Azione 09 del 24 febbraio 2020

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Cooperativa Migros Ticino

Società e Territorio Il sonno è di vitale importanza per lo sviluppo dei bambini almeno fino ai 13 anni: il pediatra Alberto Ferrando gli ha dedicato un libro

Ambiente e Benessere Il 2020 è stato dichiarato dall’ONU Anno internazionale della salute delle piante, all’insegna del motto: «Proteggere le piante–Proteggere la vita»

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXIII 24 febbraio 2020

Azione 09 Politica e Economia Il Coronavirus, ultimo attore nella storia delle grandi epidemie che affliggono l’uomo

Cultura e Spettacoli Uno svizzero alla corte degli Zar: l’incredibile storia di Pierre Gilliard

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Ti-Press

Nuovi progetti per la formazione

di Stefania Hubmann pagina 12

La globalizzazione: il moto si inverte di Peter Schiesser Con l’epidemia di Coronavirus ancora in corso e tutt’altro che sotto controllo, la «fabbrica Cina» stenta a ripartire. Le catene di produzione sono rallentate, poiché molte aziende lavorano a tempo ridotto e con effettivi limitati, mentre i controlli istituiti dalle autorità per contenere il contagio creano difficoltà di trasporto e di approvvigionamento. Di questo risentono anche le imprese occidentali che producono interamente o anche solo parzialmente in Cina, visto poi che anche i trasporti aerei vengono a mancare. Le ripercussioni economiche e sulla crescita nazionale, ma anche di singoli settori in diverse parti del mondo, si faranno sentire (si pensi al turismo, con le frotte di cinesi venute e mancare, in Asia come in Europa), la gravità dipenderà da come evolverà l’epidemia di questo Covid-19. Resta inoltre da vedere quali conseguenze genererà la sfiducia popolare verso le autorità e in particolare verso il presidente Xi Jinping per la cattiva gestione dell’epidemia (inizialmente sottaciuta). Questa epidemia mette in risalto un altro aspetto, di portata mondiale: quanto è fragile la globalizzazione economica che, grazie alla

facilità dei trasporti, permette di delocalizzare la produzione, anche di singole componenti, in varie parti del mondo; è sufficiente che qualcosa si blocchi da qualche parte affinché la catena di produzione si inceppi. Ma prima ancora del coronavirus, ci aveva già pensato il presidente statunitense Trump con la sua guerra commerciale contro la Cina, a far capire alle grandi multinazionali e in particolare a quelle americane che qualcosa, nell’ordine economico mondiale, stava cambiando: i dazi doganali avrebbero reso più cari i prodotti, la certezza di poter commerciare liberamente veniva incrinata. Tant’è vero che negli Stati Uniti numerose imprese stanno seriamente considerando di trasferire le loro fabbriche in altri paesi asiatici o addirittura negli Stati Uniti (soprattutto ora che una rielezione di Trump appare più che probabile). Un’inchiesta della Bank of America Merryll Lynch presso 3000 aziende internazionali che producono in Cina dice proprio questo: l’80 per cento di esse pensa di trasferirsi in altri paesi del sud-est asiatico, o di tornare in Europa e negli Stati Uniti. È una vittoria di Trump, sia politica che ideologica? In fondo sì: la sua scommessa di riportare le lancette della storia indietro, di invertire la tendenza degli ultimi tre decenni verso una sempre più

dominante globalizzazione sta avendo più successo di quanto si potesse immaginare (e immaginasse chi scrive). Questa nuova tendenza alla de-globalizzazione, quindi alla produzione in loco, non è dovuta solo all’irruenza di questo presidente degli Stati Uniti, bensì anche al fatto che la forza lavoro dei paesi emergenti (in particolare in Cina) non è più così a buon mercato, inoltre i progressi tecnologici permettono una crescente automatizzazione della produzione e quindi meno personale. Tuttavia, senza le pressioni di un Trump questa inversione di tendenza non si sarebbe probabilmente avuta, non così presto perlomeno. Quali conseguenze avrà tutto questo? È un processo che va letto a diversi livelli. Per Trump e gli Stati Uniti si tratta di una battaglia per mantenere la supremazia mondiale (considerando però solo i propri interessi e non quelli del resto del mondo), quindi di frenare quella che sembrava l’ineluttabile ascesa imperiale della Cina di Xi Jinping. Per la Cina è in gioco non solo il suo ruolo futuro ma, se la sua crescita ed evoluzione subisse un forte rallentamento, persino la sua stabilità interna: anche le dittature non possono fare a meno di un consenso generale, e questo viene meno se il paese si impoverisce.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 febbraio 2020 • N. 09

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Attualità Migros

Una scelta coraggiosa e coerente

Jazz nordico a Biasca Rete 2 Il pianista

Sostenibilità Migros elimina dall’assortimento le stoviglie di plastica usa e getta

Entro la fine del 2020 Migros sostituirà tutti i piatti, i bicchieri e le posate monouso di plastica con alternative più ecologiche. Il cambiamento avverrà gradualmente, in modo da evitare di dover smaltire la merce esistente. Grazie a questa modifica, Migros risparmierà 560 tonnellate di rifiuti di plastica all’anno. Già oggi il 60% dei prodotti usa e getta è fabbricato con alternative ecologiche come canna da zucchero, foglie di palma, carta o legno. In questa ultima fase, le stoviglie di plastica monouso rimanenti verranno sostituite gradualmente con prodotti alternativi. Entro la fine del 2020 per ogni articolo usa e getta sarà disponibile un’alternativa ecologica. I prodotti per i quali non dovesse essere possibile trovare un’alternativa ecologica entro il termine fissato saranno tolti dall’assortimento senza essere sostituiti. Grazie al passaggio dalle stoviglie di plastica monouso alle alternative più ecologiche, finora Migros è riuscita a risparmiare circa 210 tonnellate di rifiuti di plastica. Per la fine del 2020, questa cifra salirà a circa 560 tonnellate. Questo cambiamento è un’ulteriore misura di Migros volta a rendere l’assortimento più sostenibile e a ridurre l’uso di plastica. Ad esempio, Migros è il primo commerciante al dettaglio svizzero a offrire

Più ecologia negli scaffali. (FCM)

stoviglie e ciotole riutilizzabili nei suoi ristoranti e take away (in Ticino nei ristoranti e negozi De Gustibus di Agno, Bellinzona, Grancia, Locarno, Lugano, Lugano-Cassarate, Sant’Antonino,

L’impegno di Migros Ticino Migros Ticino si è attivata da tempo per una gestione ecologicamente sostenibile delle materie plastiche utilizzate in tutti i suoi principali settori d’attività: supermercati, ristoranti e take away. Da un lato, per quello che riguarda gli imballaggi, si cerca di ridurne al minimo possibile l’uso. Dall’altro, nel caso in cui non sia assolutamente possibile rinunciare

all’uso della plastica, Migros Ticino si impegna ad utilizzarne tipi che siano o costituiti da plastica riciclata oppure, se possibile, con plastiche che siano a loro volta riciclabili. Occorre sempre considerare che si tratta di modificare dinamiche complesse, collegate a processi che coinvolgono altri attori del settore: un lavoro che richiede tempo ma che è iniziato e sta procedendo.

Serfontana) e a vendere le «veggie bag» come alternativa ai sacchetti di plastica nel reparto frutta e verdura. Le Veggie Bag possono essere riutilizzate almeno sei volte e sono quindi meno inquinanti dei sacchetti di plastica usa e getta tradizionali. Realizzati al 100% in poliestere privo di sostanze nocive, i sacchetti vantano una qualità superiore. Un’altra misura da menzionare è l’impiego di PET riciclato. I nostri clienti restituiscono ogni anno oltre 9000 tonnellate di PET e 2900 tonnellate di bottiglie di plastica. Così ora riusciamo a produrre le bottiglie di sciroppo al 100% con PET riciclato. Attualmente Migros sta lavorando per convertire la produzione di altre bottiglie al 100% di PET riciclato. Le stoviglie usa e getta hanno un’elevata probabilità di essere oggetto di

littering. Quando vanno a finire nella natura, i prodotti di plastica si riducono in pezzi sempre più piccoli, ma restano nell’ecosistema contaminando il suolo, i fiumi e gli oceani. Ciò non accade con le alternative più ecologiche che verranno introdotte gradualmente nell’assortimento Migros. Il modo corretto di smaltire i nuovi prodotti è indicato sul loro imballaggio. Gli stecchini di bambù per gli aperitivi, i piatti in foglie di palma e i bastoncini per mescolare in legno e bambù possono essere gettati nel compostaggio domestico, rispettivamente smaltiti con gli scarti vegetali. Gli altri prodotti si decompongono nella natura, diversamente dalla plastica normale. Tuttavia, a causa dei tempi lunghi di decomposizione, vanno per ora gettati nei normali rifiuti domestici.

Bobo Stenson con il suo trio il 7 marzo Vale la pena di dedicare una breve presentazione anche alla cornice in cui avverrà il concerto: la sala nella «Casa del Cavalier Pellanda» è certo una delle più piccole e affascinanti location musicali del nostro cantone. Proprio grazie alla sua cornice di «antichità» si presta a immergere gli spettatori in un raccoglimento speciale, propiziato anche dall’inevitabile vicinanza che si viene a creare con i musicisti. È situata nella bellissima dimora cinquecentesca dell’omonimo Cavaliere biaschese. Uno stabile che si presenta come solido ed elegante palazzotto signorile diventato oggi sede di attività culturali ed espositive legate alla regione (da non perdere assolutamente una visita alla «Sala d’onore» rivestita di legno secondo gli usi del passato: tanto bella da essere stata trapiantata per anni nel Landesmuseum di Zurigo). La sala da concerto viene abitualmente utilizzata, tra gli altri, dall’Associazione Musibiasca per presentare serate musicali che hanno sempre come ospiti formazioni di eccezionale interesse. Rete Due RSI da tempo intrattiene un rapporto di collaborazione con il sodalizio biaschese e organizza qui uno dei concerti che fanno parte della rassegna «Tra jazz e nuove musiche», sostenuta dal Percento culturale di Migros Ticino. Per ciò che riguarda la serata prevista sabato 7 marzo (ore 21.00), non c’è bisogno di molto spazio per introdurre il gruppo in programma. Il trio del pianista svedese Bobo Stenson, in cui militano Anders Jormin al contrabbasso e Jon Fält alla batteria, è una delle

D. Vaas

«Troppo buono per essere buttato»

Too Good To Go Arriva anche da noi l’app contro lo spreco alimentare,

e Migros Ticino è della partita Un’idea nata diversi anni fa in Danimarca: la sua introduzione in Svizzera si deve all’impegno di una donna, una laureata in scienza dell’alimentazione, che è da sempre attenta al tema della sostenibilità. Dal 2018 Lucie Rein è a capo della sezione svizzera della start-up, la quale si pone l’obiettivo di recuperare gli alimenti che quotidianamente andrebbero gettati via dal circolo della distribuzione commerciale. Di recente anche Migros Ticino ha deciso di collaborare con questa iniziativa. In tal modo l’azienda ticinese potrà confermare il suo impegno per limitare lo spreco alimentare e dare un contributo concreto salvando dal macero alimenti invenduti alla fine di ogni giornata. Il progetto ha preso il via dall’11 febbraio in sei filiali di Migros Ticino: Lugano, Locarno, Tav-

Azione

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

Alimenti di qualità ineccepibile a prezzi ridotti, 30 minuti prima della chiusura. Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

erne, Pregassona, Biasca e Bellinzona. Come funziona Too Good to go? Basta scaricare sul proprio smartphone l’app gratuita e registrarsi al servizio. Sullo schermo appariranno le offerte della giornata: ciascuna delle filiali Migros Ticino indicate metterà ogni giorno a disposizione dei clienti, in base all’andamento delle sue vendite, alcune «Magic Box» di prodotti alimentari a prezzo ridotto. Si tratta di sacchetti in cui sono raccolti prodotti di varie categorie merceologiche: verdure, frutta, latticini o prodotti da Take Away. Prenotandole tramite l’app, i clienti potranno passare a ritirarle nella filiale prescelta 30 minuti prima della chiusura. Il contenuto delle Magic Box varia a seconda dei generi alimentari rimasti invenduti. Tutti i cibi contenuti nei pacchetti sono di qualità impeccabile.

A prescindere dalla collaborazione con Too Good To Go, Migros Ticino sostiene già da molti anni istituti sociali come «Tavolino magico», che distribuiscono gratuitamente gli alimenti in eccedenza alle persone in difficoltà economiche. Inoltre, mette in vendita a prezzo scontato i prodotti prossimi alla scadenza applicando diversi livelli di riduzione oppure li vende a basso prezzo ai suoi collaboratori. Grazie all’app Too Good To Go, anche i prodotti che non trovano altro impiego nonostante le misure già adottate possono ora essere recuperati in modo sensato. La cosa migliore è scaricare l’app e provarla. Per approfondire il tema dello spreco alimentare, su Generazione M (www.generazione-m.ch) sono disponibili numerosi consigli e informazioni.

Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11

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Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31

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formazioni considerate ormai classiche per la storia del jazz contemporaneo. Lo stile rarefatto e personalissimo di Stenson è un marchio di fabbrica di sicuro successo, e la sua affiliazione alla casa discografica più «nordica» attualmente sul mercato, la ECM, è un riferimento ormai noto ed assodato. Da considerare tra l’altro che la serata biaschese rientra proprio nel novero delle regolari ECM Sessions promosse da Rete Due, per sottolineare il rapporto di collaborazione con l’etichetta. Bobo Stenson nei prossimi mesi registrerà nell’Auditorio RSI di Lugano il suo nuovo album per ECM. Bobo Stenson Trio

Sabato 7 marzo, ore 21.00 Casa Cavalier Pellanda, Biasca In collaborazione con

Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 febbraio 2020 • N. 09

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Società e Territorio E-mail e sicurezza Gli attacchi informatici che sfruttano la posta elettronica si sono moltiplicati, come proteggersi? pagina 9

Prevenzione alla radicalizzazione È attiva da un anno la Piattaforma cantonale di prevenzione della radicalizzazione e dell’estremismo violento. Intervista alla capoprogetto Michela Trisconi pagina 11

Contro l’abbandono scolastico I progetti «Obiettivo 95%» e «Più duale» promossi dal DECS mirano a ridurre la percentuale di giovani senza un diploma secondario e ad aumentare i posti di apprendistato pagina 12

Il sonno è di vitale importanza per lo sviluppo emotivo, fisico e mentale. (Marka)

Buonanotte bambini!

Il caffè delle mamme Il libro della nanna del pediatra genovese Alberto Ferrando spiega che il sonno

è fondamentale non solo per i bebé ma anche per i bambini fra i 6 e i 13 anni Simona Ravizza Sfangate ormai da anni le feroci discussioni su come è meglio fare addormentare i neonati (dove io sono sempre stata contraria sia al metodo Cry It Out di Richard Ferber, ovvero sul farlo piangere finché non crolla dal sonno, sia al Controlled Crying di Eduard Estivill, ossia al pianto controllato con rigorosa tabella dei minuti da seguire), a Il Caffè delle mamme s’impone un altro dilemma: come aiutare i bambini tra i 6 e i 13 anni a dormire al meglio. L’occasione è l’uscita in libreria de Il libro della nanna (ed. Lswr, sett. 2019) scritto dal pediatra genovese Alberto Ferrando che, mettendo a frutto 40 anni di esperienza, ci spiega cosa bisogna sapere e cosa fare per il sonno felice dei nostri figli. Risolto il problema dell’addormentamento del bebè, dobbiamo avere ben in mente una cosa: non è finita qui! Il motivo? Il sonno ha un ruolo fondamentale nell’età evolutiva perché è necessario allo sviluppo psico-fisico. Ma i nostri bambini dormono spesso meno di quello che dovrebbero e non abbastanza bene. «Oggi le giornate sono molto più lunghe e impegnative rispetto al passato. Mamma e papà di solito lavorano tutto il giorno e i bambini vengono affidati ai nonni o a baby

sitter. Più volte alla settimana dedicano molto tempo ad attività extrascolastiche. Alcuni hanno agende fitte di impegni e, talvolta, trovare un’ora libera, in un giorno qualsiasi della settimana, è un’impresa piuttosto complicata. Alla sera può capitare che alcuni bambini debbano ancora fare i compiti oppure guardano la Tv, oppure giocano con smartphone o altri apparecchi elettronici» sottolinea Ferrando. «Questi aspetti nell’ambito sociale e familiare sono stati anche oggetto di studi che hanno evidenziato che ormai i bambini dormono circa un’ora in meno al giorno rispetto allo standard fissato per la loro età. Stimolare i bambini fornendo loro occasioni per imparare cose nuove, e renderli curiosi di ciò che li circonda è senza dubbio positivo e utile per un sano sviluppo cognitivo ed emotivo, tuttavia sovraccaricarli di stimoli può essere controproducente. Portare avanti tante attività richiede energia, impegno e attenzione e spesso può diventare pesante per il bambino che con il tempo può accusare affaticamento, disturbi del sonno, disattenzione e difficoltà nell’apprendimento. Alcuni hanno difficoltà a finire i compiti o a studiare per il poco tempo a disposizione; non dormono bene o troppo poco, con risvegli frequenti; sono stressati e la mancanza di sonno porta

a un’alimentazione errata a partire dalla colazione. Se facciamo un calcolo di quanto sonno perdono i bambini in una settimana, possiamo renderci conto di come a lungo andare questa privazione può avere delle conseguenze negative sulla concentrazione, sulle capacità scolastiche e sul peso corporeo dei nostri bambini». Ecco, allora, cosa Ferrando ci suggerisce di ricordare sempre. Uno. Se il sonno è importante a qualsiasi età, per i bambini è di vitale importanza per il loro sviluppo emotivo, fisico e mentale. È il momento in cui vengono prodotte molecole che servono a costruire nuove sinapsi, cioè collegamenti tra le cellule del sistema nervoso attraverso le quali vengono trasmessi gli stimoli. Così delle buone ore di sonno permettono al bambino di assimilare quanto appreso durante la giornata. Inoltre, la somatotropina, che è l’ormone della crescita, ha il suo picco durante le ore notturne, in corrispondenza della fase di sonno profondo. E ancora: il corpo rallenta le sue funzioni fisiologiche, con la temperatura che si abbassa, il metabolismo che rallenta e i tessuti che si rigenerano. «Il sonno è il tempo in cui il cervello impara, in cui rinsalda la memoria, in cui cerca la pace con se stesso e, attraverso il sogno, il senso della vita», insegna

Franco Panizon, maestro della Pediatria italiana. Due. Per i bambini da 6 a 13 anni l’ideale è dormire da 9 a 11 ore. «Ma andrebbe data importanza anche al quando dormire – insiste Ferrando –. I bambini hanno delle fasce orarie in cui ha senso dormire e che non coincidono con quelle di un adulto. Ecco perché dovrebbero andare a letto prima, in modo che la struttura del sonno sia ottimale per l’età». Meglio mantenere regolari gli orari per andare a dormire e per svegliarsi: sono tollerati intervalli non superiori a un’ora di differenza tra le notti della settimana e quelle del weekend. Tre. Un riposo di 10 ore riduce del 5% la quota di adolescenti che arriva ai 18 anni in sovrappeso. Diversi studi hanno accertato che, a livello fisiologico, un buon sonno garantisce il rilascio di leptina, l’ormone che blocca lo stimolo della fame e inibisce la grelina, che al contrario la stimola. Quattro. L’importante è anche che i bambini riposino senza brutti pensieri. E, allora, possiamo convincerli che esiste un Comitato del Sonno: «È esperienza comune che un problema che si presenta difficile la sera – diceva lo scrittore statunitense John Steinbeck, al mattino è risolto, dopo che il “Comitato del Sonno” se n’è occupato».

Cinque. Il rito della buonanotte è fondamentale. Vanno stabiliti 20-30 minuti di tempo da dedicare alle consuetudini prima del sonno. La routine dovrebbe prevedere attività rilassanti come leggere un libro o parlare di ciò che si è fatto durante la giornata. L’ultima fase dovrebbe svolgersi nella stanza da letto. Così scrive Rita Valentino Merletti, autrice di Leggere ad alta voce: «Certo che lo sapevo a memoria, infatti quello che volevo davvero non erano le parole della storia; volevo essere sicura, ma proprio assolutamente sicura, di risentire mia madre ridere di gusto nel rileggere per l’ennesima volta del litigio fra mastro Geppetto e mastro Ciliegia, volevo rivedere la sua espressione solenne quando leggeva della morte della Fata dai capelli turchini, volevo riprovare con lei la paura che sentiva Pinocchio quando, stretto tra le mani del Pescatore verde, rischiava di finire fritto in padella». Sei. Cosa non fare. Evitare nelle 2 ore che precedono il sonno attività serali eccitanti o che danno energia, come esercizi fisici impegnativi, e attività stimolanti come i videogiochi. Non lasciare a disposizione televisione, computer, tablet nella camera da letto. Sogni d’oro. Oppure, come diceva Snoopy ai nostri tempi, «andiamo a pigiamare»!


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 febbraio 2020 • N. 09

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Idee e acquisti per la settimana

Doni della natura

Attualità Due prodotti a base di erbe officinali ticinesi in grado di contribuire al nostro benessere quotidiano

Caramelle alla Genziana 120g Fr. 5.25* invece di 7.50 *Azione 30% dal 25.02 al 02.03

La Tisana Brumana e le Caramelle alla Genziana offrono straordinarie combinazioni di sapori. Sono realizzate con pregiati ingredienti naturali particolarmente benefici per il nostro organismo. La Tisana Brumana è un’infuso balsamico composto da timo, menta e melissa. Grazie alle riconosciute proprietà di queste piante, è in grado di esercitare un’azione benefica, decongestionante ed espettorante a livello delle vie respiratorie in caso di disturbi bronchiali, raffreddori e tossi. La sua efficacia è pure dimostrata in caso di cattiva digestione e gonfiore intestinale, dal momento che il timo e la melissa sono apprezzati per le loro qualità antispasmodiche e carminative. Prima di bere la tisana, si consiglia di lasciare in infusione una bustina in acqua bollente per almeno 5 minuti, coprendo la tazza con un piattino per evitare che i pregiati oli delle erbe vadano persi. L’efficacia della genziana nel favori-

Tisana Brumana Nostrana 20 bustine/24 g Fr. 4.10* invece di 5.90

re la digestione, stimolare l’appetito e nell’esplicare un’azione carminativa e antiossidante è riconosciuta da molto tempo. Le proprietà della radice della pianta alpina sono racchiuse nelle caramelle alla genziana. Si caratterizzano per il loro sapore delicatamente amaro, ma al contempo aromatico. Oltre alla genziana, le caramelle sono anche arricchite con estratti di salvia, utile in caso di disturbi della menopausa, intestino irritabile e dolori mestruali; e achillea, che aiuta a rilassare la muscolatura gastrointestinale ed è un ottimo digestivo. Una filiera virtuosa

Sia la tisana che le caramelle vengono prodotte artigianalmente a partire da piante officinali provenienti da colture controllate situate sul territorio ticinese. I due prodotti nascono nell’ambito del progetto «Erbe Ticino», iniziativa promossa dalla Cofti.ch SA con lo

scopo di salvaguardare le piantagioni di erbe officinali ticinesi e di promuoverne il loro utilizzo attraverso prodotti innovativi, ma anche fedeli alle tradizioni del nostro territorio. La filiera inizia a Pollegio, dove Caritas si occupa della semina delle piantine aromatiche-officinali. Dopo un mese,

Il salame Strolghino

Specialità Il prelibato salume emiliano alletta i palati più raffinati

con il suo delicato sapore e l’inconfondibile morbidezza Già nel 1700, nella tradizione contadina della Bassa Parmense, lo Strolghino veniva consumato come primo salame, ossia dopo appena 2-3 settimane dalla macellazione casalinga del suino e della relativa lavorazione delle carni. Da sempre viene preparato solo con carne magra proveniente dai ritagli della lavorazione dei pregiati culatello e fiocchetto. Il territorio di origine della specialità è il medesimo del culatello, ossia la provincia di Parma che si affaccia sul fiume Po, anche se poi col tempo la zona tipica si è diffusa anche alla restante parte dell’EmiliaRomagna e oltre, fino a includere la Lombardia e la Toscana. Se un tempo lo Strolghino si caratterizzava per una forma che ricordava un ferro di cavallo, oggi lo si trova generalmente allungato e cilindrico, con un diametro di ca. 3 cm. È un salame giovane, di corta stagionatura, composto dalla carne macinata in modo piuttosto grosso. Il budello di formato piccolo e sottile in cui è insaccato ne favorisce la breve maturazione. Si ritiene che una delle origini del suo nome possa derivare dal termine dialettale «strolg», ossia mago in grado di prevedere il futuro, per il fatto che la stagionatura di poche settimane dello stesso permetteva

le piante vengono fornite a diversi coltivatori sparsi sul territorio cantonale, dove proseguono la loro crescita fino a piena maturazione. Una volta raccolte, le erbe giungono alla Fondazione San Gottardo di Melano, dove avviene il delicato processo di essicazione. Le erbe essiccate, infine, sono miscelate

tra di loro per poi dar vita alle ricette più gustose, alcune delle quali le potete trovare anche sugli scaffali di Migros Ticino. Insomma, un progetto che si caratterizza anche per la sua valenza socio-professionale, che rappresenta un pilastro fondamentale nell’insieme delle attività.

Presto in tavola

Azione 30% Salame Strolghino di culatello Italia, ca. 250 g per 100 g Fr. 3.60 invece di 5.15 dal 25.02 al 02.03

di capire se la maturazione degli altri salumi procedeva nel modo adeguato. Il salame Strolghino di distingue per il suo gusto delicatamente dolce, leggero, e lo si consuma idealmente quando è ancora morbido, tagliato a fette piut-

tosto spesse e servito accompagnato da pane croccante, formaggi saporiti e altri salumi della tradizione italiana. È venduto avvolto nella caratteristica carta paglia e va conservato in un luogo fresco.

Gnòcch da patati 500 g Fr. 3.50

Gli gnocchi nostrani del pastificio l’Oste sono pronti e fumanti in pochissimi minuti e assicurano un’ottima riuscita dei vostri primi piatti più sfiziosi. Sono preparati artigianalmente con pochi ingredienti della migliore qualità e, naturalmente, tutti provenienti dal nostro territorio. Le materie prime sono personalmente selezionate dal ti-

tolare dell’azienda di Quartino, Davide Mitolo, che ne garantisce la genuinità. Per un piatto facile e pronto in poco tempo, cuocete gli gnocchi nostrani in abbondante acqua salata bollente per due minuti, scolateli e conditeli anche solo con un po’ di burro fuso, qualche fogliolina di salvia e del buon formaggio grattugiato.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 febbraio 2020 • N. 09

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Idee e acquisti per la settimana

Cura della pelle al naturale

Ribassi di prezzo attuali

Cosmetica Le filiali Migros di Locarno,

Biasca e Lugano propongono la linea di prodotti Winni’s Naturel a base di materie prime rigorosamente di origine vegetale

Efficaci, sicuri e realizzati nel rispetto dell’ambiente e degli esseri viventi: i cosmetici Winni’s Naturel promettono ottimi risultati e soddisfano le esigenze individuali delle pelli più delicate e sensibili. La linea è composta da una pregiata selezione di prodotti arricchiti con fresche e invitanti profumazioni agli estratti biologici di melograno o thè verde, di cui fanno parte saponi per le mani, detergente intimo, shampoo, balsami, bagni

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 febbraio 2020 • N. 09

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Società e Territorio

Non aprite quella mail

Sicurezza Gli attacchi informatici che sfruttano la posta elettronica

si sono moltiplicati. Intervista a Mario Gay, responsabile del servizio informatico dell’USI

Guido Grilli S.O.S. La nostra posta elettronica rappresenta sempre meno un «porto sicuro» per le nostre corrispondenze private, pubbliche o commerciali nel caso di istituzioni o aziende. Siamo sotto costante attacco da e-mail indesiderate. Virus. Tentativi di truffe informatiche. Una visione apocalittica o realistica? Lo chiediamo a Mario Gay, tra il 1995 e il 2018 preposto alla gestione del servizio informatico Ti-Edu, una cooperazione fra USI, SUPSI e Canton Ticino per fornire servizi di tecnologie dell’informazione e della comunicazione al settore dell’insegnamento accademico e della ricerca nella Svizzera italiana e oggi responsabile del servizio informatico dell’Università della Svizzera italiana. «È esattamente così: la posta elettronica è un vettore di attacchi importantissimo per i criminali informatici, anche perché inizialmente non è stata progettata per essere sicura. È nata agli albori di Internet mettendo l’enfasi sulla funzionalità piuttosto che sulla sicurezza. Ancora oggi falsificare e spedire posta elettronica in grande quantità è facile e costa pochissimo. Quindi i malintenzionati possono permettersi di spedire milioni di messaggi con la fondata speranza che qualcuno abbocchi. Alcuni messaggi sono scritti male, altri, ultimamente, sorprendentemente ben congegnati. Addirittura mirati. In

questi casi i criminali si sono presi il tempo per attuare quella che si chiama “ingegneria sociale”: studiare le persone e le loro abitudini, verificare se un dirigente di un’azienda è lontano dal posto di lavoro, spedendogli dapprima un messaggio e ricevendone conferma con una risposta di assenza automatica, per poi “impersonarlo”, cercando di far effettuare versamenti dai suoi collaboratori simulando un’urgenza». Come ci si può dunque difendere da queste insidie? «Sia come privati che come collaboratori di un’azienda o di un’istituzione, tra le misure più efficaci ci sono paradossalmente le più banali. Facciamo un parallelo con il Coronavirus oggi al centro delle cronache: mentre le università e le farmaceutiche cercano con ogni mezzo a disposizione un vaccino e una cura, cosa possono fare nel frattempo i singoli individui per almeno mitigare il rischio? Lavarsi le mani. Le misure d’igiene informatica a livello individuale sono, come per la salute pubblica, molto efficaci in rapporto al loro costo. Il sito della Confederazione dedicato alla sicurezza informatica, www.melani.admin.ch, alla voce “come mi proteggo”, riporta alcune misure semplicissime: la prima, usare password forti, vale a dire complesse e diverse per ogni servizio online utilizzato; e la seconda, impiegare un po’ di sana prudenza quando si aprono le email. È sorprendente quanti utenti non applichino queste avvertenze».

Come valuta oggi la situazione? «Le minacce informatiche – non è un mistero per nessuno – da diversi anni crescono costantemente. La sfida organizzativa, sia nel settore privato che in quello pubblico, è quella di disporre di risorse che stiano al passo con l’aumento di questi pericoli. È chiaro che in momenti di ristrettezza finanziaria non è facile ottenere queste risorse. Noi, a livello di università, abbiamo il vantaggio di poterci appoggiare a Switch, la fondazione che gestisce la rete di comunicazione accademica svizzera e che possiede un reparto sicurezza molto solido e professionale, che offre consulenza e servizi». Dalle spam al furto di password: può illustrare le insidie informatiche più comuni? «Se parliamo di posta elettronica, semplificando molto, in una prima fase lo spam è consistito essenzialmente in pubblicità commerciale indesiderata. Quella era tutto sommato un’“epoca felice”, perché questi messaggi si limitavano a provocare uno spreco di risorse e un fastidio agli utenti. In seguito, invece, sono arrivati gli allegati con i virus – file .zip, .exe e altri ancora – file che se aperti con un clic danno avvio a una serie di operazioni malevole: da trasmettere a terzi i nostri dati fino a, per esempio, mettere a disposizione i nostri Pc come base ai criminali per successivi attacchi ad altre persone. Relativamente nuovi sono poi i cosiddetti ransomware (letteralmente,

Spam, truffe, virus, phishing: la sicurezza delle e-mail è difficile da garantire. (ITU Pictures)

ransom è il riscatto): si tratta di attacchi che cifrano i dati sul nostro Pc o, ancora peggio, sui server aziendali rendendo tutti i documenti illeggibili a meno di disporre di una password che ovviamente viene fornita dai criminali solo a seguito del pagamento di un riscatto, magari versato su un conto anonimo in bitcoin. Negli Stati Uniti si sono verificati casi di aziende e perfino di enti pubblici che hanno visto pagare riscatti rilevanti, a volte senza oltretutto ottenere nulla in cambio. Ulteriore attacco veicolato dalle e-mail è il cosiddetto phishing: si tratta di messaggi coi quali i truffatori chiedono di fornire le nostre credenziali informatiche facendoci credere che la casella di posta elettronica è piena o che un versamento in banca ha un problema. Purtroppo sulle migliaia di persone toccate, qualcuno che ci casca c’è sempre. Anche in questo caso l’obiettivo dei criminali è di impersonare la vittima, per esempio per cercare

di farsi versare denaro dai suoi conoscenti, fingendo di essere all’estero in gravi difficoltà». Quanto è importante investire nei servizi informatici aziendali? «La criminalità informatica è diventata una vera propria industria che può contare su informatici molto preparati e agguerriti e che è arrivata ad avere una divisione del lavoro, per cui ci sono organizzazioni specializzate che producono strumenti tecnologici per attaccare i nostri computer; altre che li acquistano per sfruttarli e altre che rivendono infine quanto è stato ottenuto truffando le vittime. È importante quindi che le aziende, per restare al passo con le minacce, investano in strumenti e specialisti in sicurezza, specialisti che non è facile trovare in questo momento di carenza di personale informatico. Non bisogna però assolutamente tralasciare di investire anche nella formazione sulla sicurezza del proprio personale». Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 febbraio 2020 • N. 09

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Società e Territorio

Il rischio dell’irrilevanza sociale

Prevenire la radicalizzazione

Ticino L’attività della Piattaforma cantonale

Architettura La mostra dei progetti del Premio SIA 2020 è l’occasione

per riflettere sulla condizione attuale dell’architettura ticinese

contro radicalizzazione ed estremismo violento

Alberto Caruso

Laura Di Corcia

Quale è la condizione attuale dell’architettura ticinese? Rappresenta ancora, a livello svizzero e internazionale, un’eccellenza? L’esito del Premio SIA 2020, attribuito lo scorso 7 febbraio, è l’occasione per qualche riflessione su questi interrogativi. Dei 54 progetti presentati al Premio, le case unifamiliari sono il 33%, contro il 25% dei progetti presentati all’edizione 2016, e il 44% di quelli del 2012. Non è certamente un campione scientifico – perché si tratta di autocandidature – ma è comunque un segnale di tendenza, che indica la difficoltà incontrata dalla cultura architettonica a modificare il modello di abitazione che ha avuto grande successo da diversi decenni, e che ha provocato il disordine e la diffusione che caratterizzano larghe parti dei fondovalle. I visitatori più attenti della mostra dei progetti (che rimane aperta presso l’Accademia di Mendrisio fino al 27 febbraio) hanno notato che il linguaggio di queste opere è molto eclettico e come questo fenomeno – del riferimento linguistico a culture architettoniche diverse ed anche lontane, rispetto alla tradizione moderna locale – aumenta di intensità con il passare degli anni. Favorito soprattutto dall’informazione planetaria via web, ed anche dalla formazione proposta dall’Accademia, aperta a docenti e studenti di tutto il mondo, l’eclettismo linguistico ha raggiunto una dimensione significativa e crescente. Non mi pare, tuttavia, che questo sia il tema più preoccupante della trasformazione in corso nella cultura architettonica. La diversità dei linguaggi, infatti, è stato un tratto caratteristico della modernità ticinese, sia nelle opere della prima generazione – quella di Tami, Ponti, Brivio, Jäggli, Camenzind – sia in quella successiva, che ha fatto conoscere il Ticino nel mondo. È per questo che non si può parlare di «scuola ticinese». Il moderno ticinese non è accomunato dal linguaggio, ma dalla semplicità, chiarezza e coerenza degli impianti, dal ricorso alla geometria elementare e all’economia espressiva, dalla ricerca ossessiva di relazioni dell’oggetto architettonico con il contesto. Osservando le piante di questi progetti, è doveroso confermare che esiste ancora una forma di «resistenza» dell’architettura ticinese rispetto alla tentazione – che a livello internazionale ha molto successo – di inseguire effetti spaziali spettacolari, rinunciando alla ricerca rigorosa della soluzione. Certamente l’eclettismo così avanzato delle forme spesso interrompe e rende confusa la rappresentazione diretta dei concetti, della motivazione razionale delle stesse forme, che rimane leggibile solo in filigrana. Mi pare che il tema principale sia un altro, sia la consapevolezza della mutata condizione territoriale nella quale gli architetti esercitano il mestiere. Apparentemente, sembra che sia in gioco l’«appartenenza» alla tradizione moderna, ed è vero che spesso, soprattutto nei progetti dei più giovani, l’adozione di forme immotivatamente trasgressive del linguaggio alimentano questo rischio. Ma in gioco c’è qualcosa di più importante: c’è il rischio della «irrilevanza» sociale del mestiere dell’architetto. Il territorio e le città sono state oggetto di tendenze insediative provocate non da una generica «globalizzazione» – una specie di destino inevitabile, che ha interessato in modi simili tutte le aree urbane europee – ma dalle politiche urbanistiche liberiste ispirate da precisi interessi fondiari, e dalla convinzione propagandata che costruire la propria casa dovunque sia un’afferma-

Che cosa fare se si scopre che il proprio figlio o la propria figlia hanno contatti con gruppi di giovani che guardano con favore ad ideologie estremiste e violente? O se l’allievo a scuola dichiara di essere d’accordo con l’ideologia dell’Isis? Da un anno a questa parte in Ticino sono attivi un portale online e un numero di telefono che si inseriscono in un Piano d’azione nazionale di contrasto alla radicalizzazione e all’estremismo violento. Il progetto è gestito da una Piattaforma cantonale di prevenzione voluta dai tre dipartimenti: Dipartimento istituzioni, Dipartimento educazione, cultura e sport, e Dipartimento della sanità e socialità, a conferma del carattere diffuso e trasversale del fenomeno. Lo scopo è proprio quello di raccogliere le segnalazioni che arrivano dalle famiglie e dalle associazioni, per intervenire prima che sia troppo tardi. Nel suo primo anno di attività in Ticino la piattaforma ha ricevuto 15 segnalazioni. Ne parliamo con la capoprogetto Michela Trisconi.

L. Snozzi, progetto di abitazioni a Brissago, 1972, redatto quando era membro della Commissione cantonale delle Bellezze Naturali come alternativa ad un progetto, poi realizzato, presentato da una società immobiliare. (da P. Disch, Luigi Snozzi, ADV Publishing House Lugano, 1994)

zione di libertà. Tant’è che fanno eccezione i paesi nordici, nei quali vige, in forme diverse, un regime pubblico dei suoli. In Ticino, una parte della politica sia cantonale che comunale (anche sollecitata dalle leggi federali dirette a ridurre il consumo di suolo) è consapevole del disastro economico e sociale provocato dal modello liberista – costo delle reti, costo dei trasporti, ecc. – e così pure diversi architetti e ingegneri e le loro associazioni professionali. È chiara la convinzione che solo un impegno straordinario da parte di tutti gli attori può raccogliere il consenso necessario a invertire la rotta. Bisogna inaugurare politiche finalizzate al ritorno in città delle famiglie emigrate nelle campagne, con politiche che favoriscano la costruzione di alloggi adeguati per tipologia e per costo alla domanda delle ultime generazioni, bisogna progettare episodi di densificazione nel territorio periurbano, bisogna progettare a grande scala costruendo luoghi dotati di forte urbanità, inventare morfologie ibride capaci di attrarre attività e innescare processi di rigenerazione, bisogna rompere i confini di competenza rispetto ai pianificatori. Senza un rinnovamento coraggioso della cultura architettonica, che riconosca e sostenga le politiche giuste, questo è impossibile. Ci vuole un nuovo protagonismo, un fiorire di proposte e progetti che svolgano una funzione didattica nei confronti della grande opinione pubblica. Ricordate i progetti che Luigi Snozzi negli anni 70 faceva per sostenere le sue battaglie nella commissione cantonale Bellezze Naturali? Gli architetti colti, quelli che partecipano ai concorsi, costruiscono le opere pubbliche e considerano una questione centrale del mestiere la critica alle tendenze insediative prevalenti, sono per lo più esclusi dai mandati conferiti dai gruppi immobiliari, per i quali lavorano altri architetti, che dedicano le loro capacità professionali alla soddisfazione acritica della domanda del mercato. In questa situazione, nonostante che le immagini delle cosiddette archistar riempiano i rotocalchi, il ruolo sociale degli architetti è andato progressivamente riducendosi. Le competenze degli architetti stanno scadendo da competenze tecniche e spaziali a competenze estetiche.

È una fase difficile, di disorientamento rispetto al valore civile del mestiere, mentre si registra anche un’eclisse della critica architettonica. E ciò avviene proprio quando è necessaria una mobilitazione generale delle energie progettuali. In questo scenario, l’esito del Premio SIA 2020 risulta debole. Dall’insieme dei riconoscimenti non appare una linea culturale univoca e, rispetto alle importanti sfide fin qui descritte, il contributo offerto dal Premio è inadeguato. Il premio principale è stato attribuito ad un architetto tra quelli che si battono con maggiore vigore per gli obiettivi fin qui descritti, ma la piccola opera premiata (la scuola dell’infanzia a Morbio Inferiore, di J. Könz), di grande valore per la ricerca tipologica e spaziale, non poteva per ragioni di scala essere un’occasione di riscatto territoriale. Solo tre dei progetti ai quali sono stati attribuiti dei riconoscimenti stabiliscono relazioni di rilievo con il contesto: il centro scolastico Nosedo a Massagno, di Durisch Nolli e Giraudi Radzuweit, che forma una densità centrale in un abitato che ne è privo; la casa torre d’angolo a Mendrisio, di Krausbeck con Santagostino e Margarido, che propone una tipologia decisamente urbana; la casa a Montecarasso, dei fratelli Guidotti, che risolve in modo esemplare un piccolo spazio di vicinato. Non sono state, invece, prese in considerazione altre opere come, ad esempio, la Masseria Cuntitt a Castel S. Pietro, di Quaglia, una vera prova di rigenerazione urbana o la casa anziani a Giornico, di Baserga e Mozzetti, che è un condensatore sociale, la tipologia più complessa del villaggio. La qualità in sé di un edificio deve passare in secondo piano, rispetto alla capacità di stabilire relazioni che provochino processi di trasformazione. Ed è anche necessario chiarire un equivoco: la sostenibilità energetica di un edificio non deve essere un merito da premiare, ma il requisito tecnico minimo per essere ammessi alla partecipazione ad un premio. Se si costruiscono mille piccoli edifici, tutti energeticamente perfetti e di grande qualità architettonica, ma dislocati in modo diffuso sul territorio, si provoca comunque un gigantesco spreco di energia, di risorse economiche e di suolo, non recuperabili per lungo tempo.

Signora Trisconi, in Ticino il tema della radicalizzazione giovanile è molto sentito? Esistono giovani che possono cadere in questa trappola?

In generale è il tema della violenza giovanile in senso lato ad essere molto sentito in Ticino. Ricordo a tale proposito che dal 2017 esiste una specifica «Strategia cantonale di prevenzione della violenza» che coinvolge i giovani fino ai 25 anni, nella quale si innesta anche il nostro progetto di prevenzione della radicalizzazione e degli estremismi. La specificità di quest’ultimo è che si inserisce in un Piano d’azione nazionale di contrasto di ogni forma di radicalizzazione e d’estremismo violento che coinvolge tutti i target di popolazione. Per quel che riguarda la presenza del fenomeno tra i giovani, per il Ticino esiste un’indagine riferita ai giovani studenti presso le scuole professionali e i licei, che conferma una generale inclinazione – rispetto al resto della Svizzera – ad aderire a ideologie estremiste. Come sono composti i gruppi di giovani radicalizzati? Sono spostati più a destra o a sinistra?

La ricerca evidenzia una leggera prevalenza presso i giovani ticinesi di atteggiamenti riconducibili all’estremismo di destra rispetto alla media nazionale. L’estremismo di sinistra, invece, registra tra i giovani ticinesi un’incidenza leggermente inferiore. Bisogna però dire che non disponiamo di analisi precise sulle ragioni di queste peculiarità ticinesi; certamente tra le possibili spiegazioni si può ipotizzare che la vicinanza con la frontiera e il fatto di essere un Cantone minoritario dal profilo identitario e linguistico giochino un ruolo importante in questo senso. Voglio anche aggiungere che le segnalazioni riguardano in special modo la casistica maschile.

Parliamo dunque del portale. Quando è nato? Che scopi si propone?

Il portale e la helpline sono rivolti a famiglie, insegnanti, enti e associazioni e in generale a tutti coloro che dovessero preoccuparsi per gli atteggiamenti strani e anomali di un ragazzo o una ragazza, riconducibili al fenomeno dell’estremismo. Attraverso il portale e la permanenza telefonica rispondiamo alla cittadinanza preoccupata dall’insorgere di un atteggiamento o ideologia politica o religiosa potenzialmente violenti. Inoltre la Piattaforma, grazie al suo assetto interdipartimentale e interdisciplinare, si avvale della competenza di professionisti in grado di valutare individualmente ogni caso. Infine, è importante sottolineare che si tratta di un dispositivo a carattere preventivo e pertanto ha come seconda missione quella di promuovere e sostenere dei progetti di prevenzione.

Ormai è più di un anno che il portale e la helpline sono aperti. Qual è la tipologia di segnalazione che ricevete?

Le chiamate sono di vario tipo. Sono segnalazioni dirette, fatte da privati, come la mamma preoccupata per il figlio o la ex moglie che ha problemi con l’ex marito. In altri casi sono le associazioni che chiamano, sollevando dei dubbi su alcuni contenuti pubblicati sui social. Una volta ricevuta la segnalazione si fanno vari tipi di valutazione: capire se il caso è già stato trattato da altri enti presenti sul territorio, per esempio i servizi sociali. A volte mi capita anche di interfacciarmi con colleghi più esperti di me in determinate questioni, per esempio quella dell’estremismo religioso. Quanto si impegnano la scuola e le altre istituzioni in questo senso?

Molto, mi preme però ricordare che il fenomeno della radicalizzazione e dell’estremismo non riguarda solo la scuola, ma la società in generale. La radicalizzazione violenta va quindi affrontata e contrastata su vari fronti. Genitori, fratelli, pari e insegnanti sono fondamentali. L’educazione non può impedire a una persona di commettere un’azione violenta in nome di un’ideologia estremista, ma la garanzia di un’educazione di buona qualità può aiutare a creare le condizioni che rendono più difficile la diffusione di queste ideologie. Il ruolo dell’educazione non è quindi tanto quello di intercettare estremisti violenti o identificare persone che potrebbero potenzialmente diventare violenti, quanto quello di creare le condizioni che permettano ai docenti e altre figure di riferimento di sviluppare una personale comprensione delle questioni più complesse, una capacità di dialogare in maniera rispettosa, di prevedere le reazioni, e una capacità di confutare e contrastare le narrative dell’estremismo violento. Per questo la Piattaforma cantonale di prevenzione e la Divisione della formazione professionale, in collaborazione con un gruppo di lavoro del DECS, hanno avviato un progetto pilota di prevenzione in quattro moduli presso il Centro Professionale Tecnico Lugano-Trevano (CPT). Essendo gli insegnanti a diretto contatto con i giovani, il loro ruolo nella prevenzione dell’estremismo violento è pertanto centrale, non tanto nell’agire come agenti di sorveglianza, quanto piuttosto come educatori. Informazioni

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 febbraio 2020 • N. 09

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Società e Territorio

Combattere l’abbandono scolastico

Formazione Un nuovo progetto del DECS vuole arrivare ad avere il 95% dei giovani con un diploma secondario,

oggi la percentuale è dell’88%. Inoltre il Dipartimento punta ad aumentare i posti di apprendistato

Stefania Hubmann Garantire un accompagnamento individuale ai giovani privi di formazione, in modo che non siano lasciati a loro stessi e ritrovino motivazione e possibilità di inserirsi nel mondo del lavoro. È questo lo scopo del progetto «Obiettivo 95%» promosso dal Dipartimento dell’educazione, della cultura e dello sport (DECS) in abbinamento a un aumento dei posti di apprendistato (progetto «Più duale»). La Divisione della formazione professionale, attraverso percorsi di formazione mirati e uno stretto partenariato con le aziende, intende attivarsi per riagganciare gli adolescenti di cui si perdono le tracce al termine della scuola media, stimati in circa 350 ogni anno. Sebbene percentualmente il tasso di abbandono scolastico non sia così elevato, i giovani senza diploma sono comunque troppi, anche in relazione ai dati del resto della Svizzera. Strumenti e servizi per agire già esistono. Si tratta con i due progetti quadriennali di migliorare la comunicazione, la collaborazione e il coordinamento degli attori che giocano un ruolo di primo piano in questo ambito. Altri Cantoni e diversi Paesi europei si muovono nella medesima direzione.

Gli adolescenti privi di un’occupazione scolastica o professionale devono essere seguiti individualmente Il titolo del progetto, che prevede una modifica della Legge della scuola introducendo l’obbligo formativo (e non scolastico) fino ai 18 anni, si riferisce alla quota di venticinquenni con un diploma secondario II (post scuola dell’obbligo). Dall’attuale 88% si desidera arrivare al 95%, in sintonia con quanto perseguito dalla Conferenza svizzera dei direttori cantonali della pubblica educazione e dalla Confedrazione. La media svizzera, sempre secondo le cifre del 2017, è del 91% e il Ticino si situa al quart’ultimo posto. Fin qui i dati e il quadro istituzionale. «In concreto – spiega il direttore della Divisione della formazione professionale Paolo Colombo – stiamo organizzando un progetto pilota pronto a partire non appena l’iter legislativo lo permetterà. Da parte delle aziende riscontriamo grande sensibi-

Il progetto «Più duale» mira a una maggiore offerta di posti di tirocinio. (Ti-Press)

lità e disponibilità. Tutti i partner del progetto sono consapevoli dell’importanza di questo tipo di approccio verso i giovani senza qualificazione. Rispetto alle misure oggi a disposizione, desideriamo essere proattivi ed anticipare i tempi, in modo da offrire un percorso formativo e un accompagnamento di lunga durata agli adolescenti privi di un’occupazione scolastica o professionale. Essendo i loro profili eterogenei, per ottenere un risultato occorre seguirli individualmente». Il progetto pilota, per il quale è previsto l’inserimento progressivo di tre operatori, si concentrerà dapprima sui giovani adulti fra i 18 e i 25 anni al beneficio dell’assistenza. Sarà poi progressivamente esteso a partire dai 16 anni e a coloro che, pur essendo usciti dal sistema formativo, non ricevono prestazioni di sostegno sociale. Per individuare questi giovani, che oggi sfuggono ai rilevamenti statistici, sarà completata e aggiornata la banca dati GAGI (Gestione Allievi e Gestione Istituti) del DECS. «Una parte di loro ha probabilmente già beneficiato senza successo dei servizi ordinari», precisa Oscar Gonzalez, aggiunto al direttore della Divisione della formazione professionale. «Con “Obiettivo 95%” intendiamo capovolgere le modalità di contatto, andando verso i diretti interessati e le loro famiglie, per migliorare le chance di successo. La Città dei mestieri, inau-

gurata lo scorso gennaio a Bellinzona, è l’emblema di questa nuova attitudine proattiva e contribuirà con azioni mirate ad attirare anche questa fascia di giovani». Gli adolescenti che abbandonano gli studi prima di conseguire un diploma sono definiti «drop-out», fenomeno che rischia di comportare ulteriori difficoltà, in particolare nel trovare un posto di lavoro e nel costruire un progetto di vita, con conseguente aumento dei costi sociali. Per chi si è disaffezionato alla scuola, si tratta di trovare modelli alternativi per riuscire a portare a termine un percorso formativo. «Tutti i giovani hanno delle potenzialità, ma alcuni faticano ad esserne consapevoli. Con loro bisogna dapprima lavorare sulla motivazione e solo in un secondo tempo cercare di riattivare le competenze necessarie per affrontare una formazione». Questa la visione di Sara Grignola, collaboratrice scientifica della direzione della Divisione della formazione professionale, che aggiunge: «In una situazione di “drop-out” può ritrovarsi anche un liceale che decide di abbandonare la scuola al termine del secondo o del terzo anno. Sovente in questi casi pure i genitori sono disorientati e non sanno a chi rivolgersi». In effetti le offerte formative sono ampie e diversificate e i nostri interlocutori sono consapevoli che non è sempre facile districarsi fra queste opportunità.

Il partenariato con il settore economico – comprendente aziende, associazioni di categoria e sindacati – è essenziale per portare a buon fine i progetti «Obiettivo 95%» e «Più duale». Quest’ultimo sull’arco di quattro anni mira ad aumentare di 600-800 il numero di posti di apprendistato nelle aziende, oggi pari a circa 6200. Spiega al riguardo Oscar Gonzalez: «Intendiamo rivolgerci a tutte le tipologie di aziende per ascoltare e capire le loro necessità, così come le difficoltà che incontrano nella formazione degli apprendisti». «Formare i giovani rappresenta un impegno – gli fa eco il direttore Colombo – per cui è necessario sostenere le aziende quando non riescono ad assumere questo ruolo, ad esempio anche solo perché altamente specializzate e quindi prive di tutte le fasi formative richieste da un apprendistato. In questo caso bisogna favorire la collaborazione fra le imprese, assicurandone il coordinamento. Un altro aspetto importante concerne la reputazione della formazione professionale. La cultura dell’apprendistato in Ticino va rafforzata, migliorando la comunicazione sulle opportunità offerte da questa opzione». Opzione che parte dalla formazione professionale biennale, sovente ritenuta di minore qualità essendo incentrata su mansioni pratiche, ma che in realtà non preclude il proseguimento della formazione.

A questo livello, preceduto verosimilmente da stage di lavoro in azienda, il progetto «Obiettivo 95%» intende portare, grazie ad un percorso individualizzato, anche i giovani con le maggiori difficoltà di formazione, in gran parte riconducibili a disagi familiari e fenomeni migratori. Il progetto ticinese ha preso ad esempio quanto promosso dal Canton Ginevra, che con la quota dell’86% di venticinquenni in possesso di una certificazione di grado secondario II si situa al terzultimo posto a livello dei Cantoni svizzeri. Paolo Colombo: «Analizzando il caso di Ginevra, abbiamo constatato di avere già a disposizione quasi tutte le misure ordinarie introdotte nel Cantone romando, soprattutto a livello scolastico. Abbiamo quindi deciso di rafforzare e coordinare tali servizi, in particolare a livello di collaborazione interistituzionale, puntando a migliorare le misure destinate alle aziende. Sono loro il nostro focus per riuscire a riportare i giovani dapprima nel contesto di un’occupazione professionale e in seguito in un iter formativo. Il progetto ticinese – che ha pure tenuto in considerazione quanto messo in atto in Spagna ed Inghilterra dove il problema è più acuto – amplia inoltre la fascia età considerata a Ginevra (16-18) arrivando fino ai 25 anni». Il settore della formazione professionale è molto dinamico, conclude il direttore Paolo Colombo. «A livello nazionale lavoriamo al progetto “Formazione professionale 2030” per essere pronti a raccogliere le sfide che si presenteranno in relazione ai trend internazionali quali la digitalizzazione, i fenomeni demografici e migratori, i conflitti generazionali. Flessibilità e individualizzazione sono le caratteristiche della formazione del futuro, i cui percorsi finora aggiornati ogni 5 anni, saranno con ogni probabilità rivisti ancora più celermente». In questo contesto di stretta collaborazione con il mondo del lavoro il sistema formativo guarda al domani offrendo quanto richiesto da un mercato sempre più competitivo ed esigente senza però dimenticare i più deboli. Ecco perché per i prossimi quattro anni si promuoveranno due progetti, contro l’abbandono scolastico da un lato e per una maggiore offerta di posti di tirocinio dall’altro. Informazioni

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Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Elisa Mazzoli, Torna a casa, verme!, Edizioni San Paolo. Da 7 anni Bello avere un animale da compagnia. C’è chi ha il cane, chi il gatto, e c’è chi, come Lorenzo, ha... un verme. Sì, un verme di terra, «cioè un lombrico di quelli che trovi quando scavi [...], un vero verme di quelli che all’inizio non capisci dove abbiano il davanti e dove il didietro». Lorenzo lo ha trovato nel cortile della scuola, mentre scavava un buco nella terra, perché era arrabbiato con i compagni che non lo consideravano. Lo chiama Jules (Jules Verme, quasi come l’autore di un libro che ha letto) e da quel momento Jules diventa il suo amico del cuore, un amico con cui affrontare i problemi del quotidiano (ad esempio l’assenza dei genitori un po’ troppo impegnati nel lavoro), alleggerire le paure, sentirsi più calmi. Perché Jules, dice Lorenzo, «ha la calma, la forza e la resistenza che vorrei avere io», e con lui al fianco (o meglio nascosto nella tasca dello zaino, sulla

mano, o nella scatola dei Lego) «tutto fila liscio, sì, come lui». Per accudirlo, Lorenzo si documenta andando in biblioteca a leggere libri sui lombrichi (dove tra l’altro scopre che il loro passaggio rende più fertile l’erba: «è un animale gentile, il mio Jules. Migliora tutto ciò che incontra. Sta migliorando anche me») e si appassiona tantissimo. Chissà perché, si chiede, i signori che inventano gli album di figurine non ne hanno dedicata neanche una al lombrico. «Per fortuna il mio verme non è permaloso e ha già trovato la sua pagina preferita dell’album, quella dove ci sono le talpe e le volpi con le

loro tane sotterranee. Si rotola sulla carta marroncina...» Come si intuisce anche da questi pochi estratti, la scrittura di Elisa Mazzoli è umoristica, brillante, e ogni osservazione di Lorenzo (che narra in prima persona la storia) è davvero in una prospettiva bambina. L’avventura di Lorenzo e Jules (e degli amici che stanno loro attorno) dura il tempo di crescere un pochino insieme, di imparare a gestire meglio la vita, di scoprire nuovi interessi. Il tutto inframmezzato dal tormentone esilarante delle sparizioni di Jules, verme fortissimo e resistente, che torna sempre e non cede mai. Poi è bello anche lasciarli andare, gli amici. Ma la forza che ti hanno insegnato ad avere, quella rimane. Francesca Pirrone, Il piccolo libro della gentilezza, Clavis. Da 3 anni Questo piccolo libro parla di gentilezza, e lo fa non limitandosi a dire quanto sia bello e facile essere gentili, ma lo fa

narrando, per ogni atto di gentilezza, una piccola storia. L’atto di gentilezza, racchiuso ogni volta in un verbo, è detto con le parole (dire grazie, regalare un sorriso, saper aspettare, prendersi cura, condividere, ecc.), mentre la piccola storia è raccontata solo con le immagini, e sarà bello per il bambino ricostruirla e raccontarla a sua volta, insieme all’adulto che gli è accanto nella lettura. Ad esempio, per l’azione «dare calore», le immagini raccontano di Maialino (il protagonista è sempre lui) che vede un uccellino mezzo assiderato e gli costruisce una casetta; per «proteggere», Maialino vede un fiore che rischia

di venire schiacciato giocando a palla, e allora gli mette attorno una rete protettiva per piante; per «fare a turno», il gioco dell’altalena è più divertente se, anziché litigare per chi occupa il seggiolino, si fa, appunto a turno, e uno spinge l’altro. Il libro racconta queste e altre situazioni familiari al bambino, che potrà identificarsi con Maialino e vedere ogni volta come la gentilezza renda un po’ più bello il mondo. Anche perché essere gentili è fare un dono prezioso a se stessi e agli altri, che saranno poi anche loro gentili, tant’è vero che Maialino avrà tanti nuovi amici. Questi piccoli episodi di gentilezza sono basati su un prima e su un dopo più consequenziale che causale (se ti prendi cura della piantina, diventerà una bella pianta grande), e sono perfetti esempi di protostorie che anche i bambini più piccoli potranno decodificare e interiorizzare, grazie all’espressività e alla dolcezza del tratto dell’artista toscana (autrice, pittrice, illustratrice) Francesca Pirrone.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 febbraio 2020 • N. 09

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Società e Territorio Rubriche

L’altropologo di Cesare Poppi Il torrente del Coniglio che danza Il 24 febbraio 1831 segna una data di non ritorno per quelle che oggi conosciamo come First Nations del continente nordamericano. Entrava infatti in vigore il primo dei trattati con una tribù indiana che le consentiva di mantenere una qualche forma di autonomia governativa ed economica in cambio di un riposizionamento geografico fuori dalle terre native – in altre parole in cambio della riduzione all’interno di una Riserva. L’etnia interessata era quella dei Choctaw che occupava un territorio di 45’000 chilometri quadrati che tagliavano a metà come una larga fascia quello che è oggi lo Stato del Mississippi. Il trattato aveva una storia abbastanza recente. L’Indian Removal Act era stato infatti firmato dal Presidente Andrew Jackson il 24 maggio 1830 e forniva all’amministrazione americana lo strumento per mettere a disposizione di una industria agricola affamata di terre vasti territori fino

ad allora occupati dagli indiani. I Choctaw, da parte loro, erano annoverati fra le Cinque Tribù Civilizzate. Si chiamavano così i gruppi di nativi americani che più di altri si erano dimostrati aperti all’assimilazione da parte dei bianchi colonizzatori. Per una di quelle crudeli ironie della storia – paradossi che spesso ne vanificano una lettura in bianco e nero a favore di una lettura semplicemente tragica – vi erano tra i bianchi in buona fede e gli stessi Choctaw – chiamiamoli «nazionalisti» – coloro che pensavano, e forse a ragione, che la perdita delle terre degli antenati e la migrazione verso la Riserva di 61’000 chilometri quadrati di quello che è oggi l’Oklahoma fosse l’unico mezzo per non venire completamente assimilati. In prima battuta la firma del trattato avrebbe dovuto avvenire alla presenza dello stesso Jackson a Franklin, Tennessee, il 25 agosto 1830. Il meeting fu cancellato all’ultimo momento dai

capi Choctaw che continuavano a non essere persuasi della bontà dell’operazione. Le posizioni erano però non del tutto compatte, e Jackson vide nel possibilismo del Capo Greenwood LeFlore una chance di venire a capo della complicata matassa. Alla fine i Choctaw si accontentarono della vittoria nominale di avere il meeting all’interno del loro territorio, lungo il fiume del Coniglio Danzante. L’atmosfera dell’incontro per la firma del trattato il 24 febbraio 1831 fu descritta dai giornalisti presenti come «simile a quella di un Carnevale». Di fronte a 6000 Choctaw, rappresentati dai Capi Musholatubbee, Nittucachee e Greenwood LeFlore, ai sottocapi tribali e ad un’autorevole rappresentanza di sette donne anziane, i Commissari del Presidente spiegarono i termini del Trattato. Fra questi, uno in particolare fungeva da boccone avvelenato, bastone e carota, arma a doppio taglio – e quant’altro. L’Articolo XIV, infatti,

stipulava che chiunque volesse poteva optare di restare nelle terre natie a patto di sottomettersi in tutto e per tutto alle leggi americane. A costoro venivano assegnate terre in proprietà perpetua, porzioni aggiuntive qualora avessero figli ed una piccola rendita annuale. Per di più, coloro che così optavano, non avrebbero perso la cittadinanza nella Nazione Choctaw – ma avrebbero perso tutti i vantaggi della cittadinanza americana nonché l’annualità qualora decidessero di andarsene in Riserva. Per un popolo ridotto in miseria i termini erano allettanti, eppure la stragrande maggioranza dei Choctaw – parecchie decine di migliaia – scelsero di intraprendere la marcia di 800 chilometri verso l’Oklahoma che costò la vita ad un numero mai conosciuto di vecchi, donne e bambini. La storia dei Choctaw è solo la prima di una serie di analoghe rimozioni più o meno forzate, più o meno sangui-

nose e più o meno conosciute che finirono per coinvolgere i Cherokee, i Cheyenne, i Chikasaw, i Seminole, i Creek… e tanti altri. Il sogno era di far rivivere le antiche tradizioni e gli antichi sistemi di governo nelle nuove terre, ma purtroppo jus solis e jus sanguinis sono – almeno in questo caso – misteriosamente collegati fra loro. Ed il sogno rimase tale. La storia futura sarà, invece ed in gran parte, la storia triste dei conflitti interni alla Nazione fra chi aveva accettato di partire e chi invece aveva deciso di restare. La lotta per il riconoscimento dei diritti individuali garantiti col contagocce dalle legislazioni contemporanee ai discendenti delle First Nations passerà infatti per le dispute legali su chi sia – o meno – un «indiano vero» o uno vendutosi ai Visi Pallidi, su chi abbia diritto a una qualche forma di compensazione e chi invece vi abbia rinunciato ab antiquo, ma tant’è: anche la Storia finisce in tribunale.

le che deriva da un’ombra che cala sulla considerazione che abbiamo di noi. Il signor Edoardo suggerisce sinonimi meno impegnativi quali imbarazzo, disagio, sensazione di essere ridicoli, stati d’animo che tutti abbiamo provato ma che divengono vergogna soltanto quando feriscono l’autostima, la considerazione che ciascuno ha di sé. La vergogna, come racconto nel mio libro, può essere suscitata anche da complimenti sul nostro modo di essere e di fare che non rispondono alla realtà ma cercano, in modo maldestro, di compensare evidenti carenze. Pensiamo a espressioni quali «sei elegantissima», quando indossiamo un abito inadeguato oppure «tutto sommato t’è andata bene» di fronte a una sconfitta. Inoltre, come scrive il signor Edoardo, la vergogna può suscitare sentimenti di rivalsa, la voglia di far subire a chi ci ha ferito un’analoga sofferenza. La differenza con altre reazioni, è che la vergogna acuta, quando s’insinua

nell’animo, costituisce una macchia indelebile che nessun correttore riesce a cancellare. Non a caso, in caso di gravi conflitti, la propaganda cerca, piuttosto che denunciare le colpe del nemico, di colpire la sua più profonda identità con ingiurie quali: «cane infedele», «bestia immonda». Paradossalmente le vittime innocenti d’indicibili sofferenze, come quelle provocate dalle torture, quando le rievocano confessano di vergognarsi. Suppongo che uno stato d’animo così ingiusto derivi dalla sensazioni di essere usciti, in quei frangenti, dai confini dell’umanità, di essere precipitati nel baratro del nulla. Eppure la consapevolezza che nella nostra biografia permangono sentimenti di vergogna anche per peccati veniali e piccole carenze può essere un motivo di saggezza. Innanzitutto perché rivela che la verità e la giustizia sono esigenze innate e che vi è in noi un tribunale morale che contrasta ogni indebita

amnistia. Siamo fatti dei nostri meriti ma anche dei nostri demeriti, compresi quelli che non dipendono da noi ma dalle circostanze. Ammetterlo ci aiuta a comprendere gli altri e a perdonare, senza dimenticare, le sofferenze che possono averci inflitto. La fratellanza non è un sentimento innato. Basta osservare le tensioni che sorgono tra bambini piccoli quando giocano insieme, come si offendono facilmente, per comprendere che si tratta piuttosto di una conquista. L’indulgenza nasce dalla conoscenza di sé, dalla consapevolezza che l’Io è composto di luci e di ombre e che soltanto riconoscendo il nostro chiaro-scuro potremo accettare quello degli altri.

chimica, conferiti a nostri concittadini. A volte, invece, il termine è sprecato, imposto da una moda che ne ha alterato e appiattito sostanza e valore. «L’eccellenza è mediocre»: s’intitolava, con un ossimoro già rivelatore, il commento, apparso sul «Foglio», nel giugno 2015, e dedicato a questo «ossessivo tic culturale». L’autore, Raffaele De Mucci, politologo, raccontava la storia dell’uso indiscriminato e fuorviante di «eccellenza», che, in Italia (in Ticino nell’ambito ecclesiastico), fino alla metà dello scorso secolo, era un titolo onorifico destinato a prelati, ambasciatori, alti funzionari. In auge durante il fascismo, con l’avvento della democrazia, la stagione delle «sue eccellenze» sembrava conclusa. Invece, complice un frainteso spirito democratico, si banalizzò diventando il contrassegno di una notorietà, comunque acquisita, al di là di qualsiasi merito: «Un modo d’apparire e non più di essere», per dirla con il linguista Sebastiano Vassalli.

In realtà, la democratizzazione dell’eccellenza, distribuita generosamente a scrittori, artisti, filosofi, compositori, scopritori, architetti, inventori, calciatori, arbitri e magari balordi pittoreschi, ecc. non coincide con una spontanea fioritura di talenti. Se le eccellenze sono tante è, piuttosto, perché di eccellenze si ha bisogno. Sono diventate l’emblema dei nuovi nazionalismi, fenomeno di dimensioni mondiali, che ci concerne tutti quanti, cittadini di democrazie, vecchie e nuove, oggi in fase di disincanto. E qui una precisazione è d’obbligo. Un conto è il patriottismo, che esprime l’appartenenza a un luogo e a una collettività, dove si condividono tradizioni, abitudini, linguaggi: un legame amichevole, insomma positivo. Un conto, il nazionalismo, che accentua l’isolamento nel proprio guscio, per distanziarsi dagli estranei, instaurando un rapporto di superiorità a nostro favore. E, in proposito,

l’eccellenza si sta rivelando un utile strumento, nell’attuale «società della prestazione» (Zygmunt Bauman dixit). Si assiste, così, a un’incessante corsa al primato, in ogni campo, dove ogni nazione si mette in gioco sfoggiando le più svariate eccellenze. Più che mai gettonato il settore gastronomico, dove l’attributo eccellente può aprire alla pizza la consacrazione a bene protetto dall’UNESCO. Un titolo a cui aspira, fra altri, anche la nostra «fondue», e, oltre confine, il parmigiano, o grana, che sfida la concorrenza dello «sbrinz». Ma la competizione concerne sfere d’attività ben più commesse: esempio di acuta attualità, la sanità. Fiore all’occhiello, esibito appunto come eccellenza, per le progredite democrazie europee, che, dall’Italia alla Germania, ai Paesi Scandinavi, proclamano la propria eccellenza. Lo fa anche la Svizzera, un po’ in sordina, consapevole dei costi di una supremazia scientifica, ma non sociale.

La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi La vergogna, un sentimento indelebile Premessa: La lettera del signor Edoardo si riferisce a un episodio narrato nel mio libro autobiografico Una bambina senza stella (Rizzoli) Cara signora Vegetti Finzi, le volevo solo dire che la sua frase «La vergogna, non la colpa, è un sentimento indelebile» già da sola, vale, per me, il prezzo del libro (modo di dire, perché il libro l’ho preso in prestito alla biblioteca). Mi ha chiarito un quadro che avevo in testa, ma che non vedevo distintamente. La sua frase (e le successive, a pag. 212) era proprio quello che mi mancava per completare il puzzle. Mi chiarisce infatti certe affermazioni di scrittori che sono stati nei lager o che sono stati torturati (ad esempio nelle carceri algerine dai Francesi o dai loro alleati indigeni). Per quanto mi concerne, il sostantivo vergogna può essere sostituito anche dai suoi sinonimi: imbarazzo, disagio, sensazione di essere ridicoli, ecc. Visto che la Stanza del dialogo tratta solitamente di problemi famigliari,

aggiungo una situazione durante la quale mi sono sentito in imbarazzo e che talvolta mi tormenta ancora oggi, dopo più di un mese. (Per proteggere la privacy, come mi è stato raccomandato, non riporto qui l’episodio limitandomi a specificare che riguarda un rimprovero della moglie circa la spesa di un franco che poteva essere evitata). Ciò, continua il lettore, ha però avuto come conseguenza che talvolta ci ripensi e che alla prossima occasione i pensieri negativi che nel frattempo si accumulano, possano causare una risposta un po’ sopra le righe (tipo «non rompere i ... per un franchetto»). Mi complimento ancora per il suo libro e pure per la sua rubrica. Con i migliori saluti. / Edoardo Pubblico questa lettera, molto personale, perché riguarda un sentimento poco considerato: la vergogna. Non penso a quella che si riferisce a grandi colpe, spesso rimossa e negata, quanto a quel-

Informazioni

Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch

Mode e modi di Luciana Caglio Se va di moda l’eccellenza Il 6 febbraio scorso, sulla tratta Milano-Bologna, all’altezza di Lodi, un modernissimo treno ad alta velocità è deragliato, provocando la morte dei due macchinisti e una trentina di feriti. Un incidente che, per carità, può succedere e che, proprio in Italia, non sorprende più di tanto. Quel che, però, ha sorpreso è la parola eccellen-

Fondue, eccellenza svizzera.

za, applicata alle Ferrovie dello Stato, in una situazione, il men che si dica, inappropriata. Fra le specialità, vanto del «made in Italy», mondialmente apprezzate, sembra azzardato includere i trasporti pubblici. Sia chiaro, a scanso di equivoci, lo sfoggio delle proprie migliori prestazioni non è una prerogativa della Penisola. Anche, da noi, sempre in ambito ferroviario, l’invidiabile primato, in fatto di puntualità e confort, venne sbandierato per decenni, come simbolo del perfezionismo elvetico, nell’era del «viaggio in treno, viaggio sereno». Slogan, mi si conceda la deriva sentimentale, inventato da mio padre, e ormai improponibile. Con ciò la Svizzera doveva trovarsi altri settori e personalità, in grado di esprimere i vertici della genialità nazionale: università, centri di ricerca quali il CERN, alta tecnologia, e via enumerando prestazioni definite, appunto, eccellenze. A volte, lo sono effettivamente, si pensi ai numerosi Nobel per le scienze e la


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 febbraio 2020 • N. 09

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Ambiente e Benessere Il gelo permanente In Svizzera si studia il permafrost da oltre quarant’anni: ecco come

Una Cinquecento metà ibrida Quando la Fiat più famosa viene equipaggiata con la nuova tecnologia mild hybrid a benzina, tutti ne parlano e tutti la vogliono provare

Giganti dal cuore tenero Schiedam e i suoi mulini a vento mantengono viva anche l’antica gloria del gin pagina 19

L’anno del Topo Mentre in Cina quest’anno lo festeggiano, da noi c’è chi, il roditore, lo coccola

pagina 18

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2020: anno fitosanitario

Biodiversità Curare la salute delle piante per

contribuire a eliminare la fame, ridurre la povertà, proteggere l’ambiente e promuovere lo sviluppo economico

Marco Martucci Popillia japonica, il coleottero giapponese, somiglia a un maggiolino, solo un po’ più piccolo e con dodici caratteristici ciuffetti di peli bianchi, cinque per lato e due caudali. Visto così, può anche sembrare grazioso. In realtà è un vorace divoratore di piante: la larva si nutre di radici e l’adulto mangia foglie. Non è di gusti difficili. Attacca oltre cento specie diverse di piante, selvatiche e coltivate fra cui molte di grande interesse agricolo come la vite, la fragola, il pomodoro, il nocciolo e il pesco. La larva è in grado di distruggere prati interi. Ci sono dunque ottime ragioni per temerlo e per contenerne l’espansione: Popillia è stata segnalata in Lombardia e Piemonte, e ha già raggiunto il sud del nostro Cantone. Anche per altri organismi nocivi siamo un accesso privilegiato al resto della Svizzera. Il problema è comunque mondiale e, con la globalizzazione e l’aumento dei traffici, un’immensa quantità e varietà d’insetti, funghi, batteri e virus si spostano da un capo all’altro della Terra minacciando ogni sorta di vegetale. Per questo, l’ONU ha dichiarato il 2020 Anno internazionale della salute delle piante, International Year of Plant Health IYPH, affidandosi alla FAO, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura e all’IPPC, la Convenzione internazionale per la protezione delle piante, un trattato fitosanitario sottoscritto da oltre 180 nazioni fra cui la Svizzera. Con il motto «proteggere le piante – proteggere la vita», l’Anno internazionale della salute delle piante vuole sensibilizzare a livello mondiale su come la cura della salute delle piante possa contribuire a eliminare la fame, ridurre la povertà, proteggere l’ambiente e promuovere lo sviluppo economico. Le piante contribuiscono alla biodiversità, possono proteggere dai pericoli naturali, forniscono l’ossigeno dell’aria che respiriamo, producono gran parte del cibo che nutre noi e gli altri animali. Purtroppo, la salute delle piante non gode sempre dell’attenzione che merita e la FAO stima che, a causa di parassiti e malattie, ogni anno nel mondo vada perso fino al 40 per cento dei raccolti, lasciando milioni di persone senza cibo sufficiente e danneggian-

do gravemente l’agricoltura, prima fonte di reddito di molte comunità rurali povere. La salute delle piante è sempre più minacciata dalla perdita generale di biodiversità che lascia spazio allo sviluppo di nocivi e malattie, dal cambiamento climatico e dall’espansione degli spostamenti e degli scambi internazionali, triplicati nell’ultimo decennio. La cura delle malattie delle piante e l’eliminazione dei parassiti è un tema costante in agricoltura. È ormai risaputo che l’uso di certi prodotti fitosanitari, impropriamente chiamati «pesticidi», può essere efficace ma l’effetto, per rapido che sia, non dura a lungo e può rivelarsi molto nocivo per l’ambiente e anche per la nostra salute. Vi sono metodi più in sintonia con la natura, come la lotta biologica o integrata ma la prevenzione rimane essenziale e ognuno di noi vi può contribuire. Ecco a questo proposito alcune raccomandazioni della FAO: prudenza nel varcare le frontiere con piante e prodotti vegetali assicurandosi che rispettino le norme fitosanitarie; curare le piante con metodi rispettosi dell’ambiente; monitorare la presenza di parassiti e malattie; sostenere la ricerca scientifica anche verso piante più resistenti. Le piante, come noi, si ammalano e muoiono. Le cause sono tante e diverse. Possono essere legate al loro ambiente di vita, come eccesso o scarsità d’acqua o di luce, siccità, troppo freddo o troppo caldo, carenza di certi elementi nutritivi nel suolo: malattie fisiologiche. Le altre sono malattie parassitarie, dovute a organismi come insetti, vermi, funghi, batteri o virus. Chiunque abbia almeno una piantina d’appartamento o un balcone, un orto o un giardino si sarà reso conto di come non sia sempre facile mantenere sana una pianta. Una volta le foglie ingialliscono, un’altra volta sono gli afidi, un’altra ancora sarà un bruco. Immaginiamoci allora quando ad ammalarsi non è una piantina del nostro orto ma gli alberi di un’intera foresta che ci protegge dalle frane oppure un frutteto, un campo di patate o di mais: raccolti distrutti, frutta invendibile, perdita di guadagno, carestie. Nessuna pianta e nessun luogo sulla Terra è veramente al riparo. Ecco qualche esempio per il nostro Paese. Un virus è la causa della bronzatura del pomodoro: le foglie si macchiano e si

Popillia japonica su vite. (© Servizio fitosanitario cantonale)

accartocciano, la crescita può arrestarsi e i pomodori, se maturano, sono macchiati di giallo e diventano invendibili. Il carbone delle infiorescenze del mais è provocato, come il più noto carbone comune, da un fungo. Le pannocchie diventano molli e a forma di pera: la pianta è persa. La flavescenza dorata della vite è provocata da un fitoplasma, organismo simile ai batteri e trasmesso da insetti. Fra i sintomi e le conseguenze di questa grave malattia della vite, l’arrossamento o ingiallimento delle foglie, l’appassimento dei grappoli e la perdita degli acini. Presente in Svizzera soltanto dal 2011, la drosofila del ciliegio, Drosophila suzukii, è un moscerino che predilige, danneggiandoli, frutti maturi di ciliegio, mirtillo, lampone e anche l’uva. Halyomorpha halys è la fin troppo nota «cimice marmorizzata» o «cimice asiatica», che colpisce oltre cento piante, fra cui mais, soia, alberi da frutta e ortaggi.

L’Anno internazionale della salute delle piante vedrà in tutto il mondo eventi e manifestazioni e ognuno è invitato a contribuire e a partecipare. Per la Svizzera, competente per la salute delle piante e organizzatore nazionale dell’Anno internazionale, è il Servizio fitosanitario federale SFF, gestito dall’Ufficio federale dell’agricoltura e dall’Ufficio federale dell’ambiente. Nel Cantone Ticino il controllo della salute delle piante è compito del Servizio fitosanitario cantonale. Dal 1° gennaio 2020 è in vigore una nuova ordinanza che regola importazione ed esportazione di piante e loro parti e contempla un passaporto fitosanitario con l’Unione europea. Inoltre, è vietato importare vegetali, frutta e verdura, fiori recisi e sementi da Paesi al di fuori dell’UE, dalle Isole Canarie, Ceuta, Melilla e dai territori d’oltremare francesi, ad eccezione per esempio di ananas e banane e di vegetali vivi e

loro parti muniti di un certificato fitosanitario. In Svizzera, l’Anno internazionale sarà l’occasione per far conoscere la salute delle piante, attraverso comunicati, manifestazioni ed eventi e anche la nostra Posta sarà presente con l’emissione di un francobollo speciale. Come sottolinea il SFF, ognuno di noi può fare molto per la salute delle piante: dall’agricoltore al selvicoltore, a chi è attivo nel commercio e nella produzione, fino al privato con il suo orto o giardino, può dare un importante contributo riconoscendo in tempo parassiti e malattie, segnalandoli e attivando tempestivamente misure adeguate. Ne approfitteranno le piante, la nostra alimentazione, la salute e l’ambiente. Informazioni

www.fao.org/plant-health-2020 www.ti.ch/fitosanitario


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Ambiente e Benessere

Quando il suolo si scalda

Glaciologia Studi in relazione al permafrost, lo strato superficiale del terreno di montagna perennemente gelato

Elia Stampanoni Fra un mese arriva ufficialmente la primavera (anche se certe temperature pare l’anticipino di anno in anno), momento in cui la neve e il ghiaccio fondono. Un processo naturale che sta però interessando sempre più anche zone e regioni dove questi elementi resistevano qualche settimana o mese in più, o dove addirittura questo non accadeva. Un fenomeno legato ai cambiamenti climatici e che concerne anche i terreni in cui il suolo è perennemente gelato, il permafrost o anche permagelo. Il termine deriva dall’inglese perma(nent), permanente, e frost, gelato, ed è presente soprattutto nelle regioni artiche, in prossimità dei poli, ma anche in alta montagna a partire da quote che variano molto a seconda dell’esposizione. Nella definizione non è presente il termine «ghiaccio» poiché, come ci spiega il geografo Cristian Scapozza, ricercatore SUPSI, la Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana «il permafrost si può riscaldare o degradare, ma non fondere, al contrario del ghiaccio in esso contenuto che invece effettivamente passa dallo stato solido a liquido».

Ticino: dalle ultime misurazioni emerge un notevole aumento delle temperature della superficie del suolo negli ultimi due anni In Svizzera, indicano i dati pubblicati dall’Istituto per lo studio della neve e delle valanghe SLF di Davos, il permagelo è presente su circa il cinque per cento del territorio, tipicamente nei detriti rocciosi situati ad altitudini elevate e nelle pareti rocciose al di sopra dei 2500 metri circa. «Anche se il permafrost non è visibile direttamente – spiega Jeannette Nötzli dell’SLF – esistono particolari forme di terreno che segnalano la sua presenza, come per esempio il ghiacciaio roccioso, ossia un ammasso di detriti di roccia e ghiaccio, non visibile in superficie, che fluisce verso valle a causa della deformazione del ghiaccio in esso contenuto». In Svizzera si studia il permagelo da oltre quarant’anni e nelle Alpi svizzere, in oltre venti luoghi, sono stati trivellati dei fori per il posizionamento di strumenti atti a rilevare la temperatura e studiare il sovrastante manto nevoso. «Le misurazioni vengono trasmesse tramite una rete mobile o memorizzati e poi raccolti durante le regolari visite sul campo», precisa Jeannette Nötzli attiva nel gruppo di lavoro sul permafrost del SLF e coordinatrice di PERMOS, la rete d’osservazione svizzera che è responsabile del monitoraggio del permafrost sul territorio elvetico. I dati ottenuti forniscono tuttora importanti informazioni sullo stato di questi terreni che, pur non rappresentando un pericolo naturale, riscaldandosi possono destabilizzarsi, innescando colate detritiche, crolli di roccia o reptazioni della parte superficiale del terreno, ossia il movimento impercettibile delle particelle verso valle. «Spesso i problemi non avvengono con il passaggio a temperature sopra lo zero, che implicano, se presente, la fusione del ghiaccio, ma con il riscaldamento del ghiaccio stesso, che verso i –0,5°C diventa molto plastico e favorisce delle importanti deformazioni e quindi il movimento dei detriti o della roccia dove esso è contenuto», spiega Scapozza. Proprio per garantire la sicurezza degli edifici edificati in alta montagna, l’istituto di ricerca di Davos collauda

Lavori di perforazione per nuovi pozzi nei siti PERMOS. (Tratte dall’ultimo rapporto; Permos; Foto: C. Lambiel)

nuovi metodi di costruzione nel permafrost montano e redige raccomandazioni per gli addetti ai lavori. Con l’aiuto di diversi strumenti di misura viene inoltre rilevata la dinamica delle pareti e dei ghiacciai rocciosi, sempre con l’obiettivo di comprendere meglio i processi e individuare tempestivamente eventuali pericoli. Essi sono posizionati sia nelle falde di detrito contenenti ghiaccio, sia nelle pareti o nei ghiacciai rocciosi, ma anche nelle vicinanze di alcuni edifici costruiti in alta montagna. Si misurano le temperature all’interno dei fori e sulla superficie del terreno, l’altezza del manto nevoso, la temperatura dell’aria e l’irradiazione solare con l’aiuto di stazioni meteorologiche automatiche. «Il permafrost non è visibile – aggiunge Jeannette Nötzli – e quindi, soprattutto i movimenti di reptazione del permafrost, possono essere quantificati tramite il confronto di immagini

aeree e satellitari. Le variabili a lungo termine come le temperature superficiali o del sottosuolo, i cambiamenti nel contenuto di ghiaccio, i parametri meteorologici o la profondità della neve, ma anche le misurazioni terrestri per determinare la velocità di reptazione dei ghiacciai rocciosi sono acquisiti sul terreno grazie ad adeguati strumenti». I rilevamenti servono a studiare gli effetti del clima sui suoli perennemente gelati e a prevedere meglio i pericoli o i danni agli edifici. Oltre ai mutamenti a lungo termine, vengono però analizzati anche gli effetti d’eventi estremi, come quelli dell’estate torrida del 2015. Dati che servono anche per simulare le future evoluzioni delle temperature nel suolo con l’aiuto di modelli numerici. Ma come sta il permagelo in Svizzera? «È difficile fare una generalizzazione sullo stato del permafrost sulle Alpi – spiega l’SLF di Davos – perché

Schizzo schematico della strategia di osservazione PERMOS. (Tratte dall’ultimo rapporto)

le temperature del suolo e i contenuti di ghiaccio possono variare notevolmente a seconda del sito e delle condizioni locali. Tuttavia è confermato che il permafrost si sta tendenzialmente riscaldando e che in alcuni punti questo è causa di perdite di ghiaccio, reptazione dei pendii e instabilità degli edifici costruiti in alta montagna. Particolarmente colpite risultano le pareti rocciose, perché a causa della loro buona conducibilità termica reagiscono rapidamente ai cambiamenti climatici». Una tendenza che le estati torride estreme possono solo accelerare. Alcuni dei fori trivellati dall’SLF fanno parte della citata rete PERMOS a cui aderiscono anche gli istituti di geografia delle Università di Zurigo e di Friborgo, di ingegneria geotecnica del Politecnico federale di Zurigo, della dinamica della superficie terrestre dell’Università di Losanna, così come l’Istituto scienze della Terra della SUPSI.

Le riprese aeree che coinvolgono alcuni siti d’osservazione rappresentano un’importante base di dati per le analisi fotogrammetriche della cinematica dei ghiacciai rocciosi (il movimento) e quindi anche per la documentazione dei cambiamenti geomorfologici, idrologici e biologici. Queste indagini fotografiche permettono di misurare lo spostamento della superficie e coinvolgono una quindicina di stazioni distribuite nella catena alpina svizzera, tra cui due in Ticino, gestite dalla SUPSI e dove avviene pure il rilevamento delle temperature della superficie del suolo. Si trovano in zona Stabbio di Largario in Val Soi (Valle di Blenio), a 2300-2550 metri di altitudine, e sul versante nordorientale della Cima di Piancabella in Valle di Sceru (Val Malvaglia), a 24502550 metri d’altitudine. Anche la SUPSI si occupa quindi di permagelo e gestisce una rete di monitoraggio in otto ghiacciai rocciosi, finanziata da PERMOS, dalla SUPSI e dal Museo cantonale di storia naturale di Lugano. Grazie ai dati raccolti nel corso dei primi tredici anni di monitoraggio sistematico in Ticino, è stato possibile stabilire un legame significativo tra l’aumento della temperatura della superficie del suolo e la velocità di spostamento dei ghiacciai rocciosi, come conferma Cristian Scapozza, responsabile della ricerca: «Esatto, e questo legame è esponenziale, segno che il ghiaccio del permafrost si sta riscaldando e degradando, favorendo un’accelerazione dei movimenti di scorrimento verso valle dei ghiacciai rocciosi». Lo studio è svolto con diversi strumenti: GPS differenziale, fotografie aeree o terrestri e immagini da droni al fine di rilevare la velocità di spostamento dei ghiacciai e l’evoluzione storica del movimento. Il monitoraggio della temperatura della superficie del suolo avviene invece grazie a circa 40 sensori autonomi di temperatura sparsi nelle Alpi ticinesi, mentre per l’evoluzione dei parametri meteorologici, la SUPSI si basa sulle stazioni di MeteoSvizzera di Robièi e del Matro, non essendoci stazioni meteo in tutti i luoghi. Sul ghiacciaio roccioso di Stabbio di Largario avvengono inoltre misure in continuo del movimento grazie a due antenne GPS fisse, gestite in collaborazione con la Scuola politecnica federale di Zurigo. Le misure nelle Alpi ticinesi sono quindi focalizzate sulla temperatura della superficie del suolo e sulla velocità orizzontale di superficie degli otto ghiacciai rocciosi, parametri che hanno permesso di stimare lo stato di temperatura e il contenuto di ghiaccio del permafrost e valutare il suo adattamento alle fluttuazioni delle temperature dell’aria sempre più calde: «Vengono stilati dei rapporti biennali e l’ultimo, dedicato al periodo 2018/2019, è in fase di redazione. Rispetto agli anni scorsi, dalle ultime misurazioni emerge un notevole aumento delle temperature della superficie del suolo negli ultimi due anni, con un conseguente aumento della velocità dei ghiacciai rocciosi monitorati», conclude Cristian Scapozza.

Davanti al ghiacciaio roccioso Ritigraben prima (a sinistra) e dopo (a destra) i detriti scorrono, 2 luglio 2018. (Tratte dall’ultimo rapporto; fotocamera SLF time lapse)


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 febbraio 2020 • N. 09

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Ambiente e Benessere

Fiat strizza l’occhio all’ambiente

Motori Non solo trasforma un’icona di stile in veicolo ibrido, ma la riveste con tessuti di plastica marina riciclata

Mario Alberto Cucchi Icona. Immagine emblematica o altamente rappresentativa. Un esempio? Mick Jagger è considerato da molti l’icona del rock anni Sessanta. La simpatica Fiat 500 è invece un’icona di stile, un emblema del made in Italy insieme all’intramontabile Vespa. Ecco allora che quando la più famosa tra le Fiat viene equipaggiata con la nuova tecnologia mild hybrid a benzina, tutti ne parlano e la vogliono provare.

Non solo 500: a far parte delle Fiat semi elettriche anche il nuovo modello Panda In questi giorni una flotta di Fiat 500 e Panda Hybrid ha invaso le strade della bella Bologna per i test drive della stampa mondiale. Si tratta del primo passo di Fiat verso l’elettrificazione. Diciamolo subito: elettriche sì, ma leggere. E non ci riferiamo soltanto al peso. La tecnologia mild hybrid prevede in questo caso l’abbinamento del nuovo motore benzina da 1000 cc a 3 cilindri della famiglia Firefly, che eroga 70 cavalli, a un motore elettrico BSG (Belt integrated Starter Generator) da 12 volt che assicura una spinta supplementare di 5 cavalli e 20 NewtonMetro di coppia. Il sistema BSG è montato diretta-

mente sul motore e permette di recuperare energia in frenata e decelerazione. Quest’ultima viene poi immagazzinata nella batteria agli ioni di litio da 11 Ah prodotta da Samsung e posizionata sotto il sedile di guida. L’energia è poi sfruttata con una potenza di picco di 3,6 kW per riavviare il motore termico dopo uno stop in marcia e assisterlo in fase di accelerazione. Grazie a questa tecnologia il motore termico si spegne anche durante la guida al di sotto dei 30 chilometri orari. Rispetto al propulsore 1,2 Fire da 69 cavalli, è assicurata una riduzione dei consumi fino al 20 per cento (30 per cento per Panda Cross) e delle emissioni di CO2, che restano sotto la fatidica soglia dei 90 grammi per chilometro (88-89 g/km). Fiat strizza l’occhio all’ambiente non solo con i motori, ma anche dentro l’abitacolo. Il rivestimento dei sedili può essere realizzato utilizzando, per la prima volta nel settore delle quattro ruote, il tessuto «Seaquel Yarn» ottenuto da plastica riciclata di cui il 10 per cento di origine marina e il 90 per cento di origine terrestre. Per ottenere questo materiale è necessario prima trasformare la plastica raccolta in mare in scaglie di polietilene tereftalato, da queste scaglie poi realizzare il filato da cui creare i tessuti. Nella fase di tessitura, il poliestere di origine marina viene mescolato con altre fibre ecologiche, naturali, riciclate o recuperate. Un processo che viene completato dall’applicazione di tinture

Fiat 500 e Fiat Panda Hybrid Launch Edition.

Gli interni della nuova Fiat-500-Hybrid.

e finiture basate sul risparmio di acqua ed energia. Fiat collabora con il marchio Sequel al fine di sostenere gli interventi per la pulizia degli oceani e prendere provvedimenti contro i rifiuti che finiscono nei mari. «Il mercato è ormai maturo e il trend in crescita – spiega Luca Napolitano, Capo EMEA Fiat e Abarth – ora è il momento per entrare nel mercato delle ibride. Si comin-

cia con le piccole: Fiat ne vende oltre 375mila all’anno e ha il più vasto parco circolante d’Europa». Questa 500 mild hybrid è solo l’inizio del processo di elettrificazione della Casa torinese. D’altra parte, nello stabilimento di Mirafiori la produzione della nuova 500 elettrica è già cominciata. Duecento esemplari camuffati sono già impegnati nei test pre-serie. Basta solo aspettare. Annuncio pubblicitario

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I giganti di Schiedam macinano ancora

Ambiente e Benessere

Reportage Un binomio fantastico da far girare la testa: mulini a vento e gin, tra tradizione e rinnovamento,

sui canali alla foce del Reno in Olanda

Tommaso Stiano, testo e foto Schiedam non è certo una meta turistica tra le più popolari dei Paesi Bassi se messa a confronto, ad esempio, con Amsterdam e L’Aja. L’insediamento a sud dell’Olanda nacque grazie alla costruzione di una diga (dam in olandese) sul fiume Schia (Schie), da qui il nome Schiedam, e oggi fa parte dell’area metropolitana di Rotterdam. Conta quasi 78mila abitanti occupati nei molteplici lavori del grande porto alla foce del Reno ma è conosciuta soprattutto per la presenza dei mulini a vento più alti al mondo, strettamente legati alla secolare produzione del gin.

Gli abitanti di Schiedam hanno attraversato il tempo rendendo vive e dinamiche le loro identità e tradizione Sei sono i mulini a vento superstiti della città di Schiedam che affascinano per la loro imponenza. Fanno da corona al quartiere sorto lungo il canale Noordvestgracht (nord-ovest della città); si ergono come giganti buoni dai piedi ben piantati a terra. Svettano oltre i trenta metri sopra le antiche abitazioni: alcuni girano ancora la testa e spalancano

Il nuovo mulino De Kameel (Il Cammello) inaugurato nel 2011. Su www. azione.ch si trova una galleria fotografica più ampia.

Le macine nuove al quarto piano del mulino De Walvisch.

le braccia alla ricerca di buon vento. Sono così alti perché, trovandosi nel contesto urbano, per sfruttare il vento in tutte le direzioni dovevano sporgere sopra i tetti. Nel XVIII secolo ce n’erano una trentina, di cui venti gestiti dalla «Compagnia dei Distillatori» che preparavano grandi quantità di malto d’orzo e frumento, la materia prima nella distillazione del gin, il liquore per antonomasia in Olanda. La produzione era così abbondante che il borgo era diventato la capitale mondiale del gin. Conviene cominciare l’itinerario esplorativo dall’impianto più vicino alla stazione ferroviaria. Dieci minuti di marcia e siamo al mulino De Kameel (Il Cammello); alto 30,5 metri, è completamente nuovo: è stato inaugurato nel 2011 dopo due anni e mezzo di lavori; attualmente funge da sede amministrativa della fondazione De Schiedamse Mills che gestisce i mulini cittadini. Si prosegue poi incontrando il mulino De Palmboom (La Palma) che è del 1992 con parti dell’antico edificio sorto nel 1781. Pochi passi e si arriva al De Noord (Il Nord) che con i suoi 33,3 metri è il più alto al mondo; costruito nel 1803 sulle fondamenta di un antenato del 1707 e rinnovato nel 1962, da 40 anni ospita un rinomato ristorante dove ci siamo

Un sacco di farina prodotto dal De Walvisch.

Il Museo del Gin a Schiedam, con distilleria e degustazione.

del gin. Distrutto completamente da un incendio nel 1996, fu ricostruito in poco tempo e ha ripreso a macinare nel 1999 grazie al personale volontario. Inoltre, dal febbraio 2018 è la nuova e unica sede museale dell’arte molitoria. Da qui, con l’ausilio di un’audioguida, ci si addentra nella filiera che porta dai sacchi di cereali appena raccolti alle confezioni di svariati macinati biologici. Il mulino è disposto su otto livelli, non tutti accessibili al pubblico. Al pia-

no terreno, accanto al bar, si vendono i suoi prodotti e si può acquistare il biglietto combinato con il museo del gin. Al primo piano si trova il reparto confezione per le farine fresche di macina. Le mura al secondo piano oggi fungono da grande schermo per un breve filmato dedicato alla storia degli impianti di Schiedam. Salendo una ripida scala si giunge quindi al terzo livello dove con metodo interattivo e grazie allo spaccato in scala di un mulino si può capire meglio l’arte molitoria e le parti del mulino; qui adulti e bambini possono vestire i panni del mugnaio che per esercitare con perizia il suo mestiere doveva possedere, oltre alla piena forma fisica, diverse competenze, dalla meteorologia alla meccanica, dalla culinaria alla botanica. Al piano superiore viene il bello: si lascia il museo per entrare nel vivo dell’attività. È il livello delle tre nuove macine (una aperta) che con vento favorevole possono produrre grandi quantità di farina. Sempre al quarto piano, si può uscire sulla terrazza panoramica dalla quale si scorgono i mulini appena descritti, i canali della città e il timone-argano per orientare le vele verso il vento giusto. Al quinto piano arrivano i sacchi di grano per

Distilleria Old Schiedam.

fermati per una gustosa cena con piatti tipici olandesi (www.noordmolen.nl). Continuando la passeggiata pomeridiana, si passa dal mulino De Vrijheid (La Libertà) per giungere poco più in là al De Drie Koornbloemen (I Tre Fiordalisi) che, edificato nel 1770, è il più antico con l’interno in gran parte autentico. L’ultimo mulino è detto De Walvisch (La Balena). In origine, nel 1794, come gli altri menzionati, era stato edificato per soddisfare la fiorente industria

essere versati nelle macine. I piani superiori, quelli dei complessi meccanismi in legno lubrificati con il lardo che trasmettono il moto orizzontale delle pale agli alberi verticali delle macine, non sono accessibili al visitatore: peccato! Bisognerà accontentarsi del modellino al terzo piano e del buon profumo di farina che resta addosso. Tra tradizione e innovazione, gli abitanti di Schiedam hanno saputo attraversare il tempo rendendo viva e dinamica la loro identità, ridando cioè valore al loro patrimonio culturale promuovendo nuove iniziative e valorizzando esperienze consolidate nel territorio e nel tempo: per questo vale la pena passare una mezza giornata tra i loro mulini e nel museo del gin. Dove e quando

Il mulino De Walvisch si trova in Westvest 229, a Schiedam. Orari: ma-do, 11.00-17.00 (chiuso lunedì). A cinque minuti a piedi, in Lange Haven 74 e con gli stessi orari, c’è il Nationaal Jenevermuseum (Museo nazionale del Gin). Sia al mulino sia al museo ci sono audioguide anche in francese comprese nel prezzo del biglietto (17,50 €).




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Ambiente e Benessere

La Bassa Borgogna e i vigneti di Chablis

Scelto per voi

Bacco Giramondo È incontestabile che i migliori vini siano prodotti

su terreni ricchi di calcare kimméridgien

Davide Comoli Il vigneto del dipartimento francese dello Yonne è situato alla confluenza dei fiumi Yonne e Armançon a nord mentre a sud confina con la foresta di Morvan. Questo dipartimento è chiamato anche: «Bassa Borgogna» e deve la sua reputazione ai vini prodotti a Chablis, ottenuti esclusivamente dal vitigno Chardonnay. Allo stesso tempo va detto anche che il vigneto dell’Auxerrois (Auxerre è la città più nota), è conosciuto già da molto tempo grazie alla produzione vinicola dei comuni di Saint-Bris-leVineux, Chitry, Irancy e Coulange-laVineuse. Chablis è una cittadina il cui vino e divenuto uno dei più conosciuti, tanto da essere il vino con il maggior tentativo d’imitazione al mondo: la sua notorietà è stata infatti largamente usurpata dai vini prodotti in California, di qualità inferiore. Le numerose imitazioni di Chablis – elaborate per fare concorrenza all’illustre modello – costrinse, negli anni Novanta, i vignerons francesi a chiedere alla Corte suprema delle Bermude, un’istanza per proteggere il loro prodotto. Il vigneto di Chablis (e dei comuni vicini) è di primaria importanza per la tipologia dello Chardonnay e per la sua classificazione. I vigneti, infatti, si

Château Chantalouette

Vista delle viti appena fuori dal villaggio di Chablis. (Peter)

trovano a sud del bacino parigino su una depressione geologica del Jurassico superiore che si estende sino al sud dell’Inghilterra, nei pressi del villaggio di Kimmeridge, nel Dorset. Il sottosuolo è colmo di conchiglie, fossili di una piccola ostrica (Exogyra virgula), che contribuisce a mantene-

re un efficace drenaggio, malgrado la forte proporzione d’argilla e calcare nel suolo; per questo i terreni sono definiti: «kimméridgien». È pertanto incontestabile che i migliori vini siano prodotti su terreni ricchi di calcare kimméridgien, i quali donano a questi vini i tipici sentori minerali di selce.

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È comunque evidente che la qualità di ogni «terroir» non viene solo dal suolo, ma anche dal microclima. I vigneti dello Chablis hanno tuttavia un grande nemico: il gelo. I vignerons devono spesso combattere contro gelate primaverili fino alla metà di maggio e di conseguenza considerare di trovarsi di fronte a grossi problemi e disagi irreversibili. La rudezza degli anni 1957 e 1961 misero i viticoltori in una situazione critica e le uve usate per produrre i grandi crus furono vendute a dei prezzi irrisori. Da quel momento si incominciò a mettere in pratica tecniche di lotta contro il gelo. La prima consiste nel riscaldare le vigne creando degli impianti con stufe a olio lungo i vigneti. Originariamente venivano riempite a mano e messe in funzione alle prime ore dell’alba, oggi è cambiato e tutto viene automatizzato: è un metodo efficace, ma molto costoso. Il secondo metodo consiste nell’innaffiare le vigne allorché la temperatura si abbassa molto. L’acqua che gela a 0° C, forma una specie di involucro protettivo intorno ai germogli che possono resistere sino a –7° C. Nonostante questo sistema non sia efficace come si sperava, garantisce comunque un buon rendimento ogni anno e contribuisce all’estensione del vigneto. In questa regione la viticoltura fu incoraggiata già nel XII sec. dall’Ordine Cistercense, che per parecchi secoli si prese carico il trasporto del vino venduto a caraffe a Parigi. Il prodotto attirò l’attenzione di compratori britannici e nel 1770 un’asta, presso la famosa Christie’s a Londra, decreterà il successo di questo vino bianco. Chablis possiede quattro «Appellations»: se vi capita di attraversare il ponte sul torrente Serein all’uscita di Chablis per entrare sulla D965, vi troverete di fronte la costa dei sette grandi crus. Da sinistra a destra troverete: Bougros, Le Preuses, Vaudesir, Grenouille, Valmur, Les Clos e Blanchot. I migliori «Grand cru» sono vini longevi da bere dopo 8-10 anni, i Premier cru dopo 6-8, dai 3 ai 5 per i Chablis e 2-3 per Petit Chablis, questi ultimi li raccomandiamo in abbinamento con i formaggi caprini, mentre un Grand cru trova il suo ideale con insalata d’aragosta o un filetto di sogliola con porcini. Lo Chardonnay prodotto nella regione dello Chablis è un piacere per il palato: il suo colore giallo-verdognolo,

Si dice che l’argilla sia necessaria a un buon «terroir», ma rari sono i grandi «terroirs» composti solo di argilla, sebbene nel Pomerol (Bordeaux) si trova un’argilla miracolosa detta «argille noir». Essa agisce come una spugna che s’impregna d’acqua durante la stagione piovosa, per restituirla in seguito durante il periodo caldo, e in particolare d’estate. Nel Pomerol i vigneti beneficiano di un clima oceanico e temperato grazie alla Dordogna, fiume che scorre nei pressi. Domina il vitigno Merlot, il nostro Chantalouette è infatti un assemblaggio per il 70 per cento di questo vitigno, del 15 per cento di Cabernet Franc e per il 15 per cento di Cabernet Sauvignon. Il suo colore è rubino scuro con gli anni diventa leggermente granato e ricorda le tegole dei tetti; al naso piacevolissimi sono i profumi di frutti rossi e neri maturi, sensazioni di spezie dolci e cuoio, prolungano la delizia dell’esame olfattivo, il tutto supportato da tannini delicati e da un lungo finale. Ideale per le vostre cene sui piatti di carne rossa importanti e formaggi vaccini ben stagionati. / DC Trovate questo vino nei negozi Vinarte al prezzo di Fr. 33.–. il suo profumo di selce, l’interazione tra la sua acidità, il suo corpo e nervosità esprimono la tipicità del «terroir». Uno Chablis giovane deve già avere una certa intensità minerale e la proporzione di queste caratteristiche sopracitate la ritroviamo nella classificazione dei vigneti. Per eleganza e mineralità, i premier crus sono i vini più tipici dello Chablis, ma anche i più deludenti per la loro magrezza; le zone di produzione di questa tipologia sono state molto ingrandite negli ultimi anni. Forse per questo e a causa del rendimento elevato per ettaro, ci si ritrova talvolta con prodotti mediocri. Altra storia per lo Chardonnay usato nella produzione dei Grand Crus: qui solo 35 hl per ha, coltivato con un taglio basso e corto, affinché il suolo bianco e gessoso rifletta il calore del sole sui grappoli e aiuti la maturazione. Le vendemmie iniziano ai primi di ottobre, i pareri su come fermentare divergono ancora: «la feuillette», un fusto di quercia di 132 l, è la tradizione; qualcuno invece usa «le pièce» da 228 l, mentre gli innovatori usano fermentatori in acciaio per un miglior controllo della temperatura. Dopo la fermentazione malolattica, comunque, tutto il vino viene elevato in barriques più o meno nuove. Nel tempo l’acidità e la forte mineralità si fondono con una morbidezza che in piena maturità dona note «burrose», con una lunghissima persistenza aromatica: perfetto, se abbineremo il nostro Grand Cru dello Chablis a un grand plateau de fruit de mer.


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Ambiente e Benessere

Più che una sorpresa un supplì Oggi parliamo di supplì. Si tratta di una (abbastanza) grossa crocchetta di riso, tipica di Roma e in generale dell’Italia centrale. Il nome deriva dall’italianizzazione del francese surprise («sorpresa»): si tratta di una preparazione sostanziosa e appetitosa, composta da riso cotto mescolato con ripieni diversi.

I supplì più «simpatici» sono quelli detti «al telefono», poiché del ripieno fanno parte mozzarella o provola, che in cottura fondono filando Quello classico è a base di carne tritata, funghi, piselli e sugo di pomodoro, con un pezzo di mozzarella al centro – oppure mozzarella a dadini, mescolata col resto degli ingredienti. Esistono comunque varianti altrettanto appetitose, con ripieno di funghi, fegatini, pomodori e mozzarella o provola. Nell’impasto possono inoltre essere incluse le verdure (soprattutto spinaci e cicoria) e la pancetta. Inutile dire che va benissimo anche un ragù. Una volta preparata, la polpetta viene legata con uova, foggiata a palla o a uovo, passata nell’uovo sbattuto e nella farina o nel pangrattato e quindi fritta, un tempo con lo strutto, oggi in olio. I supplì più «simpatici» sono quelli detti «al telefono», poiché del ripieno fanno parte mozzarella o provola, che in cottura fondono filando. Vediamo insieme la ricetta più «tradizionale». Supplì base (ingredienti per 4 persone). Ammollate 25 g di funghi porcini secchi in acqua tiepida per 15 minuti, scolateli, strizzateli e sminuzzateli. Tagliate a dadini 100 g di mozzarella, fatela scolare in un colino per 30 minuti. Preparate 600 g di dadolata di po-

modori e unitela in una casseruola a 5 dl di brodo vegetale; una volta portata a bollore, unite 300 g di riso e cuocetelo al dente, mescolando di tanto in tanto e unendo poca acqua se necessario; alla fine dovrà essere né sodo né umido, diciamo una giusta via di mezzo. Mantecate infine, fuori dal fuoco, con una noce di burro, 2 uova e 2 cucchiai di grana grattugiato, quindi versate il riso su un vassoio, livellatelo e fate raffreddare. Tagliate a dadini 50 g di cuore di vitello – la tradizione dice, in alternativa qualunque taglio del vitello – 50 g di animelle già spurgate – idem come sopra, in alternativa altre carni – 25 g di prosciutto crudo e 2 fegatini di pollo – questi veramente canonici. Rosolateli in una casseruola con 80 g di polpa macinata di vitello, i funghi, 4 cucchiai di soffritto di cipolla, 20 g di burro e un filo di olio per 5 minuti; unite poi 1 cucchiaio di concentrato di pomodoro stemperato in poca acqua calda, regolate di sale e di pepe e fate addensare il sugo. Preparate le crocchette prendendo una cucchiaiata di riso e dandole la forma di un uovo. Introducete all’interno un po’ di ragù e qualche dadino di mozzarella, richiudete la crocchetta stringendola nella mano bagnata e passatela nel pangrattato. Friggete infine i supplì in abbondante olio di arachide ben caldo fino a doratura completa. Servite subito ma attenti al calore… Come è logico pensare, la farcia dipende dai gusti di ciascuno. Ottimo per esempio se il riso viene cotto aggiungendo, alla fine, zafferano e poi viene farcito con ossobuco cotto a puntino, sminuzzato, arricchito col midollo degli ossi, funghi e altro a piacer vostro, senza dimenticare la mozzarella. Una volta ne ho fatta una versione di mare: col riso cotto con brodo di pesce e poi farcito con una dadolata di frutti di mare e verdure a dadini cotte a piacere e, come sempre, mozzarella. Ma ha senso anche una versione vegetariana, con il riso cotto con brodo vegetale e unendo verdure come melanzane e altre, a dadi e cotte.

CSF (come si fa)

Dezidor

Allan Bay

Schellenberg

Gastronomia Alla ricetta tradizionale si può aggiungere a piacere quel che si vuole, basta un po’ di fantasia

Il souvaroff è un dolce ormai tipico francese, sia pure dedicato a un principe russo: e per questo motivo è giusto scriverlo alla francese invece che alla russa, dove sarebbe suvorov. Comunque sia, non credo che sia stato dedicato al grande Aleksandr Vasil’evič Suvorov, mitico generale russo, morto nel 1800, però, quando di cuochi francesi in Russia ce n’erano ben pochi, ma, plausibilmente, in onore di suo nipote Alexander Arkadyevich, mor-

to nel 1880, che era un noto ghiottone e vantava una cucina gestita da cuochi francesi. Tutto questo detto, sono semplicemente biscotti accoppiati e farciti con gelatina o confettura. La ricetta che segue tratta ingredienti per 6 persone. Versate 125 g di farina a fontana su una spianatoia. Praticate un foro al centro e inserite 100 g di burro precedentemente lavorato e ammorbidito, poi aggiungete 50 g di zucchero e un pizzico di sale e cominciate a mescolare con la punta delle dita. Quando il composto è ben amalgamato, formate una palla, avvolgetela nella pellicola da cucina e lasciatela riposare in luogo fresco per 1 ora. Stendete poi l’impasto col matterello fino a uno spessore di 3 mm, poi, con l’aiuto di un coppapasta o di una formina dalla forma ovale, ricavate tanti biscotti, dispo-

neteli su una placca ricoperta da carta da forno e cuoceteli in forno a 180° per 6 minuti o poco più. Dopo 3 minuti, estraeteli dal forno, spolverizzateli di zucchero a velo e rimetteteli in forno. A fine cottura, sfornate e fate raffreddare, poi accoppiateli farcendoli con una gelatina o una confettura di frutta o una marmellata a piacere. Mai dimenticare che confettura e marmellata si fanno allo stesso modo, ma la marmellata è di agrumi mentre la confettura di altra frutta. Variante. Dopo 3 minuti di cottura, estraeteli dal forno, spalmate una confettura o una marmellata a piacere (se passa in forno, non una gelatina, mi raccomando) su una faccia di un disco, coprite con un altro disco e finite la cottura in forno per 3 minuti, poi fateli raffreddare.

Ballando coi gusti Oggi due proposte: vanno bene sia per antipasti, sia per spuntini durante tutto il giorno se viene fame. Ad accumunarli, l’utilizzo della fontina – ma va bene un formaggio similare. Bignè alla fontina

Tartine ai peperoni e fontina

Ingredienti per 4 persone: 6 uova · 250 g di fontina · 140 g di burro · 340 g di farina

Ingredienti per 4 persone: 200 g di fontina · 3 peperoni sia di un colore sia di colori diversi · 8 fette di pane in cassetta meglio se integrale · basilico · prezzemolo · olio d’oliva · sale e pepe.

· spezie a piacere · sale.

Fate sciogliere in una casseruola il burro con 3 dl di acqua; togliete dal fuoco e unite la farina setacciata. Mescolate fino a ottenere un composto omogeneo e privo di grumi, rimettete sul fuoco finché non si staccherà dai bordi e dal fondo della casseruola. Lasciate raffreddare l’impasto, quindi aggiungete le uova, una per volta, e continuate a mescolare fino a quando l’impasto non avrà assunto una consistenza omogenea. Aggiungete la fontina tagliata a dadini, un pizzico di sale, poche spezie a piacere. Disponete dei mucchietti di impasto su una placca ricoperta di carta da forno, ben distanziati tra loro. Cuoceteli in forno a 220° per 7 minuti. Abbassate la temperatura a 190° e cuocete fino a quando non saranno dorati. Serviteli subito.

Tagliate a fettine la fontina. Mondate i peperoni e tagliateli a falde eliminando i semi e i filamenti. Scottateli sulla griglia, chiudeteli in un sacchetto di plastica e lasciateli riposare per 5-6 minuti. Eliminate la buccia e conditeli con olio, sale e pepe. Adagiate metà dei peperoni su un foglio di alluminio per alimenti, copriteli con le foglie di basilico e con le fettine di fontina. Mettete sopra l’altra metà e profumateli con il prezzemolo tritato. Arrotolate il tutto e fate rassodare per 5 ore in frigorifero. Fate tostate le fette di pane. Togliete il rotolo dal frigorifero, eliminate l’alluminio e affettate. Guarnite il pane con le rondelle di peperoni.



Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 febbraio 2020 • N. 09

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Ambiente e Benessere

Di ratti e di topi

Mondoanimale La ricerca scientifica scagiona il piccolo roditore e l’oroscopo cinese 2020 lo elegge avevo uno arrivato a San Bernardino da casa con la sacca degli sci che era in garage. Agiva durante la notte e faceva scorte… ho anche le fotografie dei suoi bottini che abbiamo scoperto per la casa. E io che pensavo che il mio cane Teo mangiasse più del solito!». Nicole Santi desidera incuriosire i profani e invita a consultare il sito web www.ratrescueitalia.com che potrebbe orientare correttamente i curiosi di questa specie. «Sono animali sociali, non andrebbero mai tenuti singolarmente!», conclude. Sara Biondi racconta di aver avuto «tutti i tipi di roditori» e afferma che secondo lei i migliori in assoluto sono i ratti domestici: «Ne avevo preso uno salvandolo da morte certa, perché essi sono destinati dall’uomo come cibo per serpenti. L’ho chiamata Gilda, era una femmina». Sara spiega che si era informata su di loro ed era molto incuriosita e motivata ad averne uno tutto suo. Racconta che a suo avviso i ratti sono intelligentissimi: «Ti riconoscono e interagiscono quasi come cagnolini, usano le zampe davanti come manine, sono affettuosi e amano stare a contatto (spesso mi dormiva dentro ai maglioni)». Sara non nasconde neppure la consapevolezza che i topi non a tutti piacciono: «A tanta gente fa schifo pensare di avere un ratto in casa, ma io lo ritengo solo un pregiudizio (portano malattie solamente se vengono dalle fogne) e, a differenza di criceti, gerbilli e altri piccoli roditori, il ratto ti dà molta più soddisfazione e affetto». Conclude consigliando di adottarne uno: «Provare per credere! Se ora non avessi il gatto in casa, ne avrei preso nuovamente uno».

Maria Grazia Buletti L’oroscopo orientale è entrato ufficialmente nell’anno del Topo. È accaduto il 25 gennaio, data del Capodanno Cinese. Questa volta tutto si è svolto senza gli sfarzosi festeggiamenti, a causa del coronavirus che sta funestando la Cina e sta mettendo in allerta il resto dell’umanità. Coronavirus che parrebbe essere stato trasmesso da animale a uomo, proprio come la storia racconta a proposito della peste nera veicolata dai topi, morbo letale che contagiò e uccise 25 milioni di persone in tutta Europa (corrispondente all’epoca a più di un terzo della popolazione totale del Continente). A proposito di topi, però, un recente studio pubblicato nel 2018 su «Proceedings of the National Academy of Science» rivela che l’epidemia del 1347 non fu trasmessa dai ratti agli uomini: la colpa potrebbe probabilmente essere invece imputata ai pidocchi umani. Il corrispondente da Londra Enrico Franceschini riporta su «La Repubblica» che le Università di Oslo e di Ferrara, capitanate dal professor Nils Stenseth, smentiscono quella versione dei fatti e scagionano i topi, affermando che «La causa della diffusione della “Black Death” (ndr: il cui nome deriva appunto dal Rattus Rattus o topo nero) non furono i roditori che vivono nella spazzatura delle nostre città, bensì l’uomo attraverso un contagio diretto avvenuto per mezzo di pulci e pidocchi. È improbabile che la peste si sarebbe diffusa così rapidamente se fosse stata trasmessa dai ratti e l’ipotesi più verosimile rimane la trasmissione umana, da persona a persona», afferma ai mi-

Sara Biondi (intervistata) e la sua topa Gilda.

crofoni della BBC il professor Stenseth a conclusione della presentazione dei risultati della sua ricerca. Uno studio di grande valenza storica in quanto ha usato la moderna comprensione del morbo per stabilire cosa avvenne durante una delle più devastanti pandemie di tutti i tempi. «Comprendere il più possibile che cosa succede durante un’epidemia può aiutarci a ridurre la mortalità in futuro», osserva il professore norvegese. Un’affermazione profetica di circa un anno fa per rapporto alla situazione che oggi ci si trova a gestire con il coronavirus. Ma torniamo al topo e in particolare all’Anno del Topo che secondo le previsioni del maestro di Feng Shui Dong Vilin sarà un anno ricco e pieno di opportunità, con meno armi ma maggiori tensioni diplomatiche. «Le persone saranno più calme e più pacifiche che non irritabili; non ci sarà più grande violenza, tuttavia ci sarà un altro tipo di aggressività che non arriva

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incontrare qualcuno che i topi li ama e li conosce, ne è risultata una valanga di testimonianze e qualche bella fotografia a ritrarre umano e topolino in un rapporto che nulla ha da invidiare ad altri animali domestici che condividono con l’essere umano le proprie vite. «Io non mordo e amo i ratti», esordisce scherzando Corrado che di cognome fa Mordasini (da qui la simpatica ironia) e fa però riferimento a una sua conoscente, Lorenza, dicendo: «Lei ha fatto dell’amore per il ratto una dedizione religiosa. Mai ho visto persone veicolare tanto amore verso degli animali». Poi, Corrado mette da parte l’ironia e conclude: «Scherzi a parte, pur mantenendo un distacco logico, Lorenza ha gestito i suoi e gli altrui ratti al meglio delle sue possibilità; premio Pulitzer per roditori!». Fra le tante testimonianze raccolte, parlando di topolini campagnoli Nanda Medici Tanzi racconta: «Io ti posso dire che sono ghiotti di mangime secco per cani: ne

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Cruciverba Ti accompagna oltre la collina senza muoversi… Non si usa fino a quando non si rompe… Trova le risposte a questi due indovinelli leggendo, a soluzione ultimata, le lettere evidenziate. (Frase: 2, 6 – 1, 4)

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dalla polvere da sparo, ma potrebbe riferirsi a guerre fredde o conflitti linguistici», ha spiegato il maestro. E per quel che riguarda il nostro topolino comune (Mus musculus), è un piccolo mammifero roditore della famiglia dei Muridi. Viene pure chiamato Topo domestico per differenziarlo da quello selvatico (Apodemus sylvaticus) e da quello campagnolo (Microtus arvalis). Il Topo domestico rappresenta la specie di gran lunga più diffusa del genere Mus e si può di fatto trovare comunemente in quasi tutti i paesi del mondo, spesso al fianco degli umani, che involontariamente (ma pure volontariamente come vedremo presto) gli procurano vitto e alloggio. Questo non succede sempre in armonia con i nostri topolini, perché essi possono arrecare danni anche ingenti alle colture e alle dispense di cibo, oltre che rendersi vettori di alcune malattie come ad esempio la leptospirosi. Eppure, quando chi scrive si è dato da fare per

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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch

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I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.

ORIZZONTALI 1. Il dente del giudizio 6. Città della Russia sull’Oka 7. Le iniziali dell’attrice Rocca 9. Vanno in coppia 10. Cibele lo mutò in pino 11. Le iniziali della cantante Aguilera 12. Tre in latino 13. Un alimento per bestiame 17. Non variabile 18. Le valicò Annibale 19. Copri costumi 20. Canzoni medievali francesi 21. È detto così il Turkestan occidentale 23. Le iniziali dell’attrice Rossellini 24. Epoche della Terra 25. Uno dei fiumi più lunghi del mondo 27. Nome femminile 28. Audaci VERTICALI 1. Un peso nel pugilato 2. Vive nei mari del nord 3. Pronome personale 4. Interpretava La signora in giallo (Iniz.) 5. Ampi, vasti 8. Nasce nell’acqua 10. Il famoso Lupin 12. Isola all’imbocco del golfo di Aqaba 13. Isola della Sonda 14. Allegro, felice 15. Operaie volanti 16. Il giorno più breve 17. Il West dei cow boys 19. Fanciullo latino 21. Prefisso che vuol dire tre 22. Il primo navigatore 24. Evolvere senza volere 26. Le iniziali dello scrittore Settembrini Partecipazione online: inserire la

soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-

Sudoku Soluzione:

Scoprire i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.

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AL RISTORANTE – Lui rivolto a lei: «Amore, dimmi qualcosa che mi faccia battere il cuore». Frase risultante: «È APPENA ENTRATA TUA MOGLIE!».

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luzione, corredata da nome, cognome, indirizzo, email del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui

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Politica e Economia Tortura e politica in Russia Un processo pubblico che ricorda i metodi staliniani contro il gruppo di attivisti Set’

Le grandi epidemie La vicenda del Coronavirus richiama alla memoria i momenti drammatici del passato quando le malattie mietevano migliaia di vittime

Profughi senza futuro Un milione di Rohingya vivono in condizioni disperate, senza nessuna speranza di poter tornare in Myanmar pagina 30

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pagina 28 La CX-52 produceva testi criptati in modo sicuro: ma qualcuno poteva leggerli... (Keystone)

La macchina dei segreti era truccata Vicenda Crypto Dopo le rivelazioni dei media sulla manipolazione nei codici di cifratura degli apparecchi

prodotti a Zugo è ora il momento delle inchieste ufficiali per valutare le responsabilità del caso

Marzio Rigonalli Le rivelazioni sullo spionaggio avvenuto con gli apparecchi di crittografia della ditta Crypto AG di Steinhausen, nel canton Zugo, hanno provocato uno scossone sulla scena politica federale. La vicenda è stata resa pubblica da un servizio della «Rundschau» della televisione della Svizzera tedesca, in collaborazione con la televisione tedesca ZDF e con il «Washington Post». Di che cosa si tratta? L’azienda Crypto AG è stata creata nel 1952 per produrre apparecchi per la crittografia. Sin dall’inizio sorsero dubbi su chi fossero i veri proprietari. Più tardi si è scoperto che nel 1970 la ditta venne acquistata dalla CIA e dai servizi segreti tedeschi (BND). Negli anni Novanta, il BND lasciò poi tutto alla CIA. Per decenni la Crypto ha prodotto e venduto questi apparecchi crittografici a più di 100 servizi segreti di altrettanti paesi. I macchinari, però, erano «truccati»: avevano una cosiddetta «backdoor», una porta d’entrata nascosta che permetteva ai due servizi segreti di leggere le comunicazioni cifrate. Ai tempi della guerra fredda, la Crypto AG era

la più importante azienda del settore. Ha cessato di esistere nel 2018 ed è stata acquisita da due altre società: la CyOne Security e la Crypto International. Le due nuove società negano di avere alcun legame con gli Stati Uniti e la Germania. Siamo di fronte ad una palese violazione della sovranità elvetica e ad un uso inqualificabile di un prodotto svizzero da parte di due potenze straniere, anche se alleate della Svizzera. Un uso che mette in pericolo la credibilità, l’affidabilità ed il buon nome di un piccolo paese neutrale, al quale molti governi ricorrono volentieri per ottenere i buoni uffici, per sollecitare una mediazione in difesa dei loro interessi. Le rivelazioni su questa forma di spionaggio chiamano in causa le autorità svizzere. Chi era al corrente? Qualcuno sapeva ed ha preferito tacere? Oppure nessuno sapeva niente? Sono domande centrali, alle quali si potrà dare una risposta quando si conosceranno i risultati delle indagini in corso a livello federale ed eventualmente gli esiti di nuove indagini che verranno avviate. Per ora dobbiamo limitarci a delle ipotesi, prendendo in conside-

razione almeno due possibili livelli. Il primo livello è quello dei nostri servizi segreti. È probabile che fossero al corrente e che abbiano anche approfittato di informazioni che sono state loro fornite. Il secondo livello è quello del capo del dipartimento federale che aveva la responsabilità dei servizi segreti. Era a conoscenza di questo spionaggio? La stampa federale ha chiamato in causa ben quattro consiglieri federali, di cui tre pensionati ed uno deceduto, nonché alcuni parlamentari, pure pensionati e non più attivi sulla scena politica. Trattasi di Kaspar Villiger, capo del Dipartimento militare dal 1986 al 1995 e capo del dipartimento delle finanze dal 1995 al 2003, che ha però dichiarato di non essere stato al corrente; Arnold Koller, in carica dal 1987 al 1999 e capo del dipartimento federale di giustizia e polizia; Pascal Delamuraz, in carica dal 1984 al 1998; Flavio Cotti, in carica dal 1987 al 1998 e per sei anni responsabile degli affari esteri; Georg Stucky, ex consigliere agli Stati del canton Zugo, membro del consiglio di amministrazione della Crypto AG dal 1992 al 2016, e Rolf Schweiger, pure ex consigliere agli S0tati del canton

Zugo e pure membro del consiglio di amministrazione dell’azienda zughese dal 2014 al 2018. La sola personalità che viene chiamata in causa e che è tutt’ora attiva è Markus Seiler, capo del servizio delle attività informative della Confederazione dal 2010 al 2017, ed oggi segretario generale del Dipartimento federale degli affari esteri. Per far luce sulla vicenda sono state avviate due inchieste. La prima l’ha decisa il Consiglio federale. A metà gennaio ha incaricato l’ex giudice federale Niklaus Oberholzer di condurre un’indagine per stabilire la verità. L’ex giudice federale dovrà presentare un rapporto entro la fine di giugno. La seconda inchiesta ha lo stesso obiettivo e viene condotta dalla delegazione delle commissioni della gestione delle due Camere. La delegazione è presieduta dal consigliere nazionale zurighese Alfred Heer dell’UDC. Dal canto suo, il gruppo parlamentare socialista ha chiesto l’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta (CPI). La decisione in merito verrà presa dalle due Camere durante la sessione primaverile che comincia il prossimo 2 marzo. La CPI avrebbe più risorse a

disposizione della delegazione delle commissioni della gestione, ed anche più possibilità d’interrogare le persone che hanno avuto conoscenza del modo di agire della Crypto AG. Se verrà istituita, tutte le altre inchieste verranno bloccate e sarà la quinta volta che le Camere federali imboccheranno questa strada. L’ultima CPI risale al 1995 e venne nominata per chiarire i grossi problemi che incontrava la cassa pensione federale a livello direzionale ed organizzativo, nonché nei settori dell’informatica e delle finanze. L’inchiesta affidata alla delegazione delle commissioni della gestione o ad un CPI avrà il non facile compito di chiarire una pagina buia del nostro passato, in un settore, quello dei servizi segreti che, per definizione, è difficile penetrare. Bisognerà delucidare il ruolo di alcune autorità federali e di singole persone, nonché le responsabilità, le negligenze e le possibili complicità. È in gioco un’immagine che ci è tanto cara, quella di un paese che agisce nel rispetto dei principi e delle regole che ha sottoscritto e che non accetta le situazioni dove questi principi e queste regole vengono infranti.


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Politica e Economia

Come ai tempi di Stalin

Russia Sette giovani messi a processo a Mosca, dopo essere stati torturati in carcere, con l’accusa di aver voluto

scatenare una rivoluzione – Ma la società civile si ribella e scende in strada a protestare

Anna Zafesova Mosca non è più abituata alle code da decenni. E una coda davanti alla sede dei servizi segreti, l’Fsb, l’ex Kgb, non si era mai vista: in genere, i pedoni cercano di non avvicinarsi all’enorme edificio in piazza Lubjanka. Il 14 febbraio scorso però, la coda girava l’angolo: invece di festeggiare San Valentino, centinaia di persone si erano invece messe in fila alla sede dell’Fsb per piazzarsi a turno davanti con un manifesto un mano, in una serie di picchetti individuali, l’unica forma di manifestazione spontanea concessa dalla legge russa. C’erano attivisti, artisti, intellettuali, ma soprattutto giovani, che a turno esponevano per qualche minuto, in silenzio, un manifesto che diceva, con diverse variazioni: «No alle torture! Libertà ai ragazzi di Set’».

Le torture della polizia e dei servizi sono prassi comune in Russia, ma mai erano state denunciate pubblicamente in un’aula di tribunale Mentre Vladimir Putin è impegnato nell’organizzazione del «voto plebiscitario», come lo chiama, per approvare la sua riforma costituzionale, la condanna ai sette ragazzi accusati di aver fondato l’organizzazione terroristica Set’ per uccidere il presidente e provocare la rivolta armata ha fatto esplodere una protesta che mostra come la Russia sia sempre meno compatta e unanime. Il caso di Set’ – che in russo vuol dire «Rete» – è iniziato come uno dei numerosi episodi di eccesso di zelo dell’Fsb, nella regione di Penza, 700 km a sud-est di Mosca, diventando un processo seguito a livello nazionale. Per l’assurdità dell’accusa – secondo l’Fsb, undici ragazzi dai 23 ai 31 anni stavano «pianificando di pianificare» (così recita l’atto d’accusa) una rivoluzione in Russia, con atti terroristici durante i Mondiali di calcio del 2018 e assalti ai magazzini militari e alle sedi del partito putiniano Russia Unita. Ma soprattutto perché, per la prima volta, nell’aula sono state esplicitamente denunciate – e ignorate

dai giudici – le torture sistematiche degli imputati. L’indagine sulla «Rete» ha toni kafkiani che fanno apparire i famigerati processi ai nemici di Stalin un modello di giurisprudenza. Gli imputati non si conoscevano nemmeno tra loro (tranne due, che però non si frequentavano). Gli inquirenti non hanno prodotto alcuna prova delle loro intenzioni, non un fatto avvenuto, non una vittima, non un’arma (tranne un fucile da caccia regolarmente registrato e un secchio di polvere di alluminio). Tutta l’accusa si basa sulle testimonianze di un altro imputato, che si è dichiarato colpevole e che una commissione indipendente di osservatori che l’ha visitato in carcere ha descritto pieno di segni di percosse e bruciature, e su una serie di testimoni segreti che avevano agito come provocatori su incarico dell’Fsb (e che sono, a quanto pare, legati ai circoli neonazi di Penza). Il resto è una surreale collezione di «prove» indiziarie, come il fatto che alcuni imputati leggevano Marx e Kropotkin (i cui libri sono stati sequestrati e distrutti in quanto «strumento per commettere il reato»). L’accusa ha insistito molto sul fatto che alcuni degli imputati giocavano a strikeball e organizzavano trekking nei boschi, un «modo illegale di imparare a sopravvivere e dare soccorso nella foresta». Le perizie indipendenti richieste dalla difesa hanno dimostrato manipolazioni con i computer degli imputati (con l’inserimento di improbabili «statuti» e «piani» dell’inesistente organizzazione terroristica), e sulla pistola «rinvenuta» in casa di uno dei ragazzi non ci sono neppure le sue impronte. Per ovviare all’inconsistenza dell’accusa, gli imputati sono stati sottoposti a torture. Dmitrij Pchelinzev, 27 anni, istruttore di tiro, condannato a 18 anni, ha raccontato di essere stato torturato con la corrente elettrica, mentre un agente gli schiacciava i genitali: «La sensazione era di venire scuoiato vivo. La bocca era piena di sangue, i denti si sbriciolavano per come li stringevo per il dolore». Lo hanno minacciato di stuprare sua moglie. Ha confessato tutto, per poi ritrattare in aula e denunciare le torture. La stessa cosa l’ha fatta Ilja Shakurskij, 23 anni, studente di fisica, condannato a 16 anni: «Mi hanno spogliato fino alle mutande, legato le mani, infilato un calzino in bocca.

Un attivista manifesta davanti alla sede dell’ex KGB contro le torture e il processo a carico del gruppo di giovani. (Keystone)

Hanno legato cavi elettrici ai miei alluci. Mi hanno attaccato alla corrente per cinque volte. Il dolore era talmente insopportabile che continuavo a cadere. Ho detto tutto quello che volevano». «Mi hanno attaccato i cavi ai pollici e hanno fatto la prova. Ho urlato: era come aveva raccontato Pchelinzev, mi sentivo scuoiato», ha denunciato Arman Sagynbaev, studente di musica, 27 anni, condannato a 6 anni. Anche i testimoni d’accusa hanno ritrattato in aula la loro deposizione, denunciando percosse e minacce. Le torture della polizia e dei servizi sono una prassi comune in Russia, come denunciato da diversi organismi internazionali. Ma mai prima del caso della «Rete» le torture erano state denunciate così esplicitamente e dettagliatamente nell’aula di un tribunale. Senza nessuna conseguenza. Dal 2008 i casi di terrorismo sono stati tolti alle giurie popolari, e i giudici non sfidano mai i servizi segreti. La verifica ordinata dalla magistratura ha stabilito che le scottature lasciate dai cavi elettrici sui detenuti erano «punture di cimici», e l’interrogazione sulle torture portata dai membri del Consiglio per i diritti

umani presso la presidenza al Cremlino è rimasta senza risposta. Un caso che avrebbe dovuto sgretolarsi in tribunale, e che si è concluso con condanne pesantissime. Altri due imputati sono in attesa di giudizio a Pietroburgo. E la Russia ha nuovi eroi: Pchelinzev, Shakurskij, Vasilij Kuksov, che si presenta in aula con la mascherina perché in prigione ha contratto la tubercolosi in forma acuta. Sfoggiano cicatrici, sorridono mostrando i denti rotti, scrivono poesie. Per loro si fanno raccolte fondi, manifestazioni e lettere aperte (l’ultima ha raccolto quasi 70 mila firme in pochi giorni). Per loro chiudono le librerie indipendenti, in un giorno di sciopero per protesta contro il «reato di lettura». Per loro si cantano canzoni: quella del gruppo punk Pornofilmy, «Tutto questo passerà», che racconta «gli onesti ragazzi con la busta bagnata sulla testa e i cavi elettrici sulle mani, la mia Russia è in galera», è ormai un inno che si sente anche per strada. Perché questi bravi ragazzi di provincia sono l’altra Russia, non quella mostrata degli attori, sportivi, deputati, sacerdoti e cosmonauti che in TV lodano la nuova Costituzione putiniana, ancora

non scritta ma già di fatto approvata (il «plebiscito» voluto dal presidente avverrà soltanto dopo l’entrata in vigore). Oltre a un processo assurdo, i ragazzi della «Rete» hanno un’altra cosa in comune: erano tutti attivisti. Vegetariani e ambientalisti, organizzavano raccolte di indumenti per i senza tetto, mercatini di beneficenza per i poveri, facevano volontariato nei canili e campagne contro l’inquinamento dei fiumi. Non militavano in nessun partito, vagamente anarchici o genericamente di sinistra, e tutti convinti antifascisti, quella nuova e inedita generazione di russi per la quale l’impegno individuale è un diritto e una libertà. I dissidenti russi 2.0 non sfidano il regime, ma già il fatto che avevano osato organizzare o partecipare a iniziative alternative a quelle delle autorità li rende «nemici», come gridavano a loro gli agenti dell’Fsb che li torturavano. In TV si discute di rendere norme costituzionali il matrimonio solo tra uomo e donna, la supremazia della cultura russa e lo status di potenza nucleare. Sui social, l’hashtag #siamotuttiinRete è tra i più seguiti, e i moscoviti si mettono in coda per protestare davanti alla Lubianka. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 febbraio 2020 • N. 09

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Politica e Economia

Corona, l’ultimo di una serie

Epidemie La diffusione del virus proveniente dalla Cina ripropone un incubo che attraversa la storia dell’umanità,

un incubo che proprio come gli agenti patogeni non conosce frontiere

Alfredo Venturi Grandi epidemie hanno ripetutamente colpito il mondo fin dai tempi più antichi, da sempre hanno diffuso morte, terrore, panico, senso di frustrazione e d’impotenza. Spesso hanno influito pesantemente sulla demografia spopolando vasti territori. Anche se la cooperazione sanitaria internazionale potrebbe e dovrebbe essere meglio coordinata, oggi siamo bene attrezzati per affrontare un’epidemia come l’attuale. Ma il vantaggio offerto dai progressi della medicina è parzialmente neutralizzato dal fatto che rispetto al passato la diffusione del contagio è infinitamente più rapida. Nel mondo globalizzato dalle frontiere aperte e dai trasporti veloci è difficile circoscrivere l’epidemia, che dunque allargandosi all’intera terra abitata tende a connotarsi come pandemia. Nel caso che domina le cronache di questi giorni ha complicato l’approccio il tentativo iniziale, da parte delle autorità cinesi non proprio inclini alla trasparenza, di tenere nascosto il fenomeno. E così questa emergenza, mentre si ripercuote negativamente sulle attività produttive e sugli scambi commerciali, dunque sulle economie strettamente correlate della nostra epoca, suscita inquietudini e paure tipiche di tempi lontani. In questa parte di mondo influenzata dalle scritture bibliche, proprio nel Libro si radica il mito della pestilenza fatale e devastante. Uno dei quattro cavalieri dell’Apocalisse monta un cavallo verdastro, un colore indefinibile che allude al pallore della malattia e richiama la sua funzione: mentre gli altri cavalieri impersonano la conquista, la violenza e la carestia, questo impugna l’arma letale della pestilenza. È il mezzo con cui contribuisce all’azione devastante assegnata a queste terrorizzanti figure simboliche: spargere la morte su larga scala, infliggere il grande castigo divino a un’umanità corrotta, deviata, satanica. Su questa visione, oltre che sull’oggettiva sostanza dei fenomeni, si fonda storicamente il timor panico per le grandi epidemie, del resto comune a tutte le culture. È comune anche l’interesse letterario per questi sconvolgimenti periodici, l’epidemia come nemesi, come flagello mortale che si abbatte sugli uomini, incontrollato e incontrollabile. Il quarto cavaliere dell’Apocalisse procede accanto al secondo, quello che semina la violenza della guerra. Infatti le truppe in movimento spesso veicolano il morbo. «Per tutta... la striscia di territorio percorsa dall’esercito, s’era trovato qualche cadavere nelle case, qualcheduno sulla strada. Poco dopo, in questo e in quel paese, cominciarono ad ammalarsi, a morire, persone, famiglie, di mali violenti, strani, con segni sconosciuti alla più parte de’ viventi». Sono le parole con cui Alessandro Manzoni, nei Promessi Sposi, introduce il tremendo flagello della peste bubbonica che fra il 1630 e il ’31 imperversò nell’Italia settentrionale uccidendo più di un quarto della popolazione. Man-

I quattro cavalieri dell’Apocalisse, in un’incisione di Albrecht Durer, del 1498: due portano la guerra, uno la carestia e uno le pestilenze. (Keystone)

zoni si sofferma su Milano, dove morirono 64mila abitanti su 250mila. Si era nel pieno della guerra dei trent’anni che nel suo capitolo italiano, la guerra del Monferrato, vide calare dalla Germania le truppe imperiali al comando di Albrecht von Wallenstein. Furono proprio loro, in particolare le bande mercenarie dei Landsknechte, a portare il contagio. In un’attenta ricostruzione basata su fonti contemporanee, Manzoni ci parla degli untori, che essendo sopravvissuti al morbo diventandone immuni lo diffondevano a scopo di rapina facendo razzie nelle case delle vittime più facoltose. Ci parla dei monatti, che protetti dalla stessa immunità vera o presunta, e spesso animati da un’analoga motivazione predatoria, sgombravano la città dai cadaveri che prelevavano per strada e nelle case. Ci racconta che all’inizio la gente non voleva credere a quel disastro, chiudeva gli occhi e preferiva illudersi, tanto che le autorità sanitarie ricorsero a un drammatico espedien-

te. «Era... morta di peste, tra gli altri, un’intera famiglia. Nell’ora del maggior concorso, in mezzo alle carrozze, i cadaveri di quella famiglia furono... condotti al cimitero... sur un carro, ignudi, affinché la folla potesse vedere in essi il marchio manifesto della pestilenza...» Cioè i bubboni purulenti, il sintomo più appariscente. Finalmente i milanesi, inorriditi da quello spettacolo, si persuasero che la faccenda era seria. E del resto la mortalità raggiunse presto livelli che non lasciavano adito a dubbi. La letteratura europea registra altri incontri con la pestilenza. Fra i più celebri quello di Giovanni Boccaccio che individuò proprio nella peste nera, la cruenta epidemia che fra il 1348 e il ’49 distrusse un terzo della popolazione europea uccidendo almeno venti milioni di persone, l’occasione per cercare un antidoto esistenziale alla morte e alle avversità. La cupa tragedia sconvolgeva Firenze, dove non soltanto la gente moriva ma si dissolveva ogni

vincolo familiare e morale: «era con sì fatto spavento questa tribulazione entrata ne’ petti degli uomini e delle donne, che l’un fratello l’altro abbandonava e il zio il nipote e la sorella il fratello e spesse volte la donna il suo marito, e... i padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero...» Di fronte a questa realtà Boccaccio immaginò che una brigata di giovani, tre uomini e sette donne, si riunisse in un luogo idilliaco, a distanza di sicurezza dalla città contaminata, e sconfiggesse la paura con canti e balli, e soprattutto raccontandosi a turno le novelle del Decameron, ricche di umorismo e sensualità. Intendeva esaltare la forza vitale che attraverso l’esuberanza giovanile ha ragione del male. Altra pestilenza celebrata dalla letteratura quella inglese del 1665-66, la Great Plague culminata proprio nell’anno micidiale che vide Londra, nel settembre, rasa al suolo dal Great Fire, un incendio che distrusse l’ottanta per cento della città propagandosi rapidamente a causa del legname, che fino

ad allora era stato il materiale prevalente di costruzione. Per limitare i contatti e dunque il contagio s’impose la chiusura di ogni luogo di riunione a cominciare dalle scuole. Come l’università di Cambridge, dove uno studente ventitreenne di nome Isaac Newton dovette come gli altri abbandonare le aule. Il giovane Newton si rifugiò nella casa di famiglia nel Lincolnshire e vi trascorse due anni al riparo dall’epidemia. Ma non stette certo con le mani in mano, anzi approfittò della forzata solitudine per concentrarsi sugli studi, e mentre l’Inghilterra si confrontava con quei catastrofici eventi portò avanti le sue ricerche scientifiche ponendo le basi dei Principia Mathematica. Intanto a Londra proprio il fuoco, facendo strage dei ratti portatori delle pulci responsabili della peste, finalmente poneva termine all’epidemia che era durata un anno e mezzo. Ma non prima che nella metropoli fossero morte centomila persone, un quarto degli abitanti. Quel 1666 era davvero un anno particolare, e non soltanto perché aggiungeva un millennio al 666, il diabolico «numero della bestia», o perché nella formulazione romana, MDCLXVI, conteneva in ordine decrescente tutte le lettere che in latino designano i numeri. Lo era soprattutto perché quell’anno la vecchia Inghilterra seppe sopravvivere a una serie impressionante di sfide: il fuoco, la peste, la seconda delle guerre anglo-olandesi per il controllo dei commerci marittimi. Tanto che John Dryden poté intitolare Annus Mirabilis l’opera in versi con cui raccontò quelle vicende. Lo fece con accenti appassionati che ancora oggi colpiscono profondamente, come la straziante immagine di quel neonato che nella città devastata cerca il seno della madre esausta ma non trova il latte, mentre una lacrima cade su di lui: An infant waking to the paps would press / and meets, instead of milk, a falling tear. Un mare di lacrime fece versare molto più di recente una tremenda epidemia, anzi pandemia perché coinvolse il mondo intero, forse la più cruenta della storia, l’influenza spagnola che imperversò fra il 1918 e il ’20. Nacque negli ultimi mesi di guerra in un sovraffollato ospedale militare in Francia dal quale si diffuse rapidamente in Europa e altrove. Nella fase iniziale la stampa dei paesi belligeranti, sottoposta a censura, ignorò o quasi l’evento alterando la percezione del fenomeno e compromettendo l’efficacia delle contromisure. Soltanto nella Spagna neutrale i giornali ne parlarono fin dall’inizio, per questo fu battezzata spagnola. Arrivò a colpire in tutti i continenti mezzo miliardo di persone, con una mortalità non molto inferiore al dieci per cento. Decine di milioni di vittime dunque, proprio all’indomani della grande guerra che aveva infierito sulle popolazioni di tanti paesi. È passato un secolo e altre epidemie più o meno gravi si sono succedute, fino a quella di questi giorni che in una nuova forma risveglia una paura antica. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 febbraio 2020 • N. 09

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Politica e Economia

Un milione di senza voce

Reportage Dal 2017 i Rohingya, minoranza musulmana del Myanmar, si sono rifugiati nel sud-est

del Bangladesh, dove vivono in drammatiche condizioni di precarietà

Luigi Baldelli A Cox’s Bazar, nel sud est del Bangladesh, si trova il più grande campo profughi del mondo. Qui hanno trovato rifugio circa un milione di profughi Rohingya, la minoranza musulmana del Myanmar, fuggita dalle persecuzioni e violenze dallo stato di Rakhine, a maggioranza buddista, nell’estate del 2017. Le stesse Nazioni Unite hanno definito come genocidio le violenze sistematiche dell’esercito birmano contro i Rohingya. Cox’s Bazar, per la gente del Bangladesh, è una delle zone preferite per le vacanze. Qui si trova la spiaggia più lunga del mondo, 120 chilometri, e nella città di Cox’s Bazar gli alberghi sono numerosi, pronti ad accogliere i numerosi turisti interni. Se ci si allontana dalle spiagge bianche e ci si inoltra nelle colline, a circa un’ora di auto, si entra in una miriade di ghetti, capanne, baracche, che danno vita all’immenso campo profughi. La comunità internazionale sostiene che i Rohingya devono tornare a casa, nelle loro terre nel Myanmar. Ma devono farlo in sicurezza. E questa non può essere garantita: la paura di altri attacchi, morti, violenze è forte. Il ritorno è estremamente difficile e la situazione rischia di esplodere da un giorno all’altro. Qualcuno comunque dovrà trovare una soluzione definitiva per questo popolo di un milione di persone, apolidi in Bangladesh, minoranza in pericolo nella loro nazione, privati della cittadinanza birmana già dal 1982. Da allora, hanno sempre avuto meno diritti e sono sempre di più stati oggetto di violenza. Fino al genocidio dell’estate del 2017, costretti all’esodo in Bangladesh, al di là di un fiume che

Alcuni hanno trovato lavoro come pescatori sulle barche bengalesi. (Luigi Baldelli)

li separa dalla loro nazione. La loro patria è esattamente all’altro lato del corso d’acqua: si vedono le sponde, i campi, le case. Per molti rifugiati la vita a Cox’s Bazar è migliore di quella che vivevano in Myanmar e la paura del governo del Bangladesh è tale che difficilmente riusciranno a farli rimpatriare. Anche se tutti i profughi sognano di tornare a coltivare le loro terre, ma vogliono sicurezza per le loro vite e i loro diritti. Intanto il campo si organizza, vengono create nuove strade, tirate su nuove baracche con tetti e pareti di bambù.

L’intera galleria fotografica è pubblicata sul sito www.azione.ch. (Luigi Baldelli)

Ma le condizioni all’interno di Cox’s Bazar rimangono terribili. Le colline che una volta erano piene di alberi adesso sono spoglie, perché sono stati tagliati ed usati come legna da ardere. Le malattie viaggiano a ritmo sostenuto, così come la puzza di fogna che accompagna la vita di tutti i giorni. E poi se durante il giorno, quando è permesso agli stranieri e alle ONG internazionali di entrare nel campo, la vita sembra scorrere tranquilla, la notte, invece, per i profughi arriva la paura: criminali si muovono tra i vicoli, spie controllano i movimenti della gente. Il traffico di anfetamine ed esseri umani, che arrivano dal Myanmar, viaggia a pieno regime. A questo si aggiunge la lotta per il controllo politico, economico e sociale del campo. Si sussurra che il controllo dell’immenso campo di Cox’s Bazar e del suo milione di rifugiati sia in mano all’ARSA, Arakan Rohingya Salvation Army, il gruppo militare che ha attaccato le forze di sicurezza di Myanmar nel 2017 e che ha scatenato le rappresaglie e l’esodo. Una donna, che per motivi di sicurezza non vuole dire il suo nome, racconta di quando è dovuta scappare dal suo villaggio: «I militari sono arrivati, erano tanti, impugnavano le armi. Hanno iniziato a gridare che cercavano i militanti dell’ARSA e ci intimavano di

andare via. Avevamo paura, eravamo terrorizzati, non sapevamo che fare» racconta, mentre è seduta sul pavimento di terra battuta della sua baracca. «Allora hanno iniziato ad incendiare le case e hanno sparato agli uomini che cercavano di opporsi. Anche mio marito è morto. Ucciso per difendermi». I suoi occhi si abbassano e il suo silenzio racconta molto più delle sue parole le violenze successe in seguito. Poco più avanti, un’altra donna, sull’uscio della sua baracca, mi invita ad entrare. Ha in braccio un bambino di un anno, mentre il fratello gemello, è sdraiato in una culla, con il respiro affannato, gli occhi tristi: «Ha la febbre alta, da alcuni giorni» mi dice mentre lo guarda. «Mio marito è andato a cercare le medicine. Non si può continuare a vivere così. Non abbiamo niente e i nostri figli rischiano di morire per una semplice malattia». Le baracche sono tutte spoglie, qualche pentola per cucinare, e qualche amaca. Alcuni vestiti appesi alle pareti. Camminando nei vicoli di Cox’s Bazar, molte donne girano velate, lasciando scoperti solo gli occhi. «Quelli dell’ARSA stanno cercando di imporre sempre di più l’ideologia conservatrice, il codice della Shari’a», dice Kyaw che lavora per una organizzazione internazionale e mi accompagna tra i dedali del

campo. È vero, sono aumentate le madrasa, le scuole coraniche, ma «la maggior parte sono scuole dove si insegna il dialogo, anche se qualcuno sta cercando di portare la jihad fino qui all’interno». Per molti profughi il problema principale rimane come sopravvivere e come cercare di costruirsi una vita in questa situazione precaria. Alcuni trovano lavoro nelle fornaci di mattoni o lungo la costa, come pescatori sulle barche dei bengalesi. Questo ha portato a tensioni con la popolazione locale. In un villaggio di pescatori, Mahmood mi racconta che stanno portando via lavoro ai locali, perché si fanno pagare di meno. Non basta l’aiuto delle organizzazioni internazionali. Bisogna comprare nelle bancarelle dei mercati, che sono sorti un po’ ovunque. È una lotta quotidiana per la sopravvivenza. Il silenzio sul genocidio, nel dicembre 2019 davanti alla corte dell’Aja, della premio Nobel Aung San Suu Kyi, simbolo della lotta alla dittatura militare birmana e oggi Consigliere di Stato, è stato interpretato dai Rohingya come un altro tradimento. Inferno e paradiso sono a pochi chilometri di distanza: i profughi Rohingya con la loro disperazione e le spiagge bianche con i turisti bengalesi che si divertono sulle moto d’acqua. Sono due mondi, quelli di Cox’s Bazar, che non si incontreranno mai. Annuncio pubblicitario


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 febbraio 2020 • N. 09

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Conseguenze della frenata demografica I lettori di questa rubrica avranno già avvertito che in fatto di sviluppo l’economia ticinese sembra essere giunta a una svolta, a metà della decade che si è appena conclusa. Far risalire l’inizio della decadenza alla riuscita della votazione popolare contro l’immigrazione di massa del febbraio 2014 è, per il momento ipotetico, come ipotetico è attribuire la frenata in corso all’abbandono del cambio minimo con l’euro, da parte della BNS, nel gennaio del

2015. Con questo vogliamo affermare che i determinanti del colpo di freno possono essere diversi. Non solo, ma le loro conseguenze negative sul tasso di crescita possono cumularsi, senza che si possa puntare l’indice su una sola causa. Sappiamo comunque che per l’economia ticinese (e anche per quella nazionale) l’evoluzione degli investimenti ha sempre avuto un impatto significativo sull’andamento congiunturale. Se il tasso di crescita degli in-

vestimenti è alto (diciamo superiore al 3%), anche l’economia cresce a un tasso sostenuto (superiore, nell’esperienza dell’ultima decade, al 2%). L’economia ristagna invece se gli investimenti sono bassi. L’aggregato degli investimenti di un’economia è formato da due grosse componenti. Da un lato dagli investimenti delle aziende in macchinari e altri processi che contribuiscono a razionalizzare la produzione di beni e servizi e a far aumentare la produttività. L’altra componente importante è rappresentata dagli investimenti nelle costruzioni, del genio civile come dell’edilizia. Da almeno cinquant’anni sappiamo che nelle condizioni particolari nelle quali opera l’economia ticinese la componente degli investimenti nelle costruzioni è quella che maggiormente conta. Sappiamo altresì che nel complesso di questi investimenti il dato che più fluttua è quello relativo agli investimenti nell’edilizia abitativa. E quindi, tirando le conclusioni, possiamo affermare che, in Ticino, se gli investimenti nell’edilizia abitativa calano, anche il ritmo di crescita complessivo dell’economia rallenterà. Tra il 1980 e la fine del secolo questa relazione

di causa-effetto si vedeva meno perché la congiuntura ticinese era influenzata anche dalla forte espansione del settore bancario. Nel corso degli ultimi anni, invece, con il ridimensionamento delle attività di questo settore, l’impatto degli investimenti nelle costruzioni e, in particolare, nell’edilizia abitativa, è tornato a farsi sentire molto. Per verificare la bontà di questo ragionamento dovremmo poter riferirci ai dati sugli investimenti nelle costruzioni. Ora, al momento in cui è stato scritto questo articolo, sia l’annuario statistico cantonale, sia il sito dell’Ufficio cantonale di statistica non offrivano che due tabelle sulle spese nelle costruzioni. La prima che dava l’evoluzione nel lungo termine si arrestava al 2012. La seconda che informava sull’evoluzione anno per anno, si arrestava al 2017. Abbiamo così potuto ricostruire l’evoluzione degli investimenti nella costruzione di abitazioni (variazione percentuale annuale) solo per gli anni dal 2013 al 2017. In Svizzera il determinante principale degli investimenti nella costruzione di abitazione è dato dall’aumento delle economie domestiche. In Cantoni nei quali la residenza secondaria non è

importante esiste praticamente una correlazione molto alta tra la variazione percentuale annuale degli investimenti nella costruzione di abitazioni e la variazione percentuale annuale nell’effettivo delle economie domestiche. Come dimostra anche il grafico a lato, le variazioni annuali delle due variabili seguono la medesima tendenza. Come si può constatare, l’evoluzione degli investimenti è molto sensibile all’evoluzione delle economie domestiche (e quindi della popolazione e quindi del saldo migratorio). Una diminuzione della popolazione, dovuta al saldo negativo del movimento naturale e del movimento migratorio, si ripercuote in una diminuzione delle economie domestiche e, purtroppo, anche in una diminuzione degli investimenti nella costruzione di abitazioni. E questo nonostante l’importanza che possono avere per il Ticino gli investimenti nella costruzione di residenze secondarie e gli investimenti in abitazioni che possono avere altri scopi. Non occorre insistere infine per dimostrare che se gli investimenti nell’edilizia rallentano, anche il passo dell’intera economia ticinese rallenterà.

Londra sarebbe rimasta nell’Ue; ma il mandato che la maggioranza relativa degli elettori ha assegnato a Johnson con le elezioni del 12 dicembre scorso è chiaro. Molto dipenderà da quale accordo il premier negozierà con Bruxelles (e con Berlino), sempre che riesca a farlo. Londra diventerà un grande paradiso fiscale? O rimarrà in qualche modo agganciata all’area di libero scambio e di regole comuni – per quanto insufficienti – definita dall’egemonia tedesca? Johnson riuscirà a tenere unito il proprio Paese? O vedremo la riunificazione dell’Irlanda e la secessione della Scozia? Forse, più che chiederci cosa accadrà ai britannici, dovremmo chiederci cosa attende coloro che restano. L’asse centrista che governa Germa-

nia e Francia, e quindi l’Unione, ha energia per costruire gli Stati Uniti d’Europa, con un presidente eletto dal popolo? O si continuerà a vivacchiare con una burocrazia sempre più invisa agli elettori? Questa è la vera grande domanda. Per avere una risposta dovremo attendere di capire quale sarà la successione ad Angela Merkel. La Cancelliera non se la passa bene, la sua erede designata Annegret Kramp-Karrenbauer si è dimessa, la sua diga contro l’estrema destra vacilla. Eppure dietro la scelta della Brexit c’è proprio l’insofferenza dell’inglese medio verso la Germania, percepita come la padrona d’Europa. Perché, si chiede l’elettore di Johnson, obbedire a un Paese sconfitto per due volte in due sanguinose guerre mondiali?

Anche da questa domanda nasce la secessione dall’Europa. Senza nasconderci che il problema dell’immigrazione è molto sentito. È vero che nel Regno Unito la disoccupazione è molto bassa, attorno al 4 per cento di coloro che cercano lavoro. Ma tanti giovani il lavoro non lo cercano neppure. Gli imprenditori preferiscono assumere stranieri disposti a lavorare di più per meno salario. E infatti gli imprenditori non sono affatto entusiasti delle proposte di Johnson. Che non dispiacciono agli inglesi poveri del Nord del Paese e dei suburbi di Londra, percepita come una città sempre meno britannica e sempre più (troppo per qualcuno) multiculturale. La vera capitale del mondo globale. Ma per quanto tempo ancora?

suscitato alcuna ripercussione nei paesi interessati e potenzialmente danneggiati dalle attività di spionaggio, forse per colpa dell’imbarazzo causato dalle rivelazioni mediatiche. Al contrario, da noi la sempre più decisa ministra della difesa Viola Amherd già dallo scorso novembre è all’opera sia per informare i colleghi di Consiglio federale, ma soprattutto per bloccare l’azienda zughese e ordinare un’inchiesta esterna all’ex giudice federale Niklaus Oberholzer. Tempismo e decisionalità ineccepibili che attenuano in parte quanto scrive il «Washington Post», cioè che da decenni i «funzionari svizzeri» fossero a conoscenza del legame tra la Crypto e i servizi di spionaggio americani e tedeschi. Sono accuse che le inchieste dovranno appurare, ma che difficilmente potranno essere chiarite con certezza ed evitando speculazioni politiche. Lo suggeriscono sia il lungo lasso di tempo trascorso dai fatti sino alla scoperta dei reati e le difficoltà (anche quelle personali, talvolta intime) a valutare vicende

gravate dalle paure della guerra fredda e dalle minacce del terrorismo internazionale. Resta poi sempre possibile che i nostri ex-consiglieri federali o alti funzionari, poiché in buona sostanza erano vicende legate a operazioni di intelligence, veramente non si siano accorti di nulla oppure abbiamo preferito tacere o siano stati spinti a chiudere gli occhi dal timore che venissero a galla altre verità. Ma pur prospettando che alla fine a prevalere possa essere il peso dei dubbi, è giusto ora cercare riscontri e prove, se non altro per capire come mai (e potrebbe essere questa la colpa più grave dell’intera vicenda) la Crypto abbia potuto agire, vendere e vendersi sempre indisturbata. E qui ritroviamo la validità del brano di Taleb citato all’inizio: «I governi sono bravissimi a raccontare ciò che hanno fatto, ma non ciò che non hanno fatto». Forse non figurerà sulle copertine dei rapporti degli inquirenti, ma di sicuro aleggerà in tutte le pagine delle inchieste. E non è frase criptica.

In&outlet di Aldo Cazzullo Le incognite della Brexit Quindi ci siamo. Il Regno Unito è fuori dall’Europa, e da fine anno lo sarà a tutti gli effetti. Boris Johnson ha fatto conoscere il suo piano per regolare l’immigrazione. Gli europei, fino a oggi liberi di circolare, saranno trattati come i sudditi del Commonwealth e qualsiasi altro straniero. Niente visto per chi non sa parlare inglese e non è sufficientemente qualificato. Corsia preferenziale per scienziati, ingegneri e accademici. Un sistema a punti che valuterà le competenze e darà la precedenza a chi arrivi con un’offerta di lavoro o accademica. Il modello è quello australiano. Ed è un modello severo. I punti saranno attribuiti (10 o 20 per voce) soltanto a chi avrà già in mano offerte di lavoro da 25 mila sterline

l’anno in su, titoli di studio specifici (come Phd), qualificazione per settori con carenza occupazionale nel Regno Unito e conoscenza dell’inglese. E chi va a Londra proprio per impararlo? Non potrà più arrivare. Non capisco sinceramente come qualche italiano con un minimo di amor patrio possa esserne entusiasta, considerando le centinaia di migliaia di connazionali che lavorano oltre Manica. In ogni caso, il Regno Unito cammina adesso in una terra sconosciuta. Finora è stato nell’Unione europea tenendo un piede fuori, senza aderire né alla moneta unica né a Schengen, usufruendo dei vantaggi ed evitando qualche svantaggio. Il futuro è una grande incognita. Emmanuel Macron aveva previsto che alla fine

Zig-Zag di Ovidio Biffi Cimitero di conseguenze invisibili Nassim N. Taleb ha scritto, credo nel suo Il cigno nero, questa preziosa asserzione: «I governi sono bravissimi a raccontare ciò che hanno fatto, ma non ciò che non hanno fatto. Si dedicano a una sorta di falsa “filantropia”, un’attività in cui si aiuta il prossimo in modo visibile e sensazionale senza prendere in considerazione il cimitero delle conseguenze invisibili». È un giudizio facilmente adattabile alla vicenda Crypto, su cui avrete probabilmente già letto il poco che si è saputo e, come me, ignorate il molto che tutti vorrebbero riuscire a sapere. Infatti dopo le rivelazioni dell’inchiesta giornalistica e in attesa di quella del governo federale, e probabilmente di una delle Camere, siamo veramente al cospetto di un «cimitero delle conseguenze invisibili»: quelle che per anni Stati Uniti e Germania hanno potuto architettare usando la neutrale Svizzera (arriveremo mai a dire: «Hey, caro presidente Trump, che cifra mettiamo sulla richiesta di indennizzo?»). Per questo

a preoccuparci ora non è tanto quel che la Crypto e i suoi «angeli custodi» hanno illegalmente compiuto in altri paesi, ma piuttosto quel che le nostre autorità non hanno scoperto o non hanno mai rivelato. E che di conseguenza gli interrogativi dell’opinione pubblica, oltre che della classe politica, riguardino soprattutto i pericoli di una perdita di immagine e di credibilità della nostra neutralità (si pensi solo al delicato ruolo di mediazione fra Iran e Stati Uniti, decantato come esempio degli sforzi della diplomazia). Merita rilievo, in merito a questa vicenda, quanto ha dichiarato l’ex magistrato e politico ticinese Dick Marty. Titolare in passato di numerosi incarichi a livello internazionale – fra i quali spicca l’indagine per conto del Consiglio d’Europa sulle prigioni segrete della CIA – in un’intervista pubblicata dal quotidiano ginevrino «Le Temps» Marti ha subito chiarito che le deduzioni da fare sono semplici: «O la Svizzera non sapeva nulla, o invece

era al corrente, il che mi sembra molto più probabile. In ogni caso, questo è un grave scandalo». E ha rincarato la dose precisando che a suo avviso la vicenda reca «un grave danno alla credibilità e all’affidabilità della Svizzera. Noi crediamo volentieri di essere migliori degli altri. Vogliamo essere paladini della neutralità e dei buoni uffici, ma in realtà pratichiamo il doppio gioco. La neutralità è una sorta di narrativa nazionale di cui ci vantiamo, ma che non corrisponde alla realtà». Giudizi severi che relegano in secondo piano fattori o contingenze attenuanti, del resto esclusi anche dagli editorialisti dei maggiori giornali confederati. Inutile quindi cercare di aggiungere fronzoli personali o illazioni che non servirebbero a mutare quanto appurato dal pool di giornalisti, capeggiati dal «Washington Post» e dalla televisione pubblica tedesca ZDF, e quanto sta emergendo dal dibattito mediatico avviato in Svizzera. C’è però da segnalare un paradosso: la vicenda della Crypto stranamente non ha


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Questo sciroppo dal sapore leggero può essere abbinato a tanti ingredienti freschi. Striscioline di verdura, frutta o erbe aromatiche gli conferiscono un gusto speciale e danno alla bibita un tocco di colore in più. La proporzione perfetta è una parte di sciroppo e sei d’acqua.

Consiglio 3

Degli stick di cetriolo tagliati nel senso della lunghezza non solo creano un effetto decorativo, ma possono anche essere usati per mescolare il drink. E delle fettine di limone messe nel bicchiere o disposte a ruota sul bordo fanno proprio una bella figura.

Azione 20X Punti Cumulus

Sul nuovo Sciroppo Zero Limone-Cetriolo

Foto e Styling Claudia Linsi

dal 25.02 al 09.03


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Cultura e Spettacoli Il re dei festival contro A Ginevra è andato in scena per la decima volta uno dei festival più anticonformisti e visionari del nostro Paese pagina 36

Eduardo al giorno d’oggi A Milano sul palco la verve di Carlo Cecchi in due atti unici di Eduardo De Filippo pagina 37

Tayou il camminatore Un incontro con l’artista africano Pascale Marthine Tayou, recentemente a Lugano pagina 38

Livio Bernasconi, installation view, 2020. (Courtesy Buchmann Galerie Agra/Lugano and the artist)

Tra le geometrie del colore Mostre La galleria Buchmann Lugano ospita le opere di Livio Bernasconi Alessia Brughera Un’inesausta riflessione sulle infinite possibilità della pittura. Così si potrebbe definire la ricerca di Livio Bernasconi, artista ticinese che da oltre cinquant’anni concepisce il quadro come territorio d’esplorazione delle relazioni tra i suoi elementi primari. Lavorando sulla disposizione di colori e di forme geometriche sulla superficie, Bernasconi dà vita a un linguaggio avulso da qualsivoglia riferimento esterno, presentando così la pittura nella sua essenza. L’obiettivo dichiarato, difatti, è quello di affrancarla dal legame con la realtà e da significati sottesi per renderla oggetto d’indagine di sé stessa. Questo focalizzarsi sui principi costitutivi della disciplina pittorica ben si coglie nelle opere raccolte nella mostra allestita presso la galleria Buchmann Lugano, una rassegna per cui l’artista ha selezionato alcuni dipinti sinora mai presentati al pubblico. Tele dall’accentuato cromatismo e dalla grande libertà compositiva, questi lavori realizzati perlopiù nell’ul-

timo decennio sono frutto di un percorso che Bernasconi inizia negli anni Cinquanta, periodo in cui frequenta l’Accademia di Belle Arti di Brera immergendosi nel fervido clima neoavanguardistico che caratterizza il capoluogo lombardo. È proprio nella Milano di metà Novecento che l’artista esordisce con opere figurative improntate a un realismo impegnato. Da fotografie che lui stesso scatta a pescatori, scali merci, sili e moli sul mare, Bernasconi estrapola i dettagli che maggiormente lo interessano dipingendoli poi sulla tela come una sorta di montaggio. Ne risultano lavori in cui già emerge quell’approccio analitico alla composizione che contraddistingue il suo modo di fare arte e che di lì a poco lo allontanerà definitivamente dal figurativismo. E difatti, nei primi anni Sessanta, Bernasconi incomincia il graduale abbandono della figura a favore di una pittura di stampo informale capace di interpretare meglio le sue intenzioni. Fondamentale poi è l’esperienza statunitense, che permette all’artista di contaminare il proprio bagaglio di

esperienze europee con le nuove tendenze americane. Chiamato nel 1964 a insegnare presso la Facoltà di Architettura della Washington University di St. Louis, Bernasconi entra in contatto con la Pop Art, con il Minimalismo, con la Color Field, e, ancor più, con l’Hard Edge Painting, movimento che nello stile fatto di nitide contrapposizioni tra diverse aree cromatiche richiamava e rielaborava le ricerche di maestri quali Malevich, Kandinskij, van Doesburg e Mondrian. Tutte correnti, queste, che il pittore ticinese aveva già avuto modo di conoscere e apprezzare alla Kunsthalle di Basilea, prima del soggiorno in America, cosicché, al suo arrivo Oltreoceano, le opere di artisti come Frank Stella o Ellsworth Kelly segnano la sua svolta decisiva verso l’astrattismo. A contribuire allo sviluppo di questo nuovo corso è anche l’impatto con la realtà americana stessa, un mondo fatto di metropoli invase da cartelloni pubblicitari e architetture imponenti. Bernasconi si trova davanti a scenari inediti per il suo sguardo europeo. I grandi spazi, le geometrie della città, le

mille luci e il turbinio di colori che paiono azzerare la tridimensionalità del paesaggio penetrano nel suo immaginario regalandogli nuovi stimoli. Al suo ritorno in patria, le suggestioni e gli impulsi raccolti negli Stati Uniti costituiscono per l’artista un nuovo punto di partenza. E difatti è da qui che prende avvio la sua lunga e tenace ricerca incentrata sull’interazione tra superficie, forma e pigmento. Il proposito, ancora oggi rimasto invariato dopo più di cinquant’anni, è quello di animare lo spazio pittorico attraverso elementi geometrici colorati che si depositano, tra calcolo e libertà, sulle campiture omogenee degli sfondi: il dipinto diventa pertanto un’area pervasa da una profonda energia generata dagli equilibri apparentemente instabili della struttura compositiva. Come accade anche nei lavori esposti a Lugano, il colore viene steso per mezzo di un rullo o di un grande pennello, in modo da renderlo uniforme e impersonale. Nascondere il tocco dell’artista vuol dire decretare il suo totale distacco emotivo dal manufatto,

ma rappresenta altresì per Bernasconi la salvaguardia della bellezza del colore stesso, come gli hanno insegnato i quadri di Henri Matisse. Partendo dall’idea di dipinto come una sorta di campo aperto a più interpretazioni, dalla metà degli anni Ottanta i titoli scelti dall’artista sono sempre composti dalla parola «immagine» seguita da un numero progressivo; un criterio, questo, che manifesta il suo procedere razionale e sistematico, finalizzato alla realizzazione di opere autosignificanti. Bernasconi crea così universi dal grande dinamismo cromatico e dalla vigorosa tensione formale, approdando a una dimensione estetica capace di rinnovare i fondamenti materiali della pittura. Dove e quando

Livio Bernasconi. Buchmann Lugano, Via della Posta 2, Lugano. Fino al 7 marzo 2020. Orari: da ma a ve 13.0018.00, sa 13.00-17.00. www.buchmanngalerie.com


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Per evitare giorni aridi

Poesia Il viaggio di Tommaso Giartosio alla scoperta del padre, ma anche di se stesso

Guido Monti Tommaso Giartosio è in libreria con la sua prima raccolta poetica dal titolo Come sarei felice. Storia con padre (Einaudi, pp. 140, euro 12) e sicuramente per forza di dettato, profondità linguistica, intuiamo di esser davanti a un autore che di là delle sue molteplici attività culturali, vorrei ricordare tra le altre la curatela di due scrittori sommi quali Christopher Isherwood e Nathaniel Hawthorne, lavora da tempo con umiltà e alacremente nell’officina del verso, affinandosi sempre più e offrendo ora una prova rilevante. Talune poesie del libro furono infatti pubblicate nel 1996 e poi ancora nel 2014 nella rivista «Nuovi Argomenti»; ora l’autore le ha immesse in un flusso più ampio, dando a esse un posizionamento dentro una scrittura che potremmo definire aperta, proprio perché il suo tempo poetico schiuso alla risonanza, ha un continuo punto di ripartenza e mai di fine.

Tommaso Giartosio sottolinea l’importanza di coltivare con tenacia l’educazione sentimentale Una raccolta dove l’autobiografismo non è cascame diaristico ma un potente strumento di interpretazione del reale che interroga il lettore e la sua intimità. Difatti sin dalle prime pagine, cammina nei versi la figura del padre, giovane ufficiale di marina al tempo della Seconda guerra mondiale ma non certo col passo marziale; costeggia invece le pieghe della vita con modi tutt’altro che austeri traversando le sue relazioni, anche più intime, col pudore della discrezione, quasi in punta di piedi: «La conversazione, la cena,

s’impuntava su un sostantivo. Con un respiro greve ti alzavi da tavola, scomparivi in salotto per l’abboccamento con la Treccani…». Giartosio quindi incide i gesti del padre dentro quelle verità che sole possiamo afferrare nei frammenti dei giorni. Quali giorni? Potremmo chiederci; ecco quelli che lampeggiano nel primo capitolo dal titolo Vivere, vengono dall’intensità della pura rammemorazione e poi miracolo subiscono in quelli successivi, Cristallizzarsi e Le notti Bianche, una curvatura inaspettata che imprime agli stessi una visione rafforzata, con l’aprirsi del tempo del sogno e degli spazi mortuari che si allungano dopo il decesso dell’ammiraglio. Memoria quindi non più solo rammemorante ma ricca di nuove aperture di senso: «Ora è di pietra il nodo della cravatta. / La camicia è perfetta da non stirarla più. / Il soffice della guancia non si affloscerà. / Diventa nudità il vestito, ritratto il viso. / …». E ancora nella dimensione onirica, libera, i vivi giocano con i morti e la forza dei corpi nella loro volatilità, è pregna di presentimento, tanto da esser questo tempo notturno e parallelo, quasi il tempio della verità che si sfarina talvolta in un urlo soffocato o nel gesto irreversibile che indica morte talvolta vita: «– Papà, com’è? – Ti sei / voltato piano a me / socchiudendo le ciglia: / – È il sonno. – E io sono / corso le mille miglia / per uscire dal sogno, / non essere tuo figlio». Giartosio ci parla dalla stanza onirica di una realtà che da il là a un dialogo fitto tra due individui che finalmente liberi, tutto si dicono e dove il padre come fiorito da un suo sé interno, lo ausculterà ed intenderà: «… / ...Sono qui, / mi dici poi. Rispondo: non è vero, / sei giù con gli altri, giù nel modo vero, / nel mondo bello, tocchi con la lingua / sul fondo del palato un mio capello». Quel padre che dentro la sua non lunga

Il poeta Tommaso Giartosio. (YouTube)

biografia, morirà difatti nel ’87, ha dovuto molto cambiare, con la stellina da marinaio a segnare sempre però il suo nord, la stellina dell’ortodossia militare a benedirlo già nei suoi primi anni di vita e poi a seguirlo nella guerra: «… / Non ricordi? La ricordo io per te, / quella stella cadente: nel ’20 / o ’22 sembrava rotolare / sulle sue cinque punte proprio fino a te, / all’alzo dei tuoi occhi. Era cucita / in fondo al solino dell’ordinanza / …», ecco ancora a illuminargli i valori fondativi della famiglia, del lavoro, dentro il boom economico; stellina che nel tempo sfuma in altra simbologia, si colora di anarchia a ricordare altro ordine di vita e appartenenza, altre latitudini da seguire. Infine «stellina nera tatuata sulla natica» di un corpo

libero di profanare ed esser profanato, lontano dai principi dell’oscura morale religiosa. Ma il libro sorprende per la capacità di saper evocare nella parte finale, anche altre figure e man mano che la figura del padre si rimpicciolisce nelle pagine, il poeta si ridisegna in altre lontane identità ma non per questo meno vive e presenti. Ecco allora la pennellata-parola di Giartosio che non rinuncia in queste ultime pagine-interno a tratteggiare con nitore, la bellezza dei corpi come lui li chiama asimmetrici e per questo davvero vicini, dentro un paesaggio, una marina, una stanza; quei corpi posseduti da una fisicità erotica sempre compunta mai trasbordante, come cucita da una spiritualità dolen-

te, che così si sfarina in certe istantanee fulminanti ma che testimonia di ritorno, lo sguardo consapevole sino in fondo della precarietà del nostro esserci: «… / Se rivedo risplendere il tuo corpo / nell’ombra del mio corpo, e mi rispecchio / in te per riconoscere me stesso, / prima che muoia mi sarà concesso / di rimediare in me brutto, in me vecchio, / te con bellezza, giovinezza, morte?». Ecco in cosa dà prova Tommaso Giartosio nel libro e anche negli ultimi capitoli, Trovare e Perdersi: quanto conti coltivare tenacemente un’educazione sentimentale alla quale ogni vivente dovrebbe appunto educarsi ed essere educato, per vestire davvero di significato i nostri giorni altrimenti muti ed aridi per aridità di relazione.

Sandro Veronesi e le cose belle

Narrativa Lo scrittore riesce ancora una volta a emozionare la lettrice e il lettore senza però mai ingannarli Laura Marzi Nel 2006 Sandro Veronesi ha vinto il Premio Strega con il romanzo Caos Calmo, in cui racconta la storia di un giovane uomo che resta vedovo e si trova, senza programmarlo, ad affrontare il lutto fermandosi davanti al portone della scuola elementare di sua figlia, tutto il giorno, ad aspettare che lei a metà pomeriggio esca, per riportarla a casa. Dal romanzo è anche stato tratto un film in cui il protagonista Pietro Paladini è interpretato da Nanni Moretti, per la regia di Antonello Grimaldi. In quel romanzo memorabile a punteggiare il racconto erano degli elenchi che Pietro stilava nelle ore in attesa della sua bambina: con quali compagnie aeree avesse volato nella sua vita, per esempio, e altre cose del genere. Anche in quest’ultimo romanzo di Sandro Veronesi, Il colibrì, edito da La nave di Teseo, incontriamo degli elenchi, questo per esempio: «libertà di non sottomettersi alle leggi sgradite, di non rispettare i valori fondativi, le tradizioni, le istituzioni, il patto sociale, gli accordi presi in passato, libertà di non

arrendersi davanti all’evidenza, libertà di insorgere contro la cultura, contro l’arte e la scienza…». Marco Carrera, protagonista e voce narrante, sta raccontando attraverso questo elenco il conflitto tra la società contemporanea, che a partire dal mito della libertà ha generato le perversioni liberiste citate nell’elenco, e quella del futuro, incarnata da sua nipote Miraijin, che inaugurerà invece il tempo della verità. Sua nipote che rappresenta la perfezione,

almeno così viene descritta da Carrera, è la sua ragione di vita. Quella di Marco Carrera, come lui stesso ammetterà alla fine del romanzo, è stata infatti una «vita piena di dolore, indubbiamente», di assenze e di impossibilità che egli ha affrontato, che il destino gli ha posto davanti per poter arrivare, alla fine, a essere testimone e artefice, almeno in parte, dell’esistenza dell’Uomo del futuro. Questo il significato, infatti, del nome di sua nipote Miraijin, che poi si

Sandro Veronesi. (Leonardo Cendamo)

rivela essere una donna: «visto papà? Si comincia bene – gli dice sua figlia Adele dopo il parto – l’uomo del futuro è una donna». Anche in quest’opera di Veronesi, come in Caos Calmo per esempio, tanta famiglia. Al centro del romanzo denso di avvenimenti e personaggi ci sono le dinamiche familiari di Probo e Letizia Carrera, i genitori di Marco, Giacomo e Irene, che hanno smesso di piacersi poco tempo dopo essersi incontrati, ma non hanno mai creduto che questa fosse una ragione sufficiente per lasciarsi. Il romanzo, poi, è costellato dalle mail che Marco scrive al fratello Giacomo che ha lasciato la città natale, Firenze, e si è trasferito molto giovane negli Stati Uniti. Giacomo non risponde mai e Marco conclude spesso le sue mail con un’espressione che commuove: «abbraccio lo schermo. Marco». Irene, invece, rappresenta la prima prova per il protagonista: spesso nelle famiglie avviene che uno dei figli o figlie sia catalizzatore delle correnti nefaste che circolano in ogni nucleo familiare e poi le faccia detonare. C’è una capacità in alcuni scrittori,

come Sandro Veronesi, di emozionare la lettrice e il lettore senza ingannarli: non gioca con le debolezze umane, ma le racconta con una sincerità tale che è impossibile non apprezzare la compagnia dei suoi romanzi. E non per una questione di immedesimazione: spesso nelle sue storie le vicende narrate sono estreme, nel senso che si posizionano su quella linea, che esiste, in cui la realtà gioca a scherma con l’irrealtà, sfida la statistica. I suoi personaggi, quindi, hanno spesso tratti eroici, qui Marco Carrera lo ammette, e non è proprio facile riconoscersi in un eroe. Ad attrarre, allora, a generare quell’esperienza che resta tra le più belle del mondo di non voler smettere di leggere, di non voler finire il libro, è la ricerca di bellezza che sottende alle sue storie, il fatto che pur essendo realistiche abbiano i tratti del fantastico, perché ogni personaggio che lui racconta resta sempre fedele a sé stesso. Bibliografia

Sandro Veronesi, Il colibrì, La nave di Teseo, 2019, pp. 368.


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Cultura e Spettacoli

Antigel: ancora di più Festival L’enfant terrible della scena culturale ginevrina

compie dieci anni

Giorgia e Muriel Del Don Impossibile trascorrere un inverno nell’affascinante e austera Ginevra senza imbattersi in un poster del festival Antigel. Colorati, intriganti e sempre innovativi (il design è affidato da qualche anno al messicano ginevrino d’adozione Pablo Lavalley) questi alieni di carta ammaliano i passanti trasportandoli in un mondo dal quale è impossibile uscire indenni. Il 2020 è stato un anno decisivo per la manifestazione che compie dieci anni, e non poteva e non voleva passare inosservata. Difficile per non dire impossibile descrivere in due parole l’Antigel tanto la sua programmazione è pluridisciplinare ed eclettica. Arti della scena, musica, performance, yoga, drag queens, arti culinarie e clubbing, senza dimenticare le esperienze partecipative «Made in Antigel», i cine concerti e le serate extravaganza gender free, il festival sul Lemano non conosce frontiere di genere. Malgrado un’offerta culturale e artistica che ai non addetti ai lavori potrebbe far girare la testa, la coerenza dell’Antigel si ritrova nella volontà di stuzzicare il suo pubblico portandolo là dove non è mai stato, in territori inesplorati ancora da conquistare. Durante ventidue giorni (24 gennaio-15 febbraio), Ginevra si è aperta alla diversità, all’inclusione e all’innovazione artistica permettendo al suo pubblico di assaporare spettacoli inaspettati in luoghi altrettanto insoliti.

Antigel non rivoluziona quindi solo le menti ma anche il territorio attraverso spettacoli partecipativi. Immancabili da questo punto di vista le produzioni «Made in Antigel» che permettono al pubblico di prendere attivamente parte allo spettacolo. Come ogni anno la musica ha dominato regalando agli spettatori emozioni intense. Maestoso, elegante e ipnotico il live set del padre dell’afrobeat Tony Allen e Jeff Mills, re incontrastato della techno di Detroit, sorta di cerimonia condivisa alla ricerca di un’estasi musicale senza compromessi. I muri di cemento della Cave 12 hanno tremato grazie alle sonorità sperimentali ed elettroniche di Suzanne Ciani, sacerdotessa del design sonoro e fra le prime musiciste a padroneggiare il Buchla, un sintetizzatore modulare dai mille fili colorati che dà vita a ritmi velenosi e inaspettati. La musica elettronica è stata anche il leitmotiv delle serate Antigel, che quest’anno hanno invaso la gigantesca ex caserma des Vernets, un centro festivaliero (Grand Central) dall’allure berlinese che ricorda il rigore architettonico di club mitici quali Berghain e Tresor. Malgrado l’elettronica si sia imposta con forza, il folk e il rock non sono stati dimenticati: Kevin Morby, leader di una nuova generazione americana che dell’indie rock ha fatto il suo credo, Angel Olsen regina dark dalle sonorità misteriose e ammalianti, Philippe Katrine e il suo inimitabile pop anti macho lontano anni luce dalla

pretenziosità artistica «à la française», Ride, i paladini dello shoegaze o ancora l’indie folk un po’ hipster di Devendra Banhart, senza dimenticare i pionieri della musica elettronica Kraftwerk, si sono imposti con forza devastante. Come ogni anno le proposte legate alle arti della scena, danza in primis, sono state decisamente allettanti. Fare una selezione non è facile: gli spettacoli da acquolina in bocca sono molti ed il tempo a disposizione purtroppo non estensibile. Bisogna quindi mantenere il sangue freddo per reperire i nomi assolutamente imperdibili arricchendoli di qualche prelibatezza ancora sconosciuta. Quest’anno sono sei le portate che hanno composto il nostro menu ricco di sapori acidulati e regressivi (Jonathan Capdevielle), dolci e riconfortanti (Charlotte & Vera Nordin), rustici ed energizzanti (Simon Mayer e Oona Doherty) o vanigliati con una punta inaspettata di liquirizia (Annamaria Ajmone e Rafaële Giovanola), senza dimenticare ovviamente l’inebriante Ivo Dimchev. Ritrovare il mitico artista, performer, attore e coreografo bulgaro nelle vesti di cantante è stata un’esperienza davvero singolare. Avendolo scoperto sulla prestigiosa scena del Kaaitheater di Bruxelles dove è stato in residenza per molti anni creando spettacoli radicali spesso conditi di scene crude e trasgressive, non ci saremmo aspettate di riscoprirlo in questo nuovo ruolo. Fedele al suo spirito camaleontico (LGBTIQ) che si insinua dove

Suzanne Ciani e il suo Buchla. (Dan Wilton)

nessuno se l’aspetta, lo statuario e intrigante performer non ha avuto paura di reinventarsi imponendosi, nel 2018, come uno dei personaggi chiave della trasmissione televisiva X Factor UK. Da quest’esperienza che l’ha aperto a un pubblico molto più vasto e variegato è nato Live, un concerto-performance che non assomiglia a nessun altro, ricco d’una grazia velenosa che lascia senza parole. Anche lui caratterizzato da uno spirito trasgressivo ma questa volta più volutamente adolescenziale, Jonathan Capdevielle ha saputo, con il suo ultimo lavoro Rémi, tratto dal romanzo Sans famille di Hector Malot, trasportarci in un universo onirico fra ingenuità e crudeltà. L’alter-ego di Gisèle Vienne si impone ancora una volta come uno degli interpreti-performer più audaci e interessanti della sua generazione. Di audacia non ne manca di sicuro nemmeno all’irlandese Oona Doherty, lupa alla testa di una muta di belve selvagge che ondeggiano al ritmo di una musica dal sapore seventies. Dopo aver a lungo esplorato gli stere-

otipi maschili spogliandoli della loro abusività, Oona Doherty libera la forza vitale e sessuale che si annida nelle sue interpreti. Misteriose e anticonvenzionali anche le quattro ballerine di Rafaële Giovanola (Vis Motrix) che attraverso movimenti presi in prestito dalla break dance e dal krumping sembrano trasformarsi in materiale gommoso e malleabile. Ad accompagnare Vis Motrix ritroviamo Trigger del giovane prodigio della danza contemporanea italiana Annamaria Ajmone. Un’esplosione sconcertante di suoni (del genialissimo Palm Wine), gesti e mimiche ipnotiche che trasformano la scena in un vero e proprio safari. Imperdibile anche SunBengSitting dell’austriaco Simon Mayer che, nudo in scena, fa dialogare in tutta libertà folclore austriaco e sperimentazione viennese. A scaldarci il cuore ci ha pensato Charlotte Nordin, mettendo in scena il complesso rapporto instaurato con la figlia Vera, bambina affetta da polihandicap, grazie alla terapia alternativa CPA (Comunicazione profonda accompagnata). Annuncio pubblicitario

Novità.

Edizione primavera


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Cultura e Spettacoli

Cecchi, esilarante e amaro Sik-Sik

Una solidarietà tutta femminile

Cinema Laetitia Casta convince nel ruolo

Teatro L’attore-regista fiorentino in due atti unici

di una madre in Le Milieu de l’horizon

Giovanni Fattorini

Nicola Mazzi

In varie occasioni Carlo Cecchi ha dichiarato che Eduardo De Filippo è una delle quattro persone più importanti della sua vita (le altre tre sono sua madre, Elsa Morante e Cesare Garboli). Con Eduardo, negli anni Sessanta, Cecchi ha preso parte a una messinscena de Le voci di dentro, di Sabato, domenica e lunedì, e per qualche tempo alle prove di una nuova commedia, Il monumento, che debuttò nel 1970, quando lui aveva già lasciato la compagnia. Perché l’aveva lasciata? «Perché non sopportavo» mi ha detto in un’intervista nel 2007 «gli aspetti di un capocomicato estremo, freddo, tirannico. (…) Eduardo era più interessante fuori dalle prove che durante il lavoro teatrale». Ciò nondimeno, un attore grandissimo, e un uomo di teatro straordinario, «a lui devo in un certo senso la spinta a recitare in napoletano». Di Eduardo, l’attore-regista fiorentino ha inscenato e interpretato più volte il celebre Sik-Sik, l’artefice magico, accoppiandolo a un altro atto unico: Le nozze di Cechov, il «dramoletto» di Thomas Bernhard Claus Peyman compra un paio di pantaloni e viene a mangiare con me, e in questa stagione Dolore sotto chiave, un radiodramma del 1958 che Eduardo portò sulla scena nel ’64. A giudizio non solo di Cecchi, Sik-Sik, l’artefice magico è un piccolo capolavoro, ed è nei panni del suo protagonista che Eduardo – 52 anni dopo averlo concepito – si congedò definitivamente dalle scene, nel 1981. Presentando l’edizione televisiva del 1° gennaio 1962, l’attore-regista-drammaturgo napoletano dichiarava: «Quando mi chiedono qual è il personaggio di una commedia che io ami di più, io fingo imbarazzo, cerco di eludere (…) e faccio così per un senso di delicatezza, per non urtare contro il gusto della persona che mi interroga. Ma qui, di fronte a una platea tanto vasta e così esclusa da ogni constatazione immediata, io sento il dovere di dire la verità. Il personaggio che più mi sta a cuore, che più amo, è Sik-Sik, l’artefice magico». Chi è Sik-Sik? È un prestigiatore squattrinato che compare indossando, come si legge nella didascalia iniziale, «una giacca chiara e poco pulita su di un pantalone nero: quello del frac che

«Il sole brucia e ammazza. Un po’ come la passione che in generale è creatrice, ma che in questo caso distrugge un matrimonio e una famiglia. In altre parole, il clima aiuta a distruggere le relazioni, a farle morire metaforicamente per poi farle nascere in altro modo», così ci dice Delphine Lehericey, regista del film Le Milieu de l’horizon. Una pellicola nel vero senso della parola, perché girata in 35 mm, candidata a quattro Quartz (i premi del cinema svizzero che saranno attribuiti il 22 marzo a Ginevra). Siamo nella torrida estate del 1976, anno in cui il giovane Gus supera l’infanzia e diventa adulto. Un’estate in cui la natura si disintegra, i sentimenti s’inaspriscono e la famiglia del ragazzo esplode: tutto si rompe e si sgretola, finché non succede l’impensabile. Tratto dal romanzo di Roland Buti, Le Milieu de l’horizon è prima di tutto un film di formazione: «Sì, il mondo degli adolescenti mi interessa molto e ho voglia di raccontarlo, in particolare mi piace mostrare il momento della scoperta del desiderio e allo stesso tempo il dolore di un’infanzia che non torna più. Un punto di rottura molto forte perché è un inizio ma allo stesso tempo anche una fine», sottolinea ancora la regista svizzera già realizzatrice nel 2014 di PuppyLove, altro lavoro dedicato ai ragazzi. Ma Le Milieu de l’horizon è anche

di Eduardo De Filippo

Carlo Cecchi e Angelica Ippolito. (Teatro Franco Parenti/Filippo Ronchitelli)

gli servirà per la rappresentazione. Ha in mano una piccola valigia e nell’altra una gabbia con due colombi uguali. Fra le labbra un mozzicone di sigaro. (…) È seguito da Giorgetta, sua moglie, a testa nuda e con un misero cappottino sulle spalle». Giorgetta è la sua aiutante, è incinta, e come il marito ha «una certa aria scoraggiata e stanca». Sik-Sik è in grande tensione perché manca poco all’inizio dello spettacolo e non si è ancora fatto vivo Nicola, il «cumpare» che gli fa da spalla fingendosi uno spettatore. Terribilmente preoccupato, Sik-Sik ingaggia lì per lì un altro poveretto, Rafele, e cerca di istruirlo rapidamente su ciò che dovrà fare. All’improvviso arriva Nicola. Tra i due aiutanti scoppia un litigio che avrà serie ricadute sull’andamento dello spettacolo. Non vado oltre nel riassumere una farsa i cui temi di fondo sono la povertà e l’inganno, ed è al tempo stesso amara e divertente. Straordinario nei panni di Sik-Sik, Cecchi è irresistibilmente esilarante in quelli del professor Ricciuti, uno dei coinquilini che in Dolore sotto chiave (dove i temi della morte, del lutto e delle esequie sono declinati in modo comico e drammatico) si presentano in gruppo per fare le condoglianze all’architetto Rocco Capasso, a cui la sorella Lucia – temendo che il fratello potesse compiere gesti estremi – ha nascosto per undici mesi la morte della moglie Elena.

La regia di Cecchi è precisa, sobria, rispettosa del testo, attentissima ai ritmi della rappresentazione. Da sempre, Cecchi dice di considerarsi, più che un regista, un direttore di attori. Si può ben dire: un direttore d’eccezione, come dimostrano le singole prestazioni e l’affiatamento degli altri interpreti: Angelica Ippolito (Giannetta e Lucia), Vincenzo Ferrera (Nicola e Rocco Capasso), Dario Rubatti (Rafele e la signora Paola), Remo Stella e Marco Trotta (due coinquilini). Cecchi sostiene da decenni che nel teatro sono tre le cose che contano: il drammaturgo, l’attore, il pubblico: un convincimento che ha fermamente riaffermato in dichiarazioni recenti. «Salvo rarissime eccezioni», mi diceva nella summenzionata intervista del 2007, «i registi degli ultimi cinquant’anni se ne fregano del drammaturgo, se ne fregano dell’attore, se ne fregano del pubblico, perché pensano di essere tutti e tre». A questo punto ho azzardato una definizione sintetica: «Un regista-demiurgo, come dicevano qualche tempo fa gli addetti ai lavori». La reazione è stata immediata: «Ma quale “demiurgo”! “cretino”!»

altro. Per esempio un film femminista. La figura della madre, interpretata da una credibile Laetitia Casta, prende forza e coscienza del suo essere donna, man mano che il film va avanti. Ed è grazie all’arrivo di una bella e libera ragazza che trova definitivamente la sua strada. S’innamora di lei e lascia il marito. Un aspetto, la condizione femminile in campagna negli anni 70, sul quale la regista si è documentata. «Ho studiato gli archivi delle femministe di quell’epoca e ho scoperto che, sovente, le donne contadine si incontravano nei club di lettura, ed erano molto solidali tra di loro, ridevano e passavano tempo insieme. Credo fosse importante inserire questi ingredienti nel film poiché danno alle protagoniste un’indipendenza alla quale aspirano». A livello tematico il film strizza l’occhio anche ai mutamenti climatici odierni e a come la natura può ribellarsi alle costrizioni umane. Lo fa in modo violento e garbato allo stesso tempo. La siccità di quell’estate provoca una moria di animali mai vista, ma il tutto viene addolcito dal punto di vista, ancora innocente, del ragazzo. Il film, infatti, ha il suo sguardo. La scoperta della liaison tra la madre e la straniera è filtrata dai suoi occhi, così come lo è la rabbia del padre che vede il mondo che ha costruito con fatica e sudore (una famiglia, una fattoria), sgretolarsi. Uno sguardo che proprio quell’estate cambia e diventa adulto.

Dove e quando

Milano, Teatro Franco Parenti, fino al 1° marzo.

Una scena del film. (Youtube)

Fascino e mistero del libro per un teatro della mente In scena Le numerose nuove proposte teatrali denotano vivacità e creatività anche a livello locale Danza e dialoghi fra le arti al San Materno

Giorgio Thoeni Per la nascita di un nuovo progetto teatrale o per la realizzazione di una nuova stagione di spettacoli è sempre prezioso e opportuno il sostegno dei privati. In questo senso il Percento culturale Migros continua ad essere presente tra le voci più significative del nostro panorama artistico. Come nel caso dell’ultima produzione della compagnia Trickster-p di Novazzano, che il prossimo 11 marzo debutterà al Teatro Studio del LAC con Book is a Book is a Book, l’esito di una residenza triennale nel polo culturale luganese che si profila sempre più come centro di residenza, creazione e mediazione culturale. Trickster-p da tempo ha rinunciato alla presenza di un performer in scena preferendo dar corpo a processi immersivi creando installazioni dove l’uso dello spazio diventa l’anello di collegamento tra attore e spettatore. Non una scatola chiusa bensì motore di interpretazioni emo-

La locandina di Book is a Book is a Book, della compagnia Trickster-p.

zionali. Il progetto di Cristina Galbiati e Ilija Luginbühl questa volta è dedicato al libro e lo spettatore potrà costruire un suo teatro della mente interagendo senza una logica di tipo narrativo ma

che potrà scoprire con audioguide in gruppi di 28 alla volta e distribuiti in postazioni simili ai tavoli di lettura di una biblioteca in una labirintica planimetria. E se il pensiero corre a Borges…

Il Percento culturale di Migros Ticino rinnova il suo sostegno anche per la ripresa della stagione del Teatro San Materno diretto da Tiziana Arnaboldi, che non smentisce la sua vocazione all’insegna del dialogo fra le arti. Il programma inizia l’8 marzo con Morphoses della compagnia losannese Utilité Publique, una coreografia che, partendo dalle Metamorfosi di Ovidio, mette in relazione la grafica e la fragilità della carta con il corpo danzante. Lo spettacolo I traditori del Teatro Massimo di Palermo va in scena il 22 marzo con un’opera-inchiesta di forte impatto ispirata alle stragi operate dalla mafia contro Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Al centro degli eventi in cartellone va inoltre segnalato il 25 e 26 aprile Autour du corps-omaggio al Bauhaus una produzione della Compagnia Tiziana Arnaboldi, un viaggio cosmico, onirico

e ipnotico in rapporto con la terra in cui tutto ruota attorno a un corpo vestito da nove cerchi concentrici. Giochi e Sport vanno in scena dapprima il 15 maggio con I destini incrociati di Giorgio e Chang, un monologo di Giancarlo Dionisio, mentre per i 50 anni di CEMEA in Ticino (centri di esercitazione ai metodi dell’educazione attiva) il 16 maggio sono proposti giochi e danze per i bambini e una conferenza serale sul ruolo educativo del gioco e il futuro dell’educazione attiva. Il 17 verrà riproposto Gendarmi e ladri con Enrico Ferretti e Faustino Blanchut mentre il 22 e 23 Porte aperte propone uno sguardo dietro le quinte della nuova creazione di Pierre Byland. Infine, dal 26 maggio al 9 giugno va in scena l’incontro di ricerca coreografica per giovani danzatori e il 13 e 14 giugno la stagione chiude presentando Tra corpo e voce con la Compagnia Giovani Marchepied di Losanna.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 febbraio 2020 • N. 09

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Cultura e Spettacoli L’artista camerunense Pascale Marthine Tayou.

Al seguito dei Romanov

Personaggi La testimonianza privilegiata

di Pierre Gilliard, ammesso alla corte (e nella famiglia) di Nicola II, ultimo degli Zar

Benedicta Froelich

Saggi e poi felici

Incontri A colloquio con l’artista africano Pascale Marthine Tayou,

recentemente a Lugano per una conferenza

Ada Cattaneo Il 4 febbraio scorso Pascale Marthine Tayou, uno degli artisti africani più celebri e rappresentativi del contesto contemporaneo, è stato invitato a tenere una conferenza a Lugano dall’associazione «Nel – Fare arte nel nostro tempo». Tayou è nato a Yaoundé, in Camerun, nel 1967. Inizia a frequentare la facoltà di diritto, grazie al sostegno dei genitori. Ma di lì a poco sceglie di abbandonare gli studi per intraprendere un percorso professionale molto diverso. Non vuole in nessun modo essere definito artista, eppure raggiunge come autodidatta l’affermazione a livello internazionale nei primi anni Duemila. Lo conferma la sua partecipazione a Documenta 11, invitato e fortemente sostenuto dal curatore Okwui Enwezor. Oggi è presente nelle più importanti collezioni pubbliche e private. Vive in Belgio, ma mantiene un vivo legame con l’Africa: affronta le proprie radici senza mai indulgere negli stereotipi, anzi, combattendoli attivamente, tramite il capovolgimento delle consuete convinzioni. Di seguito, proponiamo l’intervista che ha concesso ad «Azione», al termine della quale, sovvertendo il normale protocollo, è stato lui a ringraziare per le domande che gli sono state poste e per il tempo che gli è stato dedicato. Vorrei cominciare chiedendole come mai ha interrotto i suoi studi in legge, che pure avevano richiesto un grande sforzo economico alla sua famiglia.

Ho studiato diritto per alcuni anni, senza diventare un giurista. Certamente la ragione per cui ho deciso in maniera molto brusca di smettere di studiare legge è perché mi sono accorto che il diritto non era per niente giusto. Facevo fatica a sopportare la distanza dei miei professori da quello che supponevano di insegnarci e non volevo accogliere gli insegnamenti di docenti maldestri. (Nella traduzione italiana risulta difficile rendere il gioco di parole utilizzato in francese fra droit, «legge», e maladroit, «maldestro», ndr)

A quel punto che strada ha deciso di intraprendere?

Allora ho deciso di essere un ragazzo normale. Credo che la normalità sia non fare cose sbagliate. Di fatto avevo l’impressione che far parte della nostra società così com’è, accettandola senza discussioni, significasse indossare una maschera. Mi sembrava anche che, se avessi indossato una maschera, avrei messo in pericolo coloro che mi amavano o che mi stavano attorno. Non potevo sopportare quest’idea. Per questo motivo ho deciso di levarmi ogni maschera.

So che non ama essere definito artista, ma questa nuova via professionale le ha dato modo di sentirsi più a suo agio con sé stesso e con gli altri?

L’intenzione non è quella di essere un artista. Non so esattamente cos’è un artista. L’intenzione è quella di essere un uomo, di essere onesto. Cerco di fare ciò che credo sia corretto. Mi dico che forse sia più interessante essere un buon essere umano, il meno ipocrita possibile, piuttosto che un artista.

Spesso cita la «naïveté» come un elemento importante del suo metodo. Può raccontarci qualcosa a questo proposito?

Prendere la «naïveté» alla radice vuol dire essere alla ricerca di una certa sincerità e giustizia. Ho l’impressione che essere sinceri sia rifiutare di essere giudicato un ipocrita, anche se ciò può dare l’impressione di essere ingenuo nella società in cui viviamo. Ci dicono che bisogna essere furbi e trovare una formula per ottenere il potere, dando l’impressione di essere ingenui. Io preferisco essere profondamente ingenuo. Tutti, invece, vogliono apparire più intelligenti. Una classica frase è: «Ma che cosa ci si può aspettare da una persona così ingenua?». Sembra che sia più interessante essere furbi e intelligenti. Per conto mio, mi spiace, ma sono fatto così: sono naïf. Perciò, la mia arte prendetela così com’è.

Il colore è un elemento importante del suo lavoro. Che uso ne fa nelle sue opere?

Dicono che ci siano colori freddi e colori caldi. Io personalmente preferisco i colori primari, «brut», al limite del kitsch. In definitiva, cerco di depurarli. Cerco di ritrovare la materia prima, la componente originaria delle cose. Lavoro tramite il metodo della manipolazione e i colori sono il mezzo tramite il quale cerco di esprimere il mio stato d’animo. Ritornando al tema dell’ingenuità, i miei colori sembrano molto semplici. Ma in fondo non penso di essere così ingenuo come si dice. Si tratta piuttosto di un modo per resistere un po’, ecco. Ha appena citato il concetto di manipolazione. Questo coinvolge anche i materiali che utilizza, quasi sempre recuperati e riciclati da utilizzi precedenti.

Riciclaggio è una grande parola. Quando si parla di riciclaggio, la mia impressione è che ci si riferisca solo all’utilità pratica degli oggetti. Parlare di riciclaggio è quasi moralizzante. Io sono convinto che tutto ciò che usiamo, qualsiasi medium artistico, sia solo uno strumento, un utensile che non porta con sé un contesto. Ho fatto delle scelte e ho scelto quali strumenti volevo usare.

Se vogliamo parlare di riciclaggio, possiamo parlare di riciclaggio mentale. Solitamente si pensa alla materia e all’oggetto che osserviamo. Ma io penso piuttosto a un riciclaggio di comportamenti, di attitudini, del nostro modo di metterci in relazione con le cose. L’oggetto non è altro che il riflesso di colui che lo guarda. Riflette il nostro sguardo, la nostra dimensione, il nostro atteggiamento. Colui che guarda può determinare un altro uso dell’oggetto. Quindi sono più per un riciclaggio mentale che per un riciclaggio degli oggetti. Come si relaziona con i suoi colleghi, con gli altri artisti?

Non parlerei di colleghi, non sono in una corporazione. Non sono un impiegato. Non lavoro in un’impresa. Non ho frequentato una scuola che mi abbia permesso di costituire un mio gruppo di riferimento. Sono un camminatore solitario. Ho la fortuna di incontrare persone, persone come lei che mi sta intervistando. Quando faccio nuovi incontri, mi interessa sempre soffermarmi a capire la visione del mondo di chi mi sta davanti. Magari non la condivido, ma cerco sempre di rispettarla. Io non ho un mestiere. Non so esattamente cosa sono. Sono un disoccupato. Cerco di fare qualcosa, ma non so se sia un granché. Sono solo un camminatore che cammina. Durante l’incontro di Lugano ha parlato del tentativo di coniugare saggezza, intesa come frutto della ragione, e «magia», intesa come sapere ancestrale che proviene dalla tradizione. Questo significa far convivere Europa ed Africa?

Da quel poco di esperienza che ho, mi sono fatto l’impressione che la ragione, nel senso occidentale, affondi le sue radici in una metodologia cartesiana. Significa che le cose possono arrivare in modo spontaneo, ma dobbiamo spiegarle con una certa logica. Vanno inserite nella cornice della ragione, della razionalità. Sono arrivato a questa conclusione da dove son partito, cioè dalle mie radici africane. Lì c’è una concezione ben diversa della saggezza. Quindi, nei due territori ci sono versioni differenti. Ma quello che unisce le due concezioni, indipendentemente dall’origine del buonsenso o della saggezza, è che si deve riflettere. Ecco quello che mi interessa. Se le persone riflettono, a est o a ovest, si può fare del bene. Saggezza e magia possono coesistere. Nel quotidiano possiamo servirci di entrambe le cose e apprezzarle in egual misura. Ma, in definitiva, la saggezza, la ragione, il sapere devono contribuire a costruire un uomo felice.

In un’epoca e società sempre più globalizzate (eppure intimamente divise) quali le nostre, appare a tratti difficile rammentare come, poco più di cent’anni fa, la mappatura dei centri di potere geopolitici vedesse il mondo ancora suddiviso in pochi, potentissimi centri nevralgici in grado di decidere le sorti d’interi emisferi. Erano gli ultimi colpi di coda dell’epoca dei grandi Imperi, i quali, in seguito spazzati via dalla Prima guerra mondiale, avrebbero lasciato il posto alle nascenti «nazioni-stato» destinate a divenire simbolo stesso del novecento; eppure, per secoli, le corti di questi «regnanti per diritto divino» avevano rappresentato universi completamente a sé stanti, animati da rituali rarefatti ed esclusivi e perlopiù disgiunti dall’aspra realtà quotidiana vissuta dal popolo. Non vi è dubbio che un simile microcosmo da fiaba fu rappresentato, fino al 1917, dalla corte dello sfortunato Zar Nicola II di Russia: un luogo in cui valevano ritmi e regole particolari, e in cui i cinque figli dell’Imperatore e della sua amatissima Alix (le quattro granduchesse e l’unico erede maschio al trono, lo Zarevich Alexei, affetto da emofilia e costretto a una vita terribilmente protetta), venivano educati a prepararsi nel migliore dei modi alle sfide del potere. In effetti, diversamente da quanto accade oggi, quello di tutore privato era

Gilliard con le Granduchesse Tatiana e Olga nel 1911. (Wikimedia)

all’epoca considerato un ruolo di grande rilievo, per arrivare a ricoprire il quale occorreva dar prova non soltanto di cultura enciclopedica e animo assai cosmopolita, ma anche di fedeltà assoluta al regnante. E per quanto singolare ciò possa apparire, per i Romanov il più significativo di questi dotatissimi precettori fu proprio un cittadino svizzero, di nome Pierre Gilliard – il quale, dal lontano villaggio di Fiez (Canton Vaud), sarebbe giunto inaspettatamente a condividere lo strano, tragico destino della famiglia imperiale. Giunto per la prima volta in Russia nel 1904 come insegnante di francese al servizio del Duca Georges di Leuchtenberg (cugino di Nicola II), l’anno seguente l’appena 25enne Pierre accettò la proposta di svolgere il medesimo incarico presso le Granduchesse Olga e Tatiana, figlie maggiori dello Zar – e, in seguito, anche per Maria, Anastasia e Alexei. Negli anni, Gilliard avrebbe così assistito dall’interno a tutte le vicissitudini personali della famiglia Romanov, nonché ai terribili sconvolgimenti politici che, giorno dopo giorno, ne invadevano in modo sempre più pervasivo la protetta vita domestica, finendo per esercitare violente pressioni anche sui giovani eredi;

e sebbene, con la sola eccezione della primogenita Olga, i pupilli Romanov mostrassero scarsa attitudine allo studio delle lingue, nel corso del tempo Gilliard avrebbe imparato ad apprezzare la grande sensibilità e cortesia di cui le Granduchesse erano dotate, e la viva intelligenza e profonda bontà del sofferente Alexei – il che lo avrebbe presto condotto a sviluppare un rischioso quanto inevitabile coinvolgimento emotivo nei confronti dei suoi protetti. Del resto, Nicola e Alessandra necessitavano di tutti gli alleati devoti su cui potessero contare, e Pierre ne era senz’altro un fulgido esempio: le preoccupazioni famigliari dello Zar avrebbero infatti avuto ripercussioni sempre più gravi sul regno – l’ansia costante per la sorte di Alexei, soggetto a frequenti emorragie che ne mettevano a rischio la vita, aveva fatto sì che la gestione dell’Impero passasse in secondo piano davanti all’incertezza che ne avvolgeva il futuro (forse contribuendo anche alla disgraziata decisione di entrare in guerra al fianco della Serbia, nel 1914); e purtroppo, il fatto che l’unico sollievo, per lo Zarevich, fosse rappresentato dalle doti taumaturgiche dell’onnipresente ma controverso «monaco folle» Rasputin avrebbe ulteriormente complicato le cose, contribuendo alla crescente impopolarità della coppia imperiale e alla successiva caduta della dinastia Romanov nell’arco dell’improvvisa quanto devastante Rivoluzione Russa del 1917. Eppure, alla luce di tali catastrofi e drammi, a spiazzare è soprattutto l’incrollabile fedeltà di Gilliard: il tutore svizzero sarebbe infatti rimasto al fianco dei suoi pupilli fino all’ultimo, quando, dopo l’esilio trascorso insieme a Tobolsk, in Siberia, venne separato a forza da tutti loro in occasione del famigerato trasferimento a Ekaterinburg – dove, soltanto due mesi dopo, nel luglio del ’18, l’intera famiglia sarebbe stata fucilata per mano dei bolscevichi. Ma di quegli anni trascorsi alla corte dello Zar, Pierre avrebbe serbato ricordi ben più importanti e duraturi delle controverse trame politiche contro le quali Nicola II era costretto a lottare: l’affetto per i suoi cinque allievi, e il grande rispetto per la profonda umanità dei loro genitori – per la sofferenza trattenuta e piena di dignità dell’imperatrice, e l’eroico stoicismo di Nicola – l’avrebbero, in effetti, accompagnato per tutta la vita. Seppur scampato alla tragedia che era costata la vita a coloro ai quali si era tanto legato, Gilliard fu trattenuto dalle autorità in Siberia per ben tre anni, e poté fare ritorno in Europa soltanto nel settembre del 1920, quando gli sconvolgimenti portati dalla Grande Guerra iniziavano lentamente ad attenuarsi; appena un anno dopo, pubblicò un toccante memoriale incentrato sui propri anni a corte, nel quale narrava del rapporto privilegiato intrattenuto con i suoi giovani allievi e del «lungo addio» dei Romanov al mondo (e al loro tutore). Il tutto sempre conservando nel proprio cuore, come pegno del dramma vissuto, «l’impressione di ammirevole serenità e ardente fede che mi avevano lasciato coloro che ne erano state le vittime». Perché, in fondo, come egli stesso dichiarò, non erano stati il potere, rango o fascino della maestà imperiale ad aver davvero legato Pierre alla famiglia di Nicola II, bensì un tipo di grandezza ben più alto e raro a trovarsi: «la nobiltà dei loro sentimenti, e l’elevato spessore morale di cui diedero prova nella sofferenza».


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 febbraio 2020 • N. 09

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Cultura e Spettacoli Rubriche

In fin della fiera di Bruno Gambarotta Questione di altezza Volete vincere una scommessa a colpo sicuro? Bene. Puntate sulla vittoria di Donald Trump alle prossime elezioni negli Stati Uniti il primo martedì di novembre. Ce lo assicura il dottor Maurizio Molan nel suo libro Altezza è mezza bellezza?, un saggio sulla statura umana. Fra le tante curiosità c’è il dato che a partire da Abraham Lincoln, alto 1,93 metri, il duello fra i candidati è sempre stato vinto dal più alto. Trump è alto 1,91 e tutti i candidati nelle elezioni primarie democratiche sono più piccoli di lui. L’autore disegna una panoramica sulla statura umana, intrecciando dati antropometrici con pagine letterarie e aneddoti curiosi. Non poteva mancare un capitolo sulla dinastia dei Savoia. Quando si estingue il ramo principale con la morte di Carlo Felice senza eredi subentrano i Carignano con Carlo Alberto che era alto 2 metri e 4 centimetri. Per arrivare tre generazioni dopo a Vittorio Emanuele III, frutto di un matrimonio fra cugini primi, alto metri

1,53. Per consentirgli di ricoprire il ruolo di comandante delle Forze Armate, il limite di statura per essere arruolati nell’esercito fu abbassato a metri 1,50. Fra i tanti soprannomi, il più diffuso era «Sciaboletta» per via del fatto che avevano dovuto realizzare per lui una sciabola in miniatura perché quella regolamentare strisciava per terra durante le sfilate. Per migliorare la discendenza gli fecero sposare la sana e robusta principessa Elena di Montenegro, nata in un paese di montagna. Il che permise al cugino Amedeo di Savoia, alto metri 1,98, di battezzare la coppia Curtatone e Montanara, due toponimi sedi di battaglie risorgimentali. Gabriele d’Annunzio, alto 1,58 metri, per essere arruolato come ufficiale nei Lancieri, dichiarò 5 centimetri in più e il medico finse di credergli. Parliamo di altezza media. Gli uomini più alti del mondo sono gli olandesi, metri 1,83. Le donne più alte si trovano in Lettonia, metri 1,70. Le più basse al mondo sono le donne del

Guatemala, metri 1,49. Nella classifica mondiale l’Italia occupa la 29esima posizione. Altezza media per gli italiani maschi, 1,75, per le femmine 1,62. Un secolo fa erano rispettivamente 1,65 e 1,54. Gli italiani, uomini e donne, crescono di 1,06 centimetri ogni decade. Mi ricordo che quando Luchino Visconti girò in Sicilia Il Gattopardo, per la scena finale del ballo, una famiglia appartenente alla nobiltà palermitana gli offrì l’utilizzo delle livree ottocentesche della servitù conservate negli armadi, per scoprire che i figuranti scritturati non potevano indossarle perché erano di una taglia troppo piccola. Quanti ricordi suscita questa lettura! Alla direzione programmi della Rai di viale Mazzini ricopriva il ruolo di capo servizio della prosa televisiva una signora alta quasi 2 metri che schiavizzava i suoi sottoposti, da noi battezzati, dal titolo di un dramma di Jean Paul Sartre, I sequestrati di Altona. Un altro ricordo televisivo: nel 1959 Charles De Gaulle presidente della

repubblica francese si reca in visita a Milano per celebrare il primo centenario della guerra d’indipendenza combattuta dal Regno di Sardegna alleato con la Francia. Al termine della cerimonia, De Gaulle, alto quasi due metri, e il presidente italiano Giovanni Gronchi, di 40 centimetri più piccolo, sono appaiati dietro un palchetto di legno che li mostra dalla vita in su. Sotto i piedi dell’italiano mettono un rialzo per pareggiare lo scompenso. Al termine della cerimonia i due statisti scendono dalla postazione e Gronchi, dimenticando di essere su due gradini, cade in avanti e un giornalista seduto in prima fila lo blocca abbracciandolo prima che finisca a terra. La diretta televisiva non consente di censurare l’episodio. Tre sere dopo va in onda Un, due, tre il primo varietà televisivo. Si va in diretta ma tutti i testi sono preventivamente approvati dalla censura. A un certo punto Ugo Tognazzi finge di inciampare cadendo in avanti, salvato dalle braccia di Raimondo Via-

nello che gli dice «Chi credi di essere?». Risultato: il programma, nonostante sia il più visto, viene soppresso. Questa era l’Italia di quegli anni. Ragionare sulla statura genera molti spunti. Molan cita lo studioso Vernon Kellogg per spiegare un fenomeno curioso: l’altezza media dei francesi nei due decenni successivi al periodo napoleonico diminuì nettamente. Perché? I figli nati durante il conflitto erano il frutto del concepimento con maschi di bassa statura scartati dall’arruolamento. Lo studio di Maurizio Molan offre un contributo prezioso per contrastare il luogo comune secondo il quale la statura è associata a valori positivi, la salute, il successo, la bellezza, mentre la bassezza è indicata come segnale di meschinità. Gli scrittori peraltro danno una mano nel ribadire questa visione: Sherlock Holmes «era alto quasi un metro e novanta»; il giovane Holden ha 17 anni ed è alto 1,89 metri. Perciò è ancora in corso il detto che «altezza è mezza bellezza».

gendo il portone del palazzo. Appena in strada cercò quella sensazione di libertà e allegria che sempre le provocava muoversi nella città. Non la trovò. Non era lì dove si aspettava che fosse. Sto diventando vecchia, pensò. La città non è più il fondale del mio teatro, la quinta in cui mi muovo recitando la mia bellezza. Non sono neppure più bella, probabilmente. Il pensiero era così molesto che si impose una sosta davanti a una vetrina per cercare nell’immagine riflessa del suo corpo una rassicurazione immediata. Vide una donna alta e magra, avvolta in un cappotto lungo e stretto in vita, blu, di gran classe, vecchio di 12 anni. Una sciarpa di cachemire beige, regalo di una amica figlia di ricchi. I capelli raccolti in una treccia unica, la frangia ben spazzolata. Quarant’anni che sembrano trenta, disse a bassa voce, citando l’ultimo complimento ricevuto. A quanto tempo prima risaliva? Un anno? Sì, almeno un anno, quando ancora dava corda a Paolo, prima che

Tom le ponesse La Condizione: se vuoi restare con me smettila di fare l’allumeuse, smettila di ronzare micio-micio con chiunque ti dica che hai un bel culo! Micio-micio... quando ancora avevano voglia di accoccolarsi nel lessico di coppia, di duettare, di duellare, di minacciarsi l’un l’altro... ti lascio se... non ti lascio se... ti amerei se... Fino a quando avevano mantenuto la voglia di giocare? Adesso non potevano più permettersela. Sì, ti lascio, e dove vado a sbattermi? La povertà tiene uniti più dell’amore, il bisogno è più forte del desiderio. Allungò il passo. Doveva arrivare fino a Borgo Pio, salire al terzo piano, M le avrebbe sorriso sulla soglia come sempre. Lei gli avrebbe detto: Mi dispiace dottore ma non posso più venire. Riversare su di lei la mia angoscia è diventato un lusso. Da quanto tempo non la pago? Lei pensa che la pagherò questa mattina? No, questa mattina mi limiterò ad umiliarmi, a farle pena, a confessare il fallimento della mia vita di attrice mai scritturata, che

passa di provino in provino, che porta in giro il suo book pieni di foto radiose e sexy che non interessano a nessuno. Suonò il campanello e attese. Il dottor M era lento, si appoggiava a un bastone, dopo essere stato investito da una motocicletta uscendo dal cinema. Quando le aprì la porta non le sorrise, come sempre, la guardò serio, con preoccupazione, che le avesse letto nel pensiero? Era il suo mestiere, in fondo, ed era capace di intuire gli stati d’animo dei suoi pazienti come nessuno. «Che cosa succede, signorina?», disse, porgendole un fazzoletto di lino monogrammato. Betta lo guardò con l’ammirazione che si dedica a un oggetto incongruo, ma senza prenderlo. Allora, per la prima volta in 11 anni, M la toccò, le mise una mano sulla gola, le spinse la testa indietro e le appoggiò il fazzoletto alle narici. Soltanto in quel momento, nel vedere il lino candido diventare rosso lacca, Betta si rese conto che stava sanguinando. Perdeva sangue dal naso. (Continua)

sempre più complesso ed eterogeneo in termini di retoriche, forme e tecniche di rappresentazione. Il valore delle fonti audiovisive trova ora nuove modalità di espressione attraverso le possibilità di racconto garantite dalle tecnologie più recenti. Sono in atto interessanti processi di digitalizzazione che stanno investendo gli archivi in termini di conservazione, di circolazione ma, soprattutto, di fruizione dei materiali. Gli archivi offrono, infatti, materiale irrinunciabile per comprendere e raccontare il Novecento e il primo ventennio del nuovo Millennio. Per esempio, la tv, non diversamente dal cinema, assume sempre più la duplice veste di fonte e strumento di narrazione storica. Già da parecchi decenni gli storici hanno sentito la necessità di allargare ai media e ai loro prodotti l’attenzione riservata alle fonti documentali. La prima elaborazione di una metodologia sui media può essere fatta risalire alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso, benché

gli autori della Nouvelle Histoire, come Lucien Febvre e Marc Bloch, avessero, fin dagli anni Trenta, allargato il territorio in cui lo storico poteva operare. La nuova tendenza metodologica, ribadita e sottolineata da Jacques Le Goff, per il quale «tutto è fonte per lo storico», è quella di annettere nell’ambito della ricerca documenti di varia e spesso insolita estrazione. Se il Novecento è stato definito il secolo «della testimonianza», questo si deve alla sempre più massiccia e pervasiva presenza dei mezzi di comunicazione di massa che hanno affiancato, registrato e, talvolta, si sono posti al centro della vita politica e culturale delle società postmoderne. La tv è stata anche il luogo di dispiegamento – reale, simbolico o meramente retorico – dei fatti storici, che non possono sottrarsi all’occhio della pubblica visibilità. Grazie alla tecnologia digitale, si può adesso garantire al patrimonio audiovisivo una vita lunga e rinnovabile. Non solo. L’utente può accedere ai depositi

della memoria senza necessariamente doversi recare sul posto. Entrando nelle scuole e nelle università, il patrimonio audiovisivo offre una nuova dimensione agli insegnamenti fondamentali. Per i ricercatori si rivela poi un notevole strumento di lavoro per comprendere come il digitale costituisca uno straordinario strumento di rappresentazione e di costruzione della memoria condivisa di una comunità, e un’incredibile opportunità di accrescimento della coscienza del passato e dei momenti fondativi su cui si sorregge una società. Nell’era della convergenza digitale, la PH non sembra essere più soltanto destinata ai classici luoghi della divulgazione o ai tradizionali mezzi di comunicazione di massa, ma si serve di uno spettro sempre più ampio di nuovi media fino a qualche anno fa quantitativamente e qualitativamente inimmaginabili, che forniscono al pubblico generalista, così come agli storici stessi, un archivio digitale di immagini e fonti storiche potenzialmente infinito.

Quaderno a quadretti di Lidia Ravera Le nuove povertà/2 Certe frasi è meglio se te le tieni dentro. Anche se marciscono, e ti avvelenano il sangue. Per una frazione di secondo Betta valutò l’ipotesi di consegnarsi alla disperazione. Mettersi a letto. Ingoiare una manciata di sonniferi. L’avrebbe fatto, ma prima doveva mettere Sara in condizione di mangiare. Anche se non aveva fatto la spesa. Prese una pentola non del tutto pulita e la riempì fino all’orlo. Accese il fuoco. Finché c’è l’acqua, finché c’è il gas… nello scaffale dipinto di rosso, in un allegro contenitore decorato con mazzi di ciliegie , era rimasto quasi mezzo chilo di spaghetti. C’era un barattolo di ceramica con il sale grosso. C’erano sei lattine di pelati Conad, acquosi ma economici. È così che si misura la miseria, mio caro. Anche questo avrebbe detto a Tom. Sempre che Tom si decidesse a tornare, sempre che avesse intenzione di mangiare. A lui non piacevano gli orari dei pasti. Gli ricordavano sua madre. E benché avesse compiuto da pochi giorni 43 anni, si

esercitava a contrastare puntigliosamente le regole della sua famiglia d’origine. Con una sorta di meccanica soddisfazione, Betta apparecchiò la tavola, scolò gli spaghetti, li sistemò delicatamente in una zuppiera bordata oro e li coprì con una adeguata quantità di salsa di pomodoro. Quando Sara suonò il citofono, Betta prese la giacca, la borsa, il cellulare che, dispettoso, si era rifiutato di squillare per tutta la mattinata e uscì di casa. «Ti ho lasciato un pranzetto coi fiocchi», disse, incrociandola sul pianerottolo. Non se la sentiva di reggere l’impatto col senso critico di una tredicenne allevata nel culto della sincerità. Le mandò un bacio scendendo le scale e si dileguò. Sara le gridò dietro che le serviva una scheda, che non aveva più credito, che doveva restituire venti euro alla madre di Francesca. «Non so se ti sei resa conto che non abbiamo più un soldo», disse senza alzare la voce, quando dalla figlia la separavano due piani di scale, spin-

A video spento di Aldo Grasso La storia infinita Che cos’è la Public History? Per Public History (PH) si intendono quelle attività di recupero della memoria storica che si svolgono per il pubblico e con il pubblico, e che coprono il largo spazio che intercorre fra la Storia accademica e universitaria e la divulgazione sui grandi media. La PH, tuttavia, non si limita a una migliore comunicazione degli argomenti trattati della Storia tradizionale, né a utilizzare i risultati delle ricerche accademiche in pubblico. Non è soltanto divulgazione colta, come talvolta si equivoca, o «Storia di serie B», ma è anche ricerca innovativa, fatta anche insieme al pubblico e ad altri professionisti. Per i «nuovi storici», per i public historians, uno dei campi d’azione privilegiato è quello della tv e, più in generale, quello dei nuovi media digitali. Il punto sta nel cercare di capire che cosa fare, oggi, della Storia nel mondo reale. In questa riflessione, ci viene in aiuto il concetto di PH che, com’è noto, fa riferimento alla possibilità che la narrazione storica esca

dalle aule universitarie, così come dai convegni o dalle riviste scientifiche, e incontri il bisogno più o meno diffuso di conoscere e ricostruire il passato da parte di un pubblico composto non necessariamente da addetti ai lavori. Su questa scia, viene dunque da interrogarsi su quale sia l’utilità e la funzione della Storia nella sua nuova dimensione pubblica (e, di conseguenza, quale sia il ruolo dei media). In primo luogo, la rappresentazione audiovisiva della Storia diffusa da media tradizionali (il cinema, la tv) e dai nuovi media (quelli digitali) è riconosciuta oggi come «linguaggio della memoria», la fonte del discorso storico per eccellenza, l’espressione condivisa della nostra «Storia pubblica». Gli archivi televisivi costituiscono una fonte ricchissima di immagini che parlano della Storia sociale e culturale di un Paese attraverso l’impiego di generi diversificati – dal documentario al period drama, dal dibattito a nuovi format innovativi – e che alimentano un filone di programmi


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