mahonia nitens «Cabaret», una varietà presente sul mercato da soli dieci anni, che si differenzia da tutte le altre per via della produzione di spighe rosse alla cima dei rami, dai quali si apriranno i fiorellini gialli a metà autunno, perdurando per lunghe settimane. Alta e larga fino ad un metro, questa maonia è l’ideale per creare punti di interesse non troppo ingombranti ed in primavera le nuove foglie nascondono un segreto: alla nascita si presentano color porpora, che ben si differenziano da quelle più vecchie verde scuro. In fioritura in pieno inverno, tra il mese di dicembre e quello di febbraio, Mahonia x media «Winter Sun», svi-
Informazioni
Avete domande su alimentazione e nutrizione? Laura Botticelli, dietista ASDD, vi risponderà. Scrivete a lanutrizionista@azione.ch Le precedenti puntate della rubrica e altri interessanti quesiti su temi nutrizionali si trovano sul sito: www.azione.ch
Un bell’esemplare di Mahonia x Media «Winter Sun».
luppa lunghi pennacchi apicali giallo intenso. Raggiunge l’altezza massima di 4 metri, ma con buone potature da effettuarsi subito dopo la fioritura la si può contenere a dimensioni più basse, e predilige essere piantata in pieno sole o a mezz’ombra. Il periodo ideale per la messa a dimora di queste piante appartenenti alla famiglia delle Berberidaceae, sia che avvenga in piena terra, sia in un vaso capiente, è l’autunno, avendo attenzione a non rovinare il pane di terra delle radici, per evitare che la sofferenza radicale porti alla caduta dei boccioli pronti ad aprirsi. La buca ideale dovrà avere sul fondo qualche centimetro di ghiaia o ciottoli per evitare il ristagno dell’acqua in periodi di forti piogge, mentre per il substrato la maonia è in grado di adattarsi a qualsiasi tipo. Solo durante il primo anno andrà bagnata, se si tratta di piante in terra, visto che ha una notevole resistenza alla siccità, mentre per quelle in contenitore basterà irrorarle una volta alla settimana. Anche il concime, distribuito in marzo e settembre, scelto tra quelli in granuli, lo si somministrerà in scarsi quantitativi, non essendo piante esigenti. Le maonie stanno bene accanto a moltissime piante, come ad esempio un tappeto fiorito di viole blu, bianche e gialle da mettere a dimora ad ottobre e vederle fiorite fino a maggio, oppure vicino a cuscini di azalee e rododendri, con boccioli variopinti dal bianco puro al rosa intenso, nel mese di aprile. Possono esser accostate a graminacee dai colori appariscenti, come Imperata cilindrica «Red Baron», che ha steli erbacei alti 30-40 cm con le estremità rosso corallo che ben si delineano davanti alle foglie verde scuro della maonia. Oppure si può giocare sui contrasti con della Grivillea rosmarinifolia a fiori rosa-fuxia e Pittosporum tenuifolium dalle piccole foglie verde chiaro sfumate di bianco. Annuncio pubblicitario
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Ambiente e Benessere
Moglie, mamma e campionessa Sportivamente S pesso le donne nello sport hanno una marcia in più. I loro trionfi
nascono da sacrifici inimmaginabili Giancarlo Dionisio «It’s ok, my wife let me sleep during the night – È tutto a posto, di notte mia moglie mi lascia dormire». Mi ha incuriosito questa osservazione fatta da Rohan Dennis, 28enne ciclista australiano, neo campione del mondo della cronometro e neo papà da poche settimane. Un babbo felice, raggiante, che può beneficiare della comprensione e della disponibilità di sua moglie. Ammetto di non sapere nulla sulla signora Dennis. Ho solo appurato che si è calata dentro un modello classico di mamma e moglie, che resta a casa ad occuparsi del pargolo, lasciando che il maritoatleta possa allenarsi senza perdere preziose ore di sonno. Non c’è nulla di male. Così fan tutte. O quasi.
Selina Gasparin, Marit Bjoergen, Simone Niggli-Luder, Nicola Spirig sono madri e atlete di vertice C’è infatti una categoria di donne che, restando nell’ambito sportivo, riesce a smarcarsi ed a rompere gli schemi. Donne che sono ai vertici nella loro disciplina, decidono di fare un break per mettere al mondo un figlio, spingono il loro impegno atletico fino al limite ritenuto tollerabile dal medico di riferimento, restano fuori dal giro quel tan-
to che basta per avviare il pupo verso i primi passi della presa di contatto con il mondo extraplacentario, infine riprendono ad allenarsi e, quasi per miracolo, come una certa mistica definisce la maternità, tornano a gareggiare più forti di prima. Non è da tutte. Recuperare dopo gravidanza e parto comporta un progressivo riabituarsi allo sforzo e alla fatica da parte di un corpo che avrebbe tutto il diritto di sentirsi spossato. Pensate alle difficoltà che ha avuto nel suo «come back» Selina Gasparin. La biathleta grigionese, vicecampionessa olimpica nel 2014 a Sochi, ha messo al mondo Leila nel 2015, è tornata a gareggiare con risultati inferiori, per poi decidere col marito, il fondista russo Ilia Cernousov, di pensare ad un secondo figlio. Detto, fatto. Lo scorso 14 ottobre è nata Kiana. Sul suo sito web mamma Selina scriveva, in inglese, queste parole: «Farò il massimo sforzo possibile per tornare al più presto alle competizioni e mostrare alle giovani atlete che le vecchie madri non possono essere messe da parte». Auguri Selina, ce la puoi fare. Gli esempi non mancano. Se rimaniamo agli sport invernali, ha dell’incredibile la storia di colei che vanta il record di medaglie olimpiche: 8 d’oro, 4 d’argento e 3 di bronzo. Si chiama Marit Bjoergen, è nata il 21 marzo del 1980 a Trondheim, in Norvegia, ma in realtà è un’extraterrestre. Oltre agli allori olimpici ha conquistato, fra l’altro, 114 vittorie in coppa del mondo e 18 titoli
Argento nel Biathlon a Sochi 2014: Selina Gasparin. (www.gasparin.ch )
mondiali. Un primato. Il 26 dicembre del 2015, Marit, con 24 ore di ritardo rispetto alla quasi omonima Maria, ha dato alla luce Marius, figlio anche del compagno Fred Børre Lundberg, ex combinatista. Intenzionata da subito a riconquistare un posto sotto i riflettori, la regina dello sci di fondo ha comunque respinto il suggerimento del medico della nazionale norvegese, che voleva evitarle per 2 mesi qualsiasi contatto col bimbo, per scongiurare il rischio di contrarre malattie in prossimità dei Giochi Olimpici di Pyeong Chang. «Scherziamo» ha replicato «è più
importante che io possa aiutare mio figlio a socializzare, piuttosto che isolarlo per il rischio di ammalarmi. Sarà già dura restare senza di lui durante il mio soggiorno in Corea. Sfrutterò ogni momento per essergli vicino». Non solo Marit non si è ammalata, ma lo scorso mese di febbraio ha incrementato il suo bottino olimpico con 2 medaglie d’oro, 1 d’argento e 2 di bronzo, dopo che l’anno precedente, ai Mondiali di Lahti, aveva conquistato 4 titoli. È vero, nello sport ci sono gli atleti, i campioni, e i fenomeni. Spesso in quest’ultima categoria rientrano le donne, nonostante siano il più delle
volte discriminate sul piano finanziario e su quello della visibilità mediatica. In Svizzera c’è chi, in una disciplina purtroppo non olimpica, ha fatto persino meglio di Marit. Simone Niggli-Luder, orientista bernese, che ha compiuto 40 anni il 6 gennaio di quest’anno, di campionati mondiali ne ha conquistati 23, tra il 2001 e il 2013. Fra questi, 9 sono entrati in bacheca quando Simone era già mamma di Malin e dei gemelli Anja e Lars. Scusate, dimenticavo che, nel frattempo, l’atleta più vincente della storia, si era laureata in biologia all’Università di Berna. Non è molto diversa la vicenda di Nicola Spirig, triatleta 36enne di Bülach, laureata in diritto. Pratica uno sport massacrante, tuttavia, dopo l’oro ai Giochi di Londra del 2012, e dopo aver messo al mondo Yannis, è tornata sul podio olimpico a Rio de Janeiro nel 2016. Quindi è arrivata Malea, e mamma Nicola ha trionfato agli Europei di Glasgow. Nell’aprile del prossimo anno i signori Spirig Hug (il marito, ex triatleta di punta) accoglieranno il terzo pargoletto. Come dire che, in vista dei Giochi olimpici del 2020 a Tokio, la speranza di una terza medaglia è tutt’altro che irrazionale. E pensare che Nicola dovrà allenarsi per primeggiare in una disciplina multipla che comporta 1500 metri a nuoto, 40 km in bicicletta e 10 km di corsa a piedi. Ma lei ha, come spesso accade alle mamme, una forza interiore più profonda. Uno spirito di cui marito, figli, amici e sostenitori possono andare fieri. Annuncio pubblicitario
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Politica e Economia Il Natale visto dall’Islam Dall’estremismo religioso che genera violenza fra i mercatini al salafismo contrario ai valori della cristianità
La crisi dell’ambientalismo Che cosa lega la protesta francese contro le tasse ecologiche sui carburanti e l’esito deludente del vertice polacco Cop 24 sulla lotta al cambiamento climatico?
Tassa sul CO2: stallo al Nazionale Un’alleanza fra parlamentari di destra e sinistra della Camera del Popolo boccia l’adozione della nuova legge pagina 22
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Theresa May: il livello di aggressività a cui è stata sottoposta l’ha resa simpatica anche ai più riluttanti. (AFP)
Londra, l’ultimo Natale europeo
A 100 giorni dalla Brexit L’accordo di Theresa May sulla Brexit andrà ai voti la settimana del 14 gennaio,
ma il «no deal scenario» verso un’uscita dall’Ue sembra il più probabile, in un paese preso da una sorta di isteria collettiva
Cristina Marconi Chissà cosa penserebbe Ebenezer Scrooge della Brexit. Tutto preso ad accumulare soldi nella solitudine della sua vita di uomo avido, il banchiere del Canto di Natale di Charles Dickens sarebbe senz’altro felice di non dover più versare soldi a Bruxelles, anche se, con la sua maniacale attenzione ai quattrini, non vedrebbe di buon occhio l’incertezza economica e l’indebolimento della sterlina. Certo, c’è ampio margine per speculare e lui saprebbe trovarlo, ma alla fine dei conti a chi serve un Paese isolato e litigioso, spaccato e senza quello scintillio che ne ha fatto la capitale d’Europa anche quando, ben prima del referendum del 23 giugno del 2016, con l’Europa aveva già ben poco a che fare? In quest’ultimo Natale ufficialmente europeo, Londra si sente un po’ come il vecchio Scrooge, visitato da fantasmi passati e futuri che gettano mille dubbi sulla strada intrapresa per liberarsi da quello che veniva percepito come il giogo europeo. L’atmosfera, nel migliore dei casi, è quella di chi si prepara ad una decrescita felice, immaginando i vantaggi di un mercato immobiliare in calo del 30% – un bene per chi compra, ma con quali soldi visto che nessuno
venderebbe più? – e leggendo senza battere ciglio la notizia che dal 29 marzo, data ufficiale di uscita del Paese dalla Ue, è meglio non organizzarsi vacanze, nel caso non si raggiungesse un accordo con Bruxelles e la situazione precipitasse nella voragine del «no deal» tanto temuto ma anche evocato quasi con voluttà da un Paese in piena sindrome da «cupio dissolvi». Il governo dice che è meglio non partire perché si potrebbe restare bloccati a qualche frontiera e la gente non scende in piazza invocando il ricovero della propria classe dirigente, ormai stordita da una situazione uscita totalmente fuori controllo. La televisione rimanda immagini violente di un Parlamento dove vanno in scena più drammi shakespeariani che al Globe Theatre: la premier Theresa May è ormai come il toro nell’arena, il livello di aggressività a cui è stata sottoposta da un gruppo di politici prevalentemente maschi e totalmente privi di piani concreti per il futuro l’ha resa simpatica anche ai più riluttanti. A Dickens sarebbe piaciuta, avrebbe sorriso davanti alla sua determinazione da figlia di vicario che non vuole deludere nessuno e va avanti spedita anche davanti all’evidenza di un mondo che le sta andando contro, ne avrebbe colto l’aspetto eroico pur
criticandone le durezze. Ma non è terra di sfumature, il Regno Unito del 2018: o si sta da una parte, o dall’altra. O con Theresa o con Boris e Jacob Rees-Mogg, di cui non c’è bisogno di dire cosa penserebbe l’autore di Oliver Twist, avendoli già tratteggiati in molti romanzi. In due anni e mezzo i britannici hanno sviluppato una tale antipatia gli uni per gli altri che questo, verrebbe da pensare, è il vero argomento per cui la maggioranza ancora non chiede un secondo referendum. Altro che violazione della sacralità del risultato delle urne, il problema è che i «remainers» non vogliono incontrare di nuovo i «brexiters», mentre questi ultimi non vedono l’ora di sfracellare mesi e mesi di attente riflessioni, magari da parte di chi l’uscita dalla Ue l’aveva votata, a suon di «traditori del popolo», «basta con le élites» e «ne abbiamo abbastanza degli esperti». Non è detto che questa antipatia, di cui Theresa May ha un’acuta consapevolezza che non manca di condividere ogni volta che interviene sul tema, ossia tre volte al giorno almeno, non possa essere messa da parte quando non ci saranno altre alternative per evitare il «no deal», sancendo il definitivo fallimento della politica davanti a questioni di questa importanza. Perché è vero che l’econo-
mia non è crollata e che la disoccupazione è molto bassa, ma la sterlina debole prima o poi si riverbererà sui prezzi e, soprattutto, quando Londra smetterà di essere alimentata a suon di talenti stranieri – e non solo chirurgi e informatici, ma anche infermieri, cuochi e muratori – la crescita inevitabilmente inizierà a perdere slancio. Gli investimenti, quelli, sono già fermi, e chiunque abbia un’attività nel Paese lo sa bene da anni, tanto che la CBI, la Confindustria locale, ormai si attacca a chiunque gli dia un’idea sulla morte di cui morirà l’economia britannica. Il «deal» della May, con tutti i suoi difetti, ha la virtù di essere chiaro, di dare un po’ agli uni e un po’ agli altri, di non lasciare l’Irlanda in balia di un confine che nessuno vuole e di mettere fine all’immigrazione europea (che non è un bene in sé, al contrario, ma accontenta gli elettori). Qualcuno se n’è già andato, altri si affrettano a prendere la cittadinanza britannica, chi ha messo radici non vuole sentirsi in balia delle regole e dei dibattiti politici: un po’ di Brexit può essere divertente per qualche mese, ma a un certo punto l’incertezza diventa pesante, i «citizens of nowhere», come li chiamava la May nel suo periodo filo-populista, hanno una gran
voglia di starsene a casa loro, quella che si sono costruiti. Ora sono tutti stanchi, a Londra. I politici, soprattutto, a furia di cercare un modo per distinguersi in questa confusione, per far sì che quando la mareggiata sarà passata sul loro curriculum resti l’aver fatto almeno un po’ la scelta giusta, quella che la storia giudicherà come giusta. Il secondo referendum trasuda idealismo e speranze giovanili, si porta bene tra chi vuole calarsi gli anni e tra le chattering classes, quegli intellettuali progressisti che sono una meraviglia, ma che non si ricordano cosa voglia dire un pub di provincia dove le copie dei tabloid si arricciano sotto l’umido delle pinte di birra. I più realisti tra loro lasciano scivolare «l’opzione norvegese» tra una tartina e l’altra alle cene di Islington. Il «no deal» piace agli ipervolontaristi, quelli che pensano che tutto si possa risolvere con la disciplina imparata a Eton o in qualche scuola privata per fanciulle, e a chi non ha niente da perdere. L’accordo della May non piace a nessuno, proprio a nessuno. Non garantisce gloria, non è chic. Ma è concreto, e soprattutto permetterebbe di voltare pagina, di pensare al futuro. Anche a Ebenezer, alla fine, potrebbe non dispiacere.
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Politica e Economia
Se il ceto medio affossa il clima Crisi dell’ambientalismo C he cosa lega la protesta francese contro le tasse ecologiche sui carburanti
e l’esito deludente del vertice polacco Cop24 sulla lotta al cambiamento climatico?
Federico Rampini Un filo rosso unisce due eventi delle scorse settimane: la protesta sociale francese (parzialmente smorzata ma solo dopo le pesanti concessioni da parte del presidente Emmanuel Macron) e il summit chiamato Cop24 che si è tenuto nella città polacca di Katowice per fare il punto sulla realizzazione degli accordi di Parigi sul cambiamento climatico. Il tema comune è la crisi dell’ambientalismo, entrato in rotta di collisione con varie correnti del populismo-sovranismo. La dinamica dei gilet gialli è la stessa che due anni fa contribuì allo shock politico nella più grande liberaldemocrazia occidentale. Il cedimento di Macron di fronte alla piazza è l’ultimo episodio di una vicenda mondiale, un antefatto è la vittoria di Donald Trump. Sullo sfondo c’è la difficoltà di praticare un ambientalismo che sia «socialmente sostenibile». Lo capì Trump quando decise di diventare negazionista sul cambiamento climatico. Il suo messaggio in favore delle energie fossili catturò voti decisivi nel novembre 2016. Senza i minatori e i siderurgici delle Coal Country (regioni carbonifere) in Pennsylvania e Ohio, lui non sarebbe alla Casa Bianca. A quei «dinosauri» umani, relitti di un’altra èra industriale, Hillary Clinton non seppe proporre altro che un futuro da disoccupati. Per aver visitato quei luoghi, per avere incontrato e intervistato quegli elettori, so che non si fanno illusioni su quanto potrà durare l’uso del carbone. A loro basta che duri fino all’età pensionabile; che gli sia consentito di pagare le ultime rate del mutuo, le ultime rette universitarie dei figli. Un presidente che offre qualche anno di proroga alla morte annunciata, è il presidente che serve a loro. Chi gli parla di Green Economy in termini astratti, fingendo che l’Ohio sia la California, fingendo che un minatore 55enne si possa riconvertire con la bacchetta magica per farne un ingegnere di software, un inventore di app, un creatore di startup, appartiene a una sinistra salottiera che a quei ceti ha smesso di parlare. Come Hillary. I gilet gialli francesi non sono minatori né siderurgici, per lo meno non la maggioranza. Però la loro protesta è nata contro le tasse ecologiche sui carburanti. Il loro slogan contro Macron «tu parli della fine del mondo, noi dobbiamo arrivare alla fine del mese» rivela l’ansia di un ceto medio impoverito. Che spesso finisce col votare a destra, in America e in Europa. Rinunciare alla lotta contro il cambiamento climatico sarebbe un suicidio: per il futuro dei nostri figli, per l’abitabilità del pianeta, per i nostri valori. Però le sinistre devono ancora trovare un’idea convincente di sostenibilità sociale, che parli a chi deve arrivare alla fine del mese. Che questa risposta non l’abbia trovata Macron non può stupire. Propaganda a parte Macron non è mai stato né europeista né di sinistra.
Un gilet giallo vestito da Babbo Natale prende parte a una manifestazione di protesta a Parigi. (AFP)
A Ventimiglia, Bardonecchia e Claviere si è comportato come un sovranista qualsiasi. A picco nei sondaggi, molla la disciplina di bilancio europea. L’unica cosa su cui non cede, la riforma che più di ogni altra lo qualifica, è quella denunciata da tempo dallo studioso delle diseguaglianze Thomas Piketty: l’abolizione della patrimoniale sulle grandi ricchezze della finanza, il mondo della Banque Rothschild da cui proviene Macron. Ai gilet gialli il suo ambientalismo suona ipocrita. È lo stesso dei milionari californiani sulle Tesla elettriche da 135mila dollari. Un fiasco sul clima «travestito» come un mezzo successo dal gergo diplomatico e dalle acrobazie sui comunicati: questo è un bilancio realistico del summit sull’ambiente in Polonia. Trump c’entra solo in parte. Vi ha contribuito la latitanza dell’Unione europea. A dirlo chiaro è un osservatore indipendente, l’indiano Harjeet Singh della ong Action Aid: «Il ruolo dell’Ue è stato molto deludente. Era una conferenza climatica sul suo territorio, perché non si è presa le sue responsabilità?» Il giudizio sulla disunione europea è inevitabile. Macron, che a suo tempo si fregiò del titolo di «campione della lotta al cambiamento climatico» assegnatogli dall’Onu, ha disertato il summit avendo appena rinunciato alla sua carbon tax. La Germania, malgrado l’avanzata elettorale dei suoi Verdi, è altrettanto inadempiente: la sua transizione dal carbone procede a rilento e molte centrali elettriche tedesche continuano ad essere super-inquinanti; per non parlare dello scandalo Dieselgate che ha macchiato il suo «campione nazionale» Volkswagen, protagonista di una truffa criminale sulle emissioni. Il Regno Unito è assorbito in modo osses-
sivo da una sola cosa, Brexit. Anche in Italia la pasticciata vicenda dell’ecotassa sulle nuove auto dimostra che l’agenda ambientalista è la prima ad essere sacrificata. Eppure l’Europa aveva un’opportunità unica di riempire il vuoto di leadership lasciato da altri. Malgrado le sue contraddizioni e i suoi ritardi nel rispettare gli impegni, l’Unione europea è l’unico blocco economico che ha visto scendere le sue emissioni carboniche quest’anno; mentre continuavano a crescere quelle americane e ancor più quelle cinesi e indiane. Se volesse l’Ue avrebbe i numeri per salire in cattedra e dare lezioni agli altri. Ma non osa neppure vantarsi dei suoi pochi successi, quando ci sono. La leadership, quando c’è, fa la differenza. Il vertice di Parigi nel 2015, che accese tante speranze di una svolta vera, fu possibile grazie a Barack Obama. Fu lui a trainare Cina e India verso una logica di tipo nuovo, cooperativa e non più rivendicativa. Obama aveva appreso la lezione da un fallimento precedente, cioè Copenaghen 2009, quando l’asse di Cindia aveva opposto una fiera resistenza. Nel 2009 era prevalsa ancora una visione terzomondista e recriminatoria: le potenze emergenti non accettavano di mettersi sullo stesso piano dell’Occidente, responsabile per due secoli di devastazioni ambientali. Obama seppe costruire un dialogo con Xi Jinping che nel frattempo aveva abbracciato la nuova sensibilità dei ceti medioalti in Cina, preoccupati per i veleni che respirano. L’America coinvolse la Cina e l’India in un’idea di leadersip condivisa. Restavano troppe ambiguità, Pechino si riserva di continuare ad aumentare le sue emissioni carboniche fino al 2030. Non c’erano negli accordi
di Parigi controlli sovranazionali sul rispetto degli obiettivi; né sanzioni in caso di violazione. Era una base di partenza. Dopo Obama l’Europa avrebbe potuto subentrare. Ha una stazza economica superiore agli altri due big, America e Cina. Ha un modello di consumi meno energivoro di quello americano. Essendo dipendente da risorse energetiche esterne, è un interlocutorechiave per i paesi fornitori. Il saldo netto del summit di Katowice – simbolicamente ospitato in una regione carbonifera – è che il pianeta continuerà la sua marcia verso una traiettoria di riscaldamento di +3,5 gradi per la fine del secolo, contro quel limite di +1,5 gradi considerato tassativo per limitare i danni. Il rapporto allarmante della comunità scientifica (Ipcc) consegnato al vertice, «non ha ricevuto nessuna risposta», secondo la direttrice di Greenpeace International, Jennifer Morgan. Certo è scattato il sabotaggio di un’alleanza fossile che ormai si allarga fino ad abbracciare Usa Russia Arabia Brasile Kuwait e Australia. Però dagli europei non è venuto quel contrappeso che ci si poteva aspettare. È ritornata l’idea che la protezione dell’ambiente penalizza la crescita e impoverisce i più poveri. Quest’idea si è imposta perché troppo spesso gli slogan sulla Green Economy non hanno incluso soluzioni concrete e immediate per le vittime dell’abbandono delle energie fossili. L’aumento delle diseguaglianze sociali ha fatto il resto. Dalla sua elezione Trump ha moltiplicato gli interventi a favore di un ritorno indietro, verso uno sviluppo in-sostenibile. La sua deregulation ambientale ha già smantellato gran parte delle riforme di Obama: ha ridi-
mensionato i nuovi limiti federali sulle emissioni carboniche di auto, camion, centrali elettriche; ha autorizzato l’oleodotto XL Keystone; ha liberalizzato l’estrazione di energie fossili dai terreni di proprietà federale. La sua decisione di uscire dagli accordi di Parigi è solo simbolica (in realtà non può accadere prima del 2020, anno della prossima elezione presidenziale), tutto il resto invece sono fatti. Il boom dell’estrazione di shale gas ha contribuito alla crescita economica americana nonché ad una svolta geostrategica di portata mondiale: per la prima volta da 75 anni gli Stati Uniti tornano ad essere esportatori di energia, non importatori. Altrettanto importante però è quel che accade nell’«altra America». La California ha deciso di rimanere vincolata agli accordi di Parigi. Ha approvato una legge che impone di raggiungere il 100% di elettricità generata da fonti rinnovabili entro il 2045; l’obbligo di convertire il metano; ha messo limiti su auto e camion ancora più severi rispetto a Obama. Tutto ciò che fa la California ha conseguenze rilevanti. Non solo perché è uno Stato con 40 milioni di abitanti, un Pil superiore a Francia e Gran Bretagna, e dagli anni Settanta ha la prerogativa istituzionale di poter legiferare sull’ambiente scavalcando le norme federali. Una dozzina di altri Stati Usa (tra cui New York) hanno agganciato le proprie leggi sull’ambiente a quelle della California. Risultato: circa il 50% della popolazione degli Stati Uniti risiede «dentro gli accordi di Parigi», cioè in Stati che seguendo la California continuano ad applicarli. Gli attori economici devono guardare al medio-lungo termine, e questo include anche gli scenari di una possibile alternanza alla Casa Bianca nel 2020. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 dicembre 2018 • N. 52
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Politica e Economia
Occidente (in)fedele
Riflessioni dopo la tragedia di Strasburgo La festività cristiana vista dalla parte del mondo musulmano
La vie di Strasburgo pattugliate dalla polizia dopo l’attentato dell’11 dicembre. (AFP)
Alfredo Venturi Il Natale è ormai diventato un bersaglio del furore jihadista. I terroristi dell’islamismo più estremo lo hanno colpito due volte. Due anni or sono un camion scagliato sulla folla che gremiva un mercatino natalizio a Berlino provocò il bilancio di dodici morti e cinquantadue feriti. Quest’anno la scena si è spostata a Strasburgo, dove i passanti che si aggiravano fra le tradizionali bancarelle sono stati presi di mira da un uomo che sparava all’impazzata: cinque morti e undici feriti. I due responsabili non sono sopravvissuti a lungo alle loro imprese: Anis Amri, 24 anni, è stato ucciso tre giorni dopo la strage di Berlino dalla polizia italiana a Sesto San Giovanni dove cercava rifugio: Cherif Chakatt, 29 anni, è stato colpito a morte nella stessa Strasburgo a quarantotto ore dalla micidiale sparatoria, mentre resisteva con le armi in pugno all’assedio degli agenti francesi. Oltre alla fede religiosa, l’islamismo integralista e intransigente dei salafiti, alle radici tunisine (ma Cherif era nato e cresciuto in Francia) e alla militanza jihadista, li univa un’altra caratteristica: avevano entrambi precedenti di criminalità comune. I servizi d’informazione di molti paesi confermano la tendenza: capita spesso che giovani musulmani, spesso provenienti da famiglie da tempo presenti in Europa, di solito residenti nelle periferie degradate delle grandi città, finiscono in carcere per reati vari. Qui avviene la svolta: incontrano in cella il mentore che agendo sulla fragilità psicologica e sulla rabbia accumulata nel difficile rapporto con
Azione
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
la società, fa loro intravvedere la possibilità del riscatto attraverso la «guerra santa». È la cosiddetta radicalizzazione. Quei giovani vengono convinti a colpire l’Occidente infedele, colpire con durezza e determinazione.
Considerando peccato mortale celebrare la festività, il salafismo aizza la comunità islamica contro l’Occidente e la comunità cristiana E quale migliore campo d’azione dei mercatini di Natale, che si offrono all’odio estremista con la coincidenza di due elementi altrettanto significativi: da una parte il simbolo della religiosità cristiana, dall’altra quello del consumismo che le festività natalizie esaltano nelle nostre città. Insomma, il nemico è la grande festa pagana prima ancora che cristiana, considerata ugualmente empia sul piano della religione e su quello del costume. E così lupi solitari come Amri e Chakatt, al termine della loro conversione da delinquenti comuni a soldati della guerra santa, si avventano sugli infedeli e sulla società opulenta. Non certo a caso arriva immediata, come subito dopo la strage di Strasburgo, la rivendicazione da parte di ciò che resta dell’Isis dopo le sconfitte sul campo in Medio Oriente: Chakatt, fanno sapere i comunicatori dello Stato islamico, era uno dei nostri. Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni
Naturalmente non bisogna commettere l’errore, comune a molti esagitati della xenofobia europea, d’identificare la violenza predicata dai salafiti, e sanguinosamente messa in atto dai vari Amri e Chakatt, con l’islam in quanto tale. L’atteggiamento della galassia musulmana nei confronti del Natale riflette la varietà delle visioni e delle interpretazioni coraniche. Pregiudizialmente ostili sono le ali più integraliste, e soprattutto chi sfrutta, come al-Qaeda o l’Isis, l’intransigenza religiosa per incitare alla violenza contro gli infedeli, siano essi cristiani o musulmani sciiti. Il salafismo, che considera peccato mortale non solo celebrare la festività ma anche semplicemente rivolgere l’augurio di Buon Natale, finisce con il servire una finalità strategica e politica: si tratta di aizzare la comunità islamica contro l’Occidente, la laicità, la modernità. A parte la degenerazione terroristica, si arriva a situazioni antistoriche come nella provincia indonesiana di Aceh, retta in regime d’autonomia da una leadership musulmana fortemente integralista che ha introdotto la sharia, la legge islamica: da quelle parti chiunque si lasci sfuggire l’augurio di Buon Natale, e persino di Buon Anno, rischia l’arresto. Il fanatismo coinvolge infatti anche il Capodanno fra le empietà occidentali. Proprio contro un pubblico internazionale che festeggiava l’anno nuovo era diretto il cruento attacco sferrato la notte del 1. gennaio 2017 in una discoteca di Istanbul: una quarantina di morti, una settantina di feriti, la puntuale rivendicazione dell’Isis. In quel caso si volle colpire la laicizzazione
della società, palesemente tentata dagli usi occidentali e dunque avversa alle pulsioni integraliste e neo-ottomane sempre più evidenti nell’inquieta Turchia di Erdogan. L’offensiva salafita investe l’intero mondo islamico, dove fa proseliti ma incontra anche tenaci resistenze. In Egitto Ahmed al-Tayeb, grande imam di al-Azhar cioè della più prestigiosa istituzione religiosa e culturale dell’islam sunnita, non esita ad augurare Buon Natale ai concittadini di religione copta. Secondo i salafiti questo gesto fa del grande imam un traditore e un apostata. Al-Tayeb è impopolare presso i fanatici anche perché cerca buoni rapporti con i detestati sciiti. Sul fronte opposto il capo del salafismo egiziano, Hisham el-Ashry, dichiara il proposito di indurre i copti alla conversione. Con quali mezzi non è dato sapere, ma è un fatto che l’antica comunità cristiana d’Egitto vive giorni difficili, sia pure confortata dall’atteggiamento amichevole di molti vicini musulmani. Che arrivano talvolta a partecipare alla festività cristiana e perfino alle funzioni religiose. Bisogna considerare che Issa (Gesù in arabo), di cui il Natale celebra la nascita, è nella teologia musulmana un profeta di notevole rilevanza frequentemente citato dal Corano. Un centinaio di versetti del nostro libro sacro, ricorda Bouchaib al-Tanji presidente della lega islamica del Veneto, ci parlano di Gesù e di sua madre Maria: «dunque non ci dispiace affatto vedere un presepe o ascoltare gli inni del Natale». Al-Tanji risponde a quei capi d’istituto che hanno rinunciato ad allestire il presepe nella loro scuola
proprio per non offendere la comunità islamica, ma anche a quei politici che approfittano della circostanza per inveire contro la presunta islamizzazione dell’Italia e dell’Europa. Di fatto trasformando il presepe, la difesa del presepe, in uno strumento di propaganda anti-musulmani e anti-immigrati. Secondo al-Tanji è necessario che le diverse comunità interagiscano per fare chiarezza sulla loro inevitabile coesistenza, respingendo sia l’estremismo religioso che genera violenza, sia quello politico che unendo questa sorta di crociata all’allarme per l’«invasione» dei derelitti, alimenta la xenofobia. In molti paesi musulmani è possibile festeggiare il Natale e le altre feste cristiane soltanto in privato. Per esempio nel Brunei, dove la legge può infliggere cinque anni di carcere a chi celebri in pubblico qualsiasi ricorrenza non islamica. In Somalia, dove pure è in vigore la sharia, c’è assoluto divieto di addobbi natalizi, anche per evitare, spiega il sindaco di Mogadiscio Yussuf Hussein, di fornire obiettivi ai terroristi di al-Shabaab, l’organizzazione terroristica legata ad al-Qaeda. Gli stranieri e i cristiani del posto possono festeggiare in casa propria, o nella sede vigilatissima delle Nazioni Unite. Può sembrare paradossale, ma proprio nello Stato teocratico dell’Iran, retto da una casta sacerdotale d’obbedienza sciita, non ci sono ostacoli alla pubblica celebrazione del Natale da parte della minoranza cristiana. Ben diversa la situazione in Arabia Saudita, che ospita una comunità di immigrati cristiani per i quali il Natale è un evento rigorosamente privato.
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Politica e Economia
Il Consiglio Nazionale boccia la legge sul CO2 Politica nazionale È uno dei grandi temi su cui ci vuole il massimo accordo. I dipartimenti più interessati hanno
nuovi capi che dovranno affrontare anche altri temi scottanti, come il trattato sulle migrazioni e quello con l’Europa
Ignazio Bonoli Il cambio alla testa dell’economia, nonché dei trasporti, ambiente, energia, pone subito i nuovi responsabili di fronte a problemi difficili, ma urgenti. La loro soluzione, che deve essere condivisa, determinerà il futuro dei rapporti interni ed esterni della Svizzera. Uno di questi, la legge sul CO2, ha incontrato forti resistenze in Consiglio Nazionale, tanto che la Camera non solo ha respinto la proposta di fissare anche per la Svizzera un limite massimo alle emissioni di CO2, ma per finire ha bocciato la legge, difesa con vigore per l’ultima volta da Doris Leuthard, proprio il giorno prima di recarsi in Polonia per la riunione dei responsabili dei vari paesi per l’applicazione dell’accordo di Parigi. Partendo dal presupposto che il problema è globale, si è pensato che le misure da adottare in Svizzera sarebbero la classica goccia nel mare. La legge chiedeva concretamente di ridurre del 50% le emissioni di gas serra entro il 2030 rispetto al 1990. Ancora una volta, se tutti si son detti d’accordo sull’obiettivo, i contrasti sono nati sul modo per raggiungerlo. Così si è passati anche a una distribuzione delle responsabilità. I Cantoni sono competenti nel campo dell’edilizia (risparmio energetico). Nei trasporti, sì a una compensazione
da parte degli importatori di prodotti fossili, ma limiti all’aumento delle tasse sui carburanti (8 centesimi sulla benzina), infine, riduzioni di emissioni soprattutto all’estero, mediante l’acquisto di certificati (vedi «Azione» del 25.11.18). Altri due argomenti hanno ampiamente dominato la scena politica svizzera, prima ancora di giungere al messaggio del Consiglio federale alle Camere. Si tratta del patto dell’ONU sulle migrazioni e dell’accordo quadro con l’Europa. Sul trattato dell’ONU sulle migrazioni si è assistito a un lungo palleggiarsi delle responsabilità tra Governo e Parlamento, in modo che si è giunti al momento della firma senza la presenza della Svizzera. Simbolicamente era stato scelto il giorno del 70° anniversario della firma dei Diritti dell’uomo per l’atto formale di adozione del patto globale, sostenuto all’ONU da ben 193 paesi, tra cui la Svizzera. Sono però nate in seguito molte perplessità e grandi paesi con, in testa, gli Stati Uniti si sono defilati, seguiti da Israele e Australia, mentre l’UE si è spaccata. Italia e Svizzera vogliono invece una decisione parlamentare. Per quanto concerne l’accordoquadro con l’Europa, se n’è discusso per quasi cinque anni ed è stato causa di accesi negoziati tra Berna e Bruxelles e di conflitti interni.
Mentre a Palazzo federale i parlamentari discutevano, fuori alcuni manifestanti protestavano... (Keystone)
Si tratta in sostanza di una base giuridica per un’applicazione più efficace e uniforme dei cinque accordi già esistenti e di futuri che regolano l’accesso al mercato unico. Una base giuridica che stabilisce il modo in cui la Svizzera deve riprendere il diritto europeo (soggetto, come tutti i diritti, a cambiamenti e modifiche), il campo d’applicazione, l’interpretazione delle
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leggi e la risoluzione delle divergenze. I negoziati tra Svizzera e UE si sono conclusi il 23 novembre. Il 7 dicembre, il Consiglio federale ha reso pubblici i contenuti dell’accordo. Mancando il consenso con l’UE e all’interno del Consiglio federale stesso, il Governo non ha voluto parafare l’accordo, mettendolo in consultazione. Oltre ai citati bilaterali, ci sono
anche altri accordi, come ad esempio quello sull’energia elettrica, in discussione. La pietra d’inciampo è però politica: la ripresa del diritto europeo nell’ambito dell’accordo quadro istituzionale. In Svizzera però l’ultima parola spetta al Parlamento e al popolo (referendum). Per dirimere eventuali controversie, si può ricorrere a un comitato misto, la cui seconda istanza è un Tribunale arbitrale. L’UE ha già accettato alcune eccezioni svizzere: per esempio per i camion (40 t, divieto di circolazione la notte e la domenica). Uno dei punti difficili da superare sarà la protezione dei salari. L’UE accetta il principio, ma chiede un’applicazione meno rigida. Un altro punto che interessa l’economia è quello degli aiuti di Stato alle imprese, dalle partecipazioni statali, ai vantaggi fiscali o alle garanzie (per esempio dei Cantoni alle banche cantonali). In campo finanziario, la Svizzera ha interesse a chiarire la posizione in vari settori. L’UE, per accelerare l’accordo, ha posto un limite di tempo all’equivalenza per la borsa svizzera, limite prorogato a fine anno di sei mesi, entro i quali si dovrà trovare un compromesso per non mettere in gravi difficoltà la borsa svizzera. Il nuovo anno sarà certamente un anno di decisioni storiche, con esito forse incerto, ma con effetti sicuri sul futuro del paese.
I Media, fra libertà e responsabilità Recensione Un libro di Edy Salmina
sulla tensione fra stampa e sistema giuridico Enrico Morresi
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Da una ricerca pubblicata sull’ultimo numero di «Medialex» (9/18), effettuata su 400 prodotti mediatici (giornali, ma anche siti online e social media) è risultato che nel caso del «mostro di Rupperswil» – l’autore presunto di un eccidio accaduto il 21 dicembre 2015 – il 54% ha violato le norme deontologiche circa l’identificazione e la presunzione di innocenza del prevenuto. È un dato che rafforza la convinzione diffusa, che i media non hanno rispetto per nessuno. Preciso che la ricerca va letta bene, anche dove precisa che la polizia, dopo l’arresto del sospetto autore, diede di lui, pur tacendo il nome, tali e tante notizie (domicilio, età, stato civile, professione, incensuratezza, motivazione presunta) da rendere un gioco da ragazzi la caccia all’identificazione. Ma di certo quello studio rafforza la persuasione espressa da Edy Salmina, autore di Medien. Die vierte Gewalt (Media. Il quarto potere), che anche in Svizzera «le leggi son, ma chi pon mano ad esse?», come diceva Dante Alighieri. In Ticino sarebbe ancora peggio: determinante sarebbe infatti, secondo l’autore, il costume sfrontato della vicina stampa italiana (p. 61). Lo stesso sistema giuridico sarebbe costruito e applicato in modo tale da vanificare l’equilibrio tra il potere dei media e quello delle vittime (p. 59). Ne sarebbe colpevole persino il Parlamento, mitigando i divieti posti a tutela dei segreti di Stato (p. 56). Non sulle infrazioni si discuterebbe, bensì sulle norme: come se invece di giudicare un automobilista che supera i limiti di velocità fossero i limiti come tali a essere messi in discussione (p. 52). A me pare, sinceramente, che il
Salmina-giurista con questi esempi qualcosa conceda al gusto della battuta caro al Salmina-giornalista. Altre ottime cose il saggio contiene, specialmente quando si esprime sul rapporto con l’ultima generazione delle comunicazioni di massa: i social network. È un fatto che il sistema giuridico è quasi sempre impotente quando si misura con giganti come «Facebook» o «Twitter». Il saggio deve essere apprezzato anche per l’impostazione delle conclusioni. Detto da un giurista, è importante: le cattive inclinazioni del mondo dei media si combattono soprattutto con la formazione, la critica e l’autocritica. Non mi spingerei, come fa Salmina, a chiedere per il Consiglio della stampa un potere di sanzione: sarebbe lecito però almeno ottenere che lo si liberi dalle angustie economiche in cui versa, e di cui una visita all’unico locale in cui la segreteria lavora, a Berna, mi ha reso di recente stupito testimone. La conclusione di Salmina è vicina alla tesi che Stephan Russ-Mohl sosteneva nel volume del 1994 Der I-Faktor. Qualitätssicherung im amerikanischen Journalismus, a lode del sistema vigente negli Stati Uniti: non la legge (che in quel Paese è fuori gioco per quanto riguarda i media) ma la qualità e la varietà degli strumenti di formazione e di critica permettono la denuncia e la revisione degli errori che si commettono. Bibliografia
Edy Salmina, Medien. Die vierte Gewalt. Medienfreiheit / Medienverantwortung / Medienopfer, Einblicke eines Insiders, hep verlag ag, Bern 2018, 176 pp.
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Tempo di bilanci Il 2018 si sta avvicinando alla fine. È arrivato il tempo dei bilanci. Per l’economia svizzera possiamo fare un bilancio in chiaro-scuro. Vi sono aspetti sicuramente positivi e, purtroppo anche, aspetti negativi. Per quel che riguarda le grandezze congiunturali gli aspetti positivi sono dati da un tasso di crescita che, nonostante il cedimento in atto, dovrebbe rivelarsi largamente superiore a quello del 2017 e inserirsi tra i buoni risultati realizzati dalle economie europee. Sempre per quel che riguarda gli aspetti positivi possiamo citare il tasso di disoccupazione, inferiore al 3% e il tasso di inflazione, che pur superando quest’anno la soglia dell’1% continua a mantenersi a livelli molto bassi. Tra gli aggregati della domanda globale troviamo alti e bassi. Si sono sviluppate bene le esportazioni, men-
tre consumi privati, consumi pubblici e investimenti realizzeranno un tasso di aumento inferiore a quello dello scorso anno. In generale si può affermare che la crescita del 2018 è stata caratterizzata da un rafforzamento del contributo delle esportazioni e da un indebolimento del contributo degli aggregati interni della domanda. L’occupazione è cresciuta ancora, rispetto al 2017, ma con un tasso di variazione inferiore. Hanno cominciato a frenare anche i rami di produzione. Se guardiamo al modo con il quale sono evoluti nel 2018 constatiamo, quasi dappertutto, un diminuzione del tasso di crescita del valore aggiunto, rispetto al 2017. Che preoccupano sono in particolare l’edilizia, il commercio e la finanza. Per l’edilizia sembra sia arrivato il giorno del giudizio. Favorita dall’aumento
sostenuto della popolazione, fino al 2014, e dai tassi ipotecari molto bassi, l’attività edile ha segnato dappertutto aumenti record, durante i primi anni della presente decade. Dal 2015, però, la crescita demografica si è arrestata e, salvo qualche eccezione, praticamente tutte le zone urbane del paese denunciano attualmente eccedenze di case e appartamenti vuoti. Anche sul mercato degli uffici vi sono eccedenze di offerta importanti, soprattutto nella periferia degli agglomerati metropolitani. Per ora i prezzi tengono, ma è indubbio che la presenza di queste eccedenze costituisce un freno per nuovi investimenti. Di qui i magri risultati di quest’anno per l’edilizia. Il commercio soffre, ancora e sempre per gli effetti del rincaro del franco. È migliorata la situazione nel commercio al dettaglio, ma è peggiorata
nel commercio all’ingrosso. Anche il settore finanziario non ha ancora superato lo choc della rivalutazione del franco. Il settore soffre anche per l’imposizione degli interessi negativi da parte della Banca Nazionale. Questa misura che, l’anno scorso, aveva favorito la crescita della spesa pubblica, quest’anno, per fortuna, non ha avuto il medesimo impatto. Anche il consumo dello Stato, quindi, è evoluto quest’anno a tassi modesti. Ovviamente sulla congiuntura del 2018 hanno pesato le incertezze che frenano attualmente l’evoluzione dell’economia mondiale, in particolare le tendenze protezionistiche che si stanno manifestando negli Stati Uniti e in Cina. A frenare l’evoluzione congiunturale è venuta anche la politica monetaria della BNS e, in particolare, la sua insistenza a voler mantenere
tassi di interesse negativi. Conosciamo l’argomentazione dei responsabili della Banca, i quali affermano di non poter rinunciare agli interessi negativi fino a quando la Banca europea non procederà a un rialzo significativo dei suoi tassi di interesse. È tuttavia indubbio che, nel corso degli ultimi mesi, sia cresciuta in Svizzera la pressione sulla BNS perché abbandoni questa politica. Banche e investitori reputano giustamente che con interessi negativi tutto il mercato finanziario risulta destabilizzato. Non è pensabile che un’economia e una Banca nazionale, fossero pure delle dimensioni limitate dell’economia e della Banca nazionale svizzere, possano essere gestite ancora per anni sotto l’egida di tassi di interesse negativi. Anno nuovo, vita nuova! Alla BNS di cambiare la sua politica?
sfero caldo della terra degli Obama. Michelle racconta i trattamenti per la fertilità cui si è sottoposta per concepire le due figlie, Malia e Sasha, l’aborto spontaneo che l’ha fatta sentire inadeguata – una fitta di inadeguatezza a ogni passeggino incontrato per strada – e la terapia di coppia con Barack perché a volte le ambizioni, pur razionalmente condivise, finiscono per travolgere gli equilibri, la stima, persino un amore che pareva indistruttibile. Racconta anche di una fuga dalla Casa Bianca assieme a Malia perché volevano vedere insieme che effetto faceva da fuori la residenza presidenziale illuminata dai colori dell’arcobaleno nel giorno in cui sono stati approvati i matrimoni omosessuali negli Stati Uniti: una fuga d’insegnamento e di battaglia che conferma quel che Michelle vuole mostrare di sé, la sua determinazione, la sua convinzione di essere e di rappresentare, anche in quest’America modernissima, «una provocazione», perché sono donna e sono nera e lo so che un sacco di gente là fuori non si capacita del fatto che io viva in questo tempio bianco. Ma
Michelle è molto di più, ed è per questo che Becoming non è un’autobiografia come tutte le altre, altamente prevedibile. Quando l’ex first lady inizia a parlare di quel che è avvenuto verso la fine della stagione presidenziale, scopriamo che nel cuore la rivoluzionaria è anche molto moderata e molto pragmatica, o forse lo è diventata quando la storia ha smesso di darle ragione. L’elezione di Donald Trump pesa come un macigno nel memoir e nella coscienza di Michelle, non soltanto perché lei è democratica, è la moglie di Obama e si è spesa per Hillary Clinton, ma perché la presenza di Trump alla Casa Bianca impone riflessioni nuove e dolorose sull’esito di una rivoluzione personale e nazionale. Michelle non risparmia critiche a Trump, e quando descrive la faccia di Barack nella notte elettorale del 2016, mentre al telefono gli dicono che i risultati in Florida sono «strani», ci rivediamo tutti in quel preciso attimo glaciale, scossi dal torpore di una vittoria annunciata e ancora increduli, increduli per un sacco di giorni a venire. Ma mentre critica Trump, l’ex first lady recupera la pazienza che
aveva perduto negli anni dell’avventura politica più importante del mondo e che forse anche prima aveva in misura molto ridotta: da ragazzina aveva ottenuto l’amicizia di una dura della scuola facendo la bulla più di lei, tirandole un pugno sul naso, ma Michelle oggi dice che «quando gli altri volano bassi noi dobbiamo volare alto», non rincorriamo i truci sul loro terreno truce, ma armiamoci di pazienza, tantissima, e restiamo determinati sì, ma anche quel che siamo noi. La ricerca di un’eredità culturale da lasciare ai più giovani riporta Michelle in un centro che forse non ha mai abitato prima, fatto di realtà e di caparbietà, ma anche di fragilità: dice che oggi, anche oggi, sente ancora ogni tanto «la sindrome dell’impostore», il dubbio che abbiano ragione gli altri se non la vogliono prendere sul serio. Dura un istante ma è un istante importante: permette di coltivare la pazienza, merce rara in questa età di voraci, di non dare nessuna conquista per sicura, e di progettare un futuro fatto di combattenti delicati ma risoluti, come Michelle nel suo emisfero caldo.
diato dopoguerra Barth raccolse i suoi scritti militanti nel volume Eine Schweizer Stimme 1938-1945 (Una voce svizzera). Un anniversario riguarda anche Ragaz, nato nel 1868 nel villaggio grigionese di Tamins. Centocinquant’anni dopo la comunità evangelica di Tamins-BonaduzRhäzüns lo ricorda attraverso quattro iniziative che si concluderanno nel marzo del 2019 con una tavola rotonda. Esponente del socialismo religioso, pastore attivo nei quartieri operai di Basilea e Zurigo, Ragaz fu – con la moglie Clara – un pacifista intransigente. Durante la guerra del 14-18 concepì un denso manifesto anti-nazionalista che ebbe ampia diffusione, subito tradotto in francese e anche in italiano per iniziativa di L.F. Ferrari: La nuova Svizzera. Sottotitolo: Un programma per Svizzeri e per coloro che vogliono diventarlo. In pagine vibranti,
l’autore incoraggiava i connazionali ad abbracciare senza riserve l’ideale umanitario, quel dovere morale che aveva contraddistinto il paese fin dai tempi di Dunant: «La Svizzera può, nonostante la sua modesta mole, avere un grande compito da assolvere [«Auftrag»], il compito di preservare le fonti. Perché in verità: importanti sono i grandi fiumi sulle cui rive sorgon paesi e città, ma ancor più preziose sono le sorgenti, le sorgenti dello Spirito di cui i popoli vivono! Badare acché queste sorgenti restino pure e preservate da crolli e rovine, custodirne ogni polla, ecco una santa missione [«heiliger Beruf»]». La sua, come quella del collega Barth, fu dunque una teologia pugnace immersa nelle convulsioni del secolo, non neutrale e non indifferente; una teologia libera che nei momenti più drammatici della storia europea non esitò a farsi spiritualmente partigiana.
Affari Esteri di Paola Peduzzi Diventando Michelle Obama Tutti gli eventi con Michelle Obama sono sold out, il suo memoir – Becoming – sta andando molto bene, e anche se lei sottolinea più volte e lo ripete in pubblico: non ho alcuna intenzione di candidarmi, nel suo successo è nascosta la speranza che lei possa cambiare idea ed esaudire
il desiderio di molti che una volta detestavano le dinastie al potere e ora per un altro Obama darebbero chissà cosa. In questa stagione in cui sentiamo la mancanza di tutto quel che in passato pure non ci convinceva del tutto, e ci ritroviamo commossi ad ascoltare un George W. Bush che ricorda con la voce rotta suo padre, l’altro Bush (i guerrafondai ricconi venuti dal Texas), ecco, in questa stagione Michelle Obama raccoglie quel senso di speranza che avevamo sempre lasciato in custodia a suo marito Barack. E il suo memoir è bello, perché conferma l’anima battagliera dell’ex first lady che già conoscevamo e rivela tanti altri piccoli dettagli che raccontano una storia più complessa, più intensa, più affascinante: credevamo di sapere tutto di questa coppia, e invece traspare in Becoming qualcosa di nuovo, un misto di fragilità e di umanità che negli anni alla Casa Bianca non si era mai visto tanto nitido, forse per questioni di ruolo, forse perché la macchina dell’immagine obamiana era freddamente perfetta, forse perché Michelle è davvero l’emi-
Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti Barth e Ragaz: due teologi contro le dittature Molti associano la teologia all’ora di religione, ai seminari diocesani o, nel migliore dei casi, alle dispute sul rapporto tra mondanità e trascendenza. Dibattiti perciò infiniti, pura ginnastica intellettuale. In realtà la teologia ha molte facce e anche molte scuole. La prima grande differenza riguarda la matrice primaria, se l’indirizzo è cattolico o protestante; ma anche le facoltà di comune ispirazione come quelle di Lugano e Lucerna seguono strade diverse, e in proposito è istruttivo dare un’occhiata ai piani di studio e confrontarli. Operazione che consigliamo. Occuparsi di questa materia vuol dire anche imbattersi in figure eminenti, celebri in tutto il mondo, come i cattolici Hans Urs von Balthasar e Hans Küng, e come gli evangelici Karl Barth e Leonhard Ragaz. Barth, scomparso cinquant’anni fa, il 10 dicembre, ha lasciato un’opera imponente; le sue carte, conservate a
Basilea, non smettono di interrogare gli studiosi e di alimentare sempre nuove indagini, fin dalla celeberrima Epistola ai Romani (1919), testo che, per giudizio unanime, ha segnato il dibattito novecentesco. Ma quella di Barth fu anche una teologia di battaglia, prima come pastore nella comunità argoviese di Safenwil (1911-1921) e poi come professore nelle università tedesche di Göttingen, Münster e Bonn. Esponente della Chiesa confessante, nel 1934 rifiutò di aderire al nazismo, non riconoscendo a Hitler il carisma dell’autorità suprema, nuova divinità terrena, Führer indiscusso della nazione germanica. Agli occhi di Barth, solo un giuramento avrebbe avuto senso: quello prestato a Dio; di conseguenza fu costretto a lasciare l’insegnamento per far ritorno a Basilea, sua città natale, e qui proseguire la sua attività di docente e pensatore, fino alla morte.
Barth tuttavia non fu docile e accondiscendente nemmeno in patria. La sua opposizione al terzo Reich, palese fin dalla stesura della Dichiarazione di Barmen (maggio 1934), lo pose tra gli elementi sospetti, da sottoporre a costante sorveglianza. Le autorità elvetiche misero sotto controllo il suo telefono e cercarono in tutti i modi di zittirlo sulle questioni suscettibili di irritare il potente e ringhioso regime nazista. Nel 1941 un suo opuscolo in difesa della libertà di stampa e di parola (Nel nome di Dio onnipotente) fu sequestrato. Deluso ma non scoraggiato, cercò ripetutamente di attirare l’attenzione sullo sterminio degli ebrei in corso nei paesi dell’Est, specialmente in Ungheria. Nel 1944 fece presente questa tragedia al consigliere federale socialista Ernst Nobs, sollecitando un rapido intervento umanitario in appoggio alle iniziative del console Carl Lutz operante a Budapest. Nell’imme-
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Cultura e Spettacoli E se Natale fosse un fake? Ci sono provocazione e scetticismo nel nuovo libro di Errico Buonanno sul Natale
La nuova scultura di Medardo Medardo Rosso fu artista eccezionale e fuori dagli schemi, considerato un precursore della scultura moderna pagina 27
Un danzatore molto particolare Amava il Natale pur essendo giapponese e all’età di 71 ritornò a danzare rivoluzionando la scena mondiale: un ricordo di Kazuo Ōno pagina 29
pagina 26
Il bel Marcello in un’immagine degli anni Settanta. (Keystone)
Omaggio al bel Marcello
Mostre All’Ara Pacis di Roma un’esposizione celebra uno dei volti più noti del grande cinema italiano Blanche Greco «Marcello, come here!» Anita Ekberg, sirena bionda in abito da sera, nel silenzio della notte, avanza intrepida tra gli spruzzi e le statue, nell’acqua luccicante della Fontana di Trevi chiamando un giovane Marcello Mastroianni riluttante, ma affascinato che, di slancio, si toglie le scarpe e la raggiunge. È la sequenza più celebre della Dolce Vita di Federico Fellini, ed è una delle tante presenti nella prima Mostra dedicata a Mastroianni a Roma, all’Ara Pacis, sino al 17 febbraio. Interprete di ben 145 film e di una lunga serie di commedie, lo riscopriamo bello, sfolgorante, il sorriso appena abbozzato, l’aria di chi non si prende sul serio, eppure misterioso, sorprendente perché vulnerabile, lo ritroviamo nei panni dell’ingenuo spettatore dello spogliarello di Sophia Loren in Ieri oggi e domani; oppure nel compassato barone Cefalù di Divorzio all’Italiana, o nel malinconico protagonista di Una giornata particolare. Ascoltiamo i suoi registi e amici parlare di lui, come Luchino Visconti che lo diresse a teatro e poi nel film che gli diede il successo: Le notti bianche (1957), definirlo: «Pigro, indolente, ma sul lavoro un professionista instancabile, disponibile e serio.
Però quando la scena è finita lui magicamente sparisce e se chiedi dov’è, invariabilmente ti rispondono: “Al telefono”. Marcello è sempre al telefono». Mario Monicelli che l’aveva diretto in vari film tra cui I soliti ignoti, in una vecchia intervista svela invece parte del fascino e del successo internazionale di Mastroianni: «La sua silhouette così discreta, così autoironica, ha portato nel mondo intero un’idea della nostra civiltà, della nostra cultura che ben pochi altri hanno saputo offrire con la stessa eleganza». Ma la mostra Marcello Mastroianni è più della celebrazione di un artista, perché il suo curatore Gian Luca Farinelli, alle immagini, ai film e alle voci di chi lo ha conosciuto, ha aggiunto quella vellutata e inimitabile di Marcello che si racconta. Perché lui, sobrio e refrattario alla mondanità e a quegli atteggiamenti divistici così amati dai suoi colleghi, dopo aver vestito i panni di tanti personaggi diversi, dopo essere stato per anni l’alter ego cinematografico di Federico Fellini, sentì l’esigenza di spiegarsi, di dire la sua su se stesso, la sua vita, le sue scelte, i suoi incontri, in un lungo documentario-testamento ironico e divertito, dal titolo: Mi ricordo, sì mi ricordo del 1996. Il film venne girato in Portogallo, dalla sua compagna, la regista Anna Maria Tatò,
non lontano dal set di Viaggio all’inizio del mondo di Manoel de Oliveira, il suo ultimo impegno di lavoro, pochi mesi prima della sua scomparsa. Così, punteggiata da brani di questa insolita e simpatica biografia, la mostra diventa intima e confidenziale: l’uomo e l’attore si fronteggiano e si svelano davanti agli occhi dello spettatore-visitatore, grazie ai racconti e ai commenti divertiti di Marcello sulla sua carriera e la sua vita. Ci sono i ricordi d’infanzia nella bottega di falegname del nonno e del padre, dove si aggirava dopo la scuola; quelli della guerra, dove talentuoso disegnatore assunto dall’Istituto geografico militare, per paura di venire trasferito in Germania, scappa a Venezia grazie a un falso lasciapassare: «Decisamente quello fu il mio disegno migliore!» – commenta sarcastico. Ma c’è anche il racconto del suo ritorno a casa dopo la guerra: un viaggio-odissea, degno di un film di Monicelli attraverso l’Italia, a cavalcioni di un’autocisterna di benzina con una valigia piena di fagioli, destinati alla sua famiglia a Roma, della quale non ha più notizie da mesi. Non sa che, grazie a suo fratello Ruggero (poi montatore cinematografico) il quale all’epoca aveva trovato lavoro come cameriere all’Hotel Excelsior, i suoi non hanno mai patito la
fame, anzi: «Ho sempre pensato che il diabete di papà e la sua morte» – chiosa Marcello – «siano stati la conseguenza di tutti i dolci che mangiarono in quel periodo». C’è l’appuntamento, sulla spiaggia di Fregene vicino a Roma, sotto il sole rovente nel giugno 1958 con Federico Fellini che gli propone d’interpretare La Dolce Vita: «Federico mi accolse con un flautato: “Marcellino, Marcellino….” Io mi preoccupai, perché quando usava i diminutivi voleva ottenere qualcosa, senza raccontarti niente». Ricorda Mastroianni che accetta il ruolo di protagonista anche se al posto della sceneggiatura gli viene mostrato un disegno: un uomo che nuota in mare, ma sotto il pelo dell’acqua ha un sesso lunghissimo intorno al quale, come pesciolini, si aggirano delle donne. «Lo guardai e glielo resi senza commenti». – conclude Mastroianni – «Avevo sbagliato a chiedere la sceneggiatura. Non avrei mai più fatto una richiesta simile a un regista». Sensazioni, emozioni, storie personali raccontate con la sua tipica autoironia, ma anche incomprensioni, etichette che lo irritano profondamente come essere celebrato come un «latin lover» dalla stampa americana: «Una vera stupidaggine! Perché nei film mi vedono attorniato da belle
donne! Ma è per lavoro!» – sottolinea stizzito Mastroianni – «Ho fatto carriera con il mio mestiere, non certo facendo il bellimbusto». E Marcello pare dimenticare i suoi amori da rotocalco: Faye Dunaway e poi Catherine Deneuve, forse perché fanno parte della sua «vita tra parentesi», come lui chiamava la sua vita «reale» che si svolgeva tra un film e l’altro, anche se era sempre legata al cinema, pensiamo a Flora Carabella sua prima moglie, anche lei attrice, e ad Anna Maria Tatò. Una vita «vera» che «chissà se è esistita» si chiede sognante Mastroianni che, nelle lunghe pause sul set, si «attaccava al telefono» per combattere la noia; per scaricare la tensione, ma soprattutto per illudersi di vivere una vita normale con gli amici e la famiglia. Invece era sempre prigioniero del cinema e della propria immagine tanto che persino indulgere nei piaceri della buona tavola, una delle sue passioni, ogni volta gli costava settimane di dieta ferrea per tornare sul set magro e affascinante come sempre. Dove e quando
Marcello Mastroianni, Roma, Ara Pacis. Orari: 9.30-19.30; fino al 17 febbraio 2019. arapacis.it
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Cultura e Spettacoli
Il 2018 di Julia Holter, Sophie Hunger e Selva Nuda Musica È stato l’anno della creazione musicale al femminile? Zeno Gabaglio Per quanto il tema sia importante, non è una questione di genere o di pari opportunità. Ripercorrere il meglio discografico del 2018 e selezionare tre produzioni che vedono come protagoniste tre donne è un semplice dato di fatto che – per quanto soggettivo – ci consegna un anno d’oro per l’autorialità musicale al femminile. Su scala regionale, nazionale e internazionale. Julia Holter – Aviary
Era da tre anni che critica e pubblico l’aspettavano al varco – da quel 2015 in cui pubblicò l’album-rivelazione Have You in My Wilderness – e l’attesa non è stata vana. E se la si aspettava al
varco non è tanto perché si potessero immaginare chissà quali cadute di stile o creatività, semplicemente il disco precedente aveva attraversato il cielo del rock indipendente americano come un luminosissimo oggetto non-identificato (per la carica di intelligenza e novità che con sé portava) che un qualsiasi effetto sorpresa era ormai escluso. E proprio per irridere queste aspettative la cantautrice californiana sembra aver impostato la scaletta della nuova pubblicazione Aviary: le prime tracce suonano infatti piuttosto convenzionali, in un senso rock, quasi a dire: «sì, sono diventata normale anch’io». Ma poco prima della metà del disco gli orizzonti si aprono improvvisamente, e l’ascoltatore sente riapparire quella strana meteora nel cielo. Spazi che si al-
largano all’improvviso, arrangiamenti ricchissimi che riescono a diventare anche molto scarni, strumenti acustici che fanno cose mai sentite (perlomeno in dischi di cantautorato). E soprattutto l’elettronica: il vintage che diviene puro calore e pura energia. Sophie Hunger – Molecules
Il caleidoscopico mondo dei sintetizzatori d’epoca – inesauribili generatori di timbri, ritmi e sensazioni – gioca una parte molto rilevante anche in Molecules, il nuovo album di colei che con una certa sicurezza potremmo definire la maggiore musicista svizzera contemporanea, anche grazie al Premio svizzero di musica 2016. Sophie Hunger – autrice di ogni pezzo del disco, prodotto però dall’estro tutto britannico di Jim
Il vero nome di Sophie Hunger (classe 1983) è Émilie JeanneSophie Welti. (Keystone)
Selva Nuda – Le mie parole
Su un pianeta completamente diverso ci porta infine Selva Nuda, alias artistico di Cristina Castelli, luganese trapiantata da tempo a Ginevra. Il suo Le mie parole è un disco (EP, bisognerebbe tecnicamente dire, dato il numero limitato di tracce) che gioca tutto nell’intimità della voce accompagnata dalla chitarra. Una nudità che in molti potrebbero avvertire come imbarazzante, perché espone in primissimo piano la voce, senza alcuna protezione: un vero problema, si potrebbe dire, ma non se si ha la voce di Selva Nuda e si riesce a venare con tonalità espressive diverse ogni evoluzione del testo e della melodia. Un disco da cui lasciarsi abbracciare, in tutti i sensi, attraverso un approccio trilinguistico che riflette le esperienze e gli ascolti della protagonista ma anche una dimensione sempre più frequente nella vita di molti. Ed è importante ricevere questa fotografia della creazione musicale della Svizzera italiana anche da qualcuno che non vive più a sud delle Alpi. Sentiti da fuori sembriamo quasi più belli.
Pubblicazioni I n fondo anche la festa più importante dell’anno non è che una fake news –
o perlomeno questo è quanto sostiene Errico Buonanno
Ogni epoca ha bisogno di un nemico. Smesso il consumismo – sfascia le famiglie, allontana dai valori veri, fa diventare superficiali – ne serviva un altro. Sono arrivate le fake news: minano la civile convivenza, influenzano le libere elezioni, solleticano i peggiori istinti. Prima c’erano i pubblicitari – Persuasori occulti era il titolo del saggio di Vance Packard che li smascherava, o almeno credeva di farlo. Ora ci sono i fabbricanti di notizie false e tendenziose, che diffondono il loro pericoloso materiale via internet. Per capire quanto è cambiato il clima. L’impresa di Orson Welles, che nel 1938 fece credere allo sbarco dei marziani negli Stati Uniti, era una fake news bella e buona. Aggravante: trasmessa alla radio: mezzo che poi abbiamo venerato come portatore di cultura (in contrasto con la frivola televisione), ma agli inizi era considerato piuttosto sospetto (quando si credeva fermamente alla carta stampata). Fu considerata un colpo di genio, un’opera d’arte, una mossa situazionista – solo Woody Allen ne coglie la crudeltà, in Radio Days: una solitaria ha finalmente appuntamento con un uomo, proprio quella sera, e lui spaventosissimo non si presenta. Le fake news non sono tutte da buttare (è la credulità umana che biso-
gnerebbe eliminare, se qualcuno ci riuscisse). Anche il Natale è una fake news bella e buona, sostiene Errico Buonanno in un libretto intitolato Falso Natale – Bufale, storie e leggende della festa più importante dell’anno (UTET). Anzi, tante fake news. Nulla di quel che elenchiamo a memoria – la grotta, il freddo e il gelo, il bue e l’asinello, la stella cometa, i re Magi sta nei Vangeli (non c’è neanche la mela mangiata da Eva, era un generico frutto, peraltro indicato da un serpente che allora non strisciava, aveva le zampe: nel farlo strisciare dopo il misfatto stava la punizione divina). Di sicuro c’è solo il 25 dicembre. Ma qui si cominciano a scorgere gli strati che uno dopo l’altro inventano la tradizione. Era una festa pagana, per i romani: i saturnali son più simili al nostro carnevale, e c’era spazio per onorare il Sole. Lì fu collocata la Natività – di cui parlano soltanto gli evangelisti Luca e Matteo, gli altri raccontano un Gesù già cresciuto. Per non turbare troppo gli animi, il nuovo culto fu innestato sul vecchio culto. Non bastasse, spiega Errico Buonanno (grande esperto di falsi in Sarà vero e gran cacciatore di stranezze, un suo piccolo libro uscito l’anno scorso da Sellerio si intitola Vite straordinarie di uomini volanti) nessun ebreo avrebbe mai festeggiato il giorno della sua nascita, usanza considerata empia e pagana. Celebravano l’anniversario i
faraoni o i tiranni come Erode, mentre il compleanno moderno risale al 1802, quando Goethe decise di festeggiare i suoi 53 anni. Fissata la data, prende forma il presepe, comprensivo di bue e di asinello: gli animali riscaldanti nascono da un errore di traduzione. Oltre che dalla volontà di abbellire una storia che stava diventando patrimonio comune, i testi sacri eran soltanto il nucleo originario. Poi il Natale passa un momentaccio. No, non è adesso, quando cerchiamo di cancellarlo in nome del multiculturali-
Irriverenza e ironia. Anche a Natale.
In scena Le sfide del
teatro di repertorio e le conquiste della fantasia
Chancellor – lo fa capire fin dal primo suono della prima traccia, She Makes President, con il rintocco di un basso che i puristi definirebbero con una certa ingordigia «molto grasso». Elettronica che scandisce i ritmi – a tratti intelligentemente declinati in scomposizioni irregolari di 3 o 5 – ma che non disdegna l’intervento acustico, anche qui a marcare una non-omologazione di genere. Tanto che per la parte di percussione è stato coinvolto il più pazzo tra i giovani musicisti svizzeri: Julian Sartorius. Un disco che quindi può anche apparire come la summa di quanto di più interessante avviene nella nostra nazione.
Ma Natale è una bufala? Mariarosa Mancuso
Un’anima buona
smo: non ti canto «Tu scendi dalle stelle» per non offenderti. E non è neppure per via dell’incrocio con Babbo Natale: niente regali ai bambini buoni perché il vecchietto con la barba bianca l’ha inventato la Coca Cola. Accadde nel 1600: i Puritani fecero mente locale e trovarono il Natale non solo pagano (che già era accusa grave), ma anche papista (che era accusa anche più grave, e poteva condurre al patibolo). Fu quindi abolito, per volontà di Oliver Cromwell. Sulla stessa posizione, i quaccheri in Pennsylvania e un decreto del Massachusetts: «Il popolo pecca più nei dodici giorni del Natale che nei dodici mesi precedenti». Il paganesimo del Natale era stato smascherato, nelle Sacre Scritture non c’era nulla di simile. «Charles Dickens ha creato un mondo, e nel tempo libero ha creato il Natale». Lo sostiene Anthony Burgess, lo scrittore di Un’arancia a orologeria. A Dickens dobbiamo i caminetti, la famiglia riunita, il pungitopo, il plum pudding con la sorpresa dentro, le canzoni natalizie, i bambini felici, le vetrine illuminate, e un certo numero di racconti per fissare il concetto. Tutto si può dire, tranne che gli mancasse la fantasia scenografica. Errico Buonanno racconta l’avventurosa storia di Santa Claus, ovvero San Nicola, e riferisce l’invenzione delle palle colorate. Era il 1858, quando per la siccità le mele francesi scarseggiarono.
Giorgio Thoeni La gara è sempre aperta per scovare novità con cui attirare il pubblico. Da noi è un’impresa non sempre facile. L’anima buona del Sezuan, capolavoro di Bertolt Brecht andato in scena al Sociale di Bellinzona può rappresentare un’eccezione. Considerato un classico del drammaturgo tedesco, indubbiamente fra le sue opere di grande ricchezza umana e simbolica, non è dunque una novità ma non è neppure un testo facile, per il suo carattere lineare che contiene già indicazioni che neutralizzano particolari riletture o slanci particolarmente innovativi. Eppure l’elaborazione drammaturgica di Elena Bucci e Marco Sgrosso ha saputo dargli un sapore di freschezza e originalità. L’anima buona proposta dal Centro Teatrale Bresciano è una parabola che i due attori, autori e registi definiscono «antica e attuale, divertente e amara, irta di domande affascinanti e insidiose intorno al sentimento del bene e del male». Siamo agli albori del teatro impegnato di Brecht e nel mondo della sua apologia didattica. Scritta negli anni dell’esilio (1938-41), la storia traduce la parabola degli dei che scendono sulla terra in cerca di un’anima buona su cui riporre le speranze sui destini dell’umanità. Shen-Té, generosa prostituta, è l’unica che, nonostante la sua povertà, dà ospitalità a tre pellegrini divini che le offrono una ricca ricompensa a patto che possa riscattare la sua miserevole condizione praticando la bontà. Un presupposto narrativo che dà vita a nuovi personaggi e ad alterne vicende per una straordinaria metafora sulla storia, sulla politica, sull’amore sulle incognite della vita. Una riflessione che la coppia Bucci e Sgrosso ha affidato a un gioco teatrale veloce e coinvolgente con cui vivere le appassionanti metamorfosi di maschere che ricordano la commedia dell’arte accanto ad allusioni di stampo orientale. Una recitazione intensa, espressionista e travolgente, dove la musica sottolinea e accompagna attori bravi e affiatati che hanno conquistato l’entusiasmo della platea: dai già citati, protagonisti principali, a Maurizio Cardillo, Andrea De Luca, Nicoletta Fabbri, Federico Manfredi, Francesca Pica, Valerio Pietrovica e Marta Pizzagallo. Il teatro per bambini, palestra inesauribile
Lo Spazio Pan ospita alcuni spettacoli della 25esima edizione della rassegna Senza Confini. Un’occasione per imbattersi in piccoli gioielli. Come i Piccoli universi sentimentali di Cinzia Morandi (da un’idea di Antonio Catalano). Domatrice di bambini affascinati da un’affabulazione semplice e coinvolgente, ecco che patate, cipolle, foglie e semi diventano il sole, la terra, le stelle, la vita: materiali per un sogno denso di stupore per piccoli occhi sgranati e la passione per i mondi della fantasia.
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Cultura e Spettacoli
Un artista globale
Pubblicazioni U n nuovo volume dedicato a Medardo Rosso
Gianluigi Bellei Medardo Rosso è un artista affascinante, inclassificabile, transnazionale, globale. Il suo lavoro è alle origini della scultura moderna, sia nel procedimento sia nell’approccio metodologico. Basti pensare alle performance che teneva nello studio a favore dei visitatori ai quali svelava improvvisamente una sua opera. Scultore totale, Rosso (18581928) aveva creato un laboratorio in-
dipendente dove fondeva i suoi lavori. Lo storico Richard Sonn scrive nel 2001 di «piccolo laboratorio e dell’identità indipendente come fonte di lavoro non alienato (…) con l’accento (…) sull’autogestione dei lavoratori e la fiducia nella creatività di artisti e artigiani liberi di appagare le proprie aspirazioni». Rosso voleva gestire l’intero processo produttivo ed escludere così le fonderie private. Nello stesso tempo con le sue performance, e le relative
La copertina del saggio di Sharon Hecker.
vendite dirette, saltava anche la mediazione delle gallerie. Un artista torinese che ha passato due decenni a Parigi e che, con grandi sacrifici, è riuscito a imporsi come personaggio di primo piano nell’arte internazionale. Fede ne fa il rapporto d’amore/odio con l’idolo della scultura francese Auguste Rodin, sfociato in un’aspra polemica sull’origine della scultura impressionista sorta dopo la pubblicazione di un testo di Edmond Claris dal titolo De l’Impressionnisme en sculpture. Una raccolta di interviste con 15 immagini delle opere di Rosso, scattate da lui stesso, e solo 4 di Rodin. Rosso era anche fotografo. Ritraeva le sue sculture da diverse angolazioni, in modo stravagante e non canonico. Cittadino del mondo, non si è mai amalgamato alla realtà parigina preferendo essere se stesso piuttosto che adeguarsi ai metodi e alla cultura locale, come facevano alcuni immigrati, o prestarsi allo stereotipo dell’artista italiano, come facevano altri. L’anno scorso è uscito per i tipi di Johan & Levi un volume di Sharon Hecker dedicato all’artista. Scrive la Hecker: Medardo «si costruì un’identità di “cosmopolita straniero”: attingeva alle risorse parigine, ma senza assimilarsi totalmente, al fine di dare alla sua arte un sapore universale». Rifiutava gli Stati nazionali e le gerarchie e «coltivava una sorta di anarchismo culturale». D’altronde erano gli anni nei quali Pietro Gori in esilio scriveva: «Noi siamo gli stranieri di ogni patria! siamo i reietti! siamo i bastardi! Nostra patria è il mondo intero / nostra legge è la libertà». In gioventù ritraeva, appunto, i giovani reietti, le ruffiane, gli allucina-
Lo scultore Medardo Rosso nel suo atelier – foto non datata. (Wikipedia)
ti, sulla scia di un realismo courbettiano come testimonia il Birichino, con la pipa in bocca, parallelo all’autoritratto dello stesso Courbet. I critici, scrive sempre la Hecker, «disdegnavano i soggetti considerati brutti o legati alla realtà sociale della classe operaia, poiché detestavano “i cenci e la sporcizia”». In seguito i suoi lavori divengono maggiormente duttili, fluidi, misteriosi. Complice sicuramente l’uso della cera che prediligeva rispetto ad altri materiali come il gesso e la creta. Cera che, si badi bene, non modellava con le dita come tutti gli scultori – soprattutto gli impressionisti che lasciavano i segni e le loro impronte a bella posta sulle opere senza levigarle –, bensì, come si evince dal volume di Sharon Hecker Un monumento al momento. Medardo Rosso e le origini della scultura contemporanea, «preferiva gettare cera liquida in stampi flessibili di gelatina». Tra i suoi capolavori citiamo Madame X del 1896, dove il volto indistinto sembra scomparire e la rappresentazione pura visione ideale. Un artista difficilmente inqua-
drabile in categorie precostituite o in movimenti (nonostante da più parti si sia parlato di Impressionismo o di Scapigliatura o di Futurismo). Julius Meier-Graefe lo definì il «Mefistofele della scultura» e recentemente il critico del «New York Times», Stuart Preston, azzarda: «Se la Casa della Bellezza ha molti appartamenti, Rosso occupa l’ala infestata dai fantasmi» Il libro della Hecker parla di questo e di altro ancora, indagando i vari momenti della sua vita, dopo un’attenta consultazione di archivi storici e volumi di riferimento. Completano l’opera una ricca bibliografia e l’indice dei nomi e delle cose. Da leggere tutto d’un fiato, con accanto Il catalogo ragionato della scultura a cura di Paola Mola e Fabio Vittucci del 2009 e Trasferimenti del 2006, sempre di Paola Mola. Bibliografia
Sharon Hecker. Un monumento al momento. Medardo Rosso e le origini della scultura contemporanea. Johan & Levi editore. 2017. 320 pp, euro 33.–.
La pittura come profondità
Mostre La Fondazione Matasci per l’Arte ospita una personale di Franco Francese Alessia Brughera Era un individuo schivo e umbratile Franco Francese, poco incline al contatto con gli altri, trincerato dietro un silenzio che urlava il suo desiderio di isolamento da tutto e da tutti quale condizione necessaria alla piena espressione umana e creativa. Era un sognatore inquieto per vocazione, scontroso e a tratti arrogante al fine di difendere sempre e comunque la sua non appartenenza a un mondo che sentiva come sterile e fatuo. Era profondo, esigente e complesso. Come lui era anche la sua pittura, mai compiacente o di facile comprensione, almeno a prima vista. Una pittura che altro non era se non lo specchio della sua solitudine e della sua chiusura esistenziale, campo d’azione dove ribadire la propria diversità per tutelarla con protervia. Di una rude e severa efficacia, le opere dell’artista milanese, nato nel 1920 e scomparso nel 1996, sono testimonianza della sua totale estraneità ai modelli ufficiali e all’avvicendarsi delle mode, il suo essere distante da tragitti imposti e già percorsi da altri. Francese è sorretto da un atteggiamento curioso ma estremamente critico che se da una parte lo rende consapevole dei fermenti della modernità, dall’altra lo tiene ben saldo lungo un cammino originale scaturito dall’integrità e dalla risolutezza della sua ispirazione. «La mia ricerca formale» scriveva, «si muove tra il rifiuto di uno stile che sento limitativo, perché sento che finisce per ingabbiarmi, e il tentativo di ributtarmi a nuotare liberamente».
La metà degli anni Sessanta costituisce il momento di maggior apprezzamento della sua pittura, ma già alla fine del decennio si assiste a un inesorabile affievolirsi dell’interesse nei suoi confronti, dovuto soprattutto all’indirizzarsi dell’attenzione della critica verso le nuove correnti di matrice concettuale. Sebbene alcuni autorevoli studiosi, tra cui Giovanni Testori, ne abbiano elogiato e indagato la produzione, Francese appartiene al novero di quei maestri del secolo scorso che, a dispetto della rilevanza del loro operato, sono stati immeritatamente relegati
Franco Francese, La goccia, 1974.
dalla storiografia in contesti secondari. A contribuire a riportare il pittore nella dimensione che gli spetta è la rassegna organizzata negli spazi della Fondazione Matasci per l’Arte di Cugnasco-Gerra in cui sono esposti più di cento lavori, tra dipinti e disegni, realizzati da Francese dalla fine degli anni Trenta fino a poco prima della sua morte. Sono opere selezionate dall’ampia collezione raccolta nel corso dei decenni da Mario Matasci, grande estimatore dell’artista milanese e del suo linguaggio intriso di un’assorta amarezza, che già nel 1988 aveva allestito una prima
esposizione a lui dedicata per farne conoscere la pittura in ambito ticinese, seguita poi, nel tempo, da altre mostre che ne hanno documentato l’intero percorso. Attivo a partire dal secondo dopoguerra, periodo piuttosto complicato sia a livello politico sia artistico, Francese è stato capace di rinnovare instancabilmente la sua pittura, facendola divenire punto di giunzione tra spazio fisico e spazio interiore, tra memoria e verità, tra razionalità e pulsione, per sviscerare tutti i frangenti della condizione dell’uomo. Alla ricerca di Francese non è possibile attribuire un’etichetta perché il suo lavoro si muove al di là delle tradizionali classificazioni. Ciò che però contraddistingue la sua arte sin dagli esordi è l’indagine sulla figura umana, imprescindibile presupposto di ogni creazione: «Pur non essendo un pittore strettamente figurativo, nel senso della descrizione, tuttavia sono un pittore di figura. La presenza umana in un quadro mi emoziona subito», sottolineava l’artista. Sostenuta da una raffinata padronanza del disegno e resa solida dallo studio dei grandi maestri del passato e della modernità (da Goya a Dürer, da Rodin a Chagall, solo per citarne alcuni), l’arte di Francese attraversa il secondo Novecento avvicinandosi ora alle suggestioni neocubiste, ora al lessico realista, ora allo stile informale, per approdare poi, negli anni Sessanta, a un frasario evocativo che fonde sensazione e riflessione allo scopo di esplorare il significato stesso dell’esistere. L’opera di Francese procede per
nuclei tematici che il pittore inizia, abbandona, recupera e rielabora; cicli a volte enigmatici, volutamente oscuri e di non semplice interpretazione, scelti e perfezionati di continuo per «rendere fisicamente visibili le relazioni del mondo psichico con il reale». Melancolia del Dürer, ad esempio, documentato in mostra con una tela del 1965-75, è un motivo che ha occupato molto l’artista: la figura immobile e solitaria che vi compare ci induce a interrogarci sulla sorte dell’uomo, costretto ad affrontare la disarmonia quotidiana della vita e lo sconforto dell’isolamento. Ancora, Sole Notturno ci parla di un languido tramonto sognato, celebrazione di ricordi lontani e di struggenti tremiti dello spirito. In Atelier, altro tema molto caro al pittore, ci appare l’universo creativo di Francese come «personificazione del disagio di una vocazione». Uno degli ultimi cicli da lui affrontati, poi, incominciato nella seconda metà degli anni Ottanta, è L’acqua scorre tra le dita, amara meditazione sull’implacabile passare del tempo che trascina via ogni cosa. Con la sua pittura di nostalgiche penombre e di sensuali intensità, colma di sussulti dell’animo e di risonanze del pensiero, Francese ha interpellato con tenacia il mistero dell’esistenza, il destino di ogni individuo alla ricerca della verità. Dove e quando
Franco Francese. Fondazione Matasci per l’Arte, Cugnasco-Gerra. Fino al 26 gennaio 2019. Orari: do dalle 14.00 alle 18.00 e su appuntamento. www. matasci.com
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 dicembre 2018 • N. 52
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Cultura e Spettacoli Il ballerino e coreografo giapponese in un’immagine del 1982. (Keystone)
Il ricco catalogo di Zevon Musica Il coraggio di essere un outsider:
il genio misconosciuto di Warren Zevon, rockstar unica quanto fuori dagli schemi Benedicta Froelich
Lo strano caso di Kazuo O ˉ no e Santa Claus Personaggi Vita ed estasi di un danzatore cristiano
Daniele Bernardi È quasi il 25 dicembre del 1999 in Giappone. Nelle inquadrature di Beauty and Strenght vediamo, all’ingresso di un giardino d’infanzia, farsi strada un tentennante Babbo Natale. Armato di un bastone da cui grondano grappoli di campanelli, batte contro il legno della porta per attrarre i bambini che, un attimo prima, cantavano la versione nipponica di Stille Nacht nell’aula magna. Con passo incerto, percorre il corridoio e subito lo circonda una piccola folla. Le sue mani grandi, nodose, volteggiano delicatamente sulle teste: «Fate attenzione quando attraversate la strada», si raccomanda. «E copritevi bene, la notte!»
Quando Kazuo Ōno ritornò sulle scene all’età di 71 anni, riuscì a compiere una specie di miracolo I bimbi sembrano incuriositi dalla sua figura magra, che ha il viso nascosto da una maschera dalla barba pendula. Ma non è certo la prima volta che Kazuo Ōno (Hakodate, 1906 – Yokohama, 2010), probabilmente il più grande danzatore del secolo, fa una di queste visite natalizie. Potrà sembrare strano, ma alcune fotografie conservate presso l’Ōno Dance Studio Archives lo ritraggono in queste vesti già negli anni 50, quando assieme al ribelle Tatsumi Hijikata si apprestava a compiere una delle più radicali rivoluzioni della storia del teatro: la danza butō. Era nato in una famiglia di pescatori, su un’isola a nord del paese. Mentre suo padre era una figura terrena, radicata nella concretezza del lavoro, la madre, al contrario, era una donna dotta e di pensiero; sarà lei a fargli conoscere la cultura occidentale, la musica e la letteratura: «Quando avevo tre, quattro anni», ricorda nelle pagine di Nutrimento dell’anima, «mi leggeva le storie sui fantasmi di Lafcadio Hearn. (...) Quando pronunciava la parola «princi-
pessa», lei stessa si mutava nello spettro della principessa, coinvolgendo tutto il corpo nella narrazione. Una storia raccontata con emozione ha la capacità di far entrare gli uditori nel mondo del racconto. È quello che anche noi desideriamo fare danzando». Ma la danza nella vita di Kazuo non arrivò subito. Dapprincipio dedito a un’intensa attività sportiva, insegnò a lungo ginnastica percependo però, al contempo, i limiti di una disciplina che concepiva il corpo diversamente da ciò che intimamente sentiva. È in quello stesso periodo che si convertì al cristianesimo; svolta spirituale che segnò in modo decisivo, oltre che la sua persona, il suo percorso espressivo. Seguì le prime lezioni a trent’anni; fra le correnti che più lo coinvolgevano c’era la danza espressionista tedesca, allora sviluppata da interpreti quali Takaya Eguchi, con cui studiò cinque anni. Ma a dispetto dell’indiscusso talento, nel 1938 il suo percorso ebbe una battuta d’arresto: chiamato alle armi fu mandato al fronte, dove sperimentò la «falsità della guerra». «Kazuo», racconta il figlio Yoshito, anch’egli danzatore, «fu costretto a rimanere in terra straniera per nove anni». Ma qui, in un campo di prigionia, trovò un modo di lasciare il conflitto «sullo sfondo»: «È stato allora che ho cominciato a danzare (...). Ecco dunque: lì organizzavano dei concorsi teatrali. Io partecipai ballando con una maschera ricavata dal guscio di una noce di cocco dipinto di bianco. E vinsi il primo premio (...) roba da mangiare, banane in particolare». Al suo ritorno riprese quanto aveva interrotto e salì sul palco dimostrando grandi capacità. È allora che conobbe Tatsumi Hijikata, un giovane proveniente dalle misere realtà contadine di Tohoku. Questi, che fu, in fondo, più di Ōno, l’autentico ideatore del butō, aveva una personalità opposta: ateo, diviso fra l’amore per la letteratura maledetta – Sade, Rimbaud, Lautréamont, Genet, Artaud – e la danza, si proponeva la ricerca di un corpo che incarnasse, come scrive Maria Pia D’Orazi, una «doppia negazione: il rifiuto della danza occi-
dentale (...) e il rifiuto della danza tradizionale». Sulle tracce di una fisicità altra, quasi pre-espressiva, capace di fare emergere l’autenticità di una materia primordiale, più interessato alla gestualità di bambini e handicappati che non a quella di impettiti ballerini, dopo un primo esperimento artistico col figlio Yoshito, Hijikata avvia la sua collaborazione con Kazuo. Di colpo, allora, nell’arte di Ōno appare la dimensione della morte, poiché Hijikata, che vede nel destino dei reietti il centro dell’esistenza, gli propone di travestirsi da donna per interpretare Divine, la vecchia prostituta omosessuale che agonizza nel romanzo Notre-Dame-des-Fleurs di Jean Genet. Per circa un decennio da questo connubio nasceranno una serie di dirompenti spettacoli che da un lato costituiranno la genesi di ciò che oggi chiamiamo butō (il cui significato è «danza, tremito della terra, strisciare»), dall’altro vedranno successivamente fiorire una generazione di importanti danzatori. Trascorso questo periodo, Ōno si allontanò dalle scene per altri dieci anni. Al di là di alcune sporadiche apparizioni, si dedicò a un lavoro introspettivo di esplorazione delle proprie origini lavorando col cineasta Chiaki Nagano. Quando torna sul palco è ormai il 1977. Ha settantun anni, ma qualcosa di profondo lo spinge ancora alla ribalta. Ispirato da una fotografia che immortala Antonia Mercé y Luque, ballerina latinoamericana da lui vista quando era ragazzo, con la regia di Hijikata compone il commovente assolo che lo rivelerà al mondo: La argentina. Paradossalmente forse è qui che è iniziata la sua danza. Infatti, da allora ha realizzato un insieme di miracolose performances che rappresentano un caso eccezionale nella storia del teatro. Quasi cercasse, col movimento, di risalire al principio stesso della vita, Ōno – l’anziano che a Natale amava travestirsi per i bambini del giardino d’infanzia – fino alla sua morte ha cavalcato ogni giorno lo spazio scenico come fosse la placenta di una grande madre, sospesa nell’infinità del cosmo.
In tempi in cui la scena rock internazionale era dominata da cantanti spesso rudi quanto appariscenti – propensi a dimenarsi sul palco in agghiaccianti tenute dalle spalline protrudenti e i pantaloni aderentissimi, e a brandire la loro chitarra elettrica come un’arma – il cantautore americano Warren Zevon costituiva un’anomalia evidente quanto intrigante: con la sua aria da intellettuale contestatario, la lunga chioma ribelle e gli occhiali professorali, negli anni ’80 il giovane californiano appariva in tutto e per tutto come un outsider fuori tempo massimo. Eppure, dietro l’aria tranquilla e perfino posata, il vulcanico (e molto colto) Zevon nascondeva un animo sovversivo e un immaginario a dir poco sconvolgente; nonostante non sia mai divenuto un nome di respiro internazionale al pari del coetaneo Springsteen, Warren (il cui I.Q., vale la pena ricordarlo, era più alto di quello di Albert Einstein) sarebbe stato l’unico a infondere la propria musica di un particolare humor nero dalle sfumature irresistibilmente cinico-sarcastiche, toccando picchi di genialità assoluta con brani a cavallo tra un folk curiosamente ironico e il pop-rock più travolgente. Un ibrido elettrizzante, di cui gli esempi forse più celebri sono pezzi come l’epico Roland the Headless Thompson Gunner, Werewolves of London (unica hit da classifica di Zevon) o la caustica Lawyers, Guns and Money – anche se il mondo si sarebbe reso conto solo molto tardi di tanto talento e inventiva: nello specifico, quando una diagnosi impietosa di cancro terminale spinse il 56enne Warren a incidere, prima di morire, il toccante (e finalmente apprezzato) album d’addio The Wind (2003). Così è solo ora, dopo tanti anni di relativo silenzio, che il catalogo di Zevon viene gradualmente riscoperto dal giovane pubblico, grazie anche all’inclusione di alcune sue canzoni nelle colonne sonore di telefilm popolari; e da oggi, gli appassionati possono godere di una nuova gemma – la versione rimasterizzata di uno degli album forse più sottovalutati dell’artista, il caustico Bad Luck Streak in Dancing School, risalente al lontano 1980. Un lavoro che, fin dal titolo, è pervaso da una dimensione narrativa di stampo palesemente surreale, rarefatta quanto complessa, all’interno della quale Warren riesce ad alternare ballate esistenzialiste struggenti e disperate (le intense Empty Handed Heart e Bed of Coals) a brani crudelmente ironici e perfino spietati come Jungle Work e l’ispirata title track, in un
Bad Luck Streak in Dancing School è appena stato rimasterizzato.
connubio che ha caratterizzato la sua intera carriera di storyteller eccezionalmente arguto e sensibile. Secondo l’inimitabile versatilità tipica di Zevon, quest’album combina così tracce profondamente diverse tra loro, per un’esperienza di ascolto a tratti perfino sconvolgente, e comunque sempre provocante e foriera d’inevitabili riflessioni. Accanto a pezzi fortemente legati allo stile narrativo dell’amata tradizione folk (si veda Jeannie Needs a Shooter, in cui la ragazza che scappa con il pistolero della situazione è, in realtà, in combutta con il padre al fine di derubare di tutto l’ignaro innamorato), troviamo infatti esercizi di stile puramente ironici quali l’ammiccante A Certain Girl, e, soprattutto, il celeberrimo Gorilla, You’re a Desperado – in cui la chiave narrativa prettamente demenziale da sempre tanto cara a Warren diviene, ancora una volta, arguta metafora per la denuncia di uno stile di vita moderno sempre più alienante e impersonale. Come ogni grande artista, Zevon si conferma così un precursore, in grado di dipingere con poche, magistrali pennellate, veri e propri affreschi impietosi di scenari anche troppo azzeccati: esempio sopraffino ne è il devastante realismo di Play It All Night Long, agghiacciante incursione nella vita quotidiana di una famiglia di agricoltori del profondo sud degli States, alle prese con incesti, impulsi suicidi e perfino un’epidemia di brucellosi (termine che non molti musicisti rock possono vantarsi di aver mai impiegato in una canzone). In più, per i molti fan che, come la sottoscritta, in tanti anni di ascolto hanno letteralmente consumato la propria copia su CD di Bad Luck Streak in Dancing School, questa versione rimasterizzata costituisce un’esperienza sinceramente emozionante, in quanto il lavoro operato in fase di restauro e l’ottima qualità del suono restituiscono nuova vita all’intero album, rendendolo vibrante e nitido al punto da poter essere apprezzato appieno anche da un neofita. E questo, è, forse, il punto nodale non solo per i curatori di quest’edizione, ma, in fondo, anche per tutti coloro che per decenni hanno seguito e amato un artista controcorrente e anticonvenzionale come Zevon: la speranza che operazioni come questa ristampa possano infine offrire al grande (e perlopiù ignaro) pubblico la possibilità di riscoprire un musicista unico, il cui talento è stato sottovalutato per tanto, troppo tempo – ma che merita di essere infine riconosciuto come uno dei più grandi cantautori americani di sempre.
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Cultura e Spettacoli Rubriche
In fin della fiera di Bruno Gambarotta Le macchine siamo noi Primi anni 50: se dal taschino della giacca di un mio compagno di viaggio spuntava un regolo calcolatore non c’erano dubbi, si trattava di un ingegnere. Il suo messaggio era chiaro: sono un uomo dei numeri, non della fantasia. Scomparso il regolo, è rimasta l’autorevolezza della figura ma, grazie all’attività pionieristica del professor Vittorio Marchis, ai numeri si è aggiunta la fantasia perché «al vero ricercatore bisogna insegnare a varcare i confini, incoraggiarlo a dare sfogo al pensiero laterale». Il suo corso al Politecnico di Torino sul tema «Epistemologia della macchina» ha generato una prima antologia di «scritti meta-scientifici» dal titolo Incontri con la macchina, edito da Mimesis. Sono in tutto 33, 11 scritti in inglese e altrettanti quelli firmati da una donna, «frutto di una scommessa proposta a un gruppo di giovani ricercatori che hanno avuto il coraggio di entrare in territori a loro ancora ignoti». Sono sviluppati
su svariati modelli: racconto, verbale d’inchiesta, intervista, testo teatrale, udienza di processo, operetta morale, poemetto in versi, decreto di legge, foglietto illustrativo, saggio filosofico, referto medico. Nell’antologia si trova anche una ricetta, quella per fabbricare una «Candy Rocket», una caramella a razzo, a base di nitrato di potassio. Si raccomanda di farlo triturare dal meno esperto della squadra e dunque dal meno indispensabile «in modo da ridurre al minimo i danni collaterali nell’eventualità di una detonazione spontanea». È spassoso il foglietto illustrativo del telefono cellulare, con l’avvertenza: «Siccome questo foglietto non verrà letto interamente da persona alcuna, la ditta si riserva di scrivere dati fasulli o non completamente corretti». È vero, alzi la mano chi di voi ha letto tutto il libretto di istruzioni di un cellulare. Ecco come si cautelano i fabbricanti: «Effetti collaterali: il cellulare può creare psicosi, allucinazioni, può
esplodere, può prendere fuoco, può creare tendiniti o flogosi dei tegumenti della mano, sindromi da dipendenza, sonnolenza, cecità, carenza di ferro, demenza senile». Sempre, al centro di tutte queste variazioni, c’è la macchina, nel suo concetto più ampio, dove anche un sentiero sopra un lago ghiacciato che accorcia le distanze è a suo modo una macchina. Vi si trovano progetti di macchine a un passo da essere realizzate che mettono brividi di spavento. Pensate: un dispositivo sceglie per noi le parole adatte alle aspettative dell’interlocutore: con gli algoritmi che ci inviano i messaggi in sintonia con il nostro profilo di utenti siamo già dentro questo futuro. Un’altra macchina, sulla base di un motivo musicale che le viene proposto, genera improvvisazioni sempre più complesse e, siccome è in grado di imparare, in breve vince la competizione con l’uomo, come succede già con gli scacchi. Il resoconto di un processo vede sul banco degli
imputati «la macchina filtra pensieri», in grado di separare le idee buone da quelle cattive. Già, ma chi decide quali sono le idee buone e quelle cattive? Fra le tante macchine non poteva mancare quella in grado di registrare i sogni, di riprodurli, di modificarli e soprattutto di generarli a comando. Stefano Palumbo progetta «The Pi machine», una macchina in pietra simile esternamente all’antica Pizia, che produce oracoli, dando un futuro certo per ogni individuo, così l’intera società diventa un’enorme macchina. Daniele Porcu ha scritto un poemetto in quartine, intitolato Quanto conta?. Una strofa: «Le macchine ormai sanno ascoltare, / sembran perfin capaci di capire, / potranno, con gli schemi, interpretare / quel che pensiamo e non osiamo dire?». La bicicletta ha stimolato due autori, uno dei quali progetta «la bici quantica», basata sul principio di indeterminazione. Il tema della memoria è al centro di due racconti ed entrambi
progettano macchine che, con modalità diverse, non solo riproducono ma generano la storia, secondo un concetto diverso dall’attuale, inglobando tutta una congerie di fattori che gli storici in carne e ossa non possono utilizzare. Questi talentuosi ricercatori non saranno per caso degli «apprendisti stregoni»? No, sono tutti bravi ragazzi. Vero, professor Marchis? Fra loro c’è chi si pone domande fondamentali e non a caso è una donna, Marta Canta, nel saggio Macchinamorfismo. Come sarà il futuro?. Si chiede Marta: l’uomo e la macchina sono due entità separate o sono due forme della stessa sostanza? Se è valida la seconda ipotesi ne consegue che rispetto all’evoluzione degli animali, uomo compreso, quella delle macchine è stata straordinariamente veloce. Quale sarà l’ultimo anello della linea evolutiva della macchina? Qualcuno è in grado di rispondere, magari mentre sta provando l’ebbrezza di viaggiare su un’auto senza pilota?
la prostituta che frequentava il Giardino di Epicuro e l’alessandrina Aspasia sono molto prese dalla teoria, sono le statuine che fanno le loro cose lontano dalla grotta: la donna che fa il pane, quella che cura le oche. Però la moglie e la figlia di Pitagora, e poi Ildegarda di Bingen, fino a Simone Weil e Hanna Arendt non hanno bisogno di lezioni, nonostante Julia Kristeva si affanni a spiegare loro il senso della maternità. Ma Julia è vivente, quindi le altre non la vedono, il suo melodioso francese, con accento vagamente bulgaro, non arriva alle orecchie dei protagonisti del presepe. Si noti comunque che nessuna delle ragazze piange, con grande senso pratico organizzano la vita del neonato e della madre, senza lasciarsi andare a sentimentalismi. Versa lacrime invece Hans Jonas, che aveva detto che dopo Auschwitz non si sarebbe potuto pensare a un Dio buono: come dare del cattivo a un bimbetto? Piange Benedetto Croce e di rabbia piange Georg Frederich
Hegel: dunque non sono io il culmine della storia dello Spirito? Non è il mio pensiero l’ultimo tassello di un divenire che infine si coniuga nella triade artereligione-filosofia, dove quest’ultima è sintesi e superamento delle altre realtà? Non era Napoleone, che quando lo vidi mi sembrò lo Spirito Assoluto a cavallo, oppure siamo di nuovo vittime delle «astuzie della Ragione» che utilizza la libertà dell’uomo per raggiungere i suoi scopi perfetti? Hegel è quel signore anziano seduto vicino alla grotta, che non si capacita di non sapere né il quando né il dove. Si compiace invece Karl Marx, guarda guarda che vita da proletari, questi poveretti che non trovarono posto in nessun albergo. A Giuseppe e Maria, infatti, sarebbe bastata una stalla all’interno degli enormi recinti dove la notte si ricoverano animali e pastori. Ma niente, non c’era posto per loro, si dovettero accontentare di una grotta, dei pastori, di un bue e di quegli asini dei filosofi.
fatti apposta per sembrare ciò che sono o ciò che vorrebbero essere: peggio di un articolo di Relotius. Perfetta coincidenza tra le intenzioni dell’autore e le attese del lettore. La poesia più bella dell’anno? È di Enrico Testa, poeta e linguista genovese. Non posso dichiararlo in assoluto (Ablativo è il titolo di un suo libro del 2013), ognuno scelga la sua, ma quella che ancora mi risuona nell’orecchio a distanza di mesi è nella copertina della sua ultima raccolta, Cairn (Einaudi, voto 5½): «dicono che vi sia una parola / che dice ancora / quando non c’è più niente da dire, / che non dà nome / a ciò che è senza nome / ma come un abbraccio l’accoglie / e perdonandogli ogni colpa / l’invoca e – ma forse straparlo – / è pure pronta a celebrarlo». Non è poco. «Cairn» è una parola gaelica dal duplice significato doppiamente incoraggiante: è una pietra sepolcrale ma anche una pietra che segna la via, da una parte custodisce la memoria invitando a proseguire un dialogo con i morti, dall’altra
indica un possibile orientamento nel cammino accidentato dell’esistere. Bellissima immagine della poesia e della sua resistenza: poesia che «dice ancora quando non c’è più niente da dire», che «accoglie» e celebra «ciò che non ha nome», quelli che non hanno nome. Terzo consiglio (in extremis) per gli acquisti da regalo. Il mio saggio preferito di un anno pessimo come il 2018 è Quel che resta dell’antropologo-filosofo Vito Teti (Donzelli editore, voto 5½). Anche Teti confida molto nelle pietre, anche lui invita a riconquistare ciò che rischiamo di perdere: specie i luoghi, quelli abbandonati. Niente di nostalgico. Salvare il passato nascosto e sepolto è una forma di resistenza (politica) all’esistente che appare inevitabile, al nuovo (insensato) che invade con prepotenza. L’esortazione è a un «esercizio morale attraverso cui pensare il presente non nella forma di «quello che è» ma nei termini di «quello che potrebbe essere»». Niente di meglio per lasciarci alle spalle questo pessimo 2018.
Postille filosofiche di Maria Bettetini I pensatori nel presepe Se piangono, sono amati. Adesso va così, piace l’uomo che non nasconde i sentimenti, basta machos ora i social lodano, e le donne amano, l’uomo che lacrima in diretta. Ma che cosa significa questo amore per la sensibilità, per la fragilità? I filosofi hanno parlato di gestione delle passioni. Aristotele raccontava di una vita virtuosa se vissuta al di sopra dei due estremi viziosi: né prodigo né avaro, per esempio, l’uomo buono si sa porre nella giusta misura che connota chi sa utilizzare i beni materiali in maniera equilibrata. Come avranno affrontato le prossime feste natalizie e di inizio d’anno i grandi pensatori? Che cosa avrebbero detto della facile lacrima che oggi tanto piace? Non è difficile pensarlo, metterli in un immaginario presepe fuori dal tempo. Per prima cosa si sarebbe creata una divisione, lacrime sì lacrime no. Stoici ed Epicurei sarebbero inorriditi di fronte a stelle, canti e pastorelli, atti a smuovere il cuore. Nulla deve turbare l’uomo saggio, che raggiunge
il sommo piacere proprio nel nulla sentire. Nel presepe, l’epicureo è il pastorello che dorme, lo stoico quello che si volta dall’altra parte perché non vuole proprio sentire i canti degli angeli e le esclamazioni di meraviglia dei Magi. Un altro sembra distratto, ha la bocca aperta e non guarda la grotta, almeno non dentro. È Platone, che sa di essere uscito dalla caverna, per questo non degna di uno sguardo il Bambinello, e rimane estasiato nella contemplazione degli angeli. Non importa che cantino frasi dal significato misterioso, come «Gloria nell’alto dei cieli», questi esseri gli sembrano proprio la dimostrazione dell’esistenza delle idee: sono tantissimi, infiniti, e nessuno è uguale all’altro, proprio come i principi primi, che sono sì l’idea, per esempio, di cavallinità, ma anche l’idea di questo cavallo che ho davanti ai miei occhi. Aristotele dileggiò questa folla di idee, dove vuoi arrivare, domandava a Platone, se per ogni cavallo che vediamo dobbiamo supporre
animalità, cavallinità, corporeità, fino ad arrivare all’idea del singolo e determinato ronzino. Ma quest’anno il presepe riserva altre sorprese: alcuni signori si contendono la creatura, si strappano il bambino di mano. Sono gli uomini commossi, c’è Agostino di Ippona, c’è Alfonso Maria de’ Liguori – che sui due piedi inventa e canta Tu scendi dalle stelle – c’è Blaise Pascal, che riflette. Dunque dunque, se credere è una scommessa, e mal che vada la perdo ma ho comunque vissuto con la speranza, che è gran cosa, ma che devo scommettere, se quelli cantano e il bambino è vero, santo cielo prendetelo voi, che noi uomini del Seicento sappiamo commuoverci e far piangere, ma non abbiamo idea di come si afferri un neonato. Sospirano le donne filosofe, poche ma tipetti non da nulla. Quasi nessuna di loro è madre in senso carnale, per motivi disparati, ma tutte sanno usare della loro intelligenza e del loro cuore per sapere come gestire un neonato. Non proprio tutte:
Voti d’aria di Paolo Di Stefano Quel che resta dell’anno peggiore Tempo di bilanci. Che anno è stato il 2018? Pessimo (3––). Basti pensare al sovranismo in crescita, al populismo in crescita, al razzismo in crescita, al bullismo in crescita, all’inquinamento in crescita: in crescita come i blogger, gli influencer, le community, gli chef e i food maker, i like, i workshop, il know-how, il low cost, le mission, i login, le password, i budget, i brand. E le fake news. Un anno degnamente concluso dalla scoperta che un prestigioso giornalista di un prestigiosissimo settimanale tedesco, «Der Spiegel», si è inventato inchieste e reportage fingendo viaggi pericolosi che non aveva mai fatto, manco fosse Emilio Salgari che fantasticava luoghi lontanissimi da casa sua. Il guaio è che mentre Salgari scriveva straordinari romanzi d’avventura, il trentatreenne Claas Relotius proponeva inchieste finte e scoop inesistenti. Nel 2016 raccontò la storiaccia di un cittadino yemenita ingiustamente imprigionato a Guantanamo. Altre fandonie aveva pubblicato sui condannati a morte
negli Stati Uniti, sulla Siria, sull’Isis, sugli abusi in una scuola dell’Arizona. Ottenendo diversi riconoscimenti internazionali, tra cui il premio della CNN come miglior giornalista dell’anno nel 2014 e, qualche mese fa, un premio tedesco per il miglior reportage. Si è inventato interviste con persone che non aveva mai incontrato, ha spacciato per vere tragiche storie di uomini e donne che non esistono (né le storie né le persone). Un giornalista inesistente (2–) e un discreto narratore d’invenzione (5–). Quel che non si spiega è «Der Spiegel»: com’è possibile che un giornale che si vanta dei severi controlli redazionali sulle fonti si sia lasciato sfuggire tante bufale. Per fortuna ci sono i libri. Per fortuna ci sono i romanzi, che non spacciano nessuna verità, non hanno necessità di distinguere il vero dal falso, non hanno alcun rispetto per la realtà. Parere personalissimo: tra i romanzi del 2018, metto al primo posto Berta Isla (Einaudi) dello scrittore spagnolo Xavier Marías (5½), romanzo di
spie senza spionaggio, di ambiguità matrimoniali, di attese interminabili, di segreti che rimangono segreti, tenendo conto dell’evidenza che i romanzi che risolvono tutto (la gran parte di quelli che leggiamo) sono i più deludenti. Non si saprà mai che cosa è successo allo spagnolo Tomás, spia all’insaputa della moglie, Berta Isla, che ignara di tutto lo aspetta a Madrid: pure lei, come il lettore, destinata a non sapere bene chi sia quell’uomo assente, multiforme, a suo modo geniale e inafferrabile. Marías è un fuoriclasse delle sfumature e dei punti di vista che si moltiplicano e in cui ci si perde, così come ci si perde nella sua sintassi, di cui pure è un fuoriclasse. Se non siamo in grado di conoscere ciò che viviamo, figurarsi se riusciamo a conoscere ciò che abbiamo vissuto o crediamo di aver vissuto. Se non conosciamo neppure la persona che amiamo, figurarsi se riusciamo ad afferrare quel che ci viene raccontato da un grande romanzo fatto apposta per sembrare ciò che non è. I più banali sono i romanzi
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Idee e acquisti per la settimana
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di alcuni supermercati Migros Ticino, è disponibile l’irresistibile entrecôte di manzo Wagyu
Il pregiato entrecôte di manzo Wagyu è disponibile nelle filiali di Serfontana, Locarno, Agno, S. Antonino, e Lugano.
Pregiata e squisita
Il manzo di razza Wagyu veniva allevato in origine nella regione della città di Kobe, in Giappone. Ecco perché spesso questa carne è conosciuta anche con il nome di manzo di Kobe. Rispetto ad altre razze bovine da carne, il Wagyu cresce molto più lentamente e si distingue per la carne dall’elevata marezzatura di grasso, aspetto che contribuisce a rendere la qualità del sapore, della tenerezza e della succosità incomparabili. Questa razza possiede infatti la capacità di far infiltrare il grasso tra i muscoli e non attorno ad essi, caratteristica comunemente conosciuta come «marmorizzazione intramuscolare». Queste eccezionali carattetistiche fanno della carne di Wagyu una delle più care al mondo. Consigli di preparazione
iStock
La carne di manzo Wagyu possiede già un suo sapore naturale caratteristico, pertanto è consigliabile evitare di eccedere con i condimenti. Anche solo un po’ di sale grosso o fleur de sel e pepe macinato fresco sono più che sufficienti. Condire leggermente la carne e rosolarla brevemente in poco olio da entrambi i lati. Trasferire l’entrecôte su una teglia e terminare la cottura nel forno preriscaldato a 80 °C fino al raggiungimento della temperatura al cuore desiderata (ideale 55 °C).
Zampone, cotechino & borsotto Attualità Festività di fine anno all’insegna
iStock
della più classica tradizione gastronomica
Alle nostre latitudini certi piatti tipici, saporiti e caratteristici, non mancano mai sulla tavola festiva e invernale. Una vera ghiottoneria per tutti gli amanti degli insaccati cotti più classici, è lo zampone. Di origini emiliane, è fatto con una miscela di carne di maiale, lardo, sale, spezie e vino. L’impasto così ottenuto viene insaccato nel caratteristico zampetto anteriore svuotato del suino e, infine, precotto. Migros vi offre nel suo assortimento due zamponi interi ticinesi dei salumifici Sciaroni di Monte Carasso e Val Mara di Maroggia, come pure quello già porzionato
del noto marchio italiano Citterio. Chi predilige i prodotti nostrani, ossia fatti con solo ingredienti del nostro territorio, trova il Borsotto della Salumi del Pin di Mendrisio, un prodotto affine allo zampone per quanto riguardo l’impasto, ma differente nella forma. Tutti questi prodotti si preparano con facilità, semplicemente riscaldandoli in acqua bollente per una mezzoretta. Infine, segnaliamo ancora alcune bontà disponibili nelle maggiori filiali Migros, come il delicatissimo cotechino di vitello e lo stinco di maiale cotto firmato Beretta.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 dicembre 2018 • N. 52
Idee e acquisti per la settimana
Chicchi portafortuna
Attualità La melagrana, apprezzata per i suoi succosi chicchi rossi traslucidi, possiede anche una benevola
connotazione simbolica
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Migros offre al momento una vasta scelta di frutti esotici, buoni da mangiare e belli da vedere. Tra questi troviamo ad esempio la melagrana, un frutto che arricchisce le nostre tavolate invernali grazie alla sua versatilità. Originaria della Persia, cresce sugli arbusti del melograno ed è apprezzata da tempo immemorabile per i numerosi chicchi succosi dal sapore dolceacidulo che racchiude al suo interno. I chicchi possono essere gustati da soli al naturale, ma sono anche deliziosi per la preparazione di macedonie invernali, dessert, sorbetti, sciroppi (chi non conosce la «granatina»), salse, oppure anche per accompagnare piatti a base di carne e per decorare le pietanze più svariate. Ogni melagrana contiene tra i 200 e i 1400 chicchi. Nella cultura greca, la melagrana è associata a forti valori simbolici ed è considerata emblema di fortuna, prosperità, fertilità e rinnovamento. Una tradizione di Capodanno vuole che la melagrana venga gettata a terra: più saranno i pezzi in cui si sarà rotta, più sarà l’abbondanza per la propria famiglia nel nuovo anno. Aprire e sgranare una melagrana è pittosto facile. Tagliare il frutto a metà e posizionarlo con la parte tagliata sopra una ciotola. Picchiettare con vigore la dura buccia esterna con l’ausilio di un cucchiaio fino a quando tutti i chicchi siano caduti nel recipiente. Infine, è utile sapere che la melagrana fa anche bene alla salute: contiene vitamine quali A, B, C ed E, antiossidanti, niacina e molto potassio, benefico per depurare l’organismo.
Pasta fresca ticinese
Novità Ai banchi gastronomia delle
maggiori filiali Migros sono stati introdotti alcuni formati di pasta fresca artigianale dell’azienda Pastì di Riazzino
Cappellacci saraceni, delizie alla spirulina, quadratoni al Piora, ravioli al cervo, tagliatelle integrali e tagliolini all’uovo: la pasta fresca targata Pastì è da qualche settimana disponibile in sei formati ai banchi gastronomia delle filiali Migros di Locarno, S. Antonino, Lugano, Agno e Serfontana. Queste specialità vengono preparate tutti i giorni con ingredienti genuini, di provenienza prevalentemente ticinese o svizzera, selezionati con attenzione da esperti pastai che creano le loro ricette dalla volontà di unire la grande tradizione artigianale del «fare la pasta»
all’innovazione. L’azienda, nata nel 2016, si è da subito distinta anche per le sue proposte indirizzate alle tendenze di consumo attuali con prodotti vegani e biologici, tanto da aver ricevuto la relativa certificazione per entrambe le categorie. Una cura particolare viene riservata alle dosi e alle proporzioni dei singoli ingredienti, al fine di creare prodotti delicati e bilanciati al punto giusto per soddisfare i gusti di ogni consumatore. Vista la genuinità della pasta fresca Pastì, si consiglia di non eccedere con i condimenti per non comprometterne qualità e sapore.
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