Azione 01 del 2 gennaio 2018

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Cooperativa Migros Ticino

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXI 2 gennaio 2018

Azione 01 M alle shopp pag ing ine 2325

Società e Territorio In Svizzera, la povertà forse non si vede ma c’è. E le cause sono molteplici

Ambiente e Benessere Il lampo gamma osservato di recente fa capire il motivo per cui siamo davvero entrati in una nuova era per l’astronomia pagina 6

pagina 5

Politica e Economia Gli imminenti giochi olimpici in Corea del Sud rischiano di essere i più politicizzati della storia

pagina 13

Cultura e Spettacoli E per il nuovo anno, tanta felicità... Ma cosa è in fondo questo stato d’animo?

pagina 17

Professione, guida turistica

Stefano Sp inelli

di Sara Rossi Guidicelli pagina 4

Note minute di declino e ascesa di Peter Schiesser Quando, fra Natale e Capodanno, non ci sono eventi eclatanti da registrare, a volte il fiato lungo della storia sta in piccole cose, notizie cui solitamente diamo poca importanza, che invece hanno il potenziale di svelarci realtà molto più ampie. Ne scelgo due per spiegarmi meglio: dal 2014 al 2016 la speranza di vita negli Stati Uniti è scesa da 78,9 anni a 78,6, e China Merchant Ports Holdings ha pagato 292 milioni di dollari al governo dello Sri Lanka in relazione al contratto di leasing per il porto di Hambantota. La prima notizia potrebbe sembrare una curiosità statistica, invece si rivela allarmante, poiché il calo è la conseguenza di una «epidemia da oppiacei» negli Stati Uniti come non si era mai vista prima: 52 mila morti per overdose da eroina o fentanyl nel 2015, 64 mila nel 2016. Non nei ghetti delle metropoli, fra neri e ispanici disadattati, ma nel Midwest, fra i bianchi che hanno perso una prospettiva di vita in seguito alla delocalizzazione delle fabbriche che davano lavoro nella regione – e che oggi votano Trump. In realtà il problema si aggrava dagli anni Novanta, spiegano esperti americani, ma fino a ieri era

mascherato dalla diminuzione dei decessi per problemi cardiovascolari. In precedenza, solo nel 1962 e 1963 a causa di una fatale epidemia di influenza e nel 1993 all’apice dell’epidemia di AIDS la speranza di vita era calata. E una superpotenza che non è più in grado di garantire quanto acquisito, in particolare la speranza di vita, è una superpotenza che presenta segni di declino, che in modo crescente dirige l’aggressività al suo interno. Lo vediamo anche nel confronto politico: non solo Trump agisce con totale disprezzo degli avversari (i democratici e qualche repubblicano), ma anche il partito repubblicano, in particolare la maggioranza repubblicana al Congresso, si comporta come se ci fossero solo nemici da sconfiggere e umiliare, cui imporre la legge del più forte. Trump sta smantellando quanto costruito da Obama, quando i democratici torneranno alla Casa Bianca faranno altrettanto. Ma così un paese non può progredire. Non una democrazia, in cui nessuno può avere poteri assoluti. Trump forse invidia Putin, Jinping, Erdogan, Modi, però non potrà mai imitarli. Chi invece di potere ne ha molto di più e lo utilizza è proprio Xi Jinping, o forse è meglio dire la Cina come potenza in rapida crescita. Veniamo qui alla seconda notizia, il pagamento di 292 milioni di

dollari al governo dello Sri Lanka da parte di un’azienda controllata dallo Stato cinese. Si tratta del 30 per cento di quanto pattuito a luglio dell’anno scorso e ufficializzato l’11 dicembre 2017 fra il governo dello Sri Lanka e la China Merchant Ports Holdings: un contratto di leasing valido 99 anni del nuovo porto di Hambantota e la circostante area (cui si aggiunge nelle vicinanze un aeroporto nuovissimo, attualmente inutilizzato, in futuro ad uso semi-esclusivo dei cinesi), per 974 milioni di dollari e promesse di investimenti nel paese per altri 146 milioni. Per la Cina, un ottimo affare: con il Pireo ad Atene e Darwin in Australia, Hambantota sarà uno dei porti in cui passerà la nuova Via della Seta cinese, il sistema di arterie della globalizzazione Made in China che Xi Jinping sta promuovendo. Come un ottimo affare per i cinesi sono anche gli altri progetti multimilionari nelle infrastrutture dello Sri Lanka: non perché generano utili, ma perché il governo di Colombo si sta indebitando talmente tanto con la Cina che deve cedere a Pechino le infrastrutture che le interessano. Un modello che Pechino sta applicando ovunque può. Il colonialismo cinese passa anche attraverso il controllo del debito pubblico degli altri paesi. E se una potenza ha questa forza, significa che è in ascesa.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 2 gennaio 2018 • N. 01

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 2 gennaio 2018 • N. 01

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Società e Territorio Poveri in un paese ricco Il 6,9 per cento della popolazione è esposto al rischio povertà, in Svizzera; una realtà spesso nascosta, che porta all’esclusione sociale

La povertà esiste anche da noi

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Socialità La ricca Svizzera nasconde importanti sacche di povertà. Quali sono le cause

Le vittime si facciano avanti

Fabio Dozio

bilancio intermedio stilato dal Cantone

«Come si fa a dire in poche parole della sofferenza individuale di un padre che riceve l’avviso di sfratto o il licenziamento e del dolore che investe tutta la sua famiglia, il tutto condito da poche e scarne prospettive di migliorare il proprio status e di pensare un futuro? O della giovane madre che si presenta con tre figli piccoli perché scappata di casa dopo averle prese per l’ennesima volta? Quali prospettive avranno i suoi tre figli?» È Luigi Romeo che parla, coordinatore dei servizi sociali comunali di Locarno, confrontato ogni giorno con la realtà della povertà e dell’esclusione sociale. In Svizzera, uno dei paesi più ricchi al mondo, con uno dei tenori di vita più alti d’Europa, la povertà esiste, anche se si vede poco, perché si nasconde fra le pieghe del benessere che inonda la maggioranza della popolazione. I dati parlano chiaro: nel 2016 circa una persona su cinque non aveva le risorse necessarie per far fronte a una spesa imprevista di 2500 franchi. Il 6,9% della popolazione era esposto a un rischio persistente di povertà. La percentuale dei bambini e dei giovani sotto i diciotto anni confrontati con il rischio della povertà è decisamente più alta e tocca il 16%. In base ai dati del 2014, in Svizzera quasi 73 mila bambini e giovani sono colpiti da povertà reddituale e 234 mila sono a rischio povertà. Un quadro decisamente preoccupante. «In Ticino, – precisa Romeo – grazie alla Laps, la legge sull’armonizzazione e il coordinamento delle prestazioni sociali e, quindi, agli assegni integrativi e di prima infanzia, questo fenomeno è contenuto. Comunque esiste e va monitorato perché è noto che povertà riproduce povertà per via delle mancate opportunità di cui questi bambini verranno privati all’interno della famiglia, della scuola e del gruppo dei pari». Il primo studio sulla povertà in Ticino risale al 1987. L’ ha curato l’economista Christian Marazzi e ha avuto il grande pregio di chiarire che nel nostro paese non siamo confrontati con una povertà assoluta, che la assimila alla fame, ma con una povertà relativa definita in relazione al livello medio di vita e alla vita normale della società. «I poveri sono quindi quelli che hanno meno – scrive Marazzi – o insufficientemente, sono delle categorie sfavorite che non partecipano pienamente alla vita sociale. In breve, la povertà è una privazione». A trent’anni di distanza una giovane studentessa, Cinzia Frei, ha dedicato la sua tesi di laurea a «La povertà estrema in Canton Ticino: bisogni e misure d’intervento». Nel suo lavoro ha individuato otto ambiti problematici che portano una persona a sprofondare nell’indigenza: una malattia improvvisa, un indebitamento, l’immigrazione, un lavoro poco remunerato, la tossicodipendenza, i collocamenti durante l’infanzia, la condizione monogenitoriale e lo statuto indipendente. «La povertà – annota l’Ufficio federale delle assicurazioni sociali – è commisurata anche al tenore di vita della società, ragion per cui occorre considerare pure i bisogni che vanno oltre quelli materiali. Essa interessa tutti gli ambiti della vita, con conseguenze anche sulle prospettive della formazione, sulla salute e sulla sicurezza; spesso causa anche l’esclusione dalla vita sociale e l’isolamento».

Finora in Ticino sono 99 le persone che si sono rivolte alle autorità cantonali – al Servizio per l’aiuto alle vittime di reati e all’Archivio di Stato del Cantone Ticino – per raccontare la propria storia o per la ricerca di documentazione. Sono invece 62 le persone annunciatesi dal Ticino per ricevere il contributo di solidarietà previsto dalla Confederazione come indennizzo alle vittime di misure coercitive a scopo assistenziale e collocamenti extrafamiliari prima del 1981. Come nel resto della Svizzera, il numero di richieste inoltrate dal Ticino risulta per il momento inferiore alle attese. In vista della scadenza del termine di legge per la richiesta del contributo, fissato per il 31 marzo 2018, il Consiglio di Stato ribadisce il sostegno offerto alle vittime e ai loro congiunti dalle autorità cantonali anche per quanto riguarda l’allestimento della domanda. Anche il Cantone Ticino ha avviato nei mesi scorsi una campagna di informazione e sostegno per le persone che hanno subito misure coercitive a scopo assistenziale e collocamenti extrafamiliari. La Legge federale, entrata in vigore il 1 aprile 2017, riconosce infatti alle vittime di provvedimenti decisi prima del 1981 il diritto a un contributo di solidarietà, quale riparazione per le ingiustizie subite. Anche se un bilancio definitivo sarà stilato solo al termine del periodo di inoltro, il numero di domande di un contributo di solidarietà finora raccolte in tutta la Svizzera è inferiore alle aspettative. In Ticino si sono rivolte ai servizi cantonali 99 persone e sono 62 quelle che hanno inoltrato una domanda; si tratta nella maggior parte dei casi di uomini che all’epoca dei fatti erano bambini, nati fra gli anni ’40 e ’50 del secolo scorso. Diversamente dalla situazione finora rilevata nel resto della Svizzera, è emerso che le vittime ticinesi furono nella maggior parte dei casi collocate in istituti – per decisione della Delegazione tutoria o della famiglia – e non in altri nuclei familiari. Il termine per ottenere il contributo di solidarietà, inoltrando una domanda all’Ufficio federale di giustizia, scadrà il 31 marzo 2018. Le autorità cantonali invitano quindi a prendere contatto con il Servizio per l’aiuto alle vittime di reati o l’Archivio di Stato del Cantone Ticino, incaricati di fornire assistenza per la ricerca della documentazione necessaria e per l’allestimento dei moduli di richiesta. Tutte le informazioni saranno trattate con la massima riservatezza e nel pieno rispetto delle normative sulla protezione dei dati personali. Informazioni dettagliate sulle procedure e le autorità di contatto sono pubblicate su una pagina web appositamente creata all’interno del sito del Cantone; un opuscolo informativo – disponibile anche sulla pagina web – è stato inoltre trasmesso a tutte le Cancellerie comunali ticinesi. Nelle scorse settimane, infine, la Confederazione e i promotori dell’iniziativa per la riparazione hanno avviato una seconda campagna di sensibilizzazione a livello nazionale, diffondendo un volantino a tutti gli enti potenzialmente interessati (case anziani, case di cura, studi medici, ecc.).

e cosa si fa per arginare il fenomeno

Il bello, il buono e il Ticino

Turismo Patricia Carminati, segretaria

dell’associazione Guide della Svizzera italiana, ci racconta del suo favoloso mestiere e dei nuovi turisti

Sara Rossi Guidicelli «Con la tecnologia del giorno d’oggi, nessuno farà più le visite guidate», si mormorava tra i corridoi delle scuole di turismo. «Speriamo che la gente continui però almeno a viaggiare...». La gente viaggia più che mai e le guide turistiche devono reinventare il loro mestiere. C’è ancora chi desidera il classico giro della città con fermata davanti a ogni monumento, chiesa e museo e a cui non importa se a parlare sia una voce registrata in un auricolare o una persona in carne ed ossa. Ma la guida turistica che incontriamo oggi in un ristorantino di Lugano non ha intenzione di ripetere giorno dopo giorno le stesse cose, mai e poi mai. «Cambio sempre tour, lo personalizzo a seconda del gruppo, dei suoi interessi e dell’età dei partecipanti». E ne inventa una nuova ogni settimana. Patricia Carminati ha iniziato a portare in giro turisti in Patagonia, quando aveva vent’anni. Saliva sui ghiacciai e faceva trekking. Poi nel 2000 è arrivata in Svizzera, si è trovata bene con i laghi e le montagne: «Era come a casa mia...», sorride. Ha avuto due figli che adesso sono grandi. «Mi sono iscritta all’Associazione GuideSI, che era stata fondata nel 1997. Ci siamo battuti per il riconoscimento della nostra professione che ancora non era iscritta a un albo. Ora abbiamo la scuola, proponiamo una formazione anche noi e collaboriamo con tutti gli enti turistici. C’è ancora strada da fare ma lavoriamo moltissimo», spiega Patricia che nel frattempo è diventata segretaria dell’Associazione. Delle 40 guide di GuideSI ognuno ha un po’ la sua specialità: ci si divide per regione geografica e anche per tema. Ci sono i tour dei parchi, dei musei, si può scegliere tra città o sentieri di montagna; ci sono i family tour e quelli in mountain bike; c’è l’offerta di andare sulle tracce di Mario Botta, i giri sul lago e le cacce al tesoro per scoprire i luoghi divertendosi. E la specialità di Patricia? I Food and Wine Tour. Per questo siamo qui in questo locale aperto da poco: perché deve provare e conoscere tutto, per offrire il meglio. Patricia fa la guida in inglese, spagnolo, francese, portoghese, italiano e tede-

sco. «I turisti di oggi arrivano già molto preparati. Hanno visto filmati, fotografie, letto articoli. Perché si spostano, allora? Per ricevere quella cosa che solo andando fisicamente in un posto puoi sentire: un odore, un’atmosfera, una parlata, un gusto. Dobbiamo trovare qualcosa di autentico, di unico; il nostro compito è creare un’esperienza al viaggiatore e dargli la possibilità di fare incontri indimenticabili. Alla fin fine il mio lavoro è quello di rendere felici le persone». Una volta le è capitato di portare un gruppo di iraniani in visita ai castelli di Bellinzona. Pioveva. Per loro era una gioia perché in Iran non piove quasi mai. Uno del gruppo a un certo punto l’ha presa per una manica e le ha detto: «Patricia, vorrei realizzare il sogno della mia vita. Posso togliermi la camicia e andare sotto l’acqua?». E così, l’iraniano si è messo a torso nudo felice beato a godersi la pioggia... e dopo non finiva più di ringraziarla, come se fosse stata lei ad aggiungere questo dettaglio meteorologico alla giornata. Un altro aneddoto: arriva una giornalista del «National Geografic» che chiede di realizzare un articolo con fotografie su artigiani del Ticino che abbiano storie particolari da raccontare. Per Patricia comincia il periodo di ricerca a destra e a sinistra di qualcosa che soddisfi la sua cliente e finalmente trova: «L’ho portata a casa di due gemelle di settant’anni che costruiscono marionette. Ci dicono che loro per accoglierci ci canteranno una canzone nella chiesa di Bedigliora. Immaginate due signore dalla voce angelica e una chitarra... la giornalista inglese era commossa fino alle lacrime. Quella sera se n’è andata dicendomi: “Ho una storia, è meravigliosa”. Per me, trovare la cosa giusta per ognuno è ciò che mi dà più soddisfazione, che sia un pullman di cinquanta persone o una coppia di innamorati». E così, per sei amici americani, ha organizzato una gita in battello sul Ceresio fino al Grotto San Rocco dove gli ospiti hanno potuto cucinare un risotto sotto la guida dello chef; per una signora statunitense che veniva a ritrovare la terra dei suoi avi ha preparato una giornata in Valle Maggia, con sosta al grotto per chiacchierare con chi aveva conosciuto suo nonno;

Patricia Carminati, Albert Caruso e i ragazzi di una terza media vodese durante la «caccia fotografica». (Stefano Spinelli)

alla squadra di calcio del San Gallo la miglior proposta è stato semplicemente un tour enogastronomico... E chi sono oggi i turisti che vengono in Ticino? «La parte più consistente è sempre composta da svizzero tedeschi, tedeschi e italiani; poi ci sono molti americani, cinesi e cominciano ad arrivare anche parecchi romandi. Ci sono i brasiliani che fanno il giro dell’Europa e non vogliono vedere solo le città d’arte o le grandi capitali, ma anche i ghiacciai e le nostre piccole città circondate da montagne; ci sono gli indiani che amano starsene al grotto immersi nel verde tutto il giorno; ci sono le visite di chi arriva con AlpTransit la mattina e riparte la sera; molti gruppi di giovani da tutta la Svizzera per addii al celibato/nubilato; ci sono arabi, filippini e russi (ma meno rispetto a un paio di anni fa); insomma geograficamente c’è di tutto, ma come dicevo, se

devo tracciare delle tendenze, direi che ora molti turisti cercano le piccole cose tipiche e autentiche e sono sempre più attratti dai programmi culinari. Infine, tra i ticinesi che si rivolgono a noi ci sono parecchie aziende o scuole che vogliono vedere con altri occhi ciò che già si crede di conoscere». Ci alziamo dal nostro buon pranzo e andiamo in Piazza Cioccaro, dove Patricia ha appuntamento con una classe di terza media del canton Vaud e un fotografo: Albert Caruso. Caruso ha quattro figlie e quando vanno in viaggio fotografano dettagli di quello che vedono e poi parte la gara degli indovinelli: dove abbiamo visto questo? Hai notato quest’altro? Ecco che allora gli è venuta un’idea, che ha già sviluppato varie volte insieme a Patricia Carminati di GuideSI. Si tratta di un gioco in cui ogni gruppo di partecipanti si suddivide in squadre e a ogni squadra viene

dato un certo numero di fotografie che rappresentano «pezzi» di Lugano: il leone sulla colonna all’entrata del Parco Ciani, un balcone particolarmente lavorato in Piazza Riforma, uno scorcio o un dettaglio architettonico e così via. Il gioco può abbinarsi a una piccola lezione di tecnica fotografica, perché i ragazzi devono rifotografare loro stessi quegli oggetti, mano a mano che li trovano sul loro percorso, per provare che li hanno visti. Oppure, semplicemente può essere un modo per visitare e notare più cose. È un allenamento a osservare e scoprire i piccoli segreti che il paesaggio urbano nasconde: un gioco che hanno chiamato caccia fotografica, che potrebbe fare chiunque di noi, anche se è nato qui. Perché ogni cosa cambia a seconda di come la si guarda e il segreto per essere sempre in viaggio è riuscire a stupirsi continuamente, anche di quello che c’è sotto casa propria.

Non sempre la povertà è così visibile: senzatetto trascorre la notte all’aeroporto di Zurigo. (Keystone)

«Ho sempre fatto fatica, anche in passato, a raccontare del mio quotidiano, – confessa Luigi Romeo – non mi piace esibirlo, perché il mio quotidiano è fatto, oggi più che in passato, dalla solitudine sociale e dalle disuguaglianze. Dalla sordità di uno Stato che ragiona col goniometro ed è sordo e schizofrenico». I dati e i numeri non bastano a descrivere il fenomeno, perciò va ricordato che non mancano i casi estremi. Per esempio, nel dicembre del 2016, a Massagno, cintura urbana di Lugano, un senzatetto di quarant’anni ha perso la vita a causa di un incendio sprigionatosi in uno scantinato dove trovava riparo. Era un immigrato dell’Italia del sud, che aveva fatto una vita normale fino a qualche tempo prima. I senzatetto sono una realtà preoccupante nel nostro Paese. In Ticino da anni Casa Astra a Mendrisio offre un letto a chi ne ha bisogno. A Locarno e a Bellinzona si stanno progettando analoghe strutture di accoglienza. A Lugano si dovrebbe concretizzare un progetto nel corso di questo anno, come ha dichiarato la municipale Cristina Zanini Barzaghi nel corso di una recente serata dedicata a questo tema. Se ne occuperà Fra Martino Dotta, che da tempo gestisce la mensa sociale di Lugano. La Costituzione cantonale afferma che «Ogni persona nel bisogno ha diritto a un alloggio» (art. 13), l’articolo 41e della Costituzione svizzera recita che: «La Confederazione e i Cantoni si adoperano affinché ognuno possa trovare, per se stesso e la sua famiglia, un’abitazione adeguata a condizioni sopportabili». Sono applicati questi dettati costituzionali? Secondo Fra Martino lo Stato non fa abbastanza in questo ambito. Le strutture di accoglienza sono nate tutte da iniziative private. I Comuni dimostrano maggiore disponibilità a impegnarsi su questo fronte, ma ci si potrebbe attendere di più. La Caritas denuncia l’insufficienza degli interventi cantonali e federali nella lotta contro la povertà. La Svizzera investe in questo settore l’1,5% del PIL, ben al disotto della media europea che si situa al 2,3%.

«In Ticino – spiega Luigi Romeo – i poveri sono il 17%, più del doppio rispetto alla media nazionale come evidenziato da una recente pubblicazione dell’Ufficio federale di statistica. La povertà in Ticino è un problema sempre più grande. Nel Cantone vivono di assistenza 8000 persone, 1200 delle quali hanno un lavoro, ma non riescono comunque ad arrivare alla fine del mese senza l’aiuto dello Stato. Questa categoria è in fortissimo aumento, il 200% in più nel 2016 rispetto al 2015: questo incremento è stato comunque artificioso e dato dalla modifica delle direttive sugli assegni familiari integrativi. La perdita del lavoro, un divorzio, un lutto, ma anche la nascita di un figlio possono mettere in crisi un fragile budget familiare. Uomo, solo, magari oltre i 50 anni e senza nessuna prospettiva di ritrovare un’occupazione. Oppure giovane: il 22,9% delle persone in assistenza ha meno di 20 anni, a fine formazione e senza prospettiva di un lavoro. Donna, separata, con figli piccoli e senza diritto agli assegni familiari integrativi o di prima infanzia. Cosa fa da fil rouge? La precarizzazione: sociale, economica, del lavoro e delle relazioni. Il liberismo economico che privatizza i profitti e socializza le perdite». La Costituzione federale prescrive che: «chi è nel bisogno e non è in grado di provvedere a se stesso ha diritto di essere aiutato e assistito e di ricevere i mezzi indispensabili per un’esistenza dignitosa». È forse applicato quest’altro dettato costituzionale? «In materia di garanzia del minimo vitale – sottolinea Caritas svizzera – ormai da decenni, i Cantoni e la Confederazione si rimpallano le responsabilità, forse nella speranza che l’altro risolva il problema. Così la situazione dei bambini toccati dalla povertà resta invariata». Nel 2014 la Confederazione ha lanciato il «Programma nazionale di prevenzione e di lotta alla povertà», che si dovrebbe sviluppare con diversi interventi: migliorare le condizioni di educazione e di formazione, integrazione professionale e sociale, aiuto alle fami-

glie, facilitazione dell’accesso all’alloggio. Obiettivi adeguati e necessari. Purtroppo, però, in Svizzera in questi ultimi anni si assiste a una contrazione delle politiche sociali. Il welfare che nel secondo dopoguerra era riuscito a offrire sicurezza e sostegno anche alle classi più povere si va indebolendo. Gli aiuti e le prestazioni si riducono in nome del risparmio. «La rete privata e pubblica sembra ancora reggere e funzionare – afferma Luigi Romeo –. Personalmente vedo comunque con preoccupazione alcuni rischi quali l’assuefazione al fenomeno “povertà” e la nascita di operazioni di maquillage e non strutturali sul mercato del lavoro, sui salari dignitosi e sulla socialità in generale. Tutto questo porta anche alla perdita della speranza e la rinuncia alla lotta da parte di chi è confrontato con questi problemi». Sono soprattutto gli Svizzeri nell’indigenza. Infatti, i dati pubblicati lo scorso dicembre dall’Ufficio federale di statistica relativi all’ottenimento dell’aiuto sociale finanziario rivelano che i cittadini elvetici sono più della metà dei 273 mila beneficiari. Le persone di nazionalità straniera – specifica l’UST – provengono principalmente da Paesi europei caratterizzati dalle migrazioni di lavoratori della seconda metà del ventesimo secolo (Italia, Spagna, Portogallo, Germania). Per quanto attiene lo stato civile, le persone celibi e nubili sono in maggioranza. Nella ricca Svizzera la povertà è una realtà tangibile e scandalosa. Riccardo Petrella – già professore di Ecologia umana all’Accademia di Mendrisio – ha lanciato un appello per dichiarare illegale la povertà, in quanto l’esclusione è la più grande violenza inferta alla dignità umana. Caritas svizzera, organizzazione in prima linea per sostenere gli interessi degli sfavoriti, si rivolge ancora una volta alle autorità: «Bisogna che la Confederazione, in collaborazione con i cantoni, i comuni, le organizzazioni civili e le stesse persone colpite da povertà, sviluppi una strategia svizzera di prevenzione e di lotta contro la povertà, con obiettivi chiari e misure efficienti sottoposte a valutazioni continue».

«Verdingkinder» Un


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 2 gennaio 2018 • N. 01

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Società e Territorio Poveri in un paese ricco Il 6,9 per cento della popolazione è esposto al rischio povertà, in Svizzera; una realtà spesso nascosta, che porta all’esclusione sociale

La povertà esiste anche da noi

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Socialità La ricca Svizzera nasconde importanti sacche di povertà. Quali sono le cause

Le vittime si facciano avanti

Fabio Dozio

bilancio intermedio stilato dal Cantone

«Come si fa a dire in poche parole della sofferenza individuale di un padre che riceve l’avviso di sfratto o il licenziamento e del dolore che investe tutta la sua famiglia, il tutto condito da poche e scarne prospettive di migliorare il proprio status e di pensare un futuro? O della giovane madre che si presenta con tre figli piccoli perché scappata di casa dopo averle prese per l’ennesima volta? Quali prospettive avranno i suoi tre figli?» È Luigi Romeo che parla, coordinatore dei servizi sociali comunali di Locarno, confrontato ogni giorno con la realtà della povertà e dell’esclusione sociale. In Svizzera, uno dei paesi più ricchi al mondo, con uno dei tenori di vita più alti d’Europa, la povertà esiste, anche se si vede poco, perché si nasconde fra le pieghe del benessere che inonda la maggioranza della popolazione. I dati parlano chiaro: nel 2016 circa una persona su cinque non aveva le risorse necessarie per far fronte a una spesa imprevista di 2500 franchi. Il 6,9% della popolazione era esposto a un rischio persistente di povertà. La percentuale dei bambini e dei giovani sotto i diciotto anni confrontati con il rischio della povertà è decisamente più alta e tocca il 16%. In base ai dati del 2014, in Svizzera quasi 73 mila bambini e giovani sono colpiti da povertà reddituale e 234 mila sono a rischio povertà. Un quadro decisamente preoccupante. «In Ticino, – precisa Romeo – grazie alla Laps, la legge sull’armonizzazione e il coordinamento delle prestazioni sociali e, quindi, agli assegni integrativi e di prima infanzia, questo fenomeno è contenuto. Comunque esiste e va monitorato perché è noto che povertà riproduce povertà per via delle mancate opportunità di cui questi bambini verranno privati all’interno della famiglia, della scuola e del gruppo dei pari». Il primo studio sulla povertà in Ticino risale al 1987. L’ ha curato l’economista Christian Marazzi e ha avuto il grande pregio di chiarire che nel nostro paese non siamo confrontati con una povertà assoluta, che la assimila alla fame, ma con una povertà relativa definita in relazione al livello medio di vita e alla vita normale della società. «I poveri sono quindi quelli che hanno meno – scrive Marazzi – o insufficientemente, sono delle categorie sfavorite che non partecipano pienamente alla vita sociale. In breve, la povertà è una privazione». A trent’anni di distanza una giovane studentessa, Cinzia Frei, ha dedicato la sua tesi di laurea a «La povertà estrema in Canton Ticino: bisogni e misure d’intervento». Nel suo lavoro ha individuato otto ambiti problematici che portano una persona a sprofondare nell’indigenza: una malattia improvvisa, un indebitamento, l’immigrazione, un lavoro poco remunerato, la tossicodipendenza, i collocamenti durante l’infanzia, la condizione monogenitoriale e lo statuto indipendente. «La povertà – annota l’Ufficio federale delle assicurazioni sociali – è commisurata anche al tenore di vita della società, ragion per cui occorre considerare pure i bisogni che vanno oltre quelli materiali. Essa interessa tutti gli ambiti della vita, con conseguenze anche sulle prospettive della formazione, sulla salute e sulla sicurezza; spesso causa anche l’esclusione dalla vita sociale e l’isolamento».

Finora in Ticino sono 99 le persone che si sono rivolte alle autorità cantonali – al Servizio per l’aiuto alle vittime di reati e all’Archivio di Stato del Cantone Ticino – per raccontare la propria storia o per la ricerca di documentazione. Sono invece 62 le persone annunciatesi dal Ticino per ricevere il contributo di solidarietà previsto dalla Confederazione come indennizzo alle vittime di misure coercitive a scopo assistenziale e collocamenti extrafamiliari prima del 1981. Come nel resto della Svizzera, il numero di richieste inoltrate dal Ticino risulta per il momento inferiore alle attese. In vista della scadenza del termine di legge per la richiesta del contributo, fissato per il 31 marzo 2018, il Consiglio di Stato ribadisce il sostegno offerto alle vittime e ai loro congiunti dalle autorità cantonali anche per quanto riguarda l’allestimento della domanda. Anche il Cantone Ticino ha avviato nei mesi scorsi una campagna di informazione e sostegno per le persone che hanno subito misure coercitive a scopo assistenziale e collocamenti extrafamiliari. La Legge federale, entrata in vigore il 1 aprile 2017, riconosce infatti alle vittime di provvedimenti decisi prima del 1981 il diritto a un contributo di solidarietà, quale riparazione per le ingiustizie subite. Anche se un bilancio definitivo sarà stilato solo al termine del periodo di inoltro, il numero di domande di un contributo di solidarietà finora raccolte in tutta la Svizzera è inferiore alle aspettative. In Ticino si sono rivolte ai servizi cantonali 99 persone e sono 62 quelle che hanno inoltrato una domanda; si tratta nella maggior parte dei casi di uomini che all’epoca dei fatti erano bambini, nati fra gli anni ’40 e ’50 del secolo scorso. Diversamente dalla situazione finora rilevata nel resto della Svizzera, è emerso che le vittime ticinesi furono nella maggior parte dei casi collocate in istituti – per decisione della Delegazione tutoria o della famiglia – e non in altri nuclei familiari. Il termine per ottenere il contributo di solidarietà, inoltrando una domanda all’Ufficio federale di giustizia, scadrà il 31 marzo 2018. Le autorità cantonali invitano quindi a prendere contatto con il Servizio per l’aiuto alle vittime di reati o l’Archivio di Stato del Cantone Ticino, incaricati di fornire assistenza per la ricerca della documentazione necessaria e per l’allestimento dei moduli di richiesta. Tutte le informazioni saranno trattate con la massima riservatezza e nel pieno rispetto delle normative sulla protezione dei dati personali. Informazioni dettagliate sulle procedure e le autorità di contatto sono pubblicate su una pagina web appositamente creata all’interno del sito del Cantone; un opuscolo informativo – disponibile anche sulla pagina web – è stato inoltre trasmesso a tutte le Cancellerie comunali ticinesi. Nelle scorse settimane, infine, la Confederazione e i promotori dell’iniziativa per la riparazione hanno avviato una seconda campagna di sensibilizzazione a livello nazionale, diffondendo un volantino a tutti gli enti potenzialmente interessati (case anziani, case di cura, studi medici, ecc.).

e cosa si fa per arginare il fenomeno

Il bello, il buono e il Ticino

Turismo Patricia Carminati, segretaria

dell’associazione Guide della Svizzera italiana, ci racconta del suo favoloso mestiere e dei nuovi turisti

Sara Rossi Guidicelli «Con la tecnologia del giorno d’oggi, nessuno farà più le visite guidate», si mormorava tra i corridoi delle scuole di turismo. «Speriamo che la gente continui però almeno a viaggiare...». La gente viaggia più che mai e le guide turistiche devono reinventare il loro mestiere. C’è ancora chi desidera il classico giro della città con fermata davanti a ogni monumento, chiesa e museo e a cui non importa se a parlare sia una voce registrata in un auricolare o una persona in carne ed ossa. Ma la guida turistica che incontriamo oggi in un ristorantino di Lugano non ha intenzione di ripetere giorno dopo giorno le stesse cose, mai e poi mai. «Cambio sempre tour, lo personalizzo a seconda del gruppo, dei suoi interessi e dell’età dei partecipanti». E ne inventa una nuova ogni settimana. Patricia Carminati ha iniziato a portare in giro turisti in Patagonia, quando aveva vent’anni. Saliva sui ghiacciai e faceva trekking. Poi nel 2000 è arrivata in Svizzera, si è trovata bene con i laghi e le montagne: «Era come a casa mia...», sorride. Ha avuto due figli che adesso sono grandi. «Mi sono iscritta all’Associazione GuideSI, che era stata fondata nel 1997. Ci siamo battuti per il riconoscimento della nostra professione che ancora non era iscritta a un albo. Ora abbiamo la scuola, proponiamo una formazione anche noi e collaboriamo con tutti gli enti turistici. C’è ancora strada da fare ma lavoriamo moltissimo», spiega Patricia che nel frattempo è diventata segretaria dell’Associazione. Delle 40 guide di GuideSI ognuno ha un po’ la sua specialità: ci si divide per regione geografica e anche per tema. Ci sono i tour dei parchi, dei musei, si può scegliere tra città o sentieri di montagna; ci sono i family tour e quelli in mountain bike; c’è l’offerta di andare sulle tracce di Mario Botta, i giri sul lago e le cacce al tesoro per scoprire i luoghi divertendosi. E la specialità di Patricia? I Food and Wine Tour. Per questo siamo qui in questo locale aperto da poco: perché deve provare e conoscere tutto, per offrire il meglio. Patricia fa la guida in inglese, spagnolo, francese, portoghese, italiano e tede-

sco. «I turisti di oggi arrivano già molto preparati. Hanno visto filmati, fotografie, letto articoli. Perché si spostano, allora? Per ricevere quella cosa che solo andando fisicamente in un posto puoi sentire: un odore, un’atmosfera, una parlata, un gusto. Dobbiamo trovare qualcosa di autentico, di unico; il nostro compito è creare un’esperienza al viaggiatore e dargli la possibilità di fare incontri indimenticabili. Alla fin fine il mio lavoro è quello di rendere felici le persone». Una volta le è capitato di portare un gruppo di iraniani in visita ai castelli di Bellinzona. Pioveva. Per loro era una gioia perché in Iran non piove quasi mai. Uno del gruppo a un certo punto l’ha presa per una manica e le ha detto: «Patricia, vorrei realizzare il sogno della mia vita. Posso togliermi la camicia e andare sotto l’acqua?». E così, l’iraniano si è messo a torso nudo felice beato a godersi la pioggia... e dopo non finiva più di ringraziarla, come se fosse stata lei ad aggiungere questo dettaglio meteorologico alla giornata. Un altro aneddoto: arriva una giornalista del «National Geografic» che chiede di realizzare un articolo con fotografie su artigiani del Ticino che abbiano storie particolari da raccontare. Per Patricia comincia il periodo di ricerca a destra e a sinistra di qualcosa che soddisfi la sua cliente e finalmente trova: «L’ho portata a casa di due gemelle di settant’anni che costruiscono marionette. Ci dicono che loro per accoglierci ci canteranno una canzone nella chiesa di Bedigliora. Immaginate due signore dalla voce angelica e una chitarra... la giornalista inglese era commossa fino alle lacrime. Quella sera se n’è andata dicendomi: “Ho una storia, è meravigliosa”. Per me, trovare la cosa giusta per ognuno è ciò che mi dà più soddisfazione, che sia un pullman di cinquanta persone o una coppia di innamorati». E così, per sei amici americani, ha organizzato una gita in battello sul Ceresio fino al Grotto San Rocco dove gli ospiti hanno potuto cucinare un risotto sotto la guida dello chef; per una signora statunitense che veniva a ritrovare la terra dei suoi avi ha preparato una giornata in Valle Maggia, con sosta al grotto per chiacchierare con chi aveva conosciuto suo nonno;

Patricia Carminati, Albert Caruso e i ragazzi di una terza media vodese durante la «caccia fotografica». (Stefano Spinelli)

alla squadra di calcio del San Gallo la miglior proposta è stato semplicemente un tour enogastronomico... E chi sono oggi i turisti che vengono in Ticino? «La parte più consistente è sempre composta da svizzero tedeschi, tedeschi e italiani; poi ci sono molti americani, cinesi e cominciano ad arrivare anche parecchi romandi. Ci sono i brasiliani che fanno il giro dell’Europa e non vogliono vedere solo le città d’arte o le grandi capitali, ma anche i ghiacciai e le nostre piccole città circondate da montagne; ci sono gli indiani che amano starsene al grotto immersi nel verde tutto il giorno; ci sono le visite di chi arriva con AlpTransit la mattina e riparte la sera; molti gruppi di giovani da tutta la Svizzera per addii al celibato/nubilato; ci sono arabi, filippini e russi (ma meno rispetto a un paio di anni fa); insomma geograficamente c’è di tutto, ma come dicevo, se

devo tracciare delle tendenze, direi che ora molti turisti cercano le piccole cose tipiche e autentiche e sono sempre più attratti dai programmi culinari. Infine, tra i ticinesi che si rivolgono a noi ci sono parecchie aziende o scuole che vogliono vedere con altri occhi ciò che già si crede di conoscere». Ci alziamo dal nostro buon pranzo e andiamo in Piazza Cioccaro, dove Patricia ha appuntamento con una classe di terza media del canton Vaud e un fotografo: Albert Caruso. Caruso ha quattro figlie e quando vanno in viaggio fotografano dettagli di quello che vedono e poi parte la gara degli indovinelli: dove abbiamo visto questo? Hai notato quest’altro? Ecco che allora gli è venuta un’idea, che ha già sviluppato varie volte insieme a Patricia Carminati di GuideSI. Si tratta di un gioco in cui ogni gruppo di partecipanti si suddivide in squadre e a ogni squadra viene

dato un certo numero di fotografie che rappresentano «pezzi» di Lugano: il leone sulla colonna all’entrata del Parco Ciani, un balcone particolarmente lavorato in Piazza Riforma, uno scorcio o un dettaglio architettonico e così via. Il gioco può abbinarsi a una piccola lezione di tecnica fotografica, perché i ragazzi devono rifotografare loro stessi quegli oggetti, mano a mano che li trovano sul loro percorso, per provare che li hanno visti. Oppure, semplicemente può essere un modo per visitare e notare più cose. È un allenamento a osservare e scoprire i piccoli segreti che il paesaggio urbano nasconde: un gioco che hanno chiamato caccia fotografica, che potrebbe fare chiunque di noi, anche se è nato qui. Perché ogni cosa cambia a seconda di come la si guarda e il segreto per essere sempre in viaggio è riuscire a stupirsi continuamente, anche di quello che c’è sotto casa propria.

Non sempre la povertà è così visibile: senzatetto trascorre la notte all’aeroporto di Zurigo. (Keystone)

«Ho sempre fatto fatica, anche in passato, a raccontare del mio quotidiano, – confessa Luigi Romeo – non mi piace esibirlo, perché il mio quotidiano è fatto, oggi più che in passato, dalla solitudine sociale e dalle disuguaglianze. Dalla sordità di uno Stato che ragiona col goniometro ed è sordo e schizofrenico». I dati e i numeri non bastano a descrivere il fenomeno, perciò va ricordato che non mancano i casi estremi. Per esempio, nel dicembre del 2016, a Massagno, cintura urbana di Lugano, un senzatetto di quarant’anni ha perso la vita a causa di un incendio sprigionatosi in uno scantinato dove trovava riparo. Era un immigrato dell’Italia del sud, che aveva fatto una vita normale fino a qualche tempo prima. I senzatetto sono una realtà preoccupante nel nostro Paese. In Ticino da anni Casa Astra a Mendrisio offre un letto a chi ne ha bisogno. A Locarno e a Bellinzona si stanno progettando analoghe strutture di accoglienza. A Lugano si dovrebbe concretizzare un progetto nel corso di questo anno, come ha dichiarato la municipale Cristina Zanini Barzaghi nel corso di una recente serata dedicata a questo tema. Se ne occuperà Fra Martino Dotta, che da tempo gestisce la mensa sociale di Lugano. La Costituzione cantonale afferma che «Ogni persona nel bisogno ha diritto a un alloggio» (art. 13), l’articolo 41e della Costituzione svizzera recita che: «La Confederazione e i Cantoni si adoperano affinché ognuno possa trovare, per se stesso e la sua famiglia, un’abitazione adeguata a condizioni sopportabili». Sono applicati questi dettati costituzionali? Secondo Fra Martino lo Stato non fa abbastanza in questo ambito. Le strutture di accoglienza sono nate tutte da iniziative private. I Comuni dimostrano maggiore disponibilità a impegnarsi su questo fronte, ma ci si potrebbe attendere di più. La Caritas denuncia l’insufficienza degli interventi cantonali e federali nella lotta contro la povertà. La Svizzera investe in questo settore l’1,5% del PIL, ben al disotto della media europea che si situa al 2,3%.

«In Ticino – spiega Luigi Romeo – i poveri sono il 17%, più del doppio rispetto alla media nazionale come evidenziato da una recente pubblicazione dell’Ufficio federale di statistica. La povertà in Ticino è un problema sempre più grande. Nel Cantone vivono di assistenza 8000 persone, 1200 delle quali hanno un lavoro, ma non riescono comunque ad arrivare alla fine del mese senza l’aiuto dello Stato. Questa categoria è in fortissimo aumento, il 200% in più nel 2016 rispetto al 2015: questo incremento è stato comunque artificioso e dato dalla modifica delle direttive sugli assegni familiari integrativi. La perdita del lavoro, un divorzio, un lutto, ma anche la nascita di un figlio possono mettere in crisi un fragile budget familiare. Uomo, solo, magari oltre i 50 anni e senza nessuna prospettiva di ritrovare un’occupazione. Oppure giovane: il 22,9% delle persone in assistenza ha meno di 20 anni, a fine formazione e senza prospettiva di un lavoro. Donna, separata, con figli piccoli e senza diritto agli assegni familiari integrativi o di prima infanzia. Cosa fa da fil rouge? La precarizzazione: sociale, economica, del lavoro e delle relazioni. Il liberismo economico che privatizza i profitti e socializza le perdite». La Costituzione federale prescrive che: «chi è nel bisogno e non è in grado di provvedere a se stesso ha diritto di essere aiutato e assistito e di ricevere i mezzi indispensabili per un’esistenza dignitosa». È forse applicato quest’altro dettato costituzionale? «In materia di garanzia del minimo vitale – sottolinea Caritas svizzera – ormai da decenni, i Cantoni e la Confederazione si rimpallano le responsabilità, forse nella speranza che l’altro risolva il problema. Così la situazione dei bambini toccati dalla povertà resta invariata». Nel 2014 la Confederazione ha lanciato il «Programma nazionale di prevenzione e di lotta alla povertà», che si dovrebbe sviluppare con diversi interventi: migliorare le condizioni di educazione e di formazione, integrazione professionale e sociale, aiuto alle fami-

glie, facilitazione dell’accesso all’alloggio. Obiettivi adeguati e necessari. Purtroppo, però, in Svizzera in questi ultimi anni si assiste a una contrazione delle politiche sociali. Il welfare che nel secondo dopoguerra era riuscito a offrire sicurezza e sostegno anche alle classi più povere si va indebolendo. Gli aiuti e le prestazioni si riducono in nome del risparmio. «La rete privata e pubblica sembra ancora reggere e funzionare – afferma Luigi Romeo –. Personalmente vedo comunque con preoccupazione alcuni rischi quali l’assuefazione al fenomeno “povertà” e la nascita di operazioni di maquillage e non strutturali sul mercato del lavoro, sui salari dignitosi e sulla socialità in generale. Tutto questo porta anche alla perdita della speranza e la rinuncia alla lotta da parte di chi è confrontato con questi problemi». Sono soprattutto gli Svizzeri nell’indigenza. Infatti, i dati pubblicati lo scorso dicembre dall’Ufficio federale di statistica relativi all’ottenimento dell’aiuto sociale finanziario rivelano che i cittadini elvetici sono più della metà dei 273 mila beneficiari. Le persone di nazionalità straniera – specifica l’UST – provengono principalmente da Paesi europei caratterizzati dalle migrazioni di lavoratori della seconda metà del ventesimo secolo (Italia, Spagna, Portogallo, Germania). Per quanto attiene lo stato civile, le persone celibi e nubili sono in maggioranza. Nella ricca Svizzera la povertà è una realtà tangibile e scandalosa. Riccardo Petrella – già professore di Ecologia umana all’Accademia di Mendrisio – ha lanciato un appello per dichiarare illegale la povertà, in quanto l’esclusione è la più grande violenza inferta alla dignità umana. Caritas svizzera, organizzazione in prima linea per sostenere gli interessi degli sfavoriti, si rivolge ancora una volta alle autorità: «Bisogna che la Confederazione, in collaborazione con i cantoni, i comuni, le organizzazioni civili e le stesse persone colpite da povertà, sviluppi una strategia svizzera di prevenzione e di lotta contro la povertà, con obiettivi chiari e misure efficienti sottoposte a valutazioni continue».

«Verdingkinder» Un


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Ambiente e Benessere Dall’animale all’uomo Zoonosi al centro dell’attenzione dell’Ufficio federale sicurezza alimentare e veterinaria pagina 7

Il vino sulle sponde del Reno La maggior parte dei vigneti germanici sono situati a ovest e a sud del Paese, e sposano le anse rialzate delle vallate fluviali pagina 8

Bello è anche buono? Spopola il Food Disegn come fosse una novità, ma valorizzare l’estetica di un piatto è qualcosa che si è sempre fatto, da millenni

Che cos’è la zoonosi? Mondoanimale Quando l’animale si ammala, l’essere umano

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non sempre ne è immune

Maria Grazia Buletti

Rappresentazione artistica di uno scontro tra stelle di neutroni: tre i fenomeni misurati, onde gravitazionali, lampo gamma, kilonova. (National Science Foundation/ LIGO/Sonoma State University/A. Simonnet)

Spesso gli animali si ammalano senza manifestare i sintomi della loro patologia e possono contagiare l’essere umano per mezzo delle derrate alimentari. Stiamo parlando di zoonosi: un gruppo di malattie che l’animale può trasmettere all’uomo (e viceversa) principalmente attraverso alimenti contaminati. È dunque fondamentale esercitare una stretta sorveglianza delle zoonosi negli animali, nell’uomo e nelle derrate alimentari, in modo da scongiurarne l’insorgenza e le relative conseguenze. Per questo, l’Ufficio federale sicurezza alimentare e veterinaria (Usav) pubblica annualmente i risultati relativi a tale sorveglianza, come pure quelli dei focolai di malattie provocate da derrate alimentari.

Da noi, le due principali patologie trasmesse dagli animali all’uomo sono la campilobatteriosi e la salmonellosi

Un giorno fortunato per l’astronomia

Notizie dallo spazio – 2. parte Il 17 agosto 2017 i rilevatori gravitazionali di tutto il mondo captano un segnale

originato dalla fusione di due stelle di neutroni, un evento che apre una nuova era per i ricercatori Simone Balmelli Alle 14.41 svizzere dello scorso 17 agosto, uno dei due rilevatori statunitensi di onde gravitazionali LIGO, costruito nello Stato di Washington, registra un segnale. Dopo pochi minuti di elaborazione dati, gli algoritmi notificano la ricezione di un’onda estremamente pulita, che sembra proprio corrispondere a quella emessa da due stelle di neutroni. Nel frattempo, e precisamente 1,7 secondi dopo l’arrivo del segnale gravitazionale, il satellite spaziale della NASA Fermi Gamma-ray Space Telescope ha registrato un lampo gamma della durata di circa due secondi: anche in questo caso, è proprio ciò che ci si potrebbe aspettare dalla fusione di due stelle di neutroni. Non si può fare a meno di pensare che l’onda gravitazionale e il lampo gamma abbiano avuto la stessa origine, e per la prima volta nasce la speranza di poter osservare l’evento anche con telescopi ottici. Nel tempo di circa mezz’ora un primo messaggio viene diffuso alla comunità astronomica mondiale. Per sapere in che direzione orientare il telescopio servono però maggiori informazioni. Il secondo rilevatore LIGO, posizionato in Louisiana, all’estremità

opposta degli Stati Uniti rispetto al suo gemello, non aveva fatto scattare nessun avviso. I ricercatori, contattati immediatamente dai colleghi, si rendono successivamente conto della presenza di un segnale registrato anche nel loro apparecchio. Un disturbo dello strumento (detto glitch), che ha luogo alcune volte al giorno senza che ne sia stata ancora identificata la causa, si era sovrapposto parzialmente, per uno sfortunato caso, proprio all’onda gravitazionale e aveva impedito che gli algoritmi la identificassero automaticamente. Ma ora ci sono due segnali: si può azzardare una localizzazione, che rischia tuttavia di essere ancora troppo approssimativa. Fortunatamente, esiste un terzo rilevatore gravitazionale, lo strumento europeo Virgo, che si è aggiunto alla ricerca soltanto a inizio agosto. Un segnale da parte di Virgo sarebbe di importanza fondamentale, ma al momento della ricezione da parte di LIGO l’analisi dati di Virgo è ferma per cercare di far fronte, anche in questo caso, a un glitch di disturbo. Anche qui viene perso del tempo, quasi un’ora, prima che i ricercatori si rendano conto di avere misurato a loro volta un’onda gravitazionale.

Non appena tutti e tre i segnali sono identificati, si passa alla localizzazione. Non c’è più tempo da perdere. Una prima mappatura, fornita verso le otto di sera svizzere, stabilisce che la sorgente proviene dall’emisfero sud, e che di conseguenza i telescopi in Cile sono probabilmente gli strumenti più adatti. Restano ancora diverse ore per pianificare le osservazioni prima che cali la notte in Cile. Ogni gruppo di ricerca, fra quelli coinvolti, vuole essere il primo a riuscire ad osservare qualcosa e si lancia in un lavoro febbrile. Vengono selezionate le galassie più grandi e attive presenti nella porzione di cielo indicata, si spera nella fortuna. Undici ore dopo la ricezione del segnale gravitazionale, verso le dieci di sera locali, il telescopio cileno Swope, sul Cerro Las Campanas, è il primo a scorgere una nuova sorgente luminosa nei pressi di una galassia posta a circa 100 milioni di anni luce di distanza da noi. Da quel momento, e per diversi giorni seguenti, decine di altri telescopi, operanti in tutte le bande di frequenza, hanno puntato verso la nuova sorgente. E la curva di luce osservata corrisponde proprio al modello teorico di una kilonova. È stata la più vasta operazione di osservazione astronomica di tutti i

tempi, resa possibile grazie alla velocità di comunicazione e di elaborazione. Lo scorso 16 ottobre, a seguito dell’annuncio ufficiale della scoperta, una trentina di articoli scientifici sono apparsi sulle riviste più prestigiose. Ricercatori da tutto il mondo hanno dato il loro contributo. Anche la Svizzera ha fatto la sua parte: per esempio, Maria Haney, ricercatrice al Physik-Institut dell’Università di Zurigo, ha partecipato all’analisi dati dell’onda gravitazionale misurata da LIGO/Virgo; o ancora, all’Università di Ginevra sono stati elaborati i dati del lampo gamma misurati da un satellite dell’ESA. Quel giorno, l’astronomia ha avuto davvero molta fortuna. Il lampo gamma in questione è stato emesso da una distanza dieci volte minore rispetto a ogni altro mai osservato. Erano state proprio le grandi distanze ad aver vanificato, in precedenza, la ricerca al telescopio di fenomeni concomitanti. Ma è il segnale gravitazionale a stabilire, con ottime probabilità, che si tratta proprio della collisione tra due stelle di neutroni, e a confermare dunque che questo tipo di stella può essere all’origine dei lampi gamma corti. L’onda gravitazionale ha portato informazioni anche sulla loro struttura interna,

e permette di scartare molti modelli finora ritenuti possibili, dando preferenza a quelli che prevedono una maggior compattezza della stella. Infine, ci sono anche risultati inaspettati: per esempio, l’analisi della kilonova ci ha permesso di capire che gli scontri di stelle di neutroni sono una vera e propria fucina cosmica per la creazione di alcuni metalli pesanti; si pensa addirittura che si tratti del meccanismo più importante a questo proposito. Prendete un qualsiasi anello d’oro: è probabile che la materia che vedete si sia formata nel bel mezzo di uno scontro colossale tra stelle di neutroni, miliardi di anni or sono. Quello che è successo il 17 agosto, forse ancora meglio delle precedenti misurazioni di onde gravitazionali, ci fa capire perché siamo davvero entrati in una nuova era per l’astronomia. Siamo in un’era in cui le onde gravitazionali permetteranno di anticipare alcuni eventi nell’universo. Ci basterà allora puntare il telescopio e, come se fossimo al cinema, aspettare che lo spettacolo inizi.

Le zoonosi sono dunque al centro dell’attenzione dell’Usav e la loro fluttuazione è pubblicata ogni anno nel Rapporto sulla sorveglianza delle epizoozie e delle zoonosi. Inoltre, un esaustivo rapporto svizzero sul tema viene redatto per l’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa) la quale, sulla base dei rapporti di tutti i Paesi UE e della Svizzera, redige ogni anno «The European Union suppary report on trends and sources of zoonoses, zoonotic agents and food-borne outbreacks». Si tratta di risultati statistici che consentono di valutare la posizione della Confederazione per rapporto a quella degli altri Paesi europei. Le principali zoonosi monitorate sono campilobatteriosi e salmonellosi, listeriosi, trichinellosi, tuberculosi, brucellosi ed echinococcosi. Dai dati Usav del 2016 si può dedurre che in Svizzera le prime due sono quelle riscontrate più di frequente nell’uomo: la campilobatteriosi con 7688 casi e

la salmonellosi con 1375 persone che l’hanno contratta, «principalmente attraverso derrate alimentari di origine animale contaminate». «La campilobatteriosi può colpire quasi tutti i nostri animali da reddito che generalmente non ne manifestano i sintomi, e può essere trasmessa all’essere umano attraverso gli alimenti», spiega l’Usav che indica pollame, uccelli selvatici, animali da compagnia come cani e gatti, animali da reddito (bovini, ovini, caprini e suini), roditori e infine l’uomo stesso come possibili veicoli di trasmissione. E conferma che: «Seppur diffusa in tutto il mondo, la campilobatteriosi si manifesta generalmente senza sintomi, mentre nei giovani animali possono apparire disturbi generali e infiammazioni dell’intestino». Per fermarne la diffusione si consiglia di creare gradualmente effettivi di pollame (in cui il tasso di contagio risulta essere particolarmente elevato) privi di agenti patogeni: «In questo ambito sono prioritari i provvedimenti igienici che evitano l’infezione del pollame, mentre l’obiettivo delle contromisure non è la protezione degli animali, dato che per questi la malattia è quasi sempre inoffensiva, ma quello di impedirne la trasmissione all’essere umano, per il quale il pericolo è costituito dalle carcasse infette che possono portare a un’infezione alimentare». «Nell’uomo la malattia causa dolori addominali, diarrea acquosa o emorragica, aumento della temperatura corporea e talvolta anche vomito e febbre alta» e le Regole di igiene nella preparazione degli alimenti sono indicate come «la chiave da seguire per evitare il contagio». Di fatto, il consumo di alimenti igienicamente sicuri è una condizione fondamentale per mantenersi in buona salute. Per poter mangiare in tutta sicurezza i cibi che portiamo in tavola, è dunque opportuno adottare alcune semplici precauzioni igieniche in fase di conservazione e preparazione. A questo proposito, l’Usav mette in guardia nei confronti di derrate crude («Derrate alimentari crude come la carne, il pollame, le uova, il pesce o i frutti di mare possono essere contaminate da germi patogeni. Se gli alimenti

Informazioni

La prima puntata è uscita sul no. 51 di «Azione» del 18 dicembre 2017.

Batteri di Salmonella fotografati al microscopio elettronico. (Wikimedia)

Da iX1 a iX9, i nuovi nomi delle BMW

Motori La casa tedesca avrebbe già depositato

i nomi delle future crossover e Suv elettriche

non sono conservati e preparati correttamente, questi germi possono essere trasmessi all’essere umano e provocare malattie gastrointestinali»); L’Usav consiglia quindi una cottura adeguata («La cottura a bassa temperatura favorisce la sopravvivenza dei germi patogeni presenti nelle derrate alimentari, segnatamente nel pollame e nella carne macinata») e invita a separare gli alimenti correttamente («I germi patogeni contenuti nelle derrate alimentari crude possono facilmente diffondersi ad altri alimenti»); inoltre, auspica la massima pulizia («Le mani, i taglieri, gli utensili e gli strofinacci da cucina sono tra i veicoli di trasmissione dei germi patogeni»), e infine rende attenti su una corretta conservazione degli alimenti («La conservazione a temperatura ambiente favorisce la moltiplicazione dei germi patogeni presenti nelle derrate alimentari»). E veniamo agli agenti patogeni della salmonellosi: «Sono batteri che colpiscono uomo, mammiferi, uccelli, rettili e anfibi, mentre i carnivori sono meno recettivi. La malattia si manifesta con sintomi che differiscono secondo la specie animale, l’età, lo stato immunitario e la virulenza dell’agente patogeno». Nell’uomo l’infezione da salmonella si manifesta con infiammazione intestinale, diarrea improvvisa, nausea, vomito, febbre, mal di testa e dolori addominali, mentre le raccomandazioni di prevenzione sono le stesse già descritte, a cui aggiungere un’accortezza che riguarda i viaggiatori per i quali il rischio di contrarre numerose zoonosi può aumentare secondo alcune mete turistiche molto frequentate o in Paesi con standard igienici carenti. Ad ogni modo, l’Usav sorveglia attentamente queste zoonosi attraverso programmi specifici e per alcune di loro sono raccolti dati a ogni livello della produzione di derrate alimentari: «Vale a dire: dall’animale al prodotto reperibile nei supermercati». Per le altre, si applica solo una sorveglianza passiva basata sui casi segnalati e l’Ufficio federale della salute pubblica (Ufsp) è responsabile della raccolta dei dati relativi all’uomo.

Mario Alberto Cucchi Il costruttore automobilistico tedesco BMW, secondo la rivista inglese «Autocar» (www.autocar.co.uk), avrebbe già depositato denominazioni che anticiperebbero il futuro lancio di crossover e Suv dotati di propulsore elettrico. La lista comprenderebbe ben nove modelli, ecco i nomi: iX1, iX2, iX3, iX4, iX5, iX6, iX7, iX8 e iX9. Dopotutto non sarebbe certo la prima volta che BMW mostra un approccio del genere. Ad esempio già nel 2010 registrò per una nuova gamma di auto elettriche i nomi i1, i2, i3, i4, i5, i6, i7, i8 e i9. Ad oggi, tuttavia, non esistono tutti questi nuovi modelli ma bensì solo due. L’attuale listino BMW «i» comprende infatti solamente i3 e i8, mentre non vi è traccia delle altre sigle già registrate.

BMW ha annunciato che entro il 2025 lancerà 25 modelli elettrificati, di cui 12 totalmente elettrici D’altronde il contesto attuale vede la domanda di auto elettriche in costante aumento da parte dei consumatori e per questa ragione i costruttori di auto ovviamente stanno arricchendo i loro listini con questo genere di vetture. Tornando all’indiscrezione riportata da «Autocar» va detto che, sino ad oggi, la Casa bavarese ha ufficializzato soltanto che la gamma X3 sarà dotata di una variante elettrica. Sembra infatti certo che nel 2018 il listino della nuova Bmw X3 si arricchirà di una versione ibrida plug-in che dovrebbe poi essere affiancata da una versione totalmente elettrica. Aspettando la versione più ecologica nelle concessionarie svizzere è da poco arrivata la nuova BMW X3 con prezzi a partire da circa 57mila franchi. Un mito che si rinnova. BMW ha, infatti, lanciato la prima serie della X3 nel 2003 creando il segmento degli Sports

Activity Vehicle di classe media, i SAV. Inizialmente era costruita soltanto nella fabbrica americana di Spartanburg, Sud Carolina, mentre oggi vengono costruite anche in Sud Africa e addirittura in Cina grazie alla joint venture con Brilliance. Un successo? Rispondono i numeri: oltre 1,5 milioni di unità vendute globalmente. La terza generazione di X3 che debutta ora, porta con sé tutta la tecnologia delle nuove BMW Serie 5 e Serie 7 compresi i sistemi di assistenza alla guida semi-autonoma. L’offerta BMW Co-Pilot per la X3 nel campo dell’assistenza alla guida e della guida semiautonoma comprende optional di ultima generazione come il Traffic Jam Assist e il pacchetto Driving Assistant Plus, inclusi l’assistente di sterzo e di mantenimento della carreggiata. Esteticamente la nuova X3 si distingue per le linee sportive e gli sbalzi corti che sottolineano la ripartizione dei pesi tra gli assi nel rapporto 50:50. Più lunga di 5,1 cm rispetto alla generazione precedente e con un passo maggiorato di 5,4 cm, abbina un buon comfort per gli occupanti a una capacità di carico sorprendente. Alleggerita da 50 a 90 kg rispetto alla serie precedente vanta inoltre un coefficiente di resistenza aerodinamica di 0,29, il migliore della sua categoria. Ai propulsori non mancano di certo i cavalli: si va dai 184 della X3 xDrive 2.0i ai 360 della X3 M40i che è in grado di scattare da ferma a cento orari in soli 4,8 secondi. Tornando a parlare di auto elettriche ed ecologia in occasione di un evento tenutosi a Monaco, l’amministratore delegato di BMW, Harald Krüger, ha confermato l’offensiva a batteria del Gruppo. Offensiva che si concretizzerà nello sviluppo di 25 modelli elettrificati entro il 2025, 12 dei quali totalmente elettrici. Prevista inoltre una significativa evoluzione della capacità delle batterie che consentirà di raggiungere un’autonomia di circa 700 chilometri e il processo di elettrificazione coinvolgerà anche il marchio Rolls-Royce e le vetture targate M.


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Il vino sulle sponde del Reno La maggior parte dei vigneti germanici sono situati a ovest e a sud del Paese, e sposano le anse rialzate delle vallate fluviali pagina 8

Bello è anche buono? Spopola il Food Disegn come fosse una novità, ma valorizzare l’estetica di un piatto è qualcosa che si è sempre fatto, da millenni

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Maria Grazia Buletti

Rappresentazione artistica di uno scontro tra stelle di neutroni: tre i fenomeni misurati, onde gravitazionali, lampo gamma, kilonova. (National Science Foundation/ LIGO/Sonoma State University/A. Simonnet)

Spesso gli animali si ammalano senza manifestare i sintomi della loro patologia e possono contagiare l’essere umano per mezzo delle derrate alimentari. Stiamo parlando di zoonosi: un gruppo di malattie che l’animale può trasmettere all’uomo (e viceversa) principalmente attraverso alimenti contaminati. È dunque fondamentale esercitare una stretta sorveglianza delle zoonosi negli animali, nell’uomo e nelle derrate alimentari, in modo da scongiurarne l’insorgenza e le relative conseguenze. Per questo, l’Ufficio federale sicurezza alimentare e veterinaria (Usav) pubblica annualmente i risultati relativi a tale sorveglianza, come pure quelli dei focolai di malattie provocate da derrate alimentari.

Da noi, le due principali patologie trasmesse dagli animali all’uomo sono la campilobatteriosi e la salmonellosi

Un giorno fortunato per l’astronomia

Notizie dallo spazio – 2. parte Il 17 agosto 2017 i rilevatori gravitazionali di tutto il mondo captano un segnale

originato dalla fusione di due stelle di neutroni, un evento che apre una nuova era per i ricercatori Simone Balmelli Alle 14.41 svizzere dello scorso 17 agosto, uno dei due rilevatori statunitensi di onde gravitazionali LIGO, costruito nello Stato di Washington, registra un segnale. Dopo pochi minuti di elaborazione dati, gli algoritmi notificano la ricezione di un’onda estremamente pulita, che sembra proprio corrispondere a quella emessa da due stelle di neutroni. Nel frattempo, e precisamente 1,7 secondi dopo l’arrivo del segnale gravitazionale, il satellite spaziale della NASA Fermi Gamma-ray Space Telescope ha registrato un lampo gamma della durata di circa due secondi: anche in questo caso, è proprio ciò che ci si potrebbe aspettare dalla fusione di due stelle di neutroni. Non si può fare a meno di pensare che l’onda gravitazionale e il lampo gamma abbiano avuto la stessa origine, e per la prima volta nasce la speranza di poter osservare l’evento anche con telescopi ottici. Nel tempo di circa mezz’ora un primo messaggio viene diffuso alla comunità astronomica mondiale. Per sapere in che direzione orientare il telescopio servono però maggiori informazioni. Il secondo rilevatore LIGO, posizionato in Louisiana, all’estremità

opposta degli Stati Uniti rispetto al suo gemello, non aveva fatto scattare nessun avviso. I ricercatori, contattati immediatamente dai colleghi, si rendono successivamente conto della presenza di un segnale registrato anche nel loro apparecchio. Un disturbo dello strumento (detto glitch), che ha luogo alcune volte al giorno senza che ne sia stata ancora identificata la causa, si era sovrapposto parzialmente, per uno sfortunato caso, proprio all’onda gravitazionale e aveva impedito che gli algoritmi la identificassero automaticamente. Ma ora ci sono due segnali: si può azzardare una localizzazione, che rischia tuttavia di essere ancora troppo approssimativa. Fortunatamente, esiste un terzo rilevatore gravitazionale, lo strumento europeo Virgo, che si è aggiunto alla ricerca soltanto a inizio agosto. Un segnale da parte di Virgo sarebbe di importanza fondamentale, ma al momento della ricezione da parte di LIGO l’analisi dati di Virgo è ferma per cercare di far fronte, anche in questo caso, a un glitch di disturbo. Anche qui viene perso del tempo, quasi un’ora, prima che i ricercatori si rendano conto di avere misurato a loro volta un’onda gravitazionale.

Non appena tutti e tre i segnali sono identificati, si passa alla localizzazione. Non c’è più tempo da perdere. Una prima mappatura, fornita verso le otto di sera svizzere, stabilisce che la sorgente proviene dall’emisfero sud, e che di conseguenza i telescopi in Cile sono probabilmente gli strumenti più adatti. Restano ancora diverse ore per pianificare le osservazioni prima che cali la notte in Cile. Ogni gruppo di ricerca, fra quelli coinvolti, vuole essere il primo a riuscire ad osservare qualcosa e si lancia in un lavoro febbrile. Vengono selezionate le galassie più grandi e attive presenti nella porzione di cielo indicata, si spera nella fortuna. Undici ore dopo la ricezione del segnale gravitazionale, verso le dieci di sera locali, il telescopio cileno Swope, sul Cerro Las Campanas, è il primo a scorgere una nuova sorgente luminosa nei pressi di una galassia posta a circa 100 milioni di anni luce di distanza da noi. Da quel momento, e per diversi giorni seguenti, decine di altri telescopi, operanti in tutte le bande di frequenza, hanno puntato verso la nuova sorgente. E la curva di luce osservata corrisponde proprio al modello teorico di una kilonova. È stata la più vasta operazione di osservazione astronomica di tutti i

tempi, resa possibile grazie alla velocità di comunicazione e di elaborazione. Lo scorso 16 ottobre, a seguito dell’annuncio ufficiale della scoperta, una trentina di articoli scientifici sono apparsi sulle riviste più prestigiose. Ricercatori da tutto il mondo hanno dato il loro contributo. Anche la Svizzera ha fatto la sua parte: per esempio, Maria Haney, ricercatrice al Physik-Institut dell’Università di Zurigo, ha partecipato all’analisi dati dell’onda gravitazionale misurata da LIGO/Virgo; o ancora, all’Università di Ginevra sono stati elaborati i dati del lampo gamma misurati da un satellite dell’ESA. Quel giorno, l’astronomia ha avuto davvero molta fortuna. Il lampo gamma in questione è stato emesso da una distanza dieci volte minore rispetto a ogni altro mai osservato. Erano state proprio le grandi distanze ad aver vanificato, in precedenza, la ricerca al telescopio di fenomeni concomitanti. Ma è il segnale gravitazionale a stabilire, con ottime probabilità, che si tratta proprio della collisione tra due stelle di neutroni, e a confermare dunque che questo tipo di stella può essere all’origine dei lampi gamma corti. L’onda gravitazionale ha portato informazioni anche sulla loro struttura interna,

e permette di scartare molti modelli finora ritenuti possibili, dando preferenza a quelli che prevedono una maggior compattezza della stella. Infine, ci sono anche risultati inaspettati: per esempio, l’analisi della kilonova ci ha permesso di capire che gli scontri di stelle di neutroni sono una vera e propria fucina cosmica per la creazione di alcuni metalli pesanti; si pensa addirittura che si tratti del meccanismo più importante a questo proposito. Prendete un qualsiasi anello d’oro: è probabile che la materia che vedete si sia formata nel bel mezzo di uno scontro colossale tra stelle di neutroni, miliardi di anni or sono. Quello che è successo il 17 agosto, forse ancora meglio delle precedenti misurazioni di onde gravitazionali, ci fa capire perché siamo davvero entrati in una nuova era per l’astronomia. Siamo in un’era in cui le onde gravitazionali permetteranno di anticipare alcuni eventi nell’universo. Ci basterà allora puntare il telescopio e, come se fossimo al cinema, aspettare che lo spettacolo inizi.

Le zoonosi sono dunque al centro dell’attenzione dell’Usav e la loro fluttuazione è pubblicata ogni anno nel Rapporto sulla sorveglianza delle epizoozie e delle zoonosi. Inoltre, un esaustivo rapporto svizzero sul tema viene redatto per l’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa) la quale, sulla base dei rapporti di tutti i Paesi UE e della Svizzera, redige ogni anno «The European Union suppary report on trends and sources of zoonoses, zoonotic agents and food-borne outbreacks». Si tratta di risultati statistici che consentono di valutare la posizione della Confederazione per rapporto a quella degli altri Paesi europei. Le principali zoonosi monitorate sono campilobatteriosi e salmonellosi, listeriosi, trichinellosi, tuberculosi, brucellosi ed echinococcosi. Dai dati Usav del 2016 si può dedurre che in Svizzera le prime due sono quelle riscontrate più di frequente nell’uomo: la campilobatteriosi con 7688 casi e

la salmonellosi con 1375 persone che l’hanno contratta, «principalmente attraverso derrate alimentari di origine animale contaminate». «La campilobatteriosi può colpire quasi tutti i nostri animali da reddito che generalmente non ne manifestano i sintomi, e può essere trasmessa all’essere umano attraverso gli alimenti», spiega l’Usav che indica pollame, uccelli selvatici, animali da compagnia come cani e gatti, animali da reddito (bovini, ovini, caprini e suini), roditori e infine l’uomo stesso come possibili veicoli di trasmissione. E conferma che: «Seppur diffusa in tutto il mondo, la campilobatteriosi si manifesta generalmente senza sintomi, mentre nei giovani animali possono apparire disturbi generali e infiammazioni dell’intestino». Per fermarne la diffusione si consiglia di creare gradualmente effettivi di pollame (in cui il tasso di contagio risulta essere particolarmente elevato) privi di agenti patogeni: «In questo ambito sono prioritari i provvedimenti igienici che evitano l’infezione del pollame, mentre l’obiettivo delle contromisure non è la protezione degli animali, dato che per questi la malattia è quasi sempre inoffensiva, ma quello di impedirne la trasmissione all’essere umano, per il quale il pericolo è costituito dalle carcasse infette che possono portare a un’infezione alimentare». «Nell’uomo la malattia causa dolori addominali, diarrea acquosa o emorragica, aumento della temperatura corporea e talvolta anche vomito e febbre alta» e le Regole di igiene nella preparazione degli alimenti sono indicate come «la chiave da seguire per evitare il contagio». Di fatto, il consumo di alimenti igienicamente sicuri è una condizione fondamentale per mantenersi in buona salute. Per poter mangiare in tutta sicurezza i cibi che portiamo in tavola, è dunque opportuno adottare alcune semplici precauzioni igieniche in fase di conservazione e preparazione. A questo proposito, l’Usav mette in guardia nei confronti di derrate crude («Derrate alimentari crude come la carne, il pollame, le uova, il pesce o i frutti di mare possono essere contaminate da germi patogeni. Se gli alimenti

Informazioni

La prima puntata è uscita sul no. 51 di «Azione» del 18 dicembre 2017.

Batteri di Salmonella fotografati al microscopio elettronico. (Wikimedia)

Da iX1 a iX9, i nuovi nomi delle BMW

Motori La casa tedesca avrebbe già depositato

i nomi delle future crossover e Suv elettriche

non sono conservati e preparati correttamente, questi germi possono essere trasmessi all’essere umano e provocare malattie gastrointestinali»); L’Usav consiglia quindi una cottura adeguata («La cottura a bassa temperatura favorisce la sopravvivenza dei germi patogeni presenti nelle derrate alimentari, segnatamente nel pollame e nella carne macinata») e invita a separare gli alimenti correttamente («I germi patogeni contenuti nelle derrate alimentari crude possono facilmente diffondersi ad altri alimenti»); inoltre, auspica la massima pulizia («Le mani, i taglieri, gli utensili e gli strofinacci da cucina sono tra i veicoli di trasmissione dei germi patogeni»), e infine rende attenti su una corretta conservazione degli alimenti («La conservazione a temperatura ambiente favorisce la moltiplicazione dei germi patogeni presenti nelle derrate alimentari»). E veniamo agli agenti patogeni della salmonellosi: «Sono batteri che colpiscono uomo, mammiferi, uccelli, rettili e anfibi, mentre i carnivori sono meno recettivi. La malattia si manifesta con sintomi che differiscono secondo la specie animale, l’età, lo stato immunitario e la virulenza dell’agente patogeno». Nell’uomo l’infezione da salmonella si manifesta con infiammazione intestinale, diarrea improvvisa, nausea, vomito, febbre, mal di testa e dolori addominali, mentre le raccomandazioni di prevenzione sono le stesse già descritte, a cui aggiungere un’accortezza che riguarda i viaggiatori per i quali il rischio di contrarre numerose zoonosi può aumentare secondo alcune mete turistiche molto frequentate o in Paesi con standard igienici carenti. Ad ogni modo, l’Usav sorveglia attentamente queste zoonosi attraverso programmi specifici e per alcune di loro sono raccolti dati a ogni livello della produzione di derrate alimentari: «Vale a dire: dall’animale al prodotto reperibile nei supermercati». Per le altre, si applica solo una sorveglianza passiva basata sui casi segnalati e l’Ufficio federale della salute pubblica (Ufsp) è responsabile della raccolta dei dati relativi all’uomo.

Mario Alberto Cucchi Il costruttore automobilistico tedesco BMW, secondo la rivista inglese «Autocar» (www.autocar.co.uk), avrebbe già depositato denominazioni che anticiperebbero il futuro lancio di crossover e Suv dotati di propulsore elettrico. La lista comprenderebbe ben nove modelli, ecco i nomi: iX1, iX2, iX3, iX4, iX5, iX6, iX7, iX8 e iX9. Dopotutto non sarebbe certo la prima volta che BMW mostra un approccio del genere. Ad esempio già nel 2010 registrò per una nuova gamma di auto elettriche i nomi i1, i2, i3, i4, i5, i6, i7, i8 e i9. Ad oggi, tuttavia, non esistono tutti questi nuovi modelli ma bensì solo due. L’attuale listino BMW «i» comprende infatti solamente i3 e i8, mentre non vi è traccia delle altre sigle già registrate.

BMW ha annunciato che entro il 2025 lancerà 25 modelli elettrificati, di cui 12 totalmente elettrici D’altronde il contesto attuale vede la domanda di auto elettriche in costante aumento da parte dei consumatori e per questa ragione i costruttori di auto ovviamente stanno arricchendo i loro listini con questo genere di vetture. Tornando all’indiscrezione riportata da «Autocar» va detto che, sino ad oggi, la Casa bavarese ha ufficializzato soltanto che la gamma X3 sarà dotata di una variante elettrica. Sembra infatti certo che nel 2018 il listino della nuova Bmw X3 si arricchirà di una versione ibrida plug-in che dovrebbe poi essere affiancata da una versione totalmente elettrica. Aspettando la versione più ecologica nelle concessionarie svizzere è da poco arrivata la nuova BMW X3 con prezzi a partire da circa 57mila franchi. Un mito che si rinnova. BMW ha, infatti, lanciato la prima serie della X3 nel 2003 creando il segmento degli Sports

Activity Vehicle di classe media, i SAV. Inizialmente era costruita soltanto nella fabbrica americana di Spartanburg, Sud Carolina, mentre oggi vengono costruite anche in Sud Africa e addirittura in Cina grazie alla joint venture con Brilliance. Un successo? Rispondono i numeri: oltre 1,5 milioni di unità vendute globalmente. La terza generazione di X3 che debutta ora, porta con sé tutta la tecnologia delle nuove BMW Serie 5 e Serie 7 compresi i sistemi di assistenza alla guida semi-autonoma. L’offerta BMW Co-Pilot per la X3 nel campo dell’assistenza alla guida e della guida semiautonoma comprende optional di ultima generazione come il Traffic Jam Assist e il pacchetto Driving Assistant Plus, inclusi l’assistente di sterzo e di mantenimento della carreggiata. Esteticamente la nuova X3 si distingue per le linee sportive e gli sbalzi corti che sottolineano la ripartizione dei pesi tra gli assi nel rapporto 50:50. Più lunga di 5,1 cm rispetto alla generazione precedente e con un passo maggiorato di 5,4 cm, abbina un buon comfort per gli occupanti a una capacità di carico sorprendente. Alleggerita da 50 a 90 kg rispetto alla serie precedente vanta inoltre un coefficiente di resistenza aerodinamica di 0,29, il migliore della sua categoria. Ai propulsori non mancano di certo i cavalli: si va dai 184 della X3 xDrive 2.0i ai 360 della X3 M40i che è in grado di scattare da ferma a cento orari in soli 4,8 secondi. Tornando a parlare di auto elettriche ed ecologia in occasione di un evento tenutosi a Monaco, l’amministratore delegato di BMW, Harald Krüger, ha confermato l’offensiva a batteria del Gruppo. Offensiva che si concretizzerà nello sviluppo di 25 modelli elettrificati entro il 2025, 12 dei quali totalmente elettrici. Prevista inoltre una significativa evoluzione della capacità delle batterie che consentirà di raggiungere un’autonomia di circa 700 chilometri e il processo di elettrificazione coinvolgerà anche il marchio Rolls-Royce e le vetture targate M.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 2 gennaio 2018 • N. 01

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Ambiente e Benessere

L’arte di coltivare in un clima freddo

Azione

Bacco Giramondo La Germania produce

essenzialmente vini bianchi, la cui qualità, freschezza ed eleganza può durare nel tempo – 1a parte

Davide Comoli Sappiamo che la composizione del suolo, il clima e soprattutto la scelta dei vitigni sono i fattori primari che determinano i profumi, i sapori e lo stile di un vino. I produttori tedeschi amano molto sottolineare questi particolari rispetto alle altre prestigiose regioni viticole del mondo: giacché la temperatura di queste zone d’Europa rendono difficile l’ottenimento di un’ottima maturazione delle uve, si cerca quindi di ovviare a questo handicap coltivando la vite sui siti meglio esposti. Ecco perché la maggior parte dei vigneti germanici sono situati a ovest e a sud del Paese, e sposano le anse rialzate delle vallate fluviali, come quelle del Reno e dei suoi affluenti. La viticoltura germanica si trova sul 50° parallelo e addirittura i distretti orientali di Saale-Unstrut e Sachsen, si trovano ancora più a nord. La possibilità di coltivare la vite così a nord dipende in parte dall’influenza mitigante della corrente del Golfo del Messico, ma soprattutto dalle posizioni vantaggiose dei vigneti, esposti a sud. Le vigne sono spesso messe a dimora lungo i costoni scelti per la loro vicinanza ai fiumi, che danno una buona protezione al gelo primaverile, il quale – in certe annate – può addirittura vanificare gli sforzi di un anno di lavoro. Il clima fresco contribuisce a far maturare le uve molto lentamente, dando loro il tempo di formare molto estratto e sostanze aromatiche, ciò che spiega il motivo per cui il tenore alcolico dei vini è relativamente basso, mentre l’acidità può essere particolarmente elevata, caratteristica propria dei vini tedeschi. Generalmente la Germania produce essenzialmente vini bianchi, la cui qualità, freschezza ed eleganza può durare nel tempo. È questo il caso del Riesling i cui primi ceppi furono portati dalle legioni di Roma con il nome di Argitis Minor e messi a dimora sulle rive del Reno e della Mosella. Intorno all’800, Carlo Magno, favorì la selezione di vitigni di qualità; stabilì una prima classificazione dei vigneti e promulgò delle leggi che proteggevano i vignaiuoli e i mercanti e, come accaduto in altri Paesi europei, dopo l’anno Mille, furono gli Ordini Monastici a giocare un ruolo importante e pioneristico per la viticoltura; di buon esempio è il monastero cistercense di Eberbach, ancora oggi in attività, che già nel XII secolo era famoso per i suoi leggendari vini bianchi. Nel XVI secolo erano recensiti circa 300mila ettari vitati (il triplo di quello odierno) e la consumazione pro capite era di 120 litri per persona! Cinque volte superiore a quella odierna. Oggi il vigneto della Germania si estende su circa 102mila ettari, con circa 7 milioni di ettolitri di vino prodotto, che portano il Paese a occupare il decimo posto nella classifica mondiale. Oggi i vitigni bianchi coltivati occupano circa il 68 per cento del territorio (20 anni fa era-

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Vigneti in autunno che si affacciano su Randersacker vicino a Würzburg, Bassa Franconia nel nord della Baviera. (Axel)

no l’85 per cento). I sistemi di impianto sono quasi completamente a spalliera, soprattutto a cordone speronato. Il vitigno principe è senz’altro il Riesling, che nonostante le latitudini non troppo favorevoli, riesce a dare vita a prodotti di grande acidità e ottimo equilibrio, creando alle volte un’incredibile caleidoscopio di profumi, con note minerali e con ottime possibilità nell’evolvere. Poi troviamo il MüllerThurgau dagli accattivanti sentori di fiori di campo, il Sylvaner con i suoi profumi di nocciole che ricordano alcuni Chardonnay della Borgogna, il Kerner, il Pinot Grigio che qui chiamano Grauburgunder o Ruländer, il Pinot Bianco o Weissburgunder, spesso usato per i Sekt (spumanti). E qui vorremmo aprire una parentesi su questa tipologia di vini. La Germania è il paese al mondo dove si consumano più spumanti di ogni tipologia. Vivaci, freschi e con limitate gradazioni alcoliche, sono i vini che assomigliano di più alla birra, bevanda nazionale con un consumo pro capite di ben 115 litri! Sembra, dice la leggenda, che fu Otto von Bismarck (1815-1898) il cancelliere di Guglielmo I, a invitare i pigri tedeschi a bere questo genere di vino, per ravvivarli e tenerli desti. E ancora il Baccus, incrocio tra Sylvaner e Riesling, come lo è lo Scheurebe. Tra i rossi troviamo lo Spätburgunder (Pinot Nero), il Portugieser, il Dornfelder, il Trollinger che non è nient’altro che la Schiava Grossa in Trentino e la Vernatsch in Alto Adige. Quando si parla di Germania, si sente molto spesso citare la parola Oechsle, questa parola manda spesso in tilt i non addetti ai lavori, vediamo di dare una spiegazione. Circa 200 anni fa, nella Pforzheim, abitava un fisico di nome Ferdinand Oechsle (1774-1852), piccolo produttore in proprio. Lo irritava molto il fatto che i vignaiuoli del posto non erano mai in grado di prevedere quale sarebbe stato il risultato della vendemmia. Il nostro personaggio aveva capito però che la qualità e la longevità dei vini, erano strettamente legati al grado alcolico e che questo, a sua volta, dipendeva dal peso specifico del mosto, quindi dal suo grado zuccherino. Per poter misurare il peso specifico egli costruì una specie di densimetro (mostimetro). Il punto di partenza del suo metodo fu che se un litro di acqua pesa 1000 grammi e se il mosto pesa per esempio 1080 grammi per litro, allora la densità è di 80 gradi Oechsle, un po’ meno di 10 per cento di alcol, ma per i vini tedeschi la percentuale di alcol è di secondaria importanza. I vini secchi tedeschi con una gradazione alcolica tra 12-13 per cento sono ormai una norma; trattati da ottimi enologi, possono sviluppare più carattere e un sapore più complesso. A creare confusione spesso concorrono le etichette dei vini, molto esplicite, ma per i profani le meno chiare del mondo, di questo però ne riparleremo.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 2 gennaio 2018 • N. 01

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Ambiente e Benessere

Forma, bellezza e creatività Un nuovo termine si aggira nel mondo della cucina: food design. Molti lo citano, molti ne hanno paura, molti non sanno proprio cosa sia. Vediamo di capire che cos’è. Sostanzialmente vuol dire tre cose: 1. modificare colore, texture, ecc degli alimenti; 2. abbinarli in maniera nuova e creativa; 3. posizionarli nel piatto in maniera «bella», concetto meno personale e astratto di quanto sembri, nel senso che deve piacere al target di pubblico per il quale un ristorante lavora.

I cuochi hanno capito che non si mangia solo con gusto e olfatto ma anche con gli occhi: un bel piatto è subito buono Tutti i reazionari della cucina odiano il termine food design e questo approccio alla cucina. Sono vittime di una diffusa sindrome che dice che più il piatto è pieno, meglio è, sindrome causata dalla storica povertà che ci portiamo dietro, anche se la fame, per fortuna, è finita: oggi il problema è il sovrappeso dilagante. E ovviamente se riempi un piatto in modo più che abbondante di cibo comfort, quello che tutti amano (diciamo pasta al pomodoro o risotto giallo), come sistemarlo nel piatto è l’ultimo dei problemi… Io il termine non lo odio, per nulla. Ma per un particolare motivo: che si è sempre fatto così, da millenni. La cucina in prima battuta è stata rendere commestibili ingredienti che di loro non lo erano, di farina o di patata cruda non si sa che fare; in seconda battuta, si è prodigata per sanificare, ché il cibo con i suoi germi e parassiti è sempre stato un grande killer (e solo il molto caldo li ammazzava). Fin da subito è stata, però, anche la ricerca del buono: abbinare gli ingredienti in modo piacevole. Dal canto loro i cuochi hanno ca-

pito altrettanto velocemente che non si mangia solo con gusto e olfatto, ma anche con gli occhi (e peraltro col tatto e l’udito…) quindi con tutti i sensi integrati e che un piatto «bello» diventava automaticamente, o comunque più facilmente, «buono». E quindi via col food design, anche se ancora non lo chiamavano così. Gli esempi sono infiniti, dai banchetti rituali egizi e dell’antica Cina ad Ateneo di Naucrati, guru greco dell’arte del banchetto, da Marco Gavio Apicio, guru romano, a Martino da Como, ticinese padre della cucina italiana, che metteva bambagia nel becco dei volatili cotti, la inzuppava di alcoli e le dava fuoco: più food design di così non si può. E pure un merito a quegli ignoti cuochi piemontesi che ebbero la bizzarra idea di nappare vitello freddo con una salsa a base di tonno: et voilà il vitel tonné. Come i loro connazionali, altrettanto ignoti, napoletani che ebbero la bizzarra idea di condire la pasta secca cotta con una curiosa pianta americana che molti ritenevano tossica, il pomodoro. E avanti tutta con il food design! A sdoganarlo negli ultimi anni sono stati i pasticceri e molti l’hanno fatto anche con l’aiuto di artisti del bello, pittori ma anche architetti: di nuovo nulla di nuovo, il sommo Marie-Antoine Carême diceva che la pasticceria è un ramo dell’architettura. E poi tutti i cuochi, soprattutto quelli ambiziosi e innovativi, sanno che sistemare su un piatto una pietanza composita, fatta con tanti ingredienti, non è certo facile. Ciononostante, le nuove idee sono nate sempre nel rispetto di una regola assoluta: la cucina non è arte, che a sua volta non è riproducibile per definizione, ma è artigianato, riproducibile per definizione. Alto, medio o anche basso ma sempre artigianato. E poi artigianato che deve funzionare, ovvero i clienti devi intercettarli tutti i giorni altrimenti fallisci. La vera grandezza di un cuoco sta proprio nell’intercettare quello che i suoi clienti vogliono: con la gola e con gli occhi.

CSF (come si fa)

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Allan Bay

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Gastronomia Si fa strada nel mondo della cucina un «finto nuovo» approccio: il food design

Curioso il destino del gulasch. Tutti sappiamo che è uno dei piatti nazionali austriaci, che peraltro non negano l’origine ungherese della pietanza. Tuttavia, in Ungheria il piatto che in Austria si chiama gulasch si chiama pörkölt, mentre il gulyàs, così è giusto traslitterarlo, in terra magiara è una densa zuppona… La cucina è zeppa di nomi strani, uno ispirato ad altri ma

poi sviluppatosi e cambiato per conto suo: ma un pasticcio semantico come questo sembra quasi impossibile. Comunque, vediamo come si fa il pörkölt alias gulasch. La ricetta me l’ha data un’amica ungherese che fa la ristoratrice a Milano. Si chiama Tunde Pecsvari, è nata a Balatonfüred, di famiglia tedesco-ungherese: il nonno che di cognome faceva Persching fu «convinto» nel 1945 e cambiare cognome, il perché è ovvio; fra quelli proposti scelse Pecsvari, che più ungherese non si può. È approdata per caso e per destino in Italia, oggi possiede tre ristoranti di successo a Milano: uno tosco-italiano, uno fusion asiatico e uno giapponese, quindi nessuno dei tre ungherese! Pörkölt. Ingredienti per 4 persone: 1 kg di polpa di manzo, 400 g di patate, 500

g di cipolle dorate, 4 pomodori, cumino, paprika dolce, brodo di manzo, olio di semi di girasole, sale e pepe. Fate appassire le cipolle sbucciate e tagliate a cubetti in poco olio, mescolando per evitare che scuriscano. Togliete la cipolla dal fuoco, aggiungete ancora poco olio e fate rosolare per 5 minuti la carne tagliata a dadi di 4 cm per 4 cm. Unite la cipolla, 2 dl di brodo di manzo, i pomodori sbollentati, pelati, privati dei semi e tritati grossolanamente e 1 cucchiaio di cumino. Cuocete coperto a fuoco dolcissimo per 2 ore circa unendo poco brodo bollente se asciugasse troppo. Aggiungete le patate sbucciate e tagliate a dadoni e completate la cottura per 30’. Spolverizzate con 2 cucchiai di paprika e mescolate per 1’. Regolate di sale e di pepe e servite.

Ballando coi gusti E con tutti gli avanzi che avete accumulato in questi giorni di festa, oggi polpette, perfette per riciclare.

Polpette nella verza

Polpette in umido

Ingredienti per 4 persone: 8 foglie grandi di verza · 600 g di avanzi misti di carni magre e grasse · 50 g di pancetta a dadini · 50 g di grana grattugiato · 1 uovo · 50 g di pane raffermo · latte · prezzemolo · 1 cipolla rossa · vino bianco · brodo vegetale · burro · sale.

Ingredienti per 4 persone: 600 g di avanzi misti di carni magre e grasse · 2 cipolle

Lavate le foglie di verza e sbollentatele per 2’, sgocciolatele e stendetele su un canovaccio, poi appiattitene le coste con il batticarne e allargatele sul piano di lavoro. Tritate la carne e mescolatela in una ciotola con il grana, l’uovo, il pane ammorbidito in poco latte, scolato e strizzato, il prezzemolo tritato e un pizzico di sale. Amalgamate il tutto, quindi ricavate dal composto 8 porzioni che distribuirete sulle foglie di verza. Arrotolate le foglie formando degli involtini e fermate ciascuno con uno stecchino. Fate rosolare in un tegame con una noce di burro la cipolla tritata e la pancetta, mescolando sempre, unite le polpette e lasciatele insaporire. Sfumate con 1 bicchiere di vino sobbollito per 3’ e cuocete coperto per circa 20’, bagnando con poca acqua bollente se necessario.

· 50 g di grana grattugiato · 2 uova · prezzemolo · aglio · scorza di limone · noce moscata · vino bianco · burro · sale e pepe.

Tritate la carne con il grana, il prezzemolo, la scorza di limone e l’aglio e mescolatela in una ciotola. Unite le uova, insaporite con una grattata di noce moscata, regolate di sale e pepe e mescolate. Con il composto formate delle polpette, della forma che volete. A parte, fate stufare la cipolla spezzettata con poca acqua, poi frullatela. Sciogliete in una casseruola abbondante burro e fate rosolare le polpette per 2’. Sfumate con 1 bicchiere di vino sobbollito per 3’, unite le cipolla e 1 bicchierino di acqua e cuocete coperto per circa 30’, bagnando con poca acqua bollente se necessario. Alla fine le polpette devono essere morbide e avere un sugo abbondante.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 2 gennaio 2018 • N. 01

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Politica e Economia Prospettive 2018 Come sarà l’anno nuovo dopo le premesse positive di un 2017 che invece spaventava tutti?

Spagna, guerra di bandiere La questione catalana ha prodotto la nascita di un nazionalismo spagnolo come risposta a quello secessionista pagina 15

Il ceto medio sta bene ma ristagna Se lo paragoniamo a quello di altri paesi, si può essere soddisfatti. Ma la distanza con il ceto più ricco sta aumentando pagina 16

AFP

pagina 14

Olimpiadi nucleari

I Giochi di Pyeongchang Si disputeranno nella cittadina della Corea del Sud dal 9 al 25 febbraio e rischiano

di diventare i più politicizzati dell’èra contemporanea, più di Sochi 2014 e Pechino 2008

Giulia Pompili Man mano che le tensioni tra la Corea del nord e il resto del mondo aumentano, i Giochi olimpici di Pyeongchang, in programma tra poco più di un mese, rischiano davvero di essere il clamoroso flop annunciato già da qualche tempo. «Lo sport è un grande momento di condivisione e di unione», non fa che ripetere in ogni occasione pubblica il presidente sudcoreano Moon Jae-in, che sulle Olimpiadi invernali ha puntato gran parte della sua eredità politica, andando spesso a visitatare i cantieri di Pyeongchang perfino durante la campagna elettorale presidenziale dello scorso anno. Eppure, ad oggi, i biglietti per le competizioni venduti all’estero sono ancora molto al di sotto del target prefissato da Seul, le delegazioni internazionali sono ridotte all’osso e le prenotazioni intorno ai villaggi olimpici non si avvicinano nemmeno alle aspettative. Il problema è la Corea del nord, con i suoi test missilistici e nucleari, e le notizie che arrivano da quell’area di mondo: secondo l’agenzia di stampa sudcoreana Yonhap, su quattro nordcoreani scappati al Sud che vivevano intorno

all’area di Punggye-ri, dove il regime di Pyongyang svolge solitamente i suoi test atomici, sono stati trovati segni di esposizione alle radiazioni. Nel sangue di uno dei soldati nordcoreani fuggiti nelle ultime settimane attraverso il confine tra Nord e Sud sono state trovate tracce del vaccino per l’antrace – il che confermerebbe, secondo gli analisti, gli esperimenti condotti dal regime con le armi batteriologiche. La tensione tra Kim Jong-un e il presidente americano Donald Trump ha un effetto sulla partecipazione alle Olimpiadi, ma c’è anche un altro aspetto. L’attrazione turistica di Pyeongchang: nonostante gli sforzi fatti dai governi sudcoreani sin dal 2011 per rinnovare l’area olimpica e renderla vendibile a un pubblico straniero – una nuova ferrovia ad alta velocità che collega l’aeroporto internazionale di Incheon a Seul e al villaggio olimpico, per esempio – la Corea del sud ha ancora molto lavoro da fare per trasformarsi in una meta turistica appetibile. Quattro anni fa, durante la scorsa edizione dei Giochi invernali, la Russia era stata in grado di tenere a bada le polemiche e le manifestazioni di protesta contro le Olimpiadi di Sochi, nonostante ben prima della cerimonia d’apertura

la stampa internazionale le avesse etichettate come le «più contestate della storia». Ma il Cremlino era comunque riuscito ad attirare il pubblico straniero con un investimento record (tra i 40 e 50 milioni di euro) dedicato anche alla comunicazione e al soft power russo, che ha trasformato una città pressoché sconosciuta in una popolare meta turistica. In Corea del sud sta avvenendo il contrario. Diversi osservatori fanno notare che politicizzare così tanto un’edizione olimpica, cioè dandogli un significato di apertura pacifica verso il Nord, di fratellanza e comunione, parlando quasi mai di sport e sempre più spesso di «sicurezza» e «contenimento dei rischi», le cose diventano ancora più difficili. I Giochi olimpici si svolgeranno in un’area ibrida, a metà tra le Alpi sudcoreane dei monti Taebaek, a settecento metri sul livello del mare, e la città costiera di Gangneung, molto popolare per le vacanze dei sudcoreani. La contea di Pyeongchang dista soltanto ottanta chilometri dal 38° parallelo, la linea di confine che divide la Corea del sud dalla Corea del nord, due paesi ancora tecnicamente in guerra dopo l’armistizio firmato nel 1953. Choi Moon-soon, governatore della provincia di Gangwon

di cui fa parte Pyeongchang, ultimamente ha perfino smesso di giocare con il nome delle Olimpiadi – fino a poco tempo fa rideva spesso con la stampa straniera sul fatto che Pyeongchang si pronunciasse in modo molto simile a Pyongyang, la capitale della Corea del nord. Ma dopo gli ultimi test di missili intercontinentali ordinati dal leader Kim Jong-un perfino in Corea del sud non si ha granché voglia di scherzare. E pensare che Seul si era candidata a ospitare le Olimpiadi invernali per ben tre volte, ma per due volte il Comitato olimpico aveva bocciato la sua candidatura, preferendo prima Vancouver e poi Sochi. Nel 2011, vinta l’assegnazione, la Corea del sud aveva evitato di replicare ufficialmente all’ipotesi di una edizione delle Olimpiadi congiunta con il Nord. Poi, negli ultimi mesi, il ministro dello Sport del nuovo governo di Seul, Do Jong-hwan, aveva proposto di far ospitare al Nord alcuni eventi, o almeno di organizzare una squadra olimpica coreana riunificata per alcune specialità. Ma da Pyongyang non è mai arrivata nessuna risposta. Soltanto due atleti nordcoreani si sono qualificati per partecipare alle Olimpiadi di Pyeongchang, Ryom Tae-ok e Kim Ju-sik,

celebre coppia di pattinatori artistici. È un successo, visto che a Sochi la Corea del nord non era riuscita a qualificarsi per nessuna specialità. Nonostante i ripetuti inviti da parte del Comitato olimpico internazionale, che ha offerto sostegno economico e logistico alla delegazione nordcoreana, fino a oggi nessuno sa se effettivamente i due atleti sfileranno alla cerimonia d’apertura del 9 febbraio prossimo. Naturalmente il motivo è soprattutto politico: sin dalla fine del 2016 Pyongyang ha chiuso ogni comunicazione diretta con la Corea del sud, e il timore è che si stia replicando quanto accaduto durante le prime e ultime Olimpiadi ospitate dalla Corea del sud, a Seul, nel settembre del 1988. All’epoca il leader della Corea del nord era Kim Il-sung. Il Comitato olimpico aveva proposto alle due Coree di organizzare congiuntamente i Giochi, ma Seul aveva rifiutato l’offerta. Kim aveva risposto con il boicottaggio delle Olimpiadi – unico Paese del blocco sovietico a farlo. Il 29 novembre del 1987, poco meno di un anno prima della cerimonia di apertura, Pyongyang aveva ordinato l’attentato al volo Korean Air 858 per «destabilizzare la Corea del sud e le Olimpiadi». Morirono 115 persone.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 2 gennaio 2018 • N. 01

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Politica e Economia

E la nave va...

Le incognite del 2018 Nel 2017 nessuna delle previsioni catastrofiste si è avverata ma quello appena iniziato

sarà un anno problematico, non solo per l’economia americana

Federico Rampini «Momentum», è la prima parola che viene in mente, ma è latino prestato all’inglese. La tradurrei con «abbrivio», vocabolo caduto in disuso, che il mio dizionario Devoto-Oli definisce magnificamente come «la prima spinta impressa a una nave dai mezzi di propulsione, che ancora conserva dopo che questi hanno cessato di funzionare». Come descrivere meglio l’economia americana che fa il suo ingresso nel 2018 con otto anni di crescita alle spalle? Cosa potrebbe andare storto, partendo da una premessa così positiva? Per estensione, il giudizio si potrebbe estendere all’intera economia mondiale, come vedremo. Diamo a Cesare... cioè Trump, quel che gli spetta. È vero che lui aveva ereditato un anno fa un’economia risanata da Obama e con già alle spalle sette anni di ripresa post-crisi. Il lavoro sporco, tipo salvare le banche e l’industria automobilistica, lo fece Obama e pochi gliene danno atto oggi. È anche vero però che sotto la presidenza Trump la velocità di crescita ha subito una netta accelerazione, da una media del 2% siamo passati a un Pil che cresce del 3%. Il mercato del lavoro ha continuato a migliorare nonostante che siamo sempre più vicini al pieno impiego (teorico) e quindi gli ulteriori progressi diventano più difficili. Non parliamo poi dei mercati finanziari dove la luna di miele con Trump dura da 12 mesi. E nessuna delle previsioni catastrofiste si è avverata: neppure quella su una guerra protezionista che avrebbe precipitato una spirale di ritorsioni. Le imprese americane hanno vissuto questi 12 mesi con un ottimismo in totale contrasto rispetto all’atmosfera dominante sui media. (È bene riconoscere che sull’impatto economico-finanziario di Trump abbiamo collezionato errori).

I tre cantieri di riforma con i quali Trump dovrà cimentarsi sono protezionismo, immigrazione e infrastrutture Il regalo fiscale di fine anno era atteso, era quello il grande premio che ha galvanizzato le Borse per tutto il 2017. Aggiungiamoci quel tanto di deregulation (ambiente, finanza) che Trump ha decretato a colpi di ordini esecutivi. Il migliore dei mondi, profitti alle stelle; e se vale il teorema reaganiano dai piani alti tutto questo bendiddio scenderà pure a valle e nel 2018 avremo finalmente anche degli aumenti salariali come Dio comanda. Dunque sostegno ai consumi, altro carburante per la crescita, e via andare. Fino alla scadenza fatidica di novembre, quando toccherà agli elettori pronunciarsi. Legislative di mid-term, si rinnova tutta la Camera e un terzo del Senato, al giro di boa di mezzo mandato presidenziale. Qui si presenta l’incognita principale del 2018. Come si è visto negli ultimi test elettorali parziali – Virginia New Jersey Alabama – i democratici hanno il vento a favore. La prospettiva di una loro rivincita tra 11 mesi è verosimile. Gli basta riprendersi la maggioranza in uno solo dei due rami del Congresso, e visto il biAnnuncio pubblicitario

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cameralismo quasi perfetto del sistema americano, soprattutto in tema di manovre di bilancio, conquisterebbero un potere di veto. Il governo monocolore Trump-repubblicani in tal caso sarà durato solo due anni. Come accadde peraltro a Obama. È ormai un classico del comportamento elettorale americano: il pentimento arriva presto, prima eleggiamo un presidente, poi alla prima occasione gli impediamo di governare. Una simile prospettiva però significa che la nuova edizione della reaganomics avrà avuto vita breve. Una maggioranza di sinistra al Congresso tenterebbe di smantellare la normativa fiscale di Trump con lo stesso accanimento con cui lui ha cercato di demolire la riforma sanitaria Obamacare. Per le imprese e gli investitori questo fa gravare un grosso punto interrogativo sul 2018. Che comunque si apre come un anno problematico. Tutti gli anni elettorali lo sono. I calcoli di chi deve farsi rieleggere interferiscono con il governo dell’economia.

L’intero patto che presiedette alla nascita del Wto e alla cooptazione della Cina fra il ’99 e il 2001 si fondava su un mondo che non c’è più Cosa cercherà d’incassare Trump finché ha questa maggioranza a disposizione? Indovinare le mosse di questo presidente è uno sport estremo. Almeno una guida ce l’abbiamo: è uno che cerca – non sempre ma abbastanza spesso – di mantenere le promesse fatte in campagna elettorale. Allora i tre cantieri di riforma coi quali dovrebbe cimentarsi nel 2018 sono protezionismo, immigrazione, infrastrutture. Complicati, ma difficili da evitare se Trump vuole conservare il consenso del suo zoccolo duro, in particolare la classe operaia del Midwest, i ceti medio-bassi nell’America profonda. Sul protezionismo impera una narrazione standard, che descrive «Trump isolato contro il resto del mondo». Come sull’ambiente, o sul Medio Oriente. Stereotipi a gogò, fuorvianti e inutili. Vi contribuisce, sia chiaro, il tam tam dell’establishmennt progressista americano a cui fa comodo accentuare il senso di isolamento del presidente. Di certo è una descrizione inadeguata se si parla del commercio internazionale. L’idea che al Wto emerga un asse euro-cinese, nuovo motore propulsivo della globalizzazione, è esilarante. L’Unione europea è vittima della concorrenza sleale cinese, quanto gli Stati Uniti. L’agenda protezionista di Trump riprende alcuni temi sacrosanti che per anni furono cavallo di battaglia delle sinistre occidentali e dei sindacati. Le regole vanno riscritte, quelle esistenti vanno fatte rispettare e la Cina è maestra nell’aggirarle. L’intero patto che presiedette alla nascita del Wto e alla cooptazione della Cina fra il 1999 e il 2001 si fondava su un mondo che non c’è più, le regole erano squilibrate in favore di un gigante povero che da allora ha fatto progressi enormi. Il problema di Trump è che ha una squadra del tutto inadeguata rispetto al compito immane di riscrivere le regole, e organizzare una coalizione di forze che riesca a estrarre delle concessioni ai cinesi. Qualcosa dovrà fare, però: dalle misure anti-dumping alle ritorsioni per il furto sistematico di proprietà intellettuale. Sull’immigrazione la strada è ancora più tortuosa. Trump ha usato gli ultimi due attentati di New York per

Xi Jinping e Donald Trump durante il summit bilaterale a Pechino lo scorso novembre. (AFP)

rilanciare la sua offensiva contro intere categorie di visti. Lui vorrebbe eliminare la lotteria delle Green Card riservata a minoranze etniche. Inoltre vorrebbe colpire i cosiddetti «visti a catena», quelli che il primo titolare può estendere ai familiari. Sono obiettivi legittimi, sia perché li promise in campagna elettorale e fanno parte del suo patto con chi lo ha votato, sia perché ogni nazione ha il diritto di stabilire e modificare le regole d’ingresso degli stranieri. Tuttavia è proprio sul terreno dell’immigrazione che l’opposizione democratica è più intransigente visto che nella sua base elettorale le minoranze etniche hanno un peso importante. Con i nuovi rapporti di forze al Senato – postAlabama – i repubblicani hanno un margine di 51 a 49, basta la defezione di uno o due repubblicani dissidenti per far deragliare qualsiasi testo di legge. I democratici esigeranno compromessi. Non scommetterei molto su una riforma dell’immigrazione in questo clima. Un terreno ideale di compromesso con l’opposizione invece sarà il maxi-piano d’investimenti in infrastrutture. Trump ci proverà. Deve convincere l’ala rigorista (pro-pareggio di bilancio) del suo partito. Sarebbe una bella spinta per la crescita, oltre che un’esigenza sacrosanta per un paese dove le infrastrutture cascano a pezzi.

Dunque: la festa continua. Se qualcuno ha l’intenzione di fischiare la fine della ricreazione, ancora non si è manifestato. Non basta il canto del cigno di un politico pessimista come Wolfgang Schaeuble a cambiare il quadro. Magari un giorno si scoprirà che aveva ragione lui, e quindi avevamo ragione pure noi. Ma il tempo passa ed è almeno da un anno e mezzo che abbiamo torto. Da quando ospitammo – non necessariamente a nostra firma, ma non importa – fior di scenari apocalittici sul dopoBrexit e dopo-Trump. Crolli dei mercati, panico, avvitamento dell’economia globale in una spirale recessiva da protezionismi. Tutte balle, ex post, bisogna riconoscerlo. Dicevo di Schaeuble, il longevo ministro delle Finanze tedesco che si congeda con un avvertimento cupo. Schaeuble ha unito la sua voce a un coro – minoritario ma consistente anche qui negli Stati Uniti – di conservatori pessimisti. Sono quelli convinti che siamo in una gigantesca e pericolosissima bolla creata dalle banche centrali, che con il loro «quantitative easing» hanno completamente falsato il mercato. La spiegazione ha una solida logica. Dal punto di vista macro, viviamo in un mondo inondato di liquidità dopo anni di acquisti di bond. Dal punto di vista micro, ogni singolo risparmiatore che dialoga con un

consulente finanziario si sente proporre la stessa alternativa in base alla quale si muovono grandi flussi di capitali: se la sicurezza dei buoni del Tesoro significa accettare rendimenti microscopici, perché non salire sulla locomotiva delle Borse in cerca di affari migliori? Mi sposto verso un’area centrale nei destini dell’economia globale: la Cina. È lì che abbiamo visto l’epicentro dell’ultima «potenziale» crisi finanziaria. Tra l’estate 2015 e il gennaio 2016 il mondo intero ha tremato per alcuni scossoni che venivano dalla Cina: un principio di svalutazione del renminbi, fughe di capitali, cadute delle Borse. Ma la potenziale crisi non si è poi realizzata, l’allarme è rientrato. Ancora una volta per un intervento dall’alto: il dirigismo di Xi Jinping ha raddrizzato la situazione. Così come da noi si può sostenere che c’è un’euforia artificiale creata dalle banche centrali, in Cina c’è un senso di sicurezza che è frutto di un robusto intervento pubblico. L’una e l’altra situazione possono nascondere elementi di fragilità. Nel caso della Cina sono ben noti: sistema bancario malato e altissimo debito pubblico (300% del Pil, altro che Italia). Correttezza impone però di ricordare questo: è da quando facevo il corrispondente a Pechino (2004-2009) che sento pronosticare il tracollo imminente del sistema bancario cinese.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 2 gennaio 2018 • N. 01

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Politica e Economia

Un nazionalismo tira l’altro

Spagna La «questione catalana» ha prodotto la nascita di un nazionalismo spagnolo come risposta

Gabriele Lurati L’hanno definita «la guerra delle bandiere», visto l’enorme numero di vessilli identitari presenti sui balconi di tutta la Spagna. Prima il protagonismo mediatico era tutto per la «estelada», la bandiera simbolo dell’indipendenza catalana (uno stendardo che si ispira alla stella della bandiera cubana, in polemica allusione alla sconfitta spagnola nella guerra di Cuba del 1898). Da più di tre mesi però, da quando è deflagrata in tutta la sua magnitudine la crisi catalana, spuntano bandiere spagnole da ogni dove in tutto il resto del Paese (ed anche nella stessa Catalogna). A Madrid, dalla centralissima Puerta del Sol passando per l’esclusivo quartiere Salamanca fino alla zona popolare di Vallecas, l’arredamento urbano della capitale ha subito un cambiamento cromatico significativo. Molti edifici della città presentano in effetti un numero sempre più crescente di bandiere spagnole rosso-oro della «rojigualda» (la bandiera ufficiale che da 175 anni è il simbolo dell’unità della Spagna). Allo stesso modo anche sui balconi delle case di periferia e in molte città spagnole sono comparse migliaia di bandiere nazionali, emblema della nascita di un orgoglio patrio che mai era esistito nella recente storia costituzionale spagnola, se non in occasione dei successi della «roja», la squadra nazionale di calcio.

Si tratta di un fenomeno nuovo in un Paese da sempre allergico ad esporre il proprio simbolo nazionale La crisi catalana ha in effetti risvegliato sentimenti nazionalistici in tutta Spagna. Si tratta di un fenomeno nuovo in un Paese che era sempre stato allergico ad esporre il proprio simbolo nazionale perché fino a poco tempo fa era ancora

un tabù. «L’esibizione di una bandiera spagnola è sempre stata storicamente un indicatore di un’ideologia conservatrice se non nostalgica della dittatura di Franco», spiega Carmen González, professoressa di Scienze Politiche dell’università UNED. L’indipendentismo catalano è però riuscito a rafforzare un’identità spagnola storicamente fragile e ha contribuito a far aumentare l’ostilità nei confronti della regione di Barcellona. Secondo la stessa González «la debole identità spagnola, alle prese con un complesso di inferiorità che si trascina dai tempi di Franco, si è rafforzata con la comparsa di un nemico, qualcuno che minaccia di rompere l’unità territoriale del Paese». Per i partiti «costituzionalisti» (Partito popolare, Ciudadanos e Partito socialista) che hanno appoggiato il commissariamento della Catalogna, la nazione spagnola è una realtà «unica e indivisibile», così come recita l’articolo 2 della Costituzione, ed è frutto di un’eredità storica secolare; il suo impianto istituzionale non può essere pertanto messo in discussione nelle sue fondamenta dai secessionisti catalani. Questo concetto è largamente predominante nella società iberica e la sola ipotesi di una separazione della Catalogna dalla Spagna per la maggior parte degli spagnoli è totalmente inaccettabile perché la regione di Barcellona è considerata da sempre una parte integrante del territorio spagnolo. La crisi catalana ha toccato in effetti un nervo scoperto degli spagnoli che fino a tre mesi fa osservavano quasi con distacco quello che stava succedendo in Catalogna fino a quando non hanno capito, con incredulità, che il secessionismo catalano stava facendo sul serio. Da quel momento in poi, all’escalation indipendentista di Barcellona, è seguita la risposta di questo nazionalismo spagnolo. Nato in parte spontaneamente nei sentimenti della popolazione, cavalcato politicamente dai partiti di centro-destra (Pp e i liberali di Ciudadanos in particolare), dai movimenti

AFP

a quello secessionista. Le recenti elezioni nella regione di Barcellona non solo non hanno risolto la crisi istituzionale ma hanno aumentato l’insofferenza verso l’indipendentismo catalano in tutto il resto del Paese

dell’estrema destra spagnola e veicolato da una parte dei media centralisti di Madrid, l’antisecessionismo si è diffuso rapidamente in ampi strati della società spagnola, raggiungendo trasversalmente tutti i ceti sociali, dall’alta borghesia fino alle classi popolari. Così questo proliferare di bandiere spagnole è da intendersi come una dichiarazione di netta opposizione all’indipendenza ed è anche un messaggio in chiave anticatalanista. I nazionalismi (sia quelli del secessionismo catalano che quelli spagnolisti) hanno quindi sempre bisogno dell’esistenza del «nemico» per alimentarsi mutuamente e così facendo ottengono sempre un reddito in termini politici, come abbiamo visto nelle recenti elezioni in Catalogna. Come avvenne già nel voto regionale del 2015, i poli opposti (pro e contro l’indipendenza) sono usciti entrambi vincitori dalla contesa elettorale che sostanzialmente non ha cambiato di molto la situazione. Gli indipendentisti hanno infatti confermato che dispongono di un ser-

batoio di elettori molto fedeli conquistando il 47,5% dei voti e una risicata maggioranza dei seggi (70, due in meno rispetto al precedente Parlamento), ma Ciudadanos ha capitalizzato l’antagonismo al secessionismo diventando il primo partito catalano con il 25,4% (per un totale del 43,5% dei partiti costituzionalisti, se si conteggiano anche i voti dei socialisti e del Pp). L’esito elettorale ha quindi riconfermato che la società catalana è spaccata in due e la situazione è rimasta sostanzialmente immutata da quando il 27 ottobre scorso il premier Mariano Rajoy ha deciso l’applicazione dell’articolo 155 della Costituzione e il commissariamento della regione. Rajoy è il grande sconfitto di queste elezioni perché il suo partito (Partito popolare) è uscito con le ossa rotte, fagocitato dalla crescita di Ciudadanos, e ridotto a una presenza quasi irrilevante (4%) in Catalogna. La sconfitta del Pp e il consolidamento degli indipendentisti è un messaggio chiaro anche per tutto il governo di Rajoy perché significa

che d’ora in poi Madrid sarà obbligata a risolvere la questione catalana con la politica. Si è visto che non è bastata l’applicazione della legge attraverso misure straordinarie per sconfiggere i secessionisti, nonostante i maggiori esponenti dei partiti indipendentisti fossero finiti in carcere o in esilio. Ora Rajoy sarà obbligato a fare quello che non ha fatto in tutti questi anni, cioè aprire un dialogo vero con i separatisti, se non vuole che la situazione peggiori ulteriormente. Inoltre il premier potrebbe avere dei problemi con il suo governo di minoranza giacché Ciudadanos, finora stampella del suo esecutivo, potrebbe fare la voce grossa e dettare nuove condizioni per mantenere in vita il governo di Rajoy. Quest’ultimo si troverà ora a dover affrontare a breve lo scoglio dell’approvazione della legge di bilancio (votazione nella quale ha bisogno dell’appoggio imprescindibile di Ciudadanos e dei nazionalisti baschi) che potrebbe mettere in pericolo la sopravvivenza stessa del suo governo. In Catalogna, invece, sono iniziati i contatti tra le formazioni politiche per formare il nuovo governo della Generalitat. Non si prevede una facile intesa tra i nazionalisti borghesi di Junts per Catalunya (il partito dell’ex presidente in esilio Puigdemont) e la sinistra repubblicana di Esquerra (il cui leader Oriol Junqueras è ancora in carcere). Saranno molto probabilmente ancora le sentenze giudiziarie a determinare gli accordi o le strategie dei partiti indipendentisti, giacché otto degli eletti nel Parlament si trovano ancora in carcere o in esilio in Belgio. I tempi sono brevi dato che il nuovo Parlamento catalano dovrebbe riunirsi il 20 gennaio e l’investitura del nuovo presidente della Generalitat è prevista per il 6 febbraio. Puigdemont si è detto disposto a essere di nuovo presidente, ma la giustizia spagnola lo sta aspettando al varco. Cosa si inventerà questa volta l’ex presidente per non essere arrestato? Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia

Ceto medio, il benessere ristagna

Statistiche Un confronto basato su cifre fiscali relativizza l’immagine «benestante» della classe più ampia,

di cui fa parte il 60 per cento della popolazione

Ignazio Bonoli Il ceto medio in Svizzera sta bene e anche meglio di quello di altri paesi, sotto tutti gli aspetti. Per la nazione è quindi un bene prezioso, poiché fonte di cittadini che non si lamentano molto, che vivono la loro vita in modo tranquillo, senza chiedere nulla o quasi allo Stato, ma anzi fornendogli parecchio, sia sotto forma di imposte e tasse, sia sotto forma di cittadini disposti a collaborare sotto varie forme: dall’istruzione dei figli, alla politica, al volontariato e via dicendo. Il Consiglio federale se ne occupa fornendo ogni anno un’analisi basata soprattutto sulla sua situazione economica. Il rapporto che ne segue è generalmente positivo. Tuttavia una recente analisi dell’Amministrazione federale delle contribuzioni getta qualche ombra sulla situazione di questa importante componente della società elvetica. L’analisi conclude infatti che il ceto medio prende una parte calante al benessere della popolazione in Svizzera. Si confermerebbe quindi la tesi corrente secondo cui i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Lo confermerebbe anche un confronto fra i dati fiscali del 2014 e quelli del 2004, pubblicati nella «Vie économique». Da essi di può rilevare che i redditi del ceto medio in questo periodo sono aumentati, ma non in misura uguale a quelli delle classi di reddito più alto. Infatti, il reddito netto equivalente del ceto medio è passato da 48’712 franchi a

54’857 franchi nel 2014, con un aumento dell’1,2%. I redditi delle classi superiori sono invece aumentati del 2,2%. Di conseguenza, anche il contributo delle classi medie al reddito globale è sceso dal 56 al 54,5%. Un’evoluzione analoga è constatabile anche all’interno del ceto medio stesso, con i redditi più alti aumentati in misura superiore a quelli più bassi, allargandone quindi la forbice. Uno dei motivi di questa evoluzione è dovuto proprio all’onere fiscale. Con l’eccezione di Svitto, questo onere è diminuito in tutti i cantoni. Ma anche in questo caso il vantaggio fiscale è distribuito in modo non uniforme: lo sgravio è superiore per i redditi alti, rispetto a quelli medi. Il divario è particolarmente evidente per le coppie sposate, senza figli e con attività dipendenti. Questi risultati contraddicono quanto afferma il Consiglio federale che, in un rapporto del 2016, scriveva che i redditi disponibili nei gruppi mediani sono aumentati in modo più sensibile che per i gruppi di redditi più alti. L’Amministrazione federale delle contribuzioni giustifica la differenza fra i due studi con il fatto che le fonti statistiche utilizzate non sono confrontabili. L’analisi precedente si basa, infatti, sui redditi disponibili, mentre quella più recente si basa sui dati fiscali. In questo senso il ruolo fondamentale è svolto dalle deduzioni, considerate in un caso e non nell’altro. È un ulteriore indice delle difficoltà di posizionare con esattezza il «ceto

medio». In queste statistiche si situa il ceto medio (in un totale uguale a 100) a metà fra il gruppo 90 e il 40. Uno studio scientifico pubblicato da Avenir Suisse nel 2012 usa il salario quale valore di riferimento determinante. Su queste basi esistono almeno due definizioni di «ceto medio»: tutte le economie domestiche che si possono situare nel 60% della distribuzione dei redditi, oppure quella fascia di popolazione il cui reddito si trova tra il 70 e il 150% del reddito mediano. In Svizzera, i limiti di reddito del «ceto medio» sono comunque vicini per entrambe le definizioni. Di questo 60% fanno parte le economie domestiche di una sola persona con un reddito lordo compreso fra 45’000 e 110’000 franchi. Questi limiti salgono fra 67’000 e 150’000 franchi per una coppia senza figli e fra 94’000 e 209’000 franchi per una coppia con due figli in età scolastica. Queste fasce di reddito si riferiscono appunto al 60% della popolazione in Svizzera. Si tratta di valori medi, che quindi non tengono conto di particolarità sociali o regionali, che potrebbero invece situare il «ceto medio» su basi statistiche diverse. I limiti stabiliti possono variare anche in funzione del tipo particolare di ricerca che si vuole effettuare. Per esempio nella statistica sulla distribuzione del reddito, prima e dopo gli interventi dello Stato per correggere le situazioni iniziali, il ceto medio in Svizzera viene compreso in una fascia di reddito fra i 56’000 e i 123’000 franchi.

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Anche nel ceto medio c’è chi vola più in alto e chi invece scende più in basso. (Keystone)

Anche nella maggior parte dei paesi industrializzati occidentali, soprattutto il ceto intermedio e quello inferiore sono finiti sotto pressione a partire dalla fine degli anni Ottanta. Questa erosione della classe media occidentale preoccupa anche il «ceto medio» svizzero. Il malumore è accentuato dall’assottigliarsi dei vantaggi economici rispetto ai ceti più modesti e dall’aumentare del divario rispetto ai redditi conseguiti dal ceto superiore.

In sostanza, il «ceto medio» si vede precludere la strada tradizionale della crescita economica e sociale a piccoli passi, a causa della crescente pressione fiscale e della progressiva perdita di sussidi. Lo stimolo diventa quello di porre le proprie energie alla ricerca delle migliori prestazioni dello Stato, piuttosto che indirizzarle verso il lavoro e la creatività. Di conseguenza, le speranze di miglioramento vengono riposte, in molti casi, in una più favorevole ridistribuzione dei redditi. Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli Doverose riflessioni d’arte La mostra sull’arte «degenerata» della collezione Gurlitt a Berna spinge il visitatore a riflettere

Il postmodernismo di Sottsass Milano omaggia il designer e architetto Ettore Sottsass in una mostra curata dalla moglie Barbara Radice

Svizzero e straniero A colloquio con il giovane regista svizzero di origini algerine Karim Sayad

pagina 19

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La lingua più bella Si dice che l’italiano sia la più bella lingua esistente, ora un libro cerca di spiegare perché pagina 21

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Felicità ai massimi livelli: Gene Kelly in Cantando sotto la pioggia (1952). (Keystone)

La felicità è una piccola cosa Riflessioni L’esistenza può essere letta anche come un continuo anelito alla felicità Maria Bettetini Governi ed economisti a fine anno diventano matti: come calcolare il grado di felicità di una popolazione? L’Onu afferma che nel 2017 i più felici sono stati i norvegesi, seguiti da danesi, islandesi e poi subito dagli svizzeri. L’Italia è a un vergognoso quarantanovesimo posto, dopo Guatemala, Slovacchia, Uzbekistan. Fino a pochi anni fa, si calcolava solo il Pil: più soldi, quindi più salute, maggior benessere, superiore grado di felicità. Poi, grazie anche a pensatori come Amartya Sen, si è riflettuto sul fatto che anche i ricchi piangono. Non tutti ne sono convinti, ma timidamente si affacciano indicatori sociali, si tiene conto di matrimoni e nascite, di occupazione e uguaglianza, cosette così. In verità, e ogni anno a fine dicembre ce lo ricordiamo, nemmeno a livello personale è facile dire se quello passato sia stato un anno più o meno felice dei precedenti, fatichiamo anche a dire se abbiamo vissuto un giorno felice, un’ora felice, dei momenti di felicità. Spesso, infatti, ciò che dovrebbe renderci felici non raggiunge lo scopo: un viaggio, un successo, un complimento. Magari riescono a scuoterci

dall’apatia quotidiana, se siamo apatici, o dalla fatica di un periodo triste, se siamo tristi. Ma la felicità deve essere ben altro, ci diciamo. Il nostro «felice» viene dal latino felix, da cui anche felicitas: la radice è la stessa di fecundus, femina (o foemina) e fetus (o foetus), da una forma arcaica *fe. Non dovrebbe stupire, in latino felix significa innanzitutto fertile, fruttifero, e solo in senso traslato indica colui che è beato o fortunato, oppure colui che porta fortuna, che è propizio e favorevole. Qui c’è una prima inversione di senso: quando diciamo «beato te!» o «me felice!», intendiamo ma guarda quale bella cosa è capitata a te o a me; invece il senso principe della felicità, almeno il suo senso etimologico, è ma guarda quanta vita darai, quanta fortuna porterò. La felicità non sarebbe dunque un evento che accade – oggi a te domani a me – da attendere passivamente, ma sarebbe invece un attivo prodursi per il bene altrui, diventare fecondi perché vi siano frutti, non necessariamente solo nel proprio orto, ai piedi del proprio albero. Non è poi così peregrina, questa etimologia. In fondo, poche felicità sono così piene come quella di una mamma quando è felice (per esempio finché i figli sono piccoli e magari an-

che sani), d’altra parte poche tristezze sono paragonabili alla solitudine, all’avarizia esistenziale di Ebenezer Scrooge. Il protagonista del Canto di Natale di Charles Dickens, che poi avrebbe ispirato Scrooge McDuck, il nostro Paperon de’ Paperoni, dal 1843 è inteso come la quintessenza dell’egoismo infelice. Prima della notte in cui gli appaiono gli Spiriti del Natale, le feste lo rendono furioso, perché sono giorni in cui non si lavora, quindi non si guadagna. L’attenzione al suo profitto (al suo Pil!) lo distoglie dalle vite degli altri, la gioiosa celebrazione del Natale, per quanto povera e semplice, lo irrita ancora di più. Solo i primi gesti di generosità concedono anche a Scrooge la pace del cuore. Sembrerebbe dunque tutto così semplice: cercando la felicità altrui si fa la propria, evviva. Fosse così facile come dirlo. Quante volte abbiamo fallito nel tentativo di dare la felicità, o ci siamo sentiti infelici pensando di occuparci della beatitudine altrui. In verità, ci sono alcuni equivoci da smascherare. Occuparsi degli altri, infatti, non significa arruolarsi nell’Esercito della Salvezza, indossare l’uniforme, aggirarsi in cerca di qualcuno cui concedere aiuto. Questo è ancora aiutare

malamente se stessi, salire su un piedistallo da cui dispensare buone parole e sacrifici. Scrive Massimo Recalcati in Contro il sacrificio (Raffaello Cortina editore, appena uscito) che «il sacrificio non è una semplice rinuncia al soddisfacimento ma una forma masochistica del soddisfacimento», si tratta di «un fantasma che proviene da una interpretazione solo colpevolizzante del cristianesimo», che naturalmente lo travisa, intendendo l’uomo fatto per la Legge e non il contrario. Non quindi il triste dovere che porta a obbedire al super-Io, a consegnare l’inconsegnabile propria vita a un Altro, si tratti del cosiddetto Califfato Islamico, della Famiglia, del Lavoro o di qualunque cosa in nome della quale eseguiamo dei compiti contro la nostra volontà, il nostro desiderio. Un desiderio che, poi, è sempre e solo desiderio di felicità. Quanto più possibile piena assoluta durevole. Ne abbiamo esperienza? Non credo. Però vi tendiamo, la desideriamo con tutto il cuore, quando ci liberiamo dal senso del dovere e, appunto, di un sacrificio che dal cuore non sorge. Noi conosciamo momenti di felicità, come racconta Marc Augé in un libro così intitolato, una sorta di breve

autobiografia in cui l’anziano antropologo si domanda che cosa lo ha reso o lo rende felice. Tralasciando alcune sue considerazioni teoriche, personali e per me poco condivisibili, tra i primi ricordi di felicità Augé racconta dei tanti attimi fuggiti dell’infanzia, quando sulla felicità non ci interrogavamo, ma ne godevamo sorsate intense. Anche io, se penso alla felicità, penso al mare, al sole, alla mamma che ci dava la merenda, ai giochi con fratelli e cugini, e tutto era così semplice e tranquillo. Certo, non dovevamo decidere nulla! Quindi è importante la scorta di felicità fatta da bambini, se l’abbiamo fatta, ma finisce presto. E poi ci sono i momenti. Quelli in cui quella pienezza mai provata ma intuita sembra farsi presente. Spesso non ce ne accorgiamo neppure, non vediamo la fatina che ha sparso porporina sul nostro quotidiano, magari sentiamo dopo che qualcosa è accaduto. Il cuore ha perso un colpo, l’inatteso è comparso, la mente si è sentita leggera. Oppure, semplicemente, la replica di un rito quotidiano, un bacio, un caffè, ci ha concesso la pace che nessun discorso saprebbe regalare. Un’ape «che se posa su un bottone de rosa, lo succhia e se ne va» (Trilussa), sì, la felicità è proprio «una piccola cosa».


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Cultura e Spettacoli

Le ombre della storia, la luce dell’arte Mostre – 1 Esposta al Kunstmuseum di Berna una selezione della collezione Gurlitt

in un’attesa mostra dedicata all’arte «degenerata»

Emanuela Burgazzoli La luce dell’arte, l’ombra della storia: da una parte c’è la luce che emana dai paesaggi di Nolde, di Pechstein, di Macke, dall’altra invece, su pareti grigie, si racconta il lato oscuro della storia, con personaggi che emergono da un tempo in bianco e nero, di lettere e documenti che hanno segnato il destino non solo delle opere d’arte, ma anche quello dei loro proprietari e autori. Collezionisti perseguitati dal regime del Terzo Reich perché ebrei e pittori a cui da un giorno all’altro è stato vietato di dipingere: l’avvento al potere nel 1933 in Germania del Partito nazional-socialista segna infatti sul piano culturale la fine della libertà artistica; una politica che sfocia nel 1937 nell’operazione «arte degenerata» e nella grande mostra allestita a Monaco che aveva lo scopo di denigrare parte delle oltre ventimila opere che il Reich aveva confiscato alle collezioni di un centinaio di musei tedeschi (fra le quali anche lavori degli svizzeri Cuno Amiet, Paul Camenisch e Johannes Itten). Un concetto che il regime del Terzo Reich aveva preso in prestito dalla biologia e dalla medicina che alla fine del XIX secolo aveva definito la «degenerazione» come una deviazione dalla norma. In particolare nel saggio Entartung (1892) il medico e sociologo Max Nordau si scaglia contro le grandi correnti dell’arte contemporanea, descrivendola come un’aberrazione patologica dell’evoluzione. E se la repubblica di Weimar promuove per un certo periodo la diffusione dell’arte moderna – espressionismo, astrattismo, verismo –, le idee nazionaliste vedono nei nuovi linguaggi artistici una forma di decadenza, ben lontana dal poter incarnare «i presunti valori tedeschi». Mentre in Germania nel 1925

un certo Adolf Hitler si scaglia contro quella che definiva una «follia intellettuale», in Svizzera la promozione dell’arte moderna francese da parte di collezionisti e musei si scontrava talvolta contro una condanna pubblica, come nel caso di Carl Gustav Jung che dopo aver visto una mostra di Picasso nel 1932 al Kunsthaus, definiva il maestro spagnolo uno schizofrenico: «Le loro immagini – scrive il grande psicanalista sulla «NZZ» – spaventano per la loro indifferenza, paradossale, destabilizzante, terrificante o grottesca, rispetto allo spettatore». Esempi di quell’arte degenerata sono ora visibili al Kunstmuseum di Berna, dove sono esposte circa 160 opere sulle 1500 ritrovate nel 2012 nelle due abitazioni di Cornelius Gurlitt. Il nucleo più consistente della collezione è costituito da maestri dell’espressionismo, membri delle numerose Secessioni di città tedesche – die Brücke a Dresda, der Blaue Reiter a Monaco, la Secessione di Berlino; sulle pareti scorrono i nomi di artisti del calibro di Dix, Kirchner, Grosz, Marc, Kandinsky, Barlach, Köllwitz, Edvard Munch, Liebermann. Pochi i dipinti, per la maggior parte di tratta di opere su carta – incisioni disegni tempere acquarelli carboncini. La qualità delle opere non tradisce le aspettative. Né delude la loro carica trasgressiva e la crudezza nel raccontare le vite disperate sulle quali incombeva la guerra o sopravvissute al conflitto. Rappresentativi di quei decenni tormentati e così importanti per l’arte, appaiono per esempio una serie di litografie a colori di Eric Heckel, ma anche una Pietà di Käthe Kollwitz, artista considerata già troppo moderna agli inizi del Novecento e alcune cupe litografie di Munch; ma anche i nudi sfacciati di Kirchner (uno degli artisti più rappresentati nella collezione) e di Kokoschka e i soldati feriti di Otto Dix. Una scoperta le opere di Cornelia

Emil Nolde, Weite Landschaft mit Wolken, senza data, acquerello. (Kunstmuseum Berna, lascito Cornelius Gurlitt 2014, provenienza in fase di accertamento, al momento nessun sospetto che si tratti di arte trafugata © Kunstmuseum Bern)

Gurlitt, sorella di Hildebrand, una delle rare artiste espressioniste. Resta ancora controverso il ruolo di Hildebrand Gurlitt, dapprima collezionista e direttore di museo impegnato a promuovere gli artisti moderni dapprima a Zwickau e poi ad Amburgo. Eppure qualche anno dopo lo si ritrova fra le figure di spicco nell’apparato amministrativo del Terzo Reich: è uno dei quattro mercanti d’arte autorizzati a comprare e a rivendere all’estero le opere d’arte confiscate fra il 1937 e il 1938. Ha anche il compito di acquisire pezzi per il futuro museo d’arte del Führer che sarebbe dovuto sorgere a Linz. Diviene un collaboratore del Ministero della Propaganda e secondo i ricercatori nelle sue mani sarebbero passate quasi quattromila opere, un volume di vendite decisamente superiore a quelle dei suoi colleghi Möller, Buchholz e Böhmer. Compravendite che sareb-

bero avvenute per lo più ad Amburgo, dove acquista opere dal collezionista protestante ed ebreo Julius Wolffson, ma anche a Berlino e attorno al 1943 lo si ritrova attivo sulla piazza di Parigi, dove le transazioni raggiungono la ragguardevole cifra di 25 milioni di marchi del Reich. Ricerche che illustrano anche il ruolo della Svizzera, non solo attrattivo mercato dell’arte, ma anche «porta girevole» attraverso la quale transitavano le opere confiscate e quelle «trafugate», anche nel Dopoguerra. Significativa l’asta del 30 giugno 1939 alla Galleria Fischer di Lucerna, che accende un dibattito etico fra i direttori di musei: partecipare all’asta o boicottarla? Su quasi tutte le didascalie appare la dicitura: «Provenienz in Abklärung», ovvero «provenienza in corso di accertamento». Il grande lavoro di ricerca – tuttora in corso – sulla collezione Gurlitt mira a

ricostruire la rocambolesca storia di opere che sono state confiscate, vendute e rivendute in circostanze ancora poco chiare, esposte e nascoste, prima di finire nei cassetti di casa Gurlitt. Oltre al contesto storico, i ricercatori da bravi detective vanno a caccia di tracce e indizi forniti da documenti e registri, ma anche dalle opere stesse (quanto racconta il retro di un quadro, come il ritratto della moglie di Otto Mueller) o dallo studio dei materiali. E per la prima volta al lavoro «dietro le quinte» viene dedicata una sezione in cui si può ripercorrere la storia di una versione della celebre montagna Saint-Victoire di Cézanne e di un acquarello di Kirchner. Dopo Gurlitt, la parola d’ordine per i musei svizzeri sembra essere la «trasparenza» a ogni costo. Si esce quasi frastornati dalla mole di informazioni contenute nell’apparato documentario della mostra che avrebbe potuto seppellire le opere e il piacere della visione. Un rischio scongiurato dai curatori che hanno concentrato nel catalogo il frutto delle ricerche di specialisti e storici che vede alleate Svizzera e Germania per cercare di ristabilire la verità su un capitolo ancora non completamente scritto, nonostante il rapporto Bergier. Per completarlo occorrerà anche attendere il 13 aprile, data a partire dalla quale Berna ospiterà la parte della mostra dedicata all’arte trafugata, attualmente in corso a Bonn. Dove e quando

«Entartete Kunst» – beschlagnahmt und verkauft, Berna, Kunstmuseum. Orari: ma 10.00-21.00; me-do 10-0017.00; lu chiuso. Fino al 4 marzo 2018. Catalogo (inglese e tedesco): Gestandsaufnahme Gurlitt, ed. Hirmer; curatori: Nikola Doll, Matthias Frehner, Georg Kreis und Nina Zimmer.

Riflessi di realtà Mostre – 2 All’Imago Art Gallery di Lugano in mostra le opere di Enrico Ghinato Alessia Brughera Erede della tradizione realistica americana, incarnata dalle nitide visioni dei «precisionisti» attivi tra le due guerre, l’Iperrealismo si sviluppa negli Stati Uniti verso la metà degli anni Sessanta del Novecento per poi diffondersi in Europa un decennio più tardi. Molto apprezzata da collezionisti e mercanti (benché giudicata negativamente dalla critica), questa corrente, caratterizzata da un virtuosismo tecnico esasperato, si basa su immagini della realtà viste attraverso l’occhio fotografico. Neutrale oggettività, limpida messa a fuoco dei soggetti, rappresentazione di

Blue Aurelia di Enrico Ghinato.

dettagli ravvicinati (secondo un gusto mutuato dalla Pop Art) e predilezione per colori di una fredda luminosità sono i tratti salienti dei lavori iperrealisti che contribuiscono a definirne l’atmosfera di immutabile sospensione. Tra gli artisti d’oltreoceano impegnati a creare dipinti «più reali del reale» figurano Richard Estes, Chuck Close e Ralph Goings, abili nell’analizzare gli elementi della realtà in maniera asettica, senza alcuna partecipazione emotiva, al fine di riprodurli in modo talmente minuzioso da ammantarli di una certa inquietudine. Le opere che ne derivano rivelano un’iperrealtà che nemmeno l’occhio è in grado

di cogliere, mettendo in discussione la scienza visiva e potenziando le qualità di ogni forma. La cura maniacale dei particolari e l’impeccabile tecnica pittorica di matrice iperrealista contraddistinguono anche i dipinti di Enrico Ghinato, artista di Rovigo, nato nel 1955, a cui l’Imago Art Gallery di Lugano dedica in questi giorni una rassegna che raccoglie una quindicina di sue tele. Il pittore rodigino incomincia a formarsi artisticamente molto giovane, mostrando interesse, non a caso, per i maestri fiamminghi, nelle cui opere era forte l’intento mimico della realtà che portava all’esaltazione analitica delle cose. Il passo successivo, per lui, è accostarsi proprio all’Iperrealismo americano, a cui si sente affine nel rendere una definizione sorprendente del reale. Seppur prossima a queste ricerche, però, la pittura di Ghinato prende una direzione peculiare che si allontana dalla volontà di ingannare totalmente la percezione dell’osservatore suscitando in lui una sensazione di straniamento. Perché se è vero che nel trattamento meticoloso di ciò che l’artista colloca in primo piano nelle sue composizioni permane l’effetto iperrealista, l’illusione visiva cessa di esistere quando la scena si fa più ampia, lasciando che sullo sfondo essa sveli la sua natura prettamente pittorica. Ecco

allora che dietro alla capacità di ammaliare lo spettatore con la perfezione e il virtuosismo del segno non c’è l’intenzione di replicare il reale secondo un’ottica distaccata e fuorviante ma di allestire una sua rappresentazione ben riconoscibile. I temi prediletti da Ghinato sono automobili fiammanti e vetrine chic, simbolo di un universo metropolitano dinamico ed elegante. Soggetti, questi, scelti per la possibilità che offrono di studiare le volumetrie, le tinte e le prospettive attraverso i riflessi, veri protagonisti delle opere dell’artista. Anche in questo si ritrova una vicinanza agli iperrealisti statunitensi, che spesso si sono misurati con iconografie analoghe dipingendo vetture e negozi con un’attenzione ossessiva per il gioco di riverberi generati da carrozzerie e vetrine. Vengono alla mente gli scorci metropolitani di Richard Estes popolati da superfici specchianti che creano ricercate illusioni ottiche, le sfavillanti auto da corsa di Ron Kleemann e i pick-up di Ralph Goings posteggiati solitari di fronte a un McDonald’s o a una sala da biliardo. Nelle opere di Ghinato automobili d’epoca e di lusso palpitano di riflessi, restituendo il mondo circostante sulle fiancate, sui cofani e sui fanali. In Blue Aurelia B52 PF200 1953, Villa d’Este, del 2016, la scintillante vettura sembra quasi sfilare accompagnata da due

eleganti donne che camminano al suo fianco, sulla carrozzeria i bagliori metallici si fondono con gli elementi distorti del reale. Nella tela GTB4 Rosso, dello stesso anno, la fiammante Ferrari è percorsa da lame di luce che si mescolano al paesaggio urbano rispecchiato sulla superficie. Le macchine dalle linee sinuose e perfette dipinte dall’artista deformano la realtà rendendola indefinita, come se appartenesse a una dimensione instabile e sfuggente che fa da contraltare alla loro solida bellezza. In opere quali Venezia. Handbag, del 2016, o Paris. Rue Saint-Honoré, del 2017, sono le vetrine delle vie più esclusive delle grandi città ad animare la scena con riflessi e trasparenze. Spesso, in questi lavori, allo statico interno del negozio in primo piano, dove appaiono in tutta la loro immobilità i manichini e la merce esposta, si contrappone il vivace e irrequieto mondo esterno rispecchiato nel vetro. Nel sovrapporsi di immagini riflesse e rifratte Ghinato rende labili i confini tra due mondi opposti, e li unisce in simbiosi per evocare un’unica realtà. Dove e quando

Enrico Ghinato. Viaggi riflessi. Imago Art Gallery, Lugano. Fino al 13 gennaio 2018. Orari: da lu a ve 10.0018.00, sa 10.00-17.00, do su appuntamento.


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Cultura e Spettacoli

Come viviamo, parola di Sottsass Mostre – 3 Th ere is a Planet alla Triennale di Milano fino all’11 Marzo

Ada Cattaneo Per molti anni parlare di postmodernismo è stato quasi un’eresia. Ma tutto torna. E se prima quelle forme geometriche dai colori accesi erano tristemente démodé, adesso, a ben guardare, sembrano un’ottima soluzione. Così succede ovunque. In musica, in letteratura e, senza eccezioni, anche nel design. Sintomo di questa riscoperta è la mostra dedicata dalla Triennale di Milano ad Ettore Sottsass in occasione dei cento anni dalla sua nascita e in corso fino all’11 marzo 2018. A questa si aggiunge un’altra esposizione retrospettiva dedicata a Sottsass da poco conclusasi al Metropolitan Museum di New York e una monografica dedicata alla sua produzione vetraria alla Fondazione Cini di Venezia. Se servisse un’ulteriore conferma del suo ritorno, basterebbe osservare la costante ascesa dei prezzi che i lavori di Sottsass registrano sul mercato. In realtà Sottsass aveva cominciato la sua attività di designer e architetto ben prima dell’affermazione del Postmodernismo. Nato a Innsbruck nel 1917, studia al Politecnico di Torino; nel 1949 sposa Fernanda Pivano. Fra i due non sarà una storia semplice, ma proprio grazie a lei inizia a viaggiare, scopre gli Stati Uniti e ha modo di incontrare molti personaggi che determinarono la cultura di quegli anni: Allen Ginsberg, Bob Dylan, Rudolf Nureyev, Ernest Hemingway, Lawrence Ferlinghetti e molti altri. Sul finire degli anni Cinquanta comincia a lavorare per la Olivetti, nel momento in cui l’azienda di

Ivrea si affacciava sul mondo tutto nuovo dell’elettronica e poteva contare su un parterre irreplicabile di intellettuali. Qui disegna alcuni dei prodotti più fortunati, come la rossa macchina da scrivere portatile Valentine e il calcolatore ELEA 9000. Entrambi gli sarebbero valsi il Compasso d’Oro, il più prestigioso premio a cui si possa ambire nell’ambito del disegno industriale. Sarà con la fondazione del Gruppo Memphis nel 1981 che Sottsass, insieme ad Arata Isozaki, Alessandro Mendini e altri, segna indiscutibilmente l’ingresso del design sulla scena postmoderna. Si autorizza l’uso di colori vivaci e l’impiego di materiali «poveri», si fa ricorso al kitsch con ironia e si mescolano rimandi alla cultura popolare e colta. Tutto per superare il minimalismo e l’eleganza imperanti nei decenni precedenti. I pezzi più celebri di Sottsass raccontano questa commistione di registri: le librerie in legno laminato ispirate alla antiche architetture babilonesi, dai colori sgargianti e le linee oblique, o i vasi in vetro di Murano come personaggi geometrici di una favola futurista. La mostra di Milano si intitola There is a Planet dal titolo di un progetto non concluso (ma ora pubblicato da Electa) che doveva raccogliere le fotografie scattate dall’autore per raccontare i molti modi che l’uomo ha di abitare la terra. Si tratta di immagini dai moltissimi viaggi fatti da Sottsass nel corso della sua vita, dall’India al Trentino, dai Caraibi alla Polinesia. Le immagini sono accompagnate da testi: negli ultimi anni di vita, infatti, egli si occupò per lo più di critica, ma da sempre era

Eclettico Sottsass nel catalogo a lui dedicato.

stato uno scrittore prolifico, data l’abitudine di corredare i propri progetti con spiegazioni, schizzi e racconti per permettere di seguirne la genesi. Molte delle immagini di questo progetto sono visibili in mostra, sui muri della galleria principale, sulla quale si affacciano le altre nove sale. Si comincia dai primi lavori, ancora influenzati dalla grande stagione del design italiano degli anni Cinquanta: tappeti, tavolini, altri og-

getti per l’abitare. Ma già dalla seconda sala gli oggetti creati da Sottsass si distaccano con forza da questa linea creativa: colori tutt’altro che neutri, forme solide tanto da diventare pesanti, materiali nuovi. Quasi una trasposizione della Pop Art nella vita di ogni giorno. Eppure egli riesce a fare convivere con queste novità dirompenti anche gli spunti tratti dalla sua profonda cultura: studia per esempio le architetture

arcaiche, ama l’archeologia che è fonte di ispirazione per i suoi pezzi, come avviene per le librerie sviluppate come moderni ziggurat. Queste illuminazioni sono ben espresse nella mostra di Milano, dove gli oggetti sono esposti a fianco degli schizzi di viaggio, come avviene per l’altare di Pergamo o per le facciate di Petra. Il suo design è ispirato da mondi fantastici, da lui stesso creati, disegnati e istoriati. La mostra non è in nessun modo una mostra antologica: per ciascun ambiente non sono molte le opere esposte, che vengono allestite in maniera estrosa, quasi a creare delle installazioni. La curatela dell’esposizione è ad opera della seconda moglie di Sottsass, Barbara Radice. Per questo non possiamo aspettarci un approccio critico imparziale da una figura così vicina all’autore in questione. La scelta è stata quella di non offrire alcuna guida, alcun supporto didattico al visitatore, se non le parole stesse di Sottsass che sono stampate sulle pareti delle sale espositive e scorrono su schermi luminosi. Lo stesso vale per il catalogo, che non presenta alcun testo critico, se non una brevissima introduzione. D’altra parte è proprio Sottsass a scrivere: «A spiegare troppo c’è sempre rischio di negare i misteri, di appesantire la dinamica, di soffocare le vibrazioni, di escludere l’ignoto». Dove e quando

Ettore Sottsass – There is a Planet, Milano, Palazzo della Triennale. Orari: ma-do 10.30-20.30; fino all’11 marzo 2018. www.triennale.org Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 2 gennaio 2018 • N. 01

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Cultura e Spettacoli

La complessità del reale

Azione

Incontri A colloquio con il regista

di origini algerine Karim Sayad Muriel Del Don Il percorso del giovane regista Karim Sayad è decisamente atipico: Master in relazioni internazionali a Ginevra per poi ritrovarsi, quasi per caso, a Cinéforum, attorniato da grandi personalità del cinema svizzero, ma anche da giovani registi alla ricerca di salvifici finanziamenti. La sua passione per il cinema lo accompagna da anni. ma sarà l’esperienza a Cinéforum a dargli il coraggio di passare all’azione. «Perché non io?», è la domanda che spinge Karim Sayad alla ricerca della sua personale verità, quella che il cinema algerino tende troppo spesso a dimenticare.

scevo, di classe media, dove le ragazze e ragazzi si frequentavano, bevevano alcol e si divertivano. Da un certo punto di vista ringrazio questi film, però non capivo perché le persone del ceto sociale dei miei famigliari non fossero mai rappresentate. Trovavo uno squilibrio inaccettabile tra il ruolo di queste persone nella società algerina e la loro non-rappresentazione al cinema. Mi sono detto che forse c’era spazio per la «mia» visione delle cose, per dare un volto e umanità a questa gente. I personaggi dei miei film sono spesso mal visti dalla società algerina, messi da parte: io volevo prenderli per mano dandogli corpo e voce. Non scuso i loro errori, ma cerco piuttosto di ascoltarli e di capire il loro punto di vista. Queste persone mi toccano profondamente. Forse il fatto che viva (geograficamente) al di fuori della società algerina mi aiuta ad avere uno sguardo «diverso».

Nel tuo lungometraggio le immagini sono maestose e il lavoro sulla fotografia elegante e poetico.

Il giovane regista di origini algerine Karim Sayad. (pardo.ch)

La casa di produzione ginevrina Close Up Films ha creduto in lui, nel suo sguardo unico e misterioso, producendo il suo primo documentario, Babor Casanova (2015), selezionato in numerosi festival internazionali tra i quali quello di Locarno. Il suo primo lungometraggio Des moutons et des hommes (recentemente selezionato da Swiss Films per la Mostra Internazionale di cinema di Sao Paolo), sempre prodotto da Close Up Films, conferma il suo talento e la sua «verve» incisiva e controcorrente. Il film parla di gente comune (allevatori di montoni che cercano la gloria attraverso i combattimenti clandestini), di delusioni e frustrazioni ma anche di piccole e grandi vittorie. Karim Sayad ridà umanità a quanti l’hanno persa ormai da un pezzo, ascoltandoli e osservandoli senza giudicare. Esteticamente poetico, il film trasforma il reale in qualcosa di grandioso, come a volerci dire che spesso la bellezza si nasconde dove meno ce l’aspettiamo. In un’intervista al «Courrier International» ha detto: «Il cinema è il miglior mezzo per esprimere il mio rapporto con l’Algeria: un’attrazione passionale e una repulsione razionale». Cosa intende?

In realtà questa frase è di mio padre, parla del suo rapporto con l’Algeria, e mi rappresenta molto. Abbiamo tutti delle identità complesse, ma ai binazionali si domanda spesso di scegliere. A me chiedono: sei più svizzero o algerino? Attraverso il cinema posso mostrare che sono entrambe le cose, senza bisogno di fare una scelta; metto in avanti la complessità e la ricchezza della mia doppia identità.

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Ho voluto rappresentare queste persone perché mio padre è algerino e quasi tutta la sua famiglia vive in Algeria. Viene da un ceto sociale piuttosto modesto. Da piccolo andavo spesso in vacanza dalla famiglia di mio padre, e durante le estati guardavo dei film che all’epoca trovavo geniali perché mostravano un paese che non cono-

Voglio ringraziare e sottolineare il lavoro di Patrick Tresch, il direttore della fotografia con il quale lavoro dai tempi di Babor Casanova. Patrick ha contribuito notevolmente all’estetica del film, nutrendolo con il suo tocco, la sua sensibilità, il suo sguardo. Fra gli artisti che ammiro ho un grande rispetto per il lavoro di Pasolini. Adoro Accattone e sono un fanatico del Neorealismo italiano. Pasolini rende maestose le persone «normali» e le immagini che ottiene flirtano magnificamente con la finzione, pur mantenendo un forte legame con l’immediatezza del reale. Trovo questo divario tra brutalità del quotidiano e bellezza estetica molto interessante. Nei miei film ricerco quest’opposizione. In Algeria le differenti classi sociali non si mischiano e non si conoscono. Malgrado ciò, durante le riprese si è creata una sorta di microsocietà: la troupe era formata da persone di ceti sociali diversi che si frequentavano forse per la prima volta. Quale rapporto si è instaurato con i protagonisti del tuo film? Come fai ad ottenere quest’atmosfera di immediatezza e poesia?

C’è un lato istintivo nella scelta dei personaggi. Per Des moutons et des hommes abbiamo organizzato un mese di casting. Volevo trovare un allevatore di montoni che mi permettesse di girare dall’inizio tutte le scene di combattimento. Si sono presentati dei personaggi con questo profilo ma non mi sentivo in sintonia con loro. I personaggi principali del film, Habib e Samir, mi hanno colpito sin dall’inizio: mi sentivo istintivamente legato a loro e volevo costruire il film attorno a questo legame. Io mi lascio guidare molto dal momento presente, dall’intuito. Arrivo sul set sapendo cosa mi piacerebbe ottenere ma rimango aperto agli imprevisti, in attesa che qualcosa catturi la mia attenzione. Girare un documentario in Algeria e per di più nei quartieri che abbiamo scelto non è facile. La gente associa il cinema ai blockbuster e guarda con diffidenza al cinema d’autore o ai documentari. Il concetto di «attore» è un po’ vago e il rapporto con la cinepresa non è sempre facile. Malgrado ciò, con il passare del tempo la gente si è abituata a noi e i personaggi principali hanno saputo lasciarsi andare mostrandoci il loro lato naturalmente teatrale. A poco a poco si è creata una sorta di disciplina e i personaggi hanno giocato il gioco... è stato bello e toccante. Il loro modo di agire è diventato organico e intuitivo, e le scene più belle si ottengono appunto grazie a questo clima di rispetto e fiducia.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 2 gennaio 2018 • N. 01

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Cultura e Spettacoli

Petrolio, fiamme, distruzione

La fuga di Lucrezia da un libro

dopo l’ordine di distruzione dei pozzi di petrolio impartito da Saddam Hussein

Teatro Semplicità

Fotografia In mostra a Milano gli impressionanti scatti realizzati da Salgado in Kuwait

Giovanni Medoalgo «Alcuni mi considerano un fotogiornalista. Non è vero. Altri invece un militante, ma nemmeno questo è vero. La sola cosa vera è che la fotografia è la mia vita. Tutte le mie foto corrispondono a momenti che ho vissuto intensamente. Queste immagini esistono perché la vita, la mia vita, mi ha condotto a farle. Vuoi perché c’è una rabbia in me che mi ha portato in un posto ben preciso; vuoi perché a guidarmi è stata un’ideologia o semplicemente la curiosità. La mia non è una fotografia obiettiva, è profondamente soggettiva! Scatto immagini in funzione di me stesso, di ciò che sto vivendo e pensando. E me ne assumo la responsabilità». L’incontro che Sebastião Salgado ha voluto aperto a tutto il pubblico (non accontentandosi della solita conferenza stampa) per presentare la mostra Kuwait. Un deserto in fiamme è stata un’autentica lezione di vita. Annoverato tra i migliori fotografi del mondo, a 77 anni e dopo aver visitato ogni angolo della Terra, Salgado ha parlato come un vecchio saggio dall’alto delle sue innumerevoli esperienze, dei mesi e degli anni trascorsi per realizzare progetti grandiosi – quelli che lo impegnano a lungo e che predilige: «Ho accettato poche commissioni nel corso della mia carriera» – lavorando con i minatori di carbone o condividendo la vita di tribù primitive in Brasile o in Africa, dove «si continua a vivere, come migliaia di anni fa, a stretto contatto con la natura un’esistenza in cui l’istinto, che l’uomo cosiddetto civilizzato ha perso, ha

un’importanza fondamentale per la sopravvivenza». Accompagnato dall’inseparabile moglie Léila (si sono sposati nel 1967!) e dal capo della squadra di pompieri allora all’opera nel deserto – «il mio amico Mike, giunto apposta dal Canada!» –, Salgado ha raccontato che stava realizzando un servizio sulle tonnare siciliane quando gli giunse la notizia della fine dell’ennesimo conflitto in Medio Oriente e che Saddam Hussein, nel vano tentativo di proteggere la ritirata delle sue truppe, aveva dato ordine di incendiare oltre 700 pozzi petroliferi. «Giunsi in una Kuwait City – racconta – assolutamente deserta. Ogni mattina salivo in macchina e dopo quaranta chilometri trovavo la distesa di pozzi in fiamme. Uno scenario impressionante: il cielo era nero, faceva buio anche di giorno e ovunque per terra c’era un catrame così denso da nascondere la strada, dove inoltre giacevano ancora mine inesplose. Sono rimasto in questo inferno una quarantina di giorni. Ho visto tante catastrofi naturali, ma in questo caso c’era una forma di spettacolo, terrificante quanto affascinante. Sembrava di stare in un teatro a grandezza naturale e di assistere allo spettacolo dell’Apocalisse». Naturalmente l’interesse di Salgado si rivolge soprattutto alle fatiche di pompieri e tecnici, impegnati per oltre un anno nello spegnimento di tutti i focolai provocati da Saddam Hussein. «Sono tra gli eroi di quella guerra e il mio lavoro è dedicato a loro: senza il loro intervento gli incendi sarebbero potuti durare anche tre o quattro anni.

Giorgio Thoeni

Sebastião Salgado davanti a una delle sue opere.

Hanno combattuto sulla trincea del fuoco pagando un prezzo importante». Lui stesso ha perso parte dell’udito («Il rumore dei pozzi era assordante, sembrava di stare dentro un reattore!») spingendosi in zone ancor più a rischio pur di realizzare le foto ora in mostra alla Galleria Forma Meravigli (in pieno centro, zona Cordusio), molte delle quali ancora inedite ma tutte scattate con l’amatissimo bianco e nero. Perché, spiega, «nelle immagini a colori c’è già tutto. Una foto in bianco e nero è invece come un’illustrazione solo parziale della realtà. Chi la guarda deve ricostruirla attraverso la propria memoria che è sempre a colori, assimilandola poco a poco in quell’interazione molto forte che si crea tra l’immagine e chi la guarda». Ha scritto il critico tedesco Peter

Sager: «Pur senza la minima traccia di sensazionalismo, le immagini di Salgado hanno una loro spettacolarità. I suoi vigili del fuoco sono eroi al lavoro, talvolta colti ai limiti dell’idealizzazione romantica quali personaggi di una tragedia antica. Sono immagini estreme di realtà estreme, dove il pathos e il gesto elegiaco emanano sia dai soggetti quanto dal modo in cui vengono rappresentati. Raccontano storie bibliche che Salgado cita con la passione dei teologi della liberazione del suo Brasile». Dove e quando

Kuwait. Un deserto in fiamme. Fotografie di Sebastião Salgado. Milano, Forma Meravigli. Fino al 28 gennaio 2018. www.formafoto.it

La lingua dell’amore Editoria Nella ormai affollata serie di dichiarazioni di stima per questa o quell’altra lingua,

un libro di Annalisa Andreoni dedicato all’italiano Stefano Vassere «Ma signora, che cosa mi domanda? Sono veramente innamorato di questa bellissima lingua, la più bella del mondo. Ho soltanto bisogno d’aprire la mia bocca e involontariamente diventa il fonte di tutta l’armonia di quest’idioma celeste. Sì, caro signore, per me non c’è dubbio che gli angeli nel cielo parlano italiano. Impossibile immaginare che queste beate creature si servano di una lingua meno musicale». La serie di dichiarazioni d’amore in forma di libro per una lingua o l’altra, che si infittisce in queste ultime stagioni, parte purtroppo da una specie di necessità di recupero di una situazione di declino o almeno di precarietà e da un tentativo di rivitalizzazione in forma editoriale: evviva il greco! Il latino, lingua meravigliosa! Come dire: «lingue che non si ricorda più nessuno, che nessuno più vuole studiare, eppure guardate che non sono male; recuperiamole, su!». Con questo Ama l’italiano di Annalisa Andreoni, che insegna letteratura italiana all’Università Iulm di Milano, sembra finito in questa rete anche l’italiano, che nel risvolto di sinistra è definito quella lingua dell’amore, delle arti e dell’armonia che gli italiani tendono «a dare per scontata», dimen-

Azione

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

ticandone i pregi o abbandonandola tout court in un angolino per accogliere invece con tutti gli onori e i trionfi i codici del nuovo imperialismo: l’inglese, il cinese, chissà quale altro. Però, se si ha la pazienza di schivare il peritesto, cioè i dintorni del testo in senso stretto, se si ha l’accortezza di chiudere un occhio sul risvolto stesso, pieno di complimenti ed espressioni caramellose e sulla copertina con quelSede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

e fantasia, la ricetta per catturare giovani spettatori

la silhouette dantesca in basso; superata l’impressione nettissima e fasullissima che questo libro potrebbe stare insieme alla serie di libri che troviamo negli autogrill, tra istruzioni per comunicare in modo efficace, maialini a molla, torri di cioccolatini e collezioni complete di Mina a 9,99; ecco, uff!, se si ha tutta questa montagna di pazienza, aperto il libro, si scoprono molte belle e preziose cose. Per esempio il primo capitolo, «La lingua degli angeli», dove c’è tutta la tradizione di apprezzamenti internazionali, e di grande respiro, sul favore del quale la nostra lingua ha goduto per secoli e le strade attraverso le quali essa può continuare ad avere qualche interesse di scambio: l’ipotesi secondo la quale sarebbe inutile rincorrere la rendita di valore economico (la partita è improba e persa in partenza) e ben più produttivo sarebbe invece cavalcare i valori slow, che sono ancora tutti da definire ma grazie ai quali sembra ci sia un sacco di gente che come Julia Roberts in Mangia prega ama (film del 2006) impara l’italiano senza averne interesse spendibile concretamente ma solo per sentirsi «sexy e felice». Poi, tra il molto altro, il libro della Andreoni contiene anche argomenti convincenti su un terreno che i più ritengono scivoloso e sul quale i linguisti

si avventurano malvolentieri, col timore di finire a gambe all’aria: il terreno della tanto supposta quanto suprema musicalità dell’italiano. Finalmente, verrebbe da dire, una che si lancia spavalda e ferma a spiegarci dove sta tutta questa musica, che il mondo ha sempre riconosciuto alla nostra lingua: il sistema vocalico, «pochi suoni dal timbro differente, ma marcato e sonoro, che passano dal chiaro allo scuro costituendo quasi una tavolozza di colori primari e secondari»; il fatto che l’italiano pronuncia chiaramente le vocali che non portano l’accento e non le sacrifica risolvendole in una sorta di gemito indistinto e impercettibile; il fatto che l’accento tonico possa cadere in una parola sulla penultima sillaba, ma anche sull’ultima, sulla terzultima e sulla quartultima (altro che i francesi, tra gli altri, che troncano sempre sull’ultima), ciò che permette una continua sorpresa ritmica come nella musica; il fatto infine che le parole terminano di regola con una vocale, dunque, «piena» seppure non sempre tonica. Musica pura.

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Il pubblico dei più piccini è probabilmente il più difficile e conquistare la sua attenzione a teatro per un’ora filata costituisce senza dubbio la prova del nove. Ma per riuscire nell’impresa, non facile, occorre una sensibilità che non è solo legata alle regole del palcoscenico. Ci vuole anche quella spavalda e giocosa semplicità che si trasforma in una contagiosa empatia. Proprio quella che abbiamo riscontrato assistendo a Fogli al vento, uno spettacolo creato dalla compagnia Patatrakkete di Alessandra Cattori e Davide Gagliardi. Se quest’ultimo aveva già mostrato le sue qualità recitando in alcuni allestimenti, di Alessandra avevamo conosciuto l’entusiasmo in occasione della presentazione de Il ladro di risate, un racconto per l’infanzia pubblicato l’anno scorso da Feltrinelli. L’occasione di vederli entrambi in scena in un unico progetto teatrale ci è ora stata data grazie al recente debutto dello spettacolo al Foce di Lugano con una storia che contiene quella giusta dose di monelleria che piace ai bambini. Mentre un raccontastorie si appresta a leggere le avventure di Lucrezia, giovane sognatrice che vuole afferrare la luna, un’improvvisa ventata fa volare dappertutto le pagine del libro, catapultando, o meglio, liberando la protagonista in carne ed ossa. Inizia così un avvincente percorso alla scoperta dei sogni di Lucrezia, dalla luna alle sirene, inseguita dal cantastorie che la rivuole rimettere al suo posto nel libro e da personaggi bizzarri conditi da curiosi imprevisti che si susseguono con la messa in campo di trovate scenografiche semplici e ingegnose. Il frutto della simpatica verve e passione dei due autori-attori. Oltre alla genuina capacità degli interpreti, impegnati a tenere desta l’attenzione con una buona dose di ironia, gli stessi si sono dimostrati capaci di costruire una favola di facile presa. Con alcune particolarità che rende Fogli al vento uno spettacolo speciale, in cui alcuni messaggi sono proposti senza pedanteria: dalla ricerca del bello in tutte le cose al vedere le situazioni sotto altre angolazioni per scoprirne la diversità. Ma anche ritrovare l’allegria con una bella risata. Lo spettacolo nasconde ancora qualche «tempo morto» e qualche ingenuità che verranno presto risolti dalla pratica. Di sicuro, oltre agli adulti è piaciuto alla giovanissima platea, lasciando intravedere ulteriori potenzialità, come ad esempio la possibilità di essere visto nelle scuole.

Bibliografia

Annalisa Andreoni, Ama l’italiano. Segreti e meraviglie della lingua più bella, Milano, Piemme, 2017.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 2 gennaio 2018 • N. 01

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La tradizionale torta dei Re Magi non può mancare sulle nostre tavole l’ultimo giorno delle festività natalizie. Se un tempo all’interno di questo aromatico e burroso dolce a forma di corona veniva nascosto un fagiolo, oggi troviamo una piccola statuetta a forma di Re o Regina: chi la trova nel proprio panino potrà indossare la corona acclusa

all’imballaggio e regnare per tutto il dì. La specialità è realizzata artigianalmente dai mastri panettieri della Jowa con pasta chiara lievitata di farina di frumento. È formata da una parte centrale e sei panini di pasta disposti a corona tutt’attorno. Una volta lievitata per almeno tre ore, viene decorata con mandorle filettate e zucchero,

ingredienti che simboleggiano i tesori che una volta venivano portati in dono dai Re Magi. La cottura avviene a temperature particolarmente delicate affinché il dolce possa mantenere tutta la sua sofficità. Appena raffreddata e confezionata con una coroncina di cartone dorata prende subito la via delle filiali Migros.

Secondo la tradizione dell’area mediterranea, nella notte dell’Epifania, tra il 5 e il 6 gennaio, la befana visita le nostre case. A cavallo della sua scopa vola sui tetti e scende dai camini per riempire le calze dei bimbi buoni di doni e dolci, mentre chi è stato meno bravo riceve solo carbone e aglio. Niente paura: le

calze e i sacchetti della befana «Dolce Magia» mettono tutti d’accordo perché accontentano sia i bambini buoni sia i più birichini. Sono infatti golosamente riempiti di dolciumi assortiti tra cui caramelle toffee, carbone dolce di zucchero, monete di cioccolato al latte, lecca-lecca alla panna e fragola, liquirizia e marshmallow. Annuncio pubblicitario

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Mandarini Tacle Italia, al kg

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14.90 invece di 19.90 Rose Fairtrade, mazzo da 7 disponibili in diversi colori, lunghezza dello stelo 60 cm, per es. rosse

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–.70 invece di 1.40 Lattuga iceberg Spagna, il pezzo

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5.85 invece di 7.80 Minestrone alla ticinese Svizzera, imballato, al kg

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2.– invece di 2.50 Furmagèla (formaggella della Leventina) prodotta in Ticino, in self-service, per 100 g

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14.40 invece di 18.– Raccard Tradition a fette in conf. da 2 x 400 g

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1.90 invece di 2.40 Pane Trentino TerraSuisse 300 g


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20% Yogurt Greek Style Oh! in conf. da 2 per es. mirtilli-vaniglia, 2 x 170 g, 2.95 invece di 3.70

30% Tortelloni e gnocchi M-Classic in confezioni multiple per es. tortelloni ricotta e spinaci in conf. da 3, 3 x 250 g, 7.70 invece di 11.10

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4.40 invece di 8.85 Rösti Original XL in conf. da 3 3 x 750 g

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Trovate la ricetta su migusto.ch

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Tortine in conf. da 6 per es. alle albicocche M-Classic, 6 x 75 g, 4.50 invece di 7.50

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50% Tutte le bevande Jarimba in conf. da 6, 6 x 1,5 l per es. Himbo, 4.95 invece di 9.90

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30% Caffè Exquisito in chicchi e macinato in conf. da 4, UTZ per es. in chicchi, 4 x 500 g, 21.– invece di 30.–

30% Tutto l’assortimento di alimenti per gatti Vital Balance per es. Adult con manzo, 1,5 kg, 9.50 invece di 13.60

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7.20 invece di 14.40 Filets Gourmet à la Provençale Pelican in conf. speciale, MSC surgelati, 800 g

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20% Tutte le bevande Biotta bio da 50 cl non refrigerate, per es. mirtilli rossi Plus, 3.80 invece di 4.80

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Prodotti Handymatic Supreme in conf. da 2 per es. Brilliant Shine All in 1, 2 x 32 pastiglie, 12.50 invece di 25.–, offerta valida fino al 15.1.2018


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Tutto l’assortimento Chop Stick e Malee, a partire da 2 pezzi 20% Tutto l’assortimento di patate Delicious, prodotti surgelati, a partire da 2 pezzi 30% Olio d’oliva Don Pablo in conf. da 2, 2 x 1 l, 9.80 invece di 19.60 50% Tutto l’assortimento Salsa all’italiana, a partire da 2 pezzi, –.50 di riduzione l’uno, per es. alla napoletana, 250 ml, 1.10 invece di 1.60 Riso Scotti Carnaroli e Arborio, 1 kg, per es. Riso Scotti Carnaroli, 1 kg, 3.40 invece di 4.90 30% Baby Kisss in conf. da 2, UTZ, cioccolato al latte o fondente, per es. cioccolato al latte, 2 x 120 g, 5.10 invece di 6.40 20%

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Candela LED profumata Ambiance con cambio colore in conf. da 2, arancia, vaniglia o rosa, per es. vaniglia, 6.90 invece di 13.80 2 per 1 ** Candele Ambiance bianche in conf. da 2, 2 x 24 pezzi, 11.90 2 per 1 ** Padelle Titan Cucina & Tavola in set da 2, Ø 20 cm e 28 cm, 59.– invece di 103.80 40% ** Gasatore Crystal SodaStream con 2 caraffe di vetro, nero o bianco, per es. bianco, il pezzo, 99.– invece di 149.– 33% ** Candele scaldavivande Ambiance in conf. da 2, 2 x 100 pezzi, 6.– invece di 9.– 33% ** Cartucce per filtro Cucina & Tavola, M-Classic o Brita in conf. da 3, per es. Brita Maxtra+, 3 x 2 pezzi, 39.60 invece di 59.40 3 per 2 ** Avanti box Rotho A3 in conf. da 3, 35.60 invece di 53.40 33% ** Rasoi usa e getta Blue II Plus Slalom Gillette in conf. da 2, 2 x 10 pezzi, 9.95 invece di 12.60 20% ** Tutto l’assortimento Ellen Amber Body Comfort, per es. bolero, grigio, tg. M, 19.80 30x Punti Offerta valida fino al 22.1.2018

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Squisito hamburger di carne di manzo svizzera. conf. da 4

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