Cooperativa Migros Ticino
Società e Territorio Su engage.ch i giovani possono suggerire ai politici idee, spunti e proposte concrete per il futuro del nostro paese
Ambiente e Benessere Lo psichiatra e presidente dell’ASI-ADOC, Michele Mattia, ci parla di depressione cercando di spiegare come alleviarne o guarirne il peso, spesso insostenibile
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXII 18 marzo 2019
Azione 12 Politica e Economia Milioni di algerini scendono in piazza per opporsi a Bouteflika che rinuncia al 5. mandato ma rinvia le elezioni
Cultura e Spettacoli Clemens Meyer ritorna al suo pubblico con dodici intense storie dalla ex-DDR
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Marka
Adolescenti e scelte estreme
di Stefania Prandi pagina 4
Primavera algerina di Peter Schiesser «Rispettate il morto, sotterratelo, non eleggetelo»: non è raro scorgere una vena di ironia fra i cartelloni ostentati durante le proteste in Algeria contro il presidente-fantasma Abdelaziz Bouteflika (in pubblico non lo si vede da quando ebbe un ictus nel 2013) – almeno quella, il regime del presidente che comanda il paese maghrebino da 20 anni col pugno di ferro non ha potuto sottrarla. Per il resto, agli algerini è rimasto ben poco, soffocati da un potere concentrato in poche mani. Un potere oscuro, composto dai famigliari dell’82.enne presidente, in particolare il fratello Saïd, dai militari che hanno nel capo di stato maggiore Ahmed Gail Salah il più stretto alleato dei Bouteflika (che hanno moltiplicato per 5 le spese militari in pochi anni), dalle cerchie imprenditoriali che si sono arricchite con le commesse pubbliche, incarnate da Ali Haddad, proprietario di una grossa impresa edile, di diversi media e della squadra di calcio USMA Alger. Il parlamento è considerato un assembramento di marionette, i servizi segreti l’ombra di se stessi dopo la cacciata del potentissimo generale Toufik, il governo assoggettato al presidente, lo stesso presidente una
marionetta in mano ad altri. Gli algerini definiscono chi comanda semplicemente con l’appellativo «le pouvoir». Ora però questo «pouvoir» potrebbe avere i giorni contati: le proteste cominciate il 22 febbraio contro un quinto mandato presidenziale di Bouteflika sono cresciute di intensità e culminate l’8 di marzo con oltre un milione di persone per le strade di Algeri e decine di migliaia in tutte le altre grandi città, quindi in uno sciopero generale il 10 marzo. Proteste essenzialmente pacifiche, laiche, cui partecipano tutti i segmenti della società. I generali non riescono più a tener calma la popolazione evocando il rischio di un sanguinoso caos se cadesse il regime di Bouteflika: non fa più paura il ricordo delle primavere arabe di 8 anni fa, abortite perlopiù nel sangue (eccetto nella vicina Tunisia) e ancora meno il ricordo del decennio del terrore, quando l’Algeria sprofondò in una guerra civile costata 200mila vite, dopo che il Fronte di liberazione nazionale (al potere dall’indipendenza del 1962) non aveva riconosciuto la vittoria alle elezioni del 1991 del Fronte islamico di salvezza (moltissimi sono troppo giovani per ricordarsene). Adesso è il regime ad avere paura. E così, l’11 marzo ha fatto le prime concessioni: Bouteflika (o chi
per esso) ha comunicato che rinuncerà ad un quinto mandato presidenziale, che le elezioni del 18 aprile vengono rinviate, che una conferenza nazionale, composta da esponenti di tutta la società algerina, dovrà elaborare una nuova costituzione entro la fine dell’anno, dopodiché verrebbero indette nuove elezioni presidenziali. Ma quella che da una parte è una prima vittoria della piazza, viene vista anche come un trucco per restare al potere: «volevamo elezioni senza Bouteflika, ci danno Bouteflika senza elezioni», è il commento. Infatti, contrariamente a quanto prevede la costituzione, Bouteflika allungherebbe così a tempo indeterminato il suo quarto mandato. Di conseguenza, le proteste continueranno. C’è da sperare che l’esercito non ricorra alle armi per fermare le proteste: sarebbe l’inizio di una nuova guerra civile. Ma anche se le proteste dovessero mantenersi pacifiche, l’interrogativo di fondo resta: chi potrà prendere il posto dell’attuale «pouvoir»? I partiti d’opposizione sono troppo deboli, non emergono ancora figure e forze strutturate che abbiano la credibilità e la capacità di governare un paese di 42 milioni di abitanti. È l’eterno problema delle autocrazie arabe: i Gheddafi, i Mubarak, i Ben Ali, gli Assad quando se ne vanno lasciano il vuoto dei cimiteri.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 marzo 2019 • N. 12
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Idee e acquisti per la settimana
Un pregiato pezzo di carne
Attualità La costata è uno dei tagli più famosi della carne di manzo. Questa settimana
potrete gustare quella di Black Angus svizzero ad un prezzo particolarmente vantaggioso
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sulla costata di manzo Black Angus svizzera al banco a servizio, 100 g Fr. 5.95 invece di 8.– dal 19 al 25.3
Il taglio
Gusto deciso, tenerezza impareggiabile e raffinata succosità: la costata di manzo è in grado di regalare a ogni commensale un’esperienza culinaria davvero straordinaria. Questo pezzo di carne è ottenuto dalla lombata del bovino e unisce l’entrecôte e l’osso. Rispetto alla T-bone, la costata risulta di dimensioni più ridotte. Visivamente si presenta di colore rosso vivo con una marmorizzazione di grasso uniforme ben visibile. Prima di giungere in negozio, il taglio bovino subisce una stagionatura all’osso – o frollatura – che può durare fino a quattro settimane. Questa procedura permette di intensificare l’aroma della carne e di renderla particolarmente morbida. La razza Black Angus
La razza bovina Black Angus è originaria della Scozia, dove già del diciottesimo secolo gli allevatori apprezzavano le straordinarie qualità organolettiche della carne. Fibre delicate, tenerezza, aroma intenso e tipica marmorizzazione sono i segni distintivi della carne di questi bovini. Dagli anni Settanta l’allevamento di bovini Black Angus si diffuse anche in Svizzera grazie ad alcuni lungimiranti allevatori. Oggi nel nostro paese esistono oltre 14’000 capi di questa razza. Il metodo di allevamento applicato è uno dei più rispettosi della specie. I vitelli vivono con le loro ma-
dri in un sistema di stabulazione libera. Possono uscire regolarmente al pascolo durante il periodo di vegetazione e sono nutriti principalmente con il latte materno. I contadini che aderiscono al marchio Swiss Black Angus devono sottostare alle severe direttive sulla biodiversità e sull’allevamento rispettoso degli animali di IP-Suisse.
In cucina
La prima cosa da fare quando si vuole cucinare una costata di manzo è quella di toglierla dal frigorifero una mezzoretta prima della preparazione, estraendola dal suo imballaggio. In questo modo il taglio di carne ha la possibilità di «prendere aria» e di raggiungere la temperatura ambiente necessaria ad
È tornato il profumato aglio orsino
evitare uno «choc termico» in cottura, ciò che comprometterebbe la sua succosità e tenerezza. Una volta raggiunta la temperatura ideale, la costata è pronta per essere cucinata. Il taglio può essere preparato sia in pentola che sulla griglia. Mai utilizzare una forchetta per girare la carne, bensì una pinza apposita che impedisce la dispersione
dei succhi. La carne deve essere cotta per pochi minuti a fuoco vivo e girata a metà cottura, fino al raggiungimento del grado di cottura al cuore desiderato (al sangue 50°C, rosa 60°C, ben cotta 72°C). Si consiglia di condire la carne solamente a fine cottura con alcuni fiocchi di fleur de sel per non comprometterne l’aroma.
I Berliner della Jowa sono i migliori
Risotto all’aglio orsino Ingredienti per 4 persone
1 cipolla . 2 spicchi d’aglio . 30 g di burro . 250 g di riso per risotto, ad es. Carnaroli . 2 dl di vino bianco . 6 dl di brodo di verdura caldo . 1 mazzetto di aglio orsino . 3 cucchiai d’acqua . 60 g di parmigiano grattugiato . sale . pepe Procedimento
Aglio orsino 100 g Fr. 1.90 In vendita nelle maggiori filiali Migros
Quando nei nostri boschi spuntano le prime foglie di aglio orsino, vuol dire che la primavera è ormai alle porte. Questa pianta della stessa famiglia dell’aglio comune, si distingue per il suo bel colore verde brillante e l’intenso profumo che è in grado di sprigionare strofinandone le foglie con le dita. Ricco di vitamina C, ferro e calcio, è utilizzato in cucina per aromatizzare e affinare molte ricette, dalle insalate ai risotti, dalle paste alle carni, dalle salse
al pesce, fino alle zuppe e alle verdure. L’aglio orsino è inoltre ottimo come base per la preparazione di un saporitissimo pesto, semplicemente incorporando alle foglie tritate alcuni pinoli, del parmigiano e dell’olio di oliva. Gli oli essenziali naturali contenuti nella pianta, stimolano la digestione. Le foglie possono essere anche surgelate. In questo modo si potrà beneficiare delle proprietà gustative dell’aglio orsino durante tutto l’anno.
Tritate finemente la cipolla e l’aglio. Fateli appassire nel burro a fuoco medio. Aggiungete il riso e tostatelo mescolando continuamente. Bagnate con il vino e fate evaporare il liquido. Mescolando continuamente, aggiungete il brodo poco alla volta. Fate cuocere per ca. 30 minuti, finché il riso diventa cremoso ma è ancora al dente. Tagliate la metà dell’aglio orsino a striscioline e mettete da parte. Frullate il resto con l’acqua e mescolatelo con il formaggio al risotto. Regolate di sale e pepe. Guarnite con il resto dell’aglio orsino messo da parte.
Una giuria di esperti ha degustato nove Berliner per «Kassensturz», la trasmissione per i consumatori della televisione svizzera di lingua tedesca. In occasione del test nessun altro dolce ha ricevuto note migliori per quanto riguarda consistenza e aroma quanto i Berliner ripieni di confettura di lamponi e ribes della Migros. «Siamo molto
contenti di questo risultato e trasmettiamo volentieri le lodi ai nostri motivati collaboratori che ogni giorno si impegnano a elaborare prodotti di elevata qualità», spiega Corinne Harder, portavoce dell’industria del gruppo Migros Jowa, che produce questi irresistibili dolci nella sua sede regionale di Ecublens, nel canton Vaud.
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Idee e acquisti per la settimana
Padelle & Pentole per ogni esigenza Attualità Approfittate ora dell’incredibile offerta su gran parte delle batterie di pentole del nostro assortimento
La primavera è il periodo ideale per ricevere gli ospiti a casa propria, preparando loro degli ottimi manicaretti all’insegna della stagionalità e della freschezza. La Migros offre tutto quello che occorre per fare bella figura in cucina. Sotto la nostra linea Cucina & Tavola, per esempio, trovate un vasto e completo assortimento di pentole e padelle di qualità, adatte ad ogni tipo esigenza e possibilità di spesa, che vi permetteranno di spadellare come dei veri chef e conquistare anche i palati più esigenti. La gamma comprende gli apprezzati marchi Prima, Gastro, Titan e Deluxe. La batteria di pentole Prima è ideale per coloro che cercano dei prodotti dall’ottimo rapporto qualità-prezzo per la cucina di tutti i giorni. Realizzati in alluminio laminato, sono leggere da maneggiare e facili da pulire. Il marchio Gastro propone pentole e padelle in acciaio inossidabile con rivestimento Teflon PTFE, cromo-nichel 18/10 e alluminio con rivestimento in ceramica antiaderente, adatte anche per i piani cottura a induzione. I prodotti sono resistenti alle alte temperature e ideali per la cottura a fuoco vivo della carne. Inoltre posseggono una buona antiaderenza, sono indeformabili e duraturi, e risultano particolarmente facili da pulire. Alcuni articoli della linea sono pure dotati di manici e impugnature ideali per la cottura delle pietanze in forno. Titan è sinonimo di prodotti di qualità elevata di produzione italiana, realizzati in alluminio forgiato e con doppio fondo in acciaio al platino. L’eccellente antiaderenza è ideale per le cotture povere di grassi, mentre l’ottima capacità e distribuzione termica permette di risparmiare energia. Adatti per sistemi a induzione. Chi cerca prestazioni di alto livello
*Azione 50%
su tutte le pentole e padelle Prima, Gastro, Titan e Deluxe dal 19.3 al 1.4
sceglie le padelle e le pentole Deluxe, in triplo materiale inox e alluminio. Massicci, indeformabili e dal design ricercato, questi strumenti di cottura permettono di cuocere con l’aggiunta di pochissimi grassi e di ridurre il consumo di energia grazie all’eccellente distribuzione e accumulo del calore.
Casseruola per salse «Gastro» 12 cm Fr. 9.95* invece di 19.95
Bistecchiera «Prima» 28 cm Fr. 11.45* invece di 22.95
Pentola «Deluxe» 20 cm Fr. 24.95* invece di 49.95
Cura naturale per i più piccoli
Novità Boep è sinonimo di cosmetici per bebè a base di ingredienti naturali certificati e attentamente selezionati.
Diversi prodotti di questo innovativo marchio tedesco sono ora in vendita nelle maggiori filiali Migros Ticino I delicati prodotti per la cura della cute di bebè e bambini Boep sono stati sviluppati dalla dottoressa e due volte mamma Michaela Hagemann appositamente per le pelli più sensibili. Ingredienti naturali di elevata qualità, tra cui olio di mandorle, olio di oliva e burro di karité, nutrono in profondità la pelle dei piccoli e dei genitori rendendola particolarmente morbida e vellutata. I cosmetici Boep sono prodotti in Germania e si caratterizzano per la totale assenza di oli minerali, parabeni, paraffina e profumi sintetici. Inoltre sono certificati 100% naturali, vegani e dermatologicamente testati come «eccellenti». L’assortimento Boep è disponibile nei principali punti vendita Migros, e include i seguenti otto prodotti di comprovata efficacia: Crema baby corpo Fr. 9.95:
ricca di burro di karité da coltivazione biologica, agisce in modo naturale e delicato sulla pelle del bebè.
Lozione baby Fr. 13.95:
una crema leggera che si prende delicatamente cura del corpo del bebè grazie al contenuto di pregiato olio di oliva. Olio da bagno Fr. 15.95:
un bagnetto piacevole e delicatamente profumato che mantiene sana e vellutata la pelle del neonato.
I prodotti Boep si prendono delicatamente cura delle pelle dei più piccoli. Docciaschiuma & Shampoo Fr. 8.95:
shampoo e gel doccia in un prodotto solo, in grado di detergere il bimbo dalla testa ai piedi. Crema ferite baby Fr. 10.95:
una crema allo zinco delicata che favorisce la guarigione delle piccole ferite creando una barriera idrolipidica naturale. Olio di mandorle Fr. 17.95:
una cura delicata con olio di mandorle
e di nocciolo di albicocche ideale per il massaggio di tutto il corpo dei piccoli. Bagnoschiuma Fr. 14.95:
gli estratti di calendula curano e calmano la pelle sensibile e prevengono la disidratazione. Balsamo baby Fr. 11.95:
una combinazione di olio di nocciolo d’albicocca, olio di oliva ed estratto di calendula calma, cura e rinforza la pelle strapazzata.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 marzo 2019 • N. 12
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Società e Territorio 50 anni di pianificazione Nel 1969 il popolo bocciò la Legge urbanistica, ripercorriamo il dibattito di quegli anni pagina 6
Una storia di eroina Nel suo ultimo libro l’autrice italiana Vanessa Roghi traccia il quadro della diffusione dell’eroina in Europa nel 900 e dà voce a vicende personali pagina 10
La salute della stampa Molte realtà editoriali in Svizzera fanno fatica a sopravvivere, c’è chi propone un aiuto pubblico ai giornali
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A due passi Oliver Scharpf con le sue passeggiate svizzere ci accompagna al Forum Paracelsus di St. Moritz-Bad
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Educare alla complessità del mondo
Intervista Nell’età dell’intransigenza e delle
emozioni forti c’è il rischio di compiere scelte estreme: lo psicoterapeuta Alfio Maggiolini nel suo ultimo libro analizza la mentalità degli adolescenti e i segnali di allarme
Stefania Prandi L’adolescenza è l’età dell’intransigenza e delle emozioni forti che possono portare sulla cattiva strada. C’è chi si radicalizza, chi si isola drasticamente, chi rifiuta il cibo, chi ingaggia sfide mortali. Agli aspetti più delicati di questa fase della vita è dedicata una raccolta di testi appena pubblicata: Scelte estreme in adolescenza. Le ragioni emotive dei processi di radicalizzazione (Franco Angeli). Curatore del volume, insieme a Mauro Di Lorenzo, è Alfio Maggiolini, psicoterapeuta, docente di Psicologia del ciclo di vita all’Università di Milano-Bicocca e direttore della Scuola di specializzazione Minotauro. Professore Maggiolini, perché l’adolescenza è l’età in cui si rischia di compiere scelte estreme?
Ci sono vari modi di rispondere a questa domanda. Il primo è che l’adolescente tende a pensare seguendo gli impulsi, non la razionalità, perché vive in un’età in cui c’è un’espansione delle emozioni. Ma questa non è l’unica motivazione che può indurre un giovane a compiere scelte estreme. Ci sono anche il rapporto con il gruppo, l’attivazione di decisioni rischiose e di comportamenti orientati alla ricerca di sensazioni forti, la deresponsabilizzazione delle proprie azioni. Anna Freud diceva che l’estremismo è un sistema di difesa: l’adolescente ha paura delle proprie pulsioni, assume un’ottica intransigente nel giudicare gli altri e questa intransigenza può essere alla base dell’estremismo. Nel nostro libro ci è sembrato interessante analizzare come l’adolescente cerchi di costruire un ideale senza il coinvolgimento di punti di vista diversi dai suoi. È una propensione alle verità assolute, ad assumere il proprio sguardo sul mondo come unico possibile contro quello degli altri, in una dittatura dei valori.
Che cosa si intende esattamente per soluzioni radicali e gesti estremi?
Durante l’adolescenza ci possono essere comportamenti eccessivi estemporanei, che anche se ripetuti sono diversi
da quelli che si aggregano attorno a sistemi di credenze cercate e trovate nel mondo esterno. I gesti di cui parliamo nel libro non sono episodici: vanno dal disturbo alimentare, al fanatismo nel calcio, all’adesione a gruppi radicalizzati di tipo violento o terroristico, a un rapporto con la morte vista come un fatto esaltante e positivo. In questi casi, i comportamenti estremi sono sostenuti da credenze collettive. Entro nel merito prendendo come esempio i problemi alimentari. Ci può essere una fase in cui una ragazza non mangia, ma ancora non ha costruito una mentalità attorno al digiuno. Può trattarsi di una condizione iniziale che poi rientra oppure può diventare più elaborata se l’adolescente crea un sistema di giustificazioni non solo autoprodotto ma culturalmente condiviso, che cioè legittima collettivamente il suo comportamento. In che modo internet facilita il diffondersi di scelte radicali tra i teenager?
Internet viene usato per cercare idee e subculture che confermino le credenze che si hanno già. È come se facesse da amplificatore. Va tenuto in considerazione che il disagio di chi si radicalizza non è una conseguenza di internet, esiste da prima e può essere causato da diversi fattori: senso di ingiustizia, anche sociale, per qualcosa che non va, con la voglia di reagire e combattere. Internet dà conferme e offre soluzioni, potenzia e moltiplica le possibilità, fornisce le parole e i modi per esprimere il disagio. Il meccanismo attuato dalla rete virtuale, sicuramente potente, non è nuovo. Una volta era più difficile trovare subito delle affinità, ma comunque esistevano le subculture giovanili, i sottogruppi ispirati da un ideale di quello che fosse giusto o sbagliato, che avevano i loro canali, le radio ad esempio.
Quali sono i segnali di allarme per chi ha un figlio o una figlia che si sta radicalizzando?
Ci sono dei segnali precisi, l’impulsività non è sufficiente a fare pensare al processo di radicalizzazione. L’e-
Durante l’adolescenza si tende a prendere decisioni rischiose e a cercare sensazioni forti. (Marka)
stremismo è tipico degli adolescenti, tutti possono sembrare intransigenti e fissati su qualcosa. La preoccupazione deve cominciare quando si vede che il figlio è impermeabile a ogni riflessione e comincia a organizzare il proprio comportamento e l’idea di sé attorno a qualcosa di specifico. È importante che i genitori non rispondano all’intransigenza con altra intransigenza, perché altrimenti accentuano il meccanismo. Bisogna che tengano conto della pluralità dei punti di vista, delle ragioni del teenager, che cerchino di empatizzare. È corretto sottolineare quello che è sbagliato, ma capendo che c’è comunque un pezzo di verità nei discorsi dell’altro. Va poi considerato che può succedere che l’adolescente arrivi a certe soluzioni a causa di dinamiche familiari. Spesso la radicalizzazione è legata alla storia e
al mito familiare, a ciò che ha caratterizzato l’identità del padre e della madre. Non a caso è spesso rintracciabile un bisogno di riscatto sociale di sé e dei propri cari, la vendetta per un padre umiliato, ad esempio.
Quando bisogna intervenire?
L’adolescenza è un periodo lungo. In teoria comincia dai dodici o tredici anni fino ai diciotto, ma se si considera la fase della giovane età adulta si protrae fino ai venticinque. Possiamo dire che, nel complesso, duri oltre un decennio. Nella prima parte, in cui prevalgono gli aspetti impulsivi, il teenager è ancora molto legato ai genitori, dipende da loro, che restano interlocutori autorevoli anche se contestati. Con il passare degli anni il rapporto cambia, subentra un’identificazione con il gruppo di riferimento, che di-
venta centrale, e i livelli di autonomia si fanno più accentuati. Quindi lo spazio di azione degli adulti diminuisce. In una prospettiva preventiva, bisogna intervenire presto.
La scuola e la società in generale sono importanti per evitare i processi di radicalizzazione. In che modo?
È molto importante che a scuola non sia proposto un modello unico di socializzazione, ma vengano forniti strumenti per sviluppare la capacità di assumere visioni plurali. È fondamentale che si impari a convivere con gli altri, nonostante le differenze. E va coltivata l’idea che dentro di sé possano coesistere molti aspetti contrastanti. Ci vuole un’educazione democratica, nel senso più autentico del termine, che prepari alla complessità del mondo.
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Le idee dei giovani per il nostro futuro Engage.ch Il sito nazionale raccoglie gli spunti e le richieste che i giovani vogliono sottoporre ai politici
a livello cantonale ma anche federale Nicola Mazzi «Più scuole professionali e più attività ricreative. Soprattutto più posti di lavoro per noi giovani residenti in Ticino»; «Luoghi per organizzare le feste, mezzi pubblici notturni, muri legali per i graffiti»; «In tutti i Comuni e in particolare a Lugano dove vivo io, i ciclisti dovrebbero avere la possibilità di usufruire delle corsie preferenziali dei bus»; «Apertura prolungata delle biblioteche cantonali: più opportunità per i giovani studenti»; «Maggiore coscienza del proprio passato e degli edifici storici». Queste sono solo alcune delle idee arrivate alla piattaforma engage.ch – Che cosa manca in Ticino. Un sito nazionale, declinato per il nostro Cantone, che vuole appunto raccogliere spunti dai ragazzi per inoltrarli ai politici, attraverso il canale privilegiato del Consiglio cantonale dei giovani.
Proposte inoltrate su engage.ch saranno discusse durante la sessione del Consiglio cantonale dei giovani Per saperne di più abbiamo sentito la segretaria cantonale del Consiglio: Lara Tarantolo. «L’idea alla base di engage.ch è quella di dare la possibilità ai ragazzi, provenienti da ogni angolo della Svizzera, di inoltrare una richiesta ai politici: siano essi consiglieri nazionali, agli Stati o rappresentanti del Consiglio di Stato. Poi le richieste, a dipendenza della competenza, saranno discusse o a livello federale o a livello cantonale». La piattaforma web facilita sicuramente questo contatto diretto tra i giovani e il mondo politico. «Infatti – aggiunge Tarantolo – per i giovani è un modo veloce e diretto per riuscire a
parlare con le istituzioni, senza ostacoli burocratici; una bella opportunità per dialogare direttamente con i nostri rappresentanti e soprattutto per capire che dietro al politico c’è sempre un uomo. Invece, per i politici più giovani (n.d.r. è in particolare a loro che si rivolge la piattaforma engage.ch), si tratta di una sorgente da cui pescare idee innovative e che interessano la vita quotidiana dei ragazzi». Come detto tra la piattaforma engage.ch e il Consiglio cantonale dei giovani c’è un legame molto stretto in quanto le proposte inoltrate alla piattaforma online saranno poi discusse dal Consiglio durante alcune giornate ad hoc. Ce lo spiega la stessa segretaria cantonale. «Chi inoltra una richiesta al sito web ha la possibilità di iscriversi alla 19esima edizione del Consiglio cantonale dei giovani. Per poter partecipare il ragazzo deve essere nato tra il 1999 e il 2004 e risiedere in Ticino. Il tema di quest’anno – rileva la nostra interlocutrice – è “Ecosistema giovani” nel quale verranno trattate idee legate ai mezzi pubblici, agli spazi per i giovani, all’ambiente e alla formazione. Un tema scelto appunto tra le richieste inoltrate a engage.ch». Ma come si svolgerà il tutto? È la stessa Lara Tarantolo a illustrarlo. «In sostanza il Consiglio cantonale dei giovani si svolgerà sull’arco di tre giornate: durante la prima, che si tiene il 30 marzo alla Scuola cantonale di commercio, le richieste arrivate e raggruppate a seconda del tema, saranno discusse con alcuni esperti durante dei minidibattiti. Poi i ragazzi cambieranno tavolo di dibattito e si confronteranno con altri esperti su tematiche differenti. In sostanza, nella prima parte della giornata, ci sarà un approfondimento delle conoscenze rispetto ai diversi argomenti, mentre nella seconda parte si selezioneranno le proposte di competenza cantonale e quelle, invece, di
Il prossimo 10 maggio il Consiglio cantonale dei giovani si riunirà nell’aula del Gran Consiglio. (Ti-Press)
ordine federale. E si elaboreranno idee che hanno la possibilità di essere adottate dal Consiglio di Stato oppure dalle Camere federali». Proposte che saranno poi esposte durante la seconda giornata che si terrà il 10 maggio nell’aula del Gran Consiglio, sempre a Bellinzona. In quell’occasione verrà elaborata e votata la risoluzione che sarà presentata alle autorità cantonali, durante la terza e conclusiva giornata che si terrà il 27 settembre. Questo, appunto, per le richieste a livello cantonale. Invece, per quelle federali i giovani, le cui proposte sono state discusse e accettate, si incontreranno con il relativo rappresentante parlamentare a Palazzo federale. Un aspetto di engage.ch ha sorpreso gli organizzatori. «Dalle richieste che sono giunte e che stanno arrivando ancora sta emergendo un fatto piuttosto curioso. Infatti si dà per scontato che i ragazzi siano attaccati 24 ore al
giorno al telefonino e che siano presenti in modo assiduo sui social. Ed è sicuramente così. Tuttavia i giovani desiderano anche altro e lo abbiamo visto con questa esperienza. Infatti noi abbiamo realizzato sia una campagna social sia una più tradizionale e cartacea. Da un lato abbiamo fatto conoscere la piattaforma online e dato la possibilità di inoltrare le richieste in questo modo, ma d’altro lato abbiamo inviato al loro domicilio le cartoline da ritornarci con le loro idee. E con nostra grande sorpresa sono arrivate molte richieste attraverso questo secondo canale. La vecchia cartolina, sulla quale i ragazzi potevano scrivere un messaggio personale e descrivere quello che ritenevano fosse una lacuna in Ticino, ha avuto molto successo. Per noi è stata davvero una piacevole sorpresa vedere che i giovani cercano comunque il contatto diretto e che non si nascondono
sempre dietro uno schermo. Credo che questo sia un segnale importante anche per i politici. Per coinvolgere davvero i ragazzi e motivarli non basta entrare in contatto con loro attraverso i social media, ma occorre conoscerli davvero, parlarci, discutere e dibattere. Ascoltarli a 360 gradi e capire le loro esperienze personali e quello che hanno da dire. Il contatto umano è sempre fondamentale», conclude Lara Tarantolo. Ecco perché una campagna come engage.ch, che parte in modo virtuale e si appoggia soprattutto all’online, ha poi un importante sviluppo pratico e un contatto diretto tra i politici e i ragazzi durante le tre giornate del Consiglio cantonale dei giovani. Informazioni
www.engage.ch www.ccg-ti.ch
Percorsi della bellezza in Ticino
Editoria Esce da Skira una raccolta di itinerari d’arte attraverso i luoghi sacri del nostro cantone Tra i molti volumi che affollano il panorama editoriale ticinese vale la pena di segnalare a un pubblico anche di non specialisti una stupenda guida d’arte, proposta nelle scorse settimane nientemeno che dall’editore Skira. Il sacro del Ticino, curato da Salvatore Maria Fares e da Stefano Zuffi è un volume che raccoglie sei itinerari artistici attraverso il nostro cantone, alla scoperta (o riscoperta) dei maggiori cicli figurativi e delle opere singole che costellano alcuni luoghi di culto. Uno degli elementi importanti che caratterizzano questa operazione è sicuramente il suo carattere divulgativo: pur essendo compilato da Martina Degl’Innocenti e Micaela Mander con evidente e solida competenza, il libro propone di fatto delle agili e pratiche schede da consultare per inquadrare gli elementi fondamentali di ogni edificio sacro e coglierne gli aspetti fondamentali, prima di affrontarne la visita. L’operazione è molto originale, soprattutto per quello che riguarda la sua funzionalità pratica. Gli itinerari proposti infatti raggruppano, come è logico, le proposta in sezioni regionali:
l’itinerario 1 guida il lettore da Chiasso a Lugano; l’itinerario 2 spazia su Lugano e dintorni; il terzo ci porta da Brissago a Bellinzona; il quarto si sofferma sull’area della capitale; il quinto esplora la regione da Biasca al Lucomagno; l’ultimo la regione da Giornico al San Gottardo. Si tratta quindi di una pro-
posta oltremodo concreta, percorribile realmente e che può fungere da pretesto per tutti noi e spingerci a godere di una delle caratteristiche uniche del nostro cantone. Già qualche anno fa ci era capitato di segnalare come molte regioni a vocazione turistica cercassero di offri-
Antonio da Tradate, Crocefissione, Chiesa di San Michele, Palagnedra.
re ai potenziali visitatori delle mappe «microartistiche» che valorizzassero il patrimonio figurativo locale nell’ottica di una riscoperta del territorio. Il primo fattore utile in questo contesto era sicuramente la messa in rete delle varie proposte, cioè la creazione di un repertorio e di un percorso, i quali, opportunamente pubblicizzati tramite i media potessero fungere da stimolo all’interesse dei potenziali visitatori. L’esempio che avevamo citato era quello della rete degli affreschi della Brianza, ma in tutta l’Italia si sono strutturati negli ultimi anni progetti di questo genere, dalla Toscana alle Marche al Friuli. Qui, in particolare, merita di essere segnalata la «Via Maestra della pittura. Il Rinascimento nelle chiese dello Spilimberghese», un percorso artistico-spirituale attraverso un territorio per molti versi simile al Ticino. Ora, il volume di cui stiamo parlando giunge perfettamente a inserirsi in tale contesto e ci auguriamo che costituisca un suggerimento in più per gli stessi ticinesi a voler rivalutare la ricchezza del patrimonio artistico e soprattutto a goderne la bellezza. Proprio
quest’ultimo fattore sembra inserirsi in un movimento culturale e di costume molto attuale: sulle pagine culturali di un periodico italiano negli scorsi giorni si faceva insistentemente menzione del valore della bellezza come elemento di scoperta ma anche di acquisizione di «verità». Persino la bellezza di certe formule matematiche veniva portata ad esempio. A noi, invece, pensando al valore della bellezza che caratterizza il nostro cantone, non può non tornare alla memoria un articolo redatto oltre cent’anni fa da uno scrittore ticinese: «Poiché il sentimento estetico, benché impoverito e spurio in parecchie sue manifestazioni, è, mi pare, la forza più antica, costante, vivace che operi in noi. (...) E questa nativa costante inclinazione della gente nostra ad una concezione artistica della vita si manifesta, forse anche più evidente, a chi visiti il paese e osservi la struttura e la postura dei villaggi, le chiese, le cappelle, le case. (...) Il Cantone Ticino è, ripeto, un paese in cui il senso della bellezza è antico e popolare». C’è da riflettere. /AZ
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 marzo 2019 • N. 12
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Società e Territorio
La pianificazione difficile
Ticino 50 anni fa veniva bocciata dal popolo la Legge urbanistica. Nel corso dei decenni la pianificazione
del territorio ha prodotto diverse leggi, ma il dibattito sulla qualità del paesaggio rimane vivo
Fabio Dozio Il Ticino è bello o brutto? Pensiamo al territorio, alla sua salvaguardia, ma anche al patrimonio culturale e storico, a quanto è stato distrutto e sacrificato e a tutto ciò che è stato costruito, edificato in questi ultimi cinquant’anni. Possiamo sorvolare il piano di Magadino, per valutare il sacrificio della zona agricola, che subirà un ulteriore sfregio con il progetto di Officine FFS. Guardiamo al Piano dello Scairolo, nel Luganese, dove sono state inserite in un vicolo cieco (si va e si torna dalla stessa strada) decine di grandi magazzini che attirano migliaia di clienti. Facciamo un’escursione nella Campagna Adorna a Mendrisio, ormai abusata e adornata per lo più di capannoni, centri commerciali e obbrobri edilizi. Ci fermiamo qui, per carità politica, per non apparire demagoghi e disfattisti. «L’espansione disordinata degli insediamenti e la distruzione dei terreni coltivi sono problemi insoluti della pianificazione del territorio svizzero»: lo dice l’Ufficio federale dell’agricoltura (UFAG). E se ciò vale per la Svizzera, figuriamoci come potremmo definire lo stato del territorio ticinese, che nel confronto nazionale non fa certo una bella figura. Dunque, il Ticino è bruttino. Seconda domanda: si poteva evitare che il territorio del Cantone fosse così maltrattato? Domanda oziosa, con i se e con i ma non si va da nessuna parte. C’è però un anniversario che merita di essere rievocato: la sonora bocciatura, che avviene il 20 aprile 1969 da parte del popolo ticinese, della Legge urbanistica. Una proposta che vuole introdurre un Piano direttore cantonale, disciplinare i piani regolatori comunali e, soprattutto, vietare le edificazioni sui terreni senza fognature e infrastrutture. Avrebbe potuto, questo atto, cambiare il volto del nostro territorio? Probabilmente no, ma forse non è esagerato affermare che la Legge urbanistica ha assunto, in Ticino, il carattere di mito, di un simbolo con due facce: la volontà e la speranza di cambiamento della generazione dei giovani politici da una parte, e la realtà più conservatrice e timorosa del popolo e degli interessi particolari dall’altra.
Elaborata nel 1967, approvata dal Gran Consiglio nel 1968, la Legge urbanistica fu affossata dal popolo con il referendum del 1969. Vent’anni dopo il Cantone adottò il Piano Direttore Si tratta di una legge senz’altro innovativa, pensata e promossa in primo luogo da Franco Zorzi, uno dei politici di maggior spessore del novecento ticinese. Elaborata nei dettagli nel 1967, quando in parlamento c’è un gruppo di giovani che rappresenta l’aria del tempo, lo spirito del Sessantotto. Sono gli anni in cui, dalla Francia all’Italia, si discute di pianificazione economica, ma anche territoriale o urbanistica. E sono gli anni del boom economico, quella che allora si definiva «alta congiuntura», marcato tasso di sviluppo, lavoro per tutti, buste paga che si gonfiano, forte sviluppo demografico ed edilizio. «In forza anche del fenomeno della speculazione fondiario-immobiliare
Il PIan Scairolo e l’area commerciale e industriale di Grancia visti dall’alto. (Ti-Press)
– sintetizza l’economista Angelo Rossi – questo aumento concentrato della domanda di superfici determinò un notevole rincaro dei prezzi dei terreni e degli affitti per abitazioni, come pure dei prezzi per le superfici ad uso industriale o commerciale. Il boom nelle costruzioni private provocò inoltre una forte espansione degli investimenti pubblici nelle infrastrutture, in particolare negli investimenti per la rete stradale»1. Le transazioni immobiliari nel 1968 registrano un incremento del 48%, nel 1969 del 41%. Da sud arrivano i capitali in fuga dall’Italia che fanno la fortuna della piazza finanziaria, da nord scendono tedeschi e confederati a ritemprarsi nella Sonnenstube. Un Cantone effervescente con giovani dinamici che vogliono imprimere una svolta alla politica. Durissimo il giudizio, allora, dello scrittore Plinio Martini: «anche se non tutti sono disonesti, ma solo impreparati... il Canton Ticino, chiuso al Nord dalle Alpi e a sud dal Confine è come una forma di formaggio che non prende aria e fa i vermi; i vermi sono gli avvocati, i consiglieri, i galoppini dei consiglieri, i galoppini dei galoppini e dietro i capomafia...». In questo contesto si discute la legge proposta dal Consiglio di Stato, ma arricchita dalla Commissione parlamentare. Il dibattito in Gran Consiglio, alla fine del 1968, si svolge sull’arco di 19 giorni, i verbali consumano 400 pagine. Una trasmissione televisiva2 del novembre del 68 dà la parola ai protagonisti del dibattito. Pietro Martinelli, ingegnere e giovane socialista del gruppo di Politica Nuova, la rivista della sinistra del partito, denuncia la speculazione immobiliare e si preoccupa delle «nostre massaie», confrontate con città poco accoglienti e con monopoli immobiliari e affitti esagerati: «Molti nostri Comuni si trovano di fronte a impegni che non riescono più a risolvere, dalle strade alle fognature, dal piano regolatore alle scuole e agli asili. Questi impegni finanziari si accavallano uno sopra l’altro. (…) Il disservizio dei servizi urbani: vediamo le nostre massaie quando devono andare a far la spesa o portare il bambino
a scuola, andare in farmacia, devono spendere una quantità di tempo inutile perché l’organizzazione delle nostre città non è funzionale». Fiorenzo Perucchi, deputato del Partito Conservatore democratico, nega che venga messa in discussione la proprietà privata: «Il progetto di legge urbanistica che sta per essere esaminato dal Gran Consiglio si muove nell’ambito dell’attuale concezione della proprietà privata e non può essere diversamente, perché tutte le leggi che si emanano nel nostro cantone, evidentemente, devono essere progettate sulla base dell’attuale ordinamento costituzionale. Il pensiero moderno ha scoperto che la proprietà fondiaria non può essere più concepita come una proprietà assoluta e quindi a questa proprietà fondiaria devono essere posti dei limiti direi di carattere sociale. Il diritto di proprietà deve pertanto subire delle necessarie limitazioni». Diego Scacchi, giovane liberale radicale e presidente della Commissione, esprime il timore che la legge non sia capita: «Posso definire questa difficoltà di ordine psicologico nella generale resistenza alla novità. La legge urbanistica è innovatrice, il che davanti alla popolazione ha come conseguenza un certo senso di paura, di sgomento o di ritrosia e di resistenza. A me sembra che questo sentimento non sia assolutamente giustificato, non dobbiamo nasconderci che esiste e che può essere una seria difficolta per l’approvazione della legge e per la sua applicazione». Giancarlo Staffieri, portavoce del partito agrario, è decisamente contrario: «Il rapporto è caratterizzato da astratte posizioni dottrinarie che a mio modo di vedere vanno totalmente respinte e che attingono ad autori tutti collocati nell’area della contestazione globale del sistema e della società dei consumi o comunque che sono negatori di valori spirituali tradizionali, ma pur sempre attuali perché democratici e posti a fondamento del nostro ordine giuridico e dello Stato stesso». Il rapporto inizia con un preambolo, o «cappello ideologico», che fa molto discutere. Silvano Toppi rivela che c’è anche un riferimento a un pensatore radicale molto in voga nel sessantotto,
Herbert Marcuse: «Ho tra le mani il ciclostile, il progetto di rapporto, steso da Martinelli che lui stesso mi aveva allora passato (porta la data, a matita, con tanto di firma, del 4.6.68). In quel progetto di rapporto, in due sotto-capitoli, il nome di Marcuse appare due volte, con ampie citazioni dei suoi scritti (sulla capacità della società attuale di contenere il mutamento sociale; sulla pianificazione democratica divenuta un’alternativa storica)1». Il nome di Marcuse sparisce dal rapporto, ma alcuni concetti rimangono: «la prevalenza degli interessi privati, ispirati dal desiderio di ricchezza e di potere personale, sono dunque all’origine dell’attuale stato di cose… la pianificazione democratica diventa un’alternativa storica determinante per la sopravvivenza dell’umanità, per lo sviluppo di un’etica che superi il divario con il progresso tecnico». Il preambolo era dunque ideologicamente pregnante. Gli oppositori non mancano di sottolineare che «sembra scritto dal Cremlino». Ma anche il Papa, Paolo VI, ricorda Toppi, non è da meno: «Il diritto di proprietà non si può esercitare a detrimento dell’utilità comune, c’è un doloroso conflitto da superare tra diritti privati acquisiti ed esigenze comunitarie primordiali». Come dicono molti protagonisti del dibattito di allora, il cappello ideologico è solo un pretesto per seppellire la legge. Le novità sono il Piano direttore cantonale e i Piani regolatori comunali. Il punto più sensibile è l’articolo 70, che vieta di costruire nelle zone dove non ci sono opere di urbanizzazione come strade, acquedotti e fognature. Gli ambienti economici, le società immobiliari e tutti i proprietari di terreni vedono in questa misura una limitazione della libertà e della proprietà privata. Il Gran Consiglio approva la legge a schiacciante maggioranza (51 sì e 3 no) il 18 dicembre del 1968, ma gli oppositori lanciano il referendum che nell’aprile del 1969 spazza via la riforma con un pesante risultato: 68,3% di no, le donne non votavano ancora! «I ticinesi, – commenta poco dopo Pietro Martinelli – per i quali fino ad allora ogni superficie priva di bosco era potenzialmente edificabile, preferiro-
no mantenere un disordine dal quale alcuni avevano tratto grandi benefici e molti altri speravano di trarne in futuro, a un ordine dal quale temevano di restare esclusi». Franco Masoni, avvocato, allora deputato in Gran Consiglio, annota: «la legge non considerava in primo luogo che il problema estetico paesaggistico è un problema culturale ed esige una maturazione culturale e non si risolve con delle imposizioni e in secondo luogo che invece di coinvolgere i comuni, imponeva loro una pianificazione che i comuni non erano ancora in grado di accettare». Sarà poi la Confederazione a imporre le regole basilari della pianificazione del territorio, fin dagli anni Settanta. «La Confederazione stabilisce i principi della pianificazione territoriale. – afferma l’art. 75 della Costituzione elvetica – Questa spetta ai Cantoni ed è volta ad un’appropriata e parsimoniosa utilizzazione del suolo e a un ordinato insediamento del territorio». Il Piano Direttore cantonale è considerato il cardine della politica territoriale svizzera, ma in Ticino arriva solo nel 1989; a venti anni dalla proposta contenuta nella legge urbanistica. Nel nostro Paese nella pianificazione del territorio non c’è gerarchia. La legge federale, entrata in vigore nel maggio del 2014, prescrive di ridurre le zone edificabili contenendo la frammentazione e densificando le costruzioni, è anche molto severa, ma sono i Cantoni e i Comuni a dover applicarne i principi, in un regime di «reciproca considerazione». I Comuni ticinesi sono ora confrontati con gli imperativi della legge federale che impone, fra l’altro, di dezonare (trasformare terreni edificabili in zone verdi) quando c’è un eccesso di spazi costruibili. Una bella gatta da pelare, che fa ricordare la messa in discussione della proprietà privata nel 1969. Faranno i loro compiti i nostri Comuni? Saranno in grado di imporre ai privati la rinuncia all’edificabilità? Staremo a vedere. Note
1. «Archivio storico ticinese», n. 164. 2. Il progetto di legge urbanistica cantonale, LanostraStoria.ch
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 marzo 2019 • N. 12
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Società e Territorio
L’eroina in famiglia
Libri Vanessa Roghi parte da vicende personali per tracciare il quadro della diffusione dell’eroina in Europa nel 900
Laura Marzi Esistono ancora dei contesti sociali in cui di eroina non si parla mai, come se non esistesse o non avesse decimato in passato generazioni intere, come se anche ora non venisse consumata negli «angoli», che come scrive Vanessa Roghi sono i luoghi simbolici e spaziali in cui si nasconde il tossicomane. Eppure, chi ha vissuto l’esperienza disperante di un fratello, il padre, la madre eroinomani vorrebbe sempre sentirne parlare, ascoltare da un’altra voce, capire, cercare seppur vanamente delle risposte. Anche per Vanessa Roghi la molla è stata questa: partire da sé, dalla storia di suo padre, della sua famiglia, per poi metterla da parte e darci un quadro storiografico dell’arrivo e della diffusione dell’eroina in Europa nel ’900. L’esperienza personale è il punto da cui muove anche Michelle Halbheer, autrice di Platzspitzbaby – Meine Mutter, ihre Drogen und ich intervistata per «Azione» da Luca Beti. Nel caso della giovane autrice zurighese si è trattato di dare voce a se stessa bambina e alla tragedia di vivere con una madre eroinomane che non è mai riuscita a prendersi cura di lei, ad anteporla al suo bisogno di farsi. È invece la combinazione tra la vicenda personale e l’approccio storiografico nel testo della storica Vanessa Roghi che garantisce al lettore un equilibrio virtuoso tra l’informazione e l’umanità. Scopriamo così che l’eroina venne immessa sul mercato europeo
nel 1898 dalla Bayer, con la garanzia che la sostanza non avrebbe generato alcuna dipendenza (!). E uno spazio molto ampio nel testo è dedicato infatti alla connessione strettissima e spesso dimenticata tra l’eroina e la morfina o altri medicinali, prescritti in una fase acuta di dolore, che come controindicazione hanno generato nei pazienti una dipendenza indelebile. Si tratta di una connessione fondamentale e spesso trascurata, che invece è all’origine di molte storie di eroinomania, ovunque nel mondo. Per esempio in La Straniera, l’ultimo romanzo di Claudia Durastanti, troviamo riferimenti al contesto statunitense, dove la famiglia dell’autrice emigrò. In questo caso a diventare tossicodipendente a causa di una prescrizione di Oxycontin dovuta al mal di schiena è la giovane cugina della narratrice che poi, come spesso accade in storie del genere, decide di passare all’eroina «perché il rapporto qualità-prezzo era migliore». Del resto, l’approdo alla tossicodipendenza per cause mediche è all’origine anche della storia di William Burroughs, che nel ’900 è il narratore per eccellenza della dipendenza da eroina. All’interno di questo panorama di mémoir scritti a partire dall’esperienza propria o del legame familiare con un consumatore di droghe pesanti, il libro di Vanessa Roghi fa la differenza per la sua ricerca di una verità che non sia soltanto quella personale, ma anche sociale. Se è vero, infatti, che la storia di ogni singolo paese è dirimente e che ci
In Piccola città l’autrice dà spazio anche alle testimonianze dirette degli eroinomani.
sono realtà nazionali in cui sono state cercate soluzioni e non la rimozione, è innegabile che alcuni aspetti della questione sono trasversali, perché: «l’eroina nega alle radici la convivenza civile». Per questo è problematico ovunque il rapporto, che muta nel corso del tempo senza mai cambiare davvero, tra drogati e malati psichiatrici. Per quanto riguarda l’Italia a dare la misura del paradosso basti pensare che la legge Basaglia (1978), che tanto influenzò la Legge sull’Assistenza Sociopsichiatrica Cantonale del 1985, permise la chiusura dei manicomi, mentre la legge sulla droga del 1975 istituì le comunità te-
rapeutiche come luoghi di isolamento dei drogati dalla società. Il testo di Roghi non tralascia, nella ricerca delle cause culturali e sociali propria al metodo storiografico, le testimonianze dirette, che forniscono informazioni difficilmente reperibili altrove e permettono l’empatia, tanto necessaria quando si tratta di sospendere il giudizio e la ripugnanza che il tossicodipendente evoca inevitabilmente a ogni latitudine. Nel testo sono vari gli spazi in cui a parlare sono gli eroinomani, da coloro che hanno saputo raccontare con finezza di parole e profondissima consapevolezza la tos-
sicomania, come William Burroughs appunto, Carlo Rivolta, ma anche i racconti di coloro che hanno partecipato al testo di Marisa Rusconi e Guido Blumir La droga e il sistema. Cento drogati raccontano. Così accade che si piange, soprattutto per i brani tratti dalle lettere dei familiari che Roghi pone alla fine del testo, grati di aver letto un libro raro e necessario. Bibliografia
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 marzo 2019 • N. 12
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Società e Territorio
L’aiuto pubblico alla stampa è necessario?
Dibattiti Le opinioni sono divise ma è chiaro che in Svizzera molte realtà editoriali stanno scomparendo
e il fatto non può che nuocere alla salute della democrazia Enrico Morresi A trent’anni dalla svolta del 1988/89 (quando la fine del «Quotidiano» e la crisi dei giornali di partito costò la vita a quattro dei sette quotidiani che si pubblicavano nel Ticino), nuovi problemi si sono profilati per i giornali rimasti. Allora, la crisi strutturale del «Giornale del Popolo» non era ancora nota, e del «Corriere del Ticino» e de «laRegioneTicino» si sapeva che potevano godere della formula magica chiamata Tre Top Ticino, che rastrellava la pubblicità e ne ripartiva i proventi secondo le tirature. Oggi i nostri giornali sono tutti deficitari. De «laRegione» non ho le cifre, ma so che vi è stata operata una severa ristrutturazione redazionale. Nel suo penultimo anno di vita il disavanzo del «Giornale del Popolo» superava il milione, quello del «Corriere del Ticino» era vicino ai due milioni. Che la Diocesi nel frattempo abbia gettato la spugna è comprensibile. Quanto al «Corriere», campa sul «tesoretto» messo da parte negli anni buoni: il giornale si profila come l’unico quotidiano in grado di sopravvivere se vi sarà una nuova stretta.
In Svizzera rimane forte il bisogno di informazione regionale e locale ma le testate sono calate da 273 a 184 tra il 1990 e il 2013 Malgrado ciò, per ora almeno, in Ticino lo stato di salute dell’informazione è migliore che nel resto della Svizzera. Basta osservare quanto tempo e spazio prende l’imminente tornata elettorale nei giornali, nelle radio e nelle televisioni! Nella maggior parte degli altri cantoni invece la crisi ha già colpito, in modo durissimo e ben oltre le possibilità di essere compensata dal servizio pubblico radio-televisivo. Benché il volume degli investimenti pubblicitari sia,
nell’insieme del Paese, cresciuto da 4,2 nel 2012 a 6,3 miliardi nel 2017, la quota spettata ai giornali, ai settimanali e ai domenicali è calata da 1,783 a 1,117 miliardi, cioè di un terzo, mentre la pubblicità su piattaforme online e social media (Google, Youtube, Facebook e Twitter) è cresciuta da 899 milioni a 3,056 miliardi (fonte: Werbeaufwand 2018). I deboli introiti dei servizi online dei giornali (compreso il cosiddetto paywall che permette di leggere a pagamento gli articoli anche sul web) non compensano le perdite. I media elettronici, in questo, non hanno… responsabilità: poco aumentata appare infatti la quota spettante alla televisione (da 726 a 774 milioni), alle radio private (da 147 a 151 milioni) e al cinema (da 26 a 31 milioni). Non per caso la Svizzera si chiama ancora: «confederazione». La vita politica vi appare tuttora decentrata in tanti cantoni, in cui l’elettorato è consultato di frequente: giustificato è dunque il bisogno di un’informazione regionale e locale. Ma le testate sono calate da 273 a 184 tra il 1990 e il 2013, molti giornali regionali e locali si sono associati a un giornale più forte, ad alcuni non è rimasta alcuna autonomia: si parla di Kopfblätter. A Ginevra, tranne lo smilzo «Courrier», non esce più nessun quotidiano: la «Tribune de Genève» è fatta a Losanna e il proprietario è un editore di Zurigo. Il bilancio complessivo per la regione lemanica è magro: «Le Temps», giornale di qualità, ha una tiratura di poco superiore alle 30mila copie: più o meno come il «Corriere del Ticino» (ma la regione è dieci volte più grande). Non possiedono più un giornale «fatto in casa» Basilea, Lucerna, Berna, San Gallo: le grandi famiglie di editori si sono tutte eclissate. Conglomerati redazionali (e soprattutto manager spietati) dettano il ritmo da Zurigo, dove quel che si scrive deve andar bene per Aarau, per Sciaffusa, per il Toggenburgo e per l’Hasliberg. «Abito a Horgen ma mi ritengo meglio informato su quel che accade a Zurigo, dove lavoro», dice il prof. Daniel Kübler dell’Università di Zurigo.
In Ticino si è passati da sette a tre e ora a due quotidiani, che offrono anche servizi online. (Ti-Press)
Pare dunque una cecità ostentata quella che induce il Partito Liberale Radicale svizzero a respingere «un aiuto diretto che creerebbe una dipendenza dallo Stato nefasta per la nostra democrazia» («Edito» 06/2018, p. 13) e si fatica a capire l’opposizione per gli stessi motivi espressa da «Stampa Svizzera» – l’associazione degli editori di giornali. La Costituzione federale non prevede aiuti diretti alla stampa. È vero, e le ragioni sono storiche: nell’indipendenza dalla politica gli editori e le redazioni hanno sempre visto una marca di autonomia. Ma c’è anche chi, come Urs Thalmann, segretario di Impressum – il sindacato dei giornalisti –, sostiene una responsabilità dei singoli cantoni. La Commissione federale dei media, nel suo rapporto del 2014, ammetteva la mancanza di una base costituzionale per giustificare aiuti diretti, ma a quel punto si fermava: da essa è mancato lo stimolo a un cambio di passo. Siamo perciò ancora allo stadio delle mozioni e dei postulati… E nell’attesa che un nuovo maxi-rapporto suggerisca le varianti di un in-
tervento possibile è probabile che altri giornali chiudano o si aggreghino a un consorzio più grande. In Europa, pochissimi Stati come la Svizzera si limitano a un finanziamento indiretto: ribassi sulle tariffe postali e un tasso agevolato dell’IVA. Il sostegno indiretto prevale, ma il dogma del non-intervento non lo sostiene più nessuno. Le linee di tendenza, infatti, sono identiche. In Italia, nel 2018, la pubblicità sui quotidiani è calata ancora del 6,2%, quella sui periodici dell’8,8%, mentre sui social media è cresciuta dell’8%. Le imprese editrici hanno tagliato drasticamente nei propri conti e ancora di più lo dovranno fare dopo che il Parlamento, dominato dalla coalizione gialloverde (Lega e Movimento 5 Stelle), ha deciso di sopprimere i contributi diretti entro il 2022. Il risultato sono un peggioramento della qualità e la diffusione del precariato tra i giornalisti: quanto pericoloso per la qualità dei servizi l’ho dimostrato più volte anche su «Azione». A chi si preoccupasse dei nuovi
oneri che si intende addossare agli enti pubblici va fatto notare che una contropartita adeguata potrebbe trovarsi tassando in modo corretto gli utili miliardari delle grandi società mondiali della comunicazione: Google, Youtube, Facebook e Twitter, che scelgono di aver sede dove si pagano meno imposte. Il Parlamento europeo e l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico se ne stanno occupando: se ne distanzierà la Svizzera? Questa è una battaglia che nessuno Stato può illudersi di combattere da solo: di fronte stanno imprese enormi, che hanno mezzi di pressione molto più forti di quelli a disposizione di un piccolo Paese. La situazione relativamente ancora buona del Ticino non deve estraniarci dal dibattito che sta entrando nel vivo sul piano nazionale. Dalla nuova responsabile del Dipartimento dei trasporti, delle comunicazioni e dell’energia, Simonetta Sommaruga, si attende un passo coraggioso in avanti. Prima che sia troppo tardi per i medi e i piccoli giornali da cui dipende la buona salute della democrazia. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 marzo 2019 • N. 12
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Società e Territorio Rubriche
Lo specchio dei tempi di Franco Zambelloni La nuova Chimera Nell’antichità era un mostro: nel sesto libro dell’Iliade Omero descrive la Chimera come un animale ibrido, con testa di leone, corpo di capra, coda di serpente; dalla bocca mandava fuoco. Nella Teogonia Esiodo la descrive con tre teste – sempre di leone, di capra e di serpente – e così compare nella famosa scultura etrusca in bronzo risalente al V secolo a.C. Da quei tempi lontani il mostro è cambiato, si è evoluto in molteplici forme secondo l’immaginazione umana; ma, soprattutto, il suo nome è divenuto sinonimo di un sogno, un desiderio irrealizzabile, un’illusione. «Inseguire chimere»: è ciò che si dice di chi coltiva sogni impossibili, fantasie irrealizzabili, progetti utopici. Ebbene, è questa commistione di mostruosità e desideri che mi richiama alla mente il nostro tempo, che ormai da molti studiosi è definito il tempo del «postumano». Infatti: innumerevoli chimere noi
le abbiamo realizzate, anche più di quante siano state sognate in passato; e, soprattutto, noi stessi siamo diventati chimere. L’ibridazione crescente tra la macchina e l’uomo, il dilagare delle tecnologie, hanno modificato non solo il modo di vivere, ma l’immagine stessa dell’uomo. Immaginiamo che un uomo dell’Ottocento potesse vedere un motociclista, con tanto di casco, a cavallo di una Harley-Davidson: certamente sarebbe stato terrorizzato dal rombo del motore, dalla velocità della corsa, e non avrebbe pensato a un uomo, ma ad un mostro, un centauro (come chiamiamo noi oggi un motociclista, evocando un altro mostro mitologico). La tecnica ci ha permesso di dominare il mondo. Il millenario progresso dell’uomo è avvenuto passo passo grazie a invenzioni tecnologiche, dalla ruota al mulino, dalla vela all’archibugio, dalla macchina per cucire all’aereoplano… Ogni conquista ha
costituito un’acquisizione di potere, un passo verso l’onnipotenza. Sono stati passi molto lenti per la quasi totalità della nostra storia; oggi invece si va di gran corsa. Una corsa che comporta vantaggi straordinari: per esempio, leggo che ci si sta avvicinando a una vera ibridazione dell’uomo con la macchina per risolvere drammatici casi di tetraplegia. Un tetraplegico potrebbe indossare un esoscheletro che fungerebbe da robot, comandandolo grazie agli impulsi cerebrali: muoverebbe dunque gli arti secondo la sua volontà e ritroverebbe la libertà di movimento da tempo perduta. Del resto, ha già suscitato clamore il caso di Oscar Pistorius, l’atleta privo di gambe fin da piccolo, che nel 2012 ha potuto partecipare a una gara olimpionica di corsa grazie a protesi in fibra di carbonio in sostituzione degli arti mancanti. È però un dato di fatto che più la nostra vita s’intreccia con la tecnologia, più
ne diventiamo dipendenti. Ricordo quando, lo scorso anno, per quasi un giorno un guasto tecnico mi tolse la corrente elettrica di casa: niente più computer, televisore, forno elettrico, macchina da caffè. Trovai una candela, sufficiente solo per un po’ di chiarore: ma era come essere sprofondato in un mondo diverso, estraneo e ostile. Un disagio leggero, tutto sommato; niente di paragonabile al gigantesco blackout che nell’agosto del 2003 lasciò senza luce 50 milioni di statunitensi, provocando morti e feriti, ondate di panico e atti criminali favoriti dal buio. E talvolta altri casi, come l’esplosione del reattore di Chernobyl, ci avvertono che ogni conquista ha il suo rovescio, ogni potere acquisito può sempre ribaltare il bene in male. La tecnologia moltiplica dunque i nostri poteri, ma crea anche una terribile dipendenza. L’uomo-chimera sarà sempre meno capace di rinunciare alle
tante protesi delle quali si circonda, che lo mettono in grado di parlare e di vedere da un capo all’altro del globo, di volare, di viaggiare senza fatica, di sollevare pesi enormi, perforare montagne, illuminare le notti. E le innovazioni tecnologiche continuano ad avanzare e ad evolvere senza sosta e credo non avesse torto Arnold Gehlen quando sosteneva che ogni civiltà ha sempre sviluppato delle tecniche, ma che tra il passato e il presente c’è una sostanziale differenza: l’uomo antico maneggiava le proprie tecniche essendone cosciente, mentre l’uomo moderno viene maneggiato da queste tecniche senza esserne cosciente. Così, affiora il sospetto che la straordinaria libertà che ci viene dalla crescente automazione adombri il lato oscuro della splendida chimera. È questa la tesi di Steven Rose: siamo diventati irrimediabilmente imprigionati in un mondo in cui siamo alla mercé delle nostre macchine.
Prendeva polvere da più di un secolo nel Museo engadinese ed ora la messa in scena del 2014 rende giustizia a «uno dei più importanti ritrovamenti alpini della preistoria» secondo Jakob Heierli, emerito studioso autore di Urgeschichte der Schweiz (1901). La superficie in larice dei due tronchi, scavati con chissà quali arnesi per ottenere dei tubi cilindrici a forma di grandi paccheri svasati impermeabilizzati all’epoca con pelle di pecora ai bordi, è commovente. Accanto, in un’altra vetrinetta, sono esposte due spade in bronzo. Trovate dentro il fango dei due tronchi, pare fossero offerte votive alle divinità precristiane dell’acqua minerale scoperta più di tremilaquattrocentotrenta anni fa. Le «tanto celebrate acque di San Maurizio» come scriveva il dottor Cesati di Vigevano nel 1674, adombrate forse in seguito dai fiumi di champagne del jet set. La Mauritiusquelle sgorga oggi in quattro zampilli da una bella fontana minimale illuminata fiocamente, risacralizzando così il luogo. Disseccata nel secolo scorso, la Paracelsusquelle,
è stata quindi sostituita dalla sorgente originaria assaggiata da Paracelsus che prende il nome dal santo legionario tebano morto a Saint-Maurice in Vallese nel 287 dopo Cristo. Di fianco a quattro bicchieri d’epoca in mostra, nella penombra di una rientranza si prendono i bicchieri di carta con su il logo ripreso dai rosoni decorativi della facciata. Per sorseggiare l’acqua – alla quale sono state dedicate quattordici pagine nella poderosa Hydrographia helvetica (1717) di Scheuchzer e persino un paio di sonetti e madrigali di un certo dottor Malacrida – in faccia al larice attraverso il quale risaliva in superficie. Sa un po’ di sangue ma è bella fredda, mi piace. Dentro l’incavo della fontana dello stesso impasto di beton rosso stinto, si notano già le splendide tracce di rosso acceso, sacrificale, lasciato in cinque anni dall’acqua. Non a caso la chiamavano ova cotschna, acqua rossa, reperibile anche in due microtoponimi vicini. Un Piz e una via qui dietro, sul limitare del bosco fatato di cembri dove m’inoltro.
A due passi di Oliver Scharpf Il Forum Paracelsus a St. Moritz-Bad Nell’inverno 1411-1410 avanti Cristo, un larice secolare cade in una foresta dell’alta Engadina. Quel tronco, assieme a un altro di diametro inferiore, viene dissotterato nel 1907 laggiù, sul limitare del bosco appena dietro il Kempinski Grand Hotel des Bains. Sono i due elementi base della cisterna di captazione della fonte di acqua ferruginosa risalente all’età del bronzo che da qualche anno si possono vedere, sorseggiando al contempo quella stessa acqua, dentro il Forum Paracelsus a St. Moritz-Bad (1772 m). Un padiglione termale tardo classicista tra i cembri e la neve dura di marzo che ispira molto gli appassionati di sci di fondo. Costruito nel 1866 secondo i piani di Felix Wilhelm Kubly (18021872), autore tra l’altro del Kurhaus di Tarasp sorto un anno prima e un anno prima ancora proprio del Grand Hotel des Bains, mi sembra subito quasi una chiesa. Senza campanile, gli elementi nella facciata non mancano: frontone, timpano, nicchie vuote simmetriche, vetrata a mezzaluna, marmo maculato, rosoni decorativi. Il pensiero per
un attimo corre alla sacrale büvetta di Tarasp sulla sponda destra dell’Inn. Alle spalle di questa forse più modesta ma rimarchevole Trinkhalle restaurata a regola d’arte, nel bosco che sale su ripido ai piedi del Piz Rosatsch, spunta sul serio una chiesetta neogotica conosciuta come chiesa francese o église au bois. Mutilato del braccio sinistro in legno che lo collegava al Kurhaus svanito e innestato a sua volta nell’odierno Kempinski, il padiglione ospitava la fonte Paracelsus. Scoperta nel 1815 e battezzata così in onore di Paracelso (1493-1541) perché il famoso medico e alchimista accennando all’acqua curativa di St. Moritz, nel 1535, scrisse che «fortifica lo stomaco al punto che un merlo potrebbe digerire un serpente». ParacelsusQuelle si leggeva infatti un tempo su in alto, sotto il timpano, al posto della scritta sempre in maiuscolo e in rosso sinopia che si legge ora: Forum Paracelsus. Nuovo nome dell’edificio riaperto al pubblico dopo anni di abbandono dove entro adesso dall’ala destra di legno verniciato in grigio
provenza. Questa parte è visitabile sempre, dalle sette di mattina alle otto di sera, mentre il corpo centrale provo ma la porta è chiusa. Sbircio dentro e le pareti lasciate scrostate hanno tutto il mio rispetto. In aprile queste mura ospiteranno qualche tela del Museo Segantini chiuso per lavori dall’undici marzo a metà dicembre. Un corridoio scuro ed esoterico che mi ricorda per un secondo o due l’entrata mistica alle terme di Vals di Zumthor, è il primo assaggio del lavoro di Ruch & Partner. Quintetto di architetti con studio a St. Moritz capitanati da Hans-Jörg Ruch che i lettori fedeli hanno incontrato di sfuggita non molto tempo fa a Zuoz. Le pareti spesse in beton a vista richiamano il rossastro dei lasciti decennali dell’acqua su rocce eccetera. Pigmenti di ossido di ferro sono stati mescolati assieme al cemento, l’effetto è un color vinaccia sbiadito. Una decina di passi ed ecco, nel buio teatrale della stanza in fondo a destra, dietro una vetrina sapientemente illuminata, la sensazionale cisterna di captazione ricostruita.
La società connessa di Natascha Fioretti Il World Wide Web e il muro di Berlino trent’anni dopo Riflettevo su due importanti anniversari che cadono quest’anno, uno all’inizio e uno alla fine del 2019. Due anniversari così diversi nella loro natura e nella storia eppure, in qualche modo, complementari e significativi nel raccontarci la nostra epoca e le nostre scelte. Parlo dei 30 anni del World Wide Web di Tim Berners-Lee e dei 30 anni dalla caduta del muro di Berlino. Ricordo mio nonno Peter commosso guardare in TV le immagini da Berlino: quale profondo significato avevano per lui che aveva perso il padre in guerra e aveva uno dei suoi fratelli a Berlino est. Lui, come tanti altri sopravvissuti alla guerra e testimoni delle sue drammatiche conseguenze, sognava non solo una Germania ma un mondo senza muri, confini, divisioni e conflitti. Perché vi sto dicendo questo? Perché l’invenzione del World Wide Web e la caduta del muro di Berlino
sono avvenuti contestualmente. Era il 12 marzo del 1989 quando Tim Berners-Lee presentò ai suoi capi al CERN di Ginevra una sorta di memoria che venne bollata come «Vaga ma eccitante». Era il 9 novembre quando cadde il muro di Berlino decretando la fine dei regimi comunisti in Europa e la nascita di una Germania unita. Guardando indietro, mi sembrano entrambi figli di una spinta dell’Occidente verso ideali di giustizia, uguaglianza, democrazia e libertà in uno spirito di grande apertura all’insegna di una società più giusta e inclusiva. Per Tim Berners-Lee il Web doveva essere uno strumento al servizio dell’umanità, uno strumento in grado di costruire società migliori sulla base di conoscenze e saperi condivisi accessibili a tutti. Io nel 1989 avevo solo 13 anni ma crescendo ho potuto toccare con mano i benefici e i cambiamenti di quei due eventi epocali.
Berlino, grazie al lavoro di mio padre, è diventata per me una seconda città che adoro per essere diventata un crocevia di culture, un luogo nel quale c’è posto per tutti (fino a qualche tempo fa era così). Il Web ha aperto i miei orizzonti e i miei contatti, non saprei immaginare la mia vita e il mio lavoro senza. Naturalmente il Web non è sempre stato il luogo dinamico e articolato che conosciamo oggi, all’inizio era fatto di siti web statici e collegamenti ipertestuali, poi nella versione 2.0 l’utente da semplice fruitore di contenuti ha iniziato a crearli e a condividerli (in questo ambiente è nato anche Facebook) fino alla versione 3.0 della quale l’intelligenza semantica è il paradigma principale. In questa estensione, il Web si è trasformato in un ambiente in cui sistemi automatici interagiscono con l’uomo in maniera evoluta con il beneficio di sfruttare un enorme bacino sia di dati sia di utenti
costruendo archivi giganteschi in cui conservare informazioni semplici e strutturate, ed estrarle per comunicare con l’uomo. Pensiamo all’intelligenza artificiale, all’internet delle cose... Che meraviglia! Sì, sulla carta, nella realtà 30 anni dopo ci troviamo a un bivio. A questo proposito chiamo in causa il giornalista Chris Baraniuk che fa due previsioni per il 2040: «È una mattina di primavera. Internet è tutto intorno a te e alle cose che ti appresti a fare durante il giorno grazie al flusso di dati che scorre nel Web. I trasporti pubblici della tua città in modo autonomo e dinamico aggiustano itinerari e orari per evitare ritardi. Comprare ai tuoi figli il regalo perfetto è una cosa da ragazzi perché i loro dati ti dicono esattamente cosa desiderano. E sei contento di essere ancora vivo nonostante l’incidente fatale del mese scorso. Tutto grazie ai dottori del pronto soccorso che hanno
subito potuto accedere ai tuoi dati ospedalieri». Secondo scenario: «È una domenica sera e il mondo è un posto buio. Il Web combatte contro il cybercrime ed è diventato impossibile stare online senza mettere a rischio il tuo conto bancario o vederti rubare la tua identità. I troll hanno conquistato i social network, il Web ha un costo e non è più accessibile a tutti e solo i ricchi possono accedere alle risorse e alla piattaforme più valide e aggiornate». Lo vedete il bivio, cari lettori? E in fondo non siamo ad un bivio anche quando guardiamo alle questioni politiche, ambientali e sociali del nostro tempo? Tim Berners-Lee, in un’intervista di questi giorni firmata da Luca Fraioli su «Repubblica» si dice ottimista perché «i buoni vinceranno sui cattivi, anche sul Web». E allora, anch’io voglio essere ottimista e non solo per quanto riguarda il Web.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 marzo 2019 • N. 12
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Ambiente e Benessere Telelavoro o nomadismo Negli ultimi anni diverse aziende propongono il lavoro a distanza e c’è chi ne approfitta
La vita rurale sulle Ande peruviane Sempre più giovani lasciano la propria famiglia per trasferirsi in città, molto spesso a Lima, ma qualcuno resiste pagina 21
Nel grembo del Basòdino Anche le grotte sono popolate da forme di vita animale, modificatesi per adattarsi pagina 23
pagina 20
Maratone epiche C’è una forma di eroismo nell’affrontare certe sfide che ci mettono alla prova
pagina 29
Il dolore dell’anima
Psichiatria La depressione ha molte facce,
può colpire chiunque ma è curabile
Maria Grazia Buletti «Ma davvero la pesantezza è terribile e la leggerezza meravigliosa? Che cosa dobbiamo scegliere, allora? La pesantezza o la leggerezza?», questo si chiede lo scrittore Milan Kundera ne L’insostenibile leggerezza dell’essere, e riporta che questa domanda se l’era posta Parmenide già nel sesto secolo avanti Cristo: «Egli vedeva l’intero universo diviso in coppie di opposizioni: luce-buio, spesso-sottile, caldo-freddo, esserenon essere». La suddivisione in poli positivonegativo può apparire semplicistica, salvo in un caso: che cos’è positivo nella vita, la pesantezza o la leggerezza? Non sappiamo se l’idea di Parmenide, secondo cui il leggero è positivo e il pesante è negativo, sia la chiave del problema, ma come scrive Kundera: «L’opposizione pesante-leggero è la più misteriosa e la più ambigua tra tutte le opposizioni». Ne parliamo con lo psichiatra e presidente dell’associazione ASI-ADOC (Associazione della Svizzera italiana per i disturbi d’ansia, depressivi e ossessivo-compulsivi), Michele Mattia, al quale chiediamo dove si situa la depressione, e come alleviarne o guarirne il peso, spesso insostenibile, che comporta. Parliamo di uno dei disturbi psichici fra i più diffusi, tant’è che in Europa una persona su 10 ne soffre, così come in Ticino. Una sindrome che comporta indubbiamente un profondo impatto sulla qualità di vita, la cui cura è sovente ostacolata da pregiudizi, paure e scarsa informazione. Ciò ha mosso il Dipartimento Sanità e Socialità del Cantone a promuovere una campagna di sensibilizzazione a favore della salute mentale (Alleanza contro la depressione in Ticino), e l’associazione ASIADOC a organizzare un convegno a tema (Depressione: dialogo fra le scuole di terapia) che si svolgerà il 5 aprile al Teatro Sociale OSC di Mendrisio. Un seminario scientifico aperto a tutti gli interessati, previa iscrizione telefonica o per email (studiomattia@michelemattia.ch). «La depressione è il disturbo psichico che costituisce la diagnosi psichiatrica più trattata negli ospedali svizzeri; tradotto in franchi il “costo” che genera si attesta sugli otto miliardi l’anno», afferma il DSS. Con il dottor Michele Mattia parliamo delle cause, dei sintomi e della via da intraprendere per curarsi. Perché curarsi si può, anzi: si deve. «Nella società odierna c’è troppo trambusto e ciò crea maggiore insi-
curezza. Pare banale, ma è fondamentale perché l’insinuarsi dell’insicurezza dentro di noi ci porta a una maggiore predisposizione allo sviluppo di un disagio». I fattori genetici sono predisponenti: «Le cause della depressione si situano fra una predisposizione genetica, i fattori ambientali e, in genere, gli elementi di “eccesso” possono concorrervi. Le cause riconosciute in misura maggiore riguardano gli eventi drammatici, le malattie gravi, lo stress, le problematiche lavorative e le difficoltà finanziarie, la fine di una relazione o la scomparsa di una persona cara». Il nostro interlocutore sottolinea però il fatto che un motivo scatenante «esterno» non è, da solo, condizione sufficiente perché la malattia si sviluppi. Riconoscerne i sintomi non è sempre facile, soprattutto per la persona stessa, mentre famigliari e amici sono, in genere, sensibili unicamente se hanno già vissuto eventuali esperienze pregresse dirette o indirette: «La persona si sente stanca, il risveglio è pesante, i pensieri si fanno negativi, tutto rallenta ed entra nella dimensione di “faccio ciò che devo, con fatica, ma non ciò che vorrei”; il piacere relazionale, di vita, alimentare, cominciano a sfumare sempre di più; l’energia diminuisce e si entra nella dimensione dell’apatia. In campo cognitivo ci si sente meno stimolati, la volitività e la spinta vitale si riducono, il pensiero diviene di tipo colpevolizzante (“non sono più in grado di fare”). Subentra l’incapacità di vedere un futuro positivo, mentre il pensiero è bloccato su dinamiche depressive che si autoalimentano in modo inconsapevole». Già, perché è sbagliato pensare che si tratti di volontà, o che con la forza di carattere si possa uscire da uno stato depressivo, ma bisogna superare i pregiudizi che permeano dalla notte dei tempi questa patologia e le relative cure. Pure la scrittrice Oriana Fallaci affermava che «è incredibile come il dolore dell’anima spesso non venga capito: ci si piega su se stessi, si rimane soli». Di fatto, un braccio rotto si vede e si cura, così è per un’influenza, ma se si ha «l’anima a pezzi» c’è chi nemmeno se ne accorge, chi sminuisce e biasima, chi ne ha paura e si allontana. Il dottor Mattia ha la certezza dell’importanza di riuscire a superare il pregiudizio rispetto alla parola «psichiatra» («fa ancora troppa paura»): «Se riconosciamo la nostra malattia, potremo curarla adeguatamente, altrimenti si entra in cure alternative o addirittura
Lo psichiatra e presidente dell’associazione ASI-ADOC, Michele Mattia. (Vincenzo Cammarata)
di fortuna, che rallenteranno di parecchio la possibilità di recupero, perché più agiamo tardi e più i sintomi si saranno radicati all’interno della mente: le radici profonde richiedono più tempo per essere estirpate». Non bisogna temere di chiedere aiuto alle persone competenti, cominciando dal medico di famiglia che saprà, nel caso, indirizzare il suo paziente allo psichiatra: «È nostro compito promuovere le conoscenze per riconoscere la depressione come una sindrome da curare esattamente come si fa con una patologia somatica, sfatando la banalizzazione e lo stigma che sono il mantello che permette alla società di guardare altrove, e infondendo consapevolezza che agisce sul comportamento». La consapevolezza della malattia conduce alla cura: «La terapia poggia su tre pilastri fondamentali: la psicoterapia, la farmacoterapia e la stimolazione
di un’igiene di vita antidepressiva». Lo specialista indica la psicoterapia come fondamentale: «Si lavora sui fattori scatenanti l’episodio depressivo, sui pensieri depressivi disfunzionali e sulla capacità di elaborare le cause che, se non rivedute, potrebbero portare a una recidiva». L’aderenza alla farmacoterapia è fondamentale: «L’antidepressivo deve essere assunto per lungo tempo: inibisce la ricattura della serotonina, aiuta a nutrire i neuroni, aumentandone la popolazione; smettere di propria volontà è un errore». Lo stile di vita farà poi la differenza: «Un’igiene di vita antidepressiva permetterà di tenere lontani i fattori recidivanti». Il «dolore dell’anima» non va giudicato, ma va compreso: «La fatica del percorso di cura porta verso la leggerezza: in quel momento ci sentiremo sgravati dai sintomi depressivi». Quella «leggerezza dell’essere», che quando si fa «insostenibile» va curata:
«Nel percorso di cura della depressione l’anima diventerà via via più leggera. Ecco, dalla depressione si può guarire, e si riprende a vivere diventando molto più leggeri». Perché fra pesantezza e leggerezza della vita, abbiamo compreso che la chiave sta nel trovare il giusto equilibrio.
Video intervista Sul canale Youtube di «Azione» e su www.azione.ch la videointervista allo psichiatra Michele Mattia.
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Ambiente e Benessere
Nomadi digitali
Io viaggio da sola
Viaggiatori d’Occidente Qualche consiglio pratico per lavorare viaggiando
Incontro Storie
di donne – Scuola Club Migros Ticino
La sveglia è nemica-amica del pendolare: suona troppo presto al mattino ma poi molti la usano anche per scendere alla fermata giusta se si addormentano sul treno. E forse quando il sonno li coglie, sugli scomodi sedili, i pendolari sognano proprio questo: saltare la solita stazione e continuare a viaggiare sino alla riva del mare, abbattendo la barriera tra lavoro e vacanza. Spesso non è il lavoro in sé il problema, quanto piuttosto dover trascorrere così tante ore tra le pareti sempre uguali dell’ufficio. A partire dagli anni Novanta del secolo scorso però la rivoluzione digitale ha cambiato le regole del gioco. Dopo tutto passiamo la maggior parte della giornata davanti allo schermo di un computer, trasformando documenti conservati in remoti data center da qualche parte del mondo. Per questo negli ultimi anni diverse aziende hanno cominciato a esplorare il lavoro a distanza (o telelavoro), spesso concesso come premio ai dipendenti migliori per un giorno alla settimana. Ma se funziona per un giorno, perché allora non lavorare sempre in un altro Paese, in un caffè, in una biblioteca o magari in un camper parcheggiato davanti alla spiaggia? Perché non combinare in forme nuove lavoro, vacanza, spiritualità e libertà? Perché non diventare un nomade digitale (digital nomad)?
Digital nomad? Non è tutto bello come sembra, ad esempio: salvo eccezioni, scordatevi la carriera In molti ci hanno provato e dopo i loro esperimenti cominciamo a capire che è possibile, specie se avete un lavoro ben pagato ad alta specializzazione, per esempio nell’informatica, e con un buon avviamento alle spalle. Se invece siete giovani ai primi passi, potete sempre cominciare coi lavoretti (gig economy), utilizzando siti come Remote. com, Upwork.com o Freelancer.com. Nell’uno o nell’altro caso, dopo gli entusiasmi iniziali, non è sempre facile come si racconta. Per cominciare dovete sistemare tutto a casa vostra. Avete il coraggio di rinunciare a una base stabile alla quale eventualmente tornare? In questo caso potreste vende-
Pxhere.com
Claudio Visentin
re la casa, garantendovi un capitale per costruire la nuova vita, oppure ridurre le spese, non rinnovando il vostro contratto d’affitto. In alternativa cercate qualcuno che subentri durante la vostra assenza; considerate che raramente un nomade digitale resta lontano da casa per sempre. Potete lasciare tutte le vostre cose in un deposito temporaneo (Self Storage), ne trovate diversi alla periferia delle grandi città; ma ricordatevi di predisporre il pagamento in automatico se non volete vedere i vostri beni messi all’asta in un popolare programma televisivo serale… Infine fatevi inoltrare al vostro nuovo indirizzo la posta arrivata dopo la partenza. Poi bisogna avere i documenti in regola, a cominciare dal passaporto naturalmente, ma anche una buona assicurazione sanitaria è cruciale (non dimenticate le vaccinazioni). Portare con voi il cane o il gatto è doveroso, ma potrebbe rivelarsi terribilmente complicato. Anche ottenere un visto per lavoro non è scontato e pone poi altri problemi di natura fiscale. Per questo, anche se non è del tutto legale, molti preferiscono chiedere un visto turistico conservando la residenza nel Paese d’origine. La maggior parte degli Stati
chiuderà un occhio se non fate concorrenza ai locali. Cambiare spesso Paese è la parte più affascinante di questa condizione umana, ma moltiplica anche le complicazioni. Se davvero volete lavorare (e non solo fare vacanza) vi serve una certa stabilità, materiale e psicologica. E dunque quale Paese scegliere? Nomad List (nomadlist.com) vi aiuta con dati costantemente aggiornati su oltre duemila città del mondo, confrontando clima, inquinamento, costo della vita, velocità di connessione, sicurezza (specie per le donne), libertà di espressione ecc. In cima alla lista troviamo Canggu (Bali, Indonesia), con le sue case colorate fronte mare, l’onda perfetta per il surf, caffè e vita sociale. Va per la maggiore anche Chiang Mai, città storica tra le montagne della Thailandia settentrionale. Seguono città più note: Bangkok, Seul, Budapest, Berlino ecc. con un sorprendente sesto posto per Medellín (Colombia), sino a qualche tempo fa famosa per il suo cartello di narcotrafficanti (e infatti il punteggio per la sicurezza resta basso, ma pare ci si diverta parecchio). Alcuni dettagli potrebbero avere un certo peso, per esempio il fuso orario: non è piacevole
svegliarsi regolarmente nel cuore della notte per parlare con un cliente appena giunto in ufficio dopo la colazione. Salvo eccezioni, scordatevi la carriera: per avanzare nel lavoro non basta la competenza, servono anche relazioni da coltivare giorno per giorno e questo difficilmente si può fare via Skype. Non credete poi alle foto di persone che lavorano in spiaggia o su un’amaca, sorseggiando un cocktail. Nessuno lo fa davvero, sono sole pose per destare l’invidia degli amici. E quindi quanto meno vi servirà un buono spazio di coworking con i servizi essenziali condivisi, a cominciare da una connessione sicura e stabile. Risolte le questioni organizzative, rimane l’aspetto psicologico, spesso sottovalutato. Preparatevi a sopportare la solitudine, a essere straniero ovunque, a costruire ogni volta da capo nuove connessioni dopo un trasferimento. Anche gestire l’alternanza tra lavoro e vacanza nello stesso giorno (la cosiddetta workaction) richiede disciplina e le distrazioni sono sempre in agguato. Detto questo, sentite ancora in voi la vocazione prepotente del nomade digitale? O invece la condizione del pendolare non vi sembra più così male?
Sempre più donne viaggiano da sole e lo fanno per scelta, non per mancanza di alternative. Partono per coltivare interessi personali, per andare oltre la superficie dei luoghi, per conoscere più facilmente altri viaggiatori e i locali. Di queste donne indipendenti si parlerà nell’ultimo incontro della Trilogia del viaggio: «Io viaggio da sola. Storie di donne», un dialogo tra la scrittrice Alessandra Beltrame e Barbara Sangiovanni organizzato da Scuola Club Migros Ticino e RSI Rete Due. L’appuntamento è per giovedì 21 marzo 2019 alle ore 18 alla Scuola Club Migros, via Pretorio 15, Lugano. L’evento è gratuito e, considerato il tutto esaurito dei primi due incontri, meglio annunciarsi allo 091 821 71 50 oppure scrivendo a scuolaclub.lugano@ migrosticino.ch Sabato 6 aprile 2019 (h. 9.00-12.00 e 13.00-16.00), ancora presso la Scuola Club Migros Lugano, via Pretorio 15, torna invece il laboratorio dedicato all’arte di viaggiare, tenuto da Claudio Visentin, il fondatore della Scuola del Viaggio (www.scuoladelviaggio.it), curatore della nostra rubrica «Viaggiatori d’Occidente». Tra racconti, letture, discussioni e alcuni divertenti esercizi di scrittura impareremo a vivere e raccontare i nostri viaggi in forme più coinvolgenti e interessanti. Il laboratorio è aperto a tutti: sono benvenuti i principianti al pari di chi ha già qualche esperienza di scrittura. Il costo dell’iscrizione è di fr. 144.–, con uno sconto del 10 per cento a chi porterà o citerà «Azione» al momento dell’iscrizione. Il corso è a numero chiuso (massimo 12 partecipanti, in ordine d’iscrizione sino a esaurimento dei posti disponibili). È possibile iscriversi presso la segreteria della Scuola Club Migros Lugano, per telefono (091 821 71 50), via posta elettronica (scuolaclub.lugano@migrosticino.ch) o direttamente sul sito internet www.scuolaclub.ch.
Detti ristretti
Giochi di parole Meno non sarà sempre meglio, ma si fa capire e può essere divertente
Willi Heidelbach
11. CQPSSTNNMCNP 12. MBSCTRNNPRTPN 13. CHDRMNNPGLPSC 14. GNMDGLHLSRVSC 15. CHVPNVSNVLNTN 16. MLSTRMSTRMRMD 17. LCCZNCNFRMLRGL 18. CHTRVNMCTRVNTSR 19. NNSMVFGLCHDNNVGL 20. CVLDNTNNSGRDNBCC
Soluzione
Scndo ua prstgsa unvrstà amrcna, si pò intrprtre crrtamnte il cntnto di un qlssi tsto prvo di dvrse lttre, prchè in ogi prla rstino invrte la lttra inzle e qulla fnle. Se siete riusciti a interpretare correttamente il testo precedente, avete contribuito a confermare la teoria della, non meglio precisata, prestigiosa università americana in questione. Ma avete dimostrato anche di avere le capacità per affrontare il seguente, particolare gioco linguistico. Da ognuna delle seguenti successioni di consonanti, cercate di risalire a un popolare proverbio, inserendo delle opportune vocali, oltre a eventuali apostrofi, accenti e virgole. Ad esempio: RDBNCHRDLTM RiDe BeNe CHi RiDe uLTiMo
1. LTMPDNR 2. CHCRCTRV 3. DNNBDPST 4. LTRPPSTRPP 5. NNCDSNZTR 6. CHFDSFPRTR 7. LRSFBNSNG 8. LPPRNZNGNN 9. CNCHBBNNMRD 10. SNNZPPPNBGNT
1. Il tempo è denaro – 2. Chi cerca trova – 3. Donne e buoi dei paesi tuoi – 4. Il troppo stroppia – 5. Non c’è due senza tre – 6. Chi fa da sé fa per tre – 7. Il riso fa buon sangue – 8. L’apparenza inganna – 9. Can che abbaia non morde – 10. Se non è zuppa, è pan bagnato – 11. Acqua passata non macina più – 12. Ambasciatore non porta pena – 13. Chi dorme, non piglia pesci – 14. Ogni medaglia ha il suo rovescio – 15. Chi va piano va sano e va lontano – 16. A mali estremi estremi rimedi – 17. L’eccezione conferma la regola – 18. Chi trova un amico, trova un tesoro – 19. Non si muove foglia che dio non voglia – 20. A caval donato, non si guarda in bocca
Ennio Peres
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 marzo 2019 • N. 12
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Ambiente e Benessere
Un angolo di «vecchio Ticino» nelle Ande peruviane Reportage Come da noi si spopolarono le valli, così molti peruviani partono per le città,
ma qualcosa è ancora rimasto vivo a Collana Lisa Maddalena, testo e foto Non sono neanche le sei di mattina, ma in tutto il villaggio già si sentono ragliare asini e cantare galli. È fresco, per strada i bambini indossano berretti colorati mentre le donne vestono maglioni di lana e cappelli neri. Siamo a Collana, un paesino peruviano a circa 2700 metri d’altezza, a quattro ore di bus da Lima. Un centinaio di persone risiede qui, in case fatte di adobe (mattoni di terra e paglia). La maggior parte degli abitanti vive di agricoltura e allevamento, come la signora Edelmira. Edelmira ha 48 anni ed è nata e cresciuta qui, da dove non si è mai spostata. Dei suoi cinque figli, i tre maggiori sono andati ad abitare in città, mentre il tredicenne Jorge e la piccola Noemi, di cinque anni, vivono tuttora con lei. Io sono qui per dare una mano seguendo la filosofia del viaggiatore Wwoofing, che riassume le cosiddette esperienze rurali con attività in «fattorie biologiche» sparse nel mondo, in cambio di vitto e alloggio. Viaggi singolari che ti mettono a stretto contatto con la gente del posto, permettendoti di vivere con loro quotidianamente gioie e disagi; tutte esperienze, che a volte ti riportano a realtà del passato, come qui in Perù, che a modo suo ricorda la vita della gente delle nostre valli prima che si spopolassero. Sempre più giovani peruviani, infatti, lasciano la propria famiglia per trasferirsi in città, molto spesso a Lima, dove sono concentrati un terzo degli abitanti del Perù. Nonostante l’agricoltura fornisca alla gente cibo in abbondanza, spesso non permette di guadagnare a sufficienza per pagare la scuola ai figli, per i medicamenti o per i vestiti nuovi. Per questo, molti cercano fortuna altrove, anche se non sempre la trovano. Un’alternativa è andare a fare lavori pericolosi e pesanti, come il marito di Edelmira, minatore in una miniera di rame a qualche decina di chilometri da Collana. Con il suo sacrificio, la famiglia può pagare il materiale scolastico e il trasporto fino alla scuola media che si trova sul fondovalle. Altrimenti, Jorge e i suoi compagni dovrebbero camminare almeno un’ora ogni giorno per arrivarci.
Una veduta di Collana, paesino a 2700 m/slm.
Partiti i ragazzi e i mariti, a Collana restano quasi solo donne, bambini e anziani. Le donne si prendono cura degli animali e dei campi, aiutate dai figli più giovani, se non vanno a scuola. I bimbi delle elementari hanno la fortuna di poterle frequentare direttamente a Collana. Però spesso, la mattina, Edelmira (e sicuramente così fanno molte altre madri) lascia alla figlia Noemi la scelta tra andare a scuola oppure accompagnarla a portare le mucche al pascolo. E purtroppo molte volte Noemi sceglie la seconda opzione. Per Edelmira è comodo avere un aiuto in più: con la piccola che cura le mucche, lei potrà dedicarsi ad altri lavori. Attorno al paese ci sono terrazzi a perdita d’occhio, che continuano più su, nella valle, fino a superare i 4000 metri sopra il livello del mare. Ancora più in alto si scorgono le cime delle montagne, che in questa regione superano facilmente i 5000 metri d’altezza.
Ritiro del latte a Collana.
Azione
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni
Qui si contano due stagioni: l’inverno, da maggio a settembre, e l’estate, da ottobre ad aprile. D’inverno il clima è estremamente secco e fresco (la temperatura media a giugno e luglio si aggira sugli 11 gradi), mentre d’estate le temperature sono un po’ più alte (15 gradi in media a febbraio) e le precipitazioni più frequenti. Si capisce che la zona è piuttosto secca dalla quantità di cactus che crescono attorno ai campi. Questi ultimi sono un’importante risorsa per la gente del posto: mentre curano le mucche al pascolo, Edelmira e le altre donne di Collana passano il tempo a togliere le spine dalle piante, che in seguito lasceranno seccare al sole. Una volta secchi, i cactus verranno trasportati e venduti a Lima, dove grazie all’alto contenuto di saponine saranno usati nella fabbricazione di shampoo. Tutti i terrazzi più vicini al paese sono dotati di un ingegnoso sistema di canali che ne permette l’irrigazione. Poiché l’acqua non è così abbondante (perlomeno nel periodo invernale), gli abitanti possono usarla ciascuno solo alcuni giorni al mese, con un sistema a rotazione. Purtroppo, questo metodo non sempre permette di irrigare a sufficienza, quindi d’inverno molti pascoli soffrono la siccità. D’estate, invece, grazie alle maggiori precipitazioni, l’erba cresce in abbondanza e le mucche producono più latte. Una fortuna di Edelmira e delle altre donne di Collana è quella di poter vendere il latte delle loro mucche al signor Juan del paese vicino, Ayas. Infatti, da pochi anni Juan e sua moglie hanno costruito un caseificio professionale, dove viene lavorato tutto il latte di Ayas e di Collana. Qui vengono prodotti vari tipi di yogurt, formaggi freEditore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31
Noemi con una pecora del suo piccolo gregge.
Animali al pascolo nella regione delle Ande peruviane. Tiratura 102’022 copie Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch
schi o stagionati, burro, panna, ricotta e altri latticini, i quali vengono poi trasportati ogni settimana nei grandi supermercati di Lima. La vendita del latte permette a Edelmira di contribuire al budget famigliare, anche se purtroppo le sue cinque mucche non producono molto, soprattutto nei periodi di siccità. La costruzione del caseificio ha portato pure un altro vantaggio alla comunità di Collana: ogni mattina il camion del latte passa nel paese per ritirare la produzione giornaliera e poi proseguire per Ayas, permettendo agli abitanti di avere un mezzo di trasporto per scendere a valle. Nei campi attorno a Collana, oltre ai pascoli per il bestiame, vi sono terreni coltivati secondo la rotazione delle colture. Il primo anno si coltivano patate, che qui non si limitano a poche varietà, ma a centinaia: le papas nativas, originarie delle Ande, presenti in tutte le forme e colori. Il secondo anno vengono seminate fave, quello successivo mais, anch’esso di vari colori e grandezze. Dopodiché, per tre o quattro anni viene coltivata l’alfalfa, una leguminosa simile al trifoglio usata come foraggio per il bestiame o per i cuy, i porcellini d’India. Questi ultimi sono molto amati in Perù, purtroppo non come animali domestici… Sono infatti considerati una prelibatezza, molto più del pollo o del maiale. In ogni casa se ne trova un piccolo allevamento, come nella cucina di Edelmira: aprendo la porta, si viene subito sorpresi da squittii impauriti. Una ventina o più di cuys corrono rapidi a rifugiarsi sotto i mobili. Quando diventano grossi abbastanza, ecco servito uno squisito picante de cuy (stufato di porcellino d’India). Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 marzo 2019 • N. 12
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C’è vita nelle grotte del Basòdino
Ambiente e Benessere
Entomologia Il Böcc at Pilat, la più lunga grotta del Ticino, si snoda con articolazioni e complicata topografia
per ben 1200 metri: qui vivono veri e propri cavernicoli
Alessandro Focarile L’ascensione al Basòdino, 3272 metri – la seconda vetta delle Alpi ticinesi – da Robiei nell’alta Valle Maggia, è una discretamente agevole sgambata alpina, tenendo presente che un itinerario su ghiacciaio comporta sempre una certa attenzione. Il ghiacciaio è un’entità geografica in continuo dinamismo, in quanto è costituita da una massa plastica che si muove, si contrae, si modifica in funzione della temperatura, della quota e della natura del «letto» roccioso sul quale scorre. E le cui caratteristiche superficiali cambiano ogni giorno e ogni notte.
Un vero cavernicolo è cieco, privo di colore e con arti e antenne più lunghi di quelli del suo primitivo Chi sale al Basòdino, con il favore di una bella giornata di sole («a glorious day on the Alps» direbbero gli inglesi), si guarda in giro, compiaciuto di poter beneficiare di tanta bellezza che lo circonda entro un orizzonte spaziante su 360 gradi. E, difficilmente, può immaginare che sotto i suoi piedi esiste un intricato, oscuro e abitato mondo sotterraneo: le grotte della regione del Basòdino. La natura geologica di questo settore delle Alpi lepontine ticinesi, tra il Lago di Zott, la Valle Fiorina, e il Lago del Matörgn (vedi cartina), è molto complessa. Affiorano rocce silicee (principalmente gli gneiss), intercalate da vene di marmo calcareo (rocce carbonatiche). Le prime sono state vistosamente lisciate, disgregate, abrase dall’azione meccanica del ghiacciaio nel corso di molte migliaia di anni. Innumerevoli dossi arrotondati «a dorso di balena» costellano la regione a evidenziare la vigorosa forza modellatrice che li ha plasmati. Le seconde sono state lentamente disciolte e asportate, grazie all’azione chimica dell’acqua dando origine al vistoso fenomeno carsico che si può osservare, e le cui testimonianze più palesi ed eloquenti sono le grotte orizzontali e verticali, le doline, e l’improvvisa scomparsa in profondità (con eventuale ricomparsa più a valle) di ruscelli e torrenti. Qui si sviluppano diverse cavità sotterranee di notevoli, dimensioni. Il Böcc at Pilat, la più lunga grotta del Ticino che, nei pressi del Lago del Matörgn, si snoda con articolazioni e complicata topografia per ben 1200 metri, tra 2450 e 2200 metri di altitudine. E la grotta dell’Acqua del Pavone, che è così denominata poiché durante i periodi di piena il torrente che la percorre fuoriesce sopra il Lago di Zött con una bella cascata, che simula la «ruota» di un pavone. Il suo sviluppo planimetrico complessivo di 2900 metri, la colloca al primo posto tra le grotte finora note in Ticino. L’ambiente sotterraneo naturale è del tutto particolare, notevolmente differenziato da quello esterno: per la mancanza di luce, l’elevata umidità, la temperatura costante, e con modeste variazioni nel corso dell’anno. Anche le grotte sono state (e sono) popolate da forme di vita animale, le quali sono il risultato di modifiche morfologiche e adattamenti fisiologici imposti dalle peculiari caratteristiche dell’ambiente sotterraneo. Negli inset-
Il ghiacciaio del Basòdino. (ZachT )
ti, e in altri invertebrati (ragni, millepiedi, isopodi, collemboli), la mancanza di luce ha comportato la progressiva perdita della vista, perdita compensata da un allungamento delle zampe e delle antenne per facilitare con il tatto un maggiore raggio esplorativo, alla ricerca del nutrimento, e di altri loro simili per la continuità della stirpe. La colorazione è il risultato di un’ossidazione. L’elevata umidità esistente nelle grotte inibisce queste modificazioni chimiche. Per tale motivo, gli insetti e gli altri invertebrati cavernicoli sono giallicci oppure biancastri per mancanza di pigmento. Un vero cavernicolo (troglobio, dal Greco troglé = caverna + bios = vivente) è dunque: 1. cieco; 2. privo di colorazione; 3. con arti e antenne più lunghi di quelli del suo ancestrale modello primitivo. Queste appendici del corpo
II coleottero Carabide Nebria angustata raccolto nella stessa grotta. (Alessandro Focarile)
sono maggiormente innervate, grazie alla presenza di lunghi e sensibilissimi peli tattili, che incrementano le facoltà esplorative nell’ambiente circostante. I fenomeni e i meccanismi fisiologici di progressivo adattamento sono stati processi modificatori di lunga durata nel tempo che si può definire in milioni di anni, in quanto la fauna cavernicola attuale è il risultato di una lenta e progressiva penetrazione nel sottosuolo, attraverso l’immenso reticolo di fessure, e in presenza di situazioni climatiche ben differenti da quelle attuali. Le grotte del Basòdino sono fredde (3°-4°C) e «giovani» in quanto sono il risultato dell’attività erosiva indotta dalle acque di fusione del ghiacciaio durante un periodo di sua massima espansione (Würm, dopo quella del Riss, e durata circa 70mila anni, secondo le ipotesi finora avanzate). L’ambiente sotterraneo popolabile dall’esterno è dunque di recente formazione (in termini geologici), e non ha finora permesso la formazione (per adattamento), e in tempi brevi, di una fauna tipicamente cavernicola. Le ricerche sono appena agli inizi, considerate le difficoltà logistiche di operare in quota, e durante una stagione forzatamente corta. Ciò nonostante sono state finora raccolte alcune preziose testimonianze di vita animale popolanti l’ambiente-grotta. Queste testimonianze sono altresì preziose, in quanto confermano le modalità di un fenomeno di carattere generale, che trova riscontro non solo in altre grotte alpine, balcaniche e pirenaiche, ma anche nell’Alto Atlante in Marocco. Considerata la quota (2200-2450 m/slm) la penetrazione e successiva installazione nel sottosuolo, di specie che
Ubicazione delle grotte nella regione del Basòdino. (Alessandro Focarile)
popolano le fessure ai bordi dei nevai e dei ghiacciai hanno un’attività prettamente notturna, e questo denota già un adattamento fisiologico alla mancanza di luce, unito alla bassa temperatura. Sono gli insetti coleotteri del genere Nebria (foto), tipici abitatori delle alte quote fino a 3400 metri, già con zampe e antenne allungate nelle specie più evolute. Inoltre, sono stati raccolti numerosi esemplari del coleottero stafilinide Omalium validum (già censito in tre diverse grotte europee). E della mosca senza ali Chionea alpina, simile a un ragno, e che si rinviene sulla neve unicamente durante l’inverno in presenza di basse temperature, inferiori ai
5°C sotto zero. Dopo un lunghissimo processo evolutivo, anche le grotte del Basòdino saranno popolate da una fauna cavernicola altamente specializzata. Passeranno secoli e millenni, ma la Natura non ha fretta. Bibliografia
Fosco Spinedi, Testimonianze glaciali e fenomeni carsici nella regione del Basòdino (Cantone Ticino), Lavoro di Diploma ETH Zurigo, 1981, 84 pp. + allegati. Paul Strinati, Faune cavernicole de la Suisse, Editions CNRS (Paris), 1967, 483 pp.
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Idee e acquisti per la settimana
Coniglietti con i superpoteri
Arrivano i superconiglietti! Il 22 marzo ha inizio la nuova promozione Migros. Si svolge fino al 22 aprile. È possibile scegliere tra cinque eroici coniglietti
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Il mondo ha bisogno di nuovi supereroi! Così a Pasqua ne arrivano cinque, i superconiglietti. Si chiamano Sami, Mo, Mira Max e Kiki. I cinque soffici coniglietti sono disponibili in cinque colori e hanno differenti superpoteri. Come si conviene a un supereroe, portano una maschera e un mantello, che sono rimovibili e possono quindi essere scambiati tra i coniglietti.
Sami nel team dei superconiglietti è quello più dotato per la musica. Suona benissimo la tromba, con la quale ammalia i suoi ascoltatori.
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Mo porta la primavera ovunque. Il suo superpotere? Fa germogliare fiori ovunque e fa del mondo un luogo colorato e profumato.
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Collezionare i bollini e ricevere i superconiglietti Da venerdì 22 marzo facendo la spesa alla Migros si possono raccogliere i bollini. Ogni cartolina completa può essere scambiata con uno dei coniglietti in peluche. Si può scegliere tra cinque versioni, ognuna di un colore differente. I membri Famigros ricevono un bollino supplementare a ogni acquisto. È molto semplice: fino al 22 aprile, per ogni acquisto da fr. 20.– in un qualsiasi supermercato Migros o su LeShop.ch si riceve un bollino (massimo 15 bollini per acquisto, fino a esaurimento dello stock, escluso l’acquisto di buoni e di carte regalo). Fino al 23 aprile, con ogni cartolina completata con i 20 bollini si riceve gratuitamente un personaggio (offerta fino a esaurimento delle scorte, non disponibili alla vendita).
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Supereroi incredibili: i superconglietti hanno maschere e mantelli che possono essere scambiati tra loro.
Mira può volare. Non ha le ali e non può nemmeno svolazzare con le sue orecchie. No, lei plasma farfalle dalle quali si lascia sollevare e trasportare nell’aria.
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Max ha un pennello. E non si tratta di un pennello qualsiasi. Perché ciò che Max dipinge diventa reale.
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Kiki è probabilmente il più dolce dei superconglietti, anche se sono tutti teneri. Con il suo tocco trasforma ogni cosa in cioccolato.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 marzo 2019 • N. 12
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Ambiente e Benessere
Pan brioche
Migusto La ricetta della settimana
Colazione Ingredienti per 4 pezzi o 1 stampo per cake di 28 cm: 1 bustina di lievito secco
da 7 g · 2 dl di latte tiepido · 1 dl di panna tiepida · 500 g di farina · 1 cucchiaino di sale · 60 g di zucchero · 1 uovo · burro e farina per lo stampo · latte e tuorlo d’uovo per spennellare.
migusto.migros.ch/it/ricette Per diventare membro di Migusto non ci sono tasse d’iscrizione. Chiunque può farne parte, a condizione che un membro della sua famiglia possieda una Carta Cumulus.
1. Mescolate il lievito, il latte e la panna con un po’ di farina e lasciate lievitare l’impasto per 20 minuti in un luogo caldo. Mescolate la farina con il sale in una scodella ampia e formate un incavo al centro. Incorporate lo zucchero, l’uovo e l’impasto con il lievito e impastate per circa 5 minuti fino a ottenere una pasta elastica. Copritela con un panno umido e lasciate lievitare a temperatura ambiente per circa 60 minuti, finché l’impasto raddoppia di volume. 2. Imburrate lo stampo. Lavorate nuovamente la pasta e dividetela in quattro. Sulla spianatoia appena infarinata stendete la pasta in sfoglie oblunghe spesse circa 1 cm, poi arrotolatele ben strette. Ripetete ancora una volta le due operazioni. Accomodate i rotoli nello stampo uno dietro l’altro lasciando un po’ di spazio tra uno e l’altro. Coprite con un panno e fate lievitare per circa 30 minuti. 3. Scaldate il forno a 180 °C. Sbattete il latte con il tuorlo e spennellate la pasta. Cuocete in forno per circa 40 minuti. Sfornate e servite il pan brioche caldo. Preparazione: circa 30 minuti + lievitazione circa 110 minuti + cottura in forno
circa 45 minuti.
Per persona: circa 21 g di proteine, 16 g di grassi, 107 g di carboidrati, 670
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Ambiente e Benessere
Le «lanterne» delle aiuole
Ancora integratori La nutrizionista
Mondoverde Con un bel giallo intenso, gli eleganti Corylopsis
Laura Botticelli
«illuminano» le zone d’ombra
Buongiorno Laura, ho letto il suo articolo sugli integratori. Al momento sto prendendo delle capsule (due al giorno) a base di miglio dorato e lievito contenenti niacina e biotina e zinco. Ho 50 anni, sono in salute e ho un’alimentazione variata. Il prodotto acquistato è consigliato per il mantenimento di una pelle sana. La mia domanda è la seguente. Ha senso che io prenda queste capsule? Sono veramente utili per mantenere pelle e capelli sani? La ringrazio per una sua gradita risposta. Cordiali saluti. / Claudia
Anita Negretti Tra tutte le piante che hanno una fioritura primaverile abbondante, sicuramente i Corylopsis sono tra i più eleganti. In grado di illuminare le aiuole in mezz’ombra, posizione che prediligono rispetto al pieno sole, si riempiono di fiorellini bianco-giallo dal portamento pendente da aprile fino a metà estate, per regola. Ma anche già da marzo, quando la stagione è calda, come la realtà ci dimostra in questi giorni: da noi infatti hanno già iniziato a fiorire. Originari di un vasto territorio che passa da Taiwan al Giappone, alla Corea, fino al nord della Cina, hanno una crescita compatta. Raggiungono i cinque metri negli esemplari adulti, anche se è più facile vedere cespugli in varietà che non superano il metro d’altezza, adatti per piccoli giardini o per accompagnare piante di valore. I fiori sbocciano in grande quantità sui rami ancora spogli: le verdi foglioline arriveranno solo più tardi, quando la maggior parte dei racemi saranno caduti o sfioriti. Tra le varie specie da poter coltivare in giardino troviamo Corylopsis sinensis che produce dei boccioli fragranti, dal colore giallo limone, portati su racemi lunghi fino a otto centimetri e seguiti da foglie dalla colorazione verde scuro; necessita di ampio spazio visto che nel corso di qualche decennio può arrivare a toccare i cinque metri di altezza. La varietà «Spring Purple» presenta le nuove ramificazioni primaverili color prugna. Corylopsis pauciflora ha invece delle dimensioni molto più ridotte e viene scelto da molti sia per la sua ricca fioritura, sia per il color bronzo delle giovani foglie. La corteccia marrone assume una tonalità rosso acceso alle punte dei giovani rami e come tutti i corylopsis cresce bene in terreni ben drenati, argillosi, ricchi di humus e con un pH leggermente acido, quindi
Un esemplare di Corylopsis sinensis. (Tie Guy II)
vi consiglio di utilizzare della torba al momento della messa a dimora. Chiamati anche noccioli invernali, per via della loro somiglianza con il più classico nocciolo da bacca, non risente di attacchi parassitari, ma solo raramente di una leggera clorosi per via del calcio presente nell’acqua per l’irrigazione. Basterà somministrare un concime per acidofile o ferro liquido per ottenere nuovamente delle belle foglie verdi. Lo scorso autunno mi sono regalata una piantina di C. spicata, alta non più di 50 cm, che in età adulta raggiungerà i due metri scarsi, riempiendosi di fiori giallo oro (tra marzo e aprile). Le foglie cordiformi, con le nervature ben in evidenza portate dai rami a sviluppo
orizzontale e fitti di nuovi rametti, faranno da sfondo alle rose tappezzanti che gli ho messo tutt’attorno e che si alterneranno nella fioritura. Non eseguirò alcuna potatura nei prossimi anni, se non di rami spezzati, visto che reputo la crescita naturale di questo arbusto ben strutturata, ma se dovesse verificarsi un’estate molto afosa provvederò a innaffiarla almeno una volta alla settimana per evitare di vedere la pianta sofferente. E infine attenderò l’autunno, dove come ultimo regalo di questa generosa pianta vedrò colorarsi le sue foglie in un rosso porpora, colore ideale per le ultime giornate tiepide prima del freddo inverno. E invito dunque anche i lettori a fare questa esperienza.
Gentile signora Claudia, la ringrazio per l’interesse mostrato verso l’articolo sugli integratori. La biotina o vitamina B8 e la niacina o vitamina B3 fanno parte delle vitamine idrosolubili, che non possono essere accumulate nell’organismo, ma devono essere regolarmente assunte attraverso l’alimentazione. La biotina, nel nostro corpo, aiuta a convertire il cibo in energia e a metabolizzare i grassi e le proteine. È indicata per il trattamento di dermatiti seborroiche, soprattutto dei bambini appena nati, di acne e di alopecia grazie alla sua capacità di preservare l’integrità della pelle e dei capelli. La niacina è coinvolta in molti processi fisiologici, incluso il metabolismo dei grassi. Inoltre, è anche questa coinvolta nella salute della pelle e dei capelli. Migliora le proprietà di barriera della pelle, stimola il flusso sanguigno al cuoio capelluto e favorisce l’eliminazione dei prodotti di scarto sempre dalla pelle. Allo stesso modo pure lo zinco è un minerale essenziale. Nella fattispecie è necessario per il metabolismo cellulare, la funzione del sistema immunitario e la
guarigione delle ferite. La ricerca dimostra che lo zinco è efficace, come detto, nella guarigione delle lesioni cutanee, così come nel trattamento dell’acne, della psoriasi e della dermatite. Sebbene lo zinco non aumenti la crescita dei capelli, associato alla biotina, sembra che aiuti a prevenire la perdita dei capelli. Premesso tutto ciò, i sintomi indesiderati come i capelli secchi, il loro diradamento e la perdita di colore possono, sì, essere dovuti a una carenza di queste sostanze, che è però, sinceramente, piuttosto rara, perché sono sostanze presenti in molti alimenti di consumo giornaliero. La biotina, ad esempio, si trova in latte e formaggio, verdure, tuorlo d’uovo, fegato, arachidi, piselli secchi, funghi e nel lievito di birra. La niacina, in arachidi, cereali integrali, legumi, uova, pesce e carne. Lo zinco è presente in alimenti ad alto contenuto proteico come carne, pesce e noci, fagioli, funghi e spinaci. Non vi è evidenza scientifica a dimostrazione che la biotina assunta come integratore migliori la crescita o la struttura dei capelli nelle persone che non hanno di questa carenza. Se lei consuma regolarmente gli alimenti sopra citati, l’integratore non le darà una pelle o una chioma migliore di quella che ha già grazie alle sue abitudini alimentari. Informazioni
Avete domande su alimentazione e nutrizione? Laura Botticelli, dietista ASDD, vi risponderà. Scrivete a lanutrizionista@azione.ch Le precedenti puntate della rubrica e altri interessanti quesiti su temi nutrizionali si trovano sul sito: www.azione.ch
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 marzo 2019 • N. 12
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Ambiente e Benessere
Passione, emulazione, emozione
Sport Il fascino della maratona non smette di accendere i cuori di migliaia di appassionati in lotta con loro stessi
e con i Campioni Giancarlo Dionisio
7500 alla Marcialonga, nel Trentino, 16mila alla leggendaria Vasaloppet, in Svezia. E due domeniche fa, sull’ampia distesa innevata del passo del Maloja erano in 14’180. Tutti pronti, coloratissimi, eccitatissimi, scalpitanti già un’ora prima che lo starter desse il via alla 51a Engadin Skimarathon della storia. 80 fondisti di professione, fra uomini e donne, e 14mila dilettanti. La frenesia delle Maratone esplode, anno dopo anno. Che si tratti, in inverno, della Marcialonga, della Vasaloppet o dell’Engadinese, oppure in estate dei prestigiosi appuntamenti sulle strade di New York, Berlino o Roma. Tutti sciano. Tutti corrono. Tutti cercano il confronto con loro stessi. Tutti vorrebbero che il loro distacco dai campioni fosse inferiore a quello dell’anno precedente, anche di un solo secondo. Ma nulla accade per caso. Tra il vincitore, che ha tagliato il traguardo dopo 1 ora e 22’, e l’ultimo, che ha impiegato 5 ore e 6 minuti per percorrere i 42 km che separano Maloja da S-chanf, c’è una via di mezzo. Si ha tuttavia l’impressione che per i più, l’obiettivo sia quello di avvicinare il vertice, quindi, per qualche giorno all’anno, ci si cala nei panni di quelli veri. Abbigliamento, scarpe, sci e bastoni come Dario Cologna. Adeguate sedute di allenamento. Una sana ed equilibrata alimentazione per conservare, ed eventualmente incrementare, resistenza ed esplosività. Un congruo numero di ore di sonno. Insomma, il mix ideale per non soffrire troppo, e
Una panoramica dei partecipanti alla maratona sugli sci engadinese. (Engadin Skimarathon)
per godere di un’affascinante avventura sulla neve. Non è facile, ma è possibile. Sveglia alle cinque e mezza. Colazione alle sei, col sorriso sulle labbra. Poi di nuovo in camera. Se possibile un passaggio in bagno. Leggeri, si viaggia meglio. Ultimi preparativi e via, attorno alle sette, verso le varie fermate dei bus che conducono l’esercito degli appassionati alla partenza. Se hai fortuna, come quest’anno, te la cavi con un –3 gradi. Se ti gira male, a quell’ora sul passo del Maloja puoi anche ritrovarti in versione stoccafisso, a –20 o –25. Infine il serpentone si mette in moto e, per un giorno nella vita, scopri
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tro volte la settimana. Quindi palestra, per potenziare braccia, spalle, dorsali, addominali. E gambe, gambe, e ancora gambe. E non appena aprono il centro di Campra, due o tre lezioni di tecnica di skating, e via a macinare chilometri. Il muro delle due ore, nella tua mente lo stai già demolendo. In uno spettacolare gioco scenografico puoi passare da dietro le quinte al proscenio, e sentirti come il nobile Gustav Eriksson Vasa, in onore delle cui gesta, nel 1922, nacque la regina delle Maratone. Ma puoi anche nasconderti, mimetizzarti. Scorrendo la classifica, infatti, si scoprono nomi illustri anche tra i fondisti della domenica. Come quello di
Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku
Cruciverba Forse non tutti sanno che nel Medioevo… Trova il resto della frase a cruciverba ultimato, leggendo le lettere evidenziate. (Frase: 1, 8, 8, 5, 1, 9)
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che a bordo pista c’è tifo anche per te, nonostante lo stile non proprio impeccabile e redditizio, e qualche polenta e brasato di troppo che ti si legge sull’addome. Esattamente lo stesso incitamento riservato a chi sette giorni prima aveva addomesticato da vincitore i 90 km della Vasaloppet. E allora ti gasi. Se il tuo obiettivo era quello di chiudere sotto le tre ore, senti che, in fondo, potresti persino avvicinarti alle due ore e mezzo. Pensi alle classifiche dell’anno prima, a quell’ora e 58 minuti dell’ex cassiere della tua banca, ultrasettantenne. Rifletti, rimugini, ti incavoli e fai buoni propositi: il prossimo anno jogging da aprile a dicembre. Per quat-
Nicole Cooke, ex ciclista, pardon, ex campionessa del pedale, che nel 2008 conquistò l’oro olimpico ai Giochi di Pechino e il titolo iridato sulle strade di Varese, scivolata, credo con profonda gioia e soddisfazione, al 222esimo rango dell’Engadinese con un ritardo di 34 minuti dalla vincitrice Nathalie Von Siebenthal. Oppure Nadia Styger, ex reginetta rossocrociata dello sci veloce, riconvertita allo «slow skiing», per altro piuttosto bene, visto il suo 134esimo posto con soli 25’ di distacco. Passione, emulazione, emozione. Certo, è così, se osserviamo il fenomeno dalla parte di chi partecipa. Basta però voltare la medaglia per scoprirne gli aspetti economici e promozionali. Paghi tra 100 e 180 franchi per iscriverti, a dipendenza di quando ti annunci. In cambio ricevi il viaggio in treno gratuito, la preparazione degli sci, quattro giorni di utilizzo gratuito delle piste, undici rifornimenti in corsa, i trasporti prima e dopo la gara, compresa la gestione dei tuoi effetti personali, assistenza medica, massaggio, infine una gentile fanciulla che ti mette al collo una medaglia, anche se arrivi 14’180esimo. Ma tu non sei solo. Con te ci sono, moglie o marito, figli, genitori, parenti. E la luce dei tuoi occhi, quando racconterai la tua estasi sulle nevi engadinesi, si irradierà nel tempo e nello spazio. Il prossimo anno ci tornerai, magari con uno, due, quattro amici in più. Fai tu i conti. Falli e rifalli, girali e rigirali. Il prodotto sarà sempre lo stesso. Vincono tutti. Tu e loro, la tua felicità, la tua salute, e la loro immagine nel mondo.
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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch
I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.
ORIZZONTALI 1. Isola della Spagna 6. Un celebre Hood 11. Schernita, sbeffeggiata 13. Il famoso Astaire 14. Avverbio di tempo 15. Acerbe senza vocali 17. Come finisce... comincia 18. Articolo 19. Non mangia carne e suoi derivati 22. Si impugna 23. Simbolo chimico dell’elio 24. Né sì, né no 25. Pronome 26. Vocali del 6 orizzontale 27. Le prime in rubrica 28. Lesione cutanea o mucosa 30. Nome scientifico di alcuni ricci di mare VERTICALI 1. Viene venerato 2. Un vizio deleterio 3. Un anagramma di ria 4. L’ultima e la nona... 5. Cambia piano continuamente... 7. «Di» per gli inglesi 8. Gaiezza, verve 9. Sorelle in pietà... 10. Le iniziali dell’attrice Dobrev 12. Rialzi 16. Destano le principesse delle fiabe 19. Le iniziali dell’Alfieri 20. Fino in fondo... 21. Essenza divina 23. Durezza doppia di matita 25. Come a Madrid 27. Passano mormorando 28. Le iniziali dell’ereditiera Hilton 29. Rendono gelosa Elsa... Partecipazione online: inserire la
soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-
Sudoku Soluzione:
Scoprire i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.
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Soluzione della settimana precedente
CARTA D’IDENTITÀ – Vero nome della cantante Zilli: MARIA CHIARA FRASCHETTA.
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A R S I N C E T O E I L A R F A R R E N N S A R D O A U R A A L E T R O M A
A H I M E H E R
luzione, corredata da nome, cognome, indirizzo, email del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 marzo 2019 • N. 12
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Politica e Economia Aviazione civile Il disastro del volo 737 della Boeing precipitato in Etiopia non è solo una sciagura umana
TAV: discussione rimandata I bandi per la linea ferroviaria TorinoLione diventano inviti alle aziende a manifestare interesse e la procedura può essere interrotta, così la clausola di dissolvenza mette al riparo il governo e arrivare a maggio dopo le europee
Il moltiplicatore cantonale La proposta introduzione di tale meccanismo fiscale lascia spazio a interrogativi sulla sua equità
L’eredità di Escher In margine ai festeggiamenti per i 200 anni dell’imprenditore, i dati sull’economia elvetica pagina 36
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AFP
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Scenari di una crisi
Algeria Da giorni, milioni di algerini sono scesi in piazza per opporsi al quinto mandato consecutivo del presidente
Abdelaziz Bouteflika. Che alla fine ha rinunciato a ricandidarsi ma resterà in carica fino alle elezioni (rinviate) Lucio Caracciolo L’Algeria è una pentola a pressione che può esplodere da un momento all’altro. Con conseguenze colossali per tutto il Nordafrica, e non solo. Al confronto, la guerra di Libia del 2011 culminata nella liquidazione del colonnello Gheddafi, che ha disegnato un vuoto geopolitico dove un tempo esisteva il più ricco Stato africano, apparirebbe davvero poca cosa. Per il più grande paese del Continente Nero (2 milioni e 400 mila chilometri quadrati), con oltre 42 milioni di abitanti in grande maggioranza giovani (e disoccupati) e un’economia di rendita energetica di notevoli dimensioni ma in evidente crisi anche a causa del calo del prezzo del petrolio, la resa dei conti si avvicina. Il regime post-rivoluzionario guidato dal Fronte di Liberazione Nazionale e incarnato dall’anziano e malato presidente Abdelaziz Bouteflika deve affrontare la più seria sfida alla sua ege-
monia dalla guerra civile degli anni Novanta del secolo scorso. A scatenare la protesta di milioni di algerini, che nelle ultime settimane hanno invaso le piazze della capitale e delle altre principali città, era stata la decisione di Bouteflika – o meglio, del potere militare che lo usa quale paravento del proprio dominio – di candidarsi per la quinta volta alla presidenza della Repubblica, nelle elezioni già previste per il 18 aprile. Un moto così potente e diffuso da costringere lo stesso Bouteflika (o chi per lui), di rientro da due settimane di cure a Ginevra, ad annunciare la sua rinuncia a candidarsi. Ma all’annuncio non ha fatto seguito la calma piatta che il regime sperava. Anzi, in alcune città le manifestazioni sono riprese. L’inquietudine sul futuro della grande nazione algerina resta, e coinvolge tutti i paesi vicini. Ma anche la Francia, ex metropoli coloniale, dove la diaspora è mobilitata contro il potere di Algeri. Una crisi definitiva del regime
algerino avrebbe quindi riflessi immediati a Parigi, ciò che mette in allarme i servizi di intelligence francesi. Nella lettera al suo popolo, con la quale il 10 marzo ha comunicato la rinuncia a candidarsi, Bouteflika annunciava un processo di riforme che dovrebbe sfociare in una nuova costituzione e quindi in una Seconda Repubblica. Perno di questa rivisitazione del potere sarebbe una «conferenza nazionale inclusiva, equamente rappresentativa della società algerina come delle sensibilità che la percorrono». Ciò che con qualche forzatura potrebbe essere letto anche come un’apertura di facciata ai movimenti islamisti, finiti ai margini della società o messi al bando dopo la sanguinosa guerra civile. In conseguenza dell’annuncio presidenziale, il primo ministro Ahmed Ouyahia si è dimesso, sostituito da Noureddine Bedoui. Il capo delle Forze Armate e uomo forte del regime, Ahmed Gaid Salah, ha ritenuto di evo-
care «la simpatia e la solidarietà tra il popolo e il suo esercito». E i soldati sono rimasti per ora nelle caserme, mentre la gente continuava a mobilitarsi nelle piazze. Bouteflika resta comunque in carica in tutta questa fase di «riforme», a conferma che fra i poteri forti, profondi, che investono in modo particolare esercito e servizi segreti, la lotta per la successione presidenziale non permette di produrre un candidato unico, garante di tutti. Ciò ha permesso al famoso vignettista Dilem di osservare che invece di un quinto mandato di cinque anni Bouteflika avrà un quarto mandato di dieci anni. Un aspetto poco indagato ma centrale della crisi algerina riguarda la penetrazione della Cina nel Paese. Il regime aveva concordato e attuato negli scorsi anni un patto con Pechino in base al quale la Repubblica Popolare avrebbe costruito (quasi) gratis case e infrastrutture in Algeria, ottenendo in
cambio idrocarburi e influenza politica. Una delle ramificazioni, insomma, delle cosiddette «nuove vie della seta», ovvero del progetto di controglobalizzazione in chiave anti-americana perseguito da Xi Jinping. Se il regime fosse costretto per sopravvivere a mettersi ancora più profondamente nelle mani dei cinesi, questo altererebbe gli equilibri geopolitici in Africa e nel Mediterraneo, con inevitabili riflessi per i paesi del Sud Europa, ma anche per la Francia quale ex padrino coloniale legato a doppio filo al destino del suo vecchio dipartimento. La storia insegna che quando nei regimi autoritari si mettono in moto movimenti di massa di tali dimensioni, la possibilità che si formi una valanga inarrestabile se non con la forza – e con il sangue – sono alte. In ogni caso, il valore strategico dell’Algeria è tale da investire della sua crisi tutte le potenze regionali, ma anche Stati Uniti e Cina.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 marzo 2019 • N. 12
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Politica e Economia
La Cina nel mercato del jet
Disastro aereo In America la collusione fra un’azienda privata (Boeing) e le autorità di vigilanza (Faa) ha fatto
segnare un punto a vantaggio di Pechino che ha dimostrato di guardare prima di tutto alla sicurezza dei passeggeri
La Boeing ha contribuito all’ondata di sfiducia verso il colosso aeronautico di Seattle. (AFP)
Federico Rampini Il disastro del Boeing precipitato in Etiopia non è solo una tragedia umana. Prima di tutto ovviamente bisogna pensare a quella, piangere i morti; poi però occorre fare tutto il possibile per impedire che questo accada di nuovo. Ed è qui che la vicenda ha riservato dei colpi di scena, delle sorprese, inquietanti o addirittura agghiaccianti. Le autorità americane che dovrebbero occuparsi di noi – cioè della sicurezza dei passeggeri – hanno reagito con una lentezza così assurda da sconfinare nell’omertà verso la Boeing. La Cina ha dato invece un esempio di tempestività nel bloccare gli apparecchi sospetti, e non importa se abbia colto l’occasione per sferrare un colpo a un’azienda americana: chi vola pensa prima di tutto a essere protetto. L’Europa ha dovuto accodarsi alla Cina e seguire il suo esempio, cosa che sarebbe sembrata impossibile alcuni anni fa. Un paese africano ci è sembrato in questi giorni un modello di trasparenza, rispetto ai comportamenti della superpotenza americana. Infine, Donald Trump ci ha messo del suo. Da un lato ha detto delle sciocchezze monumentali, accusando i jet moderni di essere «troppo complicati da pilotare». D’altro lato però il suo istinto politico lo ha guidato bene. Cogliendo il turbamento dell’opinione pubblica americana, il presidente ha travalicato le competenze dell’agenzia federale per l’aviazione. Ha deciso d’autorità di bloccare a terra i jet sospettati. Dopo la tragedia e dopo lo sconcerto, ora le risposte dovrà darle la Boeing, al centro di sospetti tremendi. La ricostruzione degli eventi deve partire dal momento in cui – la mattina di domenica 10 marzo – il volo della Ethiopian Airlines ET302 decolla da Addis Abeba diretto a Nairobi in Kenya. Sono passati solo pochi minuti dal decollo quando i piloti lanciano un allarme alla torre di controllo. Ma subito dopo perdono il controllo dell’apparecchio, che si schianta: a bordo muoiono tutti, passeggeri ed equipaggio, 157 vittime.
Il jet precipitato è un Boeing 737 Max 8. Bastano poche ore e tra gli esperti di aviazione in tutto il mondo circola un paragone. A cadere in Etiopia è stato lo stesso modello di jet passeggeri caduto sei mesi prima in Indonesia, in circostanze terribilmente simili (pochi minuti dopo il decollo). Per la Boeing il cui titolo crolla a Wall Street il lunedì 11 marzo 2019 è una giornata nerissima, inizialmente paragonabile all’11 settembre 2001 quando l’intero traffico aereo nordamericano venne paralizzato dopo l’attacco alle Torri gemelle. L’orrore e l’angoscia per il bilancio dei morti, gli interrogativi sulle cause del disastro, si mescolano subito con una cinica realtà fatta di affari e geopolitica. Il mistero sulle cause dei due «incidenti gemelli» diventa subito materia di speculazione e strumentalizzazione, entra nel Grande Gioco della sfida tra superpotenze per il dominio del business aeronautico.
Con quattro giorni di ritardo e scavalcando la Faa, Trump ha fatto la cosa giusta ed è come se avesse ammesso che avevano ragione i cinesi Fin dal primo giorno l’imperativo della sicurezza spinge tre governi e 22 compagnie aeree a bloccare a terra oltre un centinaio di quei Boeing. Attenzione alla lista iniziale: i tre governi sono Cina, Etiopia, Indonesia. Gli ultimi due hanno avuto i disastri aerei in casa. La Cina no. Però sta diventando il più grosso mercato mondiale per il trasporto passeggeri; ed è già il principale acquirente di quei Boeing. In attesa di fabbricare il suo jet passeggeri, interamente made in China. Un arrivo imminente. All’inizio, l’Europa sta a guardare: qualche compagnia lascia a terra i Max 8 per sua scelta precauzionale, mentre i governi tergiversano, forse intimoriti dalla prospettiva di mettersi in rotta di collisione con gli Stati Uniti. Brilla in-
fatti la paralisi decisionale degli americani. O peggio: perché nelle prime tre giornate che seguono al disastro in Etiopia, la Federal Aviation Authority (Faa) arriva a dire che per lei quegli aerei non presentano problemi. Cioè dà un lasciapassare alla Boeing, quasi assolvendola a priori. Una decisione irresponsabile, e politicamente incauta, alla luce degli sviluppi successivi. Mentre scrivo, sia chiaro, nessuno conosce la verità sulle cause del disastro. Neppure su quello indonesiano ci sono conclusioni certe. Ci vorranno settimane e forse mesi perché i tecnici comincino a fare deduzioni dalla «scatola nera» con i dati di volo. Va scartato subito, però, il riflesso pavloviano del razzismo subconscio, che fa pensare: è accaduto in paesi del Terzo mondo, nazioni emergenti che non hanno la stessa attenzione alla sicurezza di noi occidentali. Avendo io viaggiato lungamente in Etiopia due mesi fa, e avendo volato più volte su Ethiopian Airlines, ho avuto conferma che è una compagnia moderna; non a caso si è conquistata una buona reputazione internazionale. Al di là della mia testimonianza personale, le performance di sicurezza di quella compagnia erano soddisfacenti, prima dell’incidente di domenica. E già qui ci s’imbatte nel primo paradosso. Poche ore dopo il disastro di Addis Abeba, è cominciato un braccio di ferro su «chi deve occuparsi della scatola nera»: da una parte i tecnici americani subito partiti alla volta del Corno d’Africa, dall’altra quelli etiopi. In passato forse avremmo dato per scontato che gli americani siano tra i più competenti e affidabili; alla luce di quel che è accaduto negli ultimi giorni, forse viene da augurarsi che l’Etiopia mantenga tutta l’influenza possibile sullo svolgimento dell’indagine. Perché su quel modello di Boeing i dubbi c’erano da tempo. Molti esperti ricordano l’allarme lanciato da un sindacato di piloti dopo il primo incidente, quello di ottobre al 737 Max 8 della Lion Air indonesiana. L’associazione di comandanti avanzò il dubbio che il nuovo apparecchio della Boeing, una versione di 737 messa sul mercato solo
due anni fa, abbia un’avionica (software informatico di pilotaggio automatico) per la quale certi piloti forse non hanno ricevuto l’addestramento adeguato. L’attenzione è diretta al software che dovrebbe prevenire uno «stallo» (posizione di massimo pericolo, generalmente seguita dalla caduta): quei programmi potrebbero essere attivati erroneamente, in seguito all’inserimento di dati imprecisi nell’informatica di bordo. Il principio di precauzione in questi casi è la regola in una società avanzata. È questo principio che ha spinto le autorità governative per la sicurezza dei voli a proibire il decollo di tutti i 737 Max 8 in Etiopia, Indonesia, Cina. Proprio per l’importanza che il mercato cinese si è conquistato, alla fine gli europei hanno dovuto seguire quell’esempio. Martedì quei Boeing erano bloccati a terra anche negli aeroporti del Vecchio continente, oltre che nei paesi asiatici. L’America continuava a spiccare come una solitaria eccezione. L’impatto sul trasporto aereo è enorme. Quel modello di jet aveva conosciuto un successo unico nella storia, per la rapidità delle vendite: 4000 apparecchi ordinati solo nei primi sei mesi dal lancio. Ad oggi, 5000 venduti in tutto. Se il Boeing 737 esiste dagli anni Sessanta ed è di gran lunga il jet passeggeri più diffuso, l’ultimissima generazione di questa vasta famiglia stava battendo nuovi record commerciali. Ma se dovessero confermarsi i dubbi sulla sicurezza, sarebbe catastrofico: il trasporto aereo ha conosciuto una costante riduzione degli incidenti; la nostra tolleranza al rischio si è adeguata. La prima risposta della Federal Aviation Authority, quando si era spinta fino a dichiarare sicuri i 737 Max 8 (con immediato sollievo per la Boeing e la sua quotazione di Borsa), è apparsa come un’abdicazione ai suoi doveri. L’agenzia federale è apparsa più attenta a proteggere un «campione nazionale», un colosso della tecnologia made in Usa, che a tutelare i passeggeri. È quel che ha intuito, a modo suo, il presidente. Trump se n’è uscito con delle
dichiarazioni dapprima stravaganti: «I jet moderni sono troppo difficili da pilotare. Io non voglio che sia necessario Albert Einstein ai comandi del mio aereo». La realtà è che l’avionica ha reso il trasporto aereo straordinariamente sicuro. Frequenza e gravità degli incidenti sono diminuite in modo spettacolare proprio grazie ai software di pilotaggio automatico. E tuttavia Trump ha colto un elemento reale: a volte il punto debole è l’interfaccia tra gli umani e l’intelligenza artificiale, quando sui jet vengono installati sistemi nuovissimi senza che i piloti stiano stati adeguatamente preparati. Bastano pochi minuti d’incomprensione tra essere umano e computer, per provocare una catastrofe. La Boeing aveva peraltro taciuto numerose segnalazioni di piloti americani, in seguito a incidenti sfiorati. Trump ha fatto la cosa giusta: scavalcando la Faa, ha ordinato lui di vietare i voli ai Max 8. Con quattro giorni di ritardo. È come se avesse ammesso: avevano ragione i cinesi. Nella divaricazione di risposte tra Washington e Pechino si può scorgere una dinamica parallela, dove questi due incidenti aerei possono spostare rapporti di forze in una sfida tecnologica, industriale, geopolitica. Il fatto che la Cina sia stata così veloce a bloccare i jet della Boeing ha contribuito all’ondata di sfiducia verso il colosso aeronautico di Seattle. Questo in una fase in cui l’industria aerospaziale – un business che dai jet passeggeri si allarga alla sfera militare, in parte anche all’avionica per lo spazio – sta uscendo dal duopolio euro-americano, con l’imminente arrivo in forze della Cina. Nello scontro tra le due superpotenze si è parlato molto di protezionismi, di sfida per le tecnologie avanzate, con un occhio particolare alle telecomunicazioni (quinta generazione delle telefonia mobile, caso Huawei) o all’intelligenza artificiale. Ora bisogna aggiungere la gara per il mercato dei jet. Dove Pechino ha segnato un punto semplicemente perché in America la collusione fra un’azienda privata e le autorità di vigilanza ha generato un fiasco grave.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 marzo 2019 • N. 12
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Politica e Economia
Tav o non Tav?
Parliamo europeo di Paola Peduzzi
Progetto ferroviario La Torino-Lione di 235 chilometri per il trasporto merci e persone
è un progetto in parte già realizzato sul quale la maggioranza giallo-verde è divisa
Matteo Salvini visita uno dei cantieri del progetto ferroviario. (AFP)
Alfredo Venturi Che differenza c’è fra «bandi di gara» e «avvisi di manifestazione d’interesse»? Tanta differenza, se è vero che la sostituzione della seconda formula alla prima ha salvato il governo italiano da una crisi altrimenti ineluttabile. Bandi e avvisi si riferiscono alla TAV, il controverso progetto in parte già realizzato di una linea ferroviaria ad alta velocità fra Torino e Lione attraverso la Val di Susa, parte di un collegamento transnazionale europeo, sul quale la maggioranza giallo-verde era ed è platealmente divisa: favorevole la Lega, contrario il Movimento 5 Stelle. Antagonisti in primissimo piano i due vicepresidenti del consiglio, come al solito l’un contro l’altro armati: la TAV si farà, dice da sempre Matteo Salvini; il progetto va annullato, continua a replicare Luigi Di Maio. Secondo quest’ultimo il ripudio di questa iniziativa fa parte del contratto di governo a suo tempo concordato, mentre Salvini concede al massimo una revisione del progetto originario.
La clausola di dissolvenza è la soluzione indolore che permette all’esecutivo di prendere tempo e scongiurare la crisi di governo Una contesa al calor bianco, a ridosso di una scadenza fatale: per non perdere i fondi che l’Unione Europea mette a disposizione per la parte italiana del tracciato, trecento milioni di euro, bisognava pubblicare i bandi di gara entro lunedì 11 marzo. La politica romana vive alcuni giorni di nervosa inquietudine. Mentre la data si avvicina implacabile e il governo pare avere i giorni contati, tocca al presidente del consiglio Giuseppe Conte fare ricorso alla sua perizia di avvocato inventando
quello che alcuni chiamano un indecente cavillo, altri un ingegnoso espediente. Fatto sta che Conte estrae dal cilindro il ritocco lessicale che salva il suo governo neutralizzando la scadenza. I bandi diventano avvisi, e almeno per ora la mina che era sul punto di esplodere è disinnescata. A questo punto tutti cantano vittoria. Lo fanno gli eurocrati di Bruxelles, che da sempre considerano strategica l’esecuzione del collegamento ferroviario. E lo fanno entrambi i contendenti italiani. L’opera non si ferma, commenta Salvini. Abbiamo sospeso la procedura esecutiva, ribatte Di Maio, e abbiamo imposto la clausola di dissolvenza che potrà permetterci di bloccare l’opera. A ben vedere è proprio la posizione grillina a uscire ridimensionata, non a caso Salvini ha insolitamente attenuato i toni, per non infierire sull’alleato-avversario che da tempo i sondaggi segnalano in crisi di consensi. Gli avvisi di manifestazione d’interesse dovranno essere seguiti entro sei mesi dai bandi veri e propri. In pratica la questione è semplicemente rinviata: prima di settembre bisognerà decidere per il sì o per il no, e nonostante l’abilità professionale dell’avvocato-presidente del consiglio non saranno possibili nuove acrobazie formali. I due alleati sono comunque riusciti a raggiungere un obiettivo di comune interesse, spostando la più spinosa fra le questioni che li dividono a dopo le elezioni europee di maggio. Anche se è prevedibile che proprio l’ambiguità della soluzione escogitata da Conte fornirà alle opposizioni, in particolare a un partito democratico tonificato dall’investitura a furor di popolo del nuovo segretario Nicola Zingaretti, efficaci argomenti polemici da usare in campagna elettorale. Si può facilmente prevedere che il tema TAV potrà ulteriormente appesantire le prospettive dei Cinquestelle: i sondaggi rivelano che quasi due terzi degli italiani, e persino un terzo dei grillini, sono favorevoli alla realizzazione della TAV. Questo spiega fra l’altro come mai il Movimento si oppone, cosa abbastan-
za singolare da parte di chi non perde occasione per invocare la democrazia diretta, al referendum proposto in materia dalla Lega. La questione tiene banco ormai da un quarto di secolo. Fu infatti il Consiglio europeo di Essen del 1994 a inserire la tratta Torino-Lione fra i progetti strategici dell’Unione in materia di trasporti. È parte di una linea ferroviaria, il cosiddetto Corridoio 5, destinata a collegare il Portogallo all’Europa sudorientale. Sempre quell’anno partirono gli studi preliminari, abbastanza complessi perché il percorso alpino implica la necessità di lunghe gallerie. Anche nella fase iniziale della realizzazione si trattava di scavare alcuni tunnel esplorativi, in un contesto geologico piuttosto problematico. Ma prima ancora che partissero i lavori, già dagli anni Novanta, contro il progetto si era manifestata un’opposizione che riuniva rappresentanti delle comunità locali, gruppi ecologisti, militanti di varia estrazione. Un movimento vasto e variegato che unito dalla sigla NO TAV contrastava l’iniziativa elencando una serie articolata di riserve. Alcune delle ragioni del dissenso sono di natura economica e finanziaria. Per esempio la constatazione che sulla direttrice Torino-Lione il traffico ferroviario (sulla linea già esistente che oltrepassa il confine italo-francese col traforo del Frejus) e anche quello autostradale sono in diminuzione, e dunque l’altissimo costo dell’opera fa sì che questa non possa essere considerata un buon investimento. Quel costo è stimato in circa ventitré miliardi di euro: secondo un progetto alternativo e meno ambizioso potrebbe ridursi a otto miliardi e mezzo. In ogni caso, si chiedono i critici, non sarebbe meglio limitarsi a potenziare la vecchia linea del Frejus? Altri argomenti sono di carattere ecologico: per esempio c’è amianto e forse uranio nelle rocce della Val di Susa, dunque i lavori potrebbero liberare polveri pericolose per la salute, che i venti potrebbero trasportare fino a Torino. Altro problema ambientale il drenaggio della falda acquifera, con
conseguente possibilità di dissesto idrico nella valle. Non sempre il movimento NO TAV ha manifestato pacificamente. Frange di violenti si sono più volte inserite nei cortei dando luogo a episodi di guerriglia urbana. Attorno ai cantieri in stato d’assedio massicciamente presidiati dalla polizia ci sono stati tentativi di assalto, sfondamenti delle reti di protezione, scontri con tanto di molotov e lacrimogeni, feriti, arresti. Sul fronte opposto si è materializzato per reazione un movimento SÌ TAV: con tanto di affollate manifestazioni da parte di chi accusa gli oppositori di luddismo e misoneismo. Mentre si sviluppavano le iniziative a favore dell’esecuzione dell’opera, si andava profilando in materia una sorta di polarizzazione fra un Nord che considera positivamente l’impresa, capace di creare lavoro e occupazione, e un Sud ostile che rivendica le sue priorità infrastrutturali. Questa spaccatura non poteva che rispecchiarsi nelle due forze politiche di governo. La Lega, che nonostante la sua evoluzione salviniana da partito nordista e secessionista a forza politica nazionale è particolarmente attenta alle esigenze produttive del Nord, vede con favore la TAV. Mentre i Cinquestelle, con la loro pulsione anti-sistema, sono tradizionalmente schierati sul fronte del no: non si tratta di una posizione ideologica, precisa uno dei loro esponenti, il presidente della Camera Roberto Fico, ma di una questione identitaria. Di qui l’ennesima prova di forza fra i rissosi alleati di governo, fino all’astuto escamotage del presidente Conte. Ma la soluzione di questo annoso problema è soltanto rinviata e nonostante la clausola di dissolvenza cui si aggrappa Di Maio è difficile immaginare che alla fine, dopo tutto il denaro già speso, possa imporsi il no. Salvini contro ogni sua abitudine misura le parole, ma sogghigna soddisfatto. Forse pensa a una battuta del fotografo Oliviero Toscani, secondo cui Di Maio è stato il primo napoletano a farsi mettere nel sacco da un milanese.
LA CINA CORteGGIA MA l’EUROpA RACCOmANDA Il memorandum che l’Italia firmerà con la Cina, accordi strategici roboanti su quella Nuova via della Seta – la Belt and Road Initiative – che è la calamita geopolitica di Pechino, ha creato scandalo nell’Unione europea, anche se il governo di Roma non è il primo a cedere al corteggiamento muscolare della Cina, e non sarà l’ultimo. Per una volta la preoccupazione dell’Ue non è rimasta solo retorica, come avviene solitamente sulle questioni grandi e dirimenti (vedi il Venezuela, per dire la più recente), ma è diventata una piccola svolta nei rapporti con la Cina. Partner sì, ma da pari, senza soccombere, senza farsi fregare, come ha detto Jyrki Katainen, vicepresidente della Commissione europea, con un’espressione facile e felice: «Non esistono pasti gratis». Nulla arriva per nulla, non pensate che il regime di Pechino sia improvvisamente generoso o mosso da chissà quale istinto di solidarietà in un momento di grandi fratture diplomatiche: la Cina pensa al suo interesse, ma essendo enorme e potente, il suo interesse rischia di mangiarsi quelli frammentati e «first» dei nostri piccoli paesi. Se c’è un interlocutore con il quale la massa compatta funziona, quello è la Cina. Ed è questa filosofia a ispirare l’Europa in questo momento. La Commissione dice che la «piena unità» dell’Ue e dei suoi stati membri è imprescindibile, bisogna avere consapevolezza dei «rischi sulla sicurezza posti da investimenti stranieri in attività, tecnologie e infrastrutture critiche». E le regole di «concorrenza, trasparenza e mercati nell’Ue», valgono per tutti, senza infrazioni e soprattutto senza illusioni: è necessario «monitorare» gli investimenti stranieri diretti come previsto da un regolamento Ue antiCina, «salvaguardare» le infrastrutture digitali e «rispettare» le linee guida sulla partecipazione di società straniere agli appalti pubblici nell’Ue. Questo è l’unico modo per gestire la partnership strategica con il regime di Pechino senza esserne sopraffatti, e senza rimanere isolati. Perché questo è il punto, per l’Europa: le alleanze nel mondo stanno cambiando, l’America è capricciosa e tende a isolarsi se ne intravvede l’opportunità, la Russia incombe, con le sue manipolazioni e il suo vantaggio energetico, la Cina ha un approccio cosiddetto laico al resto del mondo, non si occupa di micromanagement dei paesi, delle loro beghe interne, ma costruisce la sua rete d’influenza cercando più sudditanza dagli altri che collaborazione paritaria. L’Ue, con il suo mercato enorme e attrattivo, può e deve fare da baricentro – la geografia in questo singolo caso aiuta pure: siamo al centro – controbilanciando le propostecalamite delle altre superpotenze. Per farlo ci vuole compattezza. L’Italia vuole andare per la sua strada, approfittare delle opportunità cinesi con istinto da cicala, oggi va bene e domani chissà, che importa, ma non è la sola: i paesi dell’est europeo sono da anni invischiati nella rete cinese. A Budapest, se parli con i commentatori ma anche con chi semplicemente si guarda intorno, scopri che molti segnalano che a occidente ci occupiamo della Russia in modo quasi ossessivo, «ma guarda che qui se c’è vassallaggio è quello dei cinesi». Anche la Grecia fa parte di questo gruppo di paesi che spingono contro una svolta anticinese dell’Ue, e la somma dei paesi filocinesi spacca a metà il continente (sono tredici, su ventisette, o ventotto, ma gli inglesi chi li calcola più). La forza è stare insieme, l’unità è l’unica chance perché l’Europa, nella sua complessa varietà, possa almeno provare a giocare da superpotenza.
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Politica e Economia
Riduzioni fiscali tramite i moltiplicatori: sono neutrali? Analisi Una riduzione del carico fiscale del 5% tramite un ritocco del moltiplicatore d’imposta cantonale
manterrebbe le proporzioni fra i carichi di tutti i contribuenti, o ne favorirebbe alcuni?
Daniele Besomi Il sistema fiscale ticinese, come quello di molti altri cantoni, permette di regolare l’imposizione fiscale delle persone fisiche con tre metodi principali. Il primo consiste nel definire un insieme di possibili deduzioni dal reddito in corrispondenza di certe spese che il contribuente deve affrontare. Le deduzioni per persone a carico, per esempio, permettono di tener conto del fatto che il mantenimento di queste ultime comporta delle spese, riducendo il reddito a disposizione del contribuente. Il reddito sul quale si pagano le imposte (reddito imponibile) è dato dal reddito dichiarato dal contribuente, tolte le deduzioni. Il secondo fattore che regola l’imposizione fiscale sono le aliquote d’imposta, cioè la percentuale del reddito imponibile che deve essere versata al fisco. Queste aliquote variano a seconda della classe di reddito del contribuente. I contribuenti con reddito basso pagano generalmente meno imposte (in proporzione al reddito) rispetto a quelli più abbienti: tanto maggiore è questa differenza, tanto più si parla di aliquote progressive. La logica di questo sistema è alla base di una politica redistributiva, poiché i cittadini più ricchi vengono chiamati a contribuire più di quelli poveri al funzionamento dell’amministrazione pubblica, alla costruzione di infrastrutture e alla fornitura di servizi per i cittadini. Quanto però l’intero sistema sia effettivamente redistributivo dipende anche dall’uso che viene fatto dalle imposte: se è vero che i cittadini più benestanti pagano più di quelli meno abbienti, è anche vero che usufruiscono in misura maggiore di certi servizi. Per esempio, tutti i bambini frequentano le scuole elementari e medie, ma le scuole secondarie sono frequentate in proporzione maggiore da figli di cittadini dal reddito alto, e le università in misura ancora maggiore. Tanto più è alta la quota di spese educative destinate alle scuole secondarie e terziarie, la cui gestione è parecchio più costosa di quella delle scuole dell’obbligo, tanto più la spesa va a favore dei cittadini a reddito alto, e dunque tanto meno l’impiego delle risorse dello Stato è redistributivo. Al contrario, robusti sostegni per il pagamento delle casse malati vanno a favore dei cittadini più poveri, ed in tal caso il sistema fiscale nel suo complesso risulta più redistributivo. Lo scopo ultimo delle politiche redistributive è quello di aumentare le opportunità delle persone di ceti meno abbienti, non solo per favorire queste ultime ma a beneficio dell’intera società. Per esempio, permettere a un bambino povero ma dotato di proseguire gli studi porta benefici al bambino stesso, ma anche alla società nel suo insieme, che trarrà profitto dall’accresciuta produttività del ragazzo quando entrerà nel mondo del lavoro. Il terzo fattore che permette di regolare il prelievo fiscale sono i moltiplicatori d’imposta. I moltiplicatori comunali permettono ad ogni singolo comune di stabilire quanto prelevare ai propri cittadini in proporzione al tasso di imposizione cantonale determinato
Anche in caso di taglio lineare del moltiplicatore d’imposta, più alto è il reddito, maggiore è il risparmio d’imposte rispetto ai redditi inferiori. (Ti-Press)
dalle aliquote e dalle deduzioni di cui abbiamo appena parlato. Il moltiplicatore cantonale permette di aumentare o diminuire proporzionalmente il prelievo anch’esso rispetto allo standard definito da aliquote e deduzioni. I due moltiplicatori sono indipendenti, così che il cantone può aumentare o diminuire le imposte cantonali senza influenzare le finanze dei comuni, e viceversa. La recente introduzione del moltiplicatore cantonale apre una nuova prospettiva, e con essa un nuovo problema. La possibilità di modificare globalmente il tasso di imposizione fiscale senza ritoccare esplicitamente le aliquote d’imposta permette da un lato di introdurre più facilmente degli sgravi fiscali, e dall’altro pone la questione di sapere se questi sgravi siano neutrali per quanto riguarda la redistribuzione del reddito tra i cittadini. Il quesito è interessante; lo scopo di questo articolo è di rispondere a questa domanda, senza introdurre assunzioni arbitrarie ma semplicemente basandosi sul sistema esistente di aliquote e deduzioni e considerando il reddito così come effettivamente distribuito tra i cittadini secondo i dati fiscali ufficiali. Chiariamo subito ciò di cui qui non si discute. Come spiegato, l’effettiva redistribuzione del reddito tramite il prelievo e la successiva spesa delle imposte dipende non solo dall’imposizione ma anche dalle modalità di spesa. Si dovrebbe dunque discutere se, in seguito a uno sgravio fiscale e alla corrispondente diminuzione delle entrate rispetto al potenziale (anche senza considerare eventuali peggioramenti dell’economia), lo Stato spenderà nelle medesime proporzioni di prima oppure no. Si è argomentato che per far fronte a una diminuzione dell’ammontare a disposizione per la spesa pubblica certe spese andranno ridotte più di altre, causando così una redistribuzione del reddito. Per quanto ciò sia verosimile e si debba tenerne conto, restiamo comunque nel campo dell’ipotetico. Per correttezza sarà dunque necessario a suo tempo che chi proporrà un tale sgravio specifichi esattamente quali saranno le ripercussioni in questo senso. In attesa di questi chiarimenti, esaminiamo invece quanto si può già calcolare con certezza perché abbiamo tutti i dati per farlo.
Prima di addentrarci nei conti, però, riassumiamo le posizioni già emerse. Da un lato si ha un ragionamento che sostiene che uno sgravio fiscale effettuato tramite il moltiplicatore alleggerisce il carico fiscale dei redditi più alti in misura maggiore di quanto non faccia con i redditi più bassi, e che pertanto non è neutrale ma ha un effetto redistributivo a favore dei ceti più agiati. L’argomento contrario si basa su un’analogia. Il moltiplicatore cantonale funziona esattamente come i moltiplicatori comunali, a proposito dei quali l’obiezione precedente non viene sollevata. Il beneficio è distribuito in funzione delle imposte che i cittadini pagano, come è giusto che sia; la scala delle aliquote, sociale e progressiva, non viene ritoccata, per cui l’operazione mantiene la progressività del sistema fiscale cantonale, e risulta dunque neutrale dal punto di vista di vista della distribuzione del reddito. Quale di questi argomenti è corretto? È naturalmente vero che la scala delle aliquote, così come stabilite dal legislatore, non viene esplicitamente ritoccata. Ma questa formulazione in realtà sposta sottilmente i termini del problema – non giudico se malevolmente o per aver omesso di fare i conti. Introducendo uno sgravio fiscale tramite una riduzione del moltiplicatore, ad ogni reddito corrisponde un prelievo fiscale minore rispetto alla situazione precedente. Il riferimento, allora, non è più l’aliquota corrispondente al moltiplicatore = 100%, ma l’aliquota effettiva che va calcolata a partire dall’imposta effettivamente prelevata (minore della precedente) sul medesimo reddito imponibile. Anche se la legge e il sistema delle aliquote non cambiano, cambia l’aliquota effettivamente applicata. Ed è su questa che bisogna ragionare. Consideriamo un esempio. Un reddito imponibile di 50’000 Fr annui deve pagare 3106.25 Fr di imposta cantonale, corrispondenti ad un’aliquota del 6.2125% (3106.25 / 50’000). Con il moltiplicatore cantonale al 100% l’aliquota effettiva corrisponde all’aliquota stabilita dalla legge. Dopo lo sgravio fiscale del 5% l’imposta prelevata sarà 2951 Fr, a cui corrisponde un’aliquota effettiva del 5.90 % (= 2951 / 50’000).
Se vogliamo valutare se lo sgravio ha un effetto distributivo non possiamo più fare riferimento alle aliquote originali, ma bisogna confrontarle con le aliquote effettive. Lo sgravio fiscale del 5% le altera tutte nella medesima proporzione: ogni aliquota diventa del 5% più piccola. Significa che la distribuzione del reddito è rimasta inalterata rispetto alla situazione precedente lo sgravio? Il modo in cui il reddito è distribuito dipende da quanto reddito resta dopo il prelievo fiscale rispetto al reddito precedente. È dunque possibile confrontare la distribuzione del reddito dopo le imposte in diversi modi. Il primo consiste in un semplice ragionamento: siccome le aliquote crescono al crescere del reddito, tanto maggiore è il reddito tanto maggiore è la riduzione dell’aliquota comportata dallo sgravio. Questo significa che, in percentuale rispetto al reddito originario, lo sgravio è maggiore. Non tutti dunque sono sgravati percentualmente allo stesso modo: quanto più si è ricchi, tanto maggiore è il risparmio di imposta, non solo in assoluto ma anche rispetto al reddito originario. Un esempio, calcolato con le aliquote dei contribuenti coniugati, chiarisce bene questa conclusione (vedi tabella): prima delle imposta, la famiglia povera A aveva il 10% del reddito rispetto alla famiglia ricca B; dopo le imposte cantonali (modello attuale) ne ha l’11.14%. Le imposte redistribuiscono dunque il reddito dalla famiglia più ricca a quella più povera. Dopo lo sconto fiscale, il reddito della famiglia A diventa l’11.07% rispetto alla famiglia B: l’imposta scontata è ancora redistributiva, ma meno rispetto a quella originale: lo sgravio fiscale tramite il moltiplicatore ha dunque redistribuito il reddito rispetto alla condizione precedente, favorendo i contribuenti più ricchi1. Si poteva arrivare alla medesima conclusione con quello che i matematici chiamano un ragionamento al limite. Se si portasse il moltiplicatore al suo limite inferiore, cioè a 0%, nessuno pagherebbe imposte: non vi sarebbe dunque nessuna redistribuzione del reddito. Se a 100% c’è una certa redistribuzione e a 0% non c’è nessuna redistribuzione, tutti i casi intermedi portano a una minore redistribuzio-
Esempio di effetti dello sgravio lineare del moltiplicatore cantonale Famiglia
Reddito imponibile
Aliquota
Imposta cantonale
Reddito dopo imposta
Imposta sgravata
Aliquota dopo sgravio
Reddito dopo imposta sgravata
Sgravio
Risparmio d’imposta in % del reddito
A B
30’000 300’000
1.39% 11.50%
418.25 34505
29581.75 265495
398 32779.75
1.33% 10.92%
29602 267220.25
20.90 1775.25
0.06% 0.59%
ne rispetto all’imposta piena: cioè non sono neutrali e intaccano la progressività e socialità del sistema. Un terzo modo per verificare questa conclusione consiste nel prendere dei dati fiscali cantonali complessivi (p.es del 2014), in cui sono date le fasce di reddito e gli ammontari di imposta pagati da ogni categoria, simulare una riduzione d’imposta del 5% e calcolare quanto reddito rimane a disposizione di ciascuna fascia dopo il pagamento delle imposte. L’effetto visto per un singolo contribuente esaminato in precedenza si cumula sull’intera popolazione. Il risultato è che collettivamente i redditi più alti (per i coniugati, oltre 60’000 di imponibile) hanno una fetta più alta di reddito a disposizione dopo lo sgravio rispetto a prima, mentre i redditi più bassi ne hanno una parte minore. Seppur regalando qualcosa a molti contribuenti, ai ricchi si regala molto di più, tanto da cambiare la distribuzione del reddito. Alla fascia più povera della popolazione non c’è nulla da regalare, poiché questi cittadini non pagano imposte; si noti che la popolazione che non riceverebbe alcun beneficio da questa manovra ammonta all’11% delle famiglie e al 36% dei single. Si potrebbe obiettare che le differenze percentuali non sono alte. Vero, ma attenzione a non trarre la conclusione che tutto sommato è indifferente. Percentuali piccole riferite a redditi alti, individualmente ma soprattutto quando sommate per categoria, possono comportare delle differenze notevoli. Nel complesso, dei 10.6 milioni di sgravio che si distribuirebbero sugli ammontari di imposta per il 2014 ai coniugati solo 1.2 milioni andrebbero ai redditi fino a 60’000 Fr (57% dei contribuenti), mentre l’88% dello sgravio andrebbe a favore dei redditi al di sopra di quella cifra. Un terzo dello sgravio (3.5 milioni) va ai redditi sopra i 100’000 fr annui, cioè al 5% della popolazione. Per i single, oltre il 10% dello sgravio va ai redditi sopra 200’000 Fr, cioè lo 0.5% della popolazione. Va notato, a questo punto, che è vero che il funzionamento del moltiplicatore cantonale è analogo a quello dei moltiplicatori comunali. Questo vale anche per le conclusioni: un moltiplicatore cantonale basso comporta una distribuzione del reddito più favorevole per le classi di reddito alte e meno favorevole per i contribuenti meno abbienti. Qui la differenza diventa stridente: da un lato, le variazioni tra i moltiplicatori di diversi comuni possono essere anche notevoli, e così anche l’effetto redistributivo. Dall’altro, i comuni che riescono a tenere un moltiplicatore basso sono quelli con pochi problemi finanziari, cosa che solitamente si verifica quando ci sono molti contribuenti abbienti: questi ultimi, dunque, di fatto possono organizzarsi in modo tale da redistribuire il reddito a proprio favore. Se è vero che non si discute dell’impatto distributivo delle manovre sui moltiplicatori comunali, non è perché questo sia privo di implicazioni. Di certo non possiamo prendere modifiche dei moltiplicatori comunali come modello di neutralità distributiva, e semmai bisognerebbe chiedersi se non sia il caso invece che se ne esaminino le premesse e le conseguenze. In conclusione, uno sgravio lineare comporta un effetto redistributivo a favore dei redditi alti, poco visibile in termini percentuali ma facilmente percepibile confrontando gli sgravi effettivi a favore dei redditi bassi (poche decine
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 marzo 2019 • N. 12
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Politica e Economia o al massimo centinaia di Fr per contribuente) e gli sgravi a favore dei contribuenti più benestanti (fino a qualche migliaio di Fr) in proporzione al reddito. Come mostra l’esempio della tabella, a un reddito di 10 volte superiore corrisponde uno sgravio di 84 volte superiore. Se sia «giusto così» dipende dall’idea che uno ha della giustizia fiscale, per cui lasciamo giudicare ai lettori. Tuttavia si può senza alcun dubbio affermare che è errato (e non senza implicazioni) affermare che una manovra di sgravio effettuata tramite i moltiplicatori è neutrale dal punto di vista della progressività e socialità del sistema fiscale. Si può però ragionare sull’opportunità di tale manovra, chiedendosi dove vadano a finire i soldi a cui lo Stato rinuncerebbe. Gli sgravi fiscali a redditi bassi e molto bassi hanno qualche utilità, perché molto probabilmente verrebbero in gran parte spesi in Ticino, e contribuerebbero dunque a stimolare la domanda creando cifra d’affari per i commerci locali e dunque nuovi redditi. L’utilità di uno sgravio ai redditi più alti è invece molto più dubbia: buona parte sarebbero risparmiati, o più probabilmente investiti nei mercati finanziari, non contribuendo in alcun modo al nostro benessere collettivo. Il Cantone, invece, si troverebbe con una ventina di milioni in meno, che potrebbero o essere spesi (stimolando la domanda per un ammontare maggiore di quanto farebbero, complessivamente, i cittadini), oppure usati per ridurre il debito pubblico (contro il quale tuonano continuamente i fautori degli sgravi). Anche dal punto di vista economico, allora, questo sgravio non sembra una grande idea. Nota
1. Questo risultato non dipende dalla scelta dei casi, ma vale per ogni sistema fiscale progressivo, come si può facilmente dimostrare algebricamente. Informazioni
Per il calcolo delle imposte si può usare il calcolatore sul sito del DFE: https://www3.ti.ch/DFE/DC/calcolatori/uc_pg.php. La stratificazione dei contribuenti e delle imposte per il 2014 si trova a p. 216 dell’allegato statistico del rendiconto del CdS 2015: https://tinyurl. com/allegato-2015. Per due interpretazioni contrapposte dell’effetto redistributivo di uno sgravio lineare si veda per esempio https://tinyurl.com/sgravio, attorno al minuto 6.
I soldi nel pallone
Calcio e economia L’ultima grande operazione commerciale nel mondo del calcio è stato
l’acquisto di Cristiano Ronaldo da parte della Juventus. Un affare milionario in un mondo sportivo sempre più orientato a strategie imprenditoriali Marzio Minoli
È stato il tormentone estivo del 2018. Cristiano Ronaldo passa dal Real Madrid alla Juventus. Il 34enne ha firmato un contratto quadriennale da 30 milioni di euro, netti, all’anno, mentre alla società spagnola sono andati 105 milioni di euro. Come spesso accade, questo genere di operazioni solleva aspre critiche. L’ammontare di soldi in ballo viene ritenuto eticamente sbagliato, trattandosi di calciatori. Ma le cose devono essere viste al di là del mero aspetto sportivo. L’operazione CR7, questo il nome del marchio commerciale di Cristiano Ronaldo, va ben oltre il semplice gioco del calcio. La Juventus attualmente è in 11.esima posizione nella classifica dei club con i maggiori fatturati, prima delle italiane con circa 400 milioni di euro all’anno. A primeggiare ci sono Real Madrid e Barcellona, tutte con circa 700 milioni, seguono poi Manchester United, Bayern Monaco, Manchester City, Paris Saint Germain, Liverpool, Chelsea, Arsenal e Tottenham. A fornire le cifre il rapporto annuale della società di consulenze Deloitte che pubblica il Football Money League (https://www2.deloitte.com/content/ dam/Deloitte/uk/Documents/sportsbusiness-group/deloitte-uk-deloittefootball-money-league-2019.pdf) L’aspetto interessante è capire da dove vengono i soldi. Nel pensiero comune si ritiene che la fonte primaria siano i diritti televisivi. Rimanendo alla Juventus in effetti è così. Dei 400 milioni di fatturato il 60% circa proviene proprio dai diritti televisivi. Il discorso cambia radicalmente se invece si guardano le prime posizioni della classifica della Money League. Infatti la voce «ricavi da diritti televisivi» in media è un terzo del totale. Ecco quindi che si delinea quella che è la nuova strategia dei grandi club. Puntare su quello che viene definito il merchandising e i proventi commerciali in generale. Magliette, gadget e chi più ne ha più ne metta stanno diventando una delle maggiori fonti di entrate per i grandi club. Una voce che conta oramai per quasi la metà degli introiti, o, come
nel caso del Bayern di Monaco, si arriva fino al 60%. Queste cifre ben fanno comprendere quindi l’importanza dell’«operazione Ronaldo» in casa Juventus. Il campione portoghese può contare su 330 milioni di follower sui vari social media, come Twitter, Facebook o Instagram e la società torinese ha già guadagnato 10 milioni di nuovi seguaci solo con l’arrivo di CR7. Oltre a questo bisogna tenere in conto di tutto quello che viene venduto con il nome «Ronaldo» associato a «Juventus» e il fatto che gli sponsor fanno la fila per poter mettere il loro nome o il loro marchio accanto al nome del portoghese. Coinvolgere il tifoso in quella che oggi viene chiamata con un termine inglese, experience. Cosa vuol dire? Il tifoso non è più semplicemente colui o colei che entra allo stadio e guarda la partita, oppure sottoscrive l’abbonamento per vederla in tv. Oggi le persone vogliono essere, appunto, coinvolte. Vogliono far parte di un qualche cosa, e nulla come la squadra del cuore può alimentare questo sentimento. Ecco dunque l’ultima trovata, far partecipare i tifosi alle decisioni in seno alle società. In Spagna il modello è già collaudato. Real Madrid e Barcellona sono tra maggiori rappresentanti di questa forma di co-proprietà. Il Real ha circa 90’000 soci, il Barcellona 170’000. E questi possono partecipare alle assemblee ed eleggere il presidente. Non si tratta di azionariato popolare. In questi casi il socio non partecipa al capitale sociale. Una strada che anche Paris Saint Germain e Juventus hanno deciso di seguire, ma utilizzando la tecnologia. Infatti, grazie ad una piattaforma di cryptovalute, i tifosi possono acquistare monete virtuali e con le stesse avere accesso ai diritti di voto per decidere, ad esempio, il colore delle maglie. Lo scopo come detto è chiaro: coinvolgere il tifoso il più possibile. E si sa che se la gente è coinvolta in qualche cosa, è anche più disposta a spendere in prodotti legati a quel marchio. Un cambio radicale quindi nel modello d’affari delle squadre di calcio. Il
CR7 è un marchio economico, non solo un talento sportivo. (AFP)
lato commerciale diventa sempre più preponderante rispetto agli incassi nei giorni delle partite oppure degli introiti TV. E qui entra in gioco un altro elemento che garantisce ulteriori entrate: lo stadio di proprietà. Poter possedere la struttura sta diventando sempre più fondamentale. A dirlo a chiare lettere l’amministratore delegato del Liverpool, Peter Moore. Lo storico stadio, Anfield Road, infatti non può essere sfruttato a dovere. Ad esempio, non può ospitare concerti, visto che i camion che trasportano il materiale non possono entrare a causa degli accessi troppo stretti. Ma non solo. La proprietà garantisce anche il pieno controllo di tutto quello che è correlato alla partita, dalla ristorazione agli eventi per gli ospiti importanti. Importante diventa l’offerta per le aziende, che pagano fior di soldi per poter invitare i loro clienti nelle zone VIP degli stadi, ad assistere alle partite in tutta comodità, magari cenando. Far vivere loro la già citata experience. «Oggigiorno per competere con i grandi club bisogna avere un fatturato di almeno 500 milioni di sterline e gli eventi organizzati negli stadi, fuori dalle partite di calcio, sono una voce importantissima sulla quale poter contare» a dichiarato Moore al «Financial
Times». E allora sotto a costruire stadi avveniristici, come il nuovo stadio del Tottenham, la squadra basata a nord di Londra e che fa parte delle top 6 del campionato inglese. Un investimento da quasi 1 miliardo di sterline per poter avere un impianto con tanto di terreno retraibile che permette di trasformare un campo da calcio in uno da football americano, dove ospitare due partite all’anno di NFL, la lega professionistica americana di football americano. Ma in tutto questo il lato sportivo viene quindi messo in secondo piano? Non proprio, ma non sempre è la priorità. L’acquisto di Ronaldo è stato «venduto» come una mossa per permettere alla Juventus di riuscire a vincere la Champions League, ma l’impressione è che l’importante non sia vincere, ma mantenersi tra le grandi, costantemente. Questo è anche il pensiero di Emilio Butragueño, ex campione del Real Madrid, ed ora alto dirigente della squadra spagnola: «La società deve garantire la stabilità dei suoi conti, che non siano troppo condizionati dai risultati sportivi». Insomma, bisogna costruire un marchio, una filosofia, un’«idea« vincente che duri nel tempo e che attiri sempre più tifosi, o per meglio dire, dando un calcio al romanticismo, consumatori. Annuncio pubblicitario
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Politica e Economia
Le imprese svizzere pilastro dell’economia
Statistica In occasione della giornata dell’imprenditore è stata ricordata la figura di Alfred Escher,
promotore tra l’altro della linea ferroviaria del San Gottardo. Evidenziati anche gli apporti delle imprese all’economia svizzera di oggi
7,861 miliardi di ore lavorative. Il costo orario del lavoro in Svizzera era di 60,05 franchi in media nel 2016 nel settore secondario e terziario. Nel 2017, l’Ufficio europeo dei brevetti ha registrato 7283 domande provenienti dalla Svizzera, un livello record. Nel calcolo per milione di abitanti, la Svizzera è nettamente in testa in Europa con 884 annunci. Molte aziende svizzere lavorano per l’esportazione. Il valore dell’export elvetico, nel 2018, ha raggiunto i 233,146 miliardi di franchi. Anche qui si tratta di un nuovo primato, seguito dalle importazioni, che hanno raggiunto i 201,8 miliardi. La parte del leone spetta all’industria chimica e farmaceutica, con 44,8%, seguita da macchine ed elettronica (14,4%), dell’orologeria (9,1%), dagli strumenti di precisione (7,2%), dai metalli (6,2%) e dai gioielli (5%). Da notare anche che il consumo di energia è dovuto in misura del 36,3% al traffico, del 27,8% alle economie domestiche, del 18,5% all’industria e del 16,4% ai servizi. Le statistiche internazionali pongono generalmente la Svizzera nei primi posti per la concorrenzialità. Ma la lotta è dura e richiede, oltre allo spirito imprenditoriale, una produzione di qualità e molta innovazione. Da tempo si pone anche il problema della successione nelle molte piccole e medie aziende. Secondo studi recenti, nei prossimi anni, ben 73’786 aziende si troveranno confrontate con questo problema. Finora circa il 45% delle aziende trova la soluzione nell’ambito familiare, il 30% con i collaboratori e il 25% con persone esterne all’azienda.
Ignazio Bonoli La giornata dell’imprenditore, festeggiata in tutta la Svizzera e promossa dal Credit Suisse, ha avuto quest’anno un accento particolare, perché ricordava i 200 anni della nascita di Alfred Escher. Sicuramente Escher fu uno dei maggiori imprenditori svizzeri, con un’attività poliedrica coniugata anche con un’attività politica in Consiglio nazionale e di docente universitario. Fra le opere maggiori da lui promosse vanno ricordate la fondazione del Politecnico di Zurigo, la creazione della banca Credito Svizzero e soprattutto la costruzione della linea ferroviaria alpina del San Gottardo. Quale riconoscimento per la grande opera, Lugano gli concesse la cittadinanza onoraria nel 1871. L’accumulo di cariche (fu anche tre volte presidente del Nazionale) e la personalità dominante, accompagnata da un ideale liberale intransigente, gli procureranno molti nemici, che lo definirono «barone federale». In molti si opposero ai suoi metodi e lo costrinsero a lasciare molte cariche. Ma la giornata dell’imprenditore è servita anche per fare il punto sull’economia svizzera ed evidenziare alcune cifre importanti. Si è così ricordata l’evoluzione del prodotto interno lordo, partito a un livello eccezionalmente elevato nel 2010 ha subito un crollo nei primi due anni di crisi, più che dimezzando il tasso di crescita nel 2012 (+1,2%), superandolo in seguito e stabilizzandosi a 668,572 miliardi di franchi nel 2017 (+1,9% sull’anno precedente). Questo risultato è ottenuto soprattutto
Nel 2017, durante la campagna Woodvetia, un ritratto di Escher in legno di quercia ha viaggiato sui treni delle FFS. (bahnonline.ch)
nel settore dei servizi (73,8%) e in quello industriale (25,5%), mentre il settore primario (soprattutto agricoltura) copre soltanto lo 0,7% del totale. Nei confronti internazionali, la Svizzera occupa generalmente buone posizioni. L’indice dello sviluppo imprenditoriale globale la pone al secondo posto dietro solo agli Stati Uniti. L’indice della Banca mondiale sul clima imprenditoriale la colloca al 38. rango, ma con punte di eccellenza nell’approvvigionamento elettrico, nella registrazione delle proprietà e nella fiscalità. Il numero di imprese attive nel 2016 era di 601’755, due terzi delle quali nei servizi, il 15% nell’industria e il 9% nel primario. Im-
prese che offrivano 4,4 milioni di posti di lavoro. Ma lo sviluppo continua: nel 2018 sono state create 43’174 nuove imprese registrate nel registro di commercio (soprattutto nei servizi). Il 35,3% di queste imprese sono state fondate da donne e il 9,7% da uomini e donne insieme. L’economia svizzera è tuttavia dominata da piccole e medie imprese, soprattutto a carattere familiare. Tre quarti delle circa 585’000 piccole e medie imprese svizzere sono di proprietà di famiglie, cioè dei fondatori. In Svizzera, le imprese del settore industriale e artigianale occupano soltanto l’8% delle superfici utili. Il 49% è
occupato da immobili, il 31% dai bisogni del traffico, il 6% da terreni di sport e divertimenti, nonché zone verdi; un altro 6% ha invece destinazioni particolari. Queste aziende, con 4,4 milioni di posti di lavoro, occupano anche 218’539 apprendisti (dati 2017), il 90% dei quali con attestato federale di formazione di base. I tempi di lavoro in media sono di 42,6 ore settimanali, superate solo dall’Islanda (42,9 ore) e seguite da Gran Bretagna (40,6 ore) dalla Germania (40 ore) e da Finlandia (37,8 ore) e Francia (37,6 ore). La media dei 28 paesi UE è di 39,4 ore settimanali. Nel 2017, sono state prestate globalmente in Svizzera
L’avanzata delle energie rinnovabili La consulenza della Banca Migros Thomas Pentsy
Consumo di energia primaria per fonte energetica 20000
In milioni di TOE
18000 16000 14000 12000 10000 8000 6000 4000 2000 0
1970
1980
1990 Petrolio
fino a oltre il 50%. Anche la domanda mondiale di petrolio salirà nella prima metà del periodo di osservazione, ma a un ritmo nettamente più lento rispetto al passato. Al contrario, il consumo di carbone resterà per lo più stabile. Il risparmio energetico e le moderne tecnologie salvaguardano l’ambiente.
2000 Gas
2010
2020 Carbone
Ma nonostante i progressi compiuti finora, le emissioni globali di CO2 sono ancora in aumento. A maggior ragione, quindi, la politica e l’economia, così come i privati, devono sforzarsi di ridurre ulteriormente le emissioni globali di sostanze inquinanti mediante la promozione e l’impiego di fonti di
2030
2040
Fonte: BP Energy Outlook 2019
Thomas Pentsy è analista di mercato e dei prodotti presso la Banca Migros
Entro il 2040 il fabbisogno energetico mondiale aumenterà di circa un terzo, soprattutto a causa di un maggiore consumo in Cina, in India e in altre parti dell’Asia. Più di tre quarti dell’incremento saranno dovuti alle necessità di approvvigionamento dell’industria e degli edifici. Allo stesso tempo, la domanda nel settore dei trasporti continuerà ad espandersi. Ma poiché i veicoli diventano più efficienti e le auto elettriche sempre più richieste, la crescita tenderà a rallentare. La buona notizia: in futuro il fabbisogno di energia verrà coperto più che mai in passato mediante l’impiego di fonti rinnovabili quali vento, sole, geotermia e biomassa. Infatti, circa l’85% della crescita dell’approvvigionamento prevista entro il 2040 sarà ottenuta sfruttando le energie rinnovabili e il gas naturale. È questa la conclusione a cui è giunto il gruppo britannico BP, operante nel settore del petrolio e del gas, nel noto studio «Energy Outlook 2019». Secondo BP, nel giro di due decenni le energie rinnovabili diventeranno la principale fonte per la produzione di elettricità a livello mondiale. In termini di penetrazione del mercato, l’Unione europea si presenterà addirittura come la principale regione al mondo: entro il 2040 la quota di energie rinnovabili sul mercato dell’elettricità europeo dovrebbe crescere
energia che siano efficienti sia sotto il profilo ecologico che del consumo di risorse. La consapevolezza ambientale può rivelarsi conveniente anche per voi: la Banca Migros premia i proprietari di abitazioni ad alta efficienza energetica con le agevolazioni Eco sulle ipoteche.
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Politica e Economia Rubriche
In&outlet di Aldo Cazzullo A sinistra qualcosa si muove Le primarie del partito democratico sono andate meglio del previsto. La principale forza di opposizione è uscita dal limbo in cui si era rinchiusa da oltre due anni, dal 4 dicembre 2016; ed è una buona notizia, non tanto per il partito quanto per l’Italia e tutto sommato anche per il governo; perché in democrazia c’è bisogno di un’opposizione. È questo il dato più significativo di
una fase che per la sinistra italiana non giustifica certo grandi entusiasmi. E non soltanto perché la partecipazione alle primarie, pur superiore alle attese, è stata la più bassa di sempre. Al momento la maggioranza degli italiani non guarda al Pd; guarda a Salvini. E le classi popolari che hanno abbandonato la sinistra per i Cinque Stelle non mostrano segni di voler
tornare indietro; semmai tendono a spostarsi a destra. Eppure anche a sinistra qualcosa si muove. La notte della sconfitta al referendum, il Pd entrò in una terra incognita dov’è rimasto troppo a lungo, in mano a leader dimezzati – prima Gentiloni, poi Martina – , senza riuscire a stare né con né senza Renzi. In questi 27 mesi l’ex premier avrebbe fatto meglio, per sé e per i suoi, a prendere una distanza più netta dalla politica. Ma sarebbe ingeneroso non riconoscergli di aver rispettato il percorso delle primarie. Ora vedremo se saprà collaborare con il vincitore, rinunciando a progetti personali che i risultati del 4 marzo scorso non incoraggiano. Ora il Pd ha un nuovo leader, Nicola Zingaretti (nella foto). Queste primarie hanno confermato la tendenza delle precedenti: i militanti si mobilitano attorno al vincitore annunciato, per dargli forza. Accadde con Prodi nel 2005, Veltroni nel 2007, Bersani nel 2009, Renzi nel 2013 e nel 2017. L’unico scontro vero fu quello del 2012, quanto appunto Bersani e Renzi (con Vendola eliminato al primo turno) si affrontarono per la candidatura a premier; ma al ballottaggio il distacco fu netto.
Il nuovo segretario è cresciuto nell’apparato del partito, ma ha vinto tre elezioni amministrative – una in Provincia e due in Regione – in un territorio, Roma e il Lazio, dove la cesura tra i dirigenti della sinistra e i ceti popolari è stata particolarmente netta. Giudicarlo adesso è ovviamente troppo presto. Una cosa è sicura: il Pd, dopo il disastro delle elezioni politiche di un anno fa, non può pensare di fare da solo. Sarà abbastanza inevitabile sposarsi a sinistra, appunto per recuperare una parte del voto popolare; ma questo non basterà. Il primo compito del segretario è costruire un dialogo con la società, in particolare con forze civiche, cattoliche, sindacali, di volontariato: primo passo verso nuove alleanze con liberali, europeisti, moderati. Sarà fondamentale proprio il rapporto con quei corpi intermedi che Renzi si era illuso di poter scavalcare, grazie a uno stile diretto e a una leadership solitaria. Più che con i capi dei Cinque Stelle, che considerano il Pd il partito del sistema e quindi il nemico naturale, Zingaretti dovrà parlare ai cittadini che chiedono un cambiamento vero, l’abolizione di privilegi odiosi, il rinnovamento della
classe dirigente del Paese, la lotta alle disuguaglianze eccessive, l’aiuto alle famiglie più povere, una prospettiva di vita e di lavoro per i giovani: insomma le cause, all’evidenza trascurate dai partiti tradizionali, che hanno gonfiato le vele di Grillo e dei suoi seguaci. L’avversario sarà ovviamente Salvini. Che oggi è fortissimo, domani uscirà trionfatore dalle Europee, ma dopodomani potrebbe pagare l’alleanza con i Cinque Stelle, il ristagno dell’economia, il malessere del Nord. E il Pd, se questo dovesse accadere, dovrà farsi trovare pronto; non soltanto con le manifestazioni, per quanto significative, ma soprattutto con misure concrete per creare lavoro, alleggerire fisco e burocrazia, migliorare i servizi alle imprese e ai cittadini, dalla scuola alla giustizia. Contenuti, non formule. Molto dipende da come andranno le prossime elezioni europee. Se il Pd supererà il 20 per cento e si avvicinerà ai Cinque Stelle, Zingaretti potrà avere spazio di manovra. Ma Renzi prima o poi potrebbe essere tentato dalla prospettiva di occupare il vasto spazio che si aprirà al centro, tra la Lega di Salvini e il Pd tornato in mano a uomini formatisi nella vecchia sinistra.
loro nonne. Lo dimostra il fatto che, mentre nel 1970 nei quattro rami (tessile, abbigliamento, igiene e toilette, commercio e vendita) con più di due terzi di apprendiste si trovava più del 90% delle apprendiste, nel 2016, i rami con larga maggioranza di apprendiste, erano diventati 11 (artigianato, biblioteche e archivistica, cure infermieristiche, lavoro sociale e orientamento, salute e protezione sociale, scienze veterinarie, servizi medici, stilismo e moda, studi dentistici, tessile e abbigliamento), ma in essi non rappresentavano più del 35% del totale delle apprendiste nel Cantone. Questo significa non solo che sono apparse un certo numero di nuove professioni nelle quali la quota delle apprendiste è superiore ai due terzi, ma anche che la quota delle apprendiste nei rami che
erano riservati ai maschi deve essere considerevolmente aumentata, edilizia esclusa, naturalmente. Vista dal profilo delle opportunità di lavoro e di carriera delle donne, questa evoluzione è sicuramente positiva. In particolare è positivo il fatto che le quote delle donne nelle professioni tradizionalmente riservate ai maschi comincino ad aumentare. Per far questo è stato però necessario superare barriere fissate dalla tradizione e, in certi casi, creare nuove scuole cantonali destinate alla formazione delle apprendiste nelle nuove professioni della salute e del sociale. Si può dire che in questi casi l’intervento finanziario dello Stato è stato determinante. La tendenza alla femminilizzazione della formazione professionale aiuta a ridurre la
discriminazione che esisteva, in certi di rami dell’economia ticinese, nei confronti dell’occupazione femminile. Se la guardiamo però dal profilo dell’economia nel suo insieme, invece, essa contiene anche aspetti negativi. Negativo, in particolare, è il fatto che lo sviluppo di formazioni per le donne si sia fatto soprattutto nel settore dei servizi alla popolazione, ossia in un settore i cui rami si caratterizzano per la bassa produttività. All’economia nel suo insieme, quindi, la diversificazione in atto nella formazione non è che abbia portato molto. Di fatto è probabile che la stessa non abbia portato molto anche alle donne, poiché le professioni del settore dei servizi in cui l’impiego femminile abbonda sono anche professioni poco o malpagate.
femminili, scarse tutele sindacali, ampia offerta di forza-lavoro già formata. Anche i comuni italiani a ridosso della «ramina» s’ingrossarono, una crescita demografica dovuta all’arrivo di operai e di operaie provenienti dal Sud della penisola. Benché sottopagata rispetto alla media, un’occupazione in Ticino era comunque preferibile all’inoccupazione cronica e al lavoro nero, piaghe secolari del Mezzogiorno d’Italia. Il meccanismo funzionò bene per svariati anni. I frontalieri, che nel 1955 erano appena seimila, crebbero costantemente, fino a raggiungere i 31mila nel 1980 (oggi sono 62mila). Nei confronti dei ticinesi non c’era concorrenza, giacché gli italiani s’inserivano nei piani bassi della gerarchia lavorativa, sospingendo verso l’alto, verso i servizi (banche, assicurazioni, commerci, impieghi statali), gli indigeni. Si venne così a creare un mercato del lavoro duale, suddiviso in compartimenti; rari
i passaggi da un segmento all’altro. Ben presto, tuttavia, emersero anche i lati negativi. Quella di frontiera era un’economia poco innovativa, fondata soprattutto sull’apporto umano («labour-intensive»), scarsamente interessata ad investire in tecnologia. Il basso costo del lavoro non stimolava gli imprenditori ad imboccare questa strada. Poi c’erano gli effetti collaterali: il traffico, sempre più congestionato nell’area dei valichi, l’inquinamento, il disordine edilizio, un territorio rivoltato e scavato per far posto a stabili informi. Mattoni e cemento inghiottirono campi, vigneti e masserie, cancellando le toscaneggianti colline del Mendrisiotto. Infine è arrivato il capannone, costruzione che pian piano ha lasciato la fascia di confine per spingersi verso i fondivalle superiori. Il capannone è un contenitore generico, composto di elementi prefabbricati, destinato ad
attività polivalenti. Funge da opificio ma anche, o soprattutto, da piattaforma logistica, che raccoglie, classifica e ridistribuisce. Al suo interno corrono nastri trasportatori, manovrati da gruppi di lavoratori chiamati «addetti». Nella fabbrica tradizionale entravano materie prime per diventare prodotti finiti; nel capannone la merce non subisce nessuna trasformazione, ma semplicemente «transita». I sindacati non sono graditi; la manodopera è flessibile, non ci sono «operai», ma soltanto «collaboratori». È questo un buon modello industriale per la nostra economia, da accogliere a braccia aperte? La discussione è in corso. Sicuramente in questi ultimi decenni sono giunti imprenditori capaci e lungimiranti; ma purtroppo ha varcato la frontiera anche qualche volpone, abile a sfruttare le opportunità che le autorità offrivano senza porsi tante domande.
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Professioni al femminile In coda alla giornata della donna occupiamoci, per una volta, di un’evoluzione che reputiamo sia ancora poco conosciuta: la femminilizzazione delle professioni. Siccome la quota delle donne nel totale dell’occupazione aumenta è anche logico che aumenti la quota femminile nelle singole professioni. In realtà però questa evoluzione ha dovuto superare le molte barriere poste dalla tradizione. In Svizzera, l’esempio più conosciuto è quello dell’imbianchino. Come molti mestieri dell’edilizia quello dell’imbianchino era, ancora un paio di decenni fa, riservato ai maschi. Oggi, invece, conta già una percentuale elevata di donne. Prova ne è che agli esami di fine tirocinio del 2017 si sono presentati 270 donne e 326 uomini. Tra i giovani pittori, quindi, la quota delle donne è, già
oggi, superiore al 40%. Quello che vale per la Svizzera non sembra valere per il Ticino. In Ticino, infatti, le professioni dell’edilizia non stanno femminilizzandosi. Non abbiamo indicazioni statistiche sul numero delle apprendiste imbianchine, l’annuario statistico pubblica solo i dati relativi all’insieme del settore costruzioni. Nel 2016 gli apprendisti in formazione nell’edilizia erano 676, di cui 8 donne. Se l’edilizia resta per le apprendiste ticinesi un settore da conquistare, in altri rami della produzione e dei servizi hanno invece già fatto passi in avanti. Oggi alle giovani che terminano la scuola dell’obbligo si offre, anche in Ticino, un ampio ventaglio di sbocchi professionali, certamente molti di più di quanto l’economia del Cantone offriva cinquant’anni fa alle
Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti Dalle fabbriche ai capannoni Che cosa succede in quei capannoni inaccessibili, simili a moderni penitenziari? Di preciso non si sa, hanno spiegato due recenti servizi radiotelevisivi (Modem e Falò). In alcuni si vedono sfilare autocarri, in entrata e uscita, in altri non si scorge anima viva. Si sa soltanto che hanno fatto la fortuna fiscale dei comuni in cui sono spuntati come escrescenze cutanee. Finché dura, hanno pensato le municipalità beneficiate, non c’è ragione di chiedere e di interrogare. Sono i frutti della «valle della moda», la nuova fonte di luce dell’economia ticinese, settore tanto scintillante quanto opaco. Tutto andava per il meglio, salvo che per la guardia di finanza italiana, mossa dal sospetto che qualcosa non quadrasse. Se il tessile in Ticino era quasi scomparso, in quali grandi stabilimenti avveniva la produzione di capi di vestiario e di accessori tanto costosi, vanto di marchi mondialmente
noti? Dov’era la manodopera intenta a tagliare e cucire, a disegnare sagome, a maneggiare aghi e forbici? Solo ombre. Solo un giro di etichette e di fatture. Un giro-raggiro architettato per evadere il fisco. Non è la prima volta che il Ticino rimane vittima di scelte economiche decise altrove. Tutti ricordano il prodigioso sviluppo della fascia di confine nel secondo dopoguerra: una fungaia di fabbrichette imperniate proprio sull’abbigliamento: camicerie, maglifici, calzaturifici. I provvedimenti introdotti dalla Confederazione negli anni ’60 per arginare l’immigrazione, specie dall’Italia, escludevano dai contingenti la manodopera frontaliera, pozzo dal quale si poteva attingere liberamente. Nella cintura sottocenerina sorsero molte succursali di aziende tessili con sede oltralpe. I vantaggi erano notevoli: retribuzioni inferiori alla media, maestranze docili prevalentemente
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Idee e acquisti per la settimana
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Raffreddore da fieno: i consigli del medico Ecco come funziona: • apri Discover nell’app Migros • scansiona questa pagina • leggi l’articolo migros-impuls.ch/raffreddoreda-fieno
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Idee e acquisti per la settimana
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 marzo 2019 • N. 12
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Cultura e Spettacoli Natura & tecnica in mostra A Porza, negli spazi di Villa Pia una mostra presenta i lavori più recenti di Teres Wydler
Jackie, chi sei tu? In scena al LAC uno spettacolo di Alan Alpenfelt che sonda la complessità della persona di Jackie Kennedy pagina 45
Hornung solista Il violoncellista tedesco Maximilian Hornung si esibirà a Lugano alla fine del mese pagina 46
Cronofobia ticinese A colloquio con i regista Francesco Rizzi e alcuni protagonisti del film Cronofobia
pagina 43
pagina 47
Smarriti nella vita di tutti i giorni
Narrativa Nel nuovo libro di Clemens Meyer
dodici piccole, imperdibili storie Luigi Forte Fin dal suo libo d’esordio, Eravamo dei grandissimi, pubblicato nel 2007, Clemens Meyer ha raccontato una realtà immersa nello smarrimento quotidiano. Protagonista è un gruppo di bulletti dei sobborghi di Lipsia che passano il loro tempo fra scazzottate e furtarelli. Da quelle parti l’adolescenza non doveva essere facile dopo la riunificazione tedesca: una specie di «danza sulle macerie», senza futuro né prospettive. Lui nella vecchia Rdt c’era nato: aveva appena dodici anni quando cadde il Muro di Berlino nel 1989, e in quell’autunno partecipò già alle dimostrazioni di massa che reclamavano un nuovo ordine democratico con la sorella e la madre, attivista per i diritti civili. Poi col tempo speranze e illusioni si sono afflosciate e Clemens ha iniziato a narrare dal basso, dalle periferie del defunto stato socialista, la vita offesa e le utopie smarrite. La sua singolare scrittura ha dato fin dall’inizio corpo e anima al vuoto in cui si aggirano i personaggi e dove tutto si mescola in un eterno presente perché le cose sembrano non cambiare mai, se non in peggio. Meyer ha inventato il linguaggio della disillusione senza esiliare sentimenti e memoria, anzi, recuperando piccoli frammenti di speranza, gesti e parole che il dolore non riesce a soffocare. Su tale sfondo si muovono i dodici racconti del volume Il silenzio dei satelliti edito da Keller nell’ottima versione di Roberta Gado e Riccardo Cravero. Sulla scena di paesi e città della ex Rdt, in un paesaggio spesso notturno, tra fabbriche, ferrovie, ciminiere sputafuoco, magazzini, supermercati e caseggiati popolari si alternano figure inquiete, fantasmi alla ricerca di uno spiraglio di luce. Come l’operaia Christa che di notte pulisce i vagoni dei treni e al bar della stazione fa amicizia, fra un cicchetto e un caffè, con la parrucchiera Birgitt. Due donne umiliate dalla vita che cercano un riscatto, un po’ di umano tepore. Come il guardiano di un complesso che confina con un campo profughi isolato da una recinzione, dove si aggira una ragazza dalla pelle chiarissima e con un piccolo naso a patatina. Nascerà un tenero dialogo tra lui e la giovane Marika dagli occhi azzurri che sembra scomparire nel suo immenso pastrano, forse una russa di origine tedesca che come molti altri se n’era andata dall’Unione Sovietica in dissoluzione. I due si sfiorano attraverso la rete di recinzio-
ne, ma poi, grazie a un piccolo spiraglio, eccoli lì, uno accanto all’altra, a guardare il cielo scambiandosi un bacio fugace. Lei è altrove col cuore, scruta in se stessa un passato di violenze e un presente non meno incerto, finché scompare, forse trasferita con molti altri da quel centro dove la polizia è intervenuta per sedare risse e tensioni. È tenerissima anche la storia del gestore di un chiosco che s’innamora di una ragazza mussulmana. Abitano sullo stesso pianerottolo in un casermone della periferia e fumano talvolta insieme un paio di sigarette seduti sulle scale. Mentre il ragazzo di lei, Hamed, è fuori al lavoro in un internet point. Stranieri con cui nasce un dialogo intenso: parlano di sūra e di religione e a lui sembra di essere finito nel mondo delle Mille e una notte. Decide persino di far visita alla moschea. Poi succede qualcosa di spiacevole: lei rientra ubriaca e sconvolta e lui l’assiste passando la notte sveglio al suo fianco. Resta solo un ricordo e forse un’attesa. Ma ormai è trascorso molto tempo e da allora non si sono più visti. Spariti come in sogno. Succede in questi racconti che i personaggi si dissolvano nel nulla, come voci zittite dal destino. Mentre il mondo sembra afflosciarsi, lontano ed estraneo, in attesa di eventi che mai si annunciano. E se qualcosa accade, come nel racconto La distanza, finisce per stravolgere la vita: quella del macchinista di un treno merci, fiero del lavoro che svolge da anni e che sognava fin da bambino. Proprio mentre ha ripreso la guida del convoglio che attraversa luoghi pieni di ricordi, ecco profilarsi all’improvviso, fermo sui binari, un uomo che ride: a lui, al destino, alla vita che ha deciso di azzerare. Come consolare la vedova se non rintracciandola per esprimerle tutto il suo dolore fingendosi un vecchio amico d’infanzia del marito. La quotidianità, in questo caso come nel Ritorno degli Argonauti si mescola al sogno in paesaggi d’infanzia, in immagini che sembrano sottrarsi al triste viavai degli eventi. Nella sua semplicità la scrittura di Meyer sprigiona una forza dirompente e febbrile, fra costanti flashback e imprevedibili pulsioni che danno nuova sostanza alla realtà. Come nel racconto Lo spiraglio in cui l’addetto agli ordini di una ditta di spedizioni si aggira afflitto per la città notturna senza una meta dopo aver scoperto un furto a casa sua. Dopo tanto girovagare entra
Alcune Trabant parcheggiate davanti a una fabbrica della Rdt, primavera 1989. (Keystone)
in una vecchia abitazione dove viene accolto da un’anziana che lo crede suo nipote Lukas da tempo lontano, impegnato in azioni militari, forse morto. Fra i due nasce un affettuoso dialogo che riempie il vuoto circostante: lui si accomoda per poche ore nella nuova casa, non violata come la sua, e qui mangia e riposa. O forse è per ambedue un sogno, nel quale la nonna rivede il nipotino ed è come appagata nel silenzio della notte. Ora lui potrà andare, non prima però di aver indossato l’uniforme di Lukas con la medaglia appuntata sulla stoffa: via, lontano, come lo attendesse una nuova vita proprio là da dove era arrivato. Una piccola battaglia vinta da entrambi. Non come l’eterno sogno di quel fantino che da sempre voleva gareggiare sul lago ghiacciato di Sankt Moritz. Lo racconta il protagonista che incontrò all’aeroporto di Vienna quell’ometto basso con cui, in attesa del volo per Dresda, si mise a gio-
care a videopoker in una saletta di slot machine. Lui lavora presso una società ferroviaria nei Balcani e quel fantino gli ricorda suo padre che – strano a dirsi – nella Rdt andava ogni tanto alle corse dei cavalli. Ne è passato del tempo e ora ci si accorge che il mondo come dice l’amico – «è andato a ramengo dappertutto». Un motivo in più per realizzare quel vecchio sogno: così si danno appuntamento in Svizzera per la corsa sul ghiaccio. Ma Frankie, il fantino, non arriva: è morto all’improvviso di ulcera perforante. Desideri frantumati dal destino, come i ricordi che attraversano la mente di un vecchio, decrepito signore seduto davanti al Mar Baltico: un tempo lavorava nella tranvia a mare, una specie di litoranea, come racconta a un casuale conoscente evocando un mondo ormai scomparso. Sullo sfondo un lontano amore, Lucetta, scomparsa nel settore americano, e l’amico Karli, rimasto imprigionato nella motrice ro-
vesciata dopo una terribile esplosione. Ricordi che si spengono, mentre il vecchio torna al suo solito andante su una panchina davanti al mare: «Qui una volta c’era meno acqua». Storie fragili e malinconiche, ma mai sentimentali. Racconti di afflizione e speranza, luci che per un attimo rischiarano il buio del passato. Clemens Meyer riesce a dare vita all’epica del quotidiano, con il gusto di una scrittura essenziale e gli scatti di una creatività che scende fino in fondo all’anima. Desideri, speranze e sconfitte raccontano un mondo dove amore e fiducia stentano a crescere, ma dove la speranza non cessa di vivere. Bibliografia
Clemens Mayer, Il silenzio dei satelliti, traduzione di Roberta Gado e Riccardo Cravero, Keller editore, Rovereto 2019, p. 222, € 16,50.
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Cultura e Spettacoli
Animali improbabili
Azione
Pubblicazioni Un libro borgesiano del giornalista Caspar Henderson
dedicato ad animali di cui facciamo fatica a concepire la forma
Stefano Vassere «Per quanto la nostra attenzione sia spesso transitoria o estemporanea, è raro che il nostro animo resti immune al fascino di altre forme di esistenza – tra cui quelle animali –, un fascino che zampilla in tutte le culture umane come acqua sorgiva dalla roccia scura». Elencare, con tutto il fascino dato dal catalogo (e che catalogo! Questo libro Adelphi è un piccolo capolavoro di arte grafica e ricompatta gli ormai minoritari e fortunati tifosi del libro di carta, e mettiamoci pure anche la traduzione d’autore di Massimo Bocchiola), animali che esistono ma che si fa fatica a concepire è sì sforzo scientifico classificabile nell’ambito della zoologia, della biologia umana e di una serie di discipline sorelle. Ma è anche un esercizio che interessa le scienze cognitive e lo studio dei significati, perché osservare qualcosa per noi così improbabile e imprevisto mette in gioco l’idea che abbiamo del mondo e della vita. Capita quindi a un crocevia di saperi importante e complesso, questo Il libro degli esseri a malapena immaginabili, del giornalista televisivo Caspar Henderson, una specie di Piero/ Alberto Angela ma più anglosassone, che piazza i suoi ragionamenti e i suoi testi in quella virtuosa terra di mezzo tra il giornalismo sostenuto e il saggio, nella quale non si discutono – si sa – inglesi e americani. Di questi animali, di alcuni della lista, basterebbero anche solo i nomi: spugna barile, orso d’acqua, balena franca, tasso del miele, granchio yeti, axolotl… Si tratta, come detto, di esseri in carne e ossa ma bizzarri, o meglio bizzarri per la nostra attrezzatura mentale, troppo limitata e stretta per arrivare a contenerli.
Nel cuore del libro non poteva mancare il capitolo dedicato all’essere umano e alle sue improbabilità Prendiamo un axolotl (“assolotto”, in italiano, il correttore lo segnala come inconcepibile): ha occhi a capocchia di spillo senza palpebre, branchie, corpo da lucertola, braccine e gambe esili, una coda da girino; niente in confronto alla caratteristica che invece, non senza un certo grado di paradosso, ce lo rende così incomprensibile: «nel contempo la grossa testa, il sorriso impassibile e il color rosa carne della pelle gli danno uno sconcertante aspetto
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umano. Un insieme di tratti così contraddittorio non può non essere affascinante, e si capisce perché uno dei primi nomi europei di questa creatura sia traducibile come “pesce ridicolo”». Poi, lo squalo goblin, uno tra i numerosi animali con i quali il regno animale dà concretezza alla metafora universale dell’unicorno; o il polpo, al polpo e al suo linguaggio, Adelphi dedica in queste settimane un altro sorprendente libro, Altre menti di Peter Godfrey-Smith; o il gonodactylos, «lo stomatopode con il dito genitale», che è grande come un piccolo cetriolo ma può rompervi le ossa di un braccio; e via così, per più di cinquecento meravigliose pagine, di cui circa settanta di apparati, tanto per non smentire quel taglio saggistico anglosassone di cui si è detto. Nel cuore del libro non poteva mancare il capitolo dedicato all’essere umano e alle sue improbabilità; filosofia, zoologia, antropologia, cognitivismo, psicologia, linguistica e molte altre discipline si sono nei secoli dedicate a stabilire il corredo che
distingue l’uomo dagli animali, che in un certo senso lo qualifica, forse per qualche imprevista evoluzione-soglia, un’improvvisa abitudine che dà il via alla storia dell’umanità. La posizione eretta, la capacità di costruire utensili di pietra, quella di costruire utensili in genere; tra questi il linguaggio, tra tutti gli strumenti il più nobile, complesso e performante. Ma anche, poi, «la gratificazione differita e il controllo degli impulsi», il riso, la religione, la cucina, l’inganno, la capacità di narrare, la musicalità, di nuovo la competenza linguistica e l’abilità generativa di costruire frasi ed enunciati infiniti praticamente su tutto il concepibile. Lo sforzo per chi voglia parlare di questo libro è di riuscire ad arrivare fino alla fine senza pronunciare il nome di Jorge Luis Borges. Fatto. Bibliografia
Caspar Henderson, Il libro degli esseri a malapena immaginabili, Milano, Adelphi, 2018.
Schizzi di storia svizzera – Le invasioni barbariche
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Su www.azione.ch, nella sezione cultura/feuilleton, proponiamo la seconda puntata della breve serie di filmati, a cura di Jonas Marti, su alcuni fatti storici che hanno interessato il nostro paese. Realizzati in forma di divertissement, i filmati sintetizzano alcune fasi storiche vissute dai territori che oggi formano la Svizzera. Il secondo filmato è dedicato alle invasioni dei popoli barbari, di cui noi svizzeri siamo tutti in qualche modo discendenti e di cui è figlio anche il Röstigraben. Buona visione! Annuncio pubblicitario
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Un tuffo in mondi sconosciuti.
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Cultura e Spettacoli
Esperimenti d’arte
Mostre I lavori più recenti di Teres Wydler in mostra al Museo di Villa Pia a Porza fino al 28 aprile
Emanuela Burgazzoli Al Centro sportivo di Tenero è visibile da qualche anno una sua scultura di luce rotante, inserita nella struttura progettata da Mario Botta. Spazio in movimento è un apparente groviglio composto da diecimila tessere di mosaico a specchio. Luce e riflesso: sono due elementi ricorrenti e centrali nella pratica artistica di Teres Wydler, soprattutto negli ultimi anni.
L’elemento cruciale delle opere di Teres Wydler è senza dubbio lo sguardo, la luce che permette di accendere la visione Fin dagli esordi la sua riflessione si concentra in particolare sul rapporto fra arte, natura e tecnica: siamo a metà degli anni Ottanta e l’artista – bernese di nascita, zurighese d’adozione – già compie i suoi primi esperimenti con i semi di piante e dipinge la serie pittorica intitolata Mito e Scienza, opera in cui emerge l’interesse per i cicli biologici, le trasformazioni e le trasmutazioni di microrganismi viventi (e ne sembra essere un diretto richiamo l’opera video esposta in mostra che documenta il ciclo vitale di un mazzo di fiori che sfiorisce). Ma Teres Wydler non si limita a dipingere e a fotografare, ben presto infatti espande i limiti dei suoi esperimenti, sempre a metà fra arte e scienza, realizzando installazioni permanenti che si integrano nell’architettura di edifici moderni – la modalità espressiva che meglio esprime le potenzialità di questa artista: attraverso
i suoi interventi, spazi impersonali e statici, come quelli che possono essere i corridoi o gli ampi locali di grandi banche, diventano dinamici e vivi grazie alle proiezioni di luci o a elementi quasi organici, come un lungo corrimano che ha l’aspetto di un ramo contorto. L’allestimento di Porza – Accumulation&Transmutation – apre il percorso espositivo con la fotografia scattata ai bordi dell’autostrada che regolarmente Wydler percorre per raggiungere il Ticino, dove possiede un atelier a Intragna; un’immagine che è il primo tassello di un mosaico di opere strettamente legate fra loro, come le parti di un unico discorso che di volta in volta assume il medium più consono al racconto – video, installazione, fotografia, disegno – un racconto che è molto vicino ai toni dell’arte povera, alle modalità della Land art, alle intuizioni di Joseph Beuys. Natura e cultura, arte e nuove tecnologie nella ricerca di Wydler (e di molti altri artisti della sua generazione, basti pensare agli «ibridi» che si muovono però nel territorio del fantastico e del kitsch, creati dal duo Steiner e Lenzlinger) non si pongono come poli opposti, ma piuttosto concetti allargati, dai confini labili e dai ruoli intercambiabili; del resto la contemporaneità ci ha abituati a forme di ibridazione fra umano e macchina, rese possibili dal progresso delle nuove tecnologie, dai progressi compiuti nel campo dell’intelligenza artificiale e della biomedicina. «Visto che il mondo sta prendendo una direzione delirante è il caso di assumere un punto di vista delirante» – sono le parole del filosofo francese Jean Baudrillard scelte dall’artista; insomma, come dire che l’attuale caos ci induce
Nelle sue opere Teres Wydler mescola elementi naturali ad altri di origine industriale. (Roberto Marossi)
a compiere un cambiamento di paradigma. Del resto la stessa Teres Wydler si chiede: «la natura si è costantemente evoluta attraverso milioni di anni creando molteplici forme di vita sempre più complesse. Potrebbe essere che la cultura umana sia solo una tappa intermedia di questa evoluzione che consentirà alla natura di raggiungere un livello più alto?» Una domanda interessante, considerando che la nostra è stata da poco definita l’era dell’antropocene, e alla quale l’artista tenta di fornire le proprie risposte, filmando un battito di alghe che sembra un dipinto in movimento, accostando in un’installazione una radice a materiali industriali, documentando le mutazioni di una casa esposta agli agenti naturali, nel lavoro Ca’ verde: i fotogrammi esposti
in cerchio mostrano il ciclo metamorfico di questo oggetto-casa di legno, prima ricoperta di muschio e poi di neve. Sembra pertinente un’altra frase dell’artista citata in mostra: «Pilotare, lasciando che accada». Perché di questo si tratta, un processo naturale (e apparentemente casuale) guidato impercettibilmente dall’artista e trasformato in opera d’arte. In tutto questo processo creativo, Wydler non si stanca mai di dirci, cruciale è lo sguardo, la luce che permette di accendere la visione: «Due luci illuminano il nostro mondo. Una è fornita dal sole, ma un’altra risponde alla prima: alla luce dell’occhio. Solo attraverso il loro intrecciarsi riusciamo a «vedere», se una di esse manca siamo ciechi». Wydler in questo caso ricorda le parole del fisico quantistico Arthur
Gli animali. E noi
Fotografia Il fotografo statunitense Steve McCurry in mostra al MUDEC di Milano
Zajonc, che da qualche anno si dedica alla meditazione, esplorando i territori di mezzo fra scienze e spiritualità. Wydler sembra appartenere alla schiera di artisti a vocazione filosofica; nelle loro opere lo sguardo innesca sempre una riflessione, l’immagine ci rende partecipi dei suoi esperimenti che dimostrano quanto la natura (oggi come non mai, nell’epoca della mediatizzazione estrema) sia molto meno naturale di quanto possiamo immaginare. Dove e quando
Teres Wydler, «Accumulation& Transmutation», Porza, Villa Pia. Orari: ma 10.00-18.00; do 14.0018.00. Fino al 28 aprile 2019. fondazionelindenberg.org
Liszt riletto con occhi moderni
Concerti Al LAC
Gian Franco Ragno La sua immagine della bambina afgana dagli occhi verdi, che volge lo sguardo fermo e sicuro verso l’obiettivo è divenuta l’icona della fotografia di viaggio degli ultimi decenni: stiamo parlando di una fotografia e di una mostra di Steve McCurry (Philadelphia, 1950), ospite fino a metà di aprile (la mostra è appena stata prolungata) a Milano nelle sale del MUDEC, il nuovo museo delle culture della vicina metropoli lombarda. Nelle sale si propone una selezione del fotografo americano che, come citato nel titolo, verte sul rapporto tra uomo e animale, considerato su una scala planetaria. Curata da Biba Giacchetti, l’esposizione comprende una sessantina di scatti scelti nell’attività trentennale dell’autore, primo episodio di un’antologia più vasta che è prevista per il prossimo anno. L’operazione del fotografo ameri-
cano è piuttosto chiara: trovare, all’interno del suo enorme archivio, alcuni temi che si prestino a un confronto interculturale. Come è capitato anche per il recente libro Leggere. Una passione senza confini, un fotolibro accompagnato da un testo di uno dei più noti scrittori di viaggio, Paul Theroux. Esposto il tema, non possiamo fare a meno di notare come alcune immagini siano capaci di strappare un sorriso (un ragazzo che legge appoggiato a un piccolo elefante, un altro ragazzo indiano che mangia un ghiacciolo con al collo un roditore bianco), altre, a un’analisi più approfondita, nascondono invece una storia tragica dietro allo scatto: il simpatico cane Suchi portato su un portapacchi di una bici in realtà è diretto ad un combattimento di cani a Kabul; la carovana di cammelli che fugge da un inferno di fuoco e fumo racconta la ritirata delle truppe di Saddam Hussein dal Kuwait durante la prima guerra del Golfo (1991) – una fotografia apocalitti-
La celebre immagine di McCurry scattata in Kuwait. (Steve McCurry)
ca che gli valse l’anno successivo il premio del World Press Photo – e infine il cane rifugiatosi sulla soglia di casa è in realtà in pericolo di vita sotto i monsoni sempre più violenti e frequenti. Per quanto riguarda il suo stile, ormai si può dire che ha fatto scuola ed è diventato «mainstream», conquistando anche un’ampia schiera di viaggiatori, professionisti o meno. Uno stile alla «National Geographic», laddove, appunto, spesso compaiono le sue immagini: quindi molti ritratti in primo e primissimo piano, con colori saturi e contrastati, a cui si aggiungono delle linee di contorno evidenti: oggi lavorate in digitale, un tempo effetti ottenuti con la pellicola diapositiva Ektachrome. Non manca, nel McCurry di oggi, anche uno sprizzo di esotismo contemporaneo, ovvero quella proiezione – prettamente formale – di un’aspirazione tutta occidentale di bellezza, in particolar modo per quanto riguarda il suo amato sub-continente indiano. Nel fotografo americano, infatti, il tempo appare sospeso in un passato indefinito, mentre sono rare le tracce di modernità che investono questi paesi in pieno sviluppo. Assai lontano dagli esordi nelle zone del conflitto russo-afgano di fine anni Settanta-Ottanta oppure nella exJugoslavia e altri luoghi, oggi McCurry è un fotografo di viaggio – e non più d’assalto – e al contempo quello che potremmo definire un fotografo-azienda: numerose gallerie gestiscono le sue immagini, i diritti di riproduzione e le sue esposizioni in certi periodi anche
in contemporanea, come ad esempio quella che si è appena conclusa a Palazzo Madama a Torino. La ragione di tutto ciò è presto detta: McCurry cerca di imporsi in un mondo dei media che è cambiato radicalmente negli ultimi decenni, reagisce a una penuria di commissioni che – diversamente dai suoi esordi – non permettono più di dedicarsi a lungo a un progetto. Va detto in oltre che negli ultimi anni l’autore è stato bersaglio di aspre critiche per quanto riguarda il suo ricorso al fotoritocco, visibile in più di un dettaglio delle sue immagini. Un intervento considerato come una contraddizione con la poetica della presa diretta della realtà. Preso atto di ciò, va tenuto conto che il fotografo – mettendo a fuoco una piccola porzione di mondo davanti ai suoi occhi – ha sempre offerto una visione individuale e in ogni caso parziale della realtà che ha di fronte a sé. Per concludere, segnaliamo la volontà del museo milanese, proprio con questa mostra, di inaugurare un rapporto continuo e costante con la fotografia, con l’intenzione di proporre due mostre all’anno. In quanto questo medium, è ancora capace – nonostante tutto – di leggere con profitto la complessità del contemporaneo. Dove e quando
Steve McCurry. Animals. Mudec, Milano (Via Tortona). Fino al 14 aprile 2019. Orari: lu 14.30‐19.30, ma-meve-do 09.30‐19.30; gio-sa 9.30‐22.30. www.mudec.it
il pianista JosephMaurice Weder Dopo i successi di Losanna nel novembre 2018 e di Zurigo il 15 di gennaio scorso, il pianista svizzero JosephMaurice Weder continua la sua tournée speciale «To be or not to be» e fa tappa al LAC di Lugano il 20 marzo. Si tratta di una tournée di creazioni svizzere in omaggio alla Sonata in Si minore di Liszt, seguita all’uscita del suo nuovo CD dedicato a Liszt e Schumann. Per quest’occasione, l’Associazione musiKa e Joseph-Maurice Weder, sostenuti da Pro Helvetia, hanno commissionato la realizzazione di una composizione musicale a Richard Dubugnon e a Jannik Giger. Queste opere nuove fanno tutte riferimento alla Sonata di Liszt, opera maggiore nel repertorio pianistico che trae ispirazione in parte dal personaggio di Faust. Le riflessioni filosofiche intorno all’uomo, l’azione e le opere contemporanee creano così un legame tra passato e presente, e interrogano la nozione dell’essere e del non essere sulla base dei legami affettivi, delle velleità d’indipendenza e delle nostalgie per il passato. Queste due creazioni originali sono presentate in prima mondiale. Hanno lo scopo di riunire amanti di differenti correnti musicali: quelli del concerto tradizionale e quelli delle creazioni contemporanee e alternative. Una serie di concerti a cui non mancare, che propongono un dialogo tra creatori e interpreti svizzeri insolito ed eccezionale.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 marzo 2019 • N. 12
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Idee e acquisti per la settimana
Per il grill o il sandwich
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 marzo 2019 • N. 12
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Cultura e Spettacoli
Jackie, stilista di se stessa e controversa icona femminile
Teatro L’animata scena ticinese propone anche l’affascinante progetto culturale e formativo di Anna Bacchia –
al Teatro San Materno invece l’esperimento musicale con Andreas Schaerer Giorgio Thoeni Ha debuttato a Lugano Jackie, un testo della Nobel austriaca Elfriede Jelinek per la regia di Alan Alpenfelt, una prima esibita di fronte a una platea generosa e attenta per due impegnative ore di spettacolo. Con questo lavoro Alpenfelt esordisce con tutti i crismi teatrali: un grande palcoscenico e i mezzi possibili messi a disposizione da una struttura importante come il LAC. Un ulteriore tassello della LIS Factory, progetto che Carmelo Rifici ha messo in campo per valorizzare i giovani talenti del territorio. E che ha permesso al giovane ticinese (di origini scozzesi) di seguire un master in regia che lo ha messo a confronto con realtà teatrali internazionali. Sostenuto dai suggerimenti drammaturgici di Francesca Garolla, Alpenfelt si è misurato con un testo complesso, un monologo dalla struttura variabile e imprevedibile che è stato distribuito a più voci, quelle di Caterina Filograno, Francesca Mazza, Anahì Traversi e Carlotta Viscovo. Coreute e corifee di Jackie, operose montatrici di un’unica personalità iconica, simbolo di eleganza e femminilità, prototipo e immagine nell’epoca dei persuasori occulti, in balìa del nascente strapotere televisivo e a confronto con la bionda e perversa di Marilyn Monroe, sensuale rivale. Colpisce la cascata di segni tea-
trali costruiti dalla regia con le proiezioni allusive e didascaliche di Roberto Mucchiut, le scene e i costumi di Annelisa Zaccheria, le luci di Fiammetta Baldiserri, la coreografia di Francesca Sproccati. Come l’interpretazione nella fatica fisica delle quattro interpreti, attente nel restituire frammenti di una donna prigioniera del suo personaggio con quadri di una visione pop, frastagliata e straniata. E fuori dalla prevedibilità di un discorso sulle vicissitudini di una donna che, alla fin dei conti, con il suo tailleur di Chanel resta un’icona del Novecento di quell’America. Uno spettacolo da meditare. Nonostante l’eccessiva dilatazione di tempi per gli esoterici interventi musicali originali di Elena Kakaliagou (corno) e Ingrid Schmoliner (pianoforte preparato). La voce come ologramma dell’essere umano
Già apprezzata docente di canto per diversi anni alla Scuola di Musica Moderna di Lugano, da tempo Anna Bacchia ha avviato un progetto culturale e formativo intitolato «Inin Holographic Evolving» accanto al progetto «Il Coro della Terra». «Autore, ricercatore, innovatore, esteta», così lei stessa si definisce, la Bacchia non ha mai rinunciato a esplorare nuovi percorsi legati alla voce, soprattutto collegandoli alle scienze moderne e cognitive, alla bio-
logia e all’arte, rispondendo all’imperativo di dar voce alla vita, all’essere umano, alla sua interconnessione con i suoi simili. Una visione affascinante che ha motivato studi, approfondimenti e riconoscimenti internazionali e che ha anche preso forma concreta con uno spettacolo dal titolo Con-SCIENCE Theatre: dar Voce messo in scena in forma di narrazione con storie, conversazioni tra scienziati, artisti e persone comuni, alle quali la stessa Anna Bacchia dà voce alle improvvisazioni vocali di Enrica Bacchia. Due voci che portano lo spettatore a vivere l’esperienza di quel terreno comune che la ricercatrice associa a un ologramma e nel quale si modella un unico linguaggio umano. Quest’ultimo costruito attraverso l’esperienza dei personaggi che nel corso della Storia hanno contribuito al progresso, cercando di cambiare la prospettiva dell’universo senza dimenticare la curiosità di un bambino ma anche di un genio, uniti nello slancio per scoprire nuove vie dell’evoluzione della vita. Dopo essere stato presentato a San Francisco e alla vigilia di un lungo tour internazionale, lo spettacolo ConSCIENCE Theatre: dar Voce di Anna Bacchia fa tappa anche in Ticino partendo da Lugano il 20 marzo al Teatro Foce e il 12 aprile nella sede M.A.T., il 17 aprile al Monte Verità di Ascona
Anahì Traversi è una delle protagoniste di Jackie. (Masiar Pasquali)
nell’ambito del festival Asconoscenza e infine l’11 maggio allo Spazio Officina di Chiasso. Dopo queste rappresentazioni lo spettacolo partirà per un tour internazionale che lo porterà in Italia, Germania, Brasile, Argentina e Svezia. Un geniale esperimento musicale
Rimanendo sul tema della voce vogliamo chiudere ricordando il passaggio al Teatro San Materno di un giovane artista importante, fra i migliori e originali cantanti jazz della scena europea: lo svizzero Andreas Schaerer. Grazie a
un periodo di residenza artistica proposta dal direttore artistico del Teatro Tiziana Arnaboldi, Schaerer e il suo gruppo hanno costruito l’architettura di una serata davvero speciale con un concerto che, inaugurando la seconda parte della stagione, ha permesso al carismatico musicista quarantenne bernese di trasmettere il suo vento di follia creativa, fra improvvisazione e rigide partiture, con un ensemble di ottimo livello. Un’unica serata per un progetto che ha richiamato l’ormai consolidato sold out. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 marzo 2019 • N. 12
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Cultura e Spettacoli
Hornung, coraggio e talento
Classica A colloquio con il violoncellista tedesco Maximilian Hornung, che il prossimo 28 marzo
eseguirà Prokof’ev e Beethoven al LAC di Lugano – «Azione» mette in palio biglietti per il concerto
Enrico Parola C’è un protagonista davvero speciale nel concerto che l’Orchestra della Svizzera Italiana proporrà il 28 marzo; non è il «solito» direttore (qui Markus Poschner) e neppure il non certo più desueto violoncellista (qui Maximilian Hornung), ma il metronomo. Già, proprio quello strumento che col suo ticchettio aiuta da due secoli i musicisti a suonare a tempo, scandendo dai 40 ai 208 colpi al minuto. Uno strumento certamente utile in fase di studio, ma decisamente antimusicale in fase di esecuzione: chi non inorridirebbe se un’orchestra o un pianista suonassero accompagnati dal ticchettio di un metronomo? Senza considerare che la musica stessa impone rallentandi, accelerandi, esitazioni e «rubati» che l’inflessibile incedere del metronomo non tollererebbe. Eppure proprio per 100 metronomi il compositore ungherese Gyorgy Ligeti elaborò nel 1962 un Poema sinfonico dove prescrisse che dieci musicisti azionassero dieci metronomi ciascuno, caricandoli (il meccanismo è lo stesso di certe bambole da caricare a molla) in modo completo o parziale e impostandoli su velocità differenti, col risultato di creare un alone di ritmi che si intrecciano, aumentando progressivamente per poi spegnersi in modo altrettanto graduale, fino a che non rimanga il ticchettio di un solo metronomo. Ticchettio che ricompare, evocato
Maximilian Hornung, classe 1986, è nato ad Augusta, Germania.
dagli strumenti dell’orchestra, nel secondo movimento dell’ottava Sinfonia di Beethoven: scritta nel 1812 ed eseguita a Vienna due anni dopo, fu l’omaggio del genio tedesco a Johann Nepomuk
Mälzel, studioso di problemi acustici che nel 1816 avrebbe brevettato il metronomo (pur non essendone l’inventore) e che aveva promesso al musicista un apparecchio contro la sua sordità.
Il solista più «classico», atteso nella Sinfonia Concertante di Prokof’ev, sarà Maximilian Hornung, violoncellista tedesco nato 33 anni fa ad Augusta. Nel mezzo della sua vita, cioè a 16 anni, fece la scelta decisiva: «Non mi piaceva la scuola, non mi piaceva studiare nulla che non fosse musica, così esternai ai miei genitori la volontà di abbandonare le superiori. Ovviamente non la presero bene, soprattutto mamma, che insegna proprio al liceo; invece papà, che pur non condivideva, è violinista e suona nell’orchestra della nostra città, quindi si convinse più rapidamente». Fu una decisione felice: il talento già si vedeva e non tardò a emergere prepotentemente. A soli 19 anni Hornung vinse il concorso nazionale di musica, a 23 (giovanissimo per tale ruolo) divenne primo violoncello solista dei Bayerisches Rundfunks, una delle migliori orchestre al mondo. «Il primo anno fu bellissimo. Jansons è un direttore fantastico, a ogni concerto scoprivo nel migliore dei modi possibili un repertorio nuovo, suonare a fianco di grandi musicisti era un’esperienza appagante. Però, quando dopo quattro stagioni mi ritrovai a suonare per la decima volta la Quinta Sinfonia di Beethoven, quando per quattro stagioni mi ritrovavo a dover suonare da mattina a sera non come avrei voluto ma come un altro mi diceva di fare, iniziai a provare una certa insofferenza. Fu allora che decisi di tentare la carriera solistica».
Quasi inutile dire che anche la sua nuova strada artistica è stata percorsa con rapidità fulminante e oggi Hornung solista è ospite abituale anche in America. L’esperienza tra le file di un’orchestra è stata comunque molto formativa: «Ho bene in mente come dai nostri leggii vedevamo il solista, ne analizzavamo l’atteggiamento e il portamento prima ancora che il modo di suonare, soprattutto se era giovane; quando mi trovo davanti a un’orchestra cerco di far tesoro di quei ricordi. E mi ha reso più facile anche l’intesa con i direttori; su questo sono stato fortunato perché a Monaco suonavano con alcuni dei migliori, oltre a Jansons penso a Bernard Haitink: sembra che non faccia nulla sul podio eppure con lui tutto funziona meravigliosamente e il risultato musicale è strepitoso, con altri che si sbracciavano come dei dannati non succedeva niente».
Concorsi «Azione» mette in palio alcuni biglietti omaggio per il concerto del violoncellista Maximilian Hornung che si terrà al LAC di Lugano giovedì 28 marzo 2019. Per partecipare all’estrazione basta seguire le indicazioni sulla pagina web www.azione.ch/concorsi. Buona fortuna! Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 marzo 2019 • N. 12
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Cultura e Spettacoli
Bukowski e la paura del tempo
Cinema Esce nelle sale del Cantone Cronofobia, primo lungometraggio del regista ticinese Francesco Rizzi
(prodotto dalla ImagoFilm di Villi Hermann) che ha convinto la critica Nicola Falcinella Un titolo curioso e un mistero esistenziale che lo pervade. È Cronofobia, il primo lungometraggio di Francesco Rizzi che approda nelle sale del Canton Ticino. Il film del regista di Morbio è prodotto dalla ImagoFilm di Villi Hermann e vede Vinicio Marchioni, noto soprattutto come «il Freddo» della serie Romanzo criminale nel ruolo principale, affiancato da Sabine Timoteo e Leonardo Nigro. Le anteprime sono previste giovedì alle 18.15 al Palacinema di Locarno e alle 20.45 al Cinema Multisala Teatro di Mendrisio, entrambe alla presenza di Rizzi, Timoteo e della troupe. Venerdì alle 20.30 al Cinema Leventina di Airolo proiezione con la partecipazione di Rizzi e Jasmin Mattei. La pellicola ha debuttato a settembre allo Zurich Film Festival, successivamente ha vinto il Premio speciale della giuria al Black Night Film Festival di Tallinn e i premi per la miglior regia e la miglior sceneggiatura al Max Ophüls Preis Saarbrücken. Ora Cronofobia sarà al festival di Hong Kong e debutterà in Italia al 20esimo Festival del cinema europeo di Lecce, in programma dall’8 al 13 aprile, seguito da quello di Bolzano. Michael Suter (il cognome è un omaggio allo scrittore Martin, uno dei riferimenti letterari di Rizzi con Haruki Murakami e altri) è un uomo misterioso e solitario, in continuo movimento, quasi in fuga da sé stesso attraversa
la Svizzera con un attrezzatissimo furgone bianco. La notte osserva di nascosto Anna, donna ribelle alle prese con l’elaborazione di un lutto. Un affascinante film di segreti, di frammenti, di travestimenti, di scoperte, che lascia molto spazio allo spettatore per ricomporre i pezzi e svelare gli enigmi che si presentano. Protagonista è Marchioni, visto in 20 sigarette e diversi altri film, diretto anche da registi come Woody Allen o Paul Haggis, che racconta: «Avevo recitato a teatro a Lugano e a Bellinzona, ma è la prima volta in un film svizzero. Francesco mi aveva visto in altri ruoli, aveva le idee molto chiare su di me e mi ha mandato la sceneggiatura, che mi è piaciuta subito. Mi ha colpito l’entrare nell’elaborazione del lutto da due punti di vista diversi e il senso di immobilismo dei personaggi, mentre tutto accade dentro le due anime». «Ci siamo incontrati più volte, è stato un lavoro di squadra – aggiunge l’attore – Rizzi mi ha fatto leggere la poesia Nirvana di Charles Bukowski, che si sente nel film, e mi ha fatto ascoltare le musiche. Attraverso i suggerimenti di lettura e ascolto ne ho colto le atmosfere: Nirvana è una chiave d’accesso a Cronofobia. I baffi e il travestimento sono indicazioni dell’identità che il personaggio ha perso e non riesce a ritrovare. È bravo a mettere maschere, a cambiare ruoli, è un osservatore e un ascoltatore abile a nascondersi. Per questo è stato divertente interpretarlo. I personaggi sospesi, con un grande
Una scena del film di Rizzi. (zff.com)
mondo interiore, offrono opportunità incredibili a noi attori. Anche il non avere un’identità precisa e l’indossare abiti diversi dai suoi». «È il film più intimista ed esistenzialista che abbia mai girato, mai ho interpretato un personaggio così silenzioso,» prosegue Marchioni «è stato un lavoro bellissimo per me, a togliere
il più possibile per essere un Michael che quasi non vuole vivere e non vuole lasciare traccia». In questo periodo Marchioni è impegnato a teatro con un suo spettacolo, Uno zio Vanja da Anton Cechov («il teatro mi dà sempre grandissime soddisfazioni, mi piace condividere con il pubblico il mio corpo a corpo con il testo»), con una novità che
ci anticipa. «Sto finendo un documentario su Zio Vanja e Cechov, nato proprio dallo spettacolo teatrale e che mi ha portato anche nei luoghi dello scrittore. È il mio primo progetto da regista e sto cominciando a lavorare a un paio di sceneggiature in vista di un esordio nel lungometraggio, è una cosa che mi interessa sempre di più e che è alimentata anche dall’amore per il lavoro con gli altri attori». «Ho conosciuto Vinicio come il Freddo – gli fa eco Francesco Rizzi – un gangster filosofo, che pensava già alla mossa successiva. Mi sembrava un attore che potesse essere a suo agio con il silenzio e il mistero, capace di trasmettere senza parlare. Così ho pensato subito a lui per un personaggio che trattiene e mostra poco. L’ho poi visto a teatro e negli altri film e mi ha convinto che fosse un attore versatile, in grado di lavorare su più registri. L’idea nasce da un’esperienza personale. Quando studiavo cinema a Roma ho lavorato per un periodo nel mystery shopping, ovvero andavo nei negozi in incognito per valutare la qualità dei servizi. Ogni volta reciti un personaggio diverso. A questo ho aggiunto il contrasto tra frenesia del vivere e voglia di radicamento. Tra le ispirazioni del mio film ci sono La conversazione di Coppola, Monsieur Hire di Leconte e Le conseguenze dell’amore di Sorrentino, che ho visto più volte e del quale ho riutilizzato una location a Chiasso, e un certo cinema asiatico, da Kim Ki-Duk a Wong Kar-Wai». Annuncio pubblicitario
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Il quark viene mescolato con un po’ di sale e poi messo in frigo. Spremere il limone dolce e mescolare il succo con 6 cucchiai di olio d'oliva e un po’ di sale. Cuocere le cotolette di pollo: Rosolare la carne da tutti i lati in una padella antiaderente e continuare a cuocere a fuoco lento per altri 8 minuti girandola varie volte. Poi tagliarla a striscette sottili. Guarnire l'insalata: Distribuire la guarnitura e le striscette di pollo nelle ciotole di tortilla e cospargere di olio di limone dolce. Aggiungere poi il Dip Guacamole e il quark. Suggerimento: si consiglia di consumare subito!
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