Azione 11 dell'11 marzo 2019

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Cooperativa Migros Ticino

Società e Territorio La riqualifica delle sponde del Ticino approvata dal Consiglio comunale di Bellinzona

Ambiente e Benessere In consultazione fino alla fine di aprile, il progetto cantonale per 43 nuove zone di tranquillità riservate a mammiferi e uccelli selvatici in Ticino

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXII 11 marzo 2019

Azione 11 Politica e economia Conti della Confederazione a gonfie vele: nel 2018 avanzo di 2,93 miliardi di franchi

Cultura e Spettacoli Il surrealismo elvetico in una grande retrospettiva al MASI di Lugano

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Accordo Svizzera-Ue: qualcosa si muove

Clima nuova emergenza sociale Le nuove generazioni in prima fila

di Peter Schiesser

di Christian Rocca

AFP

Vista la conclamata opposizione da parte dell’UDC, dei sindacati di sinistra e del Partito socialista svizzero, l’accordo istituzionale negoziato con Bruxelles pareva morto ancora prima che la consultazione sui generis avesse luogo. Invece, negli ultimi giorni, a consultazione ancora aperta, qualcosa sta cambiando: il Partito socialista ha modificato la sua posizione. Se ancora in dicembre il presidente Christian Levrat aveva dichiarato che il PS è contrario all’accordo istituzionale negoziato poiché prevede un indebolimento della protezione salariale (ciò che avrebbe imposto di rinegoziare con Bruxelles), oggi dichiara che il Partito socialista vuole un accordo istituzionale con l’Unione europea ma allo stesso tempo anche la protezione salariale. Non è solo una sottigliezza semantica, è un cambiamento di rotta e al contempo il tentativo di non perdere credibilità: apre la porta alla possibilità di garantire l’attuale protezione salariale chiedendo precisazioni e ottenendo rassicurazioni da Bruxelles (visto che l’accordo non si può rinegoziare, come ripete da mesi la Commissione europea), oppure con misure di politica interna (che non potranno però essere in contrasto con il diritto dell’Unione europea). Ma come mai questo cambiamento di rotta di Levrat, condiviso dall’assemblea dei delegati? In questi mesi l’ala liberale del PS è silenziosamente insorta contro l’appiattimento del partito sulle posizioni sindacali, di totale chiusura verso l’accordo istituzionale negoziato con Bruxelles. Forse la concomitanza con un calo nei sondaggi (si vota per le elezioni federali in ottobre) e con il passaggio ai Verdi liberali della ex consigliera nazionale zurighese Chantal Galladé, delusa dalla posizione non più abbastanza europeista del PS, ha giocato un certo ruolo, ma senz’altro il cambiamento di rotta è segno che all’interno del Partito socialista svizzero l’ala pragmatica ha ritrovato un suo peso. Non tutti, infatti, sposano la linea secondo cui l’accordo istituzionale porti davvero con sé un indebolimento della protezione salariale per il fatto che non sia più previsto un preavviso di 8 giorni ma solo di 4 per le ditte dell’Ue che inviano personale distaccato in Svizzera e perché non varrebbe più l’obbligo di cauzione generalizzato per queste ditte, bensì solo per quelle che in passato hanno compiuto irregolarità. Considerato che l’anno scorso l’Unione europea ha adottato nel suo quadro giuridico il principio «stesso salario per stesso lavoro», riconoscendo il diritto ai paesi membri (e alla Svizzera) di lottare contro il dumping salariale con degli adeguati controlli, secondo l’ala più pragmatica del PS la modifica delle misure di accompagnamento contenuta nell’accordo negoziato è da ritenere più formale che sostanziale. Tanto più che, secondo il parere giuridico del professor Philipp Zurkinden e di Bernhard Lautenburg (richiesto dal PS), la regola degli 8 giorni e l’obbligo generalizzato di chiedere una cauzione alle ditte dell’Ue sarebbe già oggi in contrasto con il diritto europeo sulla libera circolazione delle persone. Questo significa che se la Svizzera non dovesse accettare l’accordo istituzionale negoziato con Bruxelles potrebbe in futuro essere comunque obbligata a rinunciare a quanto concesso finora dalla Commissione europea. Il PS passa dunque assieme al PLR, al PPD, a Economiesuisse nel campo di chi dice «sì, ma» (ossia di chi chiede precisazioni, chiarimenti, modifiche, non solo su questioni salariali), lasciando l’UDC e l’associazione dei contadini sul fronte del no. Attenzione, però: una lunga serie di «sì, ma» alla fine può equivalere ad un no se la lista delle richieste si allunga a dismisura. A questo punto, l’accordo istituzionale può essere salvato solo se il Consiglio federale lo difende a spada tratta e riesce a convincere i sindacati di sinistra che si farà di tutto per la protezione salariale – insomma, se il Consiglio federale assume finalmente quel ruolo di guida Magica che gli spetta. La protezione salariale Superpasqua non è l’unico nodo di questo accordo istituzionale, il governo sarà quindi Speciale decorazioni Finalmente è primavera! chiamato a fornire risposte chiare su una ampia serie di temi.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 marzo 2019 • N. 11

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Attualità Migros

L’integrazione comincia in aula

Formazione L’impegno della Scuola Club di Migros Ticino per l’integrazione linguistica e sociale

Dal 21 al 28 marzo prossimi la Svizzera ricorderà la settimana internazionale di azione contro il razzismo. «Le istituzioni ticinesi uniranno anche quest’anno le loro voci per promuovere la diversità e combattere la tentazione del rifiuto e della discriminazione e lanciare una campagna secondo il motto “La diversità, un valore svizzero?”» spiega Attilio Cometta, delegato cantonale per l’integrazione degli stranieri. «L’edizione del 2019 vedrà molti spazi pubblici del nostro cantone ospitare nuovamente conferenze, esposizioni, momenti di sensibilizzazione nelle scuole, serate-film, accompagnati da trasmissioni radiofoniche e televisive. La protezione contro la discriminazione rimane una misura importante nel Piano di integrazione cantonale (PIC)». Altra leva fondamentale dell’integrazione prevista dal nuovo PIC 20182021 è l’insegnamento della lingua italiana. «Nell’ambito Lingua e Formazione abbiamo identificato diversi punti d’intervento: garantire la miglior gestione o organizzazione dei corsi di lingua; assicurare la prossimità delle offerte di formazione, sia in termini

Partire dalle persone per costruire spazi sociali accoglienti e sostenibili.

geografici che in funzione dei bisogni comunicativi delle persone in formazione; migliorare e valutare l’efficacia dell’intervento formativo; introdurre una procedura di accreditamento per gli enti che erogano corsi di lingua italiana L2» continua Attilio Cometta. «La formazione dei formatori in ambi-

Calendario dei corsi Corsi Pic L2 italiano per l’integrazione

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www.scuola-club.ch Bellinzona, 091 821 78 50 Locarno, 091 821 77 10 Lugano, 091 821 71 50 Mendrisio, 091 821 75 60

to Fide come pure l’erogazione di corsi di lingua qualificati a livello cantonale sono per noi strumenti strategici prioritari». Decisive per il raggiungimento di questi importanti obiettivi sono, infatti, le alleanze con gli enti formativi del territorio che diventano facilitatori di integrazione. Tra questi, la Scuola Club di Migros Ticino mette a disposizione la sua pluriennale esperienza e la sua qualificata professionalità per processi che ricadono positivamente non solo su singole persone ma sull’intero territorio. In piena sintonia con gli orientamenti del Piano, l’azione della Scuola Club si declina strategicamente su due livelli: accompagnando i migranti all’apprendimento della lingua italiana; formando i formatori con percorsi mirati all’interno del quadro di riferimento Fide. «La formazione Fide è destinata a coloro che insegnano la lingua italiana agli stranieri neo arrivati» ci dice Giona Mattei, formatore SOS Ticino per Fide alla Scuola Club di Migros Ticino nel

Modulo Migrazione e interculturalità: «Questo percorso desidera anzitutto introdurre i docenti di lingua italiana alla questione della migrazione e dell’interculturalità e offrire loro strumenti di lettura dei contesti in cui operano quali formatori per l’integrazione. Il secondo obiettivo è aiutarli a leggere quelle stese dinamiche interculturali all’interno della classe. Questo significa pensare il processo formativo a partire dalle persone che compongono la classe, dai loro bisogni e dai percorsi di vita, così come interpretare e gestire le dinamiche della comunicazione e di relazione all’interno di quello stesso contesto. È importante che il formatore veda la formazione in aula come un processo interculturale. L’aula per prima dovrebbe essere uno spazio di integrazione». Questo investimento nella formazione interculturale dei docenti è una chiave di volta per moltiplicare e accelerare processi di integrazione più ampi. Ciò richiede anzitutto un cambiamento di sguardo da parte del docente stesso. «Ognuno di noi porta con sé stereotipi

e pregiudizi. È importante che anche il formatore si apra alla diversità. Comprendere – e far comprendere ad altri – l’importanza delle dinamiche legate all’immigrazione e all’integrazione diventa una risorsa per gestire la diversità in altri luoghi, come il posto di lavoro o in altri contesti sociali» continua Mattei. «Spero che questi percorsi formativi aiutino a interiorizzare l’idea che è necessario cogliere l’altro nella sua particolarità, nella sua individualità, senza culturalizzare troppo. Il comportamento di una persona eritrea non è quello di tutti gli eritrei! La classe, allora, diventa davvero il primo luogo di riconoscimento e di integrazione». Come ben ci ricorda l’antropologo culturale Marco Aime, ad incontrarsi o a scontrarsi non sono le culture, ma le persone. Per questo è dalle persone e dalle relazioni tra persone che occorre partire per costruire spazi sociali sempre più accoglienti, coesi, sostenibili. Una consapevolezza che la Scuola Club di Migros Ticino cerca di tradurre ogni giorno nelle sue aule.

I Frontaliers tirano le somme... per beneficenza eventi Serata benefica speciale il 21 marzo prossimo, che conclude l’avventura di Frontaliers Disaster,

il successo cinematografico e televisivo ticinese dello scorso anno Nel dicembre 2018 Rete Uno e Frontaliers hanno raccolto 361mila franchi con l’azione benefica «Ogni Centesimo Conta» a sostegno dei bambini maltrattati sul nostro territorio. I Frontaliers hanno contribuito aggiungendo al totale la quota RSI dei ricavi del Dvd messo in vendita nelle filiali di Migros Ticino lo scorso dicembre. Rete Uno, insieme a Radio Ticino, ha fatto la parte del leone, organizzando una maratona radiofonica a Bellinzona, durante il periodo natalizio. Per ringraziare la popolazione della sua generosità, giovedì 21 marzo, a partire dalle 19.00, la RSI in collaborazione con Migros Ticino organizza all’Auditorio della Radio a Lugano-Besso uno spettacolo inedito dei Frontaliers, cui farà seguito l’annuncio di come sarà ridistribuito il denaro raccolto. A chiudere l’evento, uno standing dinner, curato dal Party Service di Migros Ticino.

Azione

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

L’entrata alla serata sarà gratuita e su invito, per tutta la famiglia. L’importanza della serata (che in un certo senso suggella il momento conclusivo del progetto Frontaliers Disaster, campione di incassi nel nostro cantone) è tale da farci rivolgere alcune domande a Paolo Guglielmoni, a.k.a. Loris Bernasconi. Con lui dunque abbiamo cercato di tirare un bilancio, scherzoso, dell’esperienza. Paolo Guglielmoni, i Frontaliers sono un’operazione fondamentalmente umoristica ma a ben vedere il lavoro per metterli in scena è molto serio. Lei e Fabio Sala, dopo tanti anni, riuscite ancora a divertirvi? Non soffrite ancora di indigestione da personaggio?

I personaggi, come ha dimostrato il successo di Frontaliers Disaster nei cinema ticinesi, possono ancora dare molto. Per dirla meglio, Bussenghi può Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

ancora migliorare Bernasconi e viceversa. Chi vedrà il nostro nuovo spettacolo a Besso o su rsi.ch/live-streaming, giovedì 21 marzo, potrà rendersene conto. Vi aspettiamo.

Tra i molti sketch che voi avete creato nel corso degli anni per Rete Tre, i Frontaliers hanno avuto un successo indubbio, dovuto a vari fattori. Ma se poteste, a quali altri personaggi fareste fare carriera? In altre parole: Netflix arriva e vi chiede di programmare una serie televisiva: chi scegliereste come nuovo eroe umoristico?

Sicuramente Duilio Gianinella, agente Polcant. e se vi dessero la possibilità di accogliere un attore/attrice famosi in una prossima puntata della saga Bussenghi-Bernasconi, con chi le piacerebbe arricchire il cast dei Frontaliers?

Per quello siamo già a posto, grazie editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31

all’entrata in scena di Barbara Buracchio, l’attrice che interpreta la fidanzata del Loris, e nel frattempo diventata la di lui moglie! Barbara avrà un ruolo da protagonista nello spettacolo di giovedì 21 marzo alla radio. Un motivo in più per partecipare. Domanda curiosa: se vi proponessero di realizzare il remake di un film famoso, cosa scegliereste tra: Non ci resta che piangere, I predatori dell’Arca perduta, un film a caso tra quelli di James Bond, La Palmira?

Non vorrei offendere i colleghi della Palmira ma la risposta è immediata: Non ci resta che piangere!

Un sogno da realizzare. Cosa sceglie tra: Frontaliers sullo schermo del Festival di Locarno; voi due chiamati a distribuire i premi alla notte degli oscar; una telefonata di Checco Zalone che vi chiede di scrivergli un paio di battute per il suo prossimo film. Tiratura 102’022 copie Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch

Da ticinese, non posso che rispondere «i Frontaliers sotto le stelle di Piazza Grande a Locarno». Però è un volo con la fantasia, restiamo umili (ride).

Come si usa in quest’epoca, così attenta ai valori della cucina e ai gusti dei Vips, può dirci qual è la ricetta preferita dei Frontaliers?

Un bel panino al salame. O meglio, un bel sandwich al salame. / Red.

Biglietti in palio Migros Ticino offre ai lettori di «Azione» 10 coppie di inviti alla serata speciale Frontaliers del 21 marzo all’Auditorio RSI di Lugano Besso. Per partecipare all’estrazione seguire le indicazioni contenute nella pagina del sito www.azione.ch/ concorsi. Buona fortuna! Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 marzo 2019 • N. 11

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Idee e acquisti per la settimana

Bere biologico

Attualità Diverse novità bio vanno ad arricchire l’apprezzato assortimento di Ice Tea della Migros

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I fan del tè freddo sanno che alla Migros possono trovare un variegato e vasto assortimento della loro bevanda preferita. Non è certo un caso che il mitico Ice Tea Migros nella versione classica sia il tè freddo più bevuto in Svizzera. Il suo inconfondibile sapore è rimasto invariato fin dal 1984 ed è dovuto all’accurata preparazione per infusione con foglie di tè nero, rosa

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canina e fiori di carcadè, a cui viene semplicemente aggiunto dello zucchero e del succo di limone. Coloranti, conservanti e aromi artificiali sono assolutamente assenti. Accanto ai più tradizionali Ice Tea, sugli scaffali dei nostri supermercati sono ancora ottenibili molte altre varianti in grado di soddisfare ogni preferenza di gusto, da quelle a base di tè nero alle varietà al

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tè verde, fino alle bevande alle erbe di montagna, molte delle quali disponibili anche senza zucchero. Parte integrante dell’assortimento di tè freddi sono anche gli Ice Tea Migros-Bio, tutti ottenuti esclusivamente con ingredienti di produzione biologica certificata. Se da una parte la scelta è stata ampliata con quattro nuove varietà dedicate a coloro che

Auguri caro papà

19 marzo La festa del papà si avvicina e abbiamo selezionato alcune

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amano provare sempre gusti diversi, dall’altra tutta la linea può ora contare su una bottiglia dal design più moderno e accattivante. I nuovi gusti sono: il rinfrescante Tè verde-menta; il Tè nero zenzero-citronella per chi apprezza i sapori più pungenti; il gradevolmente fruttato Rooibos-arancia e lo Sweet Mate, un infuso di foglie di mate e moringa con succo d’arancia.

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Della serie fanno anche parte gli ormai apprezzatissimi Ice Tea con Erbe delle alpi svizzere - con ingredienti quali melissa, menta piperita, alchemilla, camomilla, ortica e verbena odorosa e la Tisana della felicità, un’aromatica e benefica bontà a base di santoreggia, canapa, verbena odorosa, prezzemolo, mentastro e petali di rose. Correte ad assaggiarli.

Voglia di primavera

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Ecco un’ottima idea per scrollarsi di dosso il grigiore dell’inverno e dare il benvenuto alla nuova stagione: questa cassetta di variopinti fiori primaverili non solo apporta buonumore e allegria nelle nostre abitazioni, ma sprona gli appassionati di giardinaggio a ricominciare a dedicarsi al loro passatempo preferito. Marzo e aprile sono infatti mesi importanti per i lavori in giardino, al fine di preparare al meglio il ter-

reno ad accogliere i propri fiori primaverili preferiti. La cassetta è composta da ranuncoli, primule, nontiscordardimé, viole del pensiero o altre viole. Si consiglia di trapiantare i fiori in cassetta all’esterno durante il mese di maggio. È utile sapere che gerani e begonie sono particolarmente sensibili al freddo, pertanto si raccomanda di interrare questi fiori dopo il periodo dei «Santi di ghiaccio», vale a dire dopo il 15 maggio.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 marzo 2019 • N. 11

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Società e Territorio Il castello di Brione La costruzione storica cerca una nuova vocazione che la valorizzi e le dia un nuovo volto

Una tipografia che ha fatto storia La Agnelli di Lugano diffondeva libri e riviste in tutta Europa aprendosi alle nuove idee illuministe, fino alla sua drammatica scomparsa

A teatro recita lo smartphone Una pièce dedicata al rapporto dei giovani con le nuove tecnologie porta in scena la comunicazione digitale pagina 13

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pagina 7 Un’immagine digitale che illustra il progetto. (www. ilmiofiume.ch)

Il fiume torna all’uomo e alla natura Paesaggio La sistemazione e la rinaturazione del Ticino cominciano dal Parco fluviale Saleggi-Boschetti

Sara Rossi Guidicelli Il 26 febbraio è stato approvato il credito dal Consiglio comunale di Bellinzona per i lavori di riqualifica del fiume Ticino che si prevede inizieranno entro la fine dell’anno in zona Torretta. Tre sono le principali motivazioni per questi lavori: primo, gli argini del fiume Ticino stanno invecchiando e l’acqua del fiume li sta pian piano erodendo; secondo, il territorio si è talmente urbanizzato negli ultimi decenni, che le rive dei corsi d’acqua sono diventate un polmone prezioso dove andare a respirare silenzio, bellezza e quel benefico e disordinato sistema fatto di rami, foglie, acqua e sassi; terzo, liberando le rive si assisterà a un recupero degli ecosistemi acquatici, che presentano una ricchissima biodiversità. È uno degli scopi della politica svizzera attuale in materia di protezione delle acque: riportare al loro stato naturale le rive lacustri, i fiumi e i ruscelli. In Ticino abbiamo l’esempio recente della rinaturazione della foce del Cassarate (2014), che è diventata un’area di piacere a contatto con l’acqua. L’idea e la necessità di riqualificare il fiume Ticino e la sua foce nasce già agli inizi degli anni 2000, anni in cui la Fondazione Bolle di Magadino assieme al Cantone e all’allora Ufficio federale per l’acqua e la geologia ha promosso un primo studio, effettuato dal Politecnico di Zurigo, dal quale sono

emerse le aree con caratteristiche adeguate per delle riqualifiche. Da qui è nato il progetto e la rinaturazione della foce del Ticino che ha ottenuto il Premio corsi d’acqua 2011 per la sicurezza contro lo straripamento dell’acqua e per il nuovo approccio di gestione dei fiumi. La prossima tappa è rappresentata dal progetto che riguarda la zona Saleggi e Boschetti di Bellinzona. Sotto l’egida dell’Ufficio dei corsi d’acqua (Dipartimento del Territorio), i committenti che realizzeranno i lavori sono il Consorzio Correzione Fiume Ticino e la Città di Bellinzona. L’area golenale, per Bellinzona, è la spina dorsale verde del suo corpo urbano; già oggi è il luogo dove si va per correre, passeggiare, giocare, andare in bicicletta. Domani, con un addolcimento e uno spostamento degli argini sommergibili, sarà possibile avvicinarsi con più facilità al fiume che troverà ancora più spazio per scorrere armoniosamente; la biodiversità della fauna terrestre e acquatica, inoltre, sarà mantenuta più facilmente in questo nuovo contesto. Ci saranno dunque interventi di tipo idraulico, per una messa in sicurezza degli argini del fiume, e interventi di tipo naturalistico. Si tratta di dare spazio e mettere in condizione il fiume di poter tornare a formare dei banchi naturali o ad avere intrecci nell’alveo, ridisegnando in modo controllato il suo alveo. Verranno anche create «anse

naturali di relax» e costruite rampe per consentire l’accesso al fiume, nel settore Torretta e Saleggina anche per persone disabili; in zona Saleggi a Giubiasco saranno costruite passerelle, piattaforme e rampe d’accesso all’acqua per avvicinare la città al fiume. Anche a Sementina-Monte Carasso si pensa a una passerella in legno che guidi i visitatori lungo un percorso con un belvedere per ammirare in paesaggio. Pannelli didattici daranno spiegazioni sugli interventi e sulla flora e la fauna locali. A Gudo verrà realizzato un ponte ecologico tramite la costruzione di una galleria artificiale sulla cantonale, che permetterà il passaggio in sicurezza degli animali tra il versante e il piano. La pianificazione strategica cantonale non riguarda solo il fiume Ticino ma anche i suoi affluenti: l’obiettivo è rendere anch’essi più naturali garantendo lo stesso grado di sicurezza, togliendo loro il cemento sulle sponde dove si può, sostituendolo sul fondo con la ghiaia, restituendo vita animale e vegetale alle rive. Si vuole altresì far scoprire al visitatore che vicino a molti villaggi delle nostre valli scorre un riale, il quale per ora non è sempre visibile, agibile o gradevole. In questo contesto si inseriscono progetti come quello delle Vie d’acqua della Bassa Riviera, completato nel 2016 dagli architetti Mario Ferrari, Michele Gaggetta e Stefano Moor per conto degli allora Municipi di Claro,

Gorduno, Gnosca, Preonzo e Moleno. Tale studio mira a collegare i nuclei abitativi con le zone verdi di svago passando lungo i corsi d’acqua, rendendoli accessibili e percorribili. «Non c’è un sentiero continuo lungo il fiume», motivano gli architetti. «Ci sono interruzioni, punti in cui bisogna tornare sulla cantonale e il tratto verso Moleno è addirittura attraversato dall’autostrada, mentre mancano i ponti sugli affluenti di Moleno e Gnosca e una passerella sul Ticino che colleghi Claro a Preonzo. Non sarebbero molti gli accorgimenti per rendere il percorso continuo. Il nostro sogno sarebbe di rendere la passeggiata possibile da Biasca alla foce del Ticino sulle due rive, vedendo solo il fiume da una parte e alberi dall’altra e con ponti a percorrenza pedonale. Dobbiamo offrire a noi stessi e al turista un percorso di mobilità lenta senza interruzioni. Per i pescatori, i ciclisti, i camminatori, il fiume è ciò che unisce il territorio e i suoi paesi». Questi studi si intersecano con la pianificazione strategica cantonale di rivitalizzazione promossa dall’Ufficio corsi d’acqua. A Moleno e Cresciano sono già stati realizzati nuovi banchi artificiali per il fiume; a Lodrino sono stati rivitalizzati i riali Balma e Rodaglio; a Claro, che ha quattro affluenti, sono stati messi due filari di alberi, dei noci, uno sul riale Canva e l’altro sul Ragone, nella parte bassa.

Il lavoro dello staff dell’Ufficio corsi d’acqua è di trovare un equilibrio che concili i bisogni e i diritti di tutti gli attori coinvolti, dalla popolazione alle associazioni come quelle ambientaliste e dei pescatori, dagli agricoltori ai patriziati fino alle centrali idroelettriche e la ferrovia sui territori lungo i corsi d’acqua. «Un lavoro che sempre più si vuole portare avanti contando sulla partecipazione attiva di tutti gli attori», sostengono i collaboratori dell’Ufficio. «Un esempio concreto giunge dal progetto di masterplan per la riqualifica dei corsi d’acqua in Riviera, progetto promosso da noi per coordinare la riqualifica dei corsi d’acqua e il risanamento dei deflussi discontinui sull’asta del fiume Ticino con le esigenze e le visioni territoriali dei Comuni. Si tratta di un processo partecipativo in cui tutti possono esprimersi e in cui ci sarà magari da fare un qualche compromesso per arrivare a soluzioni condivise», spiegano e concludono: «Comunque tutti certamente, e la popolazione in particolare, ne trarranno un grande beneficio. Tra 50 anni, la Bassa Leventina, per non parlare di Riviera e Bellinzona, saranno ancora molto più urbanizzate. Il fiume, con le sue rive libere, sarà allora un luogo di svago, un polmone verde preziosissimo, ancora di più di quanto lo sia oggi. E certamente è necessario occuparsene ora, giocando d’anticipo, perché altrimenti sarà troppo tardi».


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 marzo 2019 • N. 11

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Società e Territorio

Una nuova vita al castello di Brione

Territorio La costruzione settecentesca cerca una vocazione moderna

come punto di incontro per gli abitanti della Valle Roberta Nicolò Nel cuore della Verzasca si trova una villa storica che sembra un castello. La rocca, appartenuta ad una famiglia signorile del Seicento, si trova nelle vicinanze della chiesa parrocchiale. L’edificio ha quattro torri protette da una cinta muraria, delimitata da altrettante piccole torri sugli angoli, che la fanno sembrare un vero e proprio castello. All’interno dell’edificio si possono ammirare i molti stemmi della famiglia Marcacci con le date dei rispettivi incarichi durante la dominazione elvetica. Al piano terreno, il soffitto a volta, è affrescato. Il castello Marcacci, tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, venne gestito dalle sorelle Flora e Onorina Togni, proprietarie di allora, come trattoria e negozio di paese. Attività che negli anni Novanta sono cessate e che hanno decretato la chiusura al pubblico del castello. Chiusura non apprezzata dalla popolazione, che reputa la dimora come un simbolo della vita del paese. Il Comune di Brione Verzasca ha recentemente acquistato il Castello Marcacci. Un’iniziativa che ha unito Municipio e popolazione nella comune volontà di ridare, alla dimora seicentesca, nuovo lustro. «Nel corso della storia il Castello Marcacci è passato da casa privata a trattoria, con annesso negozietto di

paese – spiega il Presidente della Commissione Castello Marcacci Martino Prat – fungeva dunque da luogo d’incontro per la popolazione, un luogo apprezzato e considerato nevralgico. Con il cessare dell’attività, negli anni Novanta, quel luogo d’incontro nel cuore del paese è venuto a mancare. Il Castello è l’edificio simbolo del comune della Verzasca e la popolazione ha espresso, tramite l’Assemblea Comunale, il desiderio che questo finisse in mani pubbliche comunali. Inoltre le volontà testamentarie delle due defunte sorelle, ultime proprietarie della villa, auspicavano un passaggio della proprietà a un ente pubblico. Sono dunque iniziate le trattative per l’acquisizione del Castello che si sono concluse nel 2017». Oggi, a gestire la struttura, è una Commissione che si occupa della conduzione temporanea degli spazi. La Commissione è composta da cittadini di Brione Verzasca (Leana Panscera, Cristina Bisi, Sandra Scolari, Alan Matasci) che con entusiasmo si sono messi a disposizione del progetto e dal Municipale Martino Prat che, oltre ad esserne Presidente, funge da collante tra la Commissione stessa e il Municipio. Una collaborazione di successo tra istituzione e singoli cittadini che, insieme, si prendono cura di una costruzione non solo di valore storico, ma anche immagine del senso di comunità di

Brione. Il Castello, realizzato nel XVIII secolo dall’architetto Giovanni Gada, dopo gli interventi di restauro da parte del Comune, sarà pronto per ospitare le nuove attività. «Lo stabile, in generale, si presenta in buone condizioni. Nel corso degli anni sono state aggiunte al progetto originale delle costruzioni più recenti che si notano facilmente. Il garage, per esempio, è stato costruito a ridosso della cinta muraria, mentre la parte della cucina è stata costruita sul lato est dello stabile. La manutenzione al momento dell’acquisto era stata un po’ trascurata, ma il Comune ha proceduto con massima priorità ai lavori di messa in sicurezza del Castello. Sono state sistemate le piode del tetto, dove c’erano delle infiltrazioni d’acqua e anche le grondaie sono state rinnovate. Il Municipio sta facendo ora i passi necessari per la realizzazione di un progetto di restauro generale. Va detto che il Castello è iscritto nell’Inventario dei beni culturali d’importanza regionale e come tale è protetto a livello cantonale. Dunque questi lavori di restauro verranno discussi e condivisi con l’Ufficio Beni Culturali». Una volta restaurato, il Castello Marcacci sarà nuovamente pronto ad ospitare attività rivolte alla popolazione. «La gestione del futuro Castel-

Fino agli anni 90 è stato trattoria e negozio. (Roberto Pellegrini)

lo non è ancora definita, ma l’attuale Commissione ha allestito tre calendari d’attività volti ad animare gli spazi e a offrire la possibilità di ritornare a vivere il Castello. Le attività sono variegate e si adattano a tutte le fasce d’età. Ci sono serate dedicate ai giochi di società, dei pomeriggi per fare la maglia insieme, momenti destinati ai giochi di carte, incontri con personalità di spicco della regione e la merenda per gli anziani. Tutte attività che coinvolgono attivamente la popolazione e che vantano un’ottima partecipazione. Notiamo con piacere che la gente vuole tornare nel Castello e che tiene molto a questo punto d’incontro nel cuore del paese. Attualmente il Municipio sta raccogliendo e valutando varie proposte per il futuro della struttura. Tra le idee arrivate all’amministrazione c’è anche quella di riaprire il Castello come ritrovo pubblico e dunque come trattoria. Il Castello Marcacci è stato testimone della vita di Brione e della regione negli ultimi 400 anni. Gli spunti storici di certo non mancano. Bisognerà valuta-

re ogni aspetto e prendere la decisione senza dimenticare che, nel 2020, ci sarà la fusione dei Comuni della Verzasca: un evento atteso per anni e che potrebbe rendere necessario il dislocamento di uffici e di servizi. È quindi un progetto soggetto a possibili cambiamenti». Il Castello Marcacci non è solo un punto importante per il paese ma può andare ad incrementare l’offerta turistica dell’intera regione. «Il Castello incanta i passanti per la sua imponente architettura. Non penso però che i turisti raggiungeranno la Verzasca unicamente per ammirare il Castello. Può sicuramente essere una carta in più che va ad aggiungersi all’offerta già esistente. Pensiamo in particolare al fiume, alla diga, ai grotti. Stiamo valutando anche il fatto di poter organizzare delle visite guidate per gruppi. Personalmente mi piacerebbe che venisse vissuto nuovamente come prima della sua chiusura. Che la gente del paese vi si possa ritrovare per trascorrere dei momenti di condivisione e di amicizia» conclude Martino Prat. Annuncio pubblicitario

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Società e Territorio

La stamperia che fece tremare l’europa

editoria storica 220 anni fa la fine della Tipografia Agnelli di Lugano, faro di cultura

e testimone delle grandi rivoluzioni Jonas Marti Le ultime parole dell’ultima edizione suonano come un terribile presagio quell’ultimo giorno in Piazza della Riforma. «Sentesi attualmente il rimbombo del cannone, e si crede impegnato un affare serio, che deciderà della nostra sorte», sta scritto quel 29 aprile del 1799 sull’ultima pagina della «Gazzetta di Lugano». Il giorno prima gli austriaci sono entrati a Milano e hanno scacciato i francesi dalla Lombardia. L’egualitaria ma feroce liberté trascinata da Napoleone in giro per l’Europa sembra essersi dissolta per sempre in un’eco lontana. Anche a Lugano, dove i conservatori tirano un respiro di sollievo e ne approfittano per un regolamento di conti. La rivolta che scoppia è sanguinosa. C’è un vecchio acquerello

Tra le pubblicazioni più famose, le «Nuove di diverse corti e paesi» ebbero una grande diffusione di Rocco Torricelli, testimone oculare degli eventi, che descrive bene quelle ore concitate. La piazza di Lugano è uno sciame di persone intente a saccheggiare la stamperia, i libri vengono gettati dalle finestre, i macchinari sono distrutti a mazzate. È caccia ai giacobini che, riferisce un anonimo, sono «assassinati con crudeltà senza esempio a colpi di scure, e di fucile». Il proprietario Giovanni Battista Agnelli riesce a fuggire. Viene invece ucciso il braccio destro, l’abate Giuseppe Vanelli di Grancia, assalito mentre sta andando come ogni mattina a lavarsi nel lago. Una fine movimentata quella della Tipografia Agnelli, degno epilogo per un’altrettanta avventurosa esistenza durata oltre mezzo secolo. Tra intrighi

internazionali e giochi diplomatici, con le sue pubblicazioni distribuite spesso clandestinamente, in favore di riforme e rivoluzioni, contro i gesuiti, contro la pena di morte, la tortura e la schiavitù, la stamperia di Lugano aveva davvero fatto tremare mezza Europa. Erano stati, nel 1746, tre fratelli milanesi a fondarla, un po’ per cercare nuovi sbocchi commerciali fuori dal sonnecchiante mercato editoriale italiano, un po’ per beneficiare della libertà di stampa svizzera e sfuggire alla doppia censura, dello Stato e della Chiesa, che vigeva a Milano. Ottenuto il permesso dei Cantoni sovrani che allora dominavano la Svizzera italiana, avevano aperto bottega in Piazza Grande (oggi Piazza della Riforma) occupando quel grande ed elegante palazzo che esiste tutt’ora all’imbocco di via Canova e che oggi porta una targa commemorativa: «Sull’area di questo edificio sorgeva la Tipografia Agnelli, faro di cultura europea». Non c’è dubbio: tra i tanti libri pubblicati, soprattutto su commissione, il prodotto di punta erano le «Nuove di diverse corti e paesi d’Europa» (o «Gazzetta di Lugano» come venne chiamato negli ultimi due anni): un settimanale in lingua italiana, stampato di lunedì, distribuito in pratica in tutta l’Italia ma letto in tutta Europa. Il 30 settembre del 1776 è tra i primi a pubblicare integralmente il testo della Dichiarazione di indipendenza americana, quando per la prima volta nella storia si parla del diritto alla ricerca della felicità. «Siccome tale atto non solo contiene tutta la serie degli avvenimenti, ma formerà l’epoca la più strepitosa di questa Confederazione, stimiamo di non defraudarne la curiosità dei nostri Leggitori». Sostiene le riforme illuministe di Maria Teresa d’Austria e di Pietro Leopoldo I, il «sovrano filosofo» del Granducato di Toscana. Segue con grande attenzione la Rivoluzione francese, pubblica la Dichiarazione dei di-

Acquerello di Rocco Torricelli. (MASI, Collezione Città di Lugano)

ritti dell’uomo e del cittadino e racconta l’uccisione del re Luigi XVI, in modo molto preciso: «Luigi intanto leggeva le preci dell’agonia, e giunto alle 10 ore, e 10 minuti alla Piazza della Rivoluzione, levatosi l’abito, salì con piè franco sul palco. (...) Il Comandante diede il segnale all’Esecutore, e tosto la testa di Luigi cadde, alle 10 ore, e 20 minuti» (4 febbraio, 1793). Racconta anche agghiaccianti particolari del Terrore giacobino: «La guigliottina è troppo lenta; nell’archibuggiarli si consuma polvere e palle, e si è perciò preso l’espediente di caricarne delle barche, condurle in mezzo al fiume (...) ed ivi mandarle a fondo, operazione, che di continua con tutta speditezza» (13 gennaio 1794). Scrive anche di curiosità archeologiche, quando nel 1782 in una località della Provenza «si era aperta con ispaventevole fragore una gran roccia» che aveva restituito alla luce 35 «cadaveri ben conservati» con «una gran quantità di utensigli da cucina molto antichi». Ogni tanto si preoccupa pure per la salute del

Papa: «Siamo stati in qualche timore per la salute del Santo Padre; poiché fino di sabato ebbe qualche incomodo di febbre, onde gli furono fatte due emissioni di sangue» (12 settembre 1791). Ma la preoccupazione tutta pia per il pontefice non deve trarre in inganno. La Tipografia Agnelli non è mai stata compiacente con i potenti. Anzi. Nel 1768, a causa delle critiche contro i gesuiti, viene «proibita la Gazzetta di Lugano in tutto lo Stato del Papa sotto la pena di scudi cento» (un mese dopo – ecco la spregiudicatezza – il giornale «entra in Roma come prima» ma «sotto altro nome», scrive Alessandro Verri). Nel 1770 la gazzetta è bandita dagli Stati Sardi per la sua «soverchia libertà e franchezza». Qualche anno dopo un funzionario della Milano austriaca definisce l’abate Vanelli «insubordinato a tutte le leggi, ribaldo, di costumi perduti, libertino e sedizioso», mentre le autorità austriache tentano di fare pressione sui cantoni elvetici per ridurre la gazzetta al silenzio, inviano funzionari

a Chiasso e Lugano e minacciano di interrompere la fornitura di grano alla Svizzera italiana. È un cinquantennio spericolato quello della Tipografia Agnelli. Ci si potrebbe anche girare un film. Ci sono le spie, come quella della Santa Sede «che in Lugano sta con ogni attenzione per scoprire se dalle note stampe dell’Agnelli esca alcuno di quei tali libri». Ci sono le pressioni internazionali delle monarchie europee sulla Confederazione per tentare di chiudere la stamperia. Ci sono le tangenti, quei «regali» che Agnelli si preoccupa di far avere ai rappresentanti svizzeri per garantire la libertà di stampa. Degli Agnelli si interessano la Corte Pontificia, quelle di Vienna e del Portogallo, ministri di varie nazioni e nell’ultimo periodo lo stesso Napoleone Bonaparte. Un pezzo di storia preziosa, non solo per Lugano ma per tutta la Svizzera. Un giorno anche Giacomo Casanova decise di affidarsi alla tipografia, convinto che a Lugano ci fosse «una buona stamperia e nessuna censura». Ebbe una brutta sorpresa. Agnelli gli sottopose un contratto in cui si riservava di censurare il testo, «sperando di trovarla sempre d’accordo con me», e non solo: a stampa conclusa fece finta che a Lugano non fosse successo niente e attribuì all’opera la falsa data di Amsterdam. Lugano, piccola e polverosa cittadina dei baliaggi italiani. Eppure vivace testimone degli eventi internazionali. Fino a quell’aprile del 1799, quando tutto finisce. Qualche settimana dopo il saccheggio, il comandante austriaco della piazza di Lugano ordina alla popolazione di riconsegnare quanto rubato. Si presentano ben 350 persone. Alcuni ammettono di avere già venduto la refurtiva. Molti riconsegnano di tutto: oltre a libri, carta e caratteri... ci sono tende, posate, pentole, tavoli, sedie. Inclusa la cassa dell’orologio dello sfortunato abate Vanelli. Annuncio pubblicitario

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Società e Territorio

Qui tutti sono attori

Controvento

Teatro a scuola Torna questa settimana al Centro Professionale Tecnico di Lugano-Trevano

uno spettacolo interattivo in cui gli spettatori sono invitati a modificare la storia

Stefania Hubmann Da spettatori ad attori per reagire a situazioni di oppressione cercando di modificare la scena e trovare nuove soluzioni. È il metodo del Teatro Forum che questa settimana viene riproposto al Centro Professionale Tecnico di Lugano-Trevano (CPT) dopo l’esperienza inaugurale dello scorso autunno. Nel caso specifico si tratta di un progetto nazionale che affronta l’influenza dei social media sulle questioni legate all’identità in relazione a migrazione, razzismo, parità fra i sessi e digitalizzazione. Nel titolo «I Girl – I Boy – I Phone» sono già racchiuse tutte le tematiche sottoposte agli allievi delle scuole professionali e di altri istituti interessati alla proposta. Adattato nella versione italiana dal Teatro Pan di Lugano, il progetto ha suscitato interesse sia negli studenti, sia nei docenti che li preparano alla rappresentazione, approfondendo in seguito con la classe le questioni che la medesima solleva. Per un consuntivo dell’esperienza bisognerà attendere la fine di questa sessione di spettacoli destinati anche alla Scuola Specializzata per le Professioni Sanitarie e Sociali e al Pretirocinio, ma il direttore del CPT Roberto Valaperta conferma ad «Azione» la crescente partecipazione e i riscontri positivi di un metodo innovativo per il Ticino. «Gli argomenti trattati da «I Girl – I Boy – I Phone» – precisa il direttore – rientrano nel programma di cultura generale della formazione professionale di base. Vengono quindi trattati anche durante le ore di lezione. Negli spazi comuni del Centro sono inoltre allestite due esposizioni su temi quali la migrazione e la diversità per mantenere viva l’attenzione su queste problematiche. Il Teatro Forum offre l’opportunità di affrontarle con un maggiore coinvolgimento da parte degli allievi. Questi ultimi giungono all’evento preparati, ma senza che sia tolto loro l’effetto sorpresa. Il dossier del progetto è completo e ben preparato con numerosi spunti di approfondimento. Diversi docenti hanno sfruttato questa possibilità elaborando a loro volta materiale didattico mirato». Il Centro Professionale Tecnico di Trevano ospita a rotazione circa 1500 allievi suddivisi in oltre 180 classi con una maggioranza di sesso maschile pari a circa il 90 per cento. In ottobre al Teatro forum hanno partecipato diverse classi del primo e del secondo anno e diverse classi di terza del CSIA (Centro Scolastico per le Industrie Artisti-

Minispettacoli Al

Teatro Don Bosco di Minusio, domenica 24 marzo, una storia di aria, nuvole e bolle di sapone Enza Di Santo

Un momento dello spettacolo che andrà in scena in marzo al CPT di Trevano. (Daniela Banfi, Forum Teatro)

che). Con gli spettacoli in programma questa settimana tutti gli allievi dei primi due anni del CPT avranno avuto l’opportunità di sperimentare dal vivo cosa significhi assistere ad una scena di oppressione con la possibilità di intervenire per tentare di cambiare il corso degli eventi. «Non è sempre facile suscitare la partecipazione attiva degli allievi – aggiunge Roberto Valaperta – ma abbiamo constatato che funziona bene. Emergono da parte loro riflessioni profonde e interessanti su come vivono i momenti delicati, momenti che possono riscontrare nella vita reale, a scuola, sul lavoro, ma anche con gli amici». Le situazioni che vanno in scena in «I Girl – I Boy – I Phone» sono racchiuse in una storia di mezz’ora che il gruppo – dai 40 agli 80 studenti – vede una prima volta nel suo insieme. In seguito la moderatrice li invita ad intervenire in occasione di una seconda recita caratterizzata da interruzioni e nuovi sviluppi. Gli allievi con le loro opinioni e soprattutto con le loro azioni sul palco interagiscono con gli attori cercando di trasformare la storia. «Per suscitare emozioni forti e la conseguente reazione del pubblico è essenziale disporre del testo adeguato finalizzato a questo scopo», spiega Cinzia Morandi, regista e moderatrice dell’evento. Membro del gruppo fondatore del Teatro Pan, lavora da oltre trent’anni con i giovani, ai quali il Pan dedica la sua attività di creazione, produzione e rappresentazione teatrale. Con Sissy Lou Mordasini l’anno scorso ha curato la versione in italiano di «I Girl – I Boy – I Phone», promosso da Travail Suisse e ideato dal Teatro Maralam di Zurigo. Prosegue Cinzia Morandi: «Il testo in

italiano è stato concepito da Sissy Lou Mordasini, esperta di Teatro Forum. Insieme abbiamo tradotto e adeguato il dossier, cercato il materiale da utilizzare per le proiezioni in scena e dato vita alla storia con i nostri attori che interpretano tre personaggi. Infine abbiamo testato la rappresentazione con un gruppo di adulti, categoria alla quale il metodo del Teatro Forum era destinato in origine». Il Teatro Forum è stato infatti ideato dal regista brasiliano Augusto Boal negli anni Sessanta con l’idea di attivare gli spettatori (spett/attori) di fronte a ciò che non ritengono giusto, offrendo strumenti di riflessione e cambiamento sia personale che collettivo. «Il principio del Teatro Forum – precisa la regista – è quello di far reagire dapprima con l’istinto, interrompendo la scena perché si percepisce che quanto si vede non è giusto. In un secondo tempo si propongono comportamenti alternativi per modificare in meglio la situazione. L’ideale è lavorare con un gruppo di almeno una quarantina di persone, in modo che ognuno si senta libero di intervenire e che opinioni diverse possono ricevere il sostegno di una parte dei presenti. Va precisato come l’obiettivo del Teatro Forum non sia quello di offrire risposte agli interrogativi sollevati, quanto piuttosto proprio di porli in modo da poter essere oggetto di discussione. In questo modo si mettono a confronto più punti di vista arricchendo il percorso di ognuno, anche degli stessi attori». Proporre questo tipo di percorso all’interno della scuola è possibile grazie al sostegno di numerosi enti. Patrocinato da Travail Suisse con la

Conferenza svizzera delle direttrici e dei direttori delle scuole professioni e l’Associazione svizzera per l’insegnamento della cultura generale, «I Girl – I Boy – I Phone» ha potuto beneficiare nella fase iniziale del supporto della SEFRI (Segreteria di Stato per la formazione, la ricerca e l’innovazione) e di SWISSMEM. Per continuare il progetto è stato chiesto un finanziamento a education21. Il lavoro teatrale e in particolare il Teatro Forum – confermano gli intervistati – costituisce per i giovani una grande opportunità di formazione che permette di allenare riflessione ed espressione in forma creativa. Molestie informatiche a scuola, pressioni esterne ed interne nell’ambito aziendale, immagini intime che finiscono su internet sono situazioni di vita reale che grazie al Teatro Forum possono essere simulate in uno spazio protetto secondo il principio «cosa succede se…». I futuri professionisti, recita la Carta del CPT, devono puntare all’eccellenza e all’efficienza professionali, ma devono anche disporre delle competenze umane e sociali che «fanno di ogni persona un attore indispensabile alla società». Da parte sua il Teatro Pan sta raccogliendo attraverso giochi di teatro dati fra gli allievi di scuola media per sviluppare a partire da questa esperienza un progetto di Teatro Forum per questo ordine di scuola.

Dedicato a tutti i sognatori, Controvento è il genere di spettacolo che fa brillare gli occhi dei bambini più piccini con l’incanto di grandi bolle di sapone, ma che nello stesso tempo riempie il pomeriggio della famiglia grazie alla sua bella storia. Uno spettacolo di magia, clownerie e arti circensi, con le musiche originali di Marco Castelli, che nel suo piccolo e nella sua semplicità ha un forte impatto scenografico e sensoriale, capace di catturare anche i più grandicelli, trasportandoli indietro nel tempo. È il 15 luglio del 1913 e l’aviatore, protagonista della pièce, è pronto a partire con il suo scoppiettante biplano per avventurarsi in mondi meravigliosi, lontani e sconosciuti. In volo però incontra schiumose nuvole, raffiche di vento e alcuni imprevisti, che trasformano il viaggio in una grande avventura controvento, contro le avversità, oltre i confini della Terra. L’aviatore, interpretato dal mago delle bolle di sapone, Michele Cafaggi, è spaventato, ma coraggioso, spericolato e pasticcione. Partendo scoprirà posti fantastici, ma si caccerà anche nei guai... Che succederà al moderno Icaro protagonista del racconto e al suo biplano? Il Percento culturale di Migros Ticino sostiene l’evento e mette in palio alcune coppie di biglietti omaggio per Controvento, della rassegna Minispettacoli, che si terrà domenica 24 marzo alle ore 15.00. Per partecipare all’estrazione basta seguire le indicazioni riportate sul sito web www.azione.ch/concorsi. Buona Fortuna!

Informazioni

www.igirlboyphone.ch www.teatro-pan.ch www.cpttrevano.ti.ch

Michele Cafaggi a bordo del biplano Il Cervo Volante. (teatrodelleali.com )

Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani David Lozano, Il ladro di minuti, De Agostini. Da 8 anni Il tema del tempo come bene prezioso è sempre un ottimo spunto narrativo, che permette, a seconda della profondità con cui viene trattato, svariate riflessioni esistenziali. Non sono certo riflessioni profonde quelle che ci propone questo romanzo per ragazzini, ma forse va bene così: è una storia semplice, senza pretese, non priva di una sua brusca grazia e soprattutto con il vantaggio di rivolgersi a quella fascia d’età, intorno agli otto anni, per la quale le proposte editoriali non abbondano. Le «Autorità» del Paese in cui vive Edu (diminutivo di Eduardo Maria) hanno deciso di togliere per sempre dal calendario il sei ottobre, e il sei ottobre è proprio la data del suo compleanno, ragion per cui Edu teme di dover restare un bambino di dieci anni per tutta la vita. Tuttavia, non essendo certo un tipo

che si perde d’animo, decide di varcare la soglia (molto proibita) del Negozio di Cose Proibite, dove un misterioso venditore gli propone di utilizzare una macchina per sottrarre minuti al tempo degli altri, un poco ogni giorno, così da arrivare in capo a un anno a ricostruirsi un giorno nuovo tutto per lui, con cui colmare il vuoto del suo compleanno. Edu si mette all’opera, e la storia è tutta qui, nel suo rubare minuti (che devono essere rigorosamente felici) agli altri, con le implicazioni morali che ne derivano. In effetti Edu ruba attimi di felicità alla gente e questi furti finiscono

con il logorarlo. Si riscatterà naturalmente nel finale, quando deciderà di offrire quel preziosissimo surplus di tempo, così faticosamente conquistato, a chi ne ha davvero bisogno. Nonostante qualche incongruenza sul piano narrativo e qualche semplificazione di troppo (perché le Autorità tolgono una data, ad esempio?), la lettura è leggera e piacevole e il tema sempre interessante. Il romanzo, dell’autore spagnolo David Lozano, è stato finalista al Premio Edebé de Literatura Infantil y Juvenil. Luigi Ballerini-Paola Formica, Il segreto dei papà, San Paolo. Da 3 anni Conosciamo Ballerini come autore di romanzi dall’ampio sviluppo narrativo, per ragazzi più grandi, ma occorre dire che anche nel brevissimo testo dell’albo illustrato, e nel suo rivolgersi a bimbi piccoli, mantiene smagliante la sua cifra originale e poetica. Per-

fetto in occasione della festa del papà, ma preziosa lettura in ogni periodo dell’anno, questo albo, ben illustrato da Paola Formica, ci presenta il segreto dei papà: «dentro ogni uomo si nasconde un bambino, e dentro ogni padre si nasconde un figlio». Evoca il filo che unisce, nel loro dipanarsi, le generazioni, la storia famigliare del nonno che è anche un papà e che era un bambino, proprio come il papà... Ma questo libro non ha, per così dire, una dimensione solo diacronica, di svolgimento sull’asse temporale, ma ha anche una dimensione sincronica, altrettanto interessante,

che ci offre un ventaglio, qui e ora, di possibili papà, perché, si sa, «i papà non sono tutti uguali». E se ci sono differenze buffe e solo esteriori (alcuni alti, altri bassi, alcuni con barba e baffi, altri con solo baffi «o anche niente»), ci sono anche differenze di comportamento (papà che crollano addormentati mentre leggono la storia della buonanotte, papà che stanno alzati fino a tardi; papà sportivi o papà sedentari, ecc.) o più interiori (papà allegri o «con la faccia triste»). E soprattutto «possono anche abitare in un’altra casa, i papà. Possono anche essere malati o non esserci più», includendo e offrendo un appiglio di rispecchiamento – ad esempio nel caso di una lettura proposta in una classe di scuola dell’infanzia – ad ogni bambino e bambina. Tra l’altro questo è il tipo di libro che permette di ascoltare i bambini, suscita riflessioni, condivisioni, racconti di esperienze e emozioni.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 marzo 2019 • N. 11

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Società e Territorio Rubriche

L’altropologo di Cesare Poppi La risata di Galileo Tutto ciò che è solido svanisce nell’aria. Era il titolo di uno dei piccoli classici che hanno chiuso il XX Secolo. Il saggio di Marshall Berman dell’82, oggi ormai dimenticato dall’incalzare furibondo dell’editoria (tanti, troppi libri al fuoco più di quanti lettori in grado di comprendere partoriscano le squole [sic]) sull’esperienza confusa e confondente della modernità, era ispirato ad un passaggio della prima sezione del Manifesto degli altri due pure dimenticati filosofi germanici. Dissolte nell’aria

Galileo Galilei. (Wikipedia)

le certezze della promesse du bonheur della modernità trionfante, minate dai filosofi «le magnifiche sorti e progressive», poiché la reazione al modernismo cominciò quando questo era ancora infante non appena si aprirono le cateratte dell’irrazionalismo, pace le riletture contemporanee revisioniste di un Kierkegaard o di un Nietzsche, quanto rimaneva di quella nebbia si sarebbe poi liquefatta nelle analisi di Zygmunt Bauman. Questi ha visto nella «società liquida» la cifra di un mondo che ha perso i punti di riferimento e galleggia senza più nemmeno avere conoscenza della tavola delle maree – per così dire – al fine di proteggersi dagli tsunami della Storia, a quanto pare e paradossalmente più imprevedibili perché ingovernabili oggi «che sappiamo» di quanto fossero in passato. Perdonata e digerita, spero, la premessa filosofica, i valorosi lettori dell’Altropologo vorranno rileggere quanto Galileo scriveva a Keplero nell’Agosto del 1610: «Mio caro Keplero, vorrei che potessimo ridere alla grande stupidità del gregge comune. Cosa hai da dire sui filosofi sommi di questa accademia

che sono pieni della cocciutaggine di una biscia e si rifiutano di guardare ai pianeti, alla luna o al telescopio, anche se io, liberamente e deliberatamente, li ho invitati mille volte a farlo? In verità, proprio come la biscia si chiude le orecchie, così questi filosofi chiudono i loro occhi alla luce della verità». Sorvoliamo pure, per il rispetto dovuto al grande pisano, sul fatto che serpenti e bisce non si chiudono le orecchie per malafede (come certi accademici e non) ma perché non ne sono muniti e veniamo al dunque. Galileo e Keplero vivevano in un’epoca di certezze. O meglio: vivevano in un’epoca nella quale ancora si concordava sul fatto che vi fosse una ed una sola Verità. Controversa, disputata, combattuta al punto da poter essere imposta con la forza – ma comunque l’episteme (così direbbero i filosofi) comune era che «ci fosse» un qualcosa che si potesse avvicinare ad una Verità unica e incontrovertibile. A ben pensarci, l’aspetto più inquietante dell’Inquisizione ed altre simili istituzioni autoritarie e totalizzanti, non fu tanto l’uso della forza e della violenza laddove la persuasione «razionale» fallisse nel

convincere il reo a sottoscrivere la Verità (si è ucciso e si continua a farlo per molto meno), ma il fatto che non si ammettesse la possibilità di opinioni alternative su questioni controverse qualora quelle venissero a confliggere con la Verità rivelata presunta. E questo nonostante fosse peraltro scritto nel Libro di riferimento «…non crederebbero nemmeno se qualcuno resuscitasse dai morti» (Luca: 16,31). Il punto è che ai tempi dei Nostri la fluidità che Berman attribuisce alla modernità in quanto sua caratteristica principale – il fatto ovvero di essere il mondo della vita in costante mutamento che richiede ad ogni passo uno sforzo critico per discernere il vero dal falso, il persistente dal mutevole, il fattuale dal fake e via distinguendo – si riconfigura, ancor più nella fase attuale e al contrario, in un relativismo dogmatico e viscoso che (s)travolge tutto e tutti. Per intenderci: riderebbero ancora Galileo e Keplero se potessero essere oggi qui a discutere con coloro che sostengono che la terra sia piatta? Il «Guardian», autorevole e vetusto quotidiano di Manchester, informava a metà gennaio

che (naturalmente negli States, la terra dei liberi) la società internazionale dei terrapiattisti sta organizzando una crociera che partirà nel 2020 per dimostrare che la terra è piatta – Polo Nord al centro ed Antartide a fare da cornice. Come ci arriveranno visto che il sistema GPS (Geo Posizionamento Satellitare) di navigazione funziona con almeno tre satelliti proprio per ovviare al fatto che la terra è ahimè rotonda anche se un po’ schiacciatina ai poli non è dato sapere. Laddove pare che il brivido, il frisson che sta inducendo tanti a prenotarsi sia l’aspettativa di vedere cosa ci sia «sotto» quando si arriverà sull’orlo estremo e speriamo che nessuno spinga… E così via: no vax, creazionismo, chi «crede» ai marziani e chi crede che il riscaldamento climatico sia un complotto dei Savi di Sion… Nell’età del populismo dilagante la mia opinione vale quanto la tua secondo un relativismo incapace di relativizzare se stesso che farebbe perdere la testa al più navigato degli Inquisitori. E farebbe ridere anche i Nostri. Dico: ridere. Ma di disperazione.

grado di affrontare la passione senza morirne. Ma soffrendo sì, perché non a caso il termine «passione» deriva dal greco pathos, dolore. Come, avrai compreso, non credo che tu, in questo momento, sia in grado di scegliere freddamente se farti carico o meno del tuo amato. Se ritieni che la vostra convivenza ti renda felice, o per lo meno appagata, perché non concedertelo? Scusami la durezza se scorgo, dietro i tuoi dubbi, il timore di cedere alla tentazione di pagare un gigolò. Chi ti mette in guardia probabilmente teme che tu venga ingenuamente sfruttata. Ma non credo sia il vostro caso perché l’elenco delle affinità elettive è più che convincente. La vostra convivenza è piena di risorse. Nessuno trova nulla di strano se un uomo abbiente ospita e aiuta economicamente la donna amata, perché dovrebbe essere invece riprovevole nel vostro caso? Se segui il tuo cuore

non danneggi nessuno. L’unica avvertenza è di non aspettarti che la vostra relazione duri per sempre. Di solito le passioni sono un fuoco che arde tanto ma si spegne presto. D’altra parte di questi tempi, come si suol dire, «l’amore è eterno finché dura». Nel calendario delle stagioni della vita l’autunno può portare la luce e il calore che sono mancati in precedenza. Accoglili senza lasciarti turbare da dubbi e perplessità. La vostra passione è cominciata nella Notte di Capodanno quando si formulano auguri di felicità senza sapere che forma prenderanno, come si realizzeranno: lascia che accada.

ridicole, per non dire offensive, da parte di paperoni, che si sentono autorizzati a sbandierare il loro privilegio. Mentre in Svizzera questa categoria si muove in direzione opposta. Soltanto i più ingenui «nouveaux riches» sfrecciano rumorosamente, nelle nostre città, con la Ferrari. I veri multimilionari e miliardari di lunga data hanno scelto, o subìto, una sorta di adeguamento ambientale. Volano basso, conducendo un’esistenza che, esteriormente, li assimila sempre più allo stile di vita corrente. Certo, godono della sicurezza e del prestigio che derivano dal possesso di grandi fortune, ma cercano quasi di mimetizzarsi, in una società all’insegna della cosiddetta convivenza civile. Evitando sfoggi e sfarzi che da noi non hanno corso. Come detto, la questione è d’ordine culturale, ma nell’addio al celibato del

miliardario indiano, entra in gioco un altro fattore. Si tratta di quel senso della festa, prerogativa di un po’ tutte le società meridionali. È qualcosa che supera le barriere sociali e avvicina siciliani, andalusi, greci, nordafricani e, non da ultimo, molti nostri immigrati, provenienti dal Kosovo, dall’Albania, dalla Turchia, eccetera. Quando c’è in vista un matrimonio, o un battesimo, o nozze d’argento o d’oro che siano, non si bada a spendere. Per l’abito da sposa, si è disposti a pagare, in rate mensili, svariate migliaia di franchi, e per il pranzo non si lesina sul menu né, figurarsi, sul numero degli invitati. Si affittano saloni in ville d’epoca, carrozze, limousine, camerieri in costume, complessi musicali. La cornice della festa conta, soprattutto il senso della festa. Che è un’arte e, in questi casi, un riscatto sociale.

La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi Perché non seguire la passione? Cara Silvia, non so che fare, aiutami tu. Italiana, divorziata dopo un lungo matrimonio tranquillo, figli ormai grandi e una esistenza agiata nella Svizzera tedesca, mi sono trasferita in Ticino e qui, una notte di Capodanno, ho incontrato non l’amore ma la passione. Italiano, sulla sessantina come me, anche se un po’ più giovane, divorziato, ballerino, allegro, simpatico, due figli che vivono con la madre. La nostra storia è cominciata con grande impeto. Lui è un sempliciotto, criticone come me, ma condividiamo gli stessi interessi: amore, fedeltà, famiglia, preghiera, natura, escursioni. Dopo due mesi di conoscenza, quando stava per lasciare l’appartamento di vacanza perché troppo caro, gli ho proposto di venire a vivere con me mentre cercava, con scarsa convinzione, un impiego. Mi aspettavo di trascorrere l’estate insieme nella mia casa in Toscana, invece ha preferito andare in Italia meridio-

nale dove vivono la madre e la sorella. Nel frattempo ho sofferto molto di solitudine ma capisco che non essendo sposati non poteva presentarmi ai suoi parenti. Mentre si trovava a casa della madre si è fratturato un polso e solo adesso, dopo lunghe terapie, torna in Ticino. Lui vive degli scarsi risparmi accumulati e qui subentra la comodità di vivere con qualcuno senza spendere. Io gli voglio tanto bene anche se litighiamo spesso per un nonnulla. Ma se torna da me non saprò mai se viene per amore o per comodità. Aiutami tu a chiarire la situazione. / Lettera non firmata Cara lettrice, la risposta è contenuta nella tua seconda, breve missiva dove mi chiedi di cambiare la parola «amore» con «passione». Ora, mentre i sentimenti sono più o meno razionali e governabili, la passione per definizione è irrazionale e ingovernabile. Non si dice forse «es-

sere travolti dal vento della passione?». Tu stessa parli di «grande impeto» a proposito del vostro primo incontro. Per certi versi sei estremamente lucida, sei consapevole che il tuo simpatico ballerino non ha una gran voglia di lavorare, che vuol sentirsi libero, anche se, al tempo stesso, non gli dispiace essere accolto e protetto. Lui sa bene che cosa desidera e lo manifesta con garbo e discrezione. Il problema è piuttosto tuo che, com’è caratteristico di noi donne, sogni il grande amore. Di questo tema abbiamo parlato a lungo al Museo LAC di Lugano nel corso di una serata, nell’ambito delle manifestazioni di Piazzaparola, dedicata a Madame Bovary, l’eroina romantica per eccellenza. Anche Emma Bovary s’innamora, come te, di un uomo prestante e di poche virtù, con la differenza che, quando viene cinicamente abbandonata, si uccide. Per fortuna quel mondo è ormai lontano e tu sei ora in

Informazioni

Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch

Mode e modi di Luciana Caglio L’ospite di lusso: ambìto e imbarazzante In una stagione già favorevole per il turismo nelle più rinomate stazioni invernali svizzere, l’addio al celibato di un miliardario indiano, celebrato lo scorso febbraio a St. Moritz, ha rappresentato l’evento top. A un settore, vanto nazionale, offriva l’occasione per confermare la propria efficienza gestendo una singolare emergenza. Cioè la tre giorni di 850 ospiti di riguardo, da sistemare adeguatamente in alberghi e residenze, ma non soltanto. Con loro oltre ai bagagli sono arrivate le attrezzature per un provvisorio luna park, con tanto di ruota panoramica e banco di lancio per fuochi d’artificio, che hanno occupato terreni e spazi pubblici accessibili, però, a tutti. Popolazione locale e comuni turisti erano, infatti, invitati a partecipare, sia pure marginalmente, a festeggiamenti fiabeschi, che erano sfizi privati, qual-

cosa senza precedenti paragonabili, alle nostre latitudini. Uno sfarzo da oltre 100 milioni di franchi, cifra assurda, comunque dagli effetti concreti per St. Moritz, l’Engadina e infine la Svizzera. Sia in termini pubblicitari: la festa ha fatto ampiamente notizia nei media mondiali. Sia per le ricadute sul piano economico sia sul mercato del lavoro. Richiesti, in particolare, cuochi da addestrare alle specialità della cucina indiana, e poi, parrucchieri, estetiste, personal trainer, venditrici di boutique, e via enumerando attività, destinate a soddisfare una clientela, notoriamente esigente, magari viziata. Ed è a questo punto che l’auspicata presenza di ospiti di lusso disposti a spendere senza badare, una manna per albergatori e negozianti, si è rivelata imbarazzante. Tanto da provocare, in un crescendo, reazioni di disappunto

e di critica rivolte innanzitutto alle autorità grigionesi, troppo arrendevoli ai capricci e all’arroganza di ospiti di lusso diventati padroni di una St. Moritz a loro disposizione. Dai malumori locali la protesta si è allargata sul piano nazionale, assumendo connotati di tipo morale e politico, del resto scontati, nei confronti di cittadini di un paese dove permangono disparità estreme, per noi inaccettabili. Anzi, incomprensibili. Questo spropositato spettacolo rifletteva a ben guardare uno spirito di casta, che resiste all’urto della modernità tecnologica che, proprio in India, va forte. In definitiva, è una questione di cultura, nel senso più ampio del termine, che ispira comportamenti e mentalità estranei alla nostra comprensione e ai nostri gusti: forme di ostentazione e di spreco che ci sembrano addirittura


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Ambiente e Benessere La Birmania di ieri e di oggi Come e quanto è cambiato negli ultimi vent’anni il Myanmar, all’epoca «Stato eremita»?

Migliaia di trifogli a New York Saint Patrick’s Day torna sabato prossimo ad animare le vie della metropoli americana, sede originaria della prima festa dedicata al patrono irlandese

I parassiti dalle Americhe Sconvolsero e modificarono il modo di curare e coltivare la vite in Europa dal 1845 in poi pagina 24

Le utilitarie da Salone Al Motor show di Ginevra non solo supercar, ma anche automobili alla portata di tutti

pagine 22-23

pagina 19

pagina 27

Più serenità per i nostri selvatici

Sostenibilità In consultazione il progetto

Elia Stampanoni Chi è stato di recente nei boschi della Svizzera tedesca avrà forse già avuto modo d’incontrare dei cartelli d’avviso «Wildruhezone», che stanno a indicare le zone di tranquillità. Sono già state allestite in una quindicina di cantoni che hanno fatto capo a questa possibilità istituendo in forme diverse una o più zone di quiete, con carattere vincolante o in forma di raccomandazione. Aree che presto dovrebbero apparire anche in Ticino, dato che il Dipartimento del territorio ha posto in consultazione (fino al 30 aprile 2019) il progetto cantonale. In esame sono 43 zone in cui si potrebbe in seguito ritrovare alcuni dei vincoli attualmente già in vigore nelle due bandite federali ticinesi (Campo Tencia e Greina) dove, secondo l’articolo 5 dell’ordinanza sulle bandite (OBAF), vigono restrizioni per alcune attività legate al tempo libero. L’intento è di favorire la fauna, soprattutto mammiferi e uccelli, grazie alle regolamentazioni formulate dal Gruppo di lavoro incaricato dal Consiglio di Stato. Nelle 45 zone di tranquillità designate (le due bandite federali esistenti più i 43 «nuovi» settori), le misure di protezione vanno dall’obbligo di rimanere sui sentieri e di tenere i cani al guinzaglio, al divieto d’accesso per un periodo variabile tra i due e i cinque mesi. Altre limitazioni comportano la proibizione di sorvolo, il divieto di arrampicata o di nuove vie di scalate oppure il veto d’accesso con i cani. In ognuna delle nuove zone prescelte, che variano molto per dimensione e coprono complessivamente circa 6600 ettari di territorio, sono state in generale stabilite al massimo due norme (ma di regola una sola); rimangono in ogni caso ammessi interventi quali la gestione agricola o forestale, la manutenzione di biotopi oppure azioni di salvataggio. L’Ufficio della caccia e della pesca è inoltre competente per rilasciare eventuali autorizzazioni eccezionali in casi di comprovato interesse pubblico, fissandone termini e condizioni. Solamente in cinque zone di tranquillità si prevedono limitazioni permanenti, come al Ponte faunistico di Sigirino dove si propone un divieto annuale d’accesso ai cani, mentre per

le altre si prevedono unicamente delle restrizioni in determinate fasi dell’anno, in corrispondenza per esempio dei mesi invernali, dei periodi di bramito del cervo, di nidificazione o di riproduzione delle varie specie, alle quali si vuole garantire maggiore serenità in momenti delicati della loro vita. Le misure ideate nei vari spazi sono mirate principalmente alla selvaggina, con 34 zone, mentre otto sono dedicate all’avifauna rupicola, che s’intrattiene sui roccioni durante il riposo e il corteggiamento. A Cresciano, infine, una zona è consacrata agli uccelli di greto, come il corriere piccolo e il piro piro piccolo, che depongono le uova negli alvei dei fiumi. A trarne i maggiori benefici, secondo logica, dovrebbero quindi essere gli animali. Ma da dove arriva questa necessità di una maggiore tutela della quiete in ambito selvatico? Risponde Andrea Stampanoni, collaboratore tecnico presso l’Ufficio caccia e pesca del Cantone e segretario del Gruppo di lavoro: «Negli ultimi decenni è aumentato il numero di persone che praticano attività all’aria aperto e si sono moltiplicate e diversificate le possibilità di farlo. Questo da un certo punto di vista è molto positivo, ma lo è purtroppo meno per i mammiferi e gli uccelli selvatici che, se infastiditi all’interno dei loro habitat, a dipendenza dell’intensità del disturbo e del periodo dell’anno, possono subire conseguenze negative con possibili ripercussioni anche sull’ambiente in cui vivono». Diversi i tipi di conseguenze e di ripercussioni che si vogliono evitare: «Faccio alcuni esempi: il disturbo di ungulati nelle zone di svernamento, causato per esempio dalla pratica dello sci fuori pista, provoca la fuga degli animali e quindi un consumo di energia maggiore in un periodo dell’anno (quello invernale) in cui la disponibilità di cibo è ridotta. Questo può comportare nei peggiori dei casi la morte per sfinimento. Nello stesso tempo a soffrirne è anche l’ambiente naturale: gli animali sono, infatti, obbligati a compensare il consumo d’energia nutrendosi con i germogli dei giovani alberelli, mettendo a rischio il ringiovanimento del bosco con conseguenze negative a medio lungo termine per

Gras Ober

cantonale delle «Zone di tranquillità» riservate a mammiferi e uccelli

quello di protezione. Un altro semplice esempio è il disturbo che gli arrampicatori possono arrecare a uccelli rupicoli durante il periodo di cova, provocando in casi estremi l’abbandono del nido». Secondo la legge, l’istituzione di zone di tranquillità deve portare vantaggi, oltre che alla selvaggina, anche ad altre specie prioritarie dal punto di vista protezionistico e per le quali il disturbo antropico (dell’uomo) rappresenta un fattore di minaccia notevole. Le specie prese in considerazione sono quindi state una ventina, tra cui per esempio anche coturnice, gufo reale, falco pellegrino, picchio muraiolo, passero solitario, rondone maggiore oppure, come visto, piro piro piccolo o corriere piccolo. Importante dunque, la scelta delle zone di tranquillità così individuate, come spiega Andrea Stampanoni: «Per arrivare al documento in

consultazione, il Gruppo di lavoro si è avvalso del supporto dello Studio di consulenze ambientali e perizie faunistiche Maddalena e Associati di Gordevio, con il quale sono stati considerati diversi dati per potere disporre per l’intero Ticino di una visione completa delle interazioni tra le specie considerate e i disturbi antropici». In concreto, la selezione è stata fatta «grazie soprattutto ai dati scaturiti dalle osservazioni sul terreno dei guardiacaccia, quali l’attività e la presenza delle varie specie, come fagiano di monte, pernice bianca, francolino di monte, lepre bianca o lepre comune. Sono inoltre state considerate le zone di svernamento ritenute importanti per cervo, camoscio e capriolo, così come le zone rupicole (rocce ripide e scoscese) e golenali d’interesse ornitologico. Dati che sono stati affiancati alla collocazione delle infrastrutture

turistiche, capanne, rifugi, alpeggi, sentieri o vie d’arrampicata, ma anche ai danni da ungulati al bosco e alle superfici agricole». Un’analisi approfondita che ha pure considerato le zone di protezione, le riserve forestali esistenti o in progettazione e che nel corso di quasi tre anni ha portato il Gruppo di lavoro a elaborare una mappa delle zone di tranquillità più importanti per le specie considerate. Dopo il periodo di consultazione, le zone di tranquillità potrebbero essere allestite già nel corso del 2019. Informazioni

La documentazione posta in consultazione con i dettagli per le singole zone è visionabile sul sito del Cantone: www.ti.ch/caccia, oppure su: www.zone-di-tranquillita.ch


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Arakan arcano

Ambiente e Benessere

Viaggiatori d’occidente Oggi segnata sulle carte con il nome Rakhine, questa terra confinante con il Bangladesh

resta lo Stato meno sviluppato del Myanmar

Massimo Morello, testo e foto «Vai in Arakan, è un luogo arcano» mi aveva consigliato un vecchio amico alla vigilia del mio primo viaggio in Birmania. L’idea di un luogo arcano mi affascinava. Risuonava anche nel nome: Arakan. Sulle mappe appariva come una terra incognita, confinante a ovest con il Bangladesh, intersecata da fiumi che sfociavano nel golfo del Bengala formando un ampio delta. Seguendo quei richiami il mio primo viaggio in Birmania mi aveva portato a Mrauk-U, antica capitale di quel regno d’Arakan che si narra sia stato visitato da Gautama Buddha, il Buddha storico, circa 2500 anni or sono; e prima ancora, nel corso di altri cicli cosmici, dai precedenti Buddha.

«20 anni fa la Birmania era un paese estraneo alla globalizzazione che stava trasformando i paesi del sud-est asiatico come tessere di un domino» Le immagini di quei Buddha mi apparvero raccolte nelle centinaia di stupa, templi, pagode che compongono il paesaggio mistico di Mrauk-U, sovrapposto a quello naturale in forme spesso indistinguibili. Albe e tramonti erano colorati da quella patina di luce e vapore che i birmani chiamano than hlat, foschia dorata, trafitta dalle sagome ogivali degli stupa; le palme coprivano le alture circostanti e contornavano i fiumi, i fiumiciattoli, gli stagni, i canali dell’ennesima Venezia d’Oriente. Nel XVI secolo Mrauk-U era un centro commerciale in contatto con l’Europa, integrato nella rete di traffici commerciali che passavano per la Baia del Bengala. Ma ben poco resta di quell’età dell’oro, solo un villaggio, circondato da rovine di templi e palazzi disseminate in un raggio di una decina di chilometri. Trascorrevo le giornate a vagabondare, chiacchierando coi monaci, fermandomi a condividere il tempo, il tè e un dolce alla banana in qualche banchetto del mercato o in un

Il tramonto su Mrauk-U. (Go-Myanmar)

vecchio albergo immutato dai tempi di Kipling. Quella stessa atmosfera di sospeso incanto l’ho ritrovata ora, vent’anni dopo. Sono tornato sui miei passi seguendo il cammino delle donne che fanno la spola alla sorgente, con grandi otri sul capo; ho incrociato carretti, tuttora il mezzo di trasporto locale, fermi all’ombra di grandi alberi della pioggia, dove i passeggeri scendono per comperare acqua e frutta e preparare il betel. Con rinnovata ma in fondo identica emozione ho visitato Shittaung, il più complesso e meglio conservato dei monumenti di Mrauk-U, perdendomi nel suo piano labirintico forse destinato a misteriosi riti iniziatici. E ancora una volta la pagoda di Ko-Taung m’è apparsa come una specie di modellino di Borobudur, a Giava. Ho ritrovato anche la piccola pagoda sovrastata da una statua del Buddha dove un vecchio seduto all’interno meditava sgranando un rosario e con un gesto mi aveva invitato a condividere il suo spazio. È scomparso solo lui. Vent’anni fa la Birmania era un paese estraneo alla globalizzazione che stava trasformando i paesi del sud-est asiatico come tessere di un domino. Era, come oggi lo è la Corea del Nord, uno «Stato eremita», un paria della società internazionale, dominato da una feroce dittatura. Da allora anche in Myanmar – come si dice ora – la storia ha subito un’accelerazione. Pur tra problemi, incertezze, ambiguità, la Birmania ha mosso i primi passi verso la democrazia. La società, la cultura, l’economia si stanno ridefinendo secondo il modello della nuova globalizzazione in chiave asiatica. Il mio ritorno in Arakan – ma sulle carte ora si chiama Rakhine – voleva essere uno studio di questo cambiamento, ma si è rivelato invece un ritorno al passato. Forse perché il Rakhine resta lo Stato meno sviluppato del Myanmar (con un tasso di povertà del 78%); forse perché è al centro dell’attenzione mediatica per le vicende dei Rohingya, la minoranza musulmana intrappolata nei campi rifugiati in un perenne ciclo di persecuzioni, fuga e disperazione. Il regno arakanese fu conquistato dai birmani oltre duecento anni or sono, divenne poi colonia inglese ma

pagò i clamorosi errori della partition, la spartizione dell’Impero britannico in India del 1947: molti Rohingya speravano allora di divenire cittadini dell’East Pakistan (oggi Bangladesh) a maggioranza musulmana; si ritrovarono invece birmani. «Non c’è mai una sola verità fusa nel bronzo. Ogni società cerca il suo cammino in funzione della propria identità» ha scritto Jacques P. Leider, responsabile dell’Ecole Française d’Extrême-Orient per il Myanmar, studioso dell’antica storia dell’Arakan. In una situazione complessa Leider è una delle poche voci fuori dal coro, probabilmente perché mette in guardia contro ogni lettura moralistica del problema, richiamandosi invece a un’analisi storica. In Arakan, almeno per un profano, tutto appare misterioso come il Byala, antico animale mitico simbolo di questa terra, formato dall’unione di nove animali, veri e fantastici; o ancora il weikza, monaco e mago dai poteri sovrannaturali. Oggi Mrauk-U sogna di diventare Patrimonio culturale dell’umanità Unesco, entrando così nella contemporaneità. Perderebbe un po’ della sua magia, forse, ma in compenso ne guadagnerebbe molto la vita della popolazione grazie ai guadagni del turismo. Nell’attesa che la storia faccia il suo corso, oggi come una volta ho lasciato Mrauk-U in battello. Si naviga lentamente lungo il corso del fiume Aungdat Chaung, tra rive basse coperte da risaie e macchie di palme, sino alla baia di Hanka. Dopo tre ore, il viaggio si conclude a Sittwe, capitale e porto d’ingresso del Rakhine. Il fronte del porto è una quinta di vecchi magazzini, negozi di mercanti indiani, un grande mercato. Il molo centrale è coperto dai banchi del pesce. Ormeggiati alla fonda, vedo i cargo impiegati nel Golfo del Bengala e i pescherecci cinesi con le stive piene di meduse e oloturie. Sittwe potrebbe essere la location di un film ispirato ai romanzi di Conrad, in un’aria densa di calore, umidità, odori. Poco più a nord, in un lungomare rinfrescato dal vento e delimitato da banchetti che grigliano il pesce, una lunghissima spiaggia. Scriveva Conrad: «Inseguire il sogno e poi ancora il sogno».

Mrauk-U è delimitata da fiumi e intersecata da canali.

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Ambiente e Benessere

La Grande Mela si tinge di verde

Reportage Sabato 16 marzo si torna a festeggiare il Saint Patrick’s Day, patrono d’Irlanda, a New York,

tra trifogli e storie di immigrazione Simona Dalla Valle, testo e foto Il giorno di San Patrizio (in irlandese: Lá Fhéile Pádraig) è una festa culturale e religiosa che si tiene il 17 marzo di ogni anno (nel 2019 si festeggerà però sabato 16 per rispettare il riposo domenicale) in occasione dell’anniversario della morte del principale patrono d’Irlanda.

La prima parata del giorno di San Patrizio non si è tenuta in Irlanda, ma negli Stati Uniti nel 1762 Resa ufficiale all’inizio del XVII secolo, la celebrazione è osservata dalla Chiesa cattolica, dalla Comunione anglicana (e in particolare dalla Chiesa d’Irlanda), dalla Chiesa ortodossa orientale e dalla Chiesa luterana. Durante la giornata si commemorano il santo e l’arrivo del cristianesimo in Irlanda, e più in generale si festeggiano il patrimonio e la cultura degli irlandesi; le celebrazioni consistono in genere in feste, sfilate pubbliche e céilidhs (raduni tradizionali). Il consumo di alcol è sempre stato parte integrante del giorno di San Patrizio, dal momento che, storicamente, l’occasione è stata celebrata con una sospensione di un giorno delle restrizioni della Quaresima sul consumo di alcol:

L’inizio della parata sulla Fifth Avenue (sul sito www.azione.ch si trova una galleria fotografica più ampia).

via libera, dunque, a Guinness e whisky irlandese, talvolta serviti in un’insolita colorazione verde. È interessante notare che San Patrizio non era in realtà irlandese, si ritiene infatti che l’uomo sia nato in Scozia o in

Galles con il nome di Maewyn Succat, e che da ragazzo sia stato tenuto prigioniero per sei anni in Irlanda, dove fu impiegato come pastore. In quegli anni, l’uomo si avvicina a Dio e, una volta fuggito e tornato in Gran Bretagna, de-

cide di diventare prete. Di nuovo in Irlanda con il nome di Patricius, o Patrick (da pater, termine latino per «figura paterna»), si impegna per il resto della sua esistenza a convertire i pagani irlandesi al cristianesimo. Il celebre shamrock

(cioè il trifoglio), uno dei simboli più noti della nazione, fu utilizzato dal missionario allo scopo di spiegare il concetto della Santa Trinità ai celti. Sebbene il giorno di San Patrizio si sia evoluto principalmente in una celeAnnuncio pubblicitario

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Ambiente e Benessere brazione culturale del patrimonio irlandese, alcune tradizioni come il verde e lo shamrock hanno prevalso. È curioso come il verde sia il colore tipicamente associato all’Irlanda quando in realtà, prima del 19° secolo, il colore usato durante le celebrazioni era il blu – che si può ancora vedere su alcune antiche bandiere irlandesi. L’uso del verde nel giorno di San Patrizio iniziò soltanto durante la rivolta irlandese del 1798 quando il colore, insieme al trifoglio, divenne un simbolo del nazionalismo contrapposto al rosso delle divise britanniche. Del periodo resta anche una canzone, la ballata The Wearing of the Green. Ma facciamo un salto indietro nel tempo, fino al 1892, e nello spazio, fino a Ellis Island, un tempo stazione di smistamento degli immigrati alle porte di New York: la prima persona a passare i controlli di Ellis Island fu Annie Moore, una ragazzina irlandese di quindici anni. Da quel momento in poi negli Stati Uniti sono approdati molti altri irlandesi, che nella metropoli formano oggi una comunità di quasi 400mila persone. Il legame fra New York e l’isola smeraldo è da allora molto forte e le celebrazioni del patrono irlandese in città non hanno nulla da invidiare a quelle che si svolgono Oltreoceano. Curiosamente, infatti, la prima parata del giorno di San Patrizio non si è tenuta in Irlanda, ma negli Stati Uniti: nel 1762, i soldati irlandesi che prestavano servizio nell’esercito inglese celebrarono la festa marciando per le strade di New York City. Nel 1848 la sfilata era ormai diventata un evento ufficiale della città e oggi quasi tre milioni di persone si affacciano sulle strade di New York per assistere alla processione lunga cinque ore. La parata vede sfilare migliaia di persone lungo la 5th Avenue tra la 44th Street e la 79th Street, tra irlandesi in festa, newyorkesi, turisti e curiosi. La sfilata si svolge ogni anno dalle 11 del

Uno dei tanti pub irlandesi di New York.

I simboli della festa sono lo «Shamrock» (trifoglio) e tanto verde.

mattino, con un passaggio simbolico di fronte alla St Patrick’s Cathedral all’altezza della 50th Street, e le strade sono chiuse al traffico per l’occasione. Ogni anno vengono scelti un Grand Marshal (gran cerimoniere) e i suoi Aides (aiutanti), personaggi di spicco che hanno fatto cose importanti per la società;

nel 2019 il ruolo di Grand Marshal sarà ricoperto dall’avvocato Brian J. O’Dwyer, che negli anni ha ottenuto diversi riconoscimenti per il suo lavoro a favore degli immigrati. Alla parata prendono parte bande musicali con tipiche caratteristiche irlandesi, zampognari in kilt, trampolieri e artisti folkloristici. A questi si uniscono corpi militari in uniforme, e a completare il panorama vi sono giocolieri, acrobati, artisti e leprechaun (il tipico gnomo della mitologia irlandese). È possibile osservare la parata da bordo strada, dietro le transenne che delimitano il passaggio del gruppo. Se in Irlanda per l’occasione si mangiano tipici piatti irlandesi come la steak and Guinness pie o il soda bread, negli Stati Uniti gli americani di origine irlandese si concedono di solito corned beef e cabbage. Nei numerosi pub o locali a matrice irlandese sparsi per la città è possibile festeggiare in compagnia di una buona pinta assistendo a un concerto di musica tradizionale a base di violini e cornamuse. Ma è anche sempre un’occasione

La Cattedrale di St Patrick’s sulla Fifth Avenue, prima della parata.

importante per arricchirsi culturalmente. Numerose sono infatti le occasioni per scoprire in città maggiori nozioni, ad esempio sull’immigrazione irlandese: il tour Irish Outsiders organizzato dal Tenement Museum nel Lower East Side permette di rivivere l’esperienza di una tipica famiglia di immigrati irlandesi del XIX secolo. In alternativa, al Merchant’s House Museum dell’East Village, situato all’interno di una casa del XIX secolo, si può scoprire di più sugli immigranti irlandesi che una volta vi lavoravano. In-

fine, l’Irish Hunger Memorial a Battery Park City è un luogo di commemorazione delle vittime della devastante carestia delle patate degli anni 1840, conosciuta come la Grande Fame. Lá fhéile Pádraig sona dhuit! («Felice giorno di San Patrizio!»), dunque, ma sempre con uno sguardo rivolto al passato. Informazioni e programma

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Ambiente e Benessere

I grandi flagelli

Scelto per voi

Il vino nella storia Dall’oidio al black rot, passando per la Phylloxera vastatrix

Davide Comoli Molti studiosi di ampelografia considerano il periodo anteriore al 1850 come un’epoca d’oro per la coltura della vite. Fu l’arrivo dei parassiti provenienti dalle Americhe a provocare un grosso problema e sconvolgere così il modo di curare e coltivare la vite in Europa: nel 1845 l’oidio, nel 1863 la fillossera, nel 1878 la peronospora e nel 1883 il black rot. Tutto cominciò con lo scambio di materiale vegetale, all’inizio in una sola direzione, quando nel 1519 l’America chiese alla Spagna l’invio sistematico di barbatelle di Vitis vinifera. Il Nuovo Mondo aveva fatto conoscere all’Europa tanti utilissimi vegetali, ma di fronte alle immense distese di terre ancora vergini, il primo pensiero andò alla vite. Molto importante fu la presenza degli ordini religiosi cattolici spagnoli, per i quali il vino, non solo rappresentava uno strumento liturgico, ma anche una consuetudine alimentare. Tra la fine del XVIII secolo e l’inizio di quello successivo, i botanici europei iniziarono l’importazione di viti americane, soprattutto per impiantarle nei giardini botanici, ove gli

ampelografi sarebbero stati in grado di studiarli. I Jardin du Luxembourg a Parigi, nel 1817, potevano vantare ben 23 tipologie di viti americane, mentre alcuni ibridi, come il Clinton e l’Isabella, stavano entrando in produzione nel nostro continente. Proprio nei giardini botanici e nelle serre dove si coltivava la vite, apparvero sulle uve da tavola le prime avvisaglie di un malessere che non poteva sfuggire agli occhi degli esperti giardinieri che avevano cura di esse. Nelle serre di Margate in Inghilterra, nel 1845 il signor Tucker, giardiniere di un ricco nobile, osservò sulle viti delle strane macchie che lo insospettirono al punto di richiedere l’aiuto di un naturalista. Questo, dopo un attento esame, scoprì che si trattava di un fungo, l’oidio, al quale, trattandosi di una specie nuova, gli diede il nome di Oidium tuckeri per ricordare l’acuto spirito d’osservazione del giardiniere che aveva consentito un veloce isolamento della malattia. Fu ancora un altro giardiniere inglese, certo Kyle, che dopo varie esperienze, scoprì nello zolfo un ottimo rimedio contro l’oidio. Ma un’altra terribile infezione micotica stava arrivando: la Peronospora,

così chiamata per la forma lanceolata delle sue spore. La famiglia delle Peronosporacee conta ben 75 specie, ma la più terribile si rivelò subito quella che attaccava la vite e che fu chiamata Plasmopara viticola. Il suo micelio si sviluppa nelle parti verdi della vite e produce delle protuberanze dette austori con cui si nutre a spese della pianta. I sali di rame non risolsero in modo completo il problema, che tuttavia sembrò perdere importanza di fronte a un nuovo e ben più grave flagello, la Fillossera. Nel 1863, ancora in Inghilterra, ad Hammersmith nei pressi di Londra, il professor Westwood, celebre entomologo, notò alcune galle su foglie di vite, ma dopo un più accurato controllo alle parti ipogee, scoprì che lo stesso parassita era presente anche sulle radici. Nel frattempo, quasi contemporaneamente alla prima segnalazione di Westwood, in una vigna nei pressi di Arles, venne segnalato da un veterinario, tale dottor Delorme, lo stato di sofferenza dei ceppi di vite. Di questo fatto fu informato il Comitato Agricolo di Aix en Provence. Fu l’inizio di studi accurati ai quali parteciparono i botanici e gli entomologi più famosi dell’epoca, perché la malattia stava invadendo ve-

L’Oidio è anche noto con il nome «Mal bianco della vite». (Rotatebot)

locemente tutti i vigneti della Francia. Gli studiosi cominciarono subito a prospettare l’origine americana dell’afide, anche se ancora c’erano degli scettici, fra i quali gli stessi naturalisti che avevano descritto l’insetto dandogli il nome di Rizaphis vastatrix. Il nome di Rizaphis, su proposta dell’entomologo Signoret, fu mutato in Philloxera, termine di uso comune: intanto si era accertato che lo stesso insetto parassitava le radici delle viti europee e le foglie delle viti americane; acuta osservazione dalla quale fu poi possibile trarre il rimedio del portainnesto di viti americane, dotate di radici resistenti al flagello. Intanto la Fillossera, si era estesa ai vigneti di Bordeaux e in Portogallo, da dove venivano segnalati forti distruzioni al patrimonio viticolo. In breve furono coinvolti i vigneti della Grecia, Ungheria e Austria; alla Spagna che si credeva immune, nel 1877 creò danni assai estesi. In Italia vi era ovviamente una tensione molto forte e tutte le Stazioni Entomologiche furono allertate. Il presidente del Comizio Agrario di Como segnalò per primo dei problemi sul territorio italiano, precisamente nel comune di Valmadrera. Si stava avvicinando la vendemmia e le viti deperivano velocemente. Furono inviati campioni di materiale vegetale alla Stazione Entomologica di Firenze, che confermò la diagnosi: anche per l’Italia era suonata l’ora della tragedia. Valmadrera è a due passi dai nostri confini; ci volle poco: nel 1893 la fillossera arriva in Ticino. Per fronteggiare il parassita e la drammatica situazione che si era venuta a creare, lo Stato crea il servizio antifillosserico e la Cattedra ambulante di agricoltura. Nel 1902 vengono adottate le seguenti disposizioni: 1. sostituzione delle viti americane con le nostrane; 2. scelta dei migliori vitigni nostrani; 3. sperimentazione di vitigni resistenti alla fillossera; 4. promovimento delle Cantine Sociali; 5. sperimentazioni diverse. Nel 1905 unitamente ad altre varietà s’iniziò la sperimentazione del vitigno Merlot.

Chambolle-Musigny

Alle due estremità, Bonnes Mares a nord, Musigny a sud, troviamo quello che la Borgogna può produrre di meglio: vini tutti che sembrano merletti di seta e che vengono riconosciuti per il solo nome dei loro climat. Dal 1878 il piccolo villaggio di Chambolle ha ricevuto l’autorizzazione d’aggiungere al suo nome quello del suo più prestigioso climat, Musigny, un vigneto di 10 ha, divisorio dal mitico Clos de Vougeot e separato da tre parcelle. I pendii vitati sono esposti a sud-est, un’ottima posizione per le vigne che al levar del sole, vedono l’umidità notturna assorbita dai primi raggi del sole. Il vigneto è costituito da decine di parcelle che producono vini diversi, dato il terreno marno-calcareo composto da scisti argillosi ricchi di ferro e ghiaia. Le zone della Côte de Nuits (Borgogna) sono l’eccellenza del Pinot Nero. Il nostro Chambolle-Musigny, con i suoi delicati profumi di lampone e cassis, è l’ideale compagno gastronomico per carni rosse, petto d’anatra, ed eccezionale con l’Epoisses, tipico formaggio della Borgogna, ma soprattutto è il regalo ideale per la prossima festa del papà. / DC Trovate questo vino nei negozi Vinarte al prezzo di Fr. 62.–.

Il calore del finocchio

Fitoterapia Da tempi lontani risolve piccoli problemi digestivi ed è un amico fedele

Eliana Bernasconi «Ha un piacevole calore e non è di natura secca né fredda (…) E comunque lo si mangi rende allegro l’uomo e gli conferisce (…) un buon sudore e favorisce la digestione». Lo affermava nell’epoca delle crociate un’umile monaca, teologa e badessa in un monastero benedettino che, sulle rive del Reno, anticipava le scoperte della moderna medicina. Hildegard von Bingen, (1098-1179), in armonia con la cultura del suo tempo, spiegava che cinque elementi costituivano l’intero universo: il fuoco, l’acqua, la terra, l’aria, l’etere. Attribuiva a ognuno di loro quattro qualità: caldo, secco, freddo e umido. La proprietà curativa di una pianta dipendeva dalla prevalenza di una di queste qualità. Al di sopra di tutto vi era l’«Energia verdeggiante» (in latino Viriditas). Quando questa energia si esauriva, si spezzava un equilibrio e l’organismo si ammalava. Per cui, facendo uso di una pianta che conteneva la qualità necessaria mancante si poteva ritrovare tale energia che governava ogni essere nel cosmo. Hildegard già aveva compreso che a ogni singolo individuo occorreva sperimentare il rimedio specificoperlapropriacostituzione.

Per la monaca erborista, che prescriveva l’uso dei semi di finocchio (Foeniculum vulgare) contro la follia causata dal vino nell’uomo, questa pianta erbacea era soprattutto un rimedio oculistico: «Se qualcuno ha gli occhi grigi e vede in qualche modo offuscato e gli dolgono e se quel dolore è ancora nuovo, macini del finocchio o i suoi semi, ne prenda il succo e la rugiada che trova sull’erba giusta e un po’ di farina fina, ne faccia una tortina e la notte la ponga sugli occhi e vi leghi sopra un panno e starà meglio». E continuava aggiungendo che «se negli occhi non completamente limpidi insorgono nebbia e dolore, si macini il finocchio se si è in estate, o se si è in inverno si pongano i semi ben macinati nel bianco d’uovo ben schiumato e quando si va a dormire lo si ponga sugli occhi, questo ridurrà la nebbia». Anche in epoca rinascimentale si prescriveva il succo spremuto dalla pianta ed essiccato al sole per medicare «i difetti de gli occhi» che impediscono di vedere. Il medico senese Mattioli, vissuto nel Cinquecento, fra i primi grandi studiosi del sapere scientifico fitoterapico, narrava che in Iberia i contadini raccoglievano dal finocchio un liquore simile a una gomma utile nelle patologie

oculari. Si resta increduli constatando la precisa concordanza di simili consigli provenienti da luoghi del mondo fra loro tanto lontani; ci si chiede ad esempio come potessero credere gli antichi romani, se è vero quanto ci è tramandato, che i serpenti succhiavano la linfa dei finocchi per migliorare la loro vista… Per Egizi, cinesi e indù la pianta era infatti un antidoto contro i veleni di scorpioni, serpenti e insetti vari, e nella Roma antica anche Plinio la raccomandava a chi era debole di vista e voleva dimagrire. Ci si chiede allora se, nell’era dei viaggi spaziali, la pianta possa conservare intatti i suoi poteri, e niente troviamo che ci dimostri il contrario. Era anche una delle nove piante sacre presso i Germani: gli si attribuiva il potere di allontanare le forze maligne. Carlo Magno ne aveva resa obbligatoria la coltivazione negli orti dei conventi, insieme a note erbe aromatiche come rosmarino, salvia e menta. Della famiglia delle Ombrellifere, il Finocchio (Foeniculum vulgare) è una pianta erbacea perenne, conosciuta per uso alimentare da secoli. Le specie coltivate sono annue o biennali. Nativo dell’area mediterranea, per alcuni di origine asiatica, cresce selvatico in luo-

ghi secchi, assolati, ciottolosi e incolti. Le sue foglie, verde cedro e finemente incise, sono aromatiche. Fiorisce da giugno ad agosto in piccoli fiori gialli raccolti in ombrelle, i semi, la parte più preziosa di questa straordinaria pianta, seccando aumentano il loro gradevolissimo e inconfondibile aroma. In fitoterapia si usano principalmente le radici, raccolte da settembre a novembre ed essiccate al sole: sono diuretiche, sudorifere e depurative. Per uso esterno – come detto – sono decongestionanti per gli occhi. I frutti, in commercio e detti comunemente semi, si raccolgono da agosto a novembre. Arcinote e popolari sono le loro proprietà digestive nel trattamento di problemi legati all’ambito gastrointestinale, come fermentazioni e meteorismo. Essi inducono un aumento della saliva, e agiscono anche nelle affezioni delle vie respiratorie, in particolare in presenza di catarro. Hanno, infine, qualità aperitive, espettoranti e antisettiche. Dalla radice e dai frutti si ricava l’estratto fluido, aromatico e stomatico che, con piante come cumino, menta, zenzero e peperoncino, è anche carminativo (cioè promuove l’espulsione di gas da stomaco e intestino). Per uso interno si prepara un

Pxhere.com

per i nostri occhi

infuso con un cucchiaino di semi in una tazza di acqua bollente che si filtra dopo cinque minuti e si beve dopo i pasti o all’occorrenza. Per uso esterno si usa il decotto della radice al 2% o l’infuso dei semi al 3% come collirio, per lavaggi oftalmici o affaticamento degli occhi. Concludiamo con una curiosità. Vi hanno mai detto: «Non farti infinocchiare»? (Cioè, raggirare?) Ebbene l’espressione ha origine in una raccomandazione che veniva fatta agli acquirenti meno esperti di vino, che spesso, quando questo era di qualità scadente, veniva trattato con semi di finocchio dal forte aroma che ne mascherava il cattivo odore e sapore. Bigliografia

Gabriele Peroni, Trattato di Fitoterapia Driope, Nuova Ipsa ed.


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Pasta ripiena a chi piace

Ambiente e Benessere

So di sfidare l’impopolarità, forse più in Italia che in Europa, peraltro…, ma una cosa devo dire: non amo più di tanto la pasta ripiena. Lo so, esistono variabili di questa preparazione in tutto il mondo e, nello specifico, ogni comune, ma che dico, ogni frazione italiana ha le sue grandi tradizioni legate alla pasta ripiena. Persino i cinesi vantano prodotti affini, basti pensare ai loro dim sum (ravioli misti cotti a vapore che si vendono in baracchini per strada, soprattutto nel sud della Cina), che sono da un lato un classico break per pranzo e dall’altro una loro gloria riproposta in tutto il mondo, con tantissimi ristoranti specializzati e no, che prosperano ovunque. Per correttezza ricordo che la pasta ripiena in Italia ha infiniti termini che la contraddistinguono; lemmi legati al ripieno, alla forma del raviolo, eccetera. Per comodità, in questo articolo li chiamerò tutti ravioli: qui termine generico per la pasta ripiena. No. Potendo scegliere, al primo posto metto il mio piatto «perfetto», cioè un risotto – sono per tre quarti piemontese, ma lo sapete, tant’è che in questi anni vi ho proposto più di cinquanta ricette di risotti. Segue nella graduatoria, la pasta secca – il restante quarto è napoletano. E poi a scendere vengono l’amatissima polenta, gli gnocchi e via elencando; per ultime le zuppe, che non mi hanno mai convinto fino in fondo. Seguono le tagliatelle nei vari formati e si chiude con la pasta ripiena. Forse è una sequenza un po’ barbara, so anche questo, ma è la mia… E comunque, se (anzi: dato che) la vera suddivisione dei piatti è tra quelli buonissimi, quindi quelli molto buoni, poi eccetera fino a quelli pessimi, resta valido un postulato che mi guida sempre: fra un risotto fatto male (dio mio, quanti ne ho incontrati in vita mia…) e dei buoni ravioli, vincono quest’ultimi. Però il cuore dice che la sequenza sopra indicata segue proprio il mio gusto…

Fra i ravioli, preferisco quelli asciutti a quelli in brodo (e già sento volare le pietre, pare che il raviolo in brodo sia la quintessenza del politicamente corretto); quelli piccoli a quelli grossi (questo è un dato neutro); quelli con la pasta tirata così sottile fino a essere trasparente a quella spessa (e questo invece lo condivido con la maggioranza dei miei amici). Ciò detto, nell’ambito dei ravioli, se proprio devo puntualizzare, amo quelli del plin – in piemontese è il pizzicotto. Il nome del piatto deriva dal fatto che la pasta all’uovo viene stesa in lunghe strisce strette, sulle quali poi si distribuisce con un sac-àpoche il ripieno a intervalli regolari, si chiude la striscia, si sigilla al meglio e poi con un pizzicotto si separano i ravioli. La farcia non è mai canonica, ognuno mette quella che vuole, i più utilizzano quella a base di carne arrosto (carni miste di vitello o bovino, maiale o coniglio) con spinaci o bietoline; ma esistono anche versioni di magro, con spinaci lessi e grana e più raramente con la ricotta. Anche da questa sommaria descrizione si evince quanto siano difficili da preparare. Io credo che si possa essere in grado di farli se si ha visto nonne e mamme farli per anni, e anche in questo caso le prime cinquanta volte, li si chiuderà male e il ripieno fuoriuscirà. Solo dopo la cinquantesima si impara. Io non ho visto nonne e mamme all’opera e quindi mi è mancato il prerequisito. Forse è questo il motivo per cui non li ho mai fatti: li ho solo mangiati (poco…) in ristoranti di fiducia. Il politicamente corretto dice che i ravioli del plin andrebbero mangiati senza nulla, disposti in bell’ordine su un tovagliolo che alla fine non deve risultare unto. A molti invece piacciono con (tanto) burro scaldato a color nocciola e salvia, e se proprio è giornata, spolverizzati con tartufo bianco…

CSF (come si fa)

Prince Roy

Allan Bay

Alexander Talbot

Gastronomia Le liste di gradimento personali sono sempre soggettive, anche se impopolari

I ragoût sono preparazioni della cucina francese, simile allo spezzatino. Possono essere a base di carne, pesce o verdure, tagliati a pezzetti e cotti quanto basta in umido; il sugo viene a volte addensato con farina o patate. In italiano, la parola ragoût si è via via modificata in ragù, mutando significato e venendo a indicare un sugo di carne usato di solito come condimen-

to per la pasta. Vediamo come si fanno due classici ragoût. Ragoût di agnello. Ingredienti per 8 persone. Disossate 2 kg di spalla di agnello e con gli ossi e le verdure canoniche preparate un brodo. Mondate e tagliate a dadi 1 kg di verdure a piacere – patate, zucchine, porri, carote – e sbollentatele per un paio di minuti (il tempo può variare a seconda delle verdure utilizzate). Tagliate a cubi la carne, infarinatela leggermente, fate rosolare con 50 g di burro, coprite a filo con il brodo preparato, unite 8 cucchiai di soffritto di cipolla e cuocete per 2 ore. Unite le verdure e cuocete per 10’, fino a ottenere un umido. Profumate con zafferano e regolate di sale. Condite con 8 cucchiaiate di panna acida e accompagnate con patate bollite.

Ragoût rapido di controfiletto e pollo al pomodoro. Per 8 persone. Tagliate 500 g di controfiletto a bocconcini. Disossate 500 g di cosce di pollo e tagliatele a striscioline. Scaldate in una casseruola un filo d’olio con una noce di burro, unite il controfiletto, rosolatelo per 5’ mescolando, poi unite le striscioline di cosce di pollo, rosolate per 1 altro minuto, sfumate con 1 bicchiere di vino bianco secco, levate il tutto e tenete in caldo. Mettete nella padella 5 cipollotti mondati a tagliati ad anelli, con anche un po’ del verde, 2 carote tagliate a julienne e 24 pomodorini ciliegini divisi in 4 parti, bagnate con poco brodo vegetale e cuocete per 10’. Rimettete le carni, profumate con abbondante prezzemolo tritato e con la buccia di un limone non trattato finemente grattugiata e regolate di sale e di pepe.

Ballando coi gusti Oggi vi presento due salse universali base, che più di base non si può essere. Sono adatte a nappare pasta, riso e virtualmente tutto.

Salsa di pomodori allo scalogno

Salsa di carciofi e olive

Ingredienti: 1 kg di pomodori a piacere, meglio se perini o ciliegini · 4 scalogni · 1 spicchio di aglio · 1 rametto di basilico · olio di oliva · 1 peperoncino fresco · sale.

Ingredienti: 4 carciofi senza spine · 1 limone · 1 spicchio di aglio · 50 g di olive denocciolate · vino bianco secco · olio di oliva.

Sbollentate i pomodori, sbucciateli, eliminate i semi e tagliateli a pezzi. Rosolate in un giro allegro di olio gli scalogni mondati e tagliati finemente, il peperoncino tagliato a fettine e l’aglio mondato e leggermente schiacciato. Quando la cipolla inizia ad appassire, unite i pomodori e cuocete a fuoco moderato finché la salsa non si è addensata. Unite le foglie di basilico spezzettate e cuocete ancora per 1 minuto. Non salate, salerete quando la usate.

Le olive vanno bene verdi, nere o un mix delle due. Tagliatele a metà. Mondate i carciofi dalle foglie esterne più dure, tagliateli a metà, eliminate il fieno interno, tagliateli a fettine e immergeteli in acqua acidulata con il succo del limone per evitare che anneriscano. Fate scaldare in una padella un giro di olio con l’aglio mondato e leggermente schiacciato, aggiungete le fettine di carciofo. Lasciate rosolare per qualche minuto, poi sfumate con un bicchierino di vino. Bagnate con 1 bicchiere di acqua bollente e cuocete per 25’, unendo altra acqua se necessario. Aggiungete le olive e cuocete ancora per 5’.


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Ambiente e Benessere

Non solo bolidi ma anche utilitarie Motori Al Salone di Ginevra, tra le Ferrari e le Aston Martin spiccano la Peugeot 208, la Renault Clio

e anche un poco inedito Seat Minimó

Mario Alberto Cucchi Domenica 17 marzo si spegneranno i riflettori del Salone dell’auto di Ginevra. Da sempre, una tra i Motor Show più belli al mondo per numero e qualità delle novità presentate. Anche quest’anno il pubblico ammira splendide fuoriserie che sarà poi difficile incontrare su strada. Come la Battista di Automobili Pininfarina, hypercar elettrica da 1900 cavalli che pare sarà prodotta in 150 esemplari. Un mezzo che fa quasi sembrare una vettura comune quella che forse sarà la prossima auto di 007 ovvero l’Aston Martin DBS Superleggera. Ma a Ginevra non sono esposti solo bolidi come la Ferrari F8 Tributo, erede della 488 GTB, e la Lamborghini Huracan Evo Spyder, bensì anche vetture molto popolari come la Peugeot 208 e la Renault Clio. Probabilmente sono loro le vere regine dell’evento. Insomma, un vero Motor Show tradizionale in cui il ruolo della protagonista spetta all’automobile. Ecco allora che Ginevra è stata scelta anche da Seat come palcoscenico per presentare il suo primo modello di auto elettrica basato sulla piattaforma MEB del Gruppo Volkswagen. Fin qui tutto bene. Ma la notizia che colpisce di più è un’altra. Le Case automobilistiche una volta aspettavano i Saloni più importanti, come quello che si tiene sulle sponde del lago Lemano, per svelare al pubblico le ultime novità, mentre oggi non è più così. Lo dimostra proprio Seat che, a fine febbraio, ha scelto il Mobile World Congress di Barcellona per

Minimó è il nuovo prototipo di quadriciclo a due posti della Seat.

mostrare Minimó, il suo nuovo prototipo di quadriciclo a due posti. La Casa automobilistica dell’orbita Volkswagen per parlare di micromobilità ha optato per un’altra kermesse. Ha scelto una fiera in cui la protagonista

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Perché? Forse la tecnologia richiama maggior pubblico tra i giovani? Anche. Inoltre la motivazione è che mezzi come Minimó sono sempre più connessi tra di loro e con il mondo che li circonda e il 5G, trasmissione

Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku

Cruciverba Qual è il vero nome della cantante Nina Zilli? Per scoprirlo basterà risolvere il cruciverba e leggere le lettere nelle caselle evidenziate. (Frase: 5, 6, 10)

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non è l’auto ma la tecnologia. Seat si è ritagliata uno spazio in mezzo a futuribili visori per la realtà mista di ultima generazione come gli HoloLens di Microsoft e smartphone a cinque fotocamere come il nuovo Nokia 9 Pureview.

dati velocissima, di cui tanto si è parlato a Barcellona, darà un forte impulso alla connettività. Per questo la platea migliore per Minimó non era Ginevra, dove in ogni caso è stato portato, ma il mega Salone spagnolo di tecnologia. D’altra parte Minimó è stato progettato per utilizzare le future tecnologie autonome di Livello 4 che consentirebbero al veicolo di andare direttamente a prendere l’utente quando richiesto. Minimó è innovativo anche nell’estetica: stretto e agile, dedicato agli spostamenti urbani, questo quadriciclo che assomiglia un pochino alla Renault Twizzy può ospitare due utenti seduti uno dietro l’altro come in un caccia militare. La lunghezza di 2,5 metri è pari a quella della Smart di prima generazione mentre la larghezza è di 1,24 metri. In pratica occupa la metà dello spazio di una vettura tradizionale. Tenta di combinare i vantaggi della motocicletta con quelli dell’automobile. Minimó è un mezzo al 100% elettrico che promette 100 chilometri di autonomia. Ha una batteria che si può ricaricare ma anche facilmente sostituire. In pratica si lascia quella scarica in un centro di scambio e si riparte con una carica al 100%. Secondo Luca de Meo, presidente di Seat, «gli spostamenti quotidiani sotto i 10 chilometri rappresentano oggi circa il 60% del totale». Questa è la micromobilità e Seat, dichiara de Meo, «vuole essere il pioniere del Gruppo tedesco in questa strategia». Intanto, per ora, Minimó testa nuovi Saloni e commistioni tecnologiche con cui anche l’elegante Ginevra nel 2020 potrebbe dover fare i conti.

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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch

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I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.

oRIZZoNTALI 1. Frac 7. Può essere balsamico 8. Un numero 9. Canzoni medievali francesi 11. Le iniziali dell’attrice Rocca 12. Fattoria americana 13. Giorni molto caldi 17. Nel Nord America si chiamano caribù 18. La regista Wertmuller 19. Vive a Cagliari 20. Preposizione articolata 21. Uno stato emotivo 23. Collettivo, unanime 25. Pronome personale 26. Il Falk del tenente Colombo 27. Celebre moschea di Gerusalemme VeRTICALI 1. Macigni 2. Aspro in latino 3. Non hanno un alibi 4. Sono a coppie nei cassetti 5. Nome femminile 6. Espressione di rimpianto 10. Fiume toscano 12. Rigido, inflessibile 13. Un ruminante 14. Lo pagano il 3 verticale 15. Varietà di agata 16. Le iniziali dell’attrice Autieri 17. L’attore Bova 19. Fiume della Germania occidentale 21. Prefisso che indica anteriorità nel tempo 22. Possessivo inglese 24. Fanno coristi in crisi... 25. È finita in fondo Partecipazione online: inserire la

soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-

Sudoku Soluzione:

Scoprire i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.

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7 Soluzione della settimana precedente

IL PROVERBIO NASCOSTO – Proverbio risultante: MEGLIO UN AIUTO CHE CINQUANTA CONSIGLI. M U T U I B A A L

E G E R A N A I T E O O R A D I E O N E C R I N I U I Z A N O T O R C O I I G I O

L I A T C H I C O A M I O R R A E S N E S I L L

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luzione, corredata da nome, cognome, indirizzo, email del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui

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concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 marzo 2019 • N. 11

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Politica e economia Brexit, che sarà? Manca una ventina di giorni e a Londra si respira un’atmosfera sospesa, quasi imbarazzata pagina 30

L’oro che non luccica Le riserve auree venezuelane sono la flebile speranza del regime chavista di riuscire a darsi un po’ di ossigeno dopo le sanzioni Usa all’industria del petrolio pagina 31

Kumbh Mela Reportage fra i pellegrini indiani che hanno partecipato alla più grande festa dell’induismo

Casse federali piene Ancora una volta il consuntivo è più roseo del preventivo: nel 2018 un avanzo di 2,93 miliardi pagina 34

pagina 32 Il 15 marzo ci sarà lo sciopero globale per il futuro organizzato dalla attivista Greta Thunberg. (AFP)

Un piano Marshall per il clima? Ambiente La salvezza del pianeta è diventato un argomento politico di primaria importanza,

grazie alla proposta americana di Green New Deal, un nuovo grande patto sociale che consideri la lotta ai cambiamenti climatici un diritto dei cittadini al pari della sanità e alla casa per tutti

Christian Rocca Il 15 marzo milioni di ragazzi di oltre quaranta paesi e di tutti i continenti scenderanno in piazza in tutto il mondo per scioperare contro l’apatia dei governi nei confronti dei cambiamenti climatici. Il Global Strike for Future, l’impegno a fare pressioni affinché la politica affronti la crisi climatica, nasce dall’esempio di Greta Thunberg, la diciassettenne svedese che ogni venerdì, da mesi, manifesta davanti al Parlamento del suo Paese. Non è la prima volta che l’opinione pubblica, in particolare quella giovanile, si mobilita contro il surriscaldamento terrestre ma è la prima volta che questa urgenza comincia a fare presa. Quando Al Gore pubblicò il primo di una lunga serie di libri ambientalisti e le Nazioni Unite denunciarono formalmente l’emergenza, per esempio, combattere il global warming era considerato ancora una stranezza, un approccio luddista e troppo radicale per affrontare sul serio le contraddizioni create dalla crescita industriale ed economica. Tanto che, secondo gli scienziati, più della metà del carbonio da combustile fossile presente oggi nell’atmosfera è stato emesso proprio negli ultimi

trent’anni. Questo vuol dire che abbiamo danneggiato il pianeta principalmente negli anni in cui siamo venuti a conoscenza, con certezza scientifica, che il surriscaldamento terrestre provoca problemi all’ecosistema, rispetto ai millenni precedenti quando ne eravamo ignari. Dieci anni fa, il progetto del presidente Barack Obama di approvare una legge che limitasse, o disincentivasse, le emissioni si è arenato al Senato guidato dai Democratici senza nemmeno tanto clamore. Al Gore aveva perso le elezioni contro George W. Bush anche per le sue politiche ambientali considerate punitive nei confronti del sistema produttivo americano, oltre che favorevoli a nuove tasse sulle emissioni, anche per questo gli obamiani hanno evitato di rischiare su un tema così delicato. Ora le cose sembrano essere cambiate, sia perché la forte industrializzazione di alcune aree del pianeta ha accelerato l’emergenza sia perché è cresciuta e si è formata una generazione più consapevole. Lo sciopero dei ragazzi del 15 marzo è soltanto uno degli esempi che prova questo rinnovato interesse. Ancora più significativo, visti

i precedenti, infatti è quello che sta succedendo nella politica americana. A giorni si discuterà al Congresso il Green New Deal, un radicale approccio alla questione del surriscaldamento terrestre presentato dalla giovane deputata Alexandria Ocasio-Cortez e dal senatore Ed Markey che, nonostante non abbia alcuna possibilità di diventare legge con il Senato guidato dai repubblicani e con Donald Trump alla Casa Bianca, è considerato dai Democratici come lo strumento primario di reclutamento del voto millennial in vista delle elezioni del 2020. Il Green New Deal ha ottenuto il sostegno di gran parte degli sfidanti di Trump alle prossime presidenziali: ne faranno un cavallo di battaglia di campagna elettorale, Kamala Harris, una delle favorite, Kirsten Gillibrand, Cory Booker, Amy Klobuchar e Bernie Sanders, tutti senatori, ma anche il più giovane del gruppo, il sindaco di una cittadina dell’Indiana, Pete Buttigieg, mentre addirittura il governatore dello Stato di Washington, Jay Inslee, ha annunciato la candidatura a presidente con un video di un paio di minuti in cui ha parlato esclusivamente della battaglia contro i cambiamenti climatici. La settimana scorsa, il miliardario

ed ex sindaco di New York Mike Bloomberg ha spiegato che non si candiderà a presidente, ma che investirà il suo tempo e il suo denaro per azzerare il numero di centrali a carbone in America e per lanciare la campagna Beyond the Carbon, oltre il carbone, che si prefigge di spingere gli Stati Uniti verso l’obiettivo di un’economia basata esclusivamente sull’energia pulita. Il New Green Deal è un progetto molto ambizioso, perché inquadra il surriscaldamento globale non come tema ambientale, ma di giustizia sociale, da qui il richiamo al New Deal con cui Franklin Delano Roosevelt costruì negli anni Trenta le basi del welfare state americano. Il Green New Deal propone di garantire l’assistenza sanitaria universale, come in gran parte dei paesi europei, abitazioni a buon mercato e una forte riduzione delle emissioni di carbonio nell’atmosfera, in un progetto che sembra voglia risolvere le contraddizioni del sistema capitalistico con un semplice tratto di penna. Un approccio così estremo ha poche chance di diventare legge, tanto che già si sentono le prime voci di Democratici moderati, come il senatore della West Virginia Joe Manchin, uno che in passato aveva fatto campagna elettora-

le facendosi filmare mentre sparava al testo della legge di Obama sulla sanità, secondo il quale la proposta di OcasioCortez «non è un patto, è un sogno». Anche un’altra senatrice Democratica, Dianne Feinstein della California, davanti a una scolaresca in visita a Capitol Hill, ha spiegato che il Green New Deal non andrà da nessuna parte perché non ci sono i soldi per pagarlo. La nuova sensibilità dei millennial però consiste proprio nel contestare questa idea che i sogni non si possano realizzare e che i soldi non si trovino, perché questo significa che si continua a sottovalutare l’urgenza di salvare il pianeta. Un libro appena uscito, scritto da David Wallace-Wells, uno dei giornalisti più autorevoli sul tema, sostiene fin dal titolo che ci stiamo dirigendo verso The Uninhabitable Earth, una Terra non più ospitale per la razza umana. Wallace-Wells ricorda che, secondo gli scienziati, se il pianeta continuerà a riscaldarsi a questo ritmo, nel 2100 intere zone dell’America e dell’Africa, dell’Australia e dell’Asia saranno rese inabitabili dal caldo, dalla desertificazione e dalle inondazioni. «È peggio, molto peggio, di quanto pensiate», si legge nell’incipit del saggio.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 marzo 2019 • N. 11

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Politica e economia

Brexit, l’elefante in una stanza

Verso il 29 marzo Dopo quasi tre anni da quello storico 23 giugno 2016 e un anno e mezzo di negoziati e di ministri

Cristina Marconi Manca una ventina di giorni e a Londra si respira un’atmosfera sospesa, quasi imbarazzata: nessuno sa cosa fare dell’elefante nella stanza, quella Brexit sbandierata e evocata miliardi di volte senza che nessuno si premurasse di definirla, come il mostro di Frankenstein da cui il suo inventore scappa via terrorizzato. Non lo sa Theresa May, la premier il cui percorso ormai da anni appare come un lento martirio pubblico in cui l’osservazione collettiva delle sue disavventure ha sostituito una riflessione seria su quello che si andava a fare, non lo sa il leader dell’opposizione, disponibile a un secondo referendum ma incapace di guidare gli elettori verso un’alternativa, e non lo sa ancora chi, dai mille frammenti di un percorso estremamente frastagliato, spera di costruire un percorso diverso che sia, perché no, magari un ritorno indietro. Per il prossimo voto sull’accordo raggiunto dalla May con Bruxelles ci si consola con l’idea che sarà una sconfitta di «soli» 60 o 100 voti, tutt’altra cosa certamente rispetto ai 230 del 15 gennaio scorso. Bruxelles è inamovibile, sembra. L’incontro di martedì scorso tra le due squadre di negoziatori non avrebbe portato a nulla di abbastanza significativo sul nodo irlandese da convincere gli euroscettici a votare il testo: la clausola di salvaguardia per impedire che venga creata una frontiera fisica tra Irlanda e Irlanda del Nord anche nel caso di un mancato accordo commerciale post-Brexit tra Regno Unito e Ue non è cosa a cui gli europei siano pronti a rinunciare, mentre per il fronte oltranzista Brexiteer rappresenta una trappola per tenere il Paese impelagato nella Ue a tempo indeterminato. Le due proposte di Londra, ossia l’introduzione di un «comitato d’arbitraggio» per verificare che le due parti agiscano correttamente nella messa a punto di un accordo commerciale o l’applicazione di un «mini backstop» molto diluito, sarebbero state respinte con sdegno. Secondo un documento diplomatico pubblicato dal «Guardian», l’incon-

tro sarebbe stato «negativo» e il Regno Unito starebbe cercando una «soluzione legale a un problema politico», motivo per cui il negoziatore capo Ue Michel Barnier ha richiesto «una nuova bozza» agli inglesi. Toni molto accesi, per un comunicato di questo tipo. E un disaccordo così profondo che le due parti non avrebbero ancora messo in calendario un nuovo incontro. Il tentativo della May di far crescere il sostegno per il voto del 12 marzo intorno alla sua proposta, che è anche l’unica ad avere un capo e una coda e a rispettare un minimo realismo nei confronti delle richieste di Bruxelles, sembrerebbe fallito, aprendo la strada al voto della sera successiva, il 13 marzo, per permettere al Parlamento di respingere l’ipotesi di un’uscita del Regno Unito dall’Ue senza accordo (no deal) e di chiedere, il giorno dopo, un’estensione dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona, quello invocato così frettolosamente da far arrivare il Paese all’appuntamento del 29 marzo totalmente impreparato. Anche se la May andasse ad incontrare il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker e strappasse qualche novità significativa, i tempi sarebbero troppo stretti per l’approvazione parlamentare: tutto si gioca entro domenica, con fonti di Downing Street convinte che alla fine la Ue cederà e dopo aver fatto finta di essere inflessibile tenderà la mano alla sua alleata May, ben sapendo che il resto potrebbe essere peggio. Il problema è che per tendere una mano ci sarebbe bisogno di avere la certezza di fare una cosa efficace e, con i Brexiteers che continuano a dire in giro che neppure il comitato arbitrale basterebbe a sopire le loro ansie e un parlamento spaccato come Westminster, questa certezza è lungi dall’esistere. Ma nessuno è al sicuro in questa storia, neppure gli euroscettici che hanno fatto il buono e il cattivo tempo negli ultimi anni, complice una May troppo incline a compiacerli. Se non passerà l’accordo, non è detto che sia la loro versione distruttiva di Brexit, ossia il no deal, a prevalere. È molto più pro-

AFP

dimissionari, il Regno Unito si appresta a uscire dalla Ue. Come lo farà non si sa. Quando non è più così sicuro

babile che si vada verso una formula di compromesso ampia e annacquata in cui i desideri di indipendenza dovrebbero piegarsi alle esigenze di trovare qualcosa di votabile e accettabile: ci sta lavorando addirittura il leader laburista Jeremy Corbyn, molto più euroscettico nell’animo di tanti Tories ma convinto dall’emorragia di deputati dal suo partito a prendere una linea meno intransigente nei confronti della Brexit e a ribadire la sua idea che occorra mantenere il Paese nell’unione doganale. In comune con la May ha il fatto di avere un partito spaccato, in cui c’è chi non vuole assolutamente la libera circolazione delle persone. La May, che in questi mesi ha lanciato vari appelli spiegando come la sua sia l’unica alternativa pro-Brexit (che permetterebbe anche a molti dei suoi rivali politici di iniziare a pensare al loro futuro senza questo ingombrante dossier tra i piedi), potrebbe tentare di lanciarne un ultimo, disperato. Chi vuole essere leader di un Paese che, con il no deal, deve ricostruire tutto e vedersela con una crisi economica autoindotta e imprevedibi-

le? Anche «The Spectator», magazine conservatore e pro-Brexit ai tempi del referendum, lo ha fatto presente, senza risparmiare critiche alla May e alla sua gestione dell’intero dossier. «È tempo di voltare pagina rispetto a questo capitolo infelice della nostra storia politica e approvare il suo accordo è il modo più sicuro per farlo», si legge. E forse è proprio questo l’argomento più forte. Il secondo referendum, che a questo punto più che come violazione della democrazia andrebbe letto come una soluzione ragionevole per uscire dall’impasse, soffre della stessa mancanza di compattezza tra i deputati e, soprattutto, del fatto che un ritorno alle urne terrebbe tutti con il fiato sospeso, essendo l’esito tutt’altro che scontato. Uno studio del Centre for Social and Political Risk dice che i britannici preferiscono bloccare la libera circolazione e l’immigrazione rispetto ad avere accordi commerciali favorevoli: la priorità resta quella e la Brexit ne è una chiara emanazione. Tutti vorrebbero voltare pagina, ma nessuno vuole farlo approvando l’accordo della May.

Perché dopo due anni e mezzo a parlare solo di Brexit, i problemi del Regno Unito stanno iniziando ad emergere e a richiedere più attenzione rispetto all’ipotetica applicazione di un ipotetico backstop sull’Irlanda, basterebbe un po’ di buona volontà negoziale per non sentirlo mai più nominare. A Londra si è iniziato finalmente a parlare con un po’ di serietà della tragedia degli accoltellamenti di giovanissimi: forse c’è voluta la morte di una diciassettenne bianca in un parco per mano di due ragazzi che neanche le hanno parlato perché la crisi, che va avanti da tempo, iniziasse ad essere vista come un allarme sociale e non come qualcosa di circoscritto a pochi gruppi di ragazzi senza futuro delle case popolari. Intanto gli stranieri in città leggono con preoccupazione crescente le notizie e, immobili come tutti nel Paese, organizzano feste, cene e raduni per registrarsi al «settled status», quello che permette di restare nel Regno Unito dopo la Brexit. Facendo buon viso a un gioco cattivo e inutile.

Diventare tedesca per restare europea

Libri La corrispondente del «Guardian» a Berlino spiega perché e come sfidare la Brexit con un nuovo passaporto «Un passaporto britannico è un biglietto vincente alla lotteria della vita». La citazione viene da Cecil Rhodes, controversa icona del colonialismo imperiale, ma di questi tempi neppure la vecchia regola vale più: l’ambìto documento di viaggio, che presto tornerà ad essere blu per la gioia delle anziane signore del Regno, comincia a stare stretto a molti. A tutti quelli che da mesi fanno la fila al consolato irlandese per tornare al passaporto dei loro nonni e a chi come Kate Connolly, corrispondente del «Guardian» a Berlino, ha deciso di guardare al futuro. Di diventare tedesca, di restare europea e di spiegare le sue ragioni e quelle, assai oscure, del

suo paese d’origine ai suoi nuovi connazionali teutonici – ne ha sposato uno, d’altronde, e ci ha pure fatto due figli – in un libro, «Brexit: come sono diventata tedesca», pubblicato da Hanser. Un testo che ha qualcosa di confidenziale: è in tedesco, parla ai tedeschi e non intende perdere tempo sulle questioni di lana caprina dietro cui gli inglesi si sono nascosti per giustificare una perdita di prospettiva vertiginosa. La Connolly ha quel senso dell’umorismo che racchiude l’anima del suo paese come una tazza di tè. La Brexit l’ha presa alla sprovvista. Non se l’aspettava mica che tutte le famiglie del Paese fossero spaccate come la sua, come se si fosse tutti

Kate Connolly. (AFP)

in una grande stanza degli specchi in cui un dubbio o un radicato scetticismo si sommano fino a comporre un 52% e una svolta storica irreversibile. «La vita deve essere stata troppo facile e divertente per la gente middle class di una certa età, sono andati a cercare un po’ di emozioni, hanno voluto giocare alla guerra senza tutti gli inconvenienti», spiega. Nel suo libro ha raccontato quel sentimento che con l’Europa non ha nulla a che vedere – nella stessa parola «Brexit» l’Ue non c’è, è un neologismo che parla solo di un Paese che sbatte la porta come un adolescente arrabbiato – rispondendo alle richieste di un pubblico tedesco che si interroga, che vuole capire. E che fino all’altroieri, come osservava Wolfgang Münchau qualche giorno fa, si è raccontato la favoletta dell’errore di valutazione a cui i britannici non vedevano l’ora di porre rimedio. Salvo poi riconoscere, con sgomento e tristezza, che sì, questa cosa brutta e insensata sta davvero succedendo: Auf Wiedersehen! «Neanche nelle famiglie dove si cerca di convincersi a vicenda la gente cambia idea! Hai mai visto un inglese rimandare indietro un piatto al ristorante dopo aver scoperto che è cattivo? No, noi ce lo mangiamo e magari troviamo pure un modo per elogiarlo»,

spiega Connelly. «Oggi chi fa il passaporto britannico lo fa per convenienza, per pragmatismo, mentre per me e per le altre migliaia di persone che sono diventate tedesche è una questione di non rinunciare a una parte della propria identità». E agli amici di Berlino che le chiedono se qualora la Brexit non si facesse più lei restituirebbe il passaporto, Kate spiega che no, che lei non se ne va, non esce, anche in questo ciò che è fatto è fatto, da brava inglese. «Voi sottovalutate quanto questa frase sia importante per la nostra psiche nazionale, tanto che io conosco molte persone che erano contro la Brexit e che ora ritengono sia giusto che avvenga». Le nonne sono importanti in questa Brexit, perché loro hanno sofferto durante la guerra e il valore della pace lo conoscevano. Kate aveva 18 anni alla caduta del muro di Berlino e l’Europa le sembrava in grado di «raddrizzare i torti della storia». Erano gli anni della CEE in cui l’idea che «fino a quando i paesi hanno scambi commerciali non si fanno la guerra» aveva preso piede nel Regno Unito, mentre i cuori tedeschi palpitavano romanticamente per la pace e la fine di un incubo. E cosa si è rotto, che cosa è cambiato? «Che i britannici sono in fuga, litigano da soli, hanno nostalgia dell’impero come si è detto spesso»,

spiega Kate. Mentre a Londra sono state già organizzate cene e incontri mondani per il mese di aprile, tutto il resto è avvolto nell’incertezza: nel Paese del «save the date», c’è solo una scritta sull’agendina, Brexit, il 29 marzo alle 11 di sera, come fosse un appuntamento al buio con il destino. Secondo un giornalista politico navigato come Matt Chorley, autore della rubrica Red Box sul «Times», la premier Theresa May sta cercando di perdere tempo per compattare il Parlamento nella fretta dell’ultimo minuto, ma farà di tutto per evitare il no deal: non vuole passare alla storia come colei che ha fatto un danno al Paese addirittura più grande di David Cameron. Sicuramente però alla premier resterà per sempre legata una frase, a cui quella grande parrocchia cosmopolita che è Londra ha reagito molto male: «Se pensate di essere cittadini del mondo, non siete cittadini di nessun luogo». Svenevolezze liberal a parte, davvero vogliamo mettere insieme banchieri e camerieri? A volte scegliere un’altra patria è una necessità se vuoi sentirti radicato. E che l’odore di casa sia quello dell’aceto sulle patatine fritte o quello di un bratwurst sfrigolante non si sa. Te li porterai comunque dietro, saranno sempre con te. / CM


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 marzo 2019 • N. 11

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Politica e economia

oro, il nuovo denaro

Crisi Venezuela Le riserve auree stanno diventando importanti per ottenere liquidità e per fronteggiare

le difficoltà economiche, in un contesto tradizionalmente condizionato dal petrolio

Angela Nocioni L’oro venezuelano è la flebile speranza del regime chavista di riuscire a darsi un po’ d’ossigeno dopo l’annuncio delle sanzioni statunitensi all’industria del petrolio, l’azienda pubblica Pdvsa. Il commercio di petrolio con gli Stati Uniti è sempre stato la principale fonte di dollari per il regime. Chi blocca Pdvsa blocca il Paese. Questo i chavisti lo sanno, anche perché l’hanno vissuto sulla loro pelle durante il congelamento di Pdvsa nel dicembre del 2002, una sorta di serrata contro l’allora presidente Hugo Chávez che mise per due mesi in ginocchio il Paese e che Chávez chiamò «el golpe petrolero». Le sanzioni decise da Trump contro Maduro dopo l’autoproclamazione come presidente ad interim del presidente del Parlamento esautorato dal regime, il trentacinquenne Juan Guaidó, non hanno interrotto il flusso d’affari tra i due Paesi. Se così fosse stato, le raffinerie texane che lavorano il greggio viscoso venezuelano rimarrebbero senza petrolio da raffinare e rischierebbero la chiusura. Ma che le sanzioni non interrompano il flusso di petrolio verso gli Stati Uniti conta poco per Maduro. Perché gli chiudono comunque il rubinetto di dollari freschi. Per la prima volta dopo vent’anni dall’arrivo di Chávez al potere, la Casa Bianca ha inflitto un serio danno economico al governo di Caracas: gli ha tolto da sotto il naso il cash derivante dalla vendita di greggio e lo lascerà entro breve tempo senza benzina. Le transazioni di Pdvsa con gli Stati Uniti non sono quindi bloccate, ma i soldi statunitensi per il petrolio venezuelano confluiranno su un conto di cui potrà disporre solo chi sarà indicato da Juan Guaidó, riconosciuto come presidente al posto di Maduro dagli Stati Uniti e dalla stragrande maggioranza della comunità internazionale.

I soldi statunitensi per il petrolio venezuelano confluiranno su un conto di cui potrà disporre solo chi sarà indicato da Juan GuaidÓ L’ammontare della cifra congelata, secondo l’annuncio del consigliere per la sicurezza della Casa Bianca, John Bolton, sarebbe di 7 miliardi di dollari già presenti nelle casse di Pdvsa negli Stati Uniti e di altri 11 miliardi nel 2019. Per rimanere a galla e per non perdere quelle entrate che gli hanno assicurato finora il sostegno degli alti vertici militari, Nicolás Maduro ha tentato di vendere tre tonnellate di riserve d’oro agli Emirati arabi che sono, insieme alla Turchia, i principali destinatari dell’export d’oro venezuelano. Ha tentato cioè una accelerazione della svendita d’oro che ha già iniziato da tempo per garantirsi cash. Tanto oro ha venduto negli ultimi

L’oro estratto dovrebbe finire alla Banca centrale ma non è sempre così. (AFP)

anni per compensare le minori entrate provenienti dall’industria del greggio – dovute non solo al crollo del prezzo del petrolio, ma soprattutto alla diminuzione drastica della capacità produttiva di Pdvsa messa in mano a una dirigenza militare del tutto priva di competenze di base per far funzionare l’impresa – che le riserve d’oro si sono dimezzate. Delle 361 tonnellate di riserve d’oro del 2014 ne sono rimaste 162. Negli ultimi due anni da Caracas è stato esportato oro per due miliardi di dollari verso Emirati e Turchia: un miliardo e centomila dollari verso gli Emirati e il resto verso la Turchia. Ankara raffina l’oro venezuelano, l’ultima visita di un alto dirigente del regime chavista in Turchia risale solo al mese scorso, quando il vicepresidente dell’economia Tareck El Aissami, ha visitato la raffineria turca di Çorum, vicino ad Ankara, dove viene lavorato gran parte del metallo prezioso in arrivo da Caracas. Il problema del denaro fresco per il regime è fondamentale in questo momento. La Russia ha già prestato 17 miliardi di dollari negli ultimi dodici anni e s’è presa il controllo di una buona parte dei giacimenti minerari preziosissimi dell’Orinoco. La Cina ha iniettato 60 miliardi di dollari nel corpo esangue del regime e se li fa pagare in petrolio: 400 mila barili al giorno fino al 2025 (l’accordo capestro prevede che Caracas paghi anche il costo del trasporto). Maduro confida quindi nell’oro. Il Venezuela possiede uno dei più grandi giacimenti auriferi del mondo: più di

centomila metri quadrati, il 12% della superficie del Paese dove si stima ci siano almeno settemila tonnellate di oro. Il sottosuolo venezuelano è una sorta di fortunata anomalia geologica, tanto è ricco. Nell’Arco dell’Orinoco, un’ampia zona nel sud est del Paese tra la Guyana e il Brasile, non c’è solo la più grande riserva di greggio del mondo. Ma anche oro, rame, diamanti, ferro bauxite e una infinità di altri metalli preziosi in quantità. Molti dei quali già in mani cinesi e russe attraverso joint venture con il Caracas. La storia recente dell’oro venezuelano offre una fotografia dello stato delle risorse pubbliche venezuelane. Finalmente persuaso della necessità di diversificare la produzione economica del Paese e le fonti di dollari del suo governo, l’ex presidente Hugo Chávez tentò di metter mano alla catena di estrazione dell’oro dell’Orinoco negli ultimi anni prima della sua morte avvenuta nel 2013. Non più grandi concessioni minerarie, ma piccole parcelle da distribuire tra piccoli produttori. Non più cinquemila ettari a ciascun gruppo dedito all’estrazione, ma parcelle la cui estensione oscillava da un minimo di 10 ettari a un massimo di 50 ettari offerte a piccoli produttori che si occupassero di tirar fuori l’oro e di metterlo in commercio. Questo era il progetto. Chávez la spiegò come l’occasione per dare la possibilità agli abitanti del luogo di vivere dell’oro tirato fuori dalla loro terra. Il piano è fallito miseramente. In pochi anni il metodo di estrazione è tornato a modalità da Medio Evo. Piccone e pala, nessun controllo. Si scava,

si prende quel che si trova e si passa a un pezzetto di terra vicino dove poter scavare, tirar fuori un po’ di prezioso metallo e così si va avanti. Con danni seri ai giacimenti, mai scavati in profondità, ma soprattutto con rischi alti di contaminazione ambientale. Il livello di corruzione altissima raggiunto dagli alti militari che hanno il controllo della zona ha fatto fiorire il business delle miniere illegali, riguarda il traffico l’oro e anche quello del resto dei minerali presenti nell’Arco dell’Orinoco. Non sono i piccoli produttori locali a vivere dell’oro estratto, ma i grandi trafficanti. Nelle vicende legate alle miniere illegali dell’Orinoco s’è mostrata la leggendaria doppiezza del personaggio politico Hugo Chávez. Ogni volta che riceveva denunce dai minatori, Chávez prometteva repulisti severissimi tra i responsabli della catena di controllo sulla produzione e la commercializzazione dell’oro. Ogni volta che gli attivisti politici che lavoravano all’Orinoco, conoscevano da vicino il lavoro dei minatori e ne registravano quindi le lamentele, riuscivano ad avere incontri con Chávez, il presidente li rispediva a casa entusiasti, quasi sorpresi di sentirsi sorpassati a sinistra da un presidente della repubblica che si infuriava a sentire i loro resoconti, malediceva l’ingordigia, la disonestà, l’assenza di spirito patrio di chi, sosteneva lui, stava boicottando il suo esperimento socialista nella socializzazione dell’oro. Li esortava ad occupare la miniera, a farsi sentire, giurava che li avrebbe aiutati e sostenuti. E dopo due giorni firmava

invece un decreto in cui nominava un paio di generali a capo del settore. Con tanti saluti ai minatori in rivolta. Il commercio ora è in mano innanzitutto ai guerriglieri dell’Esercito di liberazione nazionale della Colombia, l’altro gruppo guerrigliero colombiano oltre alle disciolte Farc. Grossi criminali brasiliani, banditi di ogni provenienza, miliziani locali. Tutti fanno affari con l’oro dell’Orinoco tranne la povera gente che vive lì. Teoricamente l’oro estratto dall’Orinoco dovrebbe finire venduto alla Banca centrale di Venezuela, sempre teoricamente veglierebbero su questo meccanismo degli agenti statali. Poiché l’oro non è difficile da trasportare come il greggio, facile è per i trafficanti farlo uscire dal Venezuela. Lo portano in Brasile, in Colombia e nelle isole delle Antille. Curaçao, Bonaire, Aruba sono proprio lì davanti, a nemmeno 60 chilometri dalla costa. Sono ex colonie olandesi e molto dell’oro trafugato dal Venezuela finisce in Olanda. Il partito socialista olandese ha denunciato il traffico, chiesto controlli, ma la denuncia non pare aver sortito alcun risultato finora. Due anni fa fu annunciata in pompa magna una ristrutturazione del mercato dell’oro venezuelano. Ci fu una retata di dieci persone, accusate di aver lucrato sul traffico. Tutto fu messo in mano a un nuovo gruppo di militari. Tutto è continuato come prima. È avvenuto, semplicemente, un avvicendamento di trafficanti. È stato smantellato un sistema con dei capi e sostituito da un sistema pressoché identico con altri capi. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 marzo 2019 • N. 11

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Politica e economia

Kumbh Mela, festa dell’umanità Reportage Il più grande pellegrinaggio dell’induismo, qualcosa a metà strada fra un’enorme fiera di paese, un circo

e il nostro Giubileo plenario

Francesca Marino Migliaia e migliaia di anni fa in quella che oggi chiamiamo India, quando il mondo era ancora giovane, dei e eroi si mescolavano tranquillamente agli umani, tra cielo e terra esistevano i Deva e gli Asura: per semplificare di molto, si trattava di divinità della luce e delle tenebre. Secondo la leggenda un giorno i Deva, che saranno stati anche forze della luce ma non erano campioni di buona educazione, disturbarono un asceta in meditazione: che, come tutti gli asceti nelle sacre scritture indiane, era certamente un saggio ma aveva anche un gran brutto carattere e invece di limitarsi a strillargli contro pensò bene di maledirli facendogli perdere tutte le loro forze e i loro poteri soprannaturali. Disperati i Deva chiesero aiuto a Vishnu, Colui che preserva il mondo, e Vishnu gli consigliò di chiedere aiuto agli Asura per rimescolare gli Oceani per fare emergere dalle acque l’amrit, la bevanda della vita eterna. Seguendo le direttive di Vishnu, gettarono nell’Oceano tutte le erbe esistenti, usando il monte Mandara come zangola, il serpente Vasuki come corda e lo stesso Vishnu in forma di tartaruga come perno.

Questo festival si tiene ogni 12 anni ma in mezzo ci sono i Kumbh minori ogni 3-4 anni. Ma minore non vuole dire meno affollato All’apparire della brocca (che in hindi si chiama kumbh) che conteneva l’amrit però, si scatenò una feroce battaglia tra Deva e Asura per il possesso della sacra bevanda. Una battaglia durata dodici anni, terminata dall’intervento di Vishnu che prese la brocca agli Asura per donarla ai Deva. Durante la battaglia, quattro gocce di amrit caddero sulla terra in corrispondenza di quattro città indiane: Allahabad (che è di recente tornata come un tempo a chiamarsi Prayagraj), Haridwar, Nasik e Ujjain. Le città in cui ancora oggi si celebra come da millenni il Kumbh Mela, la «festa della brocca». Il Kumbh Mela è la più grande festa dell’induismo, qualcosa a metà tra una enorme fiera di paese, un circo e il nostro Giubileo plenario. È regolata da precise connotazioni astrali, per l’esattezza dalle posizioni di Giove e del Sole che, nella leggenda, impedirono al Kumbh di finire in mille pezzi durante la battaglia. Il Maha (grande) Kumbh Mela si tiene ogni dodici anni, ma in mezzo ci sono i Kumbh minori che si tengono ogni tre o ogni quattro anni. Ma «minore» non vuole certamente dire meno affollato: per ogni singolo Kumbh Mela, difatti, milioni di pellegrini provenienti da tutta l’India e spesso anche dall’estero si riversano nella città di volta in volta interessata dall’evento. Mark Twain, che aveva assistito alle celebrazioni nel 1895, scriveva: «È meraviglioso il potere di una fede simile, una fede che ha il potere di far intraprendere ai vecchi e ai deboli, ai giovani e ai fragili, un viaggio come questo e a sopportarne le fatiche senza battere ciglio. Non so se a spingerli è l’amore o la paura. Ma alla fine, non ha importanza: ciò che ne scaturisce va oltre l’immaginazione, oltre la meraviglia della gente come noi, i razionali occidentali». E bisogna davvero avere una fede granitica o una vena di follia per volersi

L’intera galleria fotografica può essere guardata sul sito del nostro giornale nella sezione dei reportage.

immergere nell’oceano di persone che si è riversata e continua a riversarsi ad Allahabad quest’anno per il Kumbh Mela 2019. Circa centocinquanta milioni di persone difatti, splamate su circa quaranta giorni, sono arrivate alla Triveni, la confluenza tra il Gange, la Yamuna e il mitico fiume invisibile Saraswati: centocinquanta milioni di persone che continueranno ad arrivare per bagnarsi alla confluenza dei tre fiumi purificandosi così da ogni peccato. Per ospitarle, sono stati occupati 3200 ettari di terra su cui sono sorte tendopoli di ogni genere con relativi servizi igienici (più di centomila, pare), ristoranti e uffici per guidare i pellegrini e dare informazioni. Le cabine per i bagnanti si snodano per circa otto chilometri. Il governo dell’Uttar Pradesh, lo Stato indiano in cui si trova Allahabad, ha investito quest’anno nella preparazione della festa più di cinquecento milioni di euro: secondo le stime, lo stanziamento più grosso mai effettuato per una festa religiosa. Gli investimenti nel controllo delle folle e nella sicurezza per timore di attentati sono stati imponenti, e c’è perfino una app sviluppata per guidare passo passo i pellegrini nel tragitto dalle tendopoli alla Triveni. Ci sono tende di super lusso con salottino e tappeti, ci sono tende per gli spettacoli e i concerti, tende per mangiare e bere, per ascoltare sermoni o tende che ospitano un tempio. Ce n’è per tutte le tasche e per tutti i gusti, e per tutti gli orientamenti teologici. E poi, ci sono le tende dei religiosi. Separate in due grandi settori, uno di orientamento Shaiva (i seguaci di Shiva) e

uno Vaishnava (i seguaci di Vishnu) suddivisi a loro volta per corporazioni (akhara). I fedeli recano offerte ai tapasin, mistici che tentano di ottenere la liberazione compiendo dure pratiche ascetiche come giacere su un letto di chiodi, rimanere in piedi ventiquattro ore al giorno o tenere sempre un braccio alzato per periodi lunghi fino ai dodici anni che intercorrono tra un Maha Kumbh Mela e l’altro.

Andare al Kumbh Mela è diventato di moda. Di moda tra gli indiani, per una volta, e non soltanto tra gli occidentali che vogliono assistere a uno spettacolo che più esotico non si può Le bancarelle espongono immagini sacre, collane, libri e cibi prelibati. Negli accampamenti i profumi delle cucine si mischiano a quelli degli incensi che bruciano durante una cerimonia all’aperto. C’è un clima di felicità tra i partecipanti alla festa, a volte l’unica di un’intera vita. C’è posto e tempo per tutti. In alcuni giorni particolari, quelli in cui bagnarsi nella Triveni è considerato particolarmente favorevole, ogni attività si arresta e i pellegrini si affrettano verso il fiume sacro: specialmente quando sfilano i Naga, gli uomini serpente, asceti Shaiva così chiamati

perché vivono nudi e cambiano simbolicamente pelle ogni giorno quando si cospargono il corpo di cenere dopo le abluzioni. Il semplice vederli, il darshan, è considerato una benedizione liberatrice. Non che i Naga suscitino sentimenti univoci nei fedeli: nell’antichità erano un vero e proprio esercito organizzato a difesa dell’induismo, come dimostrano ancora oggi i simboli che le contraddistinguono: tridenti, spade, alabarde, lance e, spesso, un pessimo carattere. Tanto che, negli anni scorsi, spesso e volentieri le processioni delle varie corporazioni finivano con botte da orbi e una notte in cella. Tutto per decidere quale corporazione dovesse sfilare e fare il bagno per prima nei giorni favorevoli di cui sopra. Nelle tende dei vari akhara si respira comunque un’aria di festa con particolari, spesso, insolitamente leziosi: fiori, decorazioni colorate, lucine e candeline contrastano a volte in modo anche stridente con l’austerità ostentata dai Naga. Non solo: da anni ormai, tra divani con pelli di tigre, fuochi, tridenti, chilum e cenere, si vedono spuntare computer, tablet e cellulari, occhiali da sole e motociclette fiammanti. Gli asceti, Naga o Vaishanava che siano, non si fanno alcun problema né trovano contraddizioni nel coniugare tradizioni antichissime con gli ultimi ritrovati della tecnologia. Anzi, spesso si divertono come bambini nonostante l’età e l’aspetto truce. Vedere tanti asceti tutti insieme è uno dei motivi per cui molti fedeli, ma anche semplici curiosi, si recano al Kumbh Mela: è raro, difatti, trovarne tanti nello stesso posto e per tanto tempo. Si tratta infatti

di un vero e proprio esercito errante di individui, che raramente si ferma troppo a lungo in un posto e che grazie alla mortsha, una speciale carta di identità, può viaggiare gratis sui mezzi di trasporto pubblico ed è autorizzato a ricevere offerte dai fedeli. Offerte in natura, ma anche in denaro: denaro che durante il Kumbh Mela deve essere versato in parte nelle casse della corporazione per ottenere il rinnovo della mortsha per altri dodici anni. E di denaro, tra un Kumbh e l’altro, ne gira moltissimo. Specie quest’anno. Anno speciale in cui, grazie alle elezioni imminenti ma anche all’ampia copertura mediatica data all’evento da giornali e televisioni indiane, andare al Kumbh Mela è diventato di moda. Di moda tra gli indiani, per una volta, e non soltanto tra gli occidentali che da anni giravano attorno alle tende o alla Triveni per assistere a uno spettacolo che più esotico non si può. È diventato di moda tra la borghesia colta e snob di Delhi o di Mumbai che in genere trovava arcaiche per usare un eufemismo manifestazioni di questo genere. Così, il Kumbh 2019 è diventato anche il posto in cui farsi vedere e da mettere su Instagram o Twitter e da cui disquisire sull’India del futuro che non deve vergognarsi del suo passato ma coniugarlo con il suo status di prossima superpotenza. Non a caso centotrenta chilometri più in là, a Benares, culla e sintesi di tutte le contraddizioni dell’India moderna, si svolgerà la battaglia elettorale tra il premier Narendra Modi in cerca di rielezione e la neo-eletta coordinatrice del Congress per l’Uttar Pradesh: Pryianka Gandhi.


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Idee e acquisti per la settimana

Spezie sempre fresche Dando un’occhiata allo scaffale delle spezie, si nota subito che una buona parte di esse è scaduta da almeno un paio di mesi. Questo vuol dire che sia l’aroma che il colore sono praticamente svaniti. Con i nuovi stick di spezie di «Le Chef» tutto ciò fa parte del passato. I pratici tubetti sono disponibili in porzioni di ca. 5 grammi, pertanto spesso bastano per un unico utilizzo – per esempio per una zuppa. Inoltre le piccole porzioni permettono semplicemente di provare delle spezie nuove, senza necessariamente doverne acquistare grosse quantità.

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Zuppa alla citronella

Tagliare finemente della cipolla, del sedano e del porro. Far appassire il tutto nell’olio. Aggiungere un cucchiaino ciascuno di zenzero e citronella macinati, come pure una punta di coltello di curcuma, e lasciar soffriggere brevemente. Aggiungere del brodo. Lasciar cuocere per una ventina di minuti fintanto che le verdure si ammorbidiscano. Unire del

latte di cocco e lasciar sobbollire qualche istante. Ridurre la zuppa in purea con l’ausilio di un mixer ad immersione. Aggiustare di sale. Riscaldare un po’ di latte e farlo schiumare con l’aiuto di una frusta. Guarnire la zuppa con la schiuma di latte. Aggiungere qualche goccia di olio al peperoncino e cospargere con una spolverata di citronella in polvere. Servire subito.


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Politica e economia

I consuntivi sono sempre più rosei

Bilancio della Confederazione Calcoli sbagliati o troppa prudenza? Molto è dovuto alla volatilità dell’imposta

preventiva. Nei prossimi anni si dovranno comunque affrontare nuove spese importanti

Ignazio Bonoli Ancora una volta la Confederazione ha chiuso i bilanci con un avanzo d’esercizio ben superiore a quanto preventivato. Per il 2018 si prevedevano 300’000 franchi di disavanzo e, invece, si sono verificati ben 2,93 miliardi di avanzo. Globalmente le uscite sono state di 70,5 miliardi, mentre le entrate hanno superato di poco i 73,5 miliardi. Il fattore principale di questo risultato è rappresentato dalle entrate, che sono state di 2,2 miliardi superiori a quanto preventivato. Determinanti ai fini dell’eccedenza sono stati i ricavi dovuti all’imposta preventiva, per 1,6 miliardi superiori al previsto, nonché l’imposta federale diretta, il cui gettito è stato di 22,4 miliardi, invece dei 21,5 miliardi previsti. Ancora una volta il maggior incasso è dovuto alle imposte delle società, più che a quelle dei privati. Nel frattempo, la Confederazione ha deciso un accantonamento di 600 milioni di franchi per l’imposta preventiva. Infatti, una parte importante di questa imposta, prelevata alla fonte dagli istituti finanziari, viene restituita se inserita nella normale dichiarazione fiscale. Se si considera che, anche a causa della mini-amnistia federale, i capitali non dichiarati diminuiscono costantemente, si può pensare che il gettito di questa imposta al netto tenderà a diminuire nei prossimi anni. Inoltre, visti i tassi di interesse molto bassi, anche

l’imposta preventiva non sarebbe così fruttuosa, se non ci fossero i dividendi elevati delle società, grazie ai buoni risultati di un anno economico ancora buono. Al punto che il saldo di questo conto, che si compone delle entrate dell’anno in considerazione, dedotte le restituzioni degli anni precedenti (fino a tre), è ampiamente positivo. A Berna si attribuisce una buona parte del saldo agli interessi negativi prelevati dalla Banca Nazionale, che offrono una certa attrattività nel lasciare in deposito somme presso la Confederazione, per un massimo di tre anni. Un certo influsso lo ha però avuto anche la riforma fiscale negli Stati Uniti. Il tutto ha fatto sì che sul conto dell’imposta preventiva si registrassero al netto 7,7 miliardi di franchi di eccedenza. A titolo di confronto si può citare il fatto che durante gli ultimi 10 anni, prima del record del 2017, i saldi variavano fra i 2,7 e i 6,1 miliardi di franchi. Negli ultimi anni, i bilanci consuntivi della Confederazione sono quasi sempre stati migliori dei preventivi. Anche nel 2017 l’avanzo d’esercizio era stato di 2,8 miliardi, mentre il preventivo indicava un disavanzo di 250 milioni. Già nel 2015 si registravano 2,3 miliardi di maggiori entrate, invece dei 400 milioni preventivati. Ma il record assoluto era stato toccato – negli ultimi 12 anni – dai bilanci del 2008 con oltre 7 miliardi di avanzo. Per legge, gli avanzi d’esercizio vanno usati per ri-

Il ministro delle finanze Ueli Maurer può rallegrarsi: le finanze federali sono floride. (Keystone)

durre il debito. Così, per la prima volta dal 1997, il debito della Confederazione è sceso sotto i 100 miliardi di franchi, con un calo del 14%. Anche la più recente evoluzione solleva quindi due domande a livello politico: come mai si sbagliano così clamorosamente le previsioni e che cosa fare di questi soldi in più a disposizione. Secondo l’Amministrazione federa-

le delle finanze, gli errori di previsione sono inevitabili, data la forte fluttuazione delle entrate, spesso dovuta a fattori esterni. Per quanto concerne l’imposta preventiva, la si considera molto volatile e quindi di difficile previsione. Per tradizione le previsioni della Confederazione sono sempre molto prudenti, soprattutto per evitare sorprese in senso contrario a quelle più recenti e più

difficili da gestire. Così si accumulano riserve, aperte e occulte, che potrebbero servire in tempi più difficili. Lo scorso anno si è cercato di costituire accantonamenti per scopi particolari, che però si sarebbero scontrati con la legislazione in vigore, per cui si continua a ridurre il debito, con le sole eccezioni del conto dell’imposta preventiva, il cui accantonamento serve a combatterne l’estrema volatilità. Sul che cosa fare di questi soldi in più, i pareri divergono sempre molto. C’è chi vorrebbe un aiuto straordinario all’AVS. Ma c’è anche chi vede che il freno alla spesa non è più necessario o che le imposte federali potrebbero diminuire. Il Consiglio federale ha già corretto il piano finanziario, aumentando le previsioni delle entrate, ma tenendo conto anche di una crescita delle uscite che potrebbe raggiungere i 78 miliardi nel 2022. Già l’accettazione della riforma Fisco / AVS il 19 maggio provocherà un aggravio di 1,4 miliardi nel 2020. Poi sono anche previsti gli effetti della soppressione dell’imposta sulle coppie sposate (1 miliardo all’anno), nonché ulteriori riduzioni di dazi doganali (0,5 miliardi) dal 2022. A sostegno della piazza finanziaria sono previste altre riduzioni, tra cui sulle tasse sul commercio e l’emissione di titoli (1,6 miliardi). Di conseguenza, lo spazio di manovra dei prossimi tre preventivi dovrebbe situarsi tra 0,2 e 1 miliardo di franchi. Annuncio pubblicitario

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Politica e economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Importanza della divisione del lavoro La divisione del lavoro è un termine che ricorre di frequente e con significati diversi negli studi sullo sviluppo delle singole economie. Questo termine ha grande rilievo anche nelle teorie che cercano di spiegare il ritardo che certe regioni hanno , e purtroppo conservano, all’interno di sistemi regionali nazionali. Prendiamo il caso del Ticino, per non andare lontano e per non perdere l’interesse del lettore. Il Ticino, da quando esiste, ossia dal 1803 in poi, accusa un ritardo nei confronti delle economie dei Cantoni più avanzati. Quando si va a cercare quali siano le ragioni di questo ritardo ci si imbatte rapidamente in spiegazioni che fanno perno sulla divisione del lavoro, nel caso particolare sulla specializzazione della nostra economia cantonale in attività ad alta intensità di lavoro. Se esistesse una serie secolare di stime per il prodotto interno lordo del

Canton Ticino ci accorgeremmo che il tasso di crescita annuo annuale medio di questa serie è, a livello nazionale, uguale a quello del Cantone Ticino. In altre parole, nel lungo termine l’economia ticinese è cresciuta con la stessa velocità con la quale è aumentato il prodotto interno lordo della Svizzera. Se si dovesse prendere, come indicatore dello sviluppo, il Pil per occupato, invece del Pil, ci si accorgerebbe invece che il Ticino, come si è già ricordato, è sempre in ritardo rispetto alla media nazionale. Questo enigma lo può spiegare solo la divisione del lavoro all’interno del territorio nazionale. Ricordiamo dapprima che la produzione di un dato sistema economico si basa sulle prestazioni dei fattori di produzione capitale e lavoro. Un dato prodotto, o un dato servizio, possono essere ottenuti con combinazioni diverse dei due fattori di produzione.

A seconda delle tecniche applicate possiamo ottenere lo stesso risultato produttivo ricorrendo maggiormente al fattore lavoro o al fattore capitale. Questa specializzazione in uno o l’altro dei fattori di produzione la si può misurare anche a livello aggregato. Stando per esempio alle stime dei Pil cantonali del 2015, il Ticino, per ottenere un miliardo in Pil, aveva avuto bisogno delle prestazioni di 7896 lavoratori. All’economia del Canton Basilea città, invece, erano bastati 5907 lavoratori per ottenere il medesimo risultato. Di conseguenza nell’economia di Basileacittà un occupato produce un terzo in più del prodotto che riesce ad ottenere il lavoratore ticinese dalla sua prestazione. Questa differenza si spiega con la divisione del lavoro. All’interno del territorio nazionale i processi produttivi vengono distribuiti grosso modo in funzione dei vantaggi comparativi

di ogni singola regione. Vi sono regioni nelle quali abbonda il capitale e che quindi si specializzeranno nei processi produttivi ad alta intensità di capitale e con produttività superiori alla media. Le regioni invece nelle quali abbonda il lavoro sceglieranno di specializzarsi in processi produttivi ad alta intensità di lavoro e con produttività inferiori. Il risultato di questa divisione del lavoro l’abbiamo già ricordato. Pur realizzando, nel lungo termine, un tasso di crescita vicino a quello medio nazionale, l’economia ticinese non è mai riuscita ad eliminare completamente il ritardo in termini di produttività e benessere che la divide dal resto del paese. Solo in periodi di crisi e di forte diminuzione del numero degli occupati, il Ticino ha potuto recuperare parte di questo ritardo. Nelle successive fasi di espansione, e quindi di ripresa dell’immigrazione, però, il ritardo è andato di nuovo

aumentando. Attenzione, in Svizzera il Ticino non è il solo Cantone con un’economia cosiddetta «labor oriented». Tutti i Cantoni che non fanno parte delle regioni metropolitane di Basilea, Zurigo o Ginevra, o del Canton Zugo, centro di servizi finanziari con alta produttività, hanno puntato sul fattore lavoro per realizzare il loro sviluppo e denunciano quindi, in misura più o meno grande, un ritardo nei confronti del Pil per occupato dei Cantoni urbani. Attenzione ancora: la divisione territoriale del lavoro è una struttura rigida, difficile da modificare. È quindi quasi certo che l’adesione del Ticino alla «Zürich Metropolitan Area» non basterà né per modificare la situazione in materia di vantaggi comparativi della sua economia, né quindi ad eliminare il ritardo della stessa rispetto a quella dei Cantoni nei quali si situano le metropoli.

sente un punto importante: non siamo solo un mercato unico. Cioè, il mercato unico è già una cosa grande: chiedete agli inglesi cosa ne pensano ora che provano a staccarsi e saranno costretti, nel migliore dei casi, a replicare quasi in toto una struttura simile a quella comunitaria (e sugli inglesi, la loro impreparazione, le alternative che non c’erano Macron ha insistito parecchio: non c’è nulla di dimostrativo dell’europeismo della Brexit). Per Macron però c’è un grande opportunismo nel voler vedere l’Unione europea soltanto come un affare commerciale: siamo molto di più, dice, e si rivolge in particolare all’est del continente, sempre più riottoso nei confronti di Bruxelles e dell’occidente. La querelle che si è aperta con l’Ungheria ne è il simbolo: il premier di Budapest, Viktor Orban, sta facendo campagna elettorale per le Europee accusando direttamente i suoi colleghi di partito europeo (i popolari), con cui non condivide nulla se non appunto la famiglia (che si dà il caso essere quella

che, nonostante il calo, con tutta probabilità resterà la più grande al Parlamento europeo). I fondi europei e gli scambi commerciali vanno bene, dice Budapest, tutto il resto no. Con evoluzioni retoriche degne di nota – leggere i commenti sul liberalismo, per esempio – l’est recalcitrante non immagina più un’integrazione politica, anzi la rifugge, come già ha fatto il Regno Unito. Macron al contrario insiste sulla condivisione di valore, oltre che di una valuta e di un mercato. E cerca anche di fare un passo ulteriore, che riguarda il cambiamento: il presidente francese non vuole che la sua offerta, liberale ed europeista, finisca per restare appiccicata allo status quo. È così che sta andando, perché i partiti anti sistema si sono intestati anche le battaglie per il cambiamento, per quanto siano in realtà proiettati spesso a una restaurazione del passato più che a una rivoluzione per il futuro. Ma se sei liberale ed europeista oggi sembri un custode dello status quo: Macron prova a ribellarsi, propone nuovi cantieri e

nuove modalità di dialogo, ma se c’è una debolezza in questa parte della barricata è proprio qui. Macron, assieme ad Angela Merkel e a molti paesi del nord, vuole rimettere in ordine l’Europa e magari, dato che c’è, anche il mondo occidentale, ma l’ordine prestabilito sa, per sua natura, di status quo. Per districarsi, è necessario ripercorrere i vantaggi della vita europea, ricordare che il progetto comunitario è sicurezza e protezione, non un nemico da cui scappare ma un rifugio sotto cui accomodarsi. Libertà, protezione, progresso: sono queste le parole chiave dell’Europa che verrà, «superando i tabù dei trattati» azzarda addirittura Macron, creando un mal di testa improvviso prima di tutto in Francia – che sui trattati si spaccò in tanti pezzi – ma anche in altre parti dell’Ue. Ma questa delle riforme interne è l’unica strada per poter dire: anche noi vogliamo un cambiamento. Che sia ordinato però, e che a prendere in mano il proprio destino non sia un popolo alla volta, ma tutti insieme, gli europei.

il loro paese nel corso dei secoli, oggi affrontano una realtà nuova, particolarmente funesta. Sono estremamente preoccupato, sia per gli ebrei francesi sia per il futuro della Francia, perché l’antisemitismo che stiamo vivendo ora in Francia è il peggiore che abbia mai visto in vita mia, e sono convinto che sia destinato a peggiorare». Dopo che il primo episodio, forse per salvaguardare la natura popolare dell’insurrezione dei «gilets», è stato relativizzato lasciando intuire una componente di antisemitismo islamico radicale, ecco che anche l’antisemitismo di estrema destra compie un passo in avanti: la frangia neonazista dei «Lupi neri alsaziani» che rivendica separatismo da Parigi, si è illustrata imbrattando molte tombe di un cimitero ebraico a Quantzenheim. Tra i due avvenimenti uno strano legame: l’unico «gilet giallo» fermato dalla polizia parigina, quello che ha inveito con maggior violenza contro Finkielkraut, un commerciante convertito all’islam, risiede in Alsazia, a Mulhouse. Colle-

gamento solo casuale? A dare maggior peso all’interrogativo ha contribuito anche il presidente Macron che, pur condannando l’«escalation» antisemita, ha praticamente ignorato i legami con l’irridentismo alsaziano anche dopo un terzo episodio che ha gravemente penalizzato un canale televisivo di stato e la libertà di stampa. Infatti, mentre stava trasmettendo l’arrivo di Emmanuel Macron al cimitero ebraico di Quantzenheim in diretta su Facebook – in «streaming», come ormai anche da noi riescono a fare i maggiori operatori mediatici – l’emittente France 3 Alsace è stata costretta a interrompere il servizio. A lato delle immagini, il suo sito stava infatti diffondendo incredibili commenti di odio e di antisemitismo, trasmessi in diretta con le immagini della visita presidenziale, prima che i dirigenti della rete televisiva si accorgessero e bloccassero i veleni degli odiatori seriali. Alle scuse, France 3 ha aggiunto questa motivazione: «Noi rifiutiamo di veicolare odio diffondendo commenti che sono il frutto marcio di una

comunità di internauti (…) Questa forse non è la fine del mondo, ma è di sicuro un arretramento della democrazia». Hanno altresì spiegato che la decisione era stata presa dopo che i due giornalisti preposti al controllo dei commenti alla trasmissione inviati a Facebook erano stati sommersi da una valanga di «Heil Hitler» e di «Sporchi ebrei», accompagnati da esplicite minacce di morte e da commenti razzisti. A scrivere la nuova ripugnante pagina contro gli ebrei francesi, accanto all’antisemitismo islamico radicale e a quello degli estremismi politici, troviamo così anche l’antisemitismo via social media. Certo, sopprimere una trasmissione televisiva «non è la fine del mondo». Tuttavia l’episodio, incomprensibilmente relativizzato dal «mainstream» mediatico, fa planare inquietanti interrogativi sull’uso dei nuovi media e ricorda alle autorità che dovrebbero cercare e risanare le fonti dei veleni, piuttosto che occuparsi sempre e solo di tariffe o di infrastrutture delle nuove tecnologie.

Affari esteri di Paola Peduzzi Rinascimento europeo Fieri e lucidi, ha detto Emmanuel Macron (foto), dobbiamo costruire un «rinascimento europeo», rilanciare il progetto che ci ha tenuti insieme e in pace e prosperi per settant’anni e che ora rischia di crollare. Il presidente francese ha ripreso il suo europeismo dove lo aveva lasciato nel 2017, il suo anno magico, un anno magico per tutto il continente, dopo lo shock del 2016 – la Brexit e Trump – e prima del 2018, anno dell’inversione populista trainata dal

governo italiano gialloverde. Allora Macron aveva delineato l’Europa del nuovo millennio nel discorso alla Sorbona, democrazia, unità, riforme, una prospettiva che si sposava con le aspettative rosee dell’economia che avrebbe dovuto, nel 2018, recuperare forza e creare quell’allineamento delle stelle che affascinava persino i gelidi economisti. Sappiamo come è andata, e sappiamo anche che, di scossone in scossone, la Francia ha perso il suo slancio da guida e si è inabissata nei suoi guai in gilet giallo, perdendo di vista i propri cantieri di riforma e quello più grande, quello europeo. Con la Brexit alle porte – dai tempi ancora ballerini – e il continuo scontro tra chi ambisce a un’Europa delle nazioni e chi insiste sulla necessità di una integrazione politica decisa e condivisa, Macron cerca di scrollarsi di dosso critiche e perdita di consenso e a pensare in grande. Nella sua lettera agli europei dedicata al «Rinascimento» che ci aspetta, il presidente francese fa pre-

Zig-Zag di Ovidio Biffi Cocktail di veleni e vergogne Avrete letto o sentito cronache e commenti (magari quello di Paola Peduzzi su questo giornale) riguardanti la tristissima ondata di antisemitismo riversatasi sulla Francia, una sorta di cancro che l’intero Occidente si porta dietro dall’antichità e che ogni tanto «regala» metastasi un po’ ovunque. Anche se non esistono cifre sulla reale consistenza e sulla reale pericolosità di questi gruppi antisemiti, a chiarire meglio quanto sta succedendo (e purtroppo da diversi anni) in Europa, basterebbe questo dato: lo scorso anno almeno 2700 persone di religione ebraica hanno scelto di abbandonare la Francia. Quindi oltre 220 ebrei al mese, in maggioranza verso Israele, fuggono percorrendo la rotta inversa rispetto a chi, da Medio Oriente e Africa, arriva profugo in Europa sui famigerati barconi. Causa principale del moderno esodo? La paura per le violenze dell’antisemitismo; non solo perché sovente rimangono impunite e i colpevoli la fanno franca, ma anche perché sono aumentate del 75% nel corso degli ultimi 24 mesi.

Era inevitabile che l’avversione e l’odio contro gli ebrei si manifestassero anche fra i «gilets jaunes», il movimento che da mesi imperterrito manifesta rabbia contro le élite politiche, convogliando il livore di tante frange della popolazione e sfruttando tolleranza, ignavia e anche una complessa componente di paura delle autorità francesi. Un gruppo di questi manifestanti che aveva incrociato per le strade parigine il filosofo Alain Finkielkraut lo ha fatto oggetto di epiteti spinti sino alle minacce di morte, da «Buttati nel canale, Finkie» al populistico e patriottico «Siamo noi il popolo (...) La Francia è nostra», il tutto praticamente diffuso in diretta dai social media. Finkielkraut dopo l’attacco diretto contro la sua persona ha confessato di aver avuto paura, ma oltre a ringraziare la polizia per la protezione, non ha aggiunto parole di condanna. Ricordo però che un anno fa aveva già espresso queste preoccupazioni all’inviato del quotidiano «Times of Israel»: «Se gli ebrei, in Francia, hanno avuto a lungo un rapporto teso, a volte doloroso, con


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 marzo 2019 • N. 11

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Cultura e Spettacoli Un nuovo re per il rap Il milanese Lazza ha appena dato alle stampe il suo secondo lavoro, Re Mida

Il pianoforte secondo Hersch A colloquio con il geniale musicista statunitense Fred Hersch, che sarà artist in residence a Chiasso, ospite del Festival Jazz

I fiori e i morti Il lavoro del fotografo Roberto Donetta testimonia il culto dei morti nei nostri antenati pagina 42

pagina 41

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Surrealismo: la declinazione elvetica Mostre A Lugano una retrospettiva

sulla realtà svizzera del grande movimento d’avanguardia

Alessia Brughera Nel 1924, a Parigi, André Breton, poeta, scrittore e medico psichiatra, redige e pubblica sulla rivista «Littérature» il Manifesto del Surrealismo suggellando la nascita ufficiale di questo movimento. Profondo conoscitore delle teorie freudiane, Breton assume nelle proprie dottrine estetiche la psicoanalisi, intuendone le grandi potenzialità nell’aprire un varco verso territori che l’arte non aveva ancora perlustrato. Incentrata sull’indagine dei più reconditi luoghi dell’io, la corrente surrealista crea da subito un linguaggio di rottura in grado di trasporre nella pittura e nella scultura, ma anche nel cinema, nella letteratura e nella poesia, le inquietudini e i desideri dell’uomo che attraverso l’inconscio dà libero sfogo alle proprie pulsioni. È appunto l’inconscio a essere considerato dai surrealisti la vera dimensione dell’esistenza a cui l’arte deve accedere, avendo in comune con esso la capacità di esprimersi per immagini, come accade nel sogno, una delle manifestazioni in cui la psiche si rivela. Ecco allora che i surrealisti attingono il loro repertorio dall’universo onirico non per interpretarlo, bensì per riviverlo esteticamente, dando vita a opere che sono esse stesse creazioni scaturite dalla visione. Nella più totale disinvoltura tecnica e nel rifiuto di codici stilistici predefiniti, gli artisti realizzano lavori formalmente differenti fra loro, in piena adesione allo spirito polimorfo della corrente. Se la Ville Lumière è stata il centro nevralgico del Surrealismo, quanto questo movimento abbia costituito un capitolo rilevante anche nella storia artistica del territorio elvetico ci viene raccontato dalla retrospettiva ospitata nelle sale del Museo d’arte della Svizzera italiana a Lugano. A essere indagate nella rassegna sono le tante figure legate al nostro Paese che con modalità e intenti diversi hanno partecipato alla grande avventura surrealista, da chi ne ha pionieri-

sticamente anticipato le suggestioni, come Hans Arp e Paul Klee, a chi ne ha respirato a fondo l’anima affiliandosi al gruppo parigino, come Alberto Giacometti, Gérard Vulliamy, Serge Brignoni o Meret Oppenheim, per arrivare a chi ne ha colto e rielaborato il lessico espressivo rimanendo perlopiù in patria, come Otto Abt, Max von Moos, Walter J. Moeschlin o Werner Schaad, solo per anticipare qualche nome. Sebbene meno noti rispetto ai connazionali a Parigi, gli artisti attivi in Svizzera si adoperano molto per propagare i principi surrealisti nel Paese: vocazione condivisa è quella di contrastare con la propria arte il conservatorismo imperante nel panorama elvetico degli anni tra le due guerre, grazie anche all’impegno da loro profuso nel dare vita ad associazioni progressiste, quali il Gruppe 33 di Basilea e l’Allianz, fondata a Zurigo nel 1937, con lo scopo di sostenere il singolo attraverso il sodalizio. Obiettivo della mostra luganese è dar conto del fervido e multiforme scenario surrealista svizzero seguendo un approccio che prende le distanze dalla volontà di semplificare o etichettare rigidamente gli esiti degli artisti che hanno sfruttato le rivoluzionarie conquiste di questo movimento. Tanto più che la peculiarità dello stesso Surrealismo è l’essere difficilmente riconducibile a un lessico specifico, contraddistinto com’è da un’attitudine comune a tutti i suoi esponenti piuttosto che da tratti stilistici e formali generalizzati. In questo «grande amalgama», come viene definito il Surrealismo rossocrociato nel testo che lo storico dell’arte Peter Fischer scrive in catalogo, si riconoscono sì le tematiche chiave della corrente parigina – dall’automatismo alla casualità, dall’intuizione alla visione, dal sogno al desiderio – ma si evince con chiarezza quanto questi soggetti vengano recepiti dagli artisti elvetici in maniera non dogmatica e rielaborati in modo totalmente autonomo.

Serge Brignoni, Germinations, 1937, Kunsthaus Zurigo. (Kunsthaus Zürich)

La libertà con cui gli svizzeri accolgono le teorie di Breton è già ben evidente nelle opere di quei maestri che si avvicinano al Surrealismo proprio a Parigi, entrando a far parte della cerchia del fondatore del movimento. Alberto Giacometti, ad esempio, nella capitale francese crea le sue prime sculture oniriche con un codice espressivo che coniuga lirismo, astrazione e simbolismo (Fiore in pericolo, del 1932, ne è una testimonianza); Serge Brignoni, pittore nato in Ticino e cresciuto a Berna, approda a un caratteristico surrealismo metamorfico generato dalla contaminazione con il Cubismo, la Metafisica e l’arte primitiva; Kurt Seligmann, nato a Basilea e diventato nel 1935 marito della nipote del potente gallerista Georges Wildenstein, realizza composizioni in cui chimerici esseri dalle forme fluide galleggiano in spazi carichi di magia. Tra gli autori più interessanti che portano avanti il proprio linguaggio

surrealista principalmente in Svizzera incontriamo, nel percorso espositivo, il pittore basilese Walter Kurt Wiemken, i cui dipinti rappresentano una realtà quasi grottesca, figlia di utopie che fanno i conti con i cupi presagi della guerra. Troviamo Werner Schaad, artista di Sciaffusa (le cui opere vengono poco comprese in patria perché tacciate come eccessive) che lavora riflettendo sulle atmosfere magrittiane per dare vita a dipinti popolati da creature immerse in scenari inquietanti, come nelle emblematiche tele Uomini e poteri, del 1930, e Sugli abissi, dell’anno successivo. Troviamo anche Ernst Maass, pittore di Berlino che vive come rifugiato tra l’Italia e la Svizzera e che con la sua nitida pittura influenzata da Dalì delinea mondi sospesi nella luce di poetici crepuscoli, metafora del precario equilibrio dell’esistenza umana. È poi presente il bernese Otto Tschumi, estroso artista sedotto dall’incoerente e dall’enig-

matico che stravolge corpi e oggetti apparentemente ordinari per rivelarne l’inaspettato lato incomprensibile. E c’è, ancora, Max von Moos, pittore di Lucerna che poco si relaziona con i rappresentanti parigini del movimento maturando così una peculiare interpretazione del linguaggio surrealista (belle in mostra le sue Danzatrici pietrificate), identificata, non a torto, come una delle più efficaci all’interno di quella vivacità elvetica che ha saputo sfidare il tradizionalismo della politica culturale ufficiale in nome del sogno e della fantasia. Dove e quando

Surrealismo Svizzera. Museo d’arte della Svizzera italiana, Lugano – sede LAC Lugano Arte e Cultura. Fino al 16 giugno 2019. Orari: ma-do 10.0018.00; gio aperto fino alle 20,00; lu chiuso. www.masilugano.ch; www. luganolac.ch


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 marzo 2019 • N. 11

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Cultura e Spettacoli

Un 22 luglio di follia Netflix La terribile

strage di civili in Norvegia

Lazza, re pianista

Musica È uscito Re Mida, il secondo disco di Lazza (al secolo Jacopo Lazzarini),

rapper milanese che si è diplomato al conservatorio

Alessandro Panelli

Tommaso Naccari

Il film, tratto dal libro Uno di noi – La storia di Anders Breivik della norvegese Asne Seierstad, racconta la vera storia di Breivik e del processo da lui subìto dopo il doppio attentato terroristico di Oslo e dell’isola di Utoya che il 22 luglio 2011 provocò settantasette morti e centinaia di feriti. La regia è di Paul Greengrass (Captain Philips, Jason Bourne). Il film inizia con la costruzione della bomba da parte di Breivik (Anders Danielsen Lie) e con una breve presentazione degli altri personaggi principali. La scena dell’attentato è fra le prime. Ho apprezzato molto questa scelta perché il film si basa sui postumi fisici e mentali della tragedia, e i personaggi li conosciamo solamente dopo l’attentato. Questo evita banalità e mette subito lo spettatore sull’attenti. La regia ha un tocco documentaristico. L’intera pellicola è girata con una camera a mano, senza alcuna carrellata o inquadratura statica, dando un’impronta realistica al film. Greengrass non propone una visione dalla componente spettacolare e lascia poco spazio a una fotografia che avrebbe potuto sfruttare meglio i magnifici paesaggi della Norvegia. I personaggi sono delineati piuttosto bene: ognuno ha vissuto un’esperienza diversa e al momento del processo solleva dei temi rilevanti. Significativo il caso della ragazza immigrata che dopo l’attentato è attanagliata dalla paura o del giovane che non si abbatte nonostante la cecità dovuta a frammenti di bomba ancora presenti nel cervello. Tuttavia il grande protagonista dell’opera è Breivik. Fino all’arresto non lo sentiamo parlare, vediamo solo il suo volto vuoto e privo di emozioni, ma determinato a compiere un progetto pianificato per nove lunghissimi anni. Lo spettatore vuole conoscere Breivik, perché inizialmente non sa nulla di lui. Poco a poco si scoprono sempre più dettagli su di lui: la sua personalità emerge, incutendo timore. Breivik ha un’elevata capacità oratoria e il tribunale diventa il palcoscenico per le sue ideologie. Egli è un uomo capace di mettere alle strette gli altri senza consentire vie d’uscita. Un vero mostro. 22 luglio non è un’opera priva di difetti ma riesce nel suo intento di raccontare una storia tragica, commuovendoci e mettendo alla prova il nostro senso della giustizia. Nella scena del processo in cui la polizia si rivolge ad Anders in modo fastidiosamente tranquillo, dandogli tempo, ascoltandolo e facendolo parlare, quando pochi istanti prima lo abbiamo visto uccidere una colonia di ragazzi innocenti, è difficile non provare odio. Ma l’odio istintivo e animale che alberga in noi non fa altro che annebbiare i valori sociali su cui basano le nostre evolute società democratiche.

«Zzala è un iconoclasta». Mentre mi appropinquo a scrivere le prime impressioni su Re Mida, il secondo disco ufficiale di Lazza, al secolo Jacopo Lazzarini, mi risuona in testa questa barra, estratta proprio da uno dei singoli del suo nuovo disco Netflix. La voglia di distruggere le «icone» – dove per icone si intendono i mostri sacri che venivano prima, al di là del genere – è tipica del rap: i Club Dogo non erano come I Colle o come Fibra, Achille Lauro e la Dark Polo Gang arrivavano a dire addirittura di «non essere rap». Eppure, per chi questa cosa la conosce (non solo come ascoltatore, ma anche come esecutore, penso a Bassi Maestro) Lazza è al 100% rap. Quindi: perché non è così assurdo definirlo iconoclasta? In un’intervista che abbiamo realizzato proprio per questo disco, mi sono complimentato con lui per essere riuscito a dare un’immagine ancora inedita di sé nel disco, unendo la nuova scuola e la «vecchia», con nomi tipo Fibra, Luché e Gué Pequeno che si alternano a Tedua e IZI. Eppure, è strano che un ragazzo di 25 anni, che canonicamente dovrebbe far parte della nuova scuola, funga da collante. In un rap che oggi mette la melodia al primo posto, infatti, Lazza riesce a distruggere «un’icona» che oggi è fin troppo ricorrente e che suona uno slogan quasi politico: prima la melodia. Un ragazzo che si avvicina oggi al rap si avvicina al genere più popolare d’Italia, non ha nulla da costruire, né un senso di appartenenza, è musica, è melodia, è intrattenimento ed esercizio di stile. E questa cosa va benissimo. Quella del rap, però, rimane pur sempre una tradizione di parola, che non vuol dire essere un professore e scambiare il microfono per cattedra o

La locandina di 22 luglio, realizzato da Greengrass per Netflix. (Wikipedia)

Lazza, al secolo Jacopo Lazzarini, classe 1994. (Universal Music/Island Records)

pulpito, ma vuol dire saper stupire con l’uso della parola chi ti ascolta. Ecco, se Bartezzaghi si mettesse a scrivere testi rap forse sarei felice. Netflix lo dimostra, ma non è l’unico caso, in Lazza abbiamo trovato la perfetta sintesi per far sì che melodia e parola non sembrino nemici, ma che possano risultare alle orecchie di chi

è più giovane, due amici di lunga data che possono andare a braccetto. E l’essere iconoclasta di Lazza si evince persino dal suo prendere i normali simboli del bragging – in italiano l’atto di vantarsi – del genere e renderli carta straccia. La titletrack, per esempio, parte con «Faremo un pic-nic sulla mia camicia Burberry», che oltre a es-

sere un intelligente gioco con la trama del famoso marchio è anche l’annullamento del bene materiale in favore del bene dell’io, inteso come anima – che ci crediate o meno. E lo fa mantenendo un registro molto basso, popolare, come ci ricorda qualche barra dopo «Mi auguro che tua madre ti libera / Sbaglio i congiuntivi, ho la licenza poetica», dove la poesia, di nuovo, da essere uno status «alto» diventa qualcosa che si può incontrare nella nefandezza della strada. In tutto questo, però, Lazza distrugge senza dimenticare: sono numerose le citazioni a L’Odio, vero mantra della cultura e narrativa Hip Hop, ma numerose anche le citazioni alla cultura italiana, riprendendo ancora una volta un famoso cliché rap del «se fossi nato in America…»: «Io non mi sento italiano / Ma per fortuna o purtroppo lo sono come Gaber (ehi)». In definitiva Re Mida è un prodotto pop, sia nella concezione di famoso che di popolare come del popolo, perché non perde gli stilemi che hanno fatto sì che Lazza prima si innamorasse di questo gioco e poi diventasse lo Zzala che tutti conosciamo, dal primo disco fino al secondogenito che, se lo consacrasse, non sarebbe una sorpresa. Senza essere vittima dell’hype, come denuncia in Box Logo, Jacopo ci mette addosso una sincera curiosità di come verrà gestito e recepito un prodotto potenzialmente così potente. Un bel percorso di maturità, che mostra l’evoluzione di un personaggio genuinamente zarro, che dapprima ci aveva consegnato un disco compatto e poco vario e oggi invece ci presenta una palette di colori ampissima. D’altronde, che la melodia la sappia usare al meglio chi conosce a menadito i tasti di un pianoforte, può stupire solo chi non conosce Lazza appieno, e c’è sempre tempo per rimediare. Annuncio pubblicitario

La letteratura in una casa

Letteratura Il Percento culturale Migros

sostiene la Casa della letteratura di Lugano Presto ce l’avrà anche Lugano. Sull’esempio di quelle di Zurigo o Basilea, anche il Ticino, o meglio, la Svizzera italiana, avrà la propria Casa della letteratura, un luogo votato all’arte della scrittura, allo scambio fra culture e scritture diverse, alla scoperta e all’incontro. Anche se l’inaugurazione ufficiale avverrà solamente alla fine del mese di marzo (ritorneremo più dettagliatamente su questa nuova iniziativa culturale), sono diversi i testimonial che hanno prestato la propria voce e il proprio volto al sostegno della Casa. Vincitrici e vincitori di premi letterari, organizzatrici e organizzatori di festival, poetesse e poeti, scrittrici e scrittori sono scesi in campo per esprimere la propria soddisfazione nei confronti di un’iniziativa attesa da anni. Anche il Percento culturale Migros, che ha fatto del sostegno alla cultura nelle sue più svariate forme il proprio mandato e la propria vocazione, affermandosi così come uno dei più importanti partner di innumerevoli iniziative sia a livello nazionale sia cantonale, ha deciso di sostenere il progetto della Casa della Letteratura. Grazie alla lungimiranza di Yeboaa Ofosu, responsabile della letteratura al Percento culturale della Federazione delle coo-

Per il Dipartimento Marketing, presso gli uffici amministrativi della Centrale di S. Antonino, cerchiamo una collaboratrice o un collaboratore

Assistente responsabile qualità Data d’inizio – Da convenire

L’elegante Villa Saroli di Lugano ospiterà la Casa della letteratura.

perative Migros, la Casa della letteratura della Svizzera italiana ha potuto godere di un sostegno di 12’000 franchi. Ora, agli appassionati di romanzi e poesie, di saggi e di parole in genere, non resta che tenere a bada la curiosità ancora per qualche settimana, cioè fino a quando il sito della neonata istituzione culturale (situata nella suggestiva Villa Saroli) rivelerà finalmente i propri assi nella manica, offrendo momenti aggregativi e di conoscenza che sapranno – si spera – essere d’ispirazione a tutti gli amanti del genere. / Red.

Requisiti professionali – Bachelor of Science BFH in Tecnologia alimentare con orientamento o esperienza equivalente in ambito di qualità e sicurezza alimentare – Padronanza della lingua italiana – La conoscenza della lingua tedesca e/o francese, parlata e scritta costituisce requisito indispensabile Competenze personali – Spiccate capacità organizzative – Autonomia e spirito di iniziativa – Buone doti di comunicazione e attitudine al lavoro in team Mansioni – Controllare la qualità in materia di sicurezza alimentare nel rispetto delle disposizioni di legge ed interne nei servizi della centrale/filiale – Creazione delle dichiarazioni per le produzioni interne – Effettuare prelievi ed ispezioni nei nostri punti di vendita – Aggiornare direttive e manuale di autocontrollo interno – Collaborare alla realizzazione e implementazione di progetti Le persone interessate sono invitate a compilare la loro candidatura in forma elettronica, collegandosi al sito www.migrosticino.ch, sezione «Lavora con noi» – «Posti disponibili», includendo la scansione dei certificati d’uso.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 marzo 2019 • N. 11

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Cultura e Spettacoli

Un residente da Grammy, Fred Hersch

Intervista/1 Al Festival di Chiasso (dal 14 al 16 marzo) un programma originale

e di richiamo, in cui si inserisce, con tre concerti, uno dei maggiori pianisti oggi in attività Alessandro Zanoli Per la seconda volta il Festival Jazz di Chiasso offrirà al suo pubblico un’originale proposta artistica. Dopo l’esperienza compiuta lo scorso anno con la «residence» di tre giorni affidata al pianista israeliano Shai Maestro, quest’anno, nell’edizione intitolata «Segni di jazz», a raccogliere il testimone sarà Fred Hersch, uno dei solisti in attività più quotati e apprezzati. Ognuno dei suoi dischi recenti non ha mancato, si può dire, la Nomination ai Grammy, e questo non è certamente molto frequente. A Chiasso potremo seguirlo in un crescendo che lo vedrà sul palco giovedì 14 marzo da solista; poi venerdì 15 in duo con lo straordinario pianista e compositore inglese Gwilym Simcock. Sabato 16, come coronamento di una progressione incredibile, Hersch salirà sul palco con due fuoriclasse come Drew Gress e Joey Baron. Mr. Hersch, come interpreterà il concetto di «residenza artistica» a Chiasso? È la prima volta che riceve un’offerta di questo tipo?

Il prossimo mese di maggio segnerà il tredicesimo anno in cui sono chiamato alle «Duo Invitation Series» al locale Jazz Standards di New York. Si tratta di una serie di concerti in cui invito un partner diverso ogni sera: comprese alcune ripetizioni mi capita quindi di suonare con oltre quaranta diversi ospi-

ti. Sempre quest’anno, in aprile, la serie sarà organizzata anche sulla West Coast: prevede una mia serata da solista e una serata in duo con vari musicisti, tra cui, tra gli altri, Charles Lloyd. Quindi questo concetto «carte blanche» è una proposta che mi vedo rivolgere spesso. Mi piace molto l’idea di suonare con artisti che ammiro, e vedere cosa succede quando siamo sul palco. Siamo curiosi di sapere se ci sarà un pensiero musicale strutturato che attraverserà i tre set...

No, saranno tre concerti completamente diversi, nessun collegamento tematico tra le serate.

Parliamo del concerto in dimensione solistica.

Credo di aver registrato più album da solista che in duo o in trio, anche se, guardando i numeri, siamo più o meno lì. Quando suono da solista, invece di interagire con i musicisti della formazione, cerco di interagire con il pianoforte stesso, con l’acustica della sala in cui sto suonando e con i pezzi particolari che ho scelto. C’è sempre un equilibrio che va ricercato tra libertà esecutiva e focus organizzativo del pezzo. Quindi per me un concerto in solo è come programmare un pranzo in cui armonizzare differenti stati d’animo, tonalità, contrasti tra approcci ed emozioni. Nonostante possa affrontare e interpretare alcuni pezzi nella stessa maniera di volta in volta, secondo l’evoluzione che hanno avuto, i dettagli sono sempre diversi e

Il programma di «Segni di jazz» Dopo la serata anteprima andata in scena a Como lo scorso 2 marzo, il Festival di Chiasso aprirà i battenti al Cinema Teatro di Chiasso giovedì 14 marzo con il concerto solista di Fred Hersch (ore 20.45), seguito dall’attesa performance della nuova stella del jazz francese, Camille Bertault (22.30). Venerdì 15 grande momento in prima serata per il concerto solo del percussionista Trilok Gurtu (ore 20.45), mentre alle 22.30 l’ottima band di Michael Fleiner proporrà il suo repertorio latino (vedi articolo a lato);

alle 24.00 secondo appuntamento con Fred Hersch, in duo con il fuoriclasse britannico Gwilym Simcock. Sabato 15 marzo, infine, Hersch avrà l’onore del concerto d’apertura (ore 20.45) con un trio formidabile, di cui fanno parte Drew Gress al contrabbasso e Joey Baron alla batteria. Grande esplosione di energia invece alle 22.30 per il concerto di una delle band storiche della fusion internazionale, gli Incognito. Come di consueto, le tre serate saranno animate da Dj Set e da momenti «After». Info: www.centroculturalechiasso.ch

È nato a Cincinnati nel 1951. (fredhersch.com)

voglio usare il materiale come base per una storia musicale.

Per ciò che riguarda la seconda serata della «residence», il duetto che intratterrà con il pianista Gwilym Simcock è una prima assoluta.

Non ho mai suonato con Gwilym. Sono un suo ammiratore e gli ho scritto una email, circa un anno fa, per iniziare una corrispondenza e un’amicizia. Mi piace molto il set con due pianoforti, anche se può essere un po’ rischioso, specialmente se uno dei due tende a suonare «troppo». Bisogna sempre tenere a mente che, in quel contesto, si è soltanto la metà di un suono complessivo e occorre comportarsi di conseguenza. Suoneremo alcuni miei brani, alcune delle sue composizioni e qualche pezzo di uno dei nostri eroi, di cui condividiamo la passione, Kenny Wheeler. Il concerto in trio di sabato avrà una formazione diversa da quella che abbiamo ascoltato nel 2017, a Chiasso.

Ho suonato con Drew Gress per più di 15 anni, all’inizio con Tom Rainey alla batteria e poi con Nasheet Waits. Joey Baron ha suonato nei miei primi dischi in trio (Horizons, con Marc Johnson e Sarabande, con Charlie Haden). Con Marc Johnson, tra l’altro, Joey ed io abbiamo suonato per anni quale sezione ritmica di Toots Thielemans. Più di recente ho suonato con Drew in un trio, con Billy Hart alla batteria, ma con Joey sono più di 25 anni che non suoniamo. Abbiamo condiviso un lungo periodo

di storia, possiamo dire, ma nonostante ciò non abbiamo mai sperimentato questa formazione particolare. Mi aspetto che sia un’occasione eccezionale e di grande divertimento. Negli ultimi anni i suoi dischi hanno avuto un successo straordinario. Cambia qualcosa questo nel suo modo di affrontare la musica?

L’unica cosa che posso fare è continuare a «rendere le cose semplici». Non mi aiuta guardarmi intorno e confrontare quello che suono con ciò che propongono i molti altri pianisti che sono in attività oggi. Ho seguito un’evoluzione, nel bene e nel male, ho maturato uno stile molto personale a cui ho lavorato per quarant’anni. Ricevere i premi e diventare popolare è molto gratificante, così da poter suonare nei migliori festival e nelle sale più belle, ma attribuisco questo successo al volermi mantenere il più possibile aderente a quello che faccio e nel cercare di farlo sempre al meglio delle mie possibilità. Voglio che il pubblico sia toccato dalla mia musica, che si diverta e mi dia fiducia, lasciandosi accompagnare in un viaggio musicale piacevole a ogni concerto. Essere semplice non vuol dire suonare in modo facile. Devo suonare ogni frase in collegamento coerente con la seguente, devo rimanere connesso con il mio suono, con il ritmo e il brano che sto suonando: normalmente quando questo mi riesce, il risultato è garantito e sgorga spontaneamente.

Lo svizzero col cuore latino Intervista/2 Michael

Fleiner e il suo Septeto Internacional Anima latina e controllo del tempo elvetico: il concetto musicale di Michael Fleiner è uno dei più originali ed affascinanti che possa capitare di ascoltare. Le sue partiture nascono da intuizioni concettuali basate sulle proprietà dei numeri e vengono armonizzate con timbri e ritmi tipici della musica sudamericana. Il risultato è veramente strabiliante e gli ha meritato il soprannome di «matematico del latin-jazz». Il suo ultimo disco si intitola molto allusivamente Me gusta el siete: «L’album prende il nome da uno dei brani, che è scritto in 7/4» ci spiega. «Si tratta di un ritmo molto raro nella musica latinoamericana, ma a me piace proprio. Così come mi piacciono i pezzi in 5/4. Il titolo del disco allude alla mia passione per i tempi dispari». Con questa sua ricerca Fleiner cerca di trovare nuovi schemi e nuove vie di sviluppo creativo. «Devo dire che sono molto contento che la mia musica piaccia tanto in America Latina. Abbiamo avuto un ottimo successo e questo è per me un grande riconoscimento». In particolare va segnalata la presenza nel suo gruppo di un eccezionale trombettista, Juan Munguía. «È venuto con noi la prima volta per incidere il mio album Tumbando lo habitual, nel 2014. Da allora abbiamo fatto più di 40 concerti con lui in Messico, Colombia, Suriname, Guyana, Ungheria, Svizzera, Italia. È una enciclopedia del latin jazz! Gli sono davvero grato perché apprezza molto la mia musica». /AZ

Sul sito web di Fleiner, alcuni video illustrano la sua tecnica. (septeto.net)

In scena, tre sorelle senza parole

Teatro Tre sorelle, il capolavoro di Anton Čechov, approda allo Schiffbau di Zurigo in una versione

fuori dagli schemi; invece dei dialoghi, la comunicazione tra i personaggi è affidata alla lingua dei segni Marinella Polli Unitamente a Il gabbiano, Zio Vanja e Il giardino dei ciliegi, Le tre sorelle di Anton Čechov è certamente uno dei drammi chiave del Novecento, non da ultimo anche perché è una perfetta radiografia di un’epoca e di un Paese che stava scomparendo; fu infatti scritto proprio nel 1900 e messo in scena per la prima volta nel 1901, date immediatamente considerabili emblematiche di un nuovo inizio. Nel tipico linguaggio di quell’arguto fotografo di anime che è Čechov, ovvero un linguaggio fatto di ilarità e angoscia, di commedia e di tragedia a un tempo, si incrociano qui storie e personaggi sullo sfondo di una mondanità all’apparenza appagata, ma gretta e provinciale, dietro la cui facciata si celano piccoli rituali quotidiani, meschine ipocrisie, sogni infranti e speranze disattese, fallimenti, frustra-

zioni, dolori e insoddisfazioni di varia natura. La storia è quella nota delle sorelle Olga, Irina e Mascia, le quali vivono con il fratello Andrej in una tenuta di provincia e nelle cui vicinanze è di stanza un gruppo di militari. Sfumata ormai ogni prospettiva di andare a Mosca, non resta altro che abbandonarsi all’ineluttabile: Olga invecchierà in solitudine, Mascia dovrà separarsi da Verscinin, il colonnello sposato di

cui è perdutamente innamorata e resterà col marito che non ama, Irina, dopo aver accettato di sposare il barone Tuzenbach pur non amandolo, non riuscirà a ricominciare una nuova vita con lui, che verrà ucciso in un duello. Ad Andrej, oltre a una moglie arrogante e incolta come Natalja, resterà la casa. Le tre sorelle nel linguaggio dei segni, regia di Timofey Kulyabin, il regista di Casa di bambola di Ibsen di cui abbiamo recentemente riferito per

Un momento della pièce in scena a Zurigo. (© Victor Dmitriev / Frol Podlesniy)

l’uso di Whatsapp in scena, è per due serate ospite allo Schiffbau della Schauspielhaus. Nella sua messinscena (definita nel 2015 dall’Associazione internazionale dei critici di teatro «produzione dell’anno») tredici dei quattordici personaggi conversano nel linguaggio dei segni – con sopratitoli in tedesco e in inglese – quasi a ribadire una storia di costante tensione verso il futuro, ma anche di desideri che non si realizzano, di difficoltà e di agonia. Il linguaggio dei segni è contrappuntato da suoni e rumori di sottofondo: corde di violino pizzicate, suonerie di cellulari (ai protagonisti arrivano degli sms e spesso vengono scattati anche dei selfie), rumore di piatti e posate, tacchi e passi strascicati. Suoni e rumori ovviamente ignorati dagli attori, ma non dagli spettatori, i quali vengono trascinati dalla mimica drammatica e dalla toccante espressività recitativa che mettono a fuoco gioie,

malinconie, paure e disperazioni dei protagonisti in scena. Poco importa se il testo recitato, finora elemento saliente e caratterizzante dello spettacolo teatrale, perda la propria esclusività, facendo posto ad altri codici. Oltre ai rapporti tra i diversi personaggi e a quel loro monologare, più che dialogare, l’allestimento di Kulyabin riesce a evidenziare anche il perpetuo girare a vuoto dei protagonisti. Altro punto saliente del ragionamento filosofico e della poetica di Čechov, è il tempo che scorre inesorabile; ciò è reso soprattutto dalla scenografia di Oleg Golovko, un interno zeppo di mobili e accessori, che sfrutta l’atmosfera prodotta dal puntuale light design di Denis Solntsev. Caloroso l’applauso del pubblico rivolto a tutti i partecipanti, in particolare a Irina Krivonos, Darya Yemelyanova e Linda Akhmetzyanova nei ruoli delle tre sorelle Olga, Mascia e Irina.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 marzo 2019 • N. 11

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Cultura e Spettacoli

Nell’ultimo splendore

Fotografia In mostra a Corzoneso le suggestive e impressionanti immagini realizzate «post mortem»

dal pioniere ticinese Roberto Donetta Giovanni Medolago Il binomio classico recita Eros e thanatos. È oggetto di discussione da quasi tre millenni, a partire dai filosofi greci e latini, e in tempi più vicini a noi (Al di là del principio del piacere, 1920) Sigmund Freud ne fece un caposaldo della sua teoria psicanalitica. Con grazia (e sagacia) tutta femminile, Anna Lisa Galizia – già responsabile del Museo di Villa dei Cedri – ha scelto un’accoppiata decisamente più affabile, Fiori e ombre, per presentare una serie di immagini post mortem, affiancate a motivi floreali e selezionate tra le migliaia di lastre lasciateci in eredità da quel sempre sorprendente pioniere della fotografia che fu il bleniese Roberto Donetta (1865-1932). Accanto alle stampe ai sali d’argento ottenute da Alberto Flammer dopo un lungo e delicato procedimento, ci sono stavolta anche le stampe in digitale curate da Stefano Spinelli. La pratica della fotografia post mortem nacque a metà del XIX secolo (per poi cadere in disuso circa un secolo dopo) e si diffuse soprattutto nelle classi meno abbienti. Mentre ricchi e benestanti potevano posare per i loro ritratti quand’erano ancora ben vivi e vegeti, i meno fortunati si dovevano accontentare di un solo scatto – dal costo allora quasi proibitivo – cui tuttavia non volevano rinunciare, poiché era l’ultima possibilità per conservare un ricordo iconografico del loro «caro estinto»; un’immagine che permettes-

Veglia funebre immortalata da Roberto Donetta. (Archivio Donetta)

se a famigliari, amici e conoscenti di rievocare il defunto anche a decenni di distanza. «Fissando in modo duraturo su un supporto materiale la luce e l’ombra di ciò che è stato – scrive la Galizia – queste immagini sembravano poter opporre resistenza alla natura fuggevole e immateriale del ricordo, destinato irrimediabilmente a svanire». È inoltre probabile, aggiunge, «che queste immagini volessero dare una visione appagata della morte, insistendo soprattutto sul parallelismo tra morte e sonno. Un modo per rasserenare i famigliari con l’idea che il passaggio si fosse svolto se-

renamente e che il defunto fosse pronto per risvegliarsi alla vita eterna. Molti testi pubblicitari dell’epoca insistono su questo punto, e l’associazione mortesonno non è nuova: le divinità greche Ipno e Tanato non sono forse gemelle?». Donetta sempre sorprendente, dicevamo; concreto e pragmatico osservatore di tutto ciò che accadeva attorno a sé: attività dell’uomo, avanzata del progresso (l’arrivo della ferrovia BiascaAcquarossa e la nascita della Cima Norma), paesaggi bucolici e/o stravolti dalla furia della natura ecc.; già attento a non togliere mai dignità a chi finiva davanti

al suo obbiettivo ancora vivo, Donetta accentua ancor più quel «distacco emotivo» – còlto a suo tempo da David Streiff – quando si trova nel mezzo di una veglia funebre. Date le circostanze, è costretto a rinunciare alla sua verve di scenografo: niente drappi e tovaglie a fungere da fondale e nessuna messa in scena (tranne per quell’immagine un po’ inquietante del suo ultimogenito Saul, disteso quale finta vittima di quella vipera che porta sul petto, lei sì morta stecchita!). Però, nella pur disadorna stanza allestita come modesta camera mortuaria dalla famiglia Cizzio, a Do-

netta riesce il miracolo di dosare la luce, probabilmente di candele e lampade a olio (come Kubrick per Barry Lyndon), in modo che la penombra che avvolge i familiari accanto e dietro il feretro diventi viva luce che s’irradia sul letto di morte, col volto del defunto illuminato solo sul suo profilo destro con perfetta simmetria. Detto delle ombre, beh: riguardo ai fiori Donetta gioca in casa, poiché quella di venditore di sementi era la sua altra attività. La fotografia è «troppo costosa per essere un passatempo, troppo poco remunerativa per costituire una professione» (A. Mariotti), soprattutto quando hai un numerosa famiglia sulle spalle. In questo contesto, mirabile ci sembra in particolare l’immagine intitolata Fioritura notturna di un’Echinopsis, la cui corolla sembra la testa di un dinosauro corazzato e posto su un ceppo d’albero squamoso. Un altro chapeau! a questo pioniere autodidatta, ribelle a suo modo in campo artistico come nella vita, capace – lassù nella Valle di Blenio d’inizio ’900 – di un’opera «figlia di una sua musa randagia» (A. Nessi). Dove e quando

Fiori e ombra. Le fotografie post mortem di Roberto Donetta. Casa Rotonda, Corzoneso. Orari: sa e do 14.00-17.00 o su appuntamento: info@archiviodonetta.ch o tel. al numero +41 91 87112 63. Fino al 28 aprile 2019. archiviodonetta.ch Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli Rubriche

In fin della fiera di Bruno Gambarotta Attenti al «Silver Tsunami» Invecchiare senza invecchiare: chi non se lo augura? È il titolo che Giancarlo Isaia, titolare della cattedra di Geriatria presso l’università di Torino, ha dato a un libro di esemplare chiarezza nel quale riassume l’esperienza di una vita, uno studio reso urgente dall’arrivo del «Silver Tsunami» nella nostra società. Solo il Giappone ci supera nella percentuale di popolazione anziana. È anche un manifesto contro l’Ageismo, una forma di pregiudizio che tende a negare esami o trattamenti a un individuo, solo per la sua età avanzata. Fa uno strano effetto leggere da vecchio un libro sulla vecchiaia. È vero altresì che da giovane un libro così non lo avrei mai letto. La prima delle sue tre parti, dedicata alle «sindromi geriatriche», diventa per me uno specchio. Mi ritrovo nel fenomeno della «cascata prescrittiva» quando sono tentato di aggiungere un farmaco per contrastare gli effetti indesiderati di un altro; cado nella «inerzia prescrittiva» quando mi affeziono ai farmaci

e non voglio più smettere di prenderli. Qui gioca anche la mia contrarietà allo spreco per cui, anche se i sintomi sono scomparsi, tendo a finire la scatola prima che il farmaco scada. Ritorno bambino quando, dopo una caduta rovinosa dalla bicicletta, andavo a farmi medicare dal medico di famiglia, appassionato ciclista, di nascosto da mia madre che, se l’avesse scoperto, mi avrebbe proibito di tornare a correre. Adesso, temendo un’analoga proibizione, mi guardo bene dal rivelare ai miei famigliari che, pedalando o anche solo camminando per strada sono rovinato a terra e mi sono fatto male. L’autore, come forma di prevenzione contro le cadute, suggerisce di «mantenere lisci e facilmente percorribili i marciapiedi». Vada a dirlo agli amministratori di questa città che sembra terremotata. Noi vecchi si cade anche in casa, secondo le statistiche succede almeno una volta all’anno a chi ha superato gli ottanta anni. Una delle cause più frequenti, per chi è nonno, è

da attribuire ai giocattoli dei bambini sparsi sul pavimento di corridoi poco illuminati. Ci metti sopra il piede, rovini a terra, ti rompi il femore. In compenso, quando parti per l’Ultimo Viaggio, sul tuo necrologio apparirà senza eccezioni la frase: «lo piangono gli adorati nipoti». Non è un filino esagerato? Credo di voler bene ai miei nipoti ma non li ho mai scambiati per la Madonna Nera di Loreto. La seconda parte del manuale è dedicata alle più comuni patologie dell’anziano e la terza ai comportamenti di prevenzione. Quando mette in guardia contro il fumo e l’alcol fa tornare in mente Woody Allen: «Ho smesso di fumare, vivrò sette giorni di più e in quella settimana pioverà sempre». Le statistiche dicono che si vive dieci anni in più. È un manuale ricchissimo di suggestioni, di saggi consigli, di formule da imparare a memoria. La prima, dedicata all’immobilizzazione e alle piaghe da decubito: «Bad is Bed», il letto è il male. La seconda, sulla necessità

di tenere occupata la mente: «Use it or Lose it», usala o la perdi. Purtroppo c’è anche la formula per calcolare il mio BMI: dividere il peso in kg per il quadrato dell’altezza espressa in metri: è impossibile resistere alla tentazione di calcolarlo e di conseguenza andare in depressione quando il risultato è 32,78 corrispondente al giudizio di «Obeso di Prima classe». È anche un generatore di idee, vi dico le prime due che mi sono venute in mente. La prima: per il riconoscimento e la gestione della demenza esiste il Mini Mental State Evaluation, un test cognitivo per valutarne l’eventuale presenza e il suo relativo livello. E se, per la tranquillità dei cittadini, ci fosse l’obbligo di sottoporsi al test per tutti coloro che vogliono candidarsi a una carica elettiva? Seconda proposta, questa volta seria: da poco è stata creata la benemerita figura del Tutore per i minori non accompagnati, non un genitore affidatario ma un adulto che assume l’incarico di seguire il minore

per agevolare il suo inserimento nella società. Per analogia propongo di creare il Tutore dei vecchi, per aiutarli nelle pratiche burocratiche e consigliarli, sentirli al telefono, accompagnarli alle visite e a fare la spesa, suggerire letture e svaghi. Con abbonamenti scontatissimi a teatri, cinema e concerti riservati alle coppie formate da Tutore e Anziano. Conosco l’obiezione: il tutore dei vecchi spalancherebbe la strada ai truffatori che già ora imperversano. A parte l’ovvia considerazione che non è saggio lasciarsi paralizzare dai timori, un rimedio consisterebbe nel vietare per legge ogni transazione economica fra l’Anziano e il suo Tutore che diventerebbe tale solo dopo un attento esame, come già si fa per le famiglie affidatarie. Infine, ecco il mio personale suggerimento per invecchiare senza invecchiare: non guardare al tuo ombelico ma guarda sempre gli Altri e soprattutto non smettere mai di sognare. Se smetti muori, anche se respiri ancora.

brerà una sciocchezza, ma signori miei la vita cambia. Avere i piedi felici o dolenti fa la differenza: evviva la comodità, ma ci vuole anche la bellezza, non si può girare per il mondo con gli scarponi da sci (che tra l’altro non è detto siano facili da portare). La combinazione tra bellezza e comodità è un must, un terno al lotto, un evento da ricordare. Se qualcuno ha da ridire si palesi, ma io sono sicura di questo teorema. Mi piacerebbe poi avere a disposizione bellissimi film, e il tempo per vederli. Potreste dire, chi te lo impedisce. Allora, il tempo per la ricreazione è millimetrato, o si trova subito un bel film o basta, ci si deve accontentare di un talent. Quindi noia mortale e intanto si legge altro. Non è del tutto la dimensione immersiva, che permetterebbe la distrazione dai dolori quotidiani. Vorrei anche che il film non mi desse mal di testa o infiammazione agli occhi, ma sinceramente chi se ne importa. Leggo poi, nella mia lista dei desideri, «non avere

paura». E di che? Dell’ignoto, dico per capirmi, ma mi sembra che il timore sia una sorta di patologia, una cosa di cui dopo una certa età non puoi liberarti. Hai avuto telefonate drammatiche, hai assistito persone care fino alla loro fine, come potresti dormire senza tenere il telefono acceso, non si sa mai. Medici e psicologi consigliano di chiuderlo, di sera, ma chi lo farebbe dopo anche solo una chiamata d’allarme da fratelli, genitori, amici? Poi vengono i desideri belli, come ringraziare le persone che mi vogliono bene, augurare felicità ai nipoti, che nipotini come Qui Quo Qua ormai non sono più. Vorrei anche recitare e cantare, tornare nella casa dei bisnonni (non è impossibile, pare che il nuovo proprietario ne affitterà la metà, e io sono la prima della lista dei futuri affittuari). Vorrei poi la felicità di altri, non solo fratelli e sorelle e nipoti. Vorrei la felicità per alcuni miei allievi di buona volontà, almeno secondo me. Di alcune amiche, che mi sembrano

un po’ sole, nonostante il loro valore, anzi, forse proprio a causa di questo. Mentre scrivo si moltiplicano i desideri, vorrei ricordare solo le cose belle di chi non c’è più, vorrei essere davvero grata per aver conosciuto e frequentato dei maestri: personaggi che in vita magari sembravano matti, o fuori contesto, che però sono riusciti a trasmettermi la normalità dell’eccellenza. Gradirei anche che le persone a me care ricordassero le loro radici, che si domandassero come possono amare di più. Oh, poi, ho un’infinità di desideri tecnici: usare con più disinvoltura le lingue che pure ho studiato, farmi crescere le unghie come una vera maliarda, avere i capelli lunghi. Soprattutto, però, mi rendo conto, tra questi centocinquanta desideri, i più importanti sono quelli che riguardano la consapevolezza: ma quanto abbiamo, di affetto e bellezza? E quanto siamo sciocchi a non percepirlo. A non saper godere di tanto («tanta roba», dicono gli adolescenti, oggi).

il lettore di Borges. Ha vissuto con i libri, Manguel, anche come direttore della Biblioteca Nazionale argentina. Dunque, lettore, scrittore, libraio, bibliotecario e bibliofilo, come Eco, detentore di 40 mila volumi (50 mila quelli di Eco), testimone vivente di un famoso pensiero del suo amico Borges: «Uno scrittore scrive quello che può, un lettore legge quello che vuole». Nel senso che il lettore ha una impareggiabile libertà di immaginare e di imparare, di scegliere il suo libro, di ignorare le mode, gli obblighi e le tendenze. Come si comporta un tale personaggio, patito di libri, se deve traslocare dalla sua enorme casa sulla Loira in un piccolo appartamento di New York? Dovendo scegliere quali volumi portare con sé e quali lasciare in deposito (a Montreal, in Canada), passa in rassegna titolo per titolo: e così facendo riemerge in modo inatteso la memoria personale. È un «rituale di rimemorazione». Perché ogni libro è ciò che contiene, ma è anche ciò che rappresenta nella vita

di chi lo possiede. Per esempio, una insignificante edizione anni Trenta delle Fiabe dei fratelli Grimm, uno dei primi volumi che il piccolo Alberto si ritrovò tra le mani, fa riaffiorare, dalle sue pagine ingiallite, innumerevoli ricordi d’infanzia che sembravano sepolti per sempre. Nel suo memoir (secondo 6+ della rubrica!), Manguel racconta storie favolose che riguardano anche il suo spostarsi di casa in casa, di città in città (Parigi, Londra, Milano, Tahiti, Toronto, Calgary…): «Ogni mia biblioteca è una specie di autobiografia stratificata, in cui ogni libro conserva il momento in cui l’ho letto per la prima volta». Manguel è fiero di non conservare, nella sua biblioteca, nessuno dei best seller che sono stati in classifica sul «New York Times». Però ama riservare uno scaffale a un manipolo di romanzi che considera brutti, quelli usciti dalle scuole di scrittura, privi di immaginazione e di stile. Perché? Deve sempre avere un’idea esatta di che cosa accade

quando un libro è solo un prodotto di consumo. Manguel ricorda che purtroppo, dopo il trasloco fatale, non ha più a portata di mano le opere di Kafka, ma in un taccuino che si porta dietro ha annotato alcune righe della sua corrispondenza. Tra cui questa: «L’uomo legge per fare domande». Giusto, scrive Manguel: «Quando leggo Kafka, sento che le domande che suscita in me vanno sempre al di là della mia comprensione. Sono domande che promettono una risposta, ma non ora, la prossima volta, forse, alla prossima pagina». Ecco dunque una buona ragione per vivere con i libri: per farsi domande le cui risposte si possono (forse) trovare nel prossimo libro; e il prossimo libro risponderà con nuove domande che troveranno altre domande nel terzo libro, e così via. Vivere con i libri in qualche modo insegna a vivere facendosi le domande giuste senza pretendere risposte definitive: «Kafka mi offre incertezze assolute che collimano con molte incertezze mie» (6+++).

Postille filosofiche di Maria Bettetini 150 desideri? «Poca roba» C’è una scuola di pensiero che ritiene utile alla propria felicità compiere questo esercizio: scrivere centocinquanta desideri e poi ridurli a centouno, e leggere questi ultimi ogni giorno. Sembra impossibile, centocinquanta? Ma tutti noi si accontenterebbero di due o tre, la salute propria o di una persona cara, la sicurezza economica, che altro si potrebbe volere? Provate. Vedrete che non è affatto difficile arrivare a centocinquanta, e diventa poi difficilissimo eliminarne quarantanove. Questione di pochi minuti, e come per magia vedrete. Vorrei dirne alcuni che senza fatica sono sgorgati dalla mia tastiera (mi piacerebbe dire penna, ma, ahimè, chi usa più una penna o una biro). Vorrei per esempio avere prima di essere vetusta l’ultimo grado di docente universitario, che il Ministero mi garantisce essere di mio diritto ben in due materie (ahahah, rido, chi mai vorrà rendermi inviolabile, sarebbe come se Superman dovesse decidere se l’Uomo

Ragno ha diritto a essere annoverato tra i supereroi, per carità). Vorrei anche dormire bene, trascorrere notti come a volte capitano, dalle quali ti svegli davvero riposata e andare a dormire non ti sembra più un incognito viaggio, ma un piacevole riposo. Poi voglio anche che una ragazza a me cara capisse quanta fortuna ha, nell’aver trovato un uomo giusto che le sia accanto, nell’essere sana, e bella, nell’aver lasciato un lavoro che non l’ha lasciata povera, ma le permette di cercare quel che più le piace con calma. Sospirone. Tanto è tutto soggettivo, se lei si sente infelice non le cambieremo la testa. Però lo vorrei. Mi piacerebbe poi mangiare senza fatica, godere del cibo e delle giuste porzioni, senza dovermi impegnare anche con la testa. Non sono anoressica, per carità, e se non mangio avverto mancamenti di forze e quasi svenimenti. Vorrei che tutto fosse più normale, più fluido. Ah, poi, per la mia felicità non possono mancare scarpe (o stivali) belle e comode. Sem-

Voti d’aria di Paolo Di Stefano Leggere per fare domande «Quanti libri! Li ha letti tutti?». È la classica domanda che il bibliofilo, ma non solo, si sente fare dall’ospite che gli entra in casa e vede le librerie zeppe di volumi. «L’esperienza – scriveva Umberto Eco – ci dice che questa domanda ci viene fatta anche da persone dal quoziente intellettivo più che soddisfacente». E aggiungeva, il semiologo, tre strategie di risposta «a questo oltraggio». 1. Interrompere ogni rapporto con il visitatore, replicando: «Non ne ho letto nessuno, altrimenti perché li terrei qui». È un tipo di risposta che solletica il senso di superiorità dell’«imbecille» e quindi sconsigliabile. 2. L’opposto: far precipitare l’interlocutore in un irrimediabile senso di inferiorità esclamando: «Di più, signore, molti di più!». 3. Indurre al «doloroso stupore» dell’importuno: «Quelli che ho già letto li tengo all’università, questi sono quelli che debbo leggere entro la settimana prossima». Naturalmente, di fronte a una risposta così inquietante, il visitatore cercherà una scusa per

togliere immediatamente il disturbo e andarsene al più presto. Quel tizio non sa che la biblioteca, in realtà – era la considerazione di Eco – non è solo un deposito della memoria personale (il magazzino di quel che hai letto) ma è il luogo della memoria universale a cui ricorrere nel momento fatale, per «trovare quel che altri hanno letto prima di te» (voto? 6+ all’intelligenza e all’ironia). Naturalmente poi (o prima) c’è il piacere (fisico), che non risponde a nessuna domanda: perché ti piacciono i libri? Risposta: mi piacciono e basta. Edmondo De Amicis, l’autore di Cuore, diceva che «una casa senza libreria è come un villaggio senza scuole». Vivere con i libri è l’ultimo libro (Einaudi) di un bibliomane incallito come Alberto Manguel, scrittore e saggista argentino cresciuto in Israele e poi abitante del mondo al seguito del padre ambasciatore: giovanissimo, ha lavorato in una libreria di Buenos Aires, dove conobbe Jorge Luis Borges ormai cieco. Ne nacque un’amicizia e Manguel divenne


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